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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2015

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aggiornamento al 26.10.2015

aggiornamento al 16.10.2015

aggiornamento al 06.10.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.10.2015

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Tecnici Comunali (pubblici dipendenti) e quota annuale di iscrizione all'albo/ordine professionale a carico dell'ente: ecco una 1^ conferma (o condivisione che dir si voglia) della bontà della nostra tesi!!

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 14.05.2015 davamo conto (a nostro sommesso parere) di come stessero esattamente i termini della questione a fronte di un 1° commento "a caldo" (invero avventato e dalle conclusioni perentorie) a firma del Consiglio Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori con la circolare 22.04.2015 n. 49 all'indomani della sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione alla quale è stata data eco da parte della stampa specializzata (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
     Successivamente, sempre il CNAPPC è intervenuto con un 2° commento "a freddo" (
circolare 23.07.2015 n. 98) laddove ha svolto considerazioni più circostanziate (aggiustando parzialmente il tiro del 1° commento) nel senso che:
ha ravvisato (non poteva essere diversamente) che in materia di lavori pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) "
l'art. 90, comma 4, del codice degli appalti dispone che è sufficiente per la sottoscrizione di un progetto la sola abilitazione all'esercizio della professione";
ha evidenziato, tra l'altro, che "in numerosi punti del DPR 380/2001 viene affermato l'obbligo di iscrizione all'albo per il compimento di attività urbanistica ed edilizia",
pervenendo alla conclusione che "
appare logico e ragionevole, a fronte di quanto esposto, ritenere che per i professionisti pubblici dipendenti l'iscrizione all'albo professionale sia a carico dell'Amministrazione di appartenenza".
     Ebbene, pochi giorni fa, anche il Consiglio Nazionale degli Ingegneri ha preso posizione sulla questione, con la
circolare 21.10.2015 n. 615, a fronte di alcune richieste di chiarimenti riguardo la sentenza della Cassazione civile, Sez. lavoro, 16.04.2015 n. 7776, significando quanto segue:
"
...gli Ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli Uffici tecnici delle stazioni appaltanti possono espletare (nell'ambito del Codice dei Contratti Pubblici) attività di progettazione per conto della PA con il requisito della (mera) abilitazione, senza necessità di iscrizione all’albo.
In questo caso, dunque, a differenza degli Avvocati, non si può affermare che l’iscrizione all’albo è presupposto indispensabile per svolgere l’attività a favore dell’Ente di appartenenza; ne deriva che viene meno la condizione per esigere il rimborso della quota di iscrizione eventualmente pagata dall’interessato
",
e rappresentando, in definitiva, l’opinione non vincolante del Consiglio Nazionale in questi termini:
   a) la disposizione di cui all’art. 90, comma 4, d.lgs. n.163/2006 -che consente ai dipendenti di svolgere attività progettuale per conto della propria o di altra PA, senza necessità di essere iscritti all’albo,- deve ritenersi norma speciale di stretta interpretazione e non può quindi trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente e puntualmente previsti (ex art. 14 disp. prel. c.c.);
   b) per tutte le ipotesi in cui la legge non prevede la mera abilitazione (e quindi il superamento dell’Esame di Stato), riprende vigore e si applica la regola generale dettata dall’art. 1 della legge 25/04/1938 n. 897 (confermato dagli articoli 2 e 3 DPR 328/2001): “Gli Ingegneri… non possono esercitare la professione se non sono iscritti negli albi professionali delle rispettive categorie, a termini delle disposizioni vigenti”;
   c) nel lavoro dipendente –afferma la giurisprudenza– si riscontra comunque l’assunzione, analoga a quella che sussiste nel mandato, a compiere un’attività per conto e nell’interesse altrui. E le spese sostenute dal lavoratore nell’interesse del datore di lavoro devono essere rimborsate al dipendente;
   d) per potersi predicare il diritto al rimborso della tassa di iscrizione all’albo da parte del dipendente occorre dunque:
I) che l’iscrizione sia funzionale allo svolgimento di una attività professionale e
II) vi sia un vincolo di esclusività, nell’ambito del rapporto di lavoro tra dipendente ed Ente pubblico datore di lavoro. Solamente al ricorrere di queste 2 condizioni, secondo la Cassazione, il dipendente è legittimato a richiedere alla propria Amministrazione il rimborso della quota di iscrizione all’albo.
   e) non appare quindi automaticamente estensibile agli Ingegneri dipendenti, senza ulteriori verifiche, il principio espresso dalla Cassazione civile, sezione Lavoro, n. 7776/2015.
   f) è evidente, in ogni caso, stante le peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro (e del relativo contratto) intercorrente tra dipendente pubblico ed Ente pubblico -e l’obbligo per la PA del perseguimento del pubblico interesse- che la decisione finale sui singoli casi concreti è rimessa alla competenza delle Amministrazioni interessate, valutate tutte le circostanze di fatto e di diritto.

QUINDI??

     Quindi, in materia di lavori pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) ora non c'è più alcun dubbio (veramente, non c'è mai stato!!): i tecnici dipendenti della P.A., per svolgere il proprio mansionario, NON abbisognano dell'iscrizione all'ordine/albo professionale, né l'ente di appartenenza è tenuto a sobbarcarsi la quota annuale di iscrizione (a richiesta degli stessi) poiché, altrimenti, si concretizzerebbe danno erariale.

Ma in materia edilizio-urbanistica, di cui al DPR n. 380/2001 (e non solo), come stanno le cose??

     Ed è proprio questo il punto dolente, siccome evidenziato anche dal CNAPPC nella suddetta circolare 23.07.2015 n. 98, laddove le conclusioni -già anticipate più sopra- porterebbero a sostenere la necessità dell'iscrizione all'ordine/albo professionale col conseguente onere finanziario (quota annuale) a carico dell'Amministrazione di appartenenza.
     Detto altrimenti e tanto per esemplificare, all'interno dell'Ufficio Tecnico:
Þ per la redazione del Piano di Governo del Territorio (P.G.T.) ovvero sue varianti,
Þ per la sottoscrizione degli elaborati progettuali di ristrutturazione edilizia del palazzo della Regione ovvero della Provincia da compiegare alla richiesta del permesso di costruire da inoltrare al comune capoluogo,
Þ per la progettazione/direzione/collaudo statico dei cementi armati,
Þ
per la redazione di un frazionamento catastale ovvero l'accatastamento di un edificio pubblico presso l'Agenzia delle Entrate,
Þ
per la progettazione degli impianti tecnologici (elettrico, riscaldamento, gas-metano, ecc.),
i tecnici progettisti sarebbero tenuti all'iscrizione.
Ma se così fosse, quanti comuni, province, regioni sarebbero in regola?? Il sentore della risposta è verosimilmente devastante...
     Comunque, se vogliamo avere certezze non ci resta che attendere il riscontro da parte di alcuni Ministeri all'uopo interpellati da un comune sulla specifica questione.
26.10.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

VARIE’ arrivato il momento di accendere i riscaldamenti. Ecco i limiti imposti dalle norme e come risparmiare sul riscaldamento.
Ecco il vademecum di Enea e Mise su come risparmiare sul riscaldamento, con le regole d’oro per ridurre i consumi e migliorare l’efficienza energetica, evitando sprechi e sanzioni (...continua) (22.10.2015 - link a www.acca.it).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione - Il lavoratore vanta un diritto soggettivo ad astenersi dal lavoro in occasione delle festività infrasetimanali (CGIL-FP di Bergamo, nota 19.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dal 15 ottobre solo mobilità d'ufficio per le pubbliche amministrazioni (CGIL-FP di Bergamo, nota 14.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Il part-time non perde le ferie. Parere aran.
Il dipendente pubblico in regime di part-time orizzontale ha diritto al medesimo numero di giorni di ferie e festività soppresse spettanti nell'ambito del rapporto di lavoro a tempo pieno. Viceversa, in caso di part-time verticale, il numero di giorni di assenza retribuita dovrà essere riproporzionato in relazione alle giornate di lavoro effettivamente previste nel contratto individuale.
Il chiarimento è contenuto in un recente orientamento applicativo diffuso dall'Aran (parere 07.10.2015 n. RAL 1787).
Ricordiamo che nel lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale il dipendente lavora tutti i giorni, ma a orario ridotto. Nel lavoro a tempo parziale di tipo verticale, invece, il dipendente lavora a tempo pieno, ma solo in alcuni giorni della settimana, del mese, o dell'anno.
Ebbene, nel primo caso (part-time orizzontale), i giorni di ferie e di festività spettanti sono gli stessi di chi lavora a tempo pieno. Ovviamente, il trattamento economico di ciascuna giornata di ferie è comunque commisurato alla durata della prestazione giornaliera. Nel secondo caso (part-time verticale) occorrerà procedere al riproporzionamento.
Per esempio, se la settimana lavorativa dei dipendenti a tempo pieno è articolata su 5 giorni, il dipendente che lavora 4 giorni su 5, matura, per ogni mese di servizio, 1,87 giorni di ferie [(28/12) x 4/5], e 0,27 giorni di ex festività [(4/12) x 4/5]. Nel caso di rapporto a tempo parziale di tipo misto, trovano applicazione entrambe le forme di riproporzionamento previste, sia quella per il tempo parziale verticale che quella per il tipo orizzontale.
Ai fini della quantificazione dei giorni di ferie e festività spettanti, pertanto, in considerazione dell'articolazione dell'orario solo su alcuni giorni della settimana rispetto a quelli previsti per il tempo pieno, troverà applicazione la medesima regola prevista per il tempo parziale verticale.
Per ciò che attiene al trattamento economico delle stesse, invece, troverà applicazione il riproporzionamento previsto per il tempo parziale orizzontale, nel senso che esso sarà commisurato alla durata della prestazione giornaliera (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Costi degli Ordini e dei Collegi a carico del datore di lavoro? (CGIL-FP di Bergamo, nota 30.07.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: DIPENDENTI PUBBLICI ISCRITTI ALL’ALBO – QUOTA ANNUALE DI ISCRIZIONE - SENTENZA CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE LAVORO, 16.04.2015 N. 7776 – APPLICABILITÀ AI DIPENDENTI INGEGNERI – LIMITI - CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 21.10.2015 n. 615).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuova classificazione sismica del territorio lombardo – Nuova legge regionale in tema di costruzioni e vigilanza in zone sismiche (ANCE di Bergamo, circolare 16.10.2015 n. 206).

EDILIZIA PRIVATA: CHIARIMENTI IN MATERIA DI EFFICIENZA ENERGETICA IN EDILIZIA - Decreto 26.06.2015 cosiddetto “Decreto requisiti minimi” - Decreto 26.06.2015 cosiddetto “Decreto Linee guida APE (Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione generale per il mercato elettrico, le rinnovabili e l’efficienza energetica, il nucleare, ottobre 2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Applicazione articolo 9, comma 2-bis, del DL n. 78/2010 con riferimento alle posizioni organizzative a carico del bilancio (art. 11 CCNL 31.03.1999) (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 10.08.2015 n. 63898 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Dipendenti pubblici iscritti agli albi - Contributo annuale iscrizione a carico della P.A. - Chiarimenti (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, circolare 23.07.2015 n. 98).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Attività di collaudo degli Ingegneri dipendenti di pubbliche amministrazioni - art. 61, comma 9, del D.L. n. 112/2008 - ambito soggettivo di applicazione - richiesta parere - risposta Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato del 17/01/2012 - risposta Dipartimento della Funzione Pubblica del 13/02/2012 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 20.06.2012 n. 82).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

TRIBUTI: Baratto amministrativo: i criteri per applicarlo ai tributi comunali (19.10.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: M. De Paolis, Focus: diritto di accesso negli enti locali (Azienditalia - Enti Locali n. 12/2014).
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L’accesso negli enti locali, amministrazioni in prima linea, costituisce uno degli architravi su cui si fonda la trasparenza e la corretta erogazione dei servizi pubblici che assorbono una rilevante porzione delle risorse  di bilancio in continua fase di restrizione a causa della persistente crisi economia del nostro Paese.

PATRIMONIO: F. Caponi e A. Tavanti, Canone per l’uso di un bene comunale troppo basso: rispondono di danno sindaco e dirigente (Azienditalia - Enti Locali n. 12/2014).
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La gestione poco accorta di un bene comunale concesso a terzi con un canone d’affitto irrisorio determina per l’ente solo diseconomie, pertanto, il danno deve essere risarcito dal sindaco e dal dirigente responsabile.
La decisione di destinare alcuni spazi comunali a terzi deve comportare un’utilità per l’ente.

APPALTI: G. Cascone e N. Sivilia, Debiti fuori bilancio: evoluzioni normative, definitorie e giurisprudenziali (Azienditalia - Enti Locali n. 8-9/2014).
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La dottrina giuscontabile pubblica, per decenni, ci ha insegnato ad individuare il debito fuori bilancio attraverso la definizione delle procedure contabili delle spese e delle relative patologie, e con essa la giurisprudenza della Corte dei conti sempre in completa armonia: tant’è vero che l’elencazione tassativa, via via divenuta legge e poi trasfusa nell’art. 194 del Tuel consentiva agli operatori locali di inquadrare, agevolmente e con ragionevole certezza, la problematica emergente in una determinata fattispecie.
Spesso si sentiva parlare di debiti fuori bilancio e di passività pregresse e se ne esploravano le differenze, mentre oggi si assiste ad un chiaro disegno volto a cancellare queste ultime “dalla scena”; poi ad un tratto, un po’ a causa della maggiore presenza “consultiva” della Corte dei conti, vieppiù assidua ed incisiva, un po’ a causa di una non meglio identificata rivisitazione definitoria del concetto di debito fuori bilancio (che tutti davano per scontato), tutto è stato rimesso in discussione e le relative certezze nella materia di cui si dice sono state pressoché smantellate.
Non è raro, infatti, assistere ad alterchi interpretativi, anche all’interno di uno stesso ente, rispetto a “cosa è” e a “cosa non è” un debito fuori bilancio, con la conseguenza di un rallentamento dell’attività amministrativa.

VARI: Offerta al pubblico di compravendita immobiliare: l’applicazione all’asta privata, ancora non normata, di principi accettati (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 20.06.2014 n. 153-2014/C).
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Sommario: 1. Il ruolo sempre nuovo del notaio; 2. L’incarico di gestione dell’asta privata; 3.1. Offerta al pubblico di contratto preliminare di vendita immobiliare e modalità di accettazione; 3.2. Offerta al pubblico e fattispecie consimili; 4.1 Le tipologie di asta normate; 4.2 L'asta privata come fattispecie non ancora normata. 5. Modulazione tecnica dell’offerta al pubblico con asta privata; 6. Il disciplinare ed il bando d’asta; 7. Il verbale di asta; 8. Esclusione del conflitto potenziale tra un siffatto incarico e l’attività di mediazione e le prerogative di imprenditorialità; 9. Maggiori vantaggi e garanzie per venditore ed acquirente; 10. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: E. Gamberini e M. Mordenti, Strumenti per una gestione associata efficace e di qualità alla luce della legge Delrio - Gli schemi di convenzione per le funzioni obbligatorie. Gli indicatori di effettività, efficienza e qualità (Azienditalia - Enti Locali n. 6/2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Rossi, Decreti ingiuntivi, riconoscibili come sentenze esecutive ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a), del Tuel (Azienditalia - Enti Locali n. 5/2014).
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La disciplina dei debiti fuori bilancio costituisce un aspetto peculiare dell’ordinamento contabile degli enti locali, anche in relazione all’interpretazione dell’elencazione tassativa contenuta nell’art. 194 del Tuel.
Particolarmente rilevante si presenta l’individuazione del perimetro applicativo della lett. a) del comma 1 relativo alle «sentenze esecutive», nell’ambito del quale (anche sulla base delle interpretazioni della Corte dei conti) non rientrano gli accordi transattivi ma nel quale devono essere inclusi i decreti ingiuntivi.
Questi ultimi quindi dovranno essere riconosciuti ricorrendo alla procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio, con i conseguenti obblighi di comunicazione alla Procura regionale della Corte dei conti competente per territorio.

APPALTI: P. Cosmai, ‘‘Trasparenza’’ e ‘‘Pubblicità’’ negli appalti secondo Itaca (Azienditalia - Enti Locali n. 3/2014).
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Con il susseguirsi, rapidi, dei decreti legislativi di attuazione della legge 06.11.2012, n. 190, recante ‘‘Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione’’, tra i quali, da ultimo il D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, in vigore dal successivo 20 aprile, Itaca, l’Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, cerca di dipanare il coacervo normativo in tema di prescrizioni sulla pubblicità e trasparenza degli atti afferenti la contrattazione pubblica, fissando delle pratiche linee guida, completate da tavole operative.

CONSIGLIERI COMUNALI: V. Giannotti, Rimborso delle spese legali agli amministratori. I recenti orientamenti della giurisprudenza contabile (Azienditalia - Enti Locali n. 3/2014).
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L’aleatorietà dei giudizi che dispongono la rimborsabilità delle spese legali agli amministratori locali ha recentemente aperto un nuovo dibattito da parte della giurisprudenza contabile, il cui obiettivo principale è quello di fornire agli enti locali corrette soluzioni affinché, tali spese, gravino in misura oculata nei bilanci, evitando in tal modo di creare potenziali futuri squilibri nella parte corrente.

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe assunzioni a tempo determinato-conferimento incarichi dirigenziali, ex art. 110, 1° comma T.U.E.L., esulano dal campo di applicazione del comma 424, art. 1, l. 190/2014 perché “estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014” e restano assoggettate ai divieti e limiti propri degli specifici istituti.
In particolare,
i conferimenti di incarico dirigenziale, ai sensi dell’art. 110, comma 1, T.U.E.L., possono avvenire in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica e nei limiti di spesa previsti dall’art. 9, comma 28, d.l. n. 78/2010, come modificato, da ultimo, dall’art. 11, comma 4-bis, d.l. n. 90/2014, e interpretato dalla deliberazione n. 2/2015 della Sezione delle autonomie.
Tuttavia, si ritiene utile richiamare l’ente a
valutare con attenzione e cautela il ricorso a una forma di assunzione a tempo determinato per la copertura di un posto vacante in dotazione organica, che, secondo le modalità di configurazione concreta, potrebbe essere destinato ai fini assunzionali del citato comma 424, onde non eludere i vincoli ivi previsti.

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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 22645/1.13.9, del 18.09.2015, protocollata in data 22.09.2015, una richiesta di parere del Sindaco del Comune di Arezzo che ha formulato il seguente quesito: se sia possibile prevedere, nell’ambito della pianificazione delle assunzioni di personale relative all’anno 2015, la destinazione di risorse alla copertura di un posto di dotazione organica mediante il conferimento di un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, d.lgs. 267/2000, senza vanificare le previsioni normative sulla prioritaria ricollocazione del personale di area vasta, di cui all’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014.
...
L’art. 1, comma 424, l. n. 190/2014 ha introdotto, come ormai è ben noto, una disciplina particolare per le assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali, derogatoria per gli anni 2015/2016 di quella generale, per consentire la completa ricollocazione delle unità soprannumerarie degli enti di area vasta, a seguito del processo di riforma previsto dalla l. n. 56/2014.
Il Comune istante chiede se tale normativa incida anche sulle possibilità di assunzione di personale a tempo determinato e in particolare sulla possibilità di conferire incarichi dirigenziali ex art. 110, comma 1, T.U.E.L., di cui al d.lgs. n. 267/2000.
Il medesimo quesito, insieme ad altri, sempre vertenti sulla corretta applicazione dell’art. 1, comma 424, l. n. 190/2014, è stato posto alla Sezione delle autonomie, che, con la deliberazione 04.06.2015, n. 19, si è espressa così: “il comma 424 contiene solo un espresso regime derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna novella legislativa esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli previsti dalle leggi.
Gli specifici quesiti in argomento che si ricordano: il primo, teso a conoscere se sia possibile effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL esorbitano, dunque, secondo i criteri appena enunciati, dal tema delle difficoltà interpretative ed applicative del comma 424; sugli stessi, quindi, non vi è luogo a deliberare
”.
La Sezione delle autonomie ha, quindi, ritenuto che
le fattispecie richiamate (assunzioni a tempo determinato-conferimento incarichi dirigenziali ex art. 110, 1° comma T.U.E.L.) esulano dal campo di applicazione del predetto comma 424, perché “estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014” e restano assoggettate ai divieti e limiti propri degli specifici istituti.
In particolare,
i conferimenti di incarico dirigenziale, ai sensi dell’art. 110, comma 1, T.U.E.L., possono avvenire in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica e nei limiti di spesa previsti dall’art. 9, comma 28, d.l. n. 78/2010, come modificato, da ultimo, dall’art. 11, comma 4-bis, d.l. n. 90/2014, e interpretato dalla deliberazione n. 2/2015 della Sezione delle autonomie.
Questa Sezione, come evidenziato anche in altri pareri (Sez. contr. Piemonte n. 113/2015, Sez. contr. Toscana n. 244/2015), ritiene, però, anche, utile richiamare l’ente a
valutare con attenzione e cautela il ricorso a una forma di assunzione a tempo determinato per la copertura di un posto vacante in dotazione organica, che, secondo le modalità di configurazione concreta, potrebbe essere destinato ai fini assunzionali del citato comma 424, onde non eludere i vincoli ivi previsti (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 20.10.2015 n. 447).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORelativamente alla posizione di dipendente di un ente locale che, in virtù di una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 14 del CCNL 20.01.2004, presta il proprio servizio anche presso un comune diverso, ritiene il Collegio che siano applicabili estensivamente i medesimi principi posti a fondamento della normativa contrattuale prevista specificamente per i segretari comunali.
Invero,
la casistica de qua potrebbe considerarsi riconducibile alla eadem ratio di limitare, mediante il riconoscimento di un rimborso ai dipendenti “convenzionati”, l’entità dei maggiori oneri derivanti dalle ulteriori e/o maggiori spese di viaggio, conseguenti alla necessità di raggiungere più sedi di servizio.
L’eventuale previsione del rimborso delle spese di viaggio, nonché la regolamentazione delle modalità, della tempistica e del quantum del riconoscimento devono essere disciplinati nell’ambito della convenzione medesima e, quindi, trovano la propria sedes materiae nell’accordo negoziale intercorrente tra gli enti locali interessati.

Osserva il Collegio che,
ancorché lo strumento convenzionale è principalmente volto al miglioramento dell’organizzazione delle funzioni e dei servizi istituzionali, nell’osservanza dei principi di efficienza e di efficacia della pubblica amministrazione, questo non può sottrarsi alle regole che impongono agli enti locali il rigoroso rispetto dei principi di economicità e sana gestione finanziaria; pertanto, il riconoscimento del rimborso delle spese di viaggio convenzionalmente concordate, deve soggiacere ad alcune limitazioni.
In via del tutto esemplificativa, il Collegio rammenta la copiosa giurisprudenza del controllo in relazione all’utilizzo del mezzo proprio, con particolare riferimento alle connesse finalità di contenimento della spesa e degli oneri che vengono sostenuti in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto.

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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del comune di Sammichele di Bari (BA) ha presentato una richiesta di parere inerente alla possibilità che l’ente assuma l’onere del rimborso delle spese di viaggio sostenute dal personale dipendente di altro ente, ma utilizzato in convenzione presso il comune istante.
In particolare, il Rappresentante legale del comune ha precisato in via preliminare che:
• “…il Comune di Sammichele di Bari ha in essere duplice accordo convenzionale, stipulato ai sensi dell’art. 14 CCNL 22/01/2004 Comparto Regioni Enti Locali, con i Comuni di Bari e Molfetta.
• Tali accordi disciplinano l’utilizzo congiunto tra i Comuni aderenti di duplice unità di personale, rispettivamente n. 1 istruttore direttivo di vigilanza e n. 1 istruttore direttivo tecnico, entrambi titolari di posizione organizzativa.
• Le convenzioni sono state strutturate in modo tale che i due professionisti prestino la propria attività alternativamente nei comuni datori di lavoro ovvero in quello convenzionato. Non risulta previsto, in senso opposto, che nell’ambito della medesima giornata lavorativa sia necessario lo spostamento tra una sede d’ufficio e l’altra…
”.
In considerazione di quanto suesposto il Sindaco chiede un parere affinché venga chiarito se “…sia corretto inserire nello stipulando accordo convenzionale clausola che consenta ai dipendenti, di cui è richiesto l’utilizzo congiunto, di ottenere il rimborso delle spese viaggio, necessarie per il raggiungimento di questa sede convenzionata. Ciò fermo restando, come in precedenza descritto, che le modalità di utilizzo del personale convenzionato escludono la necessità, salvo eccezionali situazioni, di mobilità tra le sedi municipali in accordo….
...
La questione sottoposta al vaglio consultivo della Sezione investe la possibilità, per i comuni che si avvalgono di personale “in convenzione” con altri enti, di riconoscere a tale tipologia di dipendenti il rimborso spese derivante dall’incombenza degli spostamenti fra le sedi istituzionali ove si presta servizio.
Preliminarmente, si rende necessario precisare che la giurisprudenza della Corte dei conti ha avuto già occasione di pronunciarsi in merito all’individuazione della normativa di riferimento per analoghe fattispecie.
In particolare, la deliberazione n. 9/CONTR/2011, delle Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede di controllo,
ha statuito la sostanziale inapplicabilità della disciplina sui limiti di spesa connessa al trattamento di missione (Cfr. art. 6 della legge n. 122 del 2010), al segretario comunale titolare di segreterie convenzionate per l’accesso alle diverse sedi, riconoscendo, di conseguenza, l’estraneità dell’istituto giuridico del “trattamento di missione”, rispetto al rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili da parte del segretario in convenzione.
Quest’ultima ipotesi è stata esplicitamente contemplata dall’art. 45, comma 2 del CCNL 16.05.2001 dei Segretari comunali e provinciali, con il quale si è inteso, “…sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le funzioni…” (cfr. SS.RR. n. 9/CONTR/2011).
Il successivo comma 3 del medesimo art. 45, prevede che la spesa per i trasferimenti tra i diversi enti interessati, sia ripartita secondo le modalità stabilite nella convenzione, palesando, all’evidenza, come tale onere assuma carattere negoziale e non risulti coincidente con la diversa ipotesi del trattamento di missione tout court (cfr. Sez. Regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 118/PAR/2013 e Sezione Regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 348/PAR/2014).
Per quel che concerne la fattispecie oggetto di richiesta di parere, ovvero la peculiare posizione di dipendente di un ente locale che, in virtù di una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 14 del CCNL 20.01.2004 – Comparto Regioni Enti locali, presta il proprio servizio anche presso un comune diverso, ritiene il Collegio che siano applicabili estensivamente i medesimi principi posti a fondamento della normativa contrattuale suindicata, e prevista specificamente per i segretari comunali.
Invero,
la casistica de qua potrebbe considerarsi riconducibile alla eadem ratio di limitare, mediante il riconoscimento di un rimborso ai dipendenti “convenzionati”, l’entità dei maggiori oneri derivanti dalle ulteriori e/o maggiori spese di viaggio, conseguenti alla necessità di raggiungere più sedi di servizio. L’eventuale previsione del rimborso delle spese di viaggio, nonché la regolamentazione delle modalità, della tempistica e del quantum del riconoscimento devono essere disciplinati nell’ambito della convenzione medesima e, quindi, trovano la propria sedes materiae nell’accordo negoziale intercorrente tra gli enti locali interessati.
Osserva il Collegio che,
ancorché lo strumento convenzionale è principalmente volto al miglioramento dell’organizzazione delle funzioni e dei servizi istituzionali, nell’osservanza dei principi di efficienza e di efficacia della pubblica amministrazione, questo non può sottrarsi alle regole che impongono agli enti locali il rigoroso rispetto dei principi di economicità e sana gestione finanziaria; pertanto, il riconoscimento del rimborso delle spese di viaggio convenzionalmente concordate, deve soggiacere ad alcune limitazioni.
In via del tutto esemplificativa, il Collegio rammenta la copiosa giurisprudenza del controllo in relazione all’utilizzo del mezzo proprio, con particolare riferimento alle connesse finalità di contenimento della spesa e degli oneri che vengono sostenuti in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto
(cfr. Sezione regionale per la Puglia, deliberazione n. 31/PAR/2012, Sezione regionale di controllo per il Piemonte n. 118/PAR/2013).
Da ultimo, si segnala che
la questione relativa al rimborso delle spese di viaggio sostenute dal Segretario comunale per il raggiungimento delle sedi convenzionate, con specifico riferimento ai profili di responsabilità erariale, è stata recentemente oggetto di approfondimenti da parte della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Emilia-Romagna (cfr. sentenza 12.08.2015 n. 103).
La Sezione giurisdizionale ha esaminato i contenuti della convenzione congiuntamente alla normativa contrattuale in materia, definendo l’alveo interpretativo nel quale si dovrebbe correttamente collocare, nella casistica in argomento, l’istituto giuridico del rimborso spese di viaggio (Corte dei conti, Sez. controllo Puglia, parere 15.10.2015 n. 211).

PUBBLICO IMPIEGO: Il quesito (avente ad oggetto la possibilità, per un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione ad un albo professionale, nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente caratterizzata dal vincolo di esclusività) deve essere considerato inammissibile in quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità pubblica.
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Il Sindaco del Comune di Gatteo (FC) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità, per un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione ad un albo professionale, nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente caratterizzata dal vincolo di esclusività.
...
Sulla base di quanto evidenziato,
la richiesta di parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità pubblica come sopra delineato.
Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine giuridico, che più propriamente devono essere risolte in diversa sede. Infatti, non si rinvengono i caratteri di specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva e che giustificano la relativa attribuzione da parte del legislatore.
La valutazione nel senso dell’inammissibilità della richiesta è conforme al contenuto della deliberazione 13.01.2011 n. 1 della Sezione delle autonomie, nonché al recentissimo parere reso da questa Sezione con parere 16.09.2015 n. 129, anch’esso avente ad oggetto la possibilità, per un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione agli albi professionali.
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il quesito deve essere considerato inammissibile; pertanto, il Collegio non può esaminarlo nel merito (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.10.2015 n. 136).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comune, il responsabile tecnico deve essere interno. L'esternalizzazione ammessa solo verso un altro ente pubblico.
E illegittimo per un ente locale procedere all'affidamento di funzioni tecniche con un contratto stabile ad un professionista esterno. Va privilegiata la convenzione con altro comune ai sensi dell' articolo 30 del testo unico sugli enti locali.

È quanto ha affermato la Corte dei conti con il parere 30.07.2015 n. 61 della sezione regionale del controllo della Liguria.
La vicenda riguardava un sindaco che preliminarmente aveva chiesto alla Corte dei conti un parere inerente la possibilità di conferire l'incarico esterno di responsabile dell'Ufficio tecnico comunale (Utc), ai sensi dell'art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 «stante la sempre più diffusa tendenza verso pratiche di outsourcing, al fine di razionalizzare e rendere efficiente l'uso di risorse umane ed economiche a disposizione».
Diversamente da ipotesi di convenzioni con altre amministrazioni o di unione con altri enti locali per gestire unitariamente le attività tecniche (che possono anche riguardare la programmazione, la progettazione e la direzione di lavori), l'ente locale aveva ipotizzato di affidare a terzi la funzione di responsabile dell'ufficio tecnico a seguito di «una rigorosa procedura comparativa».
Il caso esaminato dai magistrati può essere rapportato anche a quanto avviene nell'ambito degli appalti pubblici dove l'evoluzione in atto mostra chiaramente (con il ddl delega appalti) una tendenza a rivedere i ruoli e le funzioni delle amministrazioni, con una scelta netta verso la programmazione e il controllo e non più verso la progettazione, che viene anche disincentivata con l'eliminazione del due per cento a favore dei tecnici interni.
In questo disegno assume sempre maggiore rilievo la figura del responsabile unico del procedimento, un tecnico che risponde a molteplici attribuzioni che spesso ha difficoltà a svolgere e che oggi la legge prevede che possa essere soltanto supportato da terzi.
Ed è proprio alle fattispecie di inadeguatezza degli organici tecnici dell'amministrazione che si ricollega la determina della Corte dei conti, chiamata a decidere sulla possibilità di outsourcing delle attività di responsabile dell'ufficio tecnico a un professionista esterno.
Possibilità che anche nel ddl delega appalti viene ammessa nei casi di impossibilità a compiere tali attività con le risorse interne.
La sezione ligure della magistratura contabile esclude però in radice tale possibilità premettendo che in questi casi e cioè quando non risulti possibile, in considerazione dell'assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all'interno della propria dotazione organica, si deve provvedere alla esternalizzazione del servizio ma a favore di altro ente pubblico, per esempio, stipulando una convenzione con un altro comune per usufruire congiuntamente del servizio dello stesso tecnico comunale.
Il vantaggio di questa soluzione, ha detto la Corte, è che si tratta di un percorso giuridico sicuramente meno complesso e più celere rispetto a quello comunque esperibile, dell'esercizio stabilmente associato della funzione dell'ufficio tecnico insieme ad un altro comune (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'individuazione della disciplina applicabile alla spesa resa necessaria per i trasferimenti per l’espletamento, presso diverse sedi istituzionali, delle funzioni e attività proprie del personale responsabile di servizi in convenzione fra più comuni.
Le Sezioni riunite hanno precisato che “l’art. 6 della legge n. 122 del 2010 ha limitato le spese connesse al trattamento di missione, ossia ai trasferimenti effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori dalla sede.
Il rimborso previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL intende sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le funzioni. L’art. 45, comma 3, ripartendo la spesa per suddetti trasferimenti tra “i diversi enti interessati secondo le modalità stabilite nella convenzione” dimostra come tale onere assuma carattere negoziale e non possa ricondursi all’interno del trattamento di missione tout court.
Deve pertanto ritenersi che le limitazioni al trattamento di missione introdotte dall’art. 6 della legge n. 122 del 2010 non comportino l’inefficacia dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 per i Segretari Comunale e Provinciali inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario titolare di sede di segreteria convenzionata
”.
Gli stessi principi si ritiene debbano trovare applicazione anche al caso di specie, venendo in rilievo, anche in questo caso, la necessità di sollevare il personale di servizio dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove vengono espletate le funzioni in convenzione.
Un onere, anche in questa fattispecie, che assume carattere negoziale e che come tale deve trovare in ciascuna convenzione la sua disciplina.
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Tanto chiarito resta da evidenziare come detta regolamentazione negoziale risulti in ogni caso vincolata.
In primo luogo,
quanto all’autorizzazione all’utilizzo del mezzo proprio vale quanto sopra riferito. Per l’esercizio delle funzioni e delle attività correlate ai servizi in convenzione, nei soli casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per le amministrazioni, potranno disciplinarsi negozialmente forme di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa e degli oneri che in concreto si sarebbero sostenuti per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto.

Come già precisato da questa Sezione,
spetta agli Enti interessati disegnare la nuova organizzazione delle funzioni, partendo dalle attività sinora svolte da ciascuno di essi, adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti perseguiti dal legislatore ovvero il perseguimento di obiettivi di efficacia, efficienza, economicità, ma anche “di riduzione della spesa” (come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14 del d.l. n. 78/2010). Non può pertanto ritenersi sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
Pertanto, nel caso di specie,
occorrerà assicurare anche che le spese in parola non siano in alcun modo di ostacolo, avuto riguardo a tutti gli effetti determinati dal nuovo modello organizzativo adottato, alla necessaria riduzione della spesa complessiva.

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Il Comune istante di
Isola d’Asti (AT) ha stipulato con altri enti, ai sensi dell’art. 30 del TUEL, convenzioni per la gestione di servizi mediante l’utilizzo comune di dipendenti.
Chiede come debba qualificarsi la spesa resa necessaria per i trasferimenti per l’espletamento, presso diverse sedi istituzionali, delle funzioni e attività proprie del personale responsabile di servizio–titolare di posizione organizzativa, che opera in stretto contatto con gli amministratori (e per esigenze del territorio) anche in orari diversi. Dette funzioni sarebbero disciplinate dalla convenzione approvata dall’organo consiliare.
Si precisa che l’Ente non dispone di autovetture proprie da poter destinare, anche in considerazione dei limiti di spesa previsti dalle vigenti normative e che tra alcuni dei comuni interessati non sussistono servizi pubblici di trasporto rendendosi necessario l’utilizzo del mezzo proprio.
Tanto rappresentato, premesso che l’Ente non ritiene trattarsi di vere e proprie missioni, ma di spostamenti resi necessari dall’ordinario espletamento di un lavoro svolto su diverse sedi, chiede se –pur essendo noto che l’art. 6, comma 12, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito in legge 30.07.2010, n. 122, ha disapplicato l’articolo 15 della legge 18.12.1973, n. 836 e l’articolo 8 della legge 26.07.1978, n. 417- sia possibile il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute dai dipendenti, nella misura pari a 1/5 del prezzo della benzina ove non esista il mezzo pubblico o pari all’equivalente dell’uso del mezzo pubblico (o di i 1/5 del prezzo della benzina se più favorevole) negli altri casi.
In caso affermativo, si chiede inoltre se si renda necessaria una specifica regolamentazione interna o sia sufficiente che tale rimborso risulti disciplinato dalla convenzione.
...
L’art. 6, comma 12, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito con la legge 30.07.2010, n. 122, prevede che le amministrazioni pubbliche non possono effettuare spese per missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari, nonché con investitori istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico, per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009.
Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma costituiscono illecito disciplinare e determinano responsabilità erariale.
Si precisa che il limite di spesa stabilito può essere superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato provvedimento adottato dall'organo di vertice dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Infine si statuisce che gli articoli 15 della legge 18.12.1973, n. 836 e 8 della legge 26.07.1978, n. 417 e relative disposizioni di attuazione, aventi ad oggetto la possibilità di consentire l'uso di un proprio mezzo di trasporto e la determinazione del quantum della dovuta indennità di trasferta, non si applicano al personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e cessano di avere effetto eventuali analoghe disposizioni contenute nei contratti collettivi.
Su queste disposizioni si sono pronunciate le Sezioni riunite di questa Corte, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto legge 01.07.2009, n. 78 convertito in legge 03.08.2009, n. 102, con le seguenti delibere: n. 8/2011; n. 9/2011; n. 21/2011, chiarendo i seguenti principi.
In ordine alla possibilità, da parte dell’Amministrazione, di continuare ad autorizzare l’utilizzo del mezzo proprio, si è chiarito (del. 8/2011 e 21/2011) che, a seguito dell’entrata in vigore del disposto dell’art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, il dipendente può ancora essere autorizzato all’utilizzo del mezzo proprio, con il limitato fine di ottenere la copertura assicurativa dovuta in base alle vigenti disposizioni, mentre non gli può più essere riconosciuto il rimborso delle spese sostenute nella misura antecedentemente stabilita dal disapplicato art. 8 della legge n. 417 del 1988, anche nell’ipotesi in cui tale mezzo costituisca lo strumento più idoneo a garantire il più efficace ed economico perseguimento dell’interesse pubblico (in tal senso anche la circolare della Ragioneria Generale dello Stato del 22.10.2010 n. 36).
Diversamente opinando, infatti, si svuoterebbe di significato la portata dell’innovazione introdotta dall’art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78 del 2010, considerato che anche nel sistema pregresso, l’uso del mezzo proprio da parte del dipendente pubblico presupponeva un’accurata valutazione dei benefici per l’ente.
Coerentemente,
viene affermata l’impossibilità per l’Amministrazione di reintrodurre, attraverso una regolamentazione interna, il rimborso delle spese sostenute dal dipendente sulla base delle indicazioni fornite dal disapplicato art. 8 della legge n. 417 del 1988. Tale modo di operare, infatti, costituirebbe una chiara elusione del dettato e della ratio del disposto del richiamato art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78 del 2010.
Tuttavia,
al fine anche di evitare i rischi del ricorso a soluzioni applicative che pur formalmente rispettose delle norme si pongano in contrasto con la ratio stessa della disposizione in esame (ridurre i costi degli apparati amministrativi), in quanto idonee a pregiudicare l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa o a comportare un incremento dei costi (ricorso ad autovetture di servizio, car sharing, noleggio auto, etc.), si è ritenuto possibile il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare, per i soli casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per l’Amministrazione, forme di ristoro del dipendente dei costi dallo stesso sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto l’Ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto (del. 21/2011).
Richiamati i sopra enunciati principi, ritiene tuttavia questa Sezione che la fattispecie illustrata nella richiesta di parere in esame, rivesta aspetti di peculiarità rilevanti ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile.
Come sopra precisato,
si tratta di individuare la disciplina applicabile alla spesa resa necessaria per i trasferimenti per l’espletamento, presso diverse sedi istituzionali, delle funzioni e attività proprie del personale responsabile di servizi in convenzione fra più comuni.
Al riguardo, appare significativo richiamare quanto statuito, sempre dalla Sezioni Riunite, con riferimento all’art. 45, comma 2 del CCNL del 16.05.2001, per i Segretari Comunali e Provinciali titolari di segreteria convenzionata, essendosi ritenuto che detto articolo non è stato reso inefficace dall’entrata in vigore dell’art. 6, comma 12 della legge n. 122 del 2010, stante la diversità della fattispecie (del. 9/2011). Tale norma contrattuale prevede che “
al segretario titolare di segreterie convenzionate, per l’accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute e documentabili”.
Le Sezioni riunite hanno precisato che “
l’art. 6 della legge n. 122 del 2010 ha limitato le spese connesse al trattamento di missione, ossia ai trasferimenti effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori dalla sede.
Il rimborso previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL intende sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le funzioni. L’art. 45, comma 3, ripartendo la spesa per suddetti trasferimenti tra “i diversi enti interessati secondo le modalità stabilite nella convenzione” dimostra come tale onere assuma carattere negoziale e non possa ricondursi all’interno del trattamento di missione tout court.
Deve pertanto ritenersi che le limitazioni al trattamento di missione introdotte dall’art. 6 della legge n. 122 del 2010 non comportino l’inefficacia dell’art. 45, comma 2, del CCNL del 16.05.2001 per i Segretari Comunale e Provinciali inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario titolare di sede di segreteria convenzionata
”.
Gli stessi principi si ritiene debbano trovare applicazione anche al caso di specie, venendo in rilievo, anche in questo caso, la necessità di sollevare il personale di servizio dalle spese sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove vengono espletate le funzioni in convenzione. Un onere, anche in questa fattispecie, che assume carattere negoziale e che come tale deve trovare in ciascuna convenzione la sua disciplina.
Tanto chiarito resta da evidenziare come detta regolamentazione negoziale risulti in ogni caso vincolata.
In primo luogo,
quanto all’autorizzazione all’utilizzo del mezzo proprio vale quanto sopra riferito. Per l’esercizio delle funzioni e delle attività correlate ai servizi in convenzione, nei soli casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per le amministrazioni, potranno disciplinarsi negozialmente forme di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa e degli oneri che in concreto si sarebbero sostenuti per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto.
Del resto va ricordato che l’art. 14, comma 27 e segg., del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122, come modificato ed integrato dall’art. 19 del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135 (recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”), ha previsto che i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono tenuti, con diverse scadenze fissate dal legislatore, ad esercitare “obbligatoriamente, in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)” (art. 14, co. 27 e co. 28).
Lo scopo è quello di migliorare l’organizzazione degli Enti interessati al fine di fornire servizi più adeguati sia ai cittadini che alle imprese, nell’osservanza dei principi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
Come già precisato da questa Sezione (del. 9/2013),
spetta agli Enti interessati disegnare la nuova organizzazione delle funzioni, partendo dalle attività sinora svolte da ciascuno di essi, adottando un modello che non si riveli elusivo degli intenti perseguiti dal legislatore ovvero il perseguimento di obiettivi di efficacia, efficienza, economicità, ma anche “di riduzione della spesa (come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14 del d.l. n. 78). Non può pertanto ritenersi sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
Pertanto, nel caso di specie,
occorrerà assicurare anche che le spese in parola non siano in alcun modo di ostacolo, avuto riguardo a tutti gli effetti determinati dal nuovo modello organizzativo adottato, alla necessaria riduzione della spesa complessiva (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 23.04.2013 n. 118).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Mozione di sfiducia doc. Deve essere sottoscritta dai 2/5 dei consiglieri. Per iscriverla all'ordine del giorno bisogna seguire le regole del Tuel.
Può essere rigettata, da parte del presidente del consiglio comunale, la richiesta di iscrizione all'ordine del giorno della mozione di sfiducia del sindaco, presentata da un gruppo consiliare, in quanto sottoscritta da un numero di consiglieri inferiore ai due quinti previsti dall'art. 52 del decreto legislativo n. 267/2000?

Nella fattispecie in esame viene contestata la riconduzione di tale richiesta nell'ambito del citato art. 52, trattandosi di «mozione di sfiducia politica» in quanto il sindaco è stato soltanto invitato a dimettersi. Il vigente ordinamento, però, non disciplina la sfiducia politica nei confronti del sindaco, essendo contenuta nella norma richiamata l'esclusiva procedura per la presentazione della «mozione di sfiducia» al sindaco.
La sottoposizione di tale atto all'esame e all'approvazione del consiglio, previa richiesta di iscrizione all'ordine del giorno, non può prescindere dal formalismo richiesto dalla legge. Pertanto, nel caso di specie, posto che il sindaco va escluso dal computo per espressa previsione della citata norma e il numero dei consiglieri assegnati è pari a 24, il novero dei due quinti è pari a 9,6.
In merito al criterio da seguire, nel caso in cui il computo dei due quinti dei consiglieri assegnati, necessario per la sottoscrizione della mozione di sfiducia di cui al più volte citato art. 52, assommi a una cifra decimale, in conformità a un costante indirizzo interpretativo, e in mancanza di apposite prescrizioni statutarie o regolamentari (lo statuto dell'ente si limita a ribadire che la mozione deve essere votata dalla maggioranza assoluta del consiglio senza computare il voto del sindaco), è legittimamente applicabile il criterio dell'arrotondamento aritmetico, in quanto richiamato espressamente, a vario titolo, in più disposizioni del citato decreto legislativo n. 267/00 (cfr. artt. 47, c. 1; 71, c. 8; 73, c.1; 75, c. 8).
Tale criterio implica che in caso di cifra decimale uguale o inferiore a 50, l'arrotondamento debba essere effettuato per difetto, mentre nel caso in cui essa sia superiore a 50 si procederà ad arrotondamento per eccesso. Nell'ipotesi specificata, pertanto, occorrerà la sottoscrizione di dieci consiglieri comunali (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Cambio di denominazione.
È legittimo il mutamento di denominazione di una lista elettorale comunale nel corso del mandato, ovvero, in caso contrario, si deve procedere con l'annullamento o la rettifica di atti che hanno già formato oggetto di deliberazioni (mozioni) nei quali la predetta lista viene indicata con la nuova denominazione?

Il decreto legislativo n. 267/2000 utilizza il termine «lista» solo nel Capo III - Sistema elettorale, dall'art. 71 all'art. 76, individuando con tale vocabolo il raggruppamento di candidati che si presentano alla competizione elettorale. I candidati risultati eletti, una volta insediati nel consiglio comunale si organizzano, di norma, in gruppi consiliari che talvolta non coincidono perfettamente con l'esito del voto.
Dovendo fare riferimento, dunque, alla predetta terminologia, occorre comunque evidenziare che l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente proprio da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del citato decreto legislativo n. 267/2000).
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, la materia è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38 citato.
Di norma, la modifica della denominazione dei gruppi consiliari, in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, che assimili tale modifica alla costituzione di un nuovo gruppo consiliare, subordinata alle eventuali regole individuate dalle stesse norme, appare rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti nel consiglio. Nel caso di specie, lo Statuto del comune in questione, demanda al regolamento la disciplina della costituzione dei gruppi consiliari.
In ordine alla disciplina di dettaglio dei predetti gruppi, sarà demandata all'ente interessato la verifica dell'effettiva possibilità della variazione della denominazione del gruppo, previa verifica delle indicazioni contenute nel regolamento.
Qualora non siano stati lesi diritti di terzi, riguardo all'eventuale rettifica o annullamento degli atti che hanno formato oggetto di deliberazione, l'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, al comma 2 ha previsto che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», mentre il successivo art. 21-nonies al comma 2 ha «fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole» (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri comunali. Approvazione bilancio. Responsabilità.
La Corte dei conti ha affermato, in relazione al disposto dell'art. 1, comma 1-ter, della l. 20/1994, che l'esimente di responsabilità, nei confronti degli amministratori di enti locali, può operare soltanto quando l'atto generativo del danno ingiusto riguardi materie di particolare difficoltà tecnica e giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l'evidenza dell'erroneità dell'atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari dell'organo politico.
Il Comune ha chiesto di conoscere quali sarebbero le responsabilità dei consiglieri comunali in caso di approvazione di un bilancio corredato dei pareri favorevoli di regolarità tecnico-contabile del funzionario competente e del revisore dei conti. L'Ente si è inoltre posto la questione relativa alla possibile sussistenza, nel caso di specie, della c.d. 'esimente politica' prevista dall'art. 1, comma 1-ter, della l. 20/1994 in capo ai medesimi consiglieri.
In linea generale, si osserva che la responsabilità amministrativa in senso stretto è quella nella quale incorrono gli amministratori (e i dipendenti) degli enti locali che, nell'esercizio delle loro funzioni, con dolo o colpa grave, arrechino danno a contenuto patrimoniale ai predetti enti.
Nel procedimento di responsabilità amministrativa, per l'individuazione dei responsabili, si fa comunque riferimento alla situazione di fatto (reale) e non alle previsioni normative astratte. In altri termini, va individuato colui (o coloro) che hanno effettivamente tenuto il comportamento produttivo del danno e ciò a prescindere dal fatto che abbiano agito entro o oltre le competenze riconosciutegli dalla legge.
Per il riscontro concreto, in capo ad un soggetto, di profili di responsabilità amministrativa, è pertanto necessario verificare la sussistenza dei seguenti elementi:
a) il comportamento (fatto-condotta);
b) il dolo o la colpa grave (elemento soggettivo);
c) l'inosservanza degli obblighi di servizio (o di obblighi attribuiti dalla legge);
d) il nesso di causalità tra il comportamento ed il danno;
e) il pregiudizio (danno) arrecato alla pubblica amministrazione, che può essere anche diversa da quella di appartenenza.
Per quanto concerne nello specifico il comportamento degli amministratori degli enti locali, assume rilevanza l'aspetto relativo all'accertamento se l'attività svolta dai politici si sia mantenuta nei limiti generali ed astratti della programmazione e degli indirizzi, ovvero se abbia in qualche modo inciso sulla concreta attività di gestione.
Occorre pertanto che gli organi di governo, prima di operare, abbiano ben presenti le sfere di competenza loro attribuite dagli articoli 42 e seguenti del TUEL, e ciò al duplice scopo di operare nell'ambito delle proprie competenze e di verificare se l'attività che andranno a svolgere possa di per sé determinare conseguenze dannose per l'ente.
In relazione all'adozione degli atti deliberativi, potranno quindi essere chiamati a rispondere sia coloro che li hanno adottati, sia i funzionari responsabili di servizio che hanno espresso il prescritto parere in ordine alla regolarità tecnica
[1].
La determinazione delle rispettive responsabilità -sempre qualora si dovesse accertare la sussistenza di un danno- può infatti variare in base all'apporto causale che la condotta degli organi politici e burocratici ha recato nel produrre il medesimo.
E' necessario quindi verificare, caso per caso:
a) il contenuto e gli effetti della deliberazione (quanto in quest'ultima vi sia di mero indirizzo o di indirizzo politico e quanto spazio sia riservato agli aspetti tecnici);
b) l'influenza del parere tecnico sulla deliberazione e sui suoi effetti;
c) l'autonomia di giudizio e di scelta dell'organo politico nell'adottare la deliberazione rispetto ai pareri tecnici espressi.
Soltanto nell'esame dello specifico caso concreto, al fine dell'accertamento delle responsabilità di ciascuno, si potrà verificare se, in considerazione degli aspetti prevalentemente tecnici, il parere sia stato decisivo ed abbia influenzato completamente l'organo di governo.
Ad ogni buon conto, in linea di principio, si può affermare che quando gli organi di governo esercitano una funzione loro propria l'apporto tecnico favorevole non ne esclude la responsabilità.
Tuttavia, preme rilevare che, in conseguenza della separazione tra sfera politica e sfera gestionale, l'art. 1, comma 1-ter, della l. 20/1994 ha previsto che: 'Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione'.
Si è osservato in proposito che, trattandosi di atti ricadenti nella sfera gestionale, non dovrebbero ricadere nell'oggetto di deliberazione degli organi di governo. Peraltro, al fine di chiarire la portata dell'esimente politica prevista dalla citata norma, pare utile riportare l'interpretazione elaborata dalla Corte dei conti, che ha precisato che l'esimente di responsabilità può operare soltanto quando l'atto generativo del danno ingiusto riguardi 'materie di particolare difficoltà tecnica e giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l'evidenza dell'erroneità dell'atto sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari dell'Organo politico'
[2].
La predetta disposizione pertanto 'ha un senso logico solo ove venga interpretata come volta a sancire una irresponsabilità dei titolari degli organi politici ogniqualvolta, per la particolare difficoltà delle questioni tecniche e giuridiche sottese alle decisioni da prendere, non possano essere imputati agli stessi errori che avrebbero potuto essere evitati solo con il possesso di determinate conoscenze specialistiche.'
[3].
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, il comportamento degli amministratori è stato ritenuto inescusabile, e connotato da colpa grave, nel caso di adozione di atti non conformi a inequivoca normativa di riferimento, nelle specifiche e varie materie, e non conformi a costante giurisprudenza
[4].
Le considerazioni sopra esposte valgono anche nell'ipotesi di adozione di atti contabili quali l'approvazione del bilancio comunale.
---------------
[1] Si veda, sulla questione in esame, la Risoluzione n. 13/2009 della Regione Piemonte - Settore Autonomie Locali.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. II giurisdizionale centrale, sentenza n. 303 del 2003.
[3] Così, Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale, sentenza n. 282 del 2002.
[4] Cfr. Corte dei conti, sez. giurisd. per la Regione Lombardia, sentenza n. 142 del 2015.
In relazione al concetto di colpa grave con riferimento agli amministratori degli enti locali, si riporta quanto affermato da Bruno Prota, Presidente onorario della Corte dei conti, in 'Brevi cenni sulla responsabilità degli amministratori pubblici (degli enti locali)': 'La nozione di colpa grave -oggi rilevante- non è delle più semplici, ma si può così sintetizzare: una macroscopica e inescusabile negligenza ed imprudenza (...) nell'adempimento dei propri doveri istituzionali, cioè un atteggiamento di estrema superficialità, trascuratezza nella cura di beni e interessi pubblici (...)'
(21.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni bilanciate. Tutti i gruppi devono essere rappresentati. Nel silenzio del legislatore, soccorre la giurisprudenza amministrativa.
Può ritenersi rispettato il criterio del principio di proporzionalità tra maggioranza e opposizione nel caso in cui la modifica del regolamento consiliare, con cui è stato ridotto il numero dei componenti delle commissioni permanenti del consiglio comunale di un ente, ha comportato l'estromissione di un gruppo di minoranza da una delle commissioni?

Nella fattispecie in esame, nel consiglio comunale dell'ente sono presenti tre commissioni, formate ciascuna da cinque consiglieri, a fronte di un consiglio comunale composto da 16 consiglieri.
Lo statuto comunale rinvia al regolamento la disciplina del numero delle commissioni permanenti, le materie di competenza e il funzionamento e le modalità di costituzione, e si limita a disporre che tali commissioni siano composte nel rispetto del criterio proporzionale.
Il regolamento comunale, come modificato, prevede che ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri, di cui almeno due assegnati ai gruppi di minoranza, in modo da assicurare la rappresentanza proporzionale tra maggioranza e minoranza.
Ogni consigliere ha diritto a essere nominato in almeno una commissione.
Le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Pertanto le forze politiche presenti in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia, con l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n. 516/2013, stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia Milano 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di stato il quale, con parere n. 04323/2009 del 14.04.2010 emesso su ricorso straordinario al presidente della repubblica, ha osservato che «come da consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata» (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015).

APPALTI SERVIZI: Concessione di servizi ex art. 30 del d.lgs. 163/2006. Modalità di individuazione del nuovo concessionario.
La procedura di scelta del concessionario, come delineata dall'art. 30, comma 3, del Codice dei contratti, è caratterizzata dal ricorso ad una gara informale a cui sono invitati almeno cinque soggetti (ammesso che sussistano in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione) con l'indicazione dei requisiti, che devono essere predeterminati e resi noti fin dal momento in cui viene avviata la procedura.
Devono comunque essere rispettati i principi di logicità, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra i concorrenti, da garantire attraverso l'idonea pubblicità delle procedure selettive e la valutazione comparativa di più offerte. Per quanto attiene alle modalità di pubblicizzazione della gara informale, si può ritenere che il grado di pubblicità vada commisurato all'entità della concessione, in relazione alla sua rilevanza economica e, dunque, adeguato all'importo stimato dell'appalto.

Il Comune, nell'approssimarsi della scadenza del contratto di concessione relativo al servizio di accertamento, liquidazione e riscossione dell'imposta sulla pubblicità e della tassa di occupazione di aree e spazi pubblici, si accinge a bandire una procedura per l'individuazione del nuovo concessionario, ai sensi dell'art. 30 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, che disciplina la concessione di servizi. L'Ente chiede quindi un parere con riferimento alle caratteristiche della procedura da utilizzare per l'individuazione dei concorrenti da invitare alla selezione e alle modalità di pubblicizzazione della gara informale.
L'art. 30, comma 1, del d.lgs. 163/2006, stabilisce che 'Salvo quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi'; il successivo comma 3, dispone che 'La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi'.
La procedura di scelta del concessionario, come delineata dall'art. 30, comma 3 del Codice, è quindi caratterizzata:
1) dal ricorso ad una gara informale;
2) dall'invito ad almeno cinque soggetti (ammesso che sussistano in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione);
3) dall'indicazione dei requisiti, che devono essere predeterminati e resi noti fin dal momento in cui viene avviata la procedura.
Come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza, la gara informale di cui al citato art. 30, comma 3, consente ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione nella fissazione delle regole selettive (con possibilità quindi di prescindere dalle regole interne e comunitarie dell'evidenza pubblica), fermi restando il rispetto dei principi di logicità, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra i concorrenti, da garantire attraverso l'idonea pubblicità delle procedure selettive e la valutazione comparativa di più offerte; ne derivano una maggior speditezza e semplificazione procedimentale
[1].
Laddove decidesse di inserire nel bando di gara disposizioni ulteriori rispetto al contenuto minimo previsto dalla legge, l'amministrazione aggiudicatrice eserciterebbe un potere attinente al merito amministrativo
[2].
Di conseguenza, nel momento in cui l'amministrazione individua le regole per la selezione dei partecipanti e i criteri per l'aggiudicazione (ad esempio attraverso l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa), si autolimita rispetto alle prescrizioni di cui alla norma su riportata. Infatti, alle concessioni di servizi non si applicano le disposizioni del Codice degli appalti, salvo quelle espressamente richiamate dall'art. 30 (commi 1 e 7). Pertanto, l'applicazione di norme codicistiche non direttamente richiamate dall'art. 30 rientra nella facoltà decisionale della stazione appaltante, la quale può decidere autonomamente di assoggettarvisi
[3].
Con riferimento alle modalità di pubblicizzazione di un eventuale avviso per manifestazione di interesse, premesso che non spetta a questo ufficio esprimere valutazioni che competono esclusivamente ai singoli enti in virtù della propria autonomia e discrezionalità, si forniscono i seguenti spunti di riflessione.
Come si è detto, il comma 1 dell'art. 30 dispone, per le concessioni di servizi, la non applicazione delle disposizioni codicistiche: ciò significa che non trovano applicazione nemmeno gli articoli 63 e seguenti, relativi a bandi, avvisi e inviti; tuttavia, come già rimarcato, l'affidamento di servizi in concessione deve rispettare i principi generali relativi ai contratti pubblici, tra i quali l'adeguata pubblicità e la proporzionalità, al fine di garantire il più ampio confronto concorrenziale
[4].
In linea di principio, si può ritenere che il grado di pubblicità va commisurato all'entità della concessione, in relazione alla sua rilevanza economica e, dunque, adeguato all'importo stimato dell'appalto
[5].
Tuttavia, con riferimento a concessioni di servizi in cui le amministrazioni aggiudicatrici avevano deciso di avvalersi della procedura aperta (e quindi autovincolandosi) per la selezione del concessionario, è dato riscontrare orientamenti giurisprudenziali divergenti.
Infatti, in alcune pronunce il Consiglio di Stato ha affermato che per le concessioni ex art. 30 non è richiesta la pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale
[6].
Per contro, in altre occasioni i giudici amministrativi hanno affermato che la pubblicazione del bando all'albo pretorio dell'amministrazione procedente è strumento inidoneo a garantire la possibilità di conoscenza alle imprese che operano nel settore e sono portatrici di un interesse differenziato e qualificato all'adozione di adeguate forme di pubblicità della gara allo scopo di prendervi parte
[7]. Dello stesso avviso l'AVCP (ora ANAC), secondo cui: 'Non rispetta il principio di adeguata pubblicità la pubblicazione del bando di gara per l'affidamento di una concessione di servizi mediante procedura aperta sull'albo pretorio comunale, sul BUR e sui siti internet di alcune agenzie specializzate accessibili solo da parte di utenti abbonati, in quanto inidonea a consentire l'effettività della concorrenza.' [8]
Infine si osserva che, qualora l'amministrazione instante procedesse alla pubblicazione di un avviso per manifestazione di interesse a partecipare alla procedura per l'affidamento della concessione de qua e ricevesse un numero di richieste di operatori economici inferiore a quello indicato dall'art. 30, comma 3
[9], si ritiene che i principi richiamati dallo stesso articolo siano rispettati nel momento in cui si possa verificare il confronto fra una pluralità di offerte [10].
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[1] TAR Puglia, Lecce, sez. III, Sent. 1444/2012.
[2] TAR Puglia, Bari, sez. I, Sent. 70/2009.
[3] TAR Veneto, Venezia, Sez. I, sent. 1474/2012.
[4] AVCP, deliberazione n. 47 del 01/05/2011.
[5] TAR Puglia, Lecce, cit.; TAR Liguria, sez. II, Sent. 434/2013; TAR Molise, sez. I, Sent. 677/2008.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, Sent. 2709/2011; sez. III, Sent. 3842/2011.
[7] TAR Puglia, Bari, sez. I, Sent. 995/2005; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, Sent. 1521/2011.
[8] Deliberazione n. 69 del 30/07/2009. Si veda anche la Deliberazione n. 207 del 21/06/2007, laddove si afferma, con riferimento alla 'concessione di servizi, ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163. [che] È opportuno che le s.a. adottino comportamenti positivi, cioè misure concrete volte a instaurare procedure conformi ai principi fondamentali di trasparenza e libera concorrenza sanciti dal Trattato CE e dallo stesso d.lgs. 163/2006. È evidente che nei casi di concessione per i quali la concorrenza sarebbe suscettibile di esplicarsi prevalentemente a livello locale, assume maggior interesse, tra le possibili forme di pubblicità, l'affissione dell'avviso presso la sede della stazione appaltante e la pubblicazione sui giornali locali. Diversamente, nel caso di servizi economicamente rilevanti, dovrebbero essere utilizzate forme di pubblicità più consone alle specificità dei servizi e degli operatori interessati.'
[9] '...almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione...'
[10] Si osserva al riguardo che, nel rispetto del principio di trasparenza, nulla vieta all'amministrazione procedente di stabilire già nell'avviso che, qualora non venisse raggiunto il numero minimo di richieste previsto dalla norma più volte richiamata, è sua facoltà procedere con un numero di soggetti inferiore a cinque ovvero procedere all'invito di ulteriori soggetti in possesso dei requisiti richiesti fino a raggiungere tale numero
(14.10.2015 -
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ENTI LOCALI: Ammissibilità della concessione di contributi a soggetto estero.
L'art. 12 della L. 241/1990 dispone che l'attribuzione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc. da parte delle PP.AA. è subordinata all'adozione di apposito regolamento contenente i criteri e le modalità ai quali le stesse amministrazioni devono attenersi ed il cui rispetto deve risultare dai singoli provvedimenti di concessione dei benefici.
L'ammissibilità a contributo degli interventi deve fondamentalmente basarsi sulla valutazione dell'effettiva utilità che essi rivestono per la popolazione amministrata: si ritiene possa risultare a tal fine irrilevante che il soggetto destinatario delle risorse sia residente sul territorio nazionale o all'estero, fatta salva la facoltà del Comune di disporre diversamente in sede regolamentare.

Il Comune chiede di conoscere se risulti ammissibile assegnare un contributo ad un soggetto estero, volto alla realizzazione di un lungometraggio concernente una determinata vicenda, che ha interessato alcuni dei propri cittadini, rappresentando, al riguardo, che:
- l'Amministrazione riconosce il significativo valore dell'opera, quale strumento di valorizzazione della comunità locale;
- la regolamentazione adottata dall'Ente nella materia non prevede espressamente la fattispecie, ma nemmeno la esclude.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività di consulenza giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo Ufficio è finalizzata a fornire una ricostruzione degli istituti giuridici che -attraverso l'esame della normativa, della giurisprudenza e della dottrina- possa consentire di desumere princìpi di carattere generale, fermo restando che compete, invece, all'amministrazione procedente determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
A tal fine, sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati «sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi» (comma 1) e che «L'effettiva osservanza» di tali criteri e modalità «deve risultare dai singoli provvedimenti» che concedono i benefici (comma 2).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa osserva che:
- la norma «riveste carattere di principio generale dell'ordinamento giuridico ed, in particolare, della materia che governa tutti i contributi pubblici»
[1];
- ai fini dell'adozione di provvedimenti volti a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le PP.AA. devono attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite dal proprio regolamento, giacché sia la predeterminazione di detti criteri, sia la dimostrazione del loro rispetto in sede di concessione dei benefici, «sono rivolte ad assicurare la trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l'attività di erogazione della pubblica Amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi oggettivi»
[2];
- la predeterminazione e la pubblicazione dei criteri concernenti la destinazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, oltre a costituire corollario del principio generale di trasparenza, «rappresenta la declinazione in via amministrativa delle finalità politico-sociali (o politico-economiche, a seconda dei casi), che l'intervento pubblico intende perseguire. Sotto tale profilo, la destinazione di un contributo secondo una finalità non conforme a quella perseguita sulla base dei criteri predeterminati dall'Ente, oltre a porsi in contrasto con il principio di legalità, determina uno sviamento della causa dell'intervento pubblico sotto il profilo funzionale proprio del contributo stesso»
[3].
Le predette considerazioni inducono a ritenere che l'Ente non possa procedere all'attribuzione dei benefici contemplati dalla norma di legge in assenza di un'adeguata previsione regolamentare
[4], alla quale poter ricondurre, in termini oggettivi, i vari interventi che si intendono finanziare.
Al riguardo, si osserva che nell'ambito delle previsioni regolamentari dell'Ente concernenti i 'Contributi per progetti ed iniziative' (v. Titolo IV - artt. 16-20), gli artt. 16 ('Soggetti ammessi') e 18 ('Criteri e modalità per la concessione') prevedono, in particolare, che:
- i contributi finalizzati alla realizzazione di specifici progetti ed iniziative riconducibili agli interessi generali o diffusi della comunità locale e rientranti nei fini istituzionali del Comune «possono essere concessi anche a persone fisiche non residenti nel Comune, o a soggetti privi di una sede nel territorio comunale» (art. 16, comma 4);
- l'Amministrazione può concedere contributi «anche per iniziative da realizzare al di fuori dei confini del territorio comunale», purché queste siano riferibili alle esigenze della comunità locale o volte a riaffermare il prestigio o il buon nome della medesima comunità (art. 18, comma 2);
- i beneficiari sono tenuti ad inserire, in tutti i materiali pubblicitari relativi alle iniziative ammesse a contributo, «apposita informazione, con la quale viene reso noto che esse si svolgono con il concorso economico del Comune» (art. 18, comma 4).
Occorre, poi, rammentare che l'azione comunale presuppone la competenza dell'ente, quale emerge, in via ordinaria
[5], dagli artt. 8, comma 1, e 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1, i quali prevedono, rispettivamente, che il comune «è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo» [6] ed «è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali» [7].
Come viene osservato in dottrina, l'ente locale territoriale «trova nel territorio -e, quindi, nella comunità che vi risiede- il punto di riferimento per la sua azione ed il limite alla generalità dei suoi fini»
[8].
Quanto alla giurisprudenza
[9], essa afferma che, ai fini della legittimità di ogni intervento dell'ente locale, è necessario che ricorrano due condizioni:
1) che l'iniziativa si ponga in termini strumentali al perseguimento degli interessi della collettività di riferimento;
2) che la scelta amministrativa rappresenti l'espressione di un potere discrezionale
[10] che possa ritenersi ragionevole e non arbitraria esplicazione di una scelta politica.
Pertanto, se è ben vero che i comuni, in coerenza con l'autonomia loro garantita dalla Costituzione, godono di ampia possibilità di scelta nel perseguimento degli interessi affidati alle loro cure, quanto a modi e priorità di graduazione della loro attuazione appare imprescindibile ed incomprimibile la necessità che ogni iniziativa amministrativa sia collegata con il proprio territorio, in termini di utilità, sia pure latamente intesa.
La scelta si deve, perciò, coniugare inscindibilmente con la concreta ponderazione della finalità da perseguire, nel senso che tale ponderazione è in grado di esprimere la buona gestione in termini di razionalità obiettiva.
In base alle norme ed alle considerazioni che precedono sembra potersi affermare che, ai fini dell'ammissibilità dell'intervento, rileva fondamentalmente la valutazione dell'effettiva utilità, per la propria popolazione, di acquisire il bene che verrebbe realizzato con il contributo comunale, a prescindere dalla circostanza
[11] che il soggetto destinatario di tali risorse sia residente sul territorio nazionale o all'estero.
Va, infine, segnalato che la Corte dei conti, pur esprimendosi su fattispecie diverse da quella in esame
[12], che ha comunque ricondotto alla più ampia problematica dei limiti dei finanziamenti comunali a soggetti privati, afferma che:
- i Comuni, sulla base della loro autonoma discrezionalità e 'secondo i principi della sana e corretta amministrazione', possono deliberare contributi a favore di enti che, pur non essendo affidatari di servizi, svolgono una attività che viene ritenuta utile per i propri cittadini
[13];
- in ogni caso, l'attribuzione di benefici pubblici deve risultare 'conforme al principio di congruità della spesa', presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell'ente locale
[14];
- la facoltà degli enti territoriali di attribuire benefici patrimoniali a soggetti privati in ragione dell'interesse pubblico indirettamente perseguito, ammessa in via generale, rimane tuttavia 'subordinata ai limiti imposti da disposizioni di legge dirette al contenimento della spesa pubblica ed alle prescrizioni richieste dai principi contabili per garantire la corretta gestione delle risorse pubbliche'
[15].
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[1] V., più recentemente, Consiglio di Stato - Sez. V, sentenza 17.03.2015, n. 1373 e sentenza 23.03.2015, n. 1552.
[2] V. TAR Puglia - Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n. 1842.
[3] V. TAR Lombardia - Milano, Sez. III, sentenza 05.05.2014, n. 1142.
[4] Dotata, per sua natura, dei caratteri della generalità e dell'astrattezza.
[5] Potendo essere anche attribuita, in specifiche materie, da disposizioni di legge ad hoc.
[6] La disposizione ribadisce quanto già disposto dall'art. 3, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[7] La previsione conferma sostanzialmente il contenuto dell'art. 13, comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
[8] F. Staderini - A. Silveri «La responsabilità nella pubblica amministrazione (con particolare riguardo a quella locale)», CEDAM, 1998.
[9] Ci si riferisce, in particolare, a Corte dei conti - Sez. I centrale, sentenza 09.03.1999, n. 54/A, il cui testo integrale risulta irreperibile, ma il cui contenuto forma oggetto dell'articolo di F. Longo «Fissate le premesse per la legittimità delle iniziative comunali. La Corte dei conti detta i principi per i contributi alle associazioni», in Il Sole-24 Ore del lunedì, 24.05.1999, n. 140, pag. 30.
[10] Delineando i limiti di insindacabilità delle scelte discrezionali degli enti locali, la Corte di cassazione, con orientamento consolidato (cfr., ex multis, Sezz. unite civili, sentenze 29.01.2001, n. 33; 29.09.2003, n. 14448 e 10.03.2014, n. 5490), afferma che la Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico giacché, pur se l'art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994, n. 20, prevede che l'esercizio in concreto del potere discrezionale degli amministratori pubblici costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato del giudice contabile, l'art. 1, comma 1, della L. 241/1990 stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio di buon andamento sancito dall'art. 97 della Costituzione e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell'azione amministrativa, la verifica della quale impone la valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
E la Corte dei conti - Sez. II centrale d'appello, sentenza 08.06.2015, n. 296, sostiene che l'attribuzione di un potere amministrativo discrezionale da parte della legge non implica la creazione di un'area di assoluta libertà decisionale in capo al titolare, ma esige pur sempre che tale potere venga esercitato nel rispetto dei fini per i quali è stato conferito, precisando, inoltre, che è lo stesso tenore letterale dell'art. 1, comma 1, della L. 20/1994 ad escludere dal sindacato giurisdizionale unicamente il 'merito' amministrativo e non la scelta discrezionale nella sua interezza che deve, in ogni caso, rispettare i c.d. 'limiti interni' della discrezionalità - interesse pubblico, causa del potere esercitato, osservanza dei precetti di logicità e di imparzialità - alla cui violazione si fa tradizionalmente risalire il vizio dell'eccesso di potere.
[11] Fatta salva la facoltà, per il Comune, di disporre diversamente nella propria disciplina.
[12] Nell'ambito delle quali è stata anche fornita l'interpretazione delle disposizioni che vietano l'assunzione di spese per sponsorizzazioni (art. 6, comma 9, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122) e la concessione di contributi ad enti che prestano servizi a favore delle pubbliche amministrazioni (art. 4, comma 6, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, come modificato dalla legge di conversione 07.08.2012, n. 135).
Al riguardo, la Corte dei conti ha osservato che ciò che assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica quale spesa di sponsorizzazione, a prescindere dalla sua forma, è la funzione: la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell'ente pubblico, così da promuoverne l'immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico; tale profilo, però, deve essere esplicitato dall'ente locale in modo inequivoco nella motivazione del provvedimento.
[13] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, parere 226/2013.
[14] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, pareri 248/2014 e 79/2015.
[15] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, parere 121/2015
(02.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

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VARI: Vitalizio in cambio della casa. Per gli ultrasessantenni prestito garantito da ipoteca. Dal consiglio di stato il via libera al decreto che attua la legge n. 44 del 2015.
In dirittura il prestito vitalizio ipotecario.

Il Consiglio di Stato ha licenziato il parere favorevole allo schema di decreto attuativo della legge 44/2015 (Schema di decreto del Ministro dello sviluppo economico concernente il “Regolamento recante norme in materia di disciplina del prestito vitalizio ipotecario, ai sensi dell’art. 11-quaterdecies, comma 12-quinquies del decreto legge 30.09.2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 02.12.2005, n. 248, come modificato dall’art. 1, comma 1 della legge 02.04.2015, n. 44), che ha disciplinato lo speciale finanziamento riservato agli ultrasessantenni.
Nello schema di provvedimento si prevedono garanzie per l'utente: deve essere messo a conoscenza di tutte le condizioni del contratto e non deve sostenere spese per ottenere l'informativa precontrattuale, coniugi e conviventi possono chiedere di cointestare il contratto (con possibilità, quindi, di far durare il contratto fino al decesso della parte più longeva).
Ma vediamo il dettaglio dello schema di decreto, che renderà possibile per gli anziani, che hanno una casa, di avere disponibilità liquide per le loro esigenze.
IL PRESTITO VITALIZIO
Si tratta di uno speciale finanziamento bancario e delle finanziarie dedicato a chi ha più di 60 anni, con possibilità di ricevere il prestito a tranche mensili e rimborso integrale in unica soluzione alla morte del soggetto debitore oppure anche prima del decesso se la casa viene venduta o ipotecata o di riduzione significativa del valore dell'immobile.
La restituzione in unica soluzione non è l'unica opzione. La legge prevede rimborsi rateali. Le banche sono comunque garantite da ipoteca di primo grado. Se entro un anno il finanziamento non è restituito dagli eredi o dal debitore, la casa viene venduta al prezzo di mercato e il ricavato viene usato per il rimborso del credito.
La legge 44/2015 ha rinviato a un decreto ministeriale la disciplina di dettaglio.
IL DECRETO
Lo schema di decreto prevede l'obbligo per il finanziatore di predisporre due prospetti esemplificativi, da sottoporre all'interessato, chiamati «simulazione del piano di ammortamento» che illustrano il possibile andamento del debito nel tempo.
Si stabilisce anche il divieto di esigere il pagamento delle spese sostenute dal finanziatore qualora il finanziato decida di non sottoscrivere il contratto.
Al finanziamento si accompagna una polizza assicurativa per l'immobile, ma il richiedente ha la facoltà di acquistare la polizza assicurativa anche presso un soggetto differente dal finanziatore, che annualmente deve consegnare un resoconto della propria posizione debitoria.
Il contratto deve prevedere la possibilità di procedere alla «co-intestazione» del contratto in caso di coniugi o di conviventi more uxorio.
La banca e la finanziaria hanno la possibilità, in alcuni casi, di richiedere il rimborso integrale del finanziamento.
Il decreto prevede tra queste ipotesi il decesso del soggetto finanziato o del soggetto finanziato più longevo in caso di «co-intestazione».
Lo stesso vale per i seguenti casi: trasferimento, in tutto o in parte, di diritti reali o di godimento sull'immobile dato in garanzia; compimento da parte del soggetto finanziato con dolo o colpa grave di atti che riducano significativamente il valore dell'immobile; la costituzione di «diritti reali di garanzia in favore di terzi»; effettuazione di modifiche strutturali all'immobile rispetto al suo stato originale, apportate senza previo accordo con il finanziatore; revoca dell'abitabilità dell'immobile dovuta a incuria del finanziato; ingresso nell'immobile, quali residenti, di soggetti diversi dai familiari del finanziato, qualora avvenuta dopo la stipula del contratto e l'esistenza di procedimenti conservativi o esecutivi o ipoteche giudiziali sull'immobile dato in garanzia.
IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO
Il parere 16.10.2015 n. 2791 del Consiglio di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, indica alcune modifiche da apportare al decreto. Tra queste si segnala l'inserimento di obblighi di informazione sulle conseguenze a carico degli eredi. Si segnala anche la necessità di limitare la possibilità di revoca del finanziamento nel caso in cui il debitore subisca atti conservativi o esecutivi.
Il decreto non specifica una soglia minima, con la conseguenza che azioni per crediti di piccolo importo comporterebbero l'estinzione del prestito e l'obbligo di restituire il finanziamento. Il consiglio di stato ritiene necessario specificare che tale effetto deriva da procedimento di valore pari o superiore a una percentuale del finanziamento o del valore dell'immobile (articolo ItaliaOggi del 24.10.2015).

TRIBUTI: Fisco/ Cassazione e qualifica dirigenziale di chi firma. La carenza non si rileva d'ufficio.
La carenza della qualifica dirigenziale di chi firma l'atto impositivo non è rilevabile d'ufficio ma nel ricorso introduttivo. Ma non solo: l'accertamento fiscale è valido anche quando al contribuente vengono concessi solo quindici giorni e non sessanta per fornire chiarimenti, nonostante l'invito sia consegnato «brevi manu» dalla Guardia di finanza in sede di ispezione.

Sono questi, in sintesi, i principi affermati dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza 23.10.2015 n. 21615, ha respinto il ricorso di un avvocato.
Sul fronte del rispetto della dibattuta questione dei cosiddetti falsi dirigenti la sezione tributaria rende una motivazione più precisa e chiarisce che sull'eccezione di nullità dell'accertamento sollevata dal contribuente, avanzata, per la prima volta, in Cassazione, sono stati invocati gli effetti invalidanti, a suo dire rilevabili anche d'ufficio, della recente declaratoria d'illegittimità costituzionale di taluni strumenti normativi d'inquadramento dirigenziale del personale dell'Agenzia delle entrate.
Ma per la Cassazione, sul piano processuale, «la pretesa nullità dell'avviso di accertamento per l'asserita carenza dei requisiti (soggettivi) indicati nell'art. 42 dpr 600/1973 e nell'art. 56 dpr 633/1972 non è rilevabile d'ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel giudizio di primo grado, o più esattamente nel ricorso introduttivo, non può essere introdotta successivamente
».
Restano, dunque, ferme le preclusioni che derivano del peculiare regime di carattere impugnatorio del processo tributario (articolo ItaliaOggi del 24.10.2015).

VARI: Da febbraio canone Rai in bolletta. Pagamento in unica soluzione
Per il canone Rai si pagheranno 100 euro in bolletta e in una unica soluzione da febbraio. Mentre se il contratto della luce è intestato a una persona diversa del detentore della televisione il canone lo pagherà quest'ultimo ma con il conto corrente postale.

È questo uno dei chiarimenti, per il pagamento del canone tv nella bolletta elettrica, che arriva dalla relazione illustrativa della legge di stabilità trasmessa, ieri, al Quirinale e in Parlamento.
I punti fermi.
Il canone, dunque, passerà dall'attuale importo di 113,50 a 100 euro. Nella relazione illustrativa si legge che all'assetto normativo delle regole sul canone, disciplina risalente al 1938, si aggiunge l'indicazione che il pagamento del canone sarà effettuato in via ordinaria nel contesto del pagamento dei corrispettivi delle forniture dell'energia elettrica.
Alle norme è aggiunta una presunzione per cui «l'esistenza di una fornitura di energia elettrica nel luogo ove è situata la residenza fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio atto o adattabile alla ricezione del servizio pubblico radiotelevisivo». La presunzione può essere superata con un'autocertificazione da presentarsi all'Agenzia delle entrate, in cui il titolare del contratto di energia elettrica dichiari di non possedere un televisore.
Il pagamento del canone avverrà, si legge nel testo, mediante addebito con una distinta voce non imponibile ai fini fiscali sulle fatture dell'elettricità.
È precisato che il canone è dovuto una volta sola in relazione a tutti gli apparecchi detenuti dai componenti della famiglia anagrafica, nei luoghi di residenza e dimora. Tutta la fase attuativa è poi demandata a un decreto congiunto del ministero dello sviluppo economica, ministero dell'economia e delle finanze, Autorità per l'energia elettrica, entro 45 giorni dall'entrata in vigore della legge.
Nel decreto troveranno spazio le disposizioni sui termini e le modalità con cui, le società che erogano i servizi di energia, riversano il canone all'erario. Inoltre nel decreto sarà affrontato il problema dei ritardi di pagamento e dell'applicazione di eventuali interessi moratori da parte degli utenti.
I controlli saranno effettuati attraverso lo scambio di informazioni tra Anagrafe, Autorità per l'energia elettrica, ministero dell'interno, comuni, nonché altri soggetti pubblici e privati che hanno la disponibilità delle informazioni relative alle famiglie anagrafiche.
Infine la norma prevede che, per gli anni dal 2016 al 2018, le eventuali maggiori entrate, versate a titolo di canone, saranno destinate al fondo per la riduzione della pressione fiscale. Le sanzioni attualmente previste dalla legge del 1938 non sono modificate (articolo ItaliaOggi del 24.10.2015).

TRIBUTI: Congelata anche la «super-Tasi». Aliquota dello 0,8 per mille sulle seconde case solo se già applicata oggi.
Il blocco agli aumenti delle tasse locali si estende anche alla «super-Tasi», l’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille che potrà essere applicata l’anno prossimo solo da chi l’aveva introdotta già quest’anno su seconde case e altri immobili (escludendo i terreni agricoli oltre alle abitazioni principali). Insomma: per il 2016 il congelamento del fisco locale e regionale diventa a tutto tondo, ed esclude solo gli aumenti automatici in caso di extradeficit sanitario (Regioni) e pre-dissesto (Comuni) e quelli legati al piani di restituzione da parte dei governatori delle anticipazioni sblocca-debiti ottenute dal ministero dell’Economia.
La novità è spuntata nell’ultimo testo della manovra, inviato ieri al Quirinale dopo un lungo lavoro sulle bozze che nella fase finale si è concentrato proprio sul fisco locale e sulle ipotesi di “salva-Regioni”.
Per capire le conseguenze di queste misure è utile un riassunto delle puntate precedenti. La manovra abolisce la tassazione delle abitazioni principali, con l’eccezione di quelle «di lusso» a cui viene applicata l’aliquota fissa del 4 per mille con esenzione di 200 euro, e dei macchinari «imbullonati» delle imprese, mentre per i terreni agricoli riporta la distribuzione dei Comuni fra montani e non alla situazione pre-2014 (dunque con più enti classificati come «montani», e quindi privi di tassazione su tutti i terreni) e applica anche in pianura l’esenzione per quelli di proprietà di imprenditori agricoli professionali, coltivatori diretti e società. L’Imu, infine, scompare anche dai terreni nelle isole minori e in quelli a proprietà collettiva indivisibile.
La seconda gamba della manovra è rappresentata dai rimborsi ai Comuni per il mancato gettito. A questo scopo vengono destinati 3.668,09 milioni, che si aggiungono al fondo di solidarietà comunale e saranno distribuiti sulla base dei gettiti Imu/Tasi di quest’anno, mentre il fondo “tradizionale” scende a quota 2.768,8 milioni. Altri 115 milioni servono a compensare i Comuni per la loro quota di Imu sugli «imbullonati» (il gettito ad aliquota standard è statale), e altri 390 milioni vanno a replicare il «fondo Tasi» introdotto dalla legge di stabilità per il 2014, e progressivamente ridotto negli anni, per chiudere i conti.
Su questo impianto si è sviluppata l’incognita sulla «super-Tasi», cioè l’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille che i sindaci hanno finora potuto introdurre a patto di finanziare qualche detrazione sull’abitazione principale. In questi due anni i Comuni hanno potuto collocare questo tassello fiscale aggiuntivo sia sulla prima casa, alzando l’aliquota fino al 3,3 per mille, sia sugli altri immobili, portando la somma di Imu e Tasi all’11,4 per mille.
La caduta di questa opzione avrebbe determinato l’esigenza di trovare altri 360 milioni per garantire ai sindaci il rimborso totale promesso a più riprese dal Governo; la sua replica, d’altra parte, avrebbe aperto la porta a qualche manovra strumentale da parte dei Comuni che, dopo aver chiesto la «super-Tasi» alle abitazioni principali, avrebbero potuto spostarla il prossimo anno sugli altri immobili, ottenendo per questa via sia il rimborso dello 0,8 per mille applicato quest’anno sia il gettito aggiuntivo dello 0,8 per mille spostato l’anno prossimo sulla base ancora imponibile.
Di qui l’estensione del congelamento fiscale anche alla super-Tasi, che potrà tornare l’anno prossimo solo nei Comuni dove già ora era applicata su seconde case e altri immobili: l’elenco di questi Comuni non è lunghissimo, ma ha un alto peso specifico perché si apre con Roma e Milano.
Quest’ultima mossa blinda dunque la manovra da ogni possibilità di aumento della pressione fiscale locale, con un meccanismo simile a quello impiegato nel 2008 quando venne cancellata l’Ici sulla prima casa. In questo caso il congelamento fiscale è previsto per un anno, in attesa dell’unione di Imu e Tasi e del riordino dei tributi minori che quest’anno il Governo non ha voluto portare avanti per non “inquinare” l’operazione Imu-Tasi
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissari per le Regioni che non attuano la «Delrio». Province. Spostamenti «automatici» di funzioni e personale.
Prima la minaccia delle sanzioni finanziarie, per le Regioni che arriveranno al 31 ottobre senza aver attuato la riforma delle Province. Poi il commissariamento, se la resistenza passiva proseguirà anche dopo gennaio 2016. In questi casi, a riorganizzare gli ordinamenti locali ci penserà un commissario di Palazzo Chigi, che sposterà in Regione tutte le funzioni «non fondamentali» di Province e Città.
La manovra interviene quindi anche ad affinare le armi per tradurre in pratica la riforma Delrio, visto che la «collaborazione istituzionale» avviata con l’accordo del settembre 2014 non ha portato molti frutti. Ancora oggi, otto Regioni su 15 a Statuto ordinario non hanno completato le leggi che ridisegnano le funzioni locali e che di conseguenza dovrebbero spostare il personale dai vecchi enti di area vasta.
Ma ora, con i decreti sulla mobilità che hanno terminato il loro iter, per il Governo è tempo di accelerare, anche per evitare la diffusione dei casi di dissesto fra le Province e le Città metropolitane che hanno subito il taglio miliardario disposto dalla manovra dell’anno scorso.
Nel tentativo di risolvere i problemi di bilancio è intervenuto il decreto enti locali, secondo il quale le Regioni inadempienti dovranno mettere mano al portafoglio e pagare i costi di funzioni e personale rimasti a carico delle Province proprio a causa del mancato riordino. La scadenza è fra otto giorni, ma c’è da scommettere su una forte opposizione da parte dei Governatori, già alle prese con grossi problemi di bilancio e con le incognite sul varo effettivo del salva-Regioni, il meccanismo per spalmare i disavanzi creati dagli errori di contabilizzazione delle anticipazioni di liquidità ottenute dall’Economia per pagare i fornitori (si veda anche pagina 8). Con premesse di questo genere, è scontata l’opposizione dei Governatori a una norma non semplice da far dialogare con la loro autonomia finanziaria.
La manovra gioca allora la carta del commissariamento. Dove le riforme locali saranno latitanti anche dopo fine gennaio, dovrà intervenire un commissario governativo, che anche senza l’accordo con le Regioni (la norma parla di una semplice consultazione) dovrà attuare la riforma che i territori hanno lasciato a bagnomaria.
Naturalmente il commissario non potrà decidere da solo come redistribuire servizi locali e dipendenti, quindi la sua “riforma” dovrà portare in Regione tutte le funzioni «non fondamentali» di Province e Città metropolitane: per quel che riguarda il personale, dovrà fare i conti con le «capacità assunzionali» dei vari enti territoriali, dal 2016 ridotte dal turn-over al 25% previsto dalla manovra per tutta la Pubblica amministrazione (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri).
Ma per sfoltire l’elenco degli “esuberi” in lunga attesa di ricollocazione la manovra arruola anche il ministero della Giustizia, prevedendo che il personale collocato in posizione utile nel bando lanciato nei mesi scorsi da Via Arenula sia inquadrato entro fine gennaio nell’organico ministeriale, cancellando l’obbligo di assenso da parte dell’ente di provenienza. In linea con i programmi già fissati dalla legge di stabilità 2015, poi, la Giustizia dovrà acquisire nei prossimi due anni un contingente di altre mille persone, sempre provenienti da Province e Città, per «supportare il processo di digitalizzazione in corso presso gli uffici giudiziari».
Questa accelerazione suona come un tentativo urgente di evitare il fallimento a catena delle Province, dopo che il taglio aggiuntivo da 750 milioni in programma per l’anno prossimo è stato ridotto di soli 150 milioni, da destinare a edilizia scolastica e strade (quello da 250 milioni per le Città è stato invece azzerato). Una conferma della febbre dei bilanci, e del rischio stipendi per il personale di alcune Province, arriva dalla stessa manovra, che convoglia 100 milioni di euro per sostenere le buste paga dei dipendenti in attesa di spostamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2015).

VARI: Casa all'asta con la garanzia. Offerta al pubblico dopo l'incarico del bando al notaio. Studio del Consiglio nazionale del notariato sull'opportunità offerta dall'art. 1336 cc.
Vendere all'asta la propria abitazione, incaricando un notaio di occuparsi della faccenda. È una possibilità con parecchi vantaggi, tra cui la sicurezza per venditore e acquirente che l'immobile ha tutte le carte in regola. Questo può avvenire sfruttando l'articolo 1336 del codice civile, sull'offerta al pubblico di vendita di immobili.

Ad approfondire le modalità pratiche dell'operazione è il Consiglio nazionale del notariato con lo studio 20.06.2014 n. 153-2014/C, che studia le condizioni di legittimità di una facoltà che potrebbe anche dare una mano a sbloccare il mercato immobiliare.
In sostanza il venditore che dà incarico al notaio di bandire l'asta, sottoscrivendo contemporaneamente un'offerta al pubblico in forma pubblica.
Al notaio è richiesta, a questo punto, un'attività di verifica e controllo, prima della predisposizione del bando d'asta, non soltanto per garantire la perfetta conformità dell'immobile e la sua assoluta assenza di vizi, ma anche, quando è il caso, per rendere evidenti nel bando gli eventuali vizi urbanistici o di altra natura riscontrati e quali siano le garanzie prestate dal venditore.
Il notaio, quindi, bandisce l'asta e redige il verbale di aggiudicazione, individuando l'aggiudicatario e determinando il prezzo di aggiudicazione. Seguono altri adempimenti per perfezionare la conclusione del contratto.
Lo studio notarile elenca le possibili modalità di svolgimento dell'asta. Ci può essere quella con offerte segrete, senza incanto o con incanto, in cui si renderà aggiudicatario il miglior offerente (asta inglese); in tale ipotesi la vendita viene aggiudicata a colui che ha proposto la migliore offerta, partendo dal prezzo minimo indicato dal venditore; oppure un'asta con offerte segrete, cui può seguire un incanto a determinate condizioni (ad esempio, possono essere ammesse a partecipare all'incanto solo le migliori offerte segrete).
L'asta potrebbe essere con offerte al ribasso (asta olandese), da valutare con eventuale incanto, solo in assenza di offerte pari o superiori alla base d'asta: la vendita viene aggiudicata al miglior offerente, partendo dal prezzo massimo indicato dal venditore; c'è poi l'asta con riserva, in cui la vendita viene aggiudicata solo se le offerte abbiano raggiunto o superato il prezzo minimo stabilito e l'asta con il metodo Vickrey, nella quale l'aggiudicazione è fatta al miglior offerente per il prezzo di acquisto del secondo migliore offerente.
Lo studio esclude il conflitto tra l'incarico al notaio di organizzare e gestire l'asta privata e l'attività di mediazione, considerando vietata al professionista l'organizzazione di vendite all'asta, su base commerciale o qualsivoglia attività di tipo commerciale.
Secondo lo studio il sistema dell'asta privata garantisce al venditore maggiori possibilità di vendita, la soluzione dei problemi operativi posti dalla vendita (controlli svolti dal notaio e dai tecnici incaricati prima della sottoscrizione dell'offerta al pubblico); è un sistema flessibile che consente di modulare le esatte regole del gioco nei limiti previsti nell'offerta e sino all'accettazione, salvo che si preveda l'irrevocabilità.
Il venditore può anche avvantaggiarsi della certezza nell'individuazione dell'acquirente, della correttezza nel meccanismo di selezione dell'acquirente e conseguente determinazione del prezzo di vendita, della trascrizione del preliminare e conseguenti garanzie, ma, soprattutto, può contare di spuntare il prezzo più conveniente.
Anche l'acquirente non rimane a bocca asciutta, visto che non avrà sorprese dall'immobile (vagliato da notaio e tecnici), ha maggiori possibilità di scelta, gode di benefici giuridici (trascrizione del contratto preliminare all'esito dell'accettazione e più agevole di esercizio dell'azione ex articolo 2932 codice civile) e di minori rischi in ipotesi di revocatoria (ordinaria o fallimentare).
L'asta potrebbe svolgersi online con accessi riservati e delegando al notaio la verifica della legittimazione, dell'onorabilità e dell'affidabilità dei partecipanti, anche sotto il profilo della normativa in materia di lotta anti-riciclaggio ed alla criminalità organizzata (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: I requisiti minimi Ape legati alla richiesta.
I requisiti minimi per la redazione dell'attestato di prestazione energetica da rispettare dipendono dalla data di richiesta del titolo abilitativo. La procedura e la normativa da seguire è quella in vigore a tale data. La redazione dell'Ape a cura del direttore dei lavori avverrà secondo le procedure e le metodologie di calcolo vigenti alla data della richiesta del permesso a costruire. L'attestato di prestazione energetica deve essere redatto seguendo la legislazione e la normativa in vigore al momento della produzione dell'attestato. Dal 01.10.2015 vale quindi solo la nuova procedura (dm interministeriale 26.06.2015) di redazione dell'Ape.

Questi i chiarimenti (ottobre 2015) forniti dal Ministero dello sviluppo economico in materia di efficienza energetica in edilizia.
Ai fini della compilazione dell'Ape e nell'ambito del dm interministeriale 26.06.2015, tra gli edifici di categoria E.1, si considerano «non residenziali» le seguenti sottocategorie: collegi, conventi, case di pena, caserme, gli edifici adibiti ad albergo, le pensioni e attività similari.
Si considerano «residenziali» solamente le seguenti sotto-categorie: abitazioni adibite a residenza con carattere continuativo, quali abitazioni civili e rurali; abitazioni adibite a residenza con occupazione saltuaria, quali case per vacanze, fine settimana e simili. I servizi di illuminazione e trasporto vanno considerati per tutti gli edifici non residenziali.
Per quanto riguarda i servizi energetici da considerare a seconda della destinazione d'uso, si consideri che gli alberghi, le pensioni e attività similari rientrano nel «settore terziario», per cui i servizi energetici di illuminazione e trasporto vanno considerati ai fini della prestazione energetica dell'edificio (cfr. definizione di «prestazione energetica di un edificio» contenuta nella legge n. 90/2013).
L'obbligo di determinazione dell'indice di prestazione per l'illuminazione degli ambienti è esteso anche per collegi, conventi, case di pena e caserme (appartenenti alla categoria E.1) (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Enti, bloccate aliquote e tariffe. Niente aumenti per il 2016 a eccezione della Tari.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ In senato pronta la sanatoria delle delibere 2015.
Blocco degli aumenti tributari e tariffari per tutto il 2016. Abbassamento del turnover al 25%. Nuovo freno alla contrattazione decentrata.

Sono queste le principali novità per gli enti locali inserite in questi ultimi giorni nel testo del ddl stabilità 2016 (atteso oggi in parlamento), che vanno ad aggiungersi a quelle presenti fin dalle prime stesure, come l'ennesimo restyling del prelievo immobiliare e il passaggio dal Patto al pareggio di bilancio.
Su Imu e Tasi, l'ultima versione del testo (si veda ItaliaOggi di ieri) esclude dalla detassazione le prime case di lusso (ossia quelle accatastate in A1, A8 e A9) e reintroduce la maggiorazione dello 0,8 per mille senza più l'obbligo per i comuni (in molti casi eluso nella pratica) di destinarne i proventi al finanziamento di detrazioni.
Proprio per compensare la maxi aliquota, si è deciso di congelare per tutto il prossimo anno la possibilità di aumentare aliquote e tariffe, che dunque potranno essere solo ridotte o restare ai livelli attuali. Il che rende ancora più urgente l'approvazione della sanatoria per le delibere adottate nel 2015 oltre la scadenza per l'approvazione del bilancio.
Restano fuori dal blocco la Tari (che in base alle regole europee deve coprire al 100% i costi del servizio rifiuti) e gli aumenti deliberati dagli enti in pre-dissesto. I fondi per le compensazioni ai sindaci si riducono ulteriormente, scendendo a circa 4,2 miliardi, di cui 3,6 per abitazioni principali e terreni, 155 per gli imbullonati e 390 di ex fondo Imu-Tasi.
Delibere in ritardo, la soluzione nel decreto sulla voluntary
La soluzione per risolvere il pasticcio delle delibere approvate fuori tempo massimo potrebbe arrivare non nella manovra, ma dal senato che sta esaminando il dl n. 153/2015 sulla proroga della voluntary disclosure.
Il provvedimento, conclusi i lavori in commissione, arriverà in aula martedì ed è già pronto un emendamento del Pd (a firma dei senatori Daniele Borioli e Federico Fornaro) che per il 2015 salva le delibere sui tributi locali adottate dai comuni entro il 31 agosto (purché pubblicate sul Portale del federalismo fiscale del Mef entro il 28 ottobre per Imu e Tasi ed entro il 20 dicembre per l'addizionale comunale Irpef).
Gli enti che non hanno deliberato entro fine agosto dovranno invece applicare le aliquote e le tariffe applicate nel 2014. L'emendamento, accolto favorevolmente dal governo che tuttavia, in aula, si rimetterà alla decisione dell'assemblea, ha molte chance di essere approvato. E questo darebbe un po' di respiro ai comuni sull'esercizio finanziario 2015.
Le altre modifiche
Le altre new entry riguardano il personale, con la riduzione del turnover per tutti gli enti (virtuosi e non), che per i prossimi due anni potranno destinare a nuove assunzioni solo il 25% della spesa dei cessati nell'anno precedente (oltre agli eventuali resti) e il nuovo tetto al fondo per la contrattazione decentrata, che non potrà superare l'importo 2015 e dovrà essere automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio.
Confermato l'addio al Patto, che dal prossimo anno sarà sostituito dal pareggio di competenza in versione light: gli enti (compresi i comuni con meno di 1.000 abitanti, finora esclusi dai vincoli) dovranno conseguire un saldo non negativo fra entrate e spese finali in termini di sola competenza (accertamenti e impegni). Nessuna limitazione sull'uso della cassa, mentre per avanzi e debito lo sblocco è parziale e riguarda le sole spese per l'edilizia scolastica entro un budget massimo di 500 milioni per il 2016.
Infine, da segnalare il giro di vite sull'obbligo di comunicare mediante piattaforma elettronica le fatture pagate e l'estensione a tutti i comuni della possibilità di procedere ad acquisti in autonomia fino a 40.000 euro (si veda altro approfondimento a pag. 37) (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Statali, un ritorno al passato. Congelati i fondi decentrati, bloccato il turn-over.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Sul personale la manovra ripropone ricette del 2010.
Per il pubblico impiego tornano sostanzialmente in auge le ricette del 2010, quelle del dl 78/2010 convertito in legge 122/2010, all'origine del dello stop all'operatività della riforma Brunetta e del blocco della contrattazione.

L'ennesima «versione aggiornata» del disegno di legge di stabilità per il 2016 pesca dal passato misure che le amministrazioni pubbliche ormai conoscono bene e che poco più di un anno fa il governo aveva provato a superare col dl 90/2014.
Spesa di personale decrescente. La spesa destinata al pubblico impiego è pari a poco più di 160 miliardi, circa il 20% della spesa pubblica totale. Si tratta praticamente dell'unico aggregato di spesa che negli anni si riduce (ancora poco meno di dieci anni fa ammontava a 172 miliardi), grazie alle decisioni di impedire le assunzioni o di contenere in maniera piuttosto drastica i costi contrattuali.
Non è, evidentemente, possibile permettersi che la dinamica della spesa per il personale aumenti. Le scelte del ddl di stabilità dunque ripropongono le ricette ben note.
Congelamento dei fondi decentrati. È durato per il solo 2015 lo sblocco dei fondi destinati alla contrattazione decentrata, che l'articolo 9, commi 1 e 2-bis, del dl 78/2010 avevano congelato al tetto di spesa del 2010, da ridurre annualmente in proporzione al personale cessato.
Il ddl di stabilità ripristina il meccanismo, prendendo a riferimento, però, il 2015. L'attuale testo dispone che a decorrere dal 01.01.2016, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale non potrà superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ai sensi dell'articolo 9, comma 2-bis secondo periodo del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 e successive modificazioni aggiungendo che deve essere automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Ancora una volta il legislatore non stabilisce espressamente quale algoritmo di calcolo occorre utilizzare per assicurare la riduzione dei fondi.
Blocco del turn-over. Un altro «classico» delle manovre di finanza pubblica in tempi di crisi è il contenimento delle assunzioni. Il ddl di stabilità prevede che le amministrazioni statali negli anni 2016, 2017 e 2018, potranno assumere personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite del 25% della spesa del personale cessato l'anno precedente. Nel caso di qualifiche dirigenziali, il turn-over sarà del 50% per il 2016, dell'80% nel 2017 e del 100% nel 2018.
Per gli enti locali resta salvo il 2016: il turn-over sarà dell'80% del costo delle cessazioni dell'anno precedente. Tuttavia, negli anni 2017 e 2018 gli enti locali potranno effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite del 25% della spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente. Il ddl di stabilità intende disapplicare, negli anni 2017 e 2018 anche il «premio» per gli enti virtuosi, previsto dall'articolo 3, comma 5-quater, che consente di portare al 100% la soglia della spesa per turn-over.
Province. Ovviamente, sulle nuove regole relative alla spesa del personale continua ad incombere l'irrisolto problema della ricollocazione dei dipendenti in sovrannumero delle province e delle città metropolitane. Di fatto, nel 2016 il turnover continuerà ad essere bloccato.
Il ddl prevede di «forzare» il sistema con l'idea di commissariare le regioni che non abbiano riordinato le funzioni non fondamentali delle province entro 30 giorni dalla sua entrata in vigore. Il commissario assicurerà il completamento degli adempimenti necessari a rendere effettivo, entro il 30.06.2016, il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie relative alle funzioni non fondamentali delle province e delle città metropolitane, in attuazione della riforma Delrio.
Perdurando l'assenza di disposizioni legislative regionali e fatta salva la loro successiva adozione, il ddl di stabilità attribuisce automaticamente alla regione le funzioni non fondamentali delle province e città metropolitane. Il commissario trasferirà il personale sovrannumerario nei limiti della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie della regione ovvero della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie dei comuni che insistono nel territorio della provincia o città metropolitana interessata.
Nel frattempo, il ddl prevede di rendere indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001 vacanti alla data del 15.10.2015 e non coperti alla data del 31.12.2015 (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

PATRIMONIO: I solai delle scuole ai raggi X. Stanziati 40 milioni per gli interventi degli enti locali. Destinatarie dei fondi Miur sono le amministrazioni proprietarie. Domande fino al 18/11.
Ammonta a 40 milioni di euro lo stanziamento del ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca a valere sull'avviso pubblico per il finanziamento in favore di enti locali di indagini diagnostiche dei solai degli edifici scolastici.
I fondi potranno essere utilizzati dagli enti locali proprietari degli edifici scolastici al fine di finanziare indagini diagnostiche relative a elementi strutturali e non strutturali di solai e controsoffitti con riferimento a immobili pubblici adibiti a uso scolastico.
Potranno presentare richiesta di finanziamento tutti gli enti locali proprietari di edifici scolastici di ogni ordine e grado. Ogni ente locale potrà presentare la propria candidatura con riferimento a uno o più edifici scolastici di cui è proprietario o rispetto al quale abbia la competenza.
La scadenza per presentare domanda è fissata al 18.11.2015. Con questo bando il ministero punta ad avere una radiografia delle condizioni dei solai degli istituti per prevenire i rischi di crollo e garantire al meglio la sicurezza degli studenti.
Contributo fino a 9 mila euro per indagine
Sono ammesse a finanziamento le indagini diagnostiche relative a elementi strutturali ovvero a elementi non strutturali dei solai. L'importo massimo del contributo per le indagini relative agli elementi non strutturali è pari a 4 mila euro per le scuole del primo ciclo e a 6 mila euro per le scuole del secondo ciclo.
L'importo massimo del contributo per le indagini relative agli elementi strutturali è pari a 7 mila euro per le scuole del primo ciclo e a 9 mila euro per le scuole del secondo ciclo. Gli enti locali beneficiari del contributo dovranno affidare le indagini, pena la revoca del contributo, entro e non oltre il 31.12.2015. Le indagini dovranno essere affidate a soggetti qualificati.
Domande dal 26 ottobre al 18.11.2015
Gli enti locali interessati, tramite il legale rappresentante o suo delegato, dovranno inviare la propria candidatura entro e non oltre le ore 23.59 del giorno 18.11.2015. L'invio deve avvenire utilizzando esclusivamente la piattaforma informativa a tal fine realizzata, denominata Ides collegandosi al link http://ext.pubblica.istruzione.it/IdesCandidatura/login. Nella domanda dovranno essere inseriti la denominazione dell'ente (comune, provincia o città metropolitana), gli edifici scolastici che si intende candidare al finanziamento per indagini diagnostiche in ordine di priorità di intervento.
Deve essere evidenziata la tipologia di indagine strutturale o non strutturale, l'importo complessivo dell'indagine comprensivo della quota di cofinanziamento. Dovranno essere indicati l'anno di costruzione dell'immobile, l'eventuale quota di cofinanziamento in relazione all'importo complessivo dell'indagine di cui il contributo ministeriale è parte, l'indice di rischio sismico ovvero, se non conosciuto, la relativa zona sismica.
I richiedenti dovranno predisporre una dichiarazione di assenza o meno di finanziamento negli ultimi cinque anni per interventi strutturali o per indagini diagnostiche. Il portale per l'inserimento dei dati sarà accessibile dal 26.10.2015 fino alle ore 23.59 del giorno 18.11.2015.
Concessione in base a una graduatoria
I contributi saranno concessi sulla base di una graduatoria di merito, pertanto non saranno rilevanti la data e l'ora di presentazione della domanda.
In particolare, saranno presi in considerazione la vetustà degli edifici adibiti a uso scolastico, con particolare riferimento agli edifici costruiti prima del 1970, la quota di cofinanziamento per l'espletamento di ciascuna indagine, l'indice dì rischio sismico e l'assenza di finanziamento negli ultimi cinque anni per interventi strutturali o per indagini diagnostiche.
L'erogazione del contributo avverrà nell'esercizio finanziario 2016 direttamente da parte del ministero in favore degli enti locali beneficiari, mediante trasferimento sulle contabilità di tesoreria unica degli enti stessi, in un'unica soluzione (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

APPALTI: Acquisti liberi fino a 40 mila. Enti locali: obbligo di gare Consip anche per le manutenzioni. Il ddl stabilità stabilisce per tutti i comuni questo limite per l'affidamento di appalti in autonomia.
Tutti i comuni potranno affidare contratti di valore inferiore a 40 mila senza ricorso alle centrali di committenza e le gare telematiche Consip si faranno anche per lavori di manutenzione e deroga all'obbligo di gare Consip se i corrispettivi sono inferiori del 10% rispetto a quelli stabiliti dalla centrale di committenza.

Sono queste alcune delle novità contenute nell'ultima bozza di legge di stabilità approvata dal consiglio dei ministri il 15 ottobre scorso che prevede anche l'obbligo per le amministrazioni di elaborare il programma biennale degli acquisiti e prezzi massimi di aggiudicazione fissati dall'Anac in caso di mancanza di convenzioni Consip o di prezzi standard.
Per gli enti locali la novità di maggiore rilievo e attesa da diversi mesi (la misura fu richiesta dall'Anci in più occasioni e in più decreti-legge) riguarda gli acquisti fino a 40 mila euro.
Ad oggi soltanto i comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti possono evitare di passare attraverso centrali di committenza, soggetti aggregatori della domanda o unioni di comuni per potere affidare contratti di modesto importo (inferiore a 40 mila euro).
Il disegno di legge di stabilità per il 2016 elimina il divieto di procedere autonomamente agli acquisiti di beni, servizi e lavori fino a 40 mila euro per i comuni con popolazione al di sotto dei 10 mila abitanti con la conseguenza che, fino a 40 mila euro, tutti i comuni senza alcuna distinzione potranno procedere in autonomia e non fare ricorso alla centrale di committenza.
Altra importante novità, se verrà confermata nel testo definitivo che sarà trasmesso in parlamento, è quella che consentirà di utilizzare «gli strumenti di acquisto e di negoziazione messi a disposizione da Consip spa anche per le attività di manutenzione qualificabili come lavori pubblici».
In sostanza, si amplia l'ambito di applicazione delle procedure Consip anche ai contratti che prevedono l'esecuzione di lavori di manutenzione e non soltanto alle forniture di beni e servizi.
Il disegno di legge prevede inoltre una deroga, per tutto il 2016, all'obbligo di ricorso alle procedure Consip a condizione che gli acquisiti conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica e prevedano corrispettivi inferiori almeno del 10% rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali di committenza regionali.
In questi casi, però, la norma fa salva la possibilità per il contraente privato di tornare alla convenzione Consip, se più favorevole.
L'articolato introduce poi l'obbligo per tutte le amministrazioni di approvare, entro il mese di ottobre di ciascun anno, il programma biennale e suoi aggiornamenti annuali degli acquisti di beni e di servizi di importo stimato superiore a un milione di euro. Il programma dovrà essere predisposto sulla base dei fabbisogni di beni e servizi dell'amministrazione e dovrà indicare le prestazioni oggetto dell'acquisizione, la quantità, ove disponibile, il numero di riferimento della nomenclatura e le relative tempistiche.
Da notare che l'inadempimento a quest'obbligo sarà valutato ai fini della performance della amministrazione e che le acquisizioni non comprese nel programma e nei suoi aggiornamenti non potranno ricevere forme di finanziamento, eccezione fatta per le acquisizioni imposte da eventi imprevedibili o calamitosi. Il disegno di legge prevede anche la soppressione dell'articolo 271 del dpr 207/2010 (regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici) che prevede soltanto il programma annuale degli acquisti.
Viene poi affidato all'Anac il compito di elaborare l'adeguamento prezzi delle vecchie convenzioni, laddove manchino le convenzioni Consip e i prezzi standard. I valori definiti dall'Autorità costituiranno «prezzo massimo di aggiudicazione per il periodo temporale indicato dall'autorità medesima» (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Consulenze, l'esperienza non può essere premiante. Restringe la concorrenza nella redazione degli elenchi di professionisti.
Viola i principi di concorrenza e non discriminazione un criterio che, per la formazione di elenchi di professionisti per l'affidamento di incarichi anche di limitato importo, premia l'esperienza pregressa su un determinato territorio e richiede l'iscrizione all'albo provinciale o regionale
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Questo è uno degli elementi contenuti nella segnalazione AS1213 del 30.09.2015 (REGIONE MARCHE-ELENCHI DI PROFESSIONISTI PER INCARICHI DI MICROZONAZIONE SISMICA E ANALISI DELLA CONDIZIONE LIMITE PER L'EMERGENZA) dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (pubblicata sul bollettino dell'Antitrust del 12.10.2015) che ha preso in esame alcuni profili problematici inerenti la formazione di elenchi di professionisti costituiti al fine di affidare incarichi di consulenza tecnica (nel caso specifico si trattava di un albo istituito da una centrale di committente per incarichi, tutti di valore al di sotto dei 20 mila euro, di microzonazione sismica e di analisi della condizione limite per l'emergenza in comuni a rischio).
L'elenco veniva costituito con un avviso pubblico nel quale si prevedevano come requisiti premianti le esperienze pregresse maturate sul territorio (cui si assegnavano 35 punti su 100) e l'iscrizione all'albo provinciale o regionale.
A tale riguardo l'Antitrust evidenzia le distorsioni della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato dei servizi professionali che derivano dalle disposizioni concernenti la formazione degli elenchi di affidatari.
In particolare, il criterio della documentata «conoscenza approfondita del territorio» in cui dovrà essere svolto l'incarico introducono, si legge nella segnalazione, una ingiustificata restrizione alla prestazione dei servizi a vantaggio del professionista in grado di documentare, anche mediante autocertificazione, sia pregressi lavori effettuati sul territorio, sia la propria iscrizione all'albo professionale regionale o provinciale.
L'Autorità fa presente come «ogni professionista, anche attivo in altri ambiti territoriali ma con esperienza nei servizi affidati, sarebbe in grado, avvalendosi della tecnologia in uso nel settore, di acquisire la necessaria conoscenza delle caratteristiche geologiche e strutturali del territorio, a prescindere dall'ambito nel quale ha svolto la propria attività pregressa».
Il tutto senza considerare che ogni aspirante affidatario dovrebbe comunque adoperarsi per approfondire la massima conoscenza dello stato di fatto in cui dovrà essere svolta la prestazione.
Per l'Antitrust, quindi, il criterio di selezione premiante la conoscenza del territorio viola il principio di non discriminazione, che vieta di effettuare una selezione di concorrenti, privilegiando arbitrariamente coloro che esercitano prevalentemente la loro attività nell'ambito territoriale in cui devono essere svolte le prestazioni, benché l'importo complessivo dell'affidamento, per ciascun comune, sia ampiamente inferiore a 40 mila euro e consenta in base all'articolo 125, comma 11, del Codice dei contratti pubblici di procedere con affidamenti diretti nelle procedure in economia o di cottimo fiduciario.
Pur non applicandosi le norme europee, per l'Antitrust si è in presenza di una violazione dei «principi di liberalizzazione delle attività economiche sanciti, in particolare, dagli articoli 10 e 12 del dlgs n. 59/2010, che recepisce la cosiddetta Direttiva servizi» (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIMini-enti, manovra beffa. Vincoli per i comuni sotto i 1.000 abitanti. LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Pareggio di bilancio light ma per tutti.
Dal prossimo anno, anche i comuni al di sotto dei 1.000 abitanti saranno pienamente soggetti ai vincoli di finanza pubblica.

Lo prevede il ddl di Stabilità 2016, nel quadro del passaggio dal Patto al nuovo meccanismo del pareggio di bilancio.
Finora, i mini-enti sono sempre stati tenuti fuori dalla partita, sia per non appesantirli di adempimenti troppo gravosi, sia in considerazione del loro modesto peso finanziario sul bilancio consolidato delle pubbliche amministrazioni.
Una prima, parziale inversione di tendenza si è avuta col il dl 138/2011, che aveva esteso il Patto anche agli enti appartenenti alla fascia compresa fra 1.000 e 5.000 abitanti (e tentato di applicarlo anche a quelli minori, attraverso l'obbligo, poi cancellato, di costituire le cd unioni speciali). Anche così, si è trattato di una mezza rivoluzione, che ha complicato fortemente la vita delle piccole amministrazioni, alle prese generalmente con bilanci più rigidi e con una minore capacità di programmazione rispetto a quelle medie e grandi.
Non a caso, quindi, la richiesta di ripristinare l'esenzione piena fino alla fatidica soglia dei 5.000 residenti è stata, in questi anni, la più gettonata dopo quella di una cancellazione tout court del Patto.
Ora che quest'ultima sembra finalmente a portata di mano, con l'imminente debutto della versione light del pareggio di bilancio (in quanto limitato al solo equilibrio di competenza fra entrate e spese finali; si veda ItaliaOggi del 17/10/2015), ecco la doccia fredda: il nuovo obbligo avrà un'applicazione generalizzata, senza limitazioni demografiche.
Lo si evince dal richiamo che la norma sul pareggio opera all'art. 9, comma 1, della legge 243/2012 (ossia la legge rinforzata approvata dal Governo Monti in attuazione dell'art. 81 Cost.), che a sua volta menziona espressamente, oltre a regioni, province e città metropolitane, anche tutti i comuni.
Dal 1° gennaio, quindi, anche i mini-enti dovranno entrare nel sistema e rispettare tutti i numerosi adempimenti che esso prevede, dal prospetto che deve essere allegato al bilancio di previsione, all'accredito alla piattaforma del Mef, fino al monitoraggio e alla certificazione finale. E ovviamente saranno soggetti alle sanzioni (tagli, tetto alle spese correnti, blocco dell'indebitamento e delle assunzioni, decurtazioni delle indennità degli amministratori) previste in caso di sforamento dell'obiettivo.
Non si tratta di uno scherzo, se si pensa che le amministrazioni interessate sono circa 2 mila e che finora non hanno mai applicato il Patto e quindi non sono del tutto preparate al cambiamento, anche perché spesso hanno non più di un dipendente costretto a svolgere da solo tutte le incombenze d'ufficio. Eppure, nessuno, a livello politico, sembra essersi posto il problema, né a livello centrale, né nelle varie associazioni degli enti locali.
Invero, il problema nasce proprio dalla 243, che di per sé non potrebbe essere rivista da una legge ordinaria. Eppure, il ddl stabilità di fatto ne modifica il tenore, ma finora si è dimenticato di tutelare i piccoli comuni. Rimangono esenti, invece, le unioni di comuni e, in generale, gli enti locali diversi da quelli menzionati dal richiamato art. 9.
Merita segnalare, infine, la necessità di chiarire un altro aspetto fondamentale. Finora, la dicotomia fra enti soggetti e enti non soggetti al Patto è stata utilizzata anche per differenziare il regime di limiti alla spesa di personale e al turnover, nel primo caso disciplinato dal comma 557 e nel secondo dal comma 562 della legge 296/2006. Ora, tale distinzione pare superata, per cui si tratta di capire quale sia il regime effettivamente applicabile: un altro elemento di incertezza in vista della programmazione 2016-2018, che dovrà trovare la sua sintesi nel Dup.
I piccoli comuni possono invece festeggiare per l'estensione della deroga all'obbligo di acquisti centralizzati per importi inferiori a 40 mila euro. La possibilità di effettuare acquisti in autonomia, oggi riconosciuta solo ai comuni con più di 10 mila abitanti, viene estesa a tutti i municipi indipendentemente dalla classe demografica (articolo ItaliaOggi del 21.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Tagli. Manager, misure incoerenti.
Sulla dirigenza pubblica il disegno di legge di Stabilità contiene una serie di incoerenze.

Il ddl aumenta a dismisura le responsabilità dei dirigenti, connesse, ad esempio, al rispetto dei tempi di pagamento o al nuovo obbligo di pubblicare la programmazione biennale di servizi e forniture di importo superiore al milione di euro.
In particolare, il regime di responsabilità contempla regolarmente la rilevanza dell'eventuale mancato rispetto degli obiettivi fissati, ai fini dell'erogazione della retribuzione di risultato. Tuttavia, proprio sulla retribuzione di risultato si concentra l'idea della legge di stabilità di finanziare l'esiguo stanziamento (200 milioni) previsto per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego: in sostanza, si tratta di ridurre in modo rilevante i fondi destinati alla retribuzione di risultato dei dirigenti pubblici, con un taglio del 10%. Le incoerenze non si fermano certo qui.
Un intervento di simile natura sulla retribuzione di risultato dei dirigenti finisce per scontrarsi frontalmente sia con la riforma-Brunetta, il dlgs 150/2009, rendendo sostanzialmente inutili i complessi sistemi di valutazione della performance della dirigenza; sia anche con le indicazioni della legge-Madia, la 124/2015 di delega per la riforma della p.a., che proprio sulla valutazione della dirigenza pubblica e sul «merito», punta per potenziare e rendere ancora più evidenti gli effetti della riforma Brunetta.
Ancora, l'idea di intervenire sul trattamento economico dei dirigenti ormai è presente da anni e già nei testi preparatori del dl 66/2014 erano emerse proposte per la determinazione di «tetti» variabili a seconda delle fasce dirigenziali. Tuttavia, immaginare di incidere drasticamente sui fondi di risultato dei dirigenti, apre il rischio di attivare un altro contenzioso, probabilmente perdente, con la Corte costituzionale.
La Consulta, infatti, pochi anni fa ebbe modo di stroncare un intervento simile: il contributo «di solidarietà» richiesto ai trattamenti economici dirigenziali complessivi anche della retribuzione di risultato, superiori ai 90 mila euro (articolo ItaliaOggi del 21.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto salvi dalla cura dimagrante.
Incarichi dirigenziali a contratto salvi dalla cura dimagrante imposta alle dotazioni organiche dei dirigenti pubblici.

Il disegno di legge di Stabilità per il 2016 puntualmente lascia fuori i dirigenti incaricati direttamente dalla politica, quelli previsti dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001.
Dirigenti a contratto. Nonostante la legge intenda contenere il numero e il costo dei dirigenti in servizio, non si rinuncia allo strumento principale col quale la politica coopta, senza concorsi, dirigenti dall'esterno delle dotazioni organiche, esponendosi per altro a rilievi e rischi gestionali come quelli manifestatisi per le Agenzie fiscali, che hanno attinto a piene mani a questo tipo di incarichi.
Sta di fatto che il ddl di stabilità prevede che «la riduzione della dotazione organica degli uffici dirigenziali non generali non ha effetto sul numero degli incarichi conferibili ai sensi dell'articolo 19, commi 5-bis e 6 del decreto legislativo n. 165 del 2001», allo scopo «di garantire la continuità dell'azione amministrativa», nella inusitata visione secondo la quale la continuità dell'azione amministrativa dipenda da incarichi a tempo determinato.
Riduzione delle dotazioni. La previsione appare piuttosto incoerente, se si pensa che il ddl impone la riduzione delle dotazioni organiche dirigenziali nella misura del 50%, tenendo conto «del numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di studio, del personale dirigenziale in posizione di comando, distacco o aspettativa per altro incarico presso una diversa amministrazione».
Il legislatore è, dunque, consapevole che molti dirigenti stanno nel limbo senza incarichi o con incarichi privi di rilevanza gestionale, eppure continua ad ammettere il ricorso a soggetti esterni, che impediscono una più corretta collocazione operativa di questi dirigenti.
Non subiranno riduzioni le dotazioni dirigenziali delle figure non contrattualizzate di cui all'articolo 3 del dlgs 165/2001 (prefetti, diplomatici, docenti universitari, magistrati, avvocati dello stato); niente taglio anche per i dirigenti delle città metropolitane e delle province adibiti all'esercizio di funzioni fondamentali, degli uffici giudiziari, dell'area della dirigenza medica e del ruolo sanitario. È escluso altresì il personale delle agenzie fiscali.
Dirigenti delle province e città metropolitane. Il ddl fa salvi i posti destinati alla ricollocazione del personale dirigenziale delle città metropolitane e delle province calcolati in misura corrispondente alle cessazioni di personale dirigenziale intervenute nell'anno 2014, nonché, ove necessario, quelli destinati alle assunzioni delle 150 «eccellenze».
L'intento è, dunque, permettere la ricollocazione dei dirigenti delle «aree vaste» in sovrannumero, anche se sin qui non risulta sia stata fatta alcuna ricognizione dei posti ai quali sarebbero da destinare.
Ricognizioni. Le amministrazioni dello stato dovranno effettuare una ricognizione delle dotazioni organiche, dalle quali laddove emergessero disomogeneità dei rapporti tra personale dirigente e personale dell'area delle qualifiche deriverebbero provvedimenti di riorganizzazione interna, per riequilibrare dette percentuali. Anche regioni ed enti locali dovranno effettuare la ricognizione.
In particolare, si intendono superare le rigidità al conferimento degli incarichi dirigenziali nelle avvocature e nei corpi di polizia municipali imposte da discutibili sentenze del Consiglio di stato, consentendo di conferire gli incarichi dirigenziali «senza alcun vincolo di esclusività anche al dirigente dell'avvocatura civica e della polizia municipale». La flessibilizzazione degli incarichi giustifica, secondo il ddl, anche la sottrazione degli enti locali di piccole dimensioni, tali da non consentire la rotazione dei dirigenti come misura anticorruzione prevista dall'articolo 1, comma 5, della legge 190/2012.
Ulteriori tagli. Dal 2016 per le amministrazioni statali saranno ridotte del 20% una serie di risorse aggiuntive destinate al salario accessorio, per confluire nei fondi della retribuzione di posizione e di risultato.
Sempre con la stessa decorrenza, tutte le amministrazioni, anche regioni ed enti locali, dovranno ridurre del 10% rispetto alla consistenza dei fondi 2014 le risorse destinate annualmente ai fondi per il finanziamento della retribuzione di risultato dei dirigenti.
I risparmi conseguiti costituiscono economie di bilancio per le amministrazioni dello Stato e concorrono, per gli enti diversi dalle amministrazioni statali, al miglioramento dei saldi di bilancio. Pertanto, non potranno essere più utilizzati per gli incentivi (articolo ItaliaOggi del 21.10.2015).

TRIBUTI: Il baratto esclude i debiti pregressi. Tributi locali. I chiarimenti dell’Ifel sui lavori socialmente utili in cambio di sconti sulle tasse.
Non è possibile avere sconti sulle tasse in cambio di lavori socialmente utili se si tratta di debiti tributari pregressi.
Lo ha chiarito l’Ifel (fondazione Anci) con una nota di approfondimento 16.10.2015 sull’inquadramento del «baratto amministrativo» nei tributi comunali.
L’Ifel aderisce a una posizione intermedia tra chi sostiene che le agevolazioni siano limitate a specifici tributi (Tari e Tosap) e chi invece le ritiene estensibili a tutti i debiti tributari accertati o iscritti a ruolo: in questo senso peraltro si sono orientati la maggior parte dei Comuni che hanno finora scritto il regolamento sul tema.
L’Ifel fa ora chiarezza sulla portata applicativa dell’articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di interventi per la riqualificazione del territorio, da parte di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che consente ai cittadini che non riescono a far fronte al pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando ore di lavoro in favore della comunità.
L’Ifel ritiene possibile deliberare l’agevolazione per ogni tributo di riferimento (Imu, Tasi, Tari, Tosap eccetera) anche se in apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività posta in essere.
L’Ifel sottolinea che non è invece possibile prevedere riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali debiti tributari del contribuente, se si considera il principio di indisponibilità e di irrinunciabilità al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2015).

TRIBUTI: Niente baratto per pagare i tributi locali. L'ifel circoscrive l'ambito di applicazione dell'istituto.
Niente baratto amministrativo per estinguere i debiti tributari verso i comuni. La possibilità per i cittadini e le associazioni di godere di riduzioni o esenzioni di imposta a fronte di interventi di riqualificazione del territorio (pulizia delle strade, cura del verde, recupero di aree dismesse ecc.) va circoscritta a pochi e limitati casi perché così è previsto dalla legge (dl n. 133/2014).

A mettere i paletti all'istituto (finora rimasto più teorico che reale ma rimbalzato agli onori della cronaca dopo la decisione del comune di Milano di consentire lo scambio tra tasse non pagate e lavori socialmente utili) è l'Ifel (con la nota di approfondimento 16.10.2015), l'Istituto per la finanza locale dell'Anci che mette in guardia: «Non appare coerente con la ratio della norma la possibilità di prevedere riduzioni o esenzioni anche con riferimento a eventuali debiti tributari del contribuente». Perché questo contrasterebbe con il principio dell'indisponibilità e irrinunciabilità del credito tributario cui soggiacciono tutti i tributi locali.
Stop dunque alle tentazioni di estendere il baratto oltre quanto previsto dall'art. 24 del dl 133 che invece è norma molta circoscritta. A beneficiare del baratto dovranno essere, in via prioritaria, le associazioni di cittadini che presentino progetti di riqualificazione del territorio e, solo in casi eccezionali, i singoli componenti dell'associazione.
E ancora, gli enti locali non potranno riconoscere le agevolazioni in relazione a qualsiasi intervento dei cittadini, ma solo per premiare gli interventi tassativamente elencati nella norma. L'esenzione, inoltre, dovrà essere concessa per un periodo limitato e definito «in ragione dell'esercizio sussidiario» di attività da parte dei cittadini, ossia per attività «rispetto alle quali il comune si astenga dall'intervenire».
Per godere dell'agevolazione, infine, i tributi da cui i contribuenti potranno risultare esenti dovranno essere «inerenti il tipo di attività posta in essere». Questo requisito, secondo l'Ifel, può, invece, essere interpretato estensivamente perché «la ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera di agevolazione al tributo di riferimento (Imu, Tasi, Tari, Cosap ecc.) anche se in apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività posta in essere». L'importante, spiega l'Ifel, è che in sede di predisposizione della delibera di agevolazione vi sia una corrispondenza tra il beneficio reso e l'agevolazione concessa.
«In quest'ottica», chiarisce l'Istituto, «non si profilano particolari limitazioni ai tributi per i quali potranno essere previste agevolazioni, purché siano adeguatamente giustificate e legate a presupposti impositivi propri di ciascun tributo» (articolo ItaliaOggi del 20.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni, permessi standard. Operativa la superDia, con una modulistica unificata. Prosegue lo snellimento delle procedure per le ristrutturazioni edilizie e urbanistiche.
Per le nuove costruzioni e le ristrutturazioni edilizie, dal 14 ottobre, si utilizza la superDia con un modello standard utilizzabile su tutto il territorio italiano. La superDia deve essere presentata allo sportello unico per l'edilizia o allo sportello unico per le attività produttive per gli interventi di ristrutturazione edilizia, di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi.
Col nuovo modulo standard uguale in tutti gli enti locali, per le imprese e i professionisti diventa quindi più semplice svolgere incarichi di progettazione in più comuni, senza dover utilizzare modulistiche sempre diverse tra di loro.
Il 14 ottobre, infatti, sono scattati i 90 giorni dall'approvazione, avvenuta il 16 luglio scorso, in conferenza unificata del modello unico per la superDia. L'approvazione della super Dia si inserisce nel percorso di semplificazione in materia edilizia.
L'obbligo di adeguare le normative regionali alla nuova superDia vigerà solamente per le regioni a statuto ordinario. Le regioni a statuto speciale invece conserveranno una sorta di potestà legislativa per quanto concerne le materie legate all'edilizia.
Informazioni da inserire nella modulistica superDia. Nel nuovo modulo della superDia vanno inserite le informazioni volte a identificare il tipo di lavoro nella sua completezza, i dati delle persone coinvolte (committente, progettisti, tecnici e imprese), l'area interessata con i relativi dati catastali e i geometrici dell'area interessata dal progetto.
Vanno allegati al modello superDia la relazione tecnica asseverata del progettista (nella quale vanno descritti i dettagli dell'intervento e dei lavori che vengono effettuati, la conformità edilizia e urbanistica del progetto, confermata che non siano presenti vincoli paesaggistici, storici o ambientali ostativi alla realizzazione del progetto, specificato se vengono effettuati interventi di abbattimento delle barriere architettoniche e di ottimizzazione dei consumi energetici), gli elaborati grafici che consentono di descrivere il progetto e le ricevute attestanti l'avvenuto pagamento dei diritti di segreteria e degli oneri proporzionali in base al tipo di intervento.
Documentazione da presentare. I documenti da presentare allo sportello unico per l'edilizia o allo sportello unico per le attività produttive per gli interventi di ristrutturazione edilizia sono la richiesta di provvedere all'acquisizione degli atti di assenso necessari per eseguire intervento edilizio (avanzata prima della presentazione della segnalazione certificata di inizio di attività edilizia), il modulo superDia, compilato dal proprietario o avente titolo e dagli eventuali contitolari e asseverata da un tecnico abilitato, gli elaborati progettuali previsti dal regolamento edilizio in relazione al tipo di intervento e alla zona di Prg, a firma di un tecnico abilitato, in triplice copia, le autocertificazioni che attestano la presenza dei requisiti di legge necessari per la realizzazione dell'intervento edilizio, i pareri delle amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli ambientali, paesaggistici o culturali (es. parere della soprintendenza dei beni culturali, autorizzazione paesaggistica), la ricevuta dell'avvenuto pagamento dei diritti di segreteria di 70 euro e ogni altro documento elencato tra gli allegati nella modulistica della Scia, ove ricorra il caso a fine lavori è necessario presentare certificato di collaudo.
Le diverse tipologie di interventi. La superDia dal 14 ottobre può essere utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica.
Ristrutturazione edilizia. In alternativa al permesso di costruzione è possibile utilizzare la superDia nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Può inoltre essere utilizzata nel caso in cui la ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica. In questo caso la superDia può essere impiegata qualora gli interventi siano disciplinati da piani attuativi, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.
Controlli da parte dello sportello unico. L'attività può essere iniziata dalla data di presentazione della superDia. L'amministrazione comunale tuttavia, nei 30 giorni successivi alla data della presentazione, può effettuare le verifiche e i controlli e, in caso di irregolarità, qualora sia possibile, invita il privato interessato a rendere l'intervento conforme alla normativa vigente entro un termine prefissato.
In caso di carenza dei presupposti, o qualora l'interessato non provveda ad adeguare l'intervento alla normativa, l'amministrazione può vietare, con motivato provvedimento, la prosecuzione dell'attività e disporre la rimozione dei suoi effetti dannosi.
Trascorsi i 30 giorni, il comune può intervenire sempre, in caso dichiarazioni false e mendaci e solo in presenza di pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale, qualora non sia possibile regolarizzare l'attività.
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I casi in cui presentare la Cila.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori, deve essere presentato quando si eseguono lavori rientranti nella cosiddetta edilizia libera. Il modello standard per la Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) deve essere presentato, invece, quando si eseguono interventi di manutenzione straordinaria non riguardanti parti strutturali.
Ricordiamo che il 18.12.2014 sono stati approvati dalla conferenza unificata i modelli unici per la compilazione della comunicazione inizio lavori e comunicazione inizio lavori asseverata. I due modelli possono essere utilizzati dal 16 marzo. La comunicazione inizio lavori asseverata può essere presentata dal proprietario, comproprietario, usufruttuario dell'immobile su cui viene eseguito l'intervento (più in generale, chiunque sia titolare di un «diritto reale» sull'immobile), oppure dall'inquilino che utilizza l'immobile in base a un contratto di affitto con il consenso del proprietario dell'immobile (in questo caso si parla di «diritto personale» compatibile con l'intervento da realizzare).
Il modulo unico per la presentazione della comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) per interventi di edilizia libera prevede la richiesta delle stesse informazioni su tutto il territorio nazionale, con sezioni variabili che tengono conto delle differenze dovute alle diverse normative regionali. In una realtà caratterizzata da un'accentuata differenziazione delle procedure a livello regionale e locale, con moduli utilizzati per la presentazione delle pratiche edilizie diversi da comune a comune, il modello unificato rappresenta una novità assoluta perché elimina le richieste di informazioni già in possesso delle pubbliche amministrazioni e favorisce l'interpretazione uniforme delle norme in materia edilizia, anche grazie alle istruzioni predisposte per agevolare cittadini e imprese nella compilazione e presentazione della Cila.
La Cila deve essere presenta sempre prima dell'inizio dei lavori oggetto della comunicazione, a meno che non si tratti di opere già eseguite, in tal caso, la presentazione della comunicazione (c.d. «in sanatoria») richiede il pagamento di una sanzione di 1000 euro, da versare all'amministrazione comunale (la ricevuta di versamento deve essere allegata alla comunicazione). Puoi presentare la Cila anche a lavori già iniziati (e ancora in corso); anche in questo caso, hai l'obbligo di pagare una sanzione, anche se ridotta a 333 euro.
Se l'intervento riguarda l'edilizia non residenziale (relativa quindi a immobili da utilizzare per lo svolgimento di attività produttive), la Cila deve essere presentata allo sportello unico per le attività produttive, l'unico punto di accesso per tutte le attività commerciali, produttive e di servizi che si rivolgono alla pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 19.10.2015).

ENTI LOCALI: Opere e ambiente, decide lo stato. Alle regioni soltanto la competenza sull'urbanistica. Il ddl Boschi sopprime la cosiddetta legislazione concorrente e la legge obiettivo.
Allo stato la competenza legislativa esclusiva su infrastrutture strategiche, grandi reti di trasporto e di navigazione, porti e aeroporti di interesse nazionale e internazionali, nonché in materia di tutela dei beni paesaggistici e ambiente; l'urbanistica alle regioni.

Sono queste alcune delle principali novità in tema di riparto della legislazione fra stato e regioni contenute nel disegno di legge costituzionale (cosiddetto ddl Boschi - Atto Senato n. 1429-B) approvato dall'aula del Senato che adesso dovrà ottenere l'ultimo e scontato via libera parlamentare.
Nel provvedimento si prevede il cosiddetto «Senato dei 100» che sarà composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 componenti di nomina del presidente della repubblica e si mantiene il bicameralismo per le leggi di rango costituzionale, così come per il referendum, per la legge elettorale e per i trattati con l'Unione europea. Tutte le altre leggi verranno esaminate e approvate dalla camera.
Di particolare rilievo le norme che incidono sul riparto delle competenze fra stato e regioni, già oggetto di riforma nel 2001 quando si ritoccò l'articolo 117 della costituzione.
In primo luogo la novità più rilevante è costituita dalla soppressione della cosiddetta legislazione concorrente fra stato e regioni: la competenza legislativa sarà quindi o dello stato o delle regioni. Viene così recepita l'indicazione più volte espressa dalla giurisprudenza costituzionale in occasione dei conflitti di attribuzione che hanno visto contrapporsi in tutti questi anni lo stato alle regioni.
Quando il ddl Boschi passerà l'ultimo scoglio del referendum confermativo, lo stato avrà la competenza esclusiva sul coordinamento della finanza pubblica, sulle politiche attive del lavoro, sulla promozione della concorrenza e sulla disciplina dell'ambiente e delle infrastrutture strategiche.
In particolare, passa allo stato la materia delle «infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d'interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Va notato che il riferimento alle «infrastrutture strategiche» non necessariamente comporta che si tratti di opere di grandi dimensioni, ben potendo essere oggetto di legislazione statale esclusiva anche la disciplina di opere strategiche ma di piccolo o medio taglio. Va poi segnalato che il riferimento a queste opere appare sganciato da ogni riferimento anche indiretto alla cosiddetta legge obiettivo (riferita alle «grandi» infrastrutture strategiche), di cui peraltro nel disegno di legge delega sugli appalti si prevede l'abrogazione.
Spetterà allo stato legiferare in via esclusiva in tema di protezione civile e di norme generali sul governo del territorio, mentre la pianificazione territoriale sarà compito delle regioni.
Si attribuisce poi in via esclusiva allo stato la materia della tutela dei beni paesaggistici e dell'ambiente. Viene prevista, come norma di chiusura, una disposizione che attribuisce in via residuale alle regioni la competenza legislativa in materie non riservate alla competenza statale esclusiva indicate a titolo esemplificativo; è questo il caso mentre la materia urbanistica passa alle regioni in via residuale.
A fronte di tale clausola il ddl ne introduce un'altra cosiddetta «di supremazia» in base alla quale la legge statale, su proposta del governo che se ne assume, dunque, la responsabilità, può intervenire su materie o funzioni che non siano di competenza legislativa esclusiva dello stato, allorché lo richiedano esigenze di tutela dell'unità giuridica o economica della repubblica, o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (cfr. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”).
Segue da ciò che in questa materia non occorre il previo invio della comunicazione di avvio del procedimento, peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990, n. 241.
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli abusi edilizi discende la non necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento.
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
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Ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo, senza che necessiti l’accertamento su chi abbia effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi, restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”.
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa, che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzato (cfr. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive realizzate su terreno demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione….”).

La sentenza sul punto merita di essere confermata.
E difatti:
- sull’illegittimità derivata, è sufficiente rinviare alle considerazioni sviluppate sulle censure relative al diniego di condono (v. sopra, p. 7.1. ss.);
- sul X e il XII motivo, riproposti ed esaminabili in maniera congiunta dato che riguardano, nella sostanza, vizi d’insufficiente motivazione, in primo luogo occorre precisare che l’ordine di rimozione delle opere abusive non solo richiama in modo esplicito il diniego di condono edilizio che ne costituisce il presupposto, ma consta di diverse pagine, nelle quali viene ricostruito l'iter che ha condotto l'Amministrazione a emanare il provvedimento in contestazione, con l’indicazione delle ragioni per le quali le opere in argomento sono state considerate illegittime, dell'attività istruttoria svolta, delle caratteristiche del chiosco e delle opere che compongono l'organismo edilizio da considerarsi nel suo complesso e in modo unitario –cosa che la sentenza non ha mancato di sottolineare (v. pag. 9)- e delle sanzioni applicate con le disposizioni di riferimento.
E’ comunque il caso di ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V, 11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), che “l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”);
- segue da ciò che in questa materia non occorre il previo invio della comunicazione di avvio del procedimento, peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (cfr. motivo sub XIII, su ordine di demolizione del battuto di cemento e asserita violazione dei diritti partecipativi).
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli abusi edilizi discende la non necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento (v., “ex multis”, Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734, ed ivi, indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In tema di applicazione del citato art. 21-octies, secondo comma, alle ingiunzioni di demolizione, e di “dequotazione” dei vizi formali del procedimento, che non incidono sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se quest’ultimo ha natura vincolata, v. Cons. Stato, IV, 13.03.2014, n. 1208, cui si rinvia anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma secondo, lett. d), Cod. proc. amm..
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto compiute sopra emerge che, anche in presenza di un formale avviso di avvio del procedimento riferito al “battuto di cemento”, il contenuto finale dell’ordinanza emanata, stante il carattere unitario delle opere, da considerare nel loro complesso, come è stato puntualmente rilevato in sentenza (v. fine pag. 14), non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato, tenuto conto della “modificazione del territorio per l’innanzi inedificato” conseguente alla realizzazione del “battuto di cemento” (v. sent. cit.), eseguito per poter installare le opere abusive oggetto del diniego di condono. Inoltre l’appellante non fornisce alcuna indicazione sul contenuto specifico delle osservazioni, pertinenti all’oggetto del procedimento, che avrebbe potuto presentare al Comune a questo riguardo;
- sub XI (ingiunzione di rimozione non preceduta dal parere della Commissione locale per il paesaggio), rilevato in via preliminare che l’art. 2, lett. e), della legge regionale Liguria 05.06.2009, n. 22 -Attuazione degli articoli 159, comma 1, 148 e 146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e successive modifiche e integrazioni, prevede che “le Commissioni esprimono pareri obbligatori in relazione ai procedimenti… e) di irrogazione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’articolo 167 del Codice”, ai fini del rigetto del motivo è decisivo osservare, prima di tutto, che la non conformità edilizia dell’opera costituisce ragione che sorregge in via autonoma la sanzione urbanistica demolitoria, e in secondo luogo che il cenno all’art. 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio contenuto nelle premesse dell’ordine di rimozione è del tutto marginale alla luce dell’“impianto motivazionale complessivo" sul quale si basa il provvedimento medesimo, il quale si concreta in un ordine di demolizione senza che sia contemplata, per converso, alcuna misura rivolta alla tutela diretta di profili di carattere paesaggistico.
Infine, come è stato ricordato sopra, al p. 7.2., cui si rinvia, la Commissione locale per il paesaggio si era espressa –in modo legittimo- in sede consultiva sull’istanza di condono: di qui la condivisibilità di argomentazioni e statuizioni della sentenza sul punto, sembrando evidente il carattere “pleonastico e sovrabbondante” di un parere aggiuntivo della Commissione.
7.5. Da tutte le considerazioni su esposte e a fronte della legittimità dei provvedimenti impugnati non residua alcun margine per accogliere la richiesta di risarcimento dei danni, reiterata con l’appello.
8. Come si è accennato sopra, ai punti 2. e 4., il Comune ha proposto appello in via incidentale contestando la sentenza nella parte in cui, in accoglimento del motivo aggiunto, ha disposto l’annullamento dell’ordine di rimozione delle opere per cui è causa in quanto rivolto alla signora El.Mi. quale legale rappresentante della Ra. s.a.s., poiché “il sistema sia del testo unico dell’edilizia sia della legge regionale 16/2008 contempl(a) come unico destinatario dell’ordine di demolizione dell’abuso realizzato su aree demaniali o di enti pubblici il responsabile dell’abuso (art. 35 d.p.r. 380/2001 e art. 51 l.r. 16/2008) (sicché, secondo il Tribunaleamministrativo,) accertata la sostanziale estraneità della ricorrente alla realizzazione dell’abuso l’amministrazione non poteva ingiungere la demolizione dell’opera nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e repressione dell’abusivismo edilizio…” (v. pag. 15 sent.).
L’appello incidentale è fondato e va accolto.
Il motivo aggiunto proposto in primo grado andava respinto.
In modo legittimo l’ordine di rimozione risulta impartito alla signora Mi., quale legale rappresentante della Ra., vale a dire al soggetto che ha la disponibilità materiale del manufatto abusivo e al quale spetta di rimuovere l’opera, quantunque sia incontroverso che il chiosco non sia stato materialmente realizzato dalla Mi..
L’appellata in via incidentale sostiene di non essere né proprietaria, né responsabile dell’esecuzione dell’opera da rimuovere realizzata, come detto, su area demaniale.
Ora, il Collegio non ignora che l’art. 31, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, prevede che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali ingiunge “al proprietario e al responsabile dell'abuso” la rimozione o la demolizione. La norma si riferisce alle opere realizzate su area privata. E che l’art. 35 del t.u. n. 380 del 2001, invece, nel disciplinare il caso specifico degli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, dispone che il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina “al responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo. In altre parole al proprietario deve solo essere data comunicazione dell’ordine.
Né s’ignora che la legge regionale della Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina dell'attività edilizia), all’art. 51, intitolato “interventi abusivi realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici”, richiamato nelle premesse dell’ordine di rimozione, dispone che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti privati, di interventi in assenza di permesso di costruire o di DIA obbligatoria o alternativa al permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al responsabile dell'abuso la demolizione o il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell'articolo 56, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo”.
Il Collegio anzitutto rileva -coerentemente al costante orientamento giurisprudenziale in tema di c.d. sanzioni edilizie, e quale che sia il riferimento normativo tra i testé ricordati- la natura reale delle misure ripristinatorie in questione, tese alla oggettiva reintegrazione dell’ordine violato: dunque tali da prescindere dall’imputazione soggettiva del comportamento di realizzazione dell’abuso, e da seguire la titolarità del bene anche nei passaggi successivi al momento della realizzazione.
Ritiene coerentemente il Collegio che, ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo, senza che necessiti l’accertamento su chi abbia effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi, restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate” (così il Comune, in modo condivisibile).
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa, che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzato (conf. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive realizzate su terreno demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione….”).
Da ciò discende la riforma, in parte qua, della sentenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: In materia di cartelloni pubblicitari posti sul muro di recinzione del campo sportivo comunale.
Ogni qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
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La realizzazione o l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti,
da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza,
il «campo sportivo» di cui è titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della collettività locale);
-
la regola della necessità del rilascio di una concessione –perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato dei luoghi– si applica pure quando si tratti della collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non è regolata soltanto alle disposizioni del codice della strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del 1993), per effettuare la quale non è sufficiente la presentazione della relativa domanda, dovendosi, al riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente,
anche l'esercizio del potere di ritiro dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di interesse legittimo.
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Il Comune ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli impianti», entro un fissato termine, perché non risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto di «comodato»:
un tale contratto non può essere giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale, peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una norma giuridica e sussistano i relativi presupposti, dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie,
la richiesta di restituzione dell’area occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa, risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del Comune, sicché va rilevata la sussistenza della giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente alla gestione del bene pubblico.
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Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla superficie della minima figura piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso.

L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte della società appellata non può quindi rilevare come titolo per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n. 507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione, l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art. 9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato, che individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità e, quindi, all'uso generalizzato.
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso anche del muro di cinta.
E comunque
il fatto che il Comune non abbia richiesto preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a percepire quanto spettante).
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Spettano alla giurisdizione del giudice ordinario non solo le controversie relative al canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
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In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari, dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che costituisce una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima, mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative al canone per la concessione di spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari.
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione di delibere comunali di determinazione delle tariffe relative agli impianti pubblicitari,
va ritenuto che sulla domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad ottenere la condanna della società di cui trattasi ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo competente riguardo alla pretesa in esame il giudice ordinario.

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1.- Il Responsabile dell'Ufficio Economico Finanziario del Comune di Ponte San Pietro, con nota prot. 8970 del 10.04.2002, ha comunicato alla s.p.a. IGPDECAUX Affissioni che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati da tre cartelli pubblicitari e da tre pannelli luminosi siti nel Comune, alla via Trento e Trieste, la cui installazione era stata autorizzata con atti prot. 5597 del 13.07.1982, prot. 6942 del 04.12.1987 e prot. 3033 del 19.04.1991, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli impianti» (concedendo per l’incombente un termine di tre mesi), dal momento che non risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree, assegnate in comodato (come sarebbe stato comprovato dalla circostanza che non risultavano pagamenti a favore del Comune per l’utilizzo dello spazio in questione).
2.- La società ha proposto il ricorso di primo grado, chiedendo l’annullamento di tale provvedimento e per il risarcimento del danno al TAR Lombardia, sezione di Brescia, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa del Comune ed ha accolto il ricorso, ritenendo che il Comune, non avendo chiesto alcun corrispettivo per l’uso del bene nel periodo dall’anno 1982 all’anno 2002, aveva dimostrato di avere costantemente interpretato le autorizzazioni all’affissione dei cartelli pubblicitari come comprensive della fruizione del muro di cinta del campo sportivo comunale.
Il TAR ha inoltre respinto la domanda riconvenzionale, proposta dal Comune.
3.- Con il ricorso in appello in esame, il Comune di Ponte San Pietro ha chiesto la riforma della sentenza del TAR, deducendo i seguenti motivi: ...
...
9.1.- Osserva la Sezione che, al fine di accertare se con il provvedimento impugnato il Comune abbia inteso esercitare prerogative di natura privata o pubblica, va innanzi tutto rilevato che l'art. 133, comma 1, lett. b), del c.p.a., nell'elencare le materie oggetto giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sottrae alla sua cognizione esclusivamente le controversie concernenti «indennità, canoni ed altri corrispettivi» e quelle attribuite ai Tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche; di conseguenza (posto che appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie di natura meramente patrimoniale),
ogni qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
Ciò posto, va osservato che
la realizzazione o l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti,
da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 04.11.1994, n. 1257),
il «campo sportivo» di cui è titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della collettività locale);
-
la regola della necessità del rilascio di una concessione –perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato dei luoghi– si applica pure quando si tratti della collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non è regolata soltanto alle disposizioni del codice della strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del 1993), per effettuare la quale non è sufficiente la presentazione della relativa domanda, dovendosi, al riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente,
anche l'esercizio del potere di ritiro dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 17.06.2015, n. 3066).
Non rileva invece esaminare quale sia l’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 11, del codice della strada, che riguarda lo specifico caso di opposizione alla sanzione amministrativa e alla conseguente misura della rimozione di un impianto abusivo (e che non è suscettibile di applicazione analogica, risultando una norma eccezionale, di deroga al principio attualmente sancito dall’art. 7 del codice del processo amministrativo, per il quale i provvedimenti espressione di un potere pubblicistico sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo).
Nel caso di specie con l’atto impugnato il Comune ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli impianti», entro un fissato termine, perché non risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto di «comodato»:
un tale contratto non può essere giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale, peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una norma giuridica e sussistano i relativi presupposti, dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie,
la richiesta di restituzione dell’area occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa, risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del Comune, sicché va rilevata la sussistenza della giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente alla gestione del bene pubblico.
Va respinto dunque il primo motivo d’appello.
10.- Con il secondo motivo di gravame, il Comune ha lamentato l’erroneità della sentenza appellata, nella parte in cui essa ha argomentato nel senso che le autorizzazioni a suo tempo rilasciate erano titoli idonei ad escludere la natura abusiva delle affissioni, come risulterebbe anche dal fatto che non è stato chiesto alcun corrispettivo per l’uso del muro di cinta del campo sportivo, per il periodo dall’anno 1982 all’anno 2002.
Ad avviso dell’appellante, il TAR avrebbe sovrapposto due piani da tenere invece distinti (cioè il profilo delle autorizzazioni amministrativa all’esposizione e alla diffusione di messaggi pubblicitari e quello della fruizione di aree e di immobili di proprietà pubblica, ma non destinati all’utilizzazione pubblica generalizzata) e non avrebbe tenuto conto dei principi riguardanti la necessità della forma scritta ad substantiam, quando si tratti di contratti con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, è dedotto che:
- l’area in questione, in quanto appartenente al patrimonio disponibile e quindi fruttifero, non sarebbe stata soggetta a concessione di suolo pubblico, dovendosi invece ritenere necessaria la stipula di un contratto, la cui mancanza evidenzierebbe la natura abusiva delle installazioni effettuate;
- contrariamente a quanto affermato dal TAR, il Comune non ha mai ‘autorizzato’ per facta concludentia la installazione;
- l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità (ai sensi del d.lgs. n. 507 del 1993) non rileva quale titolo per l’occupazione degli spazi in questione, risultando anche dovuta la tassa per l’occupazione di spazi e di aree pubbliche ovvero dei canoni di locazione o di concessione (ex art. 13, u.c., del medesimo d.lgs.), come previsto anche dall’art. 18 del Regolamento comunale per la pubblicità;
- il Comune fondatamente ha preteso il pagamento del corrispettivo per l’uso di fatto del bene.
10.1.- Ritiene la Sezione che il motivo è fondato, per la parte in cui ha dedotto l’infondatezza delle censure formulate in primo grado, avverso il provvedimento di autotutela.
Vanno previamente respinte le deduzioni con cui il Comune ha dedotto che per l’utilizzo del bene in questione sarebbe stata necessaria la stipula di un contratto: come si è sopra rilevato in sede di reiezione della deduzione per cui non sussisterebbe la giurisdizione amministrativa,
il provvedimento a suo tempo emesso va qualificato come concessione (di utilizzo) di un bene pubblico.
Quanto alla deduzione sulla spettanza di un corrispettivo per l’uso del bene, il collegio ritiene che, alle considerazioni sopra riportate, vadano aggiunte quelle dopo esposte in occasione dell’esame della domanda riconvenzionale, formulata dal Comune innanzi al TAR.
Risulta invece fondata la deduzione del Comune, secondo cui l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità dovrebbe far considerare insussistente il presupposto (l’occupazione senza titolo) che ha condotto all’emanazione dell’atto impugnato in primo grado.
L'art. 3, comma 149, lettera g), della legge n. 662 del 1996 ha attribuito ai Comuni la «facoltà, con regolamento, di escludere l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità», di cui al d.lgs. n. 507 del 1993, e «di individuare le iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o sull'ambiente prevedendo per le stesse un regime autorizzatorio e l'assoggettamento al pagamento di una tariffa», nonché la «possibilità di prevedere, con lo stesso regolamento, divieti, limitazioni e agevolazioni e di determinare la tariffa secondo criteri di ragionevolezza e di gradualità, tenendo conto della popolazione residente, della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e delle caratteristiche urbanistiche delle diverse zone del territorio comunale».
L'art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 disciplina l'attività regolamentare dei Comuni in materia di entrate proprie; il seguente art. 54 abilita il Comune a fissare le tariffe e i prezzi pubblici ai fini dell'approvazione del bilancio di previsione e il successivo art. 62 (riproducendo in sostanza la disposizione della l. n. 662 del 1996 sopra richiamata) affida ai Comuni il compito di disciplinare con proprio regolamento il nuovo regime autorizzatorio in materia di pubblicità con il pagamento di un canone in base a tariffa, facendo riferimento -per quel che riguarda la «individuazione della tipologia dei mezzi di effettuazione della pubblicità esterna che incidono sull'arredo urbano o sull'ambiente»- alle disposizioni del codice della strada n. 285 del 1992 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 495 del 1992); nella stessa disposizione è previsto che il regolamento debba disciplinare le «procedure per il rilascio e per il rinnovo dell'autorizzazione», indicare le «modalità di impiego dei mezzi pubblicitari», determinare la tariffa con criteri di ragionevolezza e gradualità in relazione agli indicati parametri, nonché che possa fissare «con carattere di generalità divieti, limitazioni e agevolazioni» (al comma 3); prevede infine (al comma 4) che il Comune procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari privi di autorizzazione o installati in difformità da essa.
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla superficie della minima figura piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte della società appellata non può quindi rilevare come titolo per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n. 507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione, l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art. 9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato, che individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità e, quindi, all'uso generalizzato (Cassazione civile, sez. trib., 27.07.2012, n. 13476).
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso anche del muro di cinta.
E comunque
il fatto che il Comune non abbia richiesto preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a percepire quanto spettante).
Deve in conclusione ritenersi la legittimità dell’ordine di restituzione dell'area con contestuale rimozione degli impianti.
10.2. Né, comunque, un titolo concessorio si sarebbe potuto ritenere sussistente anche nel caso di effettivo pagamento delle somme di cui il Comune lamenta la mancata corresponsione, poiché il pagamento di tali importi non sarebbe stato comunque equipollente al rilascio del necessario provvedimento espresso, abilitativo dell’uso dell’impianto.
10.3. Considerato che non sono state ritualmente riproposti nel giudizio di appello, entro il termine per la costituzione in giudizio, da parte della IGPDECAUX Affissioni s.p.a., i motivi di ricorso di primo grado dichiarati assorbiti dal primo giudice, nei limiti sopra esposti l’appello va accolto e va conseguentemente respinto il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio, perché infondato.
11.- Con il terzo motivo d’appello, il Comune ha riproposto la domanda riconvenzionale respinta dal TAR, chiedendo, ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, la condanna della società ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’affitto degli spazi in questione ed ammontante, come risulta da una certificazione del responsabile del Settore finanziario del Comune del 03.04.2003, a circa € 1.277 per l’occupazione dello spazio con un cartello pubblicitario di dimensioni pari a mt. 6x3.
Tenuto conto che l’area in questione è stata occupata con sei cartelli pubblicitari di tali dimensioni, ad avviso del Comune il canone annuo da corrispondere all’Amministrazione ammonterebbe ad € 7.662, da moltiplicare per il numero di anni di occupazione abusiva, “allo stato” pari a 20, per una somma complessiva di € 153.240,00, oltre i relativi accessori.
Con una memoria depositata il 28.05.2015, il Comune ha quantificato l’importo dovuto dalla società in € 229.860,00, oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni annualità.
11.1.- Al riguardo la società appellata ha eccepito l’inammissibilità della domanda formulata in primo grado, tra l’altro, per difetto di giurisdizione, poiché le controversie relative al pagamento dei canoni di concessione di beni pubblici, come quelle inerenti alle pretese creditorie dell’Amministrazione per occupazioni, anche senza titolo, di beni pubblici, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario; ciò a nulla valendo la valenza riconvenzionale della richiesta, sia perché, ex art. 36 del c.p.c., essa non comporterebbe deroga alla giurisdizione del giudice adito e sia perché sarebbe precluso dal criterio di riparto l’ottenimento in via riconvenzionale di una pronuncia del giudice amministrativo preclusa in caso di azione principale (a nulla valendo la pretesa del Comune di qualificare il dedotto mancato pagamento in termini di indebito arricchimento).
11.2.- Osserva in proposito il collegio che, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti «indennità, canoni ed altri corrispettivi» (sull’ambito di applicazione della medesima lettera c), cfr. Cons. di Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 247).
In generale le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di carattere meramente patrimoniale, che derivano dall'attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è stato esercitato un potere autoritativo a tutela di interessi generali; va, invece, riconosciuta la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo quando la controversia coinvolga l'esercizio di poteri discrezionali previsti da una norma giuridica e inerenti alla determinazione del canone, dell'indennità o di altro corrispettivo, ovvero investa l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che incidono sull'economia dell'intero rapporto concessorio, e non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali dello stesso e la quantificazione delle somme.
Con particolare riguardo ai canoni comunali sulla pubblicità, la Corte Costituzionale, con sentenza 21.01.2010 n. 18, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248 del 2005 (censurato, in riferimento all'art. 102, comma 2, ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie attinenti il canone comunale sulla pubblicità).
In tema di riparto di giurisdizione (a seguito della sentenza n. 64 del 2008, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art. 103 Cost. e VI disp. att. Cost., dell'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lett. b, d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l. n. 248 del 2005)
spettano alla giurisdizione del giudice ordinario non solo le controversie relative al canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari (Cassazione civile sez. un. 16.04.2009 n. 8994).
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari, dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che -come ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 2009- costituisce una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima, mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative al canone per la concessione di spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari (Cassazione civile, sez. un., 07.05.2010, n. 11090).
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione di delibere comunali di determinazione delle tariffe relative agli impianti pubblicitari,
va ritenuto che sulla domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad ottenere la condanna della società di cui trattasi ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo competente riguardo alla pretesa in esame il giudice ordinario.
Resta conseguentemente assorbita l’eccezione formulata dalla costituita società di irricevibilità della domanda in questione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto in parte e per l’effetto, in riforma della decisione sentenza del TAR, va respinto il ricorso introduttivo del giudizio.
La domanda riconvenzionale riproposta in questa sede dal Comune appellante deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2015 n. 4857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti, protocolli limitati. Non è possibile bloccare i subappalti e le intese con altri partecipanti.
Corte Ue. Nelle gare l’uso preventivo degli «impegni» di legalità non confligge con i principi comunitari.
Va promosso, ma con cautela, l’uso dei protocolli di legalità negli appalti.
La Corte di giustizia Ue, con la sentenza 22.10.2015 - C-425/14, da una parte riconosce la correttezza dell’introduzione dell’obbligo di accettazione come condizione di ammissione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto; dall’altra, però, invita a calibrarne con attenzione i contenuti, andando oltre la necessità per prevenire condotte collusive.
I fatti al centro della causa sottoposta alla Corte risalgono al 2013, quando la Soprintendenza ai beni culturali di Trapani ha affidato a due società un appalto pubblico di lavori del valore di oltre due milioni di euro per il restauro degli antichi templi greci in Sicilia. A causa dell’impugnazione presentata dalla società arrivata al secondo posto al termine della gara (aperta anche a società straniere), l’Amministrazione ha annullato l’aggiudicazione e ha affidato l’appalto alla società ricorrente.
L'Amministrazione ha motivato l’annullamento (e quindi l'esclusione delle due società inizialmente aggiudicatarie) con il mancato deposito, assieme all’offerta, dell'accettazione del protocollo di legalità, accettazione prevista come propedeutica alla partecipazione alla gara. Secondo il protocollo, il partecipante alla gara si doveva impegnare espressamente a tenere una serie di comportamenti in caso di aggiudicazione dell’appalto: egli avrebbe dovuto, ad esempio, impegnarsi a informare l’amministrazione sullo stato di avanzamento dei lavori e sulle modalità di selezione dei subappaltatori; comunicare alle Autorità eventuali irregolarità; cooperare con la polizia; denunciare tutti i tentativi di influenza di natura illecita.
Il candidato, inoltre, doveva dichiarare espressamente: di non trovarsi in un rapporto di controllo o associazione (di diritto o di fatto) con altri concorrenti; di non avere stipulato né di stipulare in futuro alcun accordo con altri partecipanti alla procedura di gara; di non subappaltare in futuro qualsiasi tipo di opera o servizio ad altre imprese partecipanti alla gara; di impegnarsi a rispettare i principi di lealtà, integrità e trasparenza; di non avere concluso né di concludere in futuro, con gli altri partecipanti alla gara, accordi volti a limitare o impedire la concorrenza. La vicenda giudiziaria si è trascinata sino al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, che ha sollevato una questione pregiudiziale davanti alla Corte Ue.
La Corte ha chiarito che la disciplina italiana non contrasta con i principi comunitari e che è legittima l’esclusione delle imprese che non depositano, insieme all’offerta, l’accettazione di un protocollo indirizzato a evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata e le conseguenti distorsioni della concorrenza. Quanto ai tempi, l’obbligo di accettazione preventiva non fa che anticipare la tutela della legalità e scoraggiare fenomeni criminali.
Tuttavia, la giustificazione viene meno se il protocollo contiene dichiarazioni secondo cui il candidato o l’offerente non è in rapporto di controllo o associazione con altri candidati od offerenti; non ha concluso né concluderà accordi con altri partecipanti alla gara; non subappalterà prestazioni di qualunque tipo ad altre società partecipanti alla procedura. In questi casi i mezzi utilizzati dal legislatore vanno al di là di quanto necessario a prevenire comportamenti collusivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
... Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
Le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE, segnatamente i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale un’amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta, un’accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici.
Tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o l’offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l’assenza di siffatte dichiarazioni non può comportare l’esclusione automatica del candidato o dell’offerente da detta procedura.

APPALTI: Sulla rimessione all'Adunanza Plenaria di due quesiti di diritto in tema di DURC: il primo sulla giurisdizione e l'altro sulla definitività dell'irregolarità contributiva.
Stante i contrasti giurisprudenziali in tema di documento unico di regolarità contributiva (DURC) il Consiglio di Stato ha rimesso all'esame dell'Adunanza Plenaria i seguenti quesiti di diritto:
a) "
Se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara".  
b) "
Se la norma di cui all'art. 31, comma 8, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni, nella l. 09.08.2013, n. 98, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva".
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II.- Ritiene la Sezione che il presente giudizio sollevi questioni di diritto che meritano di essere deferite all’esame dell’Adunanza Plenaria.
II.1.- Anzitutto, il primo motivo dell’appello principale solleva la questione dei limiti entro i quali sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di legittimità del d.u.r.c..
L’art. 76, comma 4, del c.p.a. e l’art. 276, comma 2, del c.p.c. stabiliscono che, nella decisione della causa, il giudice procede secondo un ordine che antepone le questioni pregiudiziali a quelle di merito, sicché, poiché la questione di giurisdizione costituisce il necessario presupposto processuale della domanda ed il fondamento imprescindibile della potestas iudicandi del giudice adito, essa deve essere esaminata in via necessariamente prioritaria ogniqualvolta venga posta in discussione, al fine di consentire la riproposizione della domanda completamente impregiudicata davanti al giudice al quale spetta la giurisdizione sulla controversia (Consiglio di Stato, sez. V, 31.03.2015, n. 1684).
Secondo la parte appellante non sarebbe condivisibile la sentenza appellata, che ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo sulla questione oggetto del giudizio, sul presupposto che la controversia non riguarda la «gravità» della irregolarità accertata, ma il suo carattere definitivo, costituendo la relativa attestazione contenuta nel d.u.r.c. un requisito da valutarsi in sede di verifica dei requisiti di partecipazione, impugnabile unitamente al provvedimento conclusivo della procedura.
Il d.u.r.c. negativo emesso dall’I.N.P.S. avrebbe infatti natura di «dichiarazione di scienza avente carattere meramente dichiarativo» di dati in possesso dell’Ente previdenziale, assistita da pubblica fede ai sensi dell’art. 2700 del c.c. e facente prova fino a querela di falso, con giurisdizione del giudice ordinario sulle censure relative alle attestazioni in esso contenute.
II.1.1.- In proposito rileva il collegio che si sono formati due orientamenti giurisprudenziali nettamente contrastanti.
II.1.2.- A favore della tesi sostenuta dal giudice di primo grado, si sono pronunciate la sezione V del Consiglio di Stato (con le sentenze 16.02.2015, n. 781, 14.10.2014, n. 5064, ed 11.05.2009, n. 2874), nonché la sezione VI (con la sentenza 04.05.2015, n. 2219), rilevando che rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, l’accertamento della regolarità del documento di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara (in quanto tale impugnabile non autonomamente, ma unitamente al provvedimento conclusivo), poiché in questo caso tale documento inerisce al procedimento amministrativo di aggiudicazione di un appalto.
Anche la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza 09.02.2011, n. 3169, ha affermato che la produzione della certificazione attestante la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara, sicché il giudice amministrativo ben può verificare la regolarità di tale certificazione, sia pure incidenter tantum, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale, ai sensi dell'art. 8 del c.p.a..
In particolare, con la citata sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 2874 del 2009, è stato rilevato che non sussiste la violazione degli artt. 442, comma 1, e 444, comma 3, del c.p.c., devolutivi alla giurisdizione ordinaria delle controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro e all'applicazione delle sanzioni civili per l'inadempimento di tali obblighi, poiché è diverso lo scrutinio compiuto dal giudice ordinario sui diritti previdenziali del lavoratore che si assumono violati, rispetto al sindacato effettuato dal giudice amministrativo sul loro corretto adempimento, attestato dal certificato di regolarità contributiva che le imprese affidatarie di un appalto pubblico devono presentare alla stazione appaltante, a pena di esclusione.
Nell'accertare il mancato versamento di contributi dovuti all'Ente di previdenza, lo scrutinio del giudice ha per oggetto la sussistenza del diritto del lavoratore dipendente alla contribuzione in relazione all'attività prestata ed al diritto al trattamento di quiescenza, mentre, nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica, oggetto di indagine del giudice è la mera regolarità della certificazione prodotta attestante la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto, che rappresenta un requisito della normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 11.12.2007, n. 25818).
La sussistenza di tale giurisdizione può peraltro desumersi dalla natura che può essere attribuita al provvedimento dell’ente previdenziale, di per sé conclusivo di un procedimento, ma per sua natura decisamente rilevante nell’ambito di un procedimento diverso.
Non è l’unico caso, peraltro, in cui nel nostro ordinamento vi è il decisivo rilievo di un atto emesso in un procedimento autonomo, poiché i provvedimenti conclusivi delle gare d’appalto –a loro volta– non possono che prendere in considerazione le risultanze dei provvedimenti emessi in tema di certificazioni antimafia.
Sotto tale aspetto, negare la sussistenza della giurisdizione amministrativa significherebbe ridurre significativamente l’effettività della tutela, spettante all’impresa che fondatamente lamenti l’illegittimità dell’atto dell’ente previdenziale, in ragione del mancato potere del giudice amministrativo di annullare l’atto lesivo, inerente alla gara, per un vizio derivato dal vizio di un provvedimento posto a sua base.
II.1.3.- Vi è tuttavia un opposto orientamento giurisprudenziale che esclude la giurisdizione del giudice amministrativo nella materia de qua, sostanzialmente per le ragioni poste dalla società appellante a sostegno delle sue censure.
Con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2015, n. 1321, è stato infatti affermato che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia deve escludersi in base ai principi affermati dalla sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 04.05.2012, n. 8.
Tale sentenza, in base all’esame dei momenti essenziali della disciplina de qua (competenza tecnica degli enti previdenziali in merito alla valutazione della gravità o meno delle violazioni previdenziali; natura del d.u.r.c. quale documento pubblico certificante ufficialmente la sussistenza o meno della regolarità contributiva, da ascrivere al novero delle dichiarazioni di scienza, assistite da fede pubblica privilegiata, ai sensi dell'art. 2700 del c.c., e facenti piena prova fino a querela di falso; impossibilità per le stazioni appaltanti di valutare la gravità o meno delle violazioni previdenziali; rinvio del codice degli appalti alle valutazioni di gravità degli altri settori dell'ordinamento; vincolo per le stazioni appaltanti alle valutazioni dei competenti enti previdenziali), ha espresso il principio di diritto per cui «la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto».
La sentenza n. 1321 del 2015 ha rilevato che le precedenti osservazioni inducono ad escludere la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di valutazione del d.u.r.c., perché gli eventuali errori contenuti in detto documento involgono posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo e possono essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito della proposizione di una querela di falso, o a seguito di una ordinaria controversia in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria: oggetto di valutazione ai fini del rilascio del certificato sarebbe così la regolarità dei versamenti, ed in questo ambito ciò che viene in rilievo non sarebbe un rapporto pubblicistico, ma un rapporto obbligatorio previdenziale di natura privatistica sul quale non inciderebbero direttamente o indirettamente poteri pubblicistici (in senso conforme si è pronunciata anche la sezione V del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.05.2013, n. 2682).
Per la sentenza n. 1321 del 2015, non rileva il richiamo alla natura esclusiva della giurisdizione amministrativa in materia di affidamento di appalti pubblici, in quanto l'ampiezza della cognizione si allargherebbe a coprire non solo i fatti ed i diritti da conoscere incidenter tantum, ma anche i fatti ed i diritti inerenti ad un «accertamento fidefacente», riservati alla cognizione in via principale del giudice ordinario.
In tali sensi si sono pure espresse la sezione V del Consiglio di Stato, con le sentenze 26.03.2014, n. 1468, e 03.02.2011, n. 789, nonché la sezione IV, con la sentenza 12.03.2009, n. 1458, rilevando che ciò che viene in rilievo non è un rapporto pubblicistico, ma un rapporto obbligatorio previdenziale di natura privatistica.
II.1.3.- Alla luce delle considerazioni che precedono, deve, quindi rimettersi all’esame dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., la seguente questione di diritto, fonte dei sopra evidenziati contrasti giurisprudenziali sorti in giurisprudenza: a) "
Se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara”.
II.2.- Nell’ipotesi in cui la Adunanza Plenaria si pronunci nel senso che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nella materia de qua, si prospetta come dirimente nel caso in esame, ai fini della decisione del merito, una ulteriore problematica che pure deve rimettersi al suo esame, a causa del contrasto giurisprudenziale che è sorto al riguardo.
II.3.- Con la sentenza impugnata, è stato accolto il profilo di doglianza con il quale la s.r.l. Cooperativa Sociale Onlus Segni di Integrazione aveva dedotto l’illegittimità del d.u.r.c. per il mancato invito della società ricorrente a sanare la propria posizione contributiva, previa assegnazione di un termine di quindici giorni, ai sensi del citato art. 31, comma 8, del d. l. n. 69 del 2013, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
II.3.1.- Il TAR, richiamato il contrasto giurisprudenziale formatosi al riguardo, ha ritenuto che tale mancanza determinerebbe la violazione delle norme pubblicistiche che regolano lo svolgimento delle gare pubbliche.
Il TAR ha aderito all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale è illegittima l’esclusione della concorrente dalla gara d’appalto, se disposta prima dello spirare del termine quindicinale fissato dal citato art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013, in quanto, stante il carattere vincolante del d.u.r.c. quanto alla gravità della irregolarità rilevata (che si impone alla s.a. senza possibilità di vagliarne il contenuto), la irregolarità eventualmente commessa potrebbe essere attestata e definitivamente accertata solo dopo che la parte interessata sia stata invitata a regolarizzare la propria posizione ai sensi del comma 8 dell’art. 31 citato.
Pertanto, il requisito della regolarità contributiva dovrebbe essere valutato con riferimento non al momento di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura di gara, ma al momento di scadenza del termine fissato dal medesimo art. 31, comma 8.
II.3.2.- Con l’atto d’appello principale, come già evidenziato, è stato sostenuto in proposito che l’art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013 non avrebbe introdotto alcuna espressa modifica del d.lgs. n. 163 del 2006, dovendosi anche considerare che l’art. 255 del medesimo d.lgs. ha stabilito che ogni intervento normativo incidente sul codice o sulle materie da esso disciplinate va attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute.
L’applicazione dell’art. 31, comma 8, non potrebbe essere estesa sino a ritenere abrogato implicitamente l’art. 38 del d.lgs n. 163 del 2006.
Il comma 8 potrebbe trovare applicazione solo nei casi in cui l’Ente previdenziale si trovi ad emettere un d.u.r.c. o un documento attestante l’attuale situazione contributiva di un soggetto, ma non nell’ipotesi in cui sia stata richiesta la certificazione di un dato storico.
L’interpretazione della normativa data dal TAR non troverebbe giustificazione nella necessità di consentire la massima partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici (perché in tal modo verrebbe sanata la posizione delle società che in sede di offerta abbiano certificato la propria regolarità contributiva, in realtà insussistente) e violerebbe sotto diversi profili il principio di evidenza pubblica di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e quello della par condicio tra le concorrenti, nonché determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti degli operatori economici stabiliti in Stati diversi dall’Italia.
Solo in caso di contenzioso giudiziario sulla regolarità del d.u.r.c. l’attestazione in esso contenuta, ex art. 8, comma 2, lett. b), del d.m. 24.10.2007, sarebbe considerabile come ‘non definitiva’.
Simili considerazioni sono state effettuate con l’appello incidentale della Provincia di Verona.
II.3.3.- Rileva il collegio che anche in proposito coesistono due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
II.3.4.- Nel senso fatto proprio dalla sentenza appellata si è pronunciata la sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza 14.10.2014, n. 5064, con la quale, premesso che con sentenza n. 8 del 2012 l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha attribuito al d.u.r.c. carattere vincolante quanto al diverso requisito della ‘gravità’ dell'irregolarità contributiva (che si impone alle stazioni appaltanti che non possono sindacarne il contenuto), è stato affermato che a diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riguardo al requisito del carattere ‘definitivo’ di dette irregolarità, richiesto dalla normativa in materia in aggiunta a quello della ‘gravità’ delle stesse.
Infatti, in base al comma 3 dell’art. 7 del d.m. Lavoro e Previdenza Sociale 24.10.2007 (relativo appunto al documento unico di regolarità contributiva), l'Ente previdenziale è obbligato ad invitare l'impresa a regolarizzare la propria posizione in caso di mancanza dei requisiti di cui all'art. 5. Inoltre, la necessità del previo invito alla regolarizzazione è stato recepita, a livello di legislazione primaria, dall'art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013, costituente la conferma di un preciso indirizzo di politica legislativa volto a favorire la massima partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici; pertanto la stazione appaltante è tenuta a procedere ad accertare in via autonoma la sussistenza di una irregolarità definitiva del rapporto previdenziale e non già limitarsi ad una presa d'atto della irregolarità.
Con la successiva sentenza 16.02.2015, n. 781, la medesima sezione V ha aggiunto che non rilevavano nella specie i principi affermati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 8 del 2012, in quanto il d.l. n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, in l. n. 98 del 2013, ha sostanzialmente modificato l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, laddove stabilisce che il requisito della regolarità contributiva deve sussistere alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura concorsuale e, in base a quanto stabilito dall'art. 31, comma 8, del d.l. stesso, il requisito della regolarità contributiva deve sussistere al momento di scadenza del termine di quindici giorni assegnato dall'Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva.
Per quest’ultima sentenza, in assenza della assegnazione del termine, il d.u.r.c. negativo è da ritenersi irrimediabilmente viziato ed inidoneo a giustificare la esclusione della impresa cui è relativo, in quanto non si verte in materia di sindacabilità del suo contenuto da parte della stazione appaltante, ma di definitività dell’accertamento della violazione.
Anche la sezione III del Consiglio di Stato, con la sentenza 01.04.2015, n. 1733, ha ritenuto che, qualora in pendenza del termine assegnato dall'ente previdenziale per la regolarizzazione, ai sensi dell'art. 31, comma 8, del d.l. 69 del 2013, venga presentata la domanda di partecipazione alla gara e venga effettuato il pagamento di quanto dovuto o comunque la situazione di irregolarità venga altrimenti estinta, la situazione di irregolarità dell'impresa non può dirsi ‘definitivamente accertata’; in tali casi, la stazione appaltante deve tener conto di detta qualificazione giuridica, che discende direttamente dalla norma, e dell'effetto di regolarizzazione verificatosi in corso di gara ai fini del giudizio definitivo sull'ammissione dell'offerta e dell'eventuale aggiudicazione.
Ciò potrebbe essere effettuato integrando i modelli di dichiarazione posti a corredo della domanda di partecipazione, al fine di considerare l'eventuale esistenza di una fase di regolarizzazione e, comunque (anche qualora la circostanza emerga solo attraverso il contraddittorio con l'impresa in sede di verifica dei requisiti), acquisendo dall'Ente previdenziale una attestazione riferita alla data di scadenza del termine assegnato per la regolarizzazione.
II.3.5.- In senso del tutto diverso e sostanzialmente convergente con le tesi delle appellanti si è espressa invece la sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza 23.02.2015, n. 874, con la quale è stato sostenuto che l’art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013 riguarda l'Ente preposto al rilascio, o all'annullamento, del d.u.r.c., ma non concerne la stazione appaltante, e non può quindi pregiudicare la legittimità degli atti di gara.
Come chiarito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in tema di gare ad evidenza pubblica, ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le ‘gravi violazioni’ alle norme in materia previdenziale e assistenziale) la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale e in particolare dalla disciplina del d.u.r.c.; a tanto è stato fatto conseguire che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la P.A. è demandata agli Istituti di previdenza, le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto e a maggior ragione non possono sindacare la legittimità del d.u.r.c., che deve invece essere contestata dall'interessato in altra sede, con le forme e i mezzi previsti dall'ordinamento.
Nello stesso senso si è espressa la sezione VI con la sentenza 04.05.2015, n. 2219, con la quale -premesso che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti alle procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la P.A. è demandata agli Istituti di previdenza, le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono quindi sindacarne né il contenuto (come rilevato dalla sentenza della Adunanza Plenaria 04.05.2012, n. 8) né la legittimità, che deve essere contestata dall'interessato con le forme e i mezzi previsti dall'ordinamento- è stato affermato che l'art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013 –pur mirando a mitigare la rigidità di situazioni di irregolarità- non ha inciso sulle modalità di controllo della situazione contributiva da parte della stazione appaltante con riferimento alle gare pubbliche, né ha introdotto una sorta di sanatoria per l'impresa che anche al momento della scadenza del termine per la presentazione dell'offerta (e anche dopo) continui a non trovarsi in una situazione di regolarità contributiva.
Per tale orientamento, può anche considerarsi definitiva la irregolarità della posizione contributiva soltanto allo scadere del termine previsto per la sua regolarizzazione ai sensi del citato comma 8, ma sempre nel rispetto dei termini per presentare l'offerta per partecipare alla gara, in quanto l’interpretazione di favore non può far sostenere la avvenuta regolarità anche quando sia ormai scaduto ogni termine, pena la violazione dei principi di tutela dell'interesse pubblico alla scelta del contraente affidabile e della par condicio tra i concorrenti.
II.3.5.- Alla luce delle pregresse considerazioni, deve quindi rimettersi all’esame dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., la seguente ulteriore questione di diritto, rilevante ai fini della decisione della causa: a) “
Se la norma di cui all'art. 31, comma 8, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni, nella l. 09.08.2013, n. 98, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva” (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 21.10.2015 n. 4799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul giudizio di anomalia dell'offerta.
Il giudizio positivo di anomalia non richiede una specifica motivazione, mentre incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere, nel caso di specie non assolto, di individuare gli specifici elementi tesi a dimostrare che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.10.2015 n. 4796 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla rimessione alla Corte di Giustizia Ue di alcune questioni sul requisito dell'attività prevalente richiesto per un legittimo affidamento in house.
Nell'attuale quadro normativo nazionale non si rinviene una disposizione che indichi gli elementi costituivi di un ente in house e lo stesso legislatore in molteplici discipline settoriali (es. art. 1, comma 423, 533, 609 l. 190/2014) nel richiamare la nozione di ente in house rinvia all'ordinamento europeo per una sua corretta delimitazione.
Quanto al diritto europeo, "l'affidamento in house" è un istituto di origine giurisprudenziale per verificare quando vada necessariamente indetta una gara. Le direttive n. 2014/23/UE (art. 17), n. 2014/24/UE (art. 12), n. 2014/25/UE (art. 28) ne trattano gli elementi costitutivi, al fine di delimitare l'ambito di applicazione delle direttive sugli appalti e sulle concessioni. Tali direttive, però, non sono applicabili ratione temporis nel caso di specie, poiché -non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento- non può essere esaminato il loro carattere self-executing. Le previsioni in questione hanno comunque una rilevanza giuridica, pur minore rispetto al c.d. effetto diretto ovvero alla regola della "interpretazione giuridica conforme".
Infatti, in nome del principio di leale collaborazione, vi è un dovere di stand still, nel senso che il legislatore nazionale, nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, deve evitare qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato, così come il giudice deve evitare qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva.
Nessuna delle due ipotesi ricorre nel caso di specie, considerato che il requisito della cd. attività prevalente deve comunque essere definito sulla base del diritto dell'Ue vigente al tempo dell'adozione dell'atto impugnato, non essendo rinvenibile una normativa nazionale che chiarisca i termini entro i quali il suddetto requisito vada apprezzato, ma semplicemente una disciplina nazionale, l'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, che impone l'obbligo di affidare il servizio oggetto del presente contenzioso attraverso una gara pubblica, a meno che non ricorra tra amministrazione aggiudicatrice ed ente aggiudicatario una relazione in house, nell'accezione operante secondo il diritto dell'Ue.
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La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul cd. requisito della "attività prevalente" ha indicato quale elemento necessario per la sussistenza della relazione in house che l'ente controllato "realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano" (sentenza Teckal).
Successivamente, il requisito in questione è stato oggetto di un ulteriore chiarimento da parte della Corte di Giustizia nella sentenza cd. Carbotermo, che ha precisato che "si può ritenere che l'impresa in questione svolga la parte più importante della sua attività con l'ente locale che la detiene, ai sensi della menzionata sentenza Teckal, solo se l'attività di detta impresa è principalmente destinata all'ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale".
Non si rinvengono, invece, pronunce che chiariscano se tra gli affidamenti da valutare, al fine di ritenere integrato il requisito dell'"attività prevalente", debbano anche essere computati quelli che riguardino enti pubblici non soci, nel caso in cui l'attribuzione sia imposta da un provvedimento autoritativo proveniente da un'amministrazione pubblica diversa, nella specie dalla R. Abruzzo, che impone all'ente sospettato di relazione in house di svolgere attività di trattamento e smaltimento rifiuti a favore di comuni non soci.
Dal momento che le questioni pregiudiziali sollevate dall'appellante in ordine alla ricorrenza del requisito della prevalente attività svolta dalla società in house a favore del Comune, riguardano questioni relative all'interpretazione dei trattati, rilevanti al fine della decisione del giudizio, non già decise dalla Corte di giustizia e attratte nell'ambito di giurisdizione della medesima Corte di giustizia sussiste l'obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle seguenti questioni pregiudiziali:
a) "se, nel computare l'attività prevalente svolta dall'ente controllato, debba farsi anche riferimento all'attività imposta da un'amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci".
b) "se, nel computare l'attività prevalente svolta dall'ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo" (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 20.10.2015 n. 4793 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La previsioni contenute in un piano di lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni, danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita considerazione, nei limiti assentiti con il piano di lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione assentita
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Non è consentito pertanto ampliare singoli fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione solo a condizione del rispetto delle volumetrie preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima.
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3) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 873 e vizi di motivazione.
Muovendo dalla premessa che il Comune aveva autorizzato la realizzazione del complesso edilizio secondo un piano di lottizzazione con disposizione planovolumetrica derogatoria delle norme del regolamento edilizio, il ricorso sostiene che le costruzioni accessorie o le modifiche delle costruzioni iniziali dovrebbero essere assoggettate alle disposizioni in tema di distanze previste dal codice civile, in ossequio alla disposizione planovolumerica, che non era stata integrata da norme specifiche comunali.
Contesta pertanto che possa essere applicato il regolamento edilizio della zona semintensiva e sostiene che l'ampliamento della precedente veranda non mutava la natura accessoria dell'iniziale manufatto, da sottoporre al regime agevolato previsto per le costruzioni accessorie.
La censura non è fondata.
La previsioni contenute in un piano di lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni, danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita considerazione, nei limiti assentiti con il piano di lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione assentita
(cfr Cass. 5104/2009).
Non è consentito pertanto ampliare singoli fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione solo a condizione del rispetto delle volumetrie preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima (si veda su quest'ultimo punto Cass. 21578/2011; 74/2011).
4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo (SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi (Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A. (Cass. 9869/2015), ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.10.2015 n. 21119).

EDILIZIA PRIVATA: È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo.
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi.
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio.
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4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo (SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi (Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A. (Cass. 9869/2015), ma non può impedire l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.10.2015 n. 21119).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul risarcimento dei pregiudizi derivanti dalla lesione ai diritti della persona quali, oltre al diritto alla difesa e alla partecipazione procedimentale, quelli attinenti all’onore, alla reputazione e alla serenità psichica, compromessi dall’ingiusta condanna in sede penale in relazione all'adottato illegittimo atto amministrativo.
Ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043, c.c. della Pubblica amministrazione … devono ricorrere i presupposti del comportamento colposo, del danno ingiusto e del nesso di consequenzialità; quanto all'imputazione della colpa alla Pubblica amministrazione, essa non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'atto amministrativo, essendo tenuto il giudice, malgrado l'intervenuto annullamento dell'atto, a svolgere una più penetrante indagine estesa alla valutazione della colpa non del funzionario agente, ma della Pubblica amministrazione come apparato, configurabile soltanto nel caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo sia avvenuto in violazione delle regole d'imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
In particolare, “i fattori che valgono ad escludere la colpa e, quindi, la responsabilità dell'Amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo, sono quelli attinenti all'esistenza di contrasti giurisprudenziali nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme di riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l'attività amministrativa considerata, alla complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà istruttorie e all'illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l'atto lesivo; in altri termini, per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, ai fini dell'accertamento della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità. Ed infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile”.
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Con precipuo riferimento all’evento dannoso, esso deve essere identificato nell’essere stati i ricorrenti indebitamente destinatari, prima, di ordinanze di riduzione in pristino stato pur non essendo a ciò tenuti, e, successivamente -con maggiore incisione sui valori fondamentali quali quelli alla difesa personale, all’onore e alla reputazione-, di un decreto penale di condanna all’ammenda adottato sulla base di provvedimenti fondati su erronei presupposti di fatto -in quanto traenti origine da un’incompleta e superficiale istruttoria compiuta dagli organi tecnici e amministrativi comunali all’uopo preposti-, negligentemente trasmessi, prima dei necessari approfondimenti, all’A.G..
Invero, appare indubbio, quanto al danno non patrimoniale, che l’onorabilità degli attuali ricorrenti, -da intendersi sia quale complesso delle condizioni dalle quali dipende il valore sociale che come insieme delle doti fisiche, morali e intellettuali della persona, entrambi beni fondamentali costituzionalmente tutelati (art. 3 Cost.), sia stata, secondo l’id quod plerumque accidit, sensibilmente pregiudicata dall’instaurazione di un procedimento penale attivato sulla base di un provvedimento fondato su informativa carente quanto all’individuazione del soggetto effettivamente obbligato al ripristino, in definitiva, iniziato in assenza di compiuto accertamento circa la manifesta responsabilità o titolarità dell’onere in capo agli attuali ricorrenti.
Va altresì, tenuto conto, quanto, invece, ai profili prettamente patrimoniali della lesione, che, gli attuali ricorrenti, al fine di superare l’errato accertamento in fatto degli organi comunali e sollecitare, conseguentemente, l’esercizio del potere di annullamento in autotutela degli atti illegittimi, si sono dovuti rivolgere a tecnico di fiducia, incaricato di determinare, tramite apposita relazione, l’esatta ubicazione dei luoghi, la titolarità dei diritti ivi insistenti e la contestata allocazione dei rifiuti da smaltire.
I danni riportati, tutti derivanti da un comportamento contrario al diritto (contra ius) concretantesi, nella specie, in un cattivo esercizio del potere, devono qualificarsi come ingiusti.
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N
el comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione comunale deve ravvisarsi il ricorrere dell’elemento soggettivo proprio della colpa, intesa non tanto e non solo in termini di negligenza e imperizia del singolo funzionario preposto quanto quale imputabilità soggettiva della P.A., valutata come apparato, essendo stata l’adozione degli atti illegittimi, riconosciuti come tali anche dall’Amministrazione intimata, avvenuta in violazione delle regole d’imparzialità, correttezza e di buona amministrazione alle quali deve, invece, essere improntato l’esercizio della pubblica funzione.
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L
'obbligazione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale e aquiliana costituisce “un debito non di valuta ma di valore sicché, anche in sede di liquidazione equitativa dei danni predetti, deve tenersi conto della svalutazione monetaria frattanto intervenuta, senza necessità che il creditore alleghi o dimostri il danno maggiore ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c. (danni nelle obbligazioni pecuniarie); su tale somma, rivalutata anno per anno secondo gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie d'operai e impiegati calcolati dall'ISTAT su base nazionale, decorrono gli interessi nella misura legale, atteso che la rivalutazione e gli interessi sulla somma rivalutata adempiono funzioni diverse: la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima dell'evento pregiudizievole, i secondi hanno natura compensativa e sono, quindi, giuridicamente compatibili".
In conclusione, il ricorso va accolto,
potendosi formulare un giudizio d’imputabilità soggettiva, a titolo di colpa, dell’apparato amministrativo procedente, derivante, cioè, da un difettoso funzionamento riconducibile a un comportamento negligente e in contrasto con le prescrizioni di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. tale, in definitiva, da fare apprezzare la presenza di un danno risarcibile nei termini indicati.

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... per l'accertamento del diritto al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti dai ricorrenti a seguito dell’adozione dell’ordinanza n. 188 del 27.07.2004 e della diffida n. 378 del 12.04.2005, entrambe intimanti la pulizia del fondo mediante rimozione dei rifiuti abbandonati e la bonifica area;
...
I. I ricorrenti agiscono in riassunzione per l’accertamento del risarcimento dei danni patiti a seguito dell’adozione di provvedimenti illegittimi, nella specie, dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente e della successiva diffida ad adempiere entrambe volte a ottenere la pulizia e il ripristino dell’igienicità e della salubrità della parte di fondo, erroneamente ritenuta ancora in possesso e nella piena disponibilità dei medesimi, la cui adozione avrebbe, in particolare, comportato, ingiustamente, l’adozione, nei rispettivi confronti, del decreto penale di condanna alla pena di €. 1.400, ciascuno, per i reati di cui all’art. 50, comma 2, in relazione all’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 22/1997.
Chiedono, nello specifico, sia riconoscimento dei danni patrimoniali, sostanzialmente riconducibili alle spese sopportate nel giudizio penale (€. 3.060,00, ciascuno) e alla parcella liquidata al tecnico di fiducia per la perizia giurata posta alla base dell’annullamento, in via di autotutela, dei provvedimenti citati (€. 2.371,20), sia il risarcimento, secondo equità, dei pregiudizi derivanti dalla lesione ai diritti della persona quali, oltre al diritto alla difesa e alla partecipazione procedimentale, quelli attinenti all’onore, alla reputazione e alla serenità psichica, compromessi dall’ingiusta condanna in sede penale.
II. Si è costituita l’Amministrazione comunale intimata, concludendo per il rigetto del ricorso.
III. All’udienza pubblica del 16.07.2015, fissata per la discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
IV. Il ricorso è fondato nei termini di seguito esposti.
V. Occorre premettere in fatto che:
   a) con decreto del Prefetto della provincia di Napoli, n. 40722 del 17.10.2001, veniva autorizzata l’occupazione d’urgenza in favore del Consorzio IRICAV UNO di parte (per mq. 304) del fondo agricolo, in comproprietà dei ricorrenti (mq. 4.850, fg. 26, p.lla 37), in prospicienza della strada comunale, per la realizzazione della linea Alta velocità Roma Napoli;
   b) emessa la prima ordinanza sindacale, n. 188 del 09.07.2004, gli istanti, accertato che i rifiuti da rimuovere insistevano sulla porzione di terreno occupata dal Consorzio, eccepivano, prima, in data 26.08.2004, e, poi, in data 09.11.2004, l’assenza di ogni responsabilità in ordine all’abbandono nella parte di suolo non più in loro possesso e, dunque, il difetto di legittimazione passiva ad essere destinatari dell’ordinanza sindacale, invitando lo stesso Comune a effettuare un sopralluogo onde verificare l’esatta ubicazione dei rifiuti;
   c) a seguito di ulteriore diffida, n. 378 del 12.04.2005, rimasta, per i sovra detti motivi, inadempiuta, veniva adottato, nei confronti dei ricorrenti, decreto penale di condanna all’ammenda, per ciascuno, di 1.140,00 (n. 2286/2005);
   d) depositata presso gli uffici dell’Amministrazione specifica perizia giurata, dalla quale era possibile rilevare che la zona di scarico dei rifiuti riguardava esclusivamente la porzione di terreno oggetto di occupazione da parte del Consorzio, i medesimi organi comunali provvedevano a espletare uno specifico sopralluogo nel corso del quale emergeva che, effettivamente, i rifiuti erano presenti esclusivamente nella parte di suolo, mq. 304, interessata dalla procedura ablativa;
   e) il Comune, pertanto, con provvedimento del 26.07.2005, adottava l’ordinanza n. 442, con la quale, contestualmente, provvedeva, da un lato, a ordinare al Consorzio de quo la pulizia del fondo e, dall’altro, a revocare, in via di autotutela, le precedenti ordinanze emesse nei confronti dei ricorrenti.
VI. Ciò posto, ritiene il Collegio che siano ravvisabili tutti gli elementi costituitivi per poter configurare, in capo all’Amministrazione comunale, una responsabilità di tipo extracontrattuale, fondata sul generale principio del neminem laedere.
A tal proposito si premette che, “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043, c.c. della Pubblica amministrazione … devono ricorrere i presupposti del comportamento colposo, del danno ingiusto e del nesso di consequenzialità; quanto all'imputazione della colpa alla Pubblica amministrazione, essa non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'atto amministrativo, essendo tenuto il giudice, malgrado l'intervenuto annullamento dell'atto, a svolgere una più penetrante indagine estesa alla valutazione della colpa non del funzionario agente, ma della Pubblica amministrazione come apparato, configurabile soltanto nel caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo sia avvenuto in violazione delle regole d'imparzialità, correttezza e buona amministrazione” (Cons. di St., sez. V, 28.09.2015, n. 4508).
In particolare, con riferimento al profilo maggiormente contestato, “i fattori che valgono ad escludere la colpa e, quindi, la responsabilità dell'Amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo, sono quelli attinenti all'esistenza di contrasti giurisprudenziali nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme di riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l'attività amministrativa considerata, alla complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà istruttorie e all'illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l'atto lesivo; in altri termini, per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, ai fini dell'accertamento della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità. Ed infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile” (Cons. di St., sez. III, 28.07.2015, n. 3707).
VI.1. Tanto premesso, sussiste, nel caso di specie, una lesione, correlata all’interesse legittimo al corretto esercizio della potestà pubblica, che ha interessato una posizione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento, ed essa è configurabile quale conseguenza diretta e immediata del fatto illecito - segnatamente degli atti amministrativi riconosciuti illegittimi (TAR Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 10.11.2014 n. 538).
VI.2. Con precipuo riferimento all’evento dannoso, infatti, esso deve essere identificato nell’essere stati i ricorrenti indebitamente destinatari, prima, di ordinanze di riduzione in pristino stato pur non essendo a ciò tenuti, e, successivamente -con maggiore incisione sui valori fondamentali quali quelli alla difesa personale, all’onore e alla reputazione-, di un decreto penale di condanna all’ammenda adottato sulla base di provvedimenti fondati su erronei presupposti di fatto -in quanto traenti origine da un’incompleta e superficiale istruttoria compiuta dagli organi tecnici e amministrativi comunali all’uopo preposti (Comando dei VV.UU. e responsabile del settore Ambiente)-, negligentemente trasmessi, prima dei necessari approfondimenti, all’A.G..
Invero, appare indubbio, quanto al danno non patrimoniale, che l’onorabilità degli attuali ricorrenti, -da intendersi sia quale complesso delle condizioni dalle quali dipende il valore sociale che come insieme delle doti fisiche, morali e intellettuali della persona, entrambi beni fondamentali costituzionalmente tutelati (art. 3 Cost.), sia stata, secondo l’id quod plerumque accidit, sensibilmente pregiudicata dall’instaurazione di un procedimento penale attivato sulla base di un provvedimento fondato su informativa carente quanto all’individuazione del soggetto effettivamente obbligato al ripristino, in definitiva, iniziato in assenza di compiuto accertamento circa la manifesta responsabilità o titolarità dell’onere in capo agli attuali ricorrenti.
Va altresì, tenuto conto, quanto, invece, ai profili prettamente patrimoniali della lesione, che, gli attuali ricorrenti, al fine di superare l’errato accertamento in fatto degli organi comunali e sollecitare, conseguentemente, l’esercizio del potere di annullamento in autotutela degli atti illegittimi, si sono dovuti rivolgere a tecnico di fiducia, incaricato di determinare, tramite apposita relazione, l’esatta ubicazione dei luoghi, la titolarità dei diritti ivi insistenti e la contestata allocazione dei rifiuti da smaltire.
I danni riportati, tutti derivanti da un comportamento contrario al diritto (contra ius) concretantesi, nella specie, in un cattivo esercizio del potere, devono qualificarsi come ingiusti.
VI.3. Emblematica, invece, ai fini dell’individuazione dei profili di responsabilità in capo all’Amministrazione resistente, è la dettagliata ricostruzione degli avvenimenti che precede la nuova ingiunzione, questa volta, nei confronti del Consorzio IRICAV UNO, General Contractor della Treno Alta Velocità (TAV) S.p.a..
VI.3.1. Invero, emessa la prima ordinanza sindacale del 09.07.2004 intimante la rimozione de qua, veniva trasmessa la prima comunicazione di notizia di reato per omessa ottemperanza (nota n. 8956 del 14.10.2004 del locale Comando VV.UU.) nonostante i ricorrenti avessero già comunicato, in data 26.08.2004, di non essere più nella disponibilità di parte del lotto per essere lo stesso stato occupato con decreto prefettizio n. 40722 del 17.10.2001.
All’ulteriore nota del 09.11.2004, prot. n. 18875, con la quale gli stessi ricorrenti chiedevano un sopralluogo atto a verificare l’esatta ubicazione dei rifiuti in modo da attribuirne l’onere della rimozione al legittimo possessore, non seguivano gli opportuni accertamenti ma una seconda diffida allo sgombero, con ordinanza sindacale n. 378/AM del 12.04.2005, e la trasmissione, per inottemperanza anche a quest’ultima, di una nuova comunicazione di reato (nota n. 3005 del 18.05.2005 del responsabile della P.M.).
VI.3.2. Avviato ormai il procedimento penale, solamente a seguito dell’ulteriore istanza dei ricorrenti, datata 25.05.2005, prot. n. 8199, di richiesta di revoca dei provvedimenti citati, prodotta unitamente a una relazione tecnica di parte tesa a individuare il confine delle proprietà, il responsabile del settore Ambiente, a seguito di proprio sopralluogo, constatava che effettivamente i rifiuti erano presenti sulla parte di suolo oggetto dell’espropriazione a favore del Consorzio (nota prot. n. 150 AM del 20.06.2005, diretta, per conoscenza, al responsabile della P.M.). Veniva pertanto avviato il procedimento volto al ritiro delle ordinanze riconosciute illegittime.
VI.3.3. Ora,
nel comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione comunale deve ravvisarsi il ricorrere dell’elemento soggettivo proprio della colpa, intesa non tanto e non solo in termini di negligenza e imperizia del singolo funzionario preposto quanto quale imputabilità soggettiva della P.A., valutata come apparato, essendo stata l’adozione degli atti illegittimi, riconosciuti come tali anche dall’Amministrazione intimata, avvenuta in violazione delle regole d’imparzialità, correttezza e di buona amministrazione alle quali deve, invece, essere improntato l’esercizio della pubblica funzione.
VI.4. Con riferimento, infine, al nesso di causalità, l’utilizzo del criterio della cd. causalità adeguata che, nella serie causale, attribuisce rilievo agli eventi che non appaiano, a una valutazione ex ante, del tutto inverosimili nella determinazione dell’evento, consente di affermare che la verificazione della lesione lamentata è, secondo un giudizio di alta probabilità vicina alla certezza, ascrivibile alle carenze istruttorie e motivazionali riconducibili al comportamento dell’Amministrazione comunale intimata senza le quali alcun procedimento, sia esso amministrativo o penale, sarebbe stato instaurato.
VII. Tanto premesso, quanto alla quantificazione del danno il Collegio ritiene opportuno svolgere le seguenti valutazioni.
VII.1. Non può, in primo luogo, essere riconosciuta la rifusione delle spese processuali in cui sono incorse le parti nella difesa in giudizio in sede di opposizione al decreto penale di condanna, essendo tali oneri strettamente attinenti a tale giudizio nell’ambito del quale possono trovare, se del caso e a seguito degli approfondimenti in fatto compiuti in tale sede, il dovuto riconoscimento.
VII.2. Quanto ai danni patrimoniali e non patrimoniali evidenziati, si valuta, invece, equo liquidare il risarcimento per i pregiudizi subiti in complessivi €. 3.000,00 (tremila/00), tenendo, in particolare conto, quanto all’instaurato giudizio in sede penale, che lo stesso non risulta, allo stato, definito.
VII.3. Ciò posto,
l'obbligazione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale e aquiliana costituisce “un debito non di valuta ma di valore sicché, anche in sede di liquidazione equitativa dei danni predetti, deve tenersi conto della svalutazione monetaria frattanto intervenuta, senza necessità che il creditore alleghi o dimostri il danno maggiore ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c. (danni nelle obbligazioni pecuniarie); su tale somma, rivalutata anno per anno secondo gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie d'operai e impiegati calcolati dall'ISTAT su base nazionale, decorrono gli interessi nella misura legale, atteso che la rivalutazione e gli interessi sulla somma rivalutata adempiono funzioni diverse: la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima dell'evento pregiudizievole, i secondi hanno natura compensativa e sono, quindi, giuridicamente compatibili (TAR Piemonte, Torino, sez. I, 03.12.2013, n. 1299).
Per quanto concerne la data di realizzazione del fatto illecito, essa deve farsi risalire all’adozione del primo atto lesivo da individuarsi nel giorno di emissione dell’ordinanza contingibile e urgente, n. 188 del 09.07.2004 (solo notificata il 27.09.2004).
VIII. In conclusione, sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va accolto,
potendosi formulare un giudizio d’imputabilità soggettiva, a titolo di colpa, dell’apparato amministrativo procedente, derivante, cioè, da un difettoso funzionamento riconducibile a un comportamento negligente e in contrasto con le prescrizioni di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. tale, in definitiva, da fare apprezzare la presenza di un danno risarcibile nei termini indicati (TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.11.2013, n. 9470) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 16.10.2015 n. 4865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sono sanabili mediante il potere di soccorso istruttorio le irregolarità concernenti la cauzione provvisoria.
Sull'istituto dell'avvalimento.

In applicazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, devono ritenersi sanabili mediante il potere di soccorso istruttorio le irregolarità concernenti la cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti dalla lex specialis.
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La giurisprudenza, pur riconoscendo che, in ragione della sua peculiare finalità -di garantire la massima partecipazione alle gare pubbliche, consentendo alle imprese non munite dei requisiti di partecipazione di giovarsi delle capacità tecniche, economiche e finanziarie di altre imprese- l'istituto dell'avvalimento ha carattere generale (essendo interdetto soltanto per i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del D.Lgs. n. 163/2006), ha nondimeno più volte sottolineato che la messa a disposizione del requisito mancante non può risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessari che dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa ausiliaria a prestare tutti quegli elementi che giustificano l'attribuzione del requisito partecipativo, ritenendo insufficiente allo scopo la sola e tautologica riproduzione nel testo del contratto di avvalimento della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente" o espressioni equivalenti.
Con riferimento proprio all'avvalimento di garanzia è stato ulteriormente ribadito che esso "… può spiegare…la funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale, solo se rende palese la concreta disponibilità attuale delle risorse e dotazioni aziendali da fornire all'ausiliata" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.10.2015 n. 4764 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza a preesistenze edificate e pur in assenza di opere murarie, comporta l’introduzione di un elemento strutturale dell’edificio stesso che non solo modifica il prospetto ma determina altresì una duratura modifica dello stato dei luoghi, con trasformazione edilizia del territorio mediante l’ampliamento del relativo manufatto all’esterno della sua sagoma originaria, costituendo un intervento edificatorio che richiede il previo rilascio di permesso di costruire.
La stessa, infatti, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell’aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto.
La sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire e non è assentibile mediante semplice denuncia di inizio di attività, anche attesa la perdurante modifica dello stato dei luoghi che produce sul tessuto urbano: la mancanza del previo assenso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria, che costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale, a prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla realizzazione abusiva.
Il che, pacificamente, è vieppiù a predicarsi quando l’abuso incide su un immobile sottoposto a vincolo paesaggistico: come qui accade, ovvero quando l’ordine di ripristino, sempre come qui accade e come innanzi riferito, è stato impartito espressamente anche per “violazione dell’art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004”.
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La sanzione demolitoria è stata -legittimamente, anzi doverosamente- ingiunta (anche) espressamente ex ripetuto art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004, il cui esercizio non soffre di limitazioni temporali, fermo peraltro che, come sostenuto da condivisa giurisprudenza, “ove carenti della (presupposta) autorizzazione paesaggistica il titolo abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può essere intrapresa”.

13- A diversa conclusione deve invece pervenirsi rispetto ai restanti interventi indicati nel Capo C) al vaglio.
La c. detta “baracca” (o “tettoia”), per come contestato interessante una superficie di mq. 60, al di sotto della quale è stato realizzato un locale definito tecnico dal perito di parte, per ammissione dello stesso tecnico è priva di titoli abilitativi.
Né può farsi luogo a frazionamento degli interventi (modesto volume tecnico per alloggiarvi la caldaia in una nuova sistemazione; tettoia/baracca di piccole dimensioni per ricovero di attrezzi agricoli, costituente opera precaria) e/o farsi leva su di una loro dimensione inferiore a quella indicata dal tecnico comunale.
Ed invero, anche ove, come sostenuto nella ripetuta perizia tecnica di parte, si fosse in presenza di una superficie totale di mq. 33,00 e non di 60,00 (discordanze che peraltro appaiono frutto del frazionamento operato dal perito), non ne risulterebbe, comunque per ciò solo, comprovata la legittimità degli interventi: questi esterni ed incidenti sul territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, come indicato nella parte motiva del provvedimento assunto per violazione sia delle “norme urbanistiche” che di quelle “sulla tutela delle bellezze naturali e paesaggistiche”, ovverosia in testuale applicazione (anche) “dell’art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004”, che obbliga l’amministrazione ad ordinare “la remissione in pristino” in presenza di violazioni degli obblighi recati dal Titolo I, parte terza, dello stesso decreto (id est: in assenza dell’autorizzazione paesaggistica).
Né, infine, ancora quanto ai profili sostanziali, la necessitata conclusione di doversi ritenere, per questa parte, legittimo l’intervento sanzionatorio dell’amministrazione può esser contrastata con profitto sostenendo la natura precaria della baracca/tettoia “aperta su tre lati e realizzata con pali di castagno e lamiera di copertura”.
13a- Tale prospettazione/giustificazione -al di anche del fatto che al di sotto della stessa è stato realizzato un locale- non si appalesa comunque utile alla bisogna, alla stregua degli approdi cui è pervenuta la condivisa giurisprudenza secondo cui “La realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza a preesistenze edificate e pur in assenza di opere murarie, comporta l’introduzione di un elemento strutturale dell’edificio stesso che non solo modifica il prospetto ma determina altresì una duratura modifica dello stato dei luoghi, con trasformazione edilizia del territorio mediante l’ampliamento del relativo manufatto all’esterno della sua sagoma originaria, costituendo un intervento edificatorio che richiede il previo rilascio di permesso di costruire. La stessa, infatti, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell’aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto (per tutte, Cons. Stato,sez. VI, 05.08.2013, n. 4086). La sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire e non è assentibile mediante semplice denuncia di inizio di attività, anche attesa la perdurante modifica dello stato dei luoghi che produce sul tessuto urbano: la mancanza del previo assenso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria, che costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale, a prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla realizzazione abusiva” (Cons. Stato, sezione sesta, 26.01.2015, n. 319 e, omisso medio, 02.06.2000, n. 3184; Tar Campania, questa settima sezione, 07.05.2015, n. 2681, sezione terza, 29.04.2015, n. 2444); il che, pacificamente, è vieppiù a predicarsi quando l’abuso incide su un immobile sottoposto a vincolo paesaggistico: come qui accade, ovvero quando l’ordine di ripristino, sempre come qui accade e come innanzi riferito, è stato impartito espressamente anche per “violazione dell’art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004”.
14- Quanto innanzi osservato, argomentato e statuito si appalesa del tutto sufficiente a dare risposta ai primi cinque mezzi di impugnazione (cfr. precedente punto 8), ivi compresa quindi (per quanto ancora a valere all’esito delle statuizioni già rese) la denuncia della sopravvenienza del provvedimento oltre i trenta giorni previsti dall’art. 19, comma 6-bis, della l. 241 del 1990, qui ribadendosi che la sanzione demolitoria è stata -legittimamente, anzi doverosamente- ingiunta (anche) espressamente ex ripetuto art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004, il cui esercizio non soffre di limitazioni temporali, fermo, peraltro, che, come sostenuto da condivisa giurisprudenza, “ove carenti della (presupposta) autorizzazione paesaggistica il titolo abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può essere intrapresa” (Tar Campania, sesta sezione, ex multis, sentenze n. 2291 del 18.05.2012, n. 1114 del 05.03.2012 cit., n. 5805 del 14.12.2011 e n. 16995 del 27.07.2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 14.10.2015 n. 4821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La figura del responsabile tecnico di settore per le imprese che operano nell'ambito dell'igiene ambientale e della gestione dei rifiuti è equiparabile a quella del direttore tecnico nelle imprese operanti nel settore dei lavori pubblici.
Per le imprese operanti nell'ambito dell'igiene ambientale e della gestione dei rifiuti la figura del responsabile tecnico di settore è equiparabile a quella del direttore tecnico nelle imprese operanti nel settore dei lavori pubblici, in quanto investita, con riguardo al complesso dei servizi da affidare, dei medesimi adempimenti di carattere tecnico-organizzativo necessari per l'esecuzione dei lavori, sicché, per tali imprese, l'obbligo dichiarativo previsto, in via generale, per il direttore tecnico, è riferibile alla menzionata figura, e ciò a prescindere dalla circostanza che il soggetto, il quale rivesta la qualifica di responsabile tecnico, compaia, o meno, nelle visure camerali o sia titolare, o meno, di particolari poteri rappresentativi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.10.2015 n. 4704 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il costo del lavoro conta. Per valutare un'offerta anomala.
Nella valutazione di anomalia di un'offerta la componente del costo del lavoro va valutata con riferimento alle tabelle ministeriali che non sono inderogabili, ma se il valore indicato in offerta è molto distante da esse la stazione appaltante può procedere all'esclusione.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 13.10.2015 n. 4699 sul tema della valutazione delle offerte anomale in rapporto al costo del lavoro. La vicenda riguardava una offerta con un costo orario del lavoro largamente inferiore (più del 15%) a quello determinato nelle tabelle ministeriali del settore di riferimento.
I giudici preliminarmente hanno precisato che l'anomalia dell'offerta non discende in via automatica ogni volta che non si rispettano le tabelle ministeriali, richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti pubblici. Infatti si tratta di costi medi del lavoro che vengono definiti dal ministero del lavoro sulla base di valori previsti dalla contrattazione collettiva; tali costi «non costituiscono parametri inderogabili ma sono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono oggetto della valutazione dell'amministrazione».
In concreto, quindi, un'offerta deve essere dichiarata anomala laddove si evidenzi uno scostamento «evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal ministero del lavoro in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva». Sono quindi legittime, offerte che da essi si discostino, purché «lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva».
Ciò detto, la sentenza rammenta anche che la stazione appaltante in ogni caso deve tenere conto di tutti quegli aspetti particolari e di tutti quegli elementi particolari dell'offerta che possono variare da azienda ad azienda (per esempio, le possibili economie che ogni impresa potrebbe conseguire).
Tornando al costo del lavoro i giudici hanno sottolineato il fatto che essendo le tabelle ministeriali riferite agli importi indicati nei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati più rappresentativi, il fatto che vengano utilizzati, nel settore pubblico, contratti siglati da sindacati poco rappresentativi «costituisce pertanto un'evidente anomalia del sistema» (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015).
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MASSIMA
6.- Tutto ciò premesso, considerato che la principale censura formulata dall’appellante GPI riguarda la ritenuta anomalia dell’offerta del RTI SDS che aveva presentato un’offerta economica molto inferiore all’importo della gara e alle offerte delle altre concorrenti per aver calcolato il costo del lavoro sulla base di un contratto sottoscritto da sigle sindacali non rappresentative,
si deve ricordare, in generale, che gli articoli 86 e 87 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere all’aggiudicazione definitiva, debba effettuare una valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta ritenuta migliore in presenza di determinati indicatori di possibile anomalia dell’offerta, e possa procedere ad un approfondimento sulla possibile anomalia anche in assenza di tali indicatori.
L’offerta deve, infatti, risultare nel suo complesso affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una seria esecuzione del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.1.- In particolare, l’art. 86 del codice dei contratti pubblici individua, nei commi 1 e 2, distinti indici, a seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’individuazione delle offerte che sono sospettate di essere anomale (cd. indicatori automatici di anomalia). In presenza di tali indicatori la Stazione appaltante è quindi tenuta ad attivare una verifica sulla possibile anomalia dell’offerta.
L’art. 86, al comma 3, con una clausola generale valida per entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante possa procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di ogni altra offerta che in base ad elementi specifici appaia anormalmente bassa.
6.2.-
La scelta dell’Amministrazione di attivare in tali casi il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è, pertanto, ampiamente discrezionale e può, per questo, essere sindacata davanti al giudice amministrativo solo per manifesta illogicità o per la presenza di rilevanti errori di fatto.
6.3.-
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia, che può concludersi con un giudizio di anomalia o di non anomalia dell’offerta. Anche tale giudizio è ampiamente discrezionale e può essere sindacato, in conseguenza, davanti al giudice amministrativo solo per manifesta illogicità o per la presenza di rilevanti errori di fatto.
7.- Tenuto conto del rilievo che in molti contratti ha il costo del lavoro e tenuto conto delle esigenze di tutela dei lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con l’art. 1, comma 909, lettera a), della legge 27.12.2006, n. 296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
7.1.- Il Ministero del Lavoro è, quindi, incaricato della predisposizione di apposite tabelle che tengono conto dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale e assistenziale, delle differenti aree territoriali e dei diversi settori merceologici.
In esito all’istruttoria disposta da questa Sezione, il Ministero del Lavoro ha fornito ampi ragguagli sulle modalità con le quali in concreto tale funzione è esercitata.
8.- Per effetto di tale ultima disposizione il costo del lavoro è ritenuto indice di anomalia dell’offerta quando non risultino rispettati i livelli salariali che la normativa vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori.
Una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare.
8.1.- La giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha peraltro precisato che
una anomalia dell’offerta non può essere automaticamente desunta dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali, richiamate dall’art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti pubblici, considerato che i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma sono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono oggetto della valutazione dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015).
8.2.- Si è quindi affermato che
devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, con la conseguenza che può ritenersi ammissibile un'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
Mentre occorre, perché possa dubitarsi della congruità dell’offerta, che la discordanza sia considerevole ed ingiustificata
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 3329 del 03.07.2015).
8.3.- Si è ulteriormente chiarito che
non possono non essere considerati, in sede di valutazione delle offerte, aspetti particolari ed elementi che possono variare da azienda ad azienda. Ai fini di una valutazione sulla congruità dell’offerta, la stazione appaltante deve, pertanto, tenere conto anche delle possibili economie che le diverse singole imprese possono conseguire (ed anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi (Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
...
17.-
E’ vero che, come si è prima ricordato, le tabelle ministeriali, secondo la giurisprudenza amministrativa, costituiscono solo un parametro di riferimento nella valutazione di una possibile anomalia dell’offerta. Ma una possibile differenza del costo del lavoro determinato (in concreto) nell’offerta dal costo indicato nelle tabelle ministeriali può essere giustificata dalle diverse particolari situazioni aziendali e territoriali e dalla capacità organizzativa dell’impresa che possono rendere possibile, in determinati contesti particolarmente virtuosi, anche una riduzione dei costi del lavoro.
Come si è già in precedenza ricordato, questa Sezione ha affermato in proposito che
i costi indicati nelle tabelle ministeriali sono costi medi, tipologici, e non possono non essere considerati, in sede di valutazione delle offerte, aspetti che riguardano le singole imprese (diverse per natura, caratteristiche, agevolazioni e sgravi fiscali ottenibili). In conseguenza, ai fini della valutazione della migliore offerta, si può tenere conto anche delle possibili economie che le singole imprese possono conseguire (anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1743 del 02.04.2015, cit.).

PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni orizzontali: legittimo l'accordo decentrato che limita la partecipazione dei dipendenti con un'anzianità minima.
E' legittimo l'accordo decentrato integrativo che limita la partecipazione alle progressioni orizzontali ai soli dipendenti che hanno acquisito almeno due anni di servizio.
Tale criterio, lungi dal sostituire alcunché (ma semmai ad aggiungere un ulteriore requisito), si limita ad integrare quelli di cui al C.C.N.L., posto che una effettiva valutazione degli elementi ivi previsti, al fine della progressione economica, presuppone e richiede lo svolgimento dell'attività lavorativa per un congruo periodo di tempo.

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2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
Lamentano che la sentenza impugnata ritenne che il criterio dell'anzianità previsto dal c.c.n.i. ("il personale dipendente sarà ammesso alla valutazione delle progressioni di carriera orizzontale se in possesso di un'anzianità di servizio di almeno due anni...") era solo aggiuntivo dei criteri (di merito) previsti dal c.c.n.i., laddove esso risultava esclusivo, come evincevasi dall'assenza di espressioni quali "ad integrazione" o "a completamento" e dal Protocollo di intesa n. 6/P del 31.03.2000 ove le parti convennero che "la prima progressione economica ha come condizione l'aver maturato..un'anzianità di servizio di almeno due anni alla data del 31.12.1998", ed inoltre dalla delibera di Giunta n. 1839/99 ove venne ritenuto "giustificato il criterio selettivo basato sull'anzianità di servizio"; così come la circostanza che solo con il c.c.i. del 07.08.2000 le parti disciplinarono effettivamente un nuovo sistema di valutazione permanente (con procedure selettive e di merito).
Formulano il prescritto quesito di diritto.
Il motivo è infondato e per altro verso inammissibile.
Come osservato dalla Corte di merito, l'art. 4 del c.c.n.l. 31.03.1999 dispone tra l'altro che "le materia di contrattazione decentrata... sono integrate dalle seguenti... completamento ed integrazione dei criteri di progressione economica all'interno della categoria di cui all'art. 5, comma 2" (tra questi: esperienza acquisita, risultati ottenuti, interventi formativi e di aggiornamento, impegno e qualità della prestazione).
Il contratto decentrato n. 18/C del 30.12.1999 prevede per l'anno 1999 (art. 2, comma 2, punto 2), che per le progressioni orizzontali verrà interessato tutto il personale che è in organico alla data del 07.12.1999, che abbia almeno due anni di servizio alla data del 31.12.1999.
Tale criterio, lungi dal sostituire alcunché (ma semmai ad aggiungere un ulteriore requisito), si limita ad integrare quelli di cui al c.c.n.l., posto che una effettiva valutazione degli elementi previsti dal citato articolo 5 al fine della progressione economica presuppone e richiede lo svolgimento dell'attività lavorativa per un congruo periodo di tempo, "in altri termini una valutazione della portata e della consistenza della clausola prevista nell'accordo di comparto, secondo i criteri sopra indicati, in tanto può utilmente essere realizzata in quanto ci si possa riferire ad una certa anzianità di servizio da valutare" (così la sentenza impugnata).
In sostanza
il c.c.n.i. si limita ad integrare i requisiti di cui al c.c.n.l. con quello dell'anzianità, stabilendo che in sede di prima applicazione della nuova disciplina i criteri di cui al c.c.n.l. necessitano altresì di un'anzianità di servizio minima.
Anche tale censura, a questo punto, risulta peraltro difettare di interesse, posto che, non potendo il giudice risolvere questioni meramente congetturali bensì accertare l'esistenza o meno di diritti, i ricorrenti non specificano in qual modo, escluso eventualmente il criterio dell'anzianità, essi avrebbero dovuto beneficiare della richiesta progressione di carriera.
Va da sé che gli ulteriori documenti invocati (Protocollo di intesa n. 6/12 del 31.03.2000 e delibera di Giunta n. 1839/99, con cui venne ritenuto giustificato, in sede di prima applicazione della disciplina, il riferimento all'anzianità di servizio) non spostano i termini della questione, non risultando, né i ricorrenti ciò deducono almeno con sufficiente chiarezza, che il criterio dell'anzianità dovesse essere l'unico criterio di valutazione e che dunque tale doveva ritenersi, anche in base al comportamento delle parti successivo, l'intenzione delle parti firmatarie del c.c.n.i., il quale, peraltro, all'art. 4 stabilisce infine che "il personale dipendente sarà ammesso alla valutazione per le progressioni orizzontali (che dunque permangono), se in possesso di un'anzianità di servizio di almeno due anni" (Corte di
Cassazione, Sez. civile lavoro, sentenza 12.10.2015 n. 20421).

EDILIZIA PRIVATAL'attività di reimpianto di un nuovo vigneto in sostituzione di quello precedente ormai improduttivo in zona paesaggisticamente vincolata, benché la notevole quantità del materiale asportato possa giustificare dei dubbi circa la reale natura dell’intervento, non abbisogna né di un titolo edilizio né dell’autorizzazione paesaggistica.
Invero, l’art. 76 della legge regionale 27.06.1985, n. 61, dispone che non sono soggetti a concessione né ad autorizzazione edilizia “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola, ai miglioramenti fondiari di tipo agronomico e alla coltivazione di cave o torbiere”, e l’art. 82, dodicesimo comma, del DPR 24.07.1877, n. 616 (trasfuso nell’art. 152, lett. b, comma 1, del Dlgs. 29.10.1999, n. 490), dispone che non è richiesta l’autorizzazione paesaggistica “per l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comporti alterazione permanente dello stato dei luoghi per costruzioni edilizie od altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio”.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, tale esenzione deve ritenersi giustificata in quanto “si tratta infatti di modificazioni normali della forma del territorio, inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente, infatti, non sono oggetto di uno specifico valore espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne sono elementi identificativi (come invece vuole la legge stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di una disincentivazione della pratica agricola, con effetti negativi paradossali sulla buona manutenzione del territorio”.
Per completezza va soggiunto che anche la legislazione successiva ha confermato la non assoggettabilità di interventi di questo tipo al previo rilascio di un titolo edilizio (cfr. l’art. 6, comma 1, lett. d, del DPR 06.06.2001, n. 380, che definisce attività edilizia libera “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali”) e paesaggistico (l’art. 149, comma 1, lett. b, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, afferma che non è necessaria l’autorizzazione paesaggistica per “gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili”).

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1265 e n. 11621 prot. del Dirigente del Settore Uffici Tecnici ed Edilizia Privata del Comune di Negrar, resa in data 07/10/1998, a mezzo della quale si ordina ai ricorrenti "la rimessione in pristino della stato dei luoghi" in relazione ad opere di spianamento di terreno eseguite in assenza della concessione-autorizzazione edilizia.
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Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure, di carattere assorbente, di cui al secondo e quarto motivo.
Infatti dalla documentazione versata in atti e in particolare dalle fotografie che rappresentano lo stato dei luoghi prima e durante i lavori, nonché successivamente al ripristino del vigneto, emerge che, benché la notevole quantità del materiale asportato potesse giustificare dei dubbi circa la reale natura dell’intervento, in epoca immediatamente successiva l’affittuario odierno ricorrente ha provveduto al reimpianto di un nuovo vigneto in sostituzione di quello precedente ormai improduttivo, e che proprio tale circostanza ha comportato la sua assoluzione in sede penale sia sotto il profilo edilizio, che sotto quello paesaggistico, disposte con sentenze del Tribunale di Verona 07.02.2001, n. 244, e della Cassazione penale 13.02.2002, n. 16266.
Orbene, ferma restando la fondatezza del rilievo sollevato dal Comune nelle proprie difese circa l’insussistenza dei presupposti per ritenere vincolante nel presente giudizio l’accertamento compiuto in sede penale in difetto delle condizioni di cui all’art. 654 c.p.p., nondimeno emerge che il Comune ha erroneamente qualificato gli interventi dal punto di vista edilizio e paesaggistico ritenendoli eseguibili solo previa acquisizione di un titolo edilizio e dell’autorizzazione paesaggistica, atteso che non solo il ricorrente ha effettivamente proceduto al reimpianto del vitigno, ma per effettuarlo si era munito dell’autorizzazione dell’Ispettorato regionale per l’agricoltura in concomitanza ben prima dell’adozione del provvedimento impugnato (cfr. doc. 6 allegato al ricorso).
Ne consegue che l’intervento avrebbe dovuto essere qualificato come movimento di terra pertinente all’attività agricola, che non ha comportato un’alterazione permanente allo stato dei luoghi, come tale non soggetto né al previo rilascio di un titolo abilitativo sia sotto il profilo edilizio, che paesaggistico.
Infatti l’art. 76 della legge regionale 27.06.1985, n. 61, dispone che non sono soggetti a concessione né ad autorizzazione edilizia “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola, ai miglioramenti fondiari di tipo agronomico e alla coltivazione di cave o torbiere”, e l’art. 82, dodicesimo comma, del DPR 24.07.1877, n. 616 (trasfuso nell’art. 152, lett. b, comma 1, del Dlgs. 29.10.1999, n. 490), dispone che non è richiesta l’autorizzazione paesaggistica “per l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comporti alterazione permanente dello stato dei luoghi per costruzioni edilizie od altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio”.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, tale esenzione deve ritenersi giustificata in quanto “si tratta infatti di modificazioni normali della forma del territorio, inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente, infatti, non sono oggetto di uno specifico valore espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne sono elementi identificativi (come invece vuole la legge stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di una disincentivazione della pratica agricola, con effetti negativi paradossali sulla buona manutenzione del territorio” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.02.2015, n. 6890; id. 27.01.2015, n. 6738).
Per completezza va soggiunto che anche la legislazione successiva ha confermato la non assoggettabilità di interventi di questo tipo al previo rilascio di un titolo edilizio (cfr. l’art. 6, comma 1, lett. d, del DPR 06.06.2001, n. 380, che definisce attività edilizia libera “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali”) e paesaggistico (l’art. 149, comma 1, lett. b, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, afferma che non è necessaria l’autorizzazione paesaggistica per “gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili”) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.10.2015 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve infatti considerarsi frutto di una lettura distorta delle norme sull’accesso un diniego formulato con riferimento alla circostanza che il controinteressato ha manifestato la propria opposizione, come se la definizione della possibilità di accedere agli atti fosse rimessa alla sua disponibilità, quando ormai è un principio pacifico che il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 22, legge 07.08.1990, n. 241, trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione e, essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità, può essere escluso soltanto nei casi previsti dalla legge.
L’Amministrazione pertanto non può sottrarsi dall’accertare essa stessa direttamente se vi sia o meno in capo a tale soggetto la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento, dato che in materia di accesso la veste di controinteressato è una proiezione del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto.
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L’assunto contenuto negli atti di opposizione dei controinteressati circa la mancanza di un interesse specifico, concreto ed attuale e di una situazione giuridicamente rilevante collegata ai documenti richiesti, non può essere condiviso.
Infatti la domanda di accesso risulta sufficientemente motivata da parte del ricorrente che sul modulo fornito dal Comune ha sbarrato la casella “controversia”, specificando altresì che, nonostante l’istanza di condono avesse ad oggetto parti comuni del condominio, è stata accolta senza acquisire il consenso di tutti i condomini.
In base a tali elementi è possibile affermare che la domanda di accesso è adeguatamente motivata con riferimento alla necessità di difendere gli interessi giuridici dell’istante, e pertanto non può essere legittimamente respinta, dato che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il diritto di accesso prevale anche sull'esigenza di riservatezza di terzi quando sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna documenti amministrativi indispensabile a tali fini.

... per l'annullamento del provvedimento prot. 6229 del 30.03.2015 del Comune di Cavallino-Treporti con il quale è stata respinta l'istanza di accesso ai documenti presentata dal ricorrente con riferimento alle pratiche di condono edilizio presentate nel 1986 dai controinteressati Za.Li. e La.Ma.Ga., e contestuale richiesta di ordinare all’Amministrazione di provvedere all’esibizione e successiva estrazione di copia del documento.
...
Il ricorrente è usufruttario di un appartamento ricompreso in un edificio condominale sito nel Comune di Cavallino Treporti per il quale, in data 28.04.2008, ha chiesto il rilascio di un permesso di costruire per ristrutturare l’appartamento realizzando una terrazza a vasca sul tetto del fabbricato ed altre opere interne.
Il Comune di Cavallino Treporti, dopo aver concesso una variante in corso d’opera e una proroga per l’ultimazione dei lavori, previa comunicazione di avvio del procedimento ha disposto la revoca del permesso di costruire ordinando contestualmente la rimessione in pristino.
L’Amministrazione ha contestato difformità tra il progetto originario, assentito nel 1962, e quanto effettivamente costruito, ritenendo che sia stato realizzato un immobile di dimensioni maggiori.
Tale provvedimento è stato impugnato avanti al Tar Veneto con ricorso r.g. n. 1775 del 2014, tutt’ora pendente.
Il ricorrente, che dopo aver svolto approfondite ricerche negli archivi del Comune di Venezia di cui la frazione di Cavallino Treporti faceva parte prima di divenire un Comune autonomo, non ha acquisito elementi utili a chiarire tutti gli aspetti della vicenda, ed ha quindi presentato una domanda di accesso avente ad oggetto due istanze di sanatoria edilizia presentate nel 1986 da due dei condomini, al fine di acquisire ulteriori elementi circa lo stato di fatto dell’immobile e l’effettiva consistenza di quanto legittimamente assentito.
Con provvedimento del 30.03.2015, il Comune ha respinto la domanda di accesso motivando il diniego con riferimento all’opposizione espressa dai controinteressati.
L’opposizione, allegata al diniego, è motivata con riferimento alla mancanza di un interesse specifico, concreto ed attuale e di una situazione giuridicamente rilevante collegata ai documenti richiesti.
Con il ricorso in epigrafe il diniego di accesso è impugnato per le censure di violazione dell’art. 24 della legge 07.08.1990, n. 241, difetto di motivazione, violazione dei principi di trasparenza, ragionevolezza ed imparzialità.
Il Comune e i controinteressati non si sono costituiti in giudizio.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Deve infatti considerarsi frutto di una lettura distorta delle norme sull’accesso un diniego formulato con riferimento alla circostanza che il controinteressato ha manifestato la propria opposizione, come se la definizione della possibilità di accedere agli atti fosse rimessa alla sua disponibilità, quando ormai è un principio pacifico che il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 22, legge 07.08.1990, n. 241, trova applicazione in ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione e, essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità, può essere escluso soltanto nei casi previsti dalla legge.
L’Amministrazione pertanto non può sottrarsi dall’accertare essa stessa direttamente se vi sia o meno in capo a tale soggetto la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento, dato che in materia di accesso la veste di controinteressato è una proiezione del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto (cfr. Tar Puglia, Lecce, Sez. II, 29.04.2015, n. 1419; Tar Veneto, Sez. III, 18.03.2013, n. 390; Tar Trentino Alto Adige, Bolzano, sez. I, 08.02.2012, n. 47; Consiglio di Stato, Sez. V, 27.05.2011, n. 3190).
Inoltre l’assunto contenuto negli atti di opposizione dei controinteressati circa la mancanza di un interesse specifico, concreto ed attuale e di una situazione giuridicamente rilevante collegata ai documenti richiesti, non può essere condiviso.
Infatti la domanda di accesso risulta sufficientemente motivata da parte del ricorrente che sul modulo fornito dal Comune ha sbarrato la casella “controversia”, specificando altresì che, nonostante l’istanza di condono avesse ad oggetto parti comuni del condominio, è stata accolta senza acquisire il consenso di tutti i condomini.
In base a tali elementi è possibile affermare che la domanda di accesso è adeguatamente motivata con riferimento alla necessità di difendere gli interessi giuridici dell’istante, e pertanto non può essere legittimamente respinta, dato che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il diritto di accesso prevale anche sull'esigenza di riservatezza di terzi quando sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna documenti amministrativi indispensabile a tali fini (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.09.2012, n. 5047; Consiglio di Stato, Sez. V, 07.04.2004 n. 1969; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 07.02.1997 n. 5).
In definitiva il ricorso deve essere accolto e va conseguentemente ordinato al Comune di Cavallino Treporti di consentire l’accesso agli atti oggetto dell’istanza mediante estrazione di copia degli stessi entro 30 giorni dalla comunicazione, ovvero notificazione se anteriore, della presente sentenza (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.10.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' vero che il sistema delineato dall'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel rafforzare la tutela di affidamento del privato che abbia presentato una dia o una scia, ha previsto la tassatività dei casi in cui alla Amministrazione é consentito di intervenire dopo la scadenza dei termini di cui al comma 3 e comma 6-bis, nel senso che fuori dalle situazioni individuate al comma 3 (falsità nelle dichiarazioni) ed al comma 4 (pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente e la salute, per la sicurezza pubblica e la difesa nazionale), le Amministrazioni non possono intervenire; tuttavia il comma 6-ter, nel porre un obbligo all’amministrazione di provvedere su istanza del privato, ha previsto una fattispecie autonoma e diversa dal potere ufficioso previsto dai menzionati commi 3 e 4.
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.
Sicché, il provvedimento comunale di archiviazione del procedimento di verifica (di terzi) deve essere annullato, ed a tale annullamento consegue l’obbligo in capo all’Amministrazione di completare sollecitamente il procedimento di verifica accertando analiticamente la fondatezza o meno dei singoli rilievi proposti ed adottando i conseguenti provvedimenti che, in caso di riscontro delle illegittimità segnalate hanno carattere doveroso e non soggiacciono ai limiti previsti per le attività di verifica attivate d’ufficio dall’Amministrazione quando, come nel caso di specie, siano avviati su segnalazione del terzo leso nella propria posizione qualificata e differenziata.

Il secondo motivo, con il quale il ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento di archiviazione, è invece fondato e deve essere accolto.
Il Comune di Cortina d’Ampezzo ha disposto l’archiviazione del procedimento di verifica della legittimità delle denunce di inizio attività ritenendo di per sé ostativa, e quindi senza svolgere un approfondimento istruttorio sui singoli rilievi sollevati nelle richieste di verifica, la norma di cui all’art. 19, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241, nel testo allora vigente.
Secondo il Comune anche a seguito della richiesta di verifica da parte di un terzo non è possibile procedere al divieto di prosecuzione dell’attività se non vi siano lesioni agli specifici interessi sensibili menzionati dall’art. 19, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241.
Tale norma ammette il divieto di prosecuzione dell’attività “solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale”, che nel caso di specie non ricorrono.
La tesi non è condivisibile.
La giurisprudenza, alla quale il Collegio aderisce (cfr. Tar Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; Tar Campania, Napoli, Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21.11.2014, n. 4799), ha infatti chiarito che è vero che il sistema delineato dal citato art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel rafforzare la tutela di affidamento del privato che abbia presentato una dia o una scia, ha previsto la tassatività dei casi in cui alla Amministrazione é consentito di intervenire dopo la scadenza dei termini di cui al comma 3 e comma 6-bis, nel senso che fuori dalle situazioni individuate al comma 3 (falsità nelle dichiarazioni) ed al comma 4 (pericolo di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente e la salute, per la sicurezza pubblica e la difesa nazionale), le Amministrazioni non possono intervenire; tuttavia il comma 6-ter, nel porre un obbligo all’amministrazione di provvedere su istanza del privato, ha previsto una fattispecie autonoma e diversa dal potere ufficioso previsto dai menzionati commi 3 e 4.
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.
In definitiva, in accoglimento delle censure del secondo motivo, il provvedimento di archiviazione del procedimento di verifica deve essere annullato, ed a tale annullamento consegue l’obbligo in capo all’Amministrazione di completare sollecitamente il procedimento di verifica accertando analiticamente la fondatezza o meno dei singoli rilievi proposti ed adottando i conseguenti provvedimenti che, in caso di riscontro delle illegittimità segnalate, come sopra precisato, hanno carattere doveroso e non soggiacciono ai limiti previsti per le attività di verifica attivate d’ufficio dall’Amministrazione quando, come nel caso di specie, siano avviati su segnalazione del terzo leso nella propria posizione qualificata e differenziata (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.10.2015 n. 1039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Superstrade, enti esautorati. Tar: sui controlli decide la Polstrada.
Sulle superstrade spetta solo alla Polstrada posizionare i controllori automatici della velocità in sede fissa e al prefetto sovrintendere a questo tipo di attività. Il comune infatti deve limitarsi al controllo dei centri abitati e non può prescindere dal confronto con il rappresentante governativo per iniziative di questo tipo.

Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 12.10.2015 n. 873.
La vicenda degli autovelox posizionati sulla superstrada E45 Terni-Ravenna dai comuni confinanti con l'importante e malandata arteria di traffico è salita spesso agli onori della cronaca a causa dell'eccessiva pressione sanzionatoria.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio il comune di Sant'Agata Feltria, dopo aver ottenuto dall'Anas la concessione per l'installazione di un autovelox fisso sulla superstrada E45, lamenta la successiva revoca dell'atto a seguito dell'intervento del compartimento di polizia stradale di Bagno di Romagna.
A parere dei giudici amministrativi anche se si tratta di una strada extraurbana principale (esentata dal dl 121/2002 dall'obbligo di preventivo decreto del prefetto per l'attivazione dei controlli automatici della velocità), il prefetto resta il coordinatore delle attività sanzionatorie dei vigili urbani.
In pratica non è di competenza del sindaco disporre controlli automatici su una strada statale senza un preventivo confronto con il rappresentante governativo. Anche se il tratto di strada in questione non richiede espressamente un provvedimento ad hoc della prefettura. Nel caso sottoposto all'esame del collegio poi è evidente che la superstrada interessa solo marginalmente il piccolo comune romagnolo e che l'installazione di una postazione autovelox in questo caso ha mere finalità di cassa più che evidenti fini di prevenzione e sicurezza.
Nonostante la classificazione formale del manufatto stradale consenta, apparentemente, di definire la strada come extraurbana principale di fatto, conclude la sentenza, la superstrada Terni-Ravenna è assimilabile ad una classica strada locale di tipo C dove l'installazione dei misuratori di velocità automatici è sempre subordinata ad un decreto del prefetto (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015).

APPALTI: Gara, prevale il bando. Se in contrasto con disciplinare e capitolato.
In un appalto pubblico, in caso di contrasto fra bando, disciplinare di gara e capitolato speciale, prevale il contenuto del bando di gara.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 09.10.2015 n. 4684 che si pronuncia in merito ad una non infrequente fattispecie relativa ai contrasti fra le clausole del bando, disciplinare di gara e capitolato speciale di un appalto pubblico.
Nel caso specifico, la sentenza premette che il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d'appalto hanno ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell'economia della procedura. Infatti: il primo fissa le regole della gara, il secondo disciplina in particolare il procedimento di gara e il terzo integra eventualmente le disposizioni del bando, con particolare riferimento agli aspetti tecnici e anche in funzione del vincolo contrattuale derivante dalla stipula del contratto.
Ciò detto, la sentenza afferma che nella loro diversità «tutti questi elementi insieme costituiscono la lex specialis della gara» e rivestono, con le loro disposizioni, carattere vincolante non solo nei confronti dei concorrenti ma anche dell'amministrazione appaltante, in attuazione del principio costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa.
Per quel che riguarda il problema della difformità e dei contrasti fra bando, disciplinare e capitolato speciale la sentenza chiarisce che, per quanto attiene agli eventuali contrasti interni tra le singole disposizioni della lex specialis, una possibile soluzione di tali contrasti va affrontata tenendo conto che fra i tre diversi atti sussiste «
una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara»; le disposizioni del capitolato speciale (e del disciplinare di gara) possono quindi soltanto integrare, ma non modificare le clausole del bando di gara.
A integrazione di quanto afferma la sentenza, va anche richiamato il parere Avcp, oggi Anac, n. 14 del 28.01.2010 in cui si precisò che in ogni caso «la difformità fra il bando e il disciplinare di gara impone comunque una lettura che tuteli la massima partecipazione dei concorrenti» (articolo ItaliaOggi del 16.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5.1.2. Sotto altro profilo deve rammentarsi che,
benché il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto, abbiano ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia della procedura, il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando (con particolare riferimento –di norma– agli aspetti tecnici anche in funzione dell’assumendo vincolo contrattuale, Cons. Stato, sez. V, 10.11.2005, n. 6286), tutti insieme costituiscono la lex specialis della gara (Cons. Stato, sez. VI, 15.12.2014, n. 6154; sez. V, 05.09.2011, n. 4981; 25.05.2010, n. 3311; 12.12.2009, n. 7792), in tal modo sottolineandosi il carattere vincolante che quelle disposizioni assumono non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche dell’amministrazione appaltante, in attuazione dei principi costituzionali fissati dall’art. 97.
Quanto agli eventuali contrasti (interni) tra le singole disposizioni della lex specialis ed alla loro risoluzione, è stato osservato che tra i ricordati atti sussiste nondimeno una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara (Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5297; 23.06.2010, n. 3963), laddove le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime (Cons. Stato, sez. III, 29.04.2015, n. 2186; 11.07.2013, n. 3735; sez. V, 24.01.2013, n. 439).
5.1.3.
L’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli articoli 1362 e ss., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione ed il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di buona fede, ex 1366 c.c., devono essere individuati solo in base di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere (Cons. Stato, sez. III, 02.09.2013, n. 4364; sez. V, 27.03.2013, n. 1769).

EDILIZIA PRIVATA: E’ inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione proposto successivamente alla presentazione dell’istanza di permesso a costruire in sanatoria.
In materia edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
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In pendenza del procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante accertamento di conformità urbanistica).
Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in pendenza del predetto procedimento amministrativo (di accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata inammissibile.
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È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente.
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- Rilevato che nell’atto introduttivo del giudizio, notificato all’Amministrazione resistente in data 10.07.2015, i ricorrenti impugnavano l’ordinanza di demolizione specificata in epigrafe, avverso la quale articolavano censure di violazione di legge (art. 97 Cost. e 7 l. 47/1985, d.l.vo 42/2004, 20 d.P.R. 380/2001, 3 l. 241/1990), nonché d’eccesso di potere, sotto plurime figure sintomatiche, facendo altresì presente che, in data 07.07.2015, prot. 21845, la ricorrente Di Do.Cl., anche nell’epigrafata qualità, aveva richiesto al Comune di Pontecagnano Faiano permesso di costruire in sanatoria, corredato della già rilasciata autorizzazione paesaggistica, n. 112/2012 del 12.07.2012; nonché impugnavano –nei sensi di cui in epigrafe– il verbale di sequestro preventivo, dell’11.05.2015;
- Rilevato che si costituiva in giudizio il Comune di Pontecagnano Faiano, concludendo per il rigetto del gravame, perché infondato, nonché rappresentando che –quanto alla sanatoria richiesta in data 07.07.2015– erano stati comunicati ai ricorrenti, con atto prot. 29169 dell’11.09.2015, i motivi ostativi all’accoglimento della medesima;
- Rilevato che, all’udienza in camera di consiglio del 23.09.2015, il ricorso era trattenuto in decisione;
- Rilevato che lo stesso può essere deciso con sentenza breve, perché è chiaramente inammissibile, per carenza originaria d’interesse ad agire, quanto all’impugnativa dell’ordinanza di demolizione di cui sopra, laddove –quanto all’impugnativa, per quanto tuzioristica, del verbale di sequestro preventivo, redatto dal Comando di Polizia Municipale di Pontecagnano Faiano, in data 11.05.2015– inammissibile, per difetto di giurisdizione;
- Rilevato, in particolare, che tale conclusione, quanto all’ordinanza di demolizione, discende dall’applicazione del consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, espresso, da ultimo, nella massima seguente: “In materia edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 02/02/2015, n. 325);
- Rilevato che tale conclusione non può essere revocata in dubbio, sol perché il Comune di Pontecagnano Faiano ha comunicato ai ricorrenti, ex art. 10-bis della l. 241/1990, le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza di p. di c. in sanatoria, atteso che trattasi d’atto endoprocedimentale non lesivo, inidoneo, come tale, a far cessare la pendenza della domanda in questione (cfr. le ulteriori massime che seguono: “In pendenza del procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante accertamento di conformità urbanistica). Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in pendenza del predetto procedimento amministrativo (di accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata inammissibile” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 06/03/2015, n. 632); “È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 07/07/2006, n. 1735);
- Rilevato altresì –quanto al verbale di sequestro preventivo di cui sopra– che la relativa impugnazione, sia pur dichiaratamente tuzioristica (“per quanto possa occorrere”) è, in ogni caso, inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. (“La cognizione del verbale di sequestro preventivo non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, essendo la stessa demandata a quella del giudice penale, per cui, limitatamente, al medesimo, il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo” – TAR Lazio–Roma, Sez. I, 11/01/2013, n. 253), spettando la giurisdizione in materia al G.O. penale, innanzi al quale la causa potrà essere riassunta nel termine di cui all’art. 11 c.p.a.
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2015 n. 2188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: L'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile, mentre compete al pubblico ministero fornire la prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti.
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1. I sigg.ri Ma.Cu. e Ca.Sg. ricorrono, con separati atti, per l'annullamento della sentenza del 27/03/2014 della Corte di appello di Genova che ha confermato la condanna alla pena di sei mesi di arresto ed € 5.000,00 di ammenda loro inflitta il 18/03/2013 dal Tribunale di Sanremo per il reato di cui all'art. 259, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, perché, quale amministratore unico e legale rappresentante della società «SP. CO. S.r.l.» lo Sg., di dipendente della società il Cu., avevano introdotto nel territorio dello Stato, un carico di rifiuti speciali pericolosi (terre e rocce da scavo contenenti arsenico oltre i limiti consentiti) trasportati a bordo di un autocarro di proprietà della società, condotto dal Cu., e destinati a smaltimento in assenza di formulario di identificazione, della prescritta autorizzazione e notifica alle autorità competenti, dell'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali.
In tal modo effettuavano una spedizione transfrontaliera di rifiuti costituenti traffico illecito. Fatto indicato come commesso in Ventimiglia il 12/03/2010.
2. Con unico motivo di ricorso il Cu. eccepisce, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., l'omessa motivazione circa il primo motivo di appello con il quale aveva contestato la natura di rifiuto del materiale rinvenuto sull'autocarro da lui condotto che, deduce, era destinato a dei lavori di ristrutturazione in corso presso l'abitazione dello Sg. e comunque l'assenza di consapevolezza di tale natura, essendo convinto, appunto, che il materiale avesse tale destinazione.
...
4. E' fondato il solo primo motivo di ricorso dello Sg..; sono palesemente infondati l'altro motivo e il ricorso del Cu..
5. Come già ampiamente spiegato dai Giudici della fase di merito,
all'epoca del fatto il riutilizzo, quali sottoprodotti, delle terre e rocce da scavo doveva avvenire esclusivamente in base alle condizioni e secondo le procedure descritte dall'art. 186, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza delle quali esse erano (e ancor oggi sono, ancorché in base a diversa disciplina) senz'altro sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti.
Fermo restando che la presenza di arsenico in misura superiore ai limiti consentiti esclude il riutilizzo come sottoprodotti delle rocce e terre da scavo (il che già di per sé costituisce profilo assorbente che rende superfluo l'esame del ricorso), va in ogni caso ribadito -per restare nell'alveo dell'eccezione sollevata dal Cu.- che, secondo quanto costantemente insegnato da questa Corte Suprema,
l'esclusione dall'applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile, mentre compete al pubblico ministero fornire la prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti (Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; cfr. anche Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone, Rv. 244784).
Non è perciò sufficiente la generica deduzione difensiva della destinazione delle rocce alla realizzazione di un'opera privata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.10.2015 n. 40252).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente concorso alla perpetrazione dell’illecito.
Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.

2. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua della motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, posto che il ricorrente non sarebbe il “soggetto giuridicamente responsabile” dei pretesi abusi edilizi, in quanto tale responsabilità andrebbe ricondotta alla società Mu.Ri. S.r.l., intestataria del permesso di costruire n. 146/2008, per effetto di voltura disposta dal Comune resistente in data 03.07.2009.
2.2. La doglianza è infondata.
Invero, dagli atti di causa risulta che il ricorrente è proprietario della superficie su cui insiste la parte dell’immobile ritenuta abusiva, mentre la Mu.Ri. s.r.l. è meramente comodataria di tale area. Orbene, l’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente concorso alla perpetrazione dell’illecito. Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180; TAR Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; TAR Campania, sez. II, 19.10.2006, n. 8673) (TAR Basilicata, sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Determinate zone del territorio comunale possono essere assoggettate a vincolo di “rispetto”, in relazione a quanto previsto per altre aree limitrofe.
In altri termini, mediante tali vincoli viene disciplinato l’uso di quella parte del territorio comunale che si colloca nella prossimità di altra parte del territorio che deve essere “rispettata” per le sue caratteristiche naturali o per la destinazione che ad essa è stata data in sede di pianificazione.
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La destinazione di un fondo a “sede stradale”, come già affermato in giurisprudenza, è da qualificare come vincolo a carattere espropriativo, soggetto pertanto al termine di decadenza quinquennale previsto dalla legge.
Ebbene, un condivisibile orientamento, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, ha affermato che la scadenza del vincolo principale di destinazione a strada pubblica, per l’inutile decorso del termine quinquennale previsto dall’art. 2 della L. n. 1187/1968, comporta l’automatica perdita di efficacia del connesso ed accessorio vincolo di rispetto infrastrutturale, atteso che il regime di inedificabilità imposto da quest’ultimo, allo scopo di garantire la sicurezza della circolazione stradale, è funzionalmente servente in rapporto al primo.

3. Col secondo articolato motivo, il ricorrente ha, tra l’altro, sostenuto che la collocazione di parte dell’immobile “a distanza dalla strada di p.r.g. inferiore ai prescritti mt. 5.00” non avrebbe “alcun rilievo giuridico”, non potendo così determinare l’abusività della contestata porzione del fabbricato. In particolare, la strada in relazione alla quale il Comune assumerebbe la violazione della c.d. fascia di rispetto, ancorché prevista dallo strumento urbanistico del Comune di Melfi, non sarebbe mai stata realizzata, sicché sussisterebbe la violazione dell’art. 2 della legge n. 1187/1968 e dell’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001.
3.1. La censura coglie nel segno.
Occorre considerare che, ai sensi del quadro normativo di riferimento, determinate zone del territorio comunale possono essere assoggettate a vincolo di “rispetto”, in relazione a quanto previsto per altre aree limitrofe. In altri termini, mediante tali vincoli viene disciplinato l’uso di quella parte del territorio comunale che si colloca nella prossimità di altra parte del territorio che deve essere “rispettata” per le sue caratteristiche naturali o per la destinazione che ad essa è stata data in sede di pianificazione.
Nel caso di specie, lo strumento urbanistico comunale ha appunto previsto una fascia di rispetto per la realizzazione di una nuova strada, di estensione pari ad almeno 5 metri dal ciglio di quest’ultima.
3.2. In proposito, risulta dagli atti della produzione del ricorrente, e tale fatto non è stato in alcun modo contestato dalla difesa del Comune intimato, che la strada in questione, benché prevista dal predetto p.r.g., non è mai stata effettivamente realizzata.
Ora, la destinazione di un fondo a “sede stradale”, come già affermato in giurisprudenza, è da qualificare come vincolo a carattere espropriativo, soggetto pertanto al termine di decadenza quinquennale previsto dalla legge (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 08.09.2011, n. 2184; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 29.03.2012, n. 570; TAR Campania, sez. II, 25.09.2007, n. 8352).
Nel caso di specie, il ricorrente ha sostenuto che “lo strumento urbanistico generale del Comune di Melfi a cui fa riferimento il provvedimento impugnato, e precisamente la variante generale al p.r.g., è stato approvato dalla Regione Basilicata con delibere G.R. n. 630 del 10.02.1992 e n. 3600 del 1.6.1992 e con D.P.G.R. n. 113 del 11.02.1992, integrato con D.P.G.R. n. 469 del 24.05.1993”.
Tali fatti non sono stati contestati, neppure genericamente, dal Comune intimato, derivandone così gli effetti probatori di cui all’art. 64, n. 2, cod. proc. amm.. Da ciò consegue che il vincolo di cui trattasi è decaduto al più tardi nell’anno 1998, quindi anteriormente al rilascio dei richiamati titoli edilizi.
Ebbene, un condivisibile orientamento, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, ha affermato che la scadenza del vincolo principale di destinazione a strada pubblica, per l’inutile decorso del termine quinquennale previsto dall’art. 2 della L. n. 1187/1968, comporta l’automatica perdita di efficacia del connesso ed accessorio vincolo di rispetto infrastrutturale, atteso che il regime di inedificabilità imposto da quest’ultimo, allo scopo di garantire la sicurezza della circolazione stradale, è funzionalmente servente in rapporto al primo (cfr., in termini, TAR Campania, sez. II, 25.09.2007, n. 8352; nello stesso senso, TAR Campania, sez. II, 16.03.2012, n. 1316; id. sez. II, 23.06.2009, n. 3448; C.d.S., sezione V, 09.12.1996, n. 1486) (TAR Basilicata, sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Urbanistica. "Esistenza" delle opere di urbanizzazione.
In virtù del combinato disposto degli artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, della L. n. 1150 del 1942, l'espressione "esistenza" delle opere di urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli "standards" urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444 del 1968 e dell'art. 17 della L. n. 765 del 1967.
Ne discende che l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte.
A ciò si aggiunga quanto disposto dall'art. 12 del T.U. Edilizia, in forza del quale il permesso di costruire è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del Comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell' intervento oggetto del permesso.

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4.2. Osserva il Collegio, in relazione a tale profilo di doglianza, come non possa ritenersi sussistere il denunciato vizio di violazione di legge.
Ed invero, le argomentazioni del tribunale sono complete, logiche e coerenti; il tribunale procede analiticamente a confutare le doglianze difensive, illustrando gli elementi posti a base del giudizio di illegittimità dell'operato dell'Amministrazione comunale nella decisione di rilasciare il permesso di costruire; il parametro di valutazione, sul punto, è quello fornito dalle Sezioni Unite Borgia che, com'è noto, hanno escluso che, sussistendo difformità dell'opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale dovrebbe comunque concludere per la mancanza di illiceità penale nel caso in cui sia stata rilasciata la concessione edilizia, osservando che la concessione non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle rappresentazioni grafiche del progetto approvato, di tal che nella specie non si configura una non consentita "disapplicazione" da parte del giudice penale dell'atto amministrativo concessorio: Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993 - dep. 21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri, Rv. 195359).
Quanto, poi, al disposto dell'art. 41-quinquies, comma sesto, della legge urbanistica (legge n. 1150 del 1942), indubbiamente il medesimo è oggi in vigore, ma è pacifico che l'applicabilità della relativa disciplina presuppone un accertamento di fatto (v. pag. 10 del ricorso) che non è chiaramente compatibile con la funzione e l'ambito cognitivo della Suprema Corte quale giudice di legittimità; in ogni caso, andrebbe poi tenuto conto del combinato disposto degli artt. 31 e 41-quinquies, penultimo ed ultimo comma della predetta legge n. 1150 del 1942, per come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa.
Sul punto, è utile richiamare quanto affermato, ad esempio, dal Tar Venezia nella sentenza 04.02.2012, n. 234, con riferimento alla nozione di "esistenza" delle opere di urbanizzazione.
In particolare, hanno chiarito i giudici amministrativi,
in virtù del combinato disposto degli artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, della L. n. 1150 del 1942, l'espressione "esistenza" delle opere di urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli "standards" urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444 del 1968 e dell' art. 17 della L. n. 765 del 1967.
Ne discende che
l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (cfr. Cons. St., sez. V, 29.4.2000, n. 2562). A ciò si aggiunga quanto disposto dall'art. 12 del T.U. Edilizia, in forza del quale il permesso di costruire è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del Comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell' intervento oggetto del permesso.
Orbene, osserva il Collegio come, proprio in relazione a tale ultimo aspetto, i riferimenti svolti in ricorso circa l'esistenza e/o la sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, oltre che contrastare con quanto affermato dal tribunale del riesame (v. pagg. 7/8 dell'ordinanza impugnata), si fondano su argomenti di tipo fattuale, valutabili evidentemente solo in sede di merito e non certo suscettibili di essere fatti oggetto del sindacato di questa Suprema Corte.
Diversamente, per converso, è sindacabile il modus procedendi del ricorrente che pretende di sostenere in punti la propria tesi sia attraverso la tecnica del "rinvio" ad atti contenuti in documenti prodotti davanti al tribunale del riesame (v., a titolo esemplificativo, quanto dedotto a pag. 9 del ricorso in cui "integralmente" il ricorrente si riporta ad una memoria depositata davanti al tribunale del riesame all'ud. 03/02/2015, così sfuggendo al ricorrente che non è deducibile quale travisamento la scelta che sotto l'aspetto dell'apprezzamento e dell'interpretazione del fatto viene espressa dal giudice di merito in ordine a specifiche situazioni che emergono dal processo e che appaiono tra di loro in tutto o in parte di segno diverso, essendo tale attività di scelta la manifestazione più tipica della "discrezionalità vincolata" propria del giudizio di merito, con la conseguenza che, correlativamente, su questo presupposto appare inammissibile riproporre in sede di legittimità, sotto il profilo del travisamento, l'esame in fatto di circostanze che è sottratto come tale al sindacato della Corte di Cassazione, in quanto introdurrebbe surrettiziamente nella sua attuazione un terzo giudizio di merito).
Quanto, poi, ai limiti di sindacabilità in relazione alla c.t. dell'arch. Ta. prodotta in sede di legittimità, in sostanza si chiede a questa Corte di valutare "in fatto" la correttezza delle conclusioni del c.t. del P.M. sulla base di un atto non sottoposto preventivamente alla cognizione dell'unico giudice legittimato a valutarlo, ossia il giudice del procedimento e non certo il giudice di legittimità (v. in particolare pag. 9).
Ne discende, conclusivamente, l'infondatezza complessiva del primo motivo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2015 n. 38795 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASecondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio tempus regit actum, applicabile anche nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia, impone che l’amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al momento di approvazione del provvedimento e non quelle vigenti al momento di proposizione dell’istanza.
A conclusioni opposte si può probabilmente pervenire esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione non abbia rispettato i termini di conclusione del procedimento.
Questa regola sembra essere stata infatti cristallizzata dal legislatore nell’art. 10-bis, ultimo periodo, della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 9, terzo comma, del decreto legislativo 11.11.2011, n. 180, in base al quale <<Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda (…) ritardi attribuibili all’amministrazione>>.

37. Come anticipato, la proposta presentata dai ricorrenti è stata respinta in quanto poco dopo la presentazione della stessa è intervenuta la scadenza del documento di piano.
38. Questa circostanza appare in effetti decisiva, atteso che il piano attuativo ha la finalità di attuare (appunto) le previsioni contenute nello strumento urbanistico generale e che non è logicamente possibile dare attuazione a disposizioni non più in vigore.
39. La decisione assunta dall’Amministrazione, che negli atti impugnati ha dato conto di questa decisiva circostanza, è dunque adeguatamente motivata.
40. Come visto i ricorrenti sostengono che l’intervenuta decadenza del documento di piano non sarebbe invece decisiva in quanto la loro proposta avrebbe dovuto valutarsi con riferimento alla normativa vigente al momento della sua presentazione.
41. Questa argomentazione non è condivisibile.
42. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio tempus regit actum, applicabile anche nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia, impone che l’amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al momento di approvazione del provvedimento e non quelle vigenti al momento di proposizione dell’istanza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11.11.2014, n. 5525; id., 11.04.2014, n. 1763).
43. A conclusioni opposte si può probabilmente pervenire esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione non abbia rispettato i termini di conclusione del procedimento. Questa regola sembra essere stata infatti cristallizzata dal legislatore nell’art. 10-bis, ultimo periodo, della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 9, terzo comma, del decreto legislativo 11.11.2011, n. 180, in base al quale <<Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda (…) ritardi attribuibili all’amministrazione>>.
44. Nel caso concreto, però, il Comune di Carate Brianza non ha violato il termine di conclusione del procedimento di adozione del piano attuativo, fissato in novanta giorni dall’art. 14, primo comma, della legge regionale n. 12 del 2005. Ne consegue che correttamente lo stesso Comune ha applicato il regime giuridico sopravvenuto alla presentazione della proposta di piano attuativo considerando decisiva l’intervenuta decadenza del documento di piano (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.09.2015 n. 1987 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da una corretta interpretazione dell'art. 17 della L. n. 1150 del 1942 debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
a)
le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 c.c.);
b)
in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c)
col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare,
quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi.
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Costituisce principio pacifico ed acquisito nella giurisprudenza amministrativa
che la necessità di presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Si è, in particolare, affermato che in questo caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia al fine di garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio
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La esigenza sottesa a tale orientamento è quella di garantire lo sviluppo ordinato del territorio, evitando che vengano realizzate nuove costruzioni in assenza della contestuale previsione della realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione.
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8.3. Passando, quindi, ad esaminare il motivo di ricorso con cui viene evocato un vizio di violazione di legge sostanziale in relazione all'art. 44, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001 (motivo sub d) del ricorso), il P.M. ricorrente censura l'affermazione del tribunale secondo cui il reato di costruzione abusiva sussisterebbe solo se manca il titolo edilizio e non anche se questo è palesemente illegittimo, e quello di lottizzazione abusiva sussisterebbe solo se manca la convenzione del piano di lottizzazione, ma non se questo è scaduto prima del rilascio della concessione edilizia.
Nella prospettazione del P.M. detta affermazione sarebbe erronea, in quanto non solo il giudice penale può disapplicare il provvedimento amministrativo, ma deve valutare il rispetto sostanziale delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti (analogamente, con riferimento alla lottizzazione abusiva, il reato sussisterebbe anche quando la convenzione di lottizzazione è palesemente illegittima o è scaduta, con conseguente illegittimità della concessione edilizia rilasciata successivamente).
8.3.1. La censura del P.M. pur in astratto corretta, non è nella fattispecie in esame meritevole di accoglimento.
Ed infatti, il ricorso del P.M. insiste sulla configurabilità di ipotesi di reato che non tengono conto della peculiarità del caso sottoposto ad esame, difettando, segnatamente, la pretesa illegittimità dei titoli abilitativi con cui è stata assentita l'attività edilizia in questione.
Sul punto, i giudici del riesame evidenziano come gli ordinari termini di efficacia dei cosiddetti piani attuativi, categoria all'interno della quale si collocano i piani di lottizzazione, non risultano applicabili giacché nel Comune di Arzachena lo strumento urbanistico tuttora vigente (il regolamento edilizio con programma di fabbricazione approvato nel 1983 con Decreto RAS n. 1761/u) aveva inserito l'ambito territoriali di cui si discute (vale a dire il Piano di lottizzazione in questione), nella disciplina delle zone F3 - aree turistiche oggetto di lottizzazioni approvate, come da certificato urbanistico e regolamento edilizio.
Orbene, il regolamento edilizio di cui al vigente Piano di Fabbricazione, all'art. 64 relativamente alle zone F3, così prevede: "...la disciplina urbanistica edilizia di dette zone è quella stabilita dalle convenzioni e dallo strumento attuativo esistente..."; ne consegue, quindi, che le previsione del Piano di lottizzazione "Liscia di Vacca centro", da cui origina il p.d.c. n. 321/2006 e le varianti successive, sono state espressamente recepite nello strumento generale di pianificazione, rappresentato nel Programma di fabbricazione (che, com'è noto -in virtù dell'assimilabilità al piano regolatore generale operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 23 del 20.03.1978- avendo natura di atto normativo regolatore a carattere generale e, quindi, cogente, anche nei confronti della P.A., è integrativo del regolamento edilizio: Cass. civ., Sez. 2, Sentenza n. 6058 del 17/03/2006, Rv. 587800).
Le previsioni contenute nel predetto Piano di lottizzazione assurgono al rango di normativa primaria, la cui efficacia non si presta a limitazioni o scadenze temporali etero-imposte; il concetto di "scadenza", dunque, come correttamente evidenziato dalle difese degli indagati, è divenuto quindi irrilevante in quanto anacronisticamente riferito ad uno strumento attuativo che non ne è più soggetto nel momento stesso in cui è entrato "in pianta stabile" a far parte integrante dello strumento generale di pianificazione.
Ciò spiega, dunque, l'affermazione, corretta, del tribunale del riesame secondo cui diventa impossibile configurare il reato di lottizzazione abusiva su un comprensorio la cui regola è quella del Programma di fabbricazione, atteso che il Piano di lottizzazione è stato sottratto al termine di efficacia decennale previsto per gli strumenti attuativi dall'art. 16 della legge n. 1150 del 1942, atteso che le previsioni contenute nel PRG e non riguardanti vincoli o limiti non sono soggette a termini di efficacia in quanto disposizioni aventi contenuto generale ed astratto.
Secondi i giudici del riesame, dunque, il Piano di lottizzazione originario non era soggetto a termini di scadenza, poiché il Programma di fabbricazione vigente, approvato nel 2003, ha elevato al rango di disciplina urbanistica generale le convenzioni e i piani attuativi compresi nella zona F/3, conseguendone pertanto che il Piano di lottizzazione "Liscia di Vacca centro" deve, per il tribunale, considerarsi tuttora in vigore con conseguente efficacia della Convenzione.
Ne discende, conclusivamente, che non si è al cospetto di una convenzione illegittima o scaduta, come sostiene il P.M. ricorrente, ma di un assetto particolare ed attuativo (quello del Piano di lottizzazione), elevato per espressa intenzione del competente pianificatore comunale, a parte integrante del regime generale.
8.3.2. Che questa sia la conclusione corretta, del resto, è confermato dalla stessa giurisprudenza amministrativa, sulla cui base è possibile affermare la pacifica compatibilità dell'intervento con il Programma di fabbricazione, per effetto dell'assorbimento nel primo del Piano di lottizzazione, essendo giunta la più recente giurisprudenza amministrativa a differenti conclusioni rispetto a quanto sostenuto in precedenza (così restando superato ed isolato il principio, richiamato dal P.M. ricorrente, di cui alla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 06/04/2012, n. 2045, secondo cui il P.d.L. ha una durata decennale per cui, decorso il relativo termine, esso perde di efficacia e non può più costituire valido presupposto per il rilascio di qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di manufatti).
In particolare,
secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 30.04. 2009, n. 2768; Id., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da una corretta interpretazione dell'art. 17 della L. n. 1150 del 1942 debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
a)
le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 c.c.);
b)
in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c)
col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare,
quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28).
Alla stregua di quanto sopra (v., sul punto, da ultimo: Cons. Stato, Sez. IV,  sentenza 26/08/2014, n. 4278), pertanto, non potendo ritenersi scaduta né tantomeno illegittima la convenzione di lottizzazione, del tutto legittimamente le attività edilizie risultano essere state assentite dal p.d.c. originaria e successive varianti.
8.4. Quanto, ancora, al successivo motivo con cui il P.M. ricorrente svolge censure di violazione di legge sostanziale in relazione all'art. 16, legge n. 1150 del 1942 (motivo sub e), si sostiene che il tribunale avrebbe violato la norma citata innanzitutto perché il regolamento comunale cui è allegato il piano di fabbricazione non conterrebbe alcuna deroga espressa alla temporanea efficacia voluta dalla legge per la convenzione di lottizzazione e che, in ogni caso, il richiamo alle convenzioni esistenti sarebbe un richiamo integrale al testo della convenzione, e sarebbe come tale comprensivo della clausola del termine massimo di utilizzazione decennale ribadito espressamente dagli artt. 16 e 17 della convenzione relativa al piano di lottizzazione "Liscia di Vacca centro" del 18/06/1981 (il P.M., peraltro, in ricorso esprime anche la preoccupazione che il principio diversamente affermato dal tribunale potrebbe avere effetti indiretti su altre convenzioni di lottizzazione di Porto Cervo ormai scadute ed abbandonate, che in forza di tale decisione potrebbero resuscitare con gravi ripercussioni sul territorio già duramente sfruttato dagli investitori nazionali ed internazionali, insistendo, ancora, sul fatto che lo stesso C.d.S. con la richiamata sentenza n. 2045 del 06/04/2012 aveva confermato una sentenza del Tar Sardegna n. 118 del 31/01/2009 che ha annullato una concessione edilizia per decorso del termine decennale di efficacia della convenzione di lottizzazione per l'invalidità delle concessioni edilizie rilasciate dopo la scadenza del termine massimo di utilizzazione fissato dal piano di lottizzazione).
8.4.1. Tale motivo è infondato, al pari dei precedenti.
Ed infatti, richiamato quanto in precedenza esposto a proposito del "superamento" del principio di cui alla richiamata sentenza del Cons. St. n. 2045/2012, deve ritenersi che la tesi del P.M. ricorrente, prescindendo dalle peculiarità del caso concreto e dai principi generali vigenti, si fonda sulla predetta decisione del Giudice amministrativo, approdando a conclusioni errate.
Diversamente, in base a quanto sopra esposto, deve ritenersi che l'intervento edilizio in parola, valutato sulla scorta dello specifico Statuto urbanistico ed edilizio che lo regola, a sua volta applicato al lume dei principi generali per effetto dei quali, da un lato, il Piano di lottizzazione aveva una pacifica ultrattività quanto alle volumetrie da realizzarsi determinata dal suo recepimento in senso al Programma di Fabbricazione, dall'altro, in ogni caso, quand'anche si volesse ritenere scaduto detto Piano, ciò non avrebbe ostato al valido rilascio di un titolo abilitativo edilizio a fronte dell'intenso grado di urbanizzazione della zona.
Ed infatti,
costituisce principio pacifico ed acquisito nella giurisprudenza amministrativa (v., da ultimo: TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 07/11/2014, n. 2754) che la necessità di presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Si è, in particolare, affermato che in questo caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia al fine di garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio
(in tal senso TAR Campania Napoli, VIII, 07.11.2013, n. 4954, ma anche ex plurimis Consiglio di Stato, IV, 27.04.2012, n. 2470).
La esigenza sottesa a tale orientamento è quella di garantire lo sviluppo ordinato del territorio, evitando che vengano realizzate nuove costruzioni in assenza della contestuale previsione della realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione.
Ne consegue, dunque, così condividendosi le argomentazioni espresse dagli indagati, che correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto superflua per il rilascio del p.d.c. l'approvazione preventiva di un ulteriore Piano di lottizzazione, atteso che erano state ormai effettuate -si legge nella motivazione dell'impugnata ordinanza- le cessioni gratuite al Comune di tutti i terreni per le opere di urbanizzazione anche secondarie (chiesa e scuola), nonché realizzate ed anche collaudate in data 10.07.2006 le altre opere di urbanizzazione previste dalla convenzione nonché realizzato anche il 61% del volume privato convenzionato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2015 n. 38555).

APPALTIGare d’appalto, sì al bando più restrittivo della legge. Devono esserci esigenze ragionevoli e fondate. Consiglio di Stato. Sentenza su una gara comunale per i servizi di controllo del traffico.
Se serve a garantire l’interesse pubblico, le stazioni appaltanti possono fissare un bando di gara anche con requisiti più restrittivi di quelli previsti dalla normativa di riferimento.
L’ha stabilito il Consiglio di Stato nella sentenza 23.09.2015 n. 4440, depositata dalla V Sez., bocciando il ricorso di una società di sistemi per il controllo del traffico contro le clausole di una gara comunale per la gestione delle sanzioni amministrative a veicoli con targa estera o a soggetti con residenza non italiana.
Secondo la ricorrente, il bando violava i princìpi comunitari di concorrenza e proporzionalità e le norme del Codice degli appalti sulla capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale di fornitori e prestatori di servizi (articoli 41 e 42, Dlgs 163/2006) poiché ammetteva con «irragionevolezza» solo chi aveva già svolto il servizio per un numero determinato di committenti (tre Comuni, contro gli 11 della ricorrente), con una quota minima di attività in ogni città (più di 13mila verbali notificati, contro gli oltre 40mila registrati dall’interessata ma in un solo centro) e, in via autonoma, anche un servizio diverso (recupero crediti in un triennio, non effettuato dalla ricorrente).
Bocciando il ricorso, i giudici hanno chiarito che «le stazioni appaltanti possono comunque discrezionalmente fissare requisiti di partecipazione più rigorosi e restrittivi rispetto a quelli previsti dalla normativa in materia con riguardo alla peculiarità dell’appalto, nell’esercizio del potere-dovere di adottare le misure più adeguate, opportune e congrue per il perseguimento dell’interesse pubblico (…)».
Nel caso di specie, per il collegio, «il requisito di cui trattasi appare preordinato ad assicurare l'idoneità delle concorrenti allo svolgimento del peculiare servizio oggetto di gara, al fine di ottenere la necessaria garanzia qualitativa di esecuzione dell’instaurando rapporto contrattuale, e non sproporzionato» perché «ciò che era richiesto dal bando di gara non era la dimostrazione della capacità di gestione relativa solo al numero complessivo di atti trattati, ma la dimostrazione della capacità di gestione di un rilevante numero di essi per più Comuni, che richiede una ben più complessa organizzazione, considerato che nei vari Comuni si verificano flussi turistici diversi per luogo di provenienza, con relative diverse e speciali problematiche di notifica».
La sentenza ha così precisato che l’illegittimità di tali requisiti «più rigorosi e restrittivi» si ha solo dinanzi a «(…) adempimenti illogici e sproporzionati e non rispondenti a finalità di interesse pubblico, il che nel caso che occupa, tenuto conto della particolarità del servizio posto a gara, non è rilevabile».
Accertato che sul requisito “estraneo” alla gara la ditta non ha provato «lesione concreta ed attuale», su quello di Pa committenti e quote di attività si è spiegato che «(…) era relativo ad un periodo triennale di svolgimento delle notifiche (…), mentre l’appalto (…) era relativo ad un servizio di durata quadriennale, sicché esso requisito era di tipo minimale e non manifestamente sproporzionato per eccesso (…), quindi non potenzialmente lesivo del principio del favor partecipationis e non idoneo a comportare una restrizione della concorrenza»
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.10.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’«urgenza» del sindaco va motivata. Tar. Occorrono situazioni di pericolo per l’incolumità e la salute pubblica.
L’ordinanza comunale «contingibile ed urgente» non può interferire nei rapporti di natura privatistica. I Tar hanno così annullato alcune ordinanze contingibili e urgenti emesse dal sindaco. Alla base dei provvedimenti non erano poste ragioni di pericolo per l’incolumità pubblica ossia la necessità di proteggere l’igiene e la salute pubblica, tale da rendere indispensabile l’intervento immediato e indilazionabile dell’amministrazione (articolo 50, comma 5, del Dlgs 267/2000).
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la sentenza 16.03.2015 n. 893 ha annullato un’ordinanza contingibile e urgente emessa dal sindaco con la quale ordinava al ricorrente di provvedere a un intervento di potatura di un albero posto nella sua proprietà per evitare allergie e disturbi alla salute di una vicina.
L’ordinanza era stata adottata non già per fronteggiare situazioni di emergenza ma per dirimere questioni attinenti a rapporti di vicinato tra proprietà limitrofe e senza fornire la dovuta dimostrazione della ricorrenza effettiva di un pericolo per l’interesse pubblico.
È stata ritenuta illegittima anche un’ordinanza che era stata utilizzata come strumento eccezionale per indebitamente interferire in una controversia condominiale, emessa nell’ambito di questioni condominiali in merito all’apposizione interna od esterna della canna fumaria (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 28.12.2012 n. 10816).
Bocciata anche l’ordinanza emessa per ottenere lo spostamento di cani che abbaiavano quando si avvicinavano estranei e che disturbavano i vicini (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 10.09.2015 n. 2684)
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2015).

URBANISTICA: Urbanistica trasparente. In un mese atti e documenti sul web.
Comune condannato alla trasparenza. Entro un mese l'amministrazione deve pubblicare sul suo sito web atti e documenti che giustificano la modifica delle previsioni degli strumenti urbanistici se dalle tavole grafiche messe in rete finora risulta che lo stato dei luoghi di una strada non corrisponde al piano regolatore generale e alla successiva variante approvata dal Consiglio comunale.
E ciò grazie al decreto «trasparenza» invocato dall'azienda, cui evidentemente sta a cuore il tracciato di quella strada.

È quanto emerge dalla sentenza 16.09.2015 n. 1253, pubblicata dalla III Sez. TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della società che invoca il decreto legge 33/2013 contro l'illegittimità del silenzio serbato dall'amministrazione locale. La prima istanza chiede la pubblicazione degli atti e delle informazioni necessari per rendere trasparenti e coerenti fra loro le previsioni normative e grafiche dei strumenti urbanistici comunali vigenti.
La seconda scende nel particolare dello stato dei luoghi della strada «incriminata». Ma l'amministrazione non dà seguito all'una né all'altra. I documenti richiesti, però, rientrano nel novero degli atti dei quali il privato può chiedere l'ostensione.
Pesa in proposito l'articolo 5 del dl 33/2013, che dispone: «Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale». Il Comune deve dunque mettere sul suo sito internet gli atti indicando il link al privato (articolo ItaliaOggi del 20.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
La ricorrente agisce per la condanna del Comune di Barletta alla pubblicazione degli atti e delle informazioni richiesti con istanze di accesso civico (ai sensi degli articoli 5 e 39 d.lg 14.03.2014 n. 33) del 20.10 2014 e del 27.10.2014.
Con la prima istanza chiedeva integrarsi la pubblicazione degli atti e delle informazioni necessari per rendere trasparenti e coerenti fra loro le previsioni normative e grafiche dei vigenti strumenti urbanistici comunali, avendo rilevato che la maglia D2-06, prevista nelle NTA, non trovava corrispondente previsione nelle tavole grafiche della zona D sottozona D2 del PRG .
Con la seconda istanza chiedeva la pubblicazione degli atti e informazioni in base ai quali il Comune avrebbe consentito la realizzazione di modifiche al tracciato della Via dei muratori come riportato nella tavola grafica n. 3 della Variante “79” al PRG.
A seguito dell’inerzia del Comune, la ricorrente invocava l’esercizio dei poteri sostitutivi e il Segretario generale del Comune riscontrava la prima istanza, assegnando al Dirigente dell’Ufficio competente trenta giorni per la pubblicazione delle planimetrie relative al piano regolatore generale in vigore.
Ciononostante l’Ufficio comunale designato non provvedeva alla pubblicazione dei dati richiesti, né dava seguito altrimenti le predette istanze.
Il ricorso è fondato.
1. Preliminarmente occorre osservare che
gli atti e documenti oggetto delle istanze della ricorrente rientrano nel novero degli atti e documenti indicati dall’art. 39 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2014 che chiunque può chiedere siano pubblicati, secondo le modalità dettate dall’art. 8 dello citato decreto.
2. Quanto alla prima istanza, ritenuta ammissibile dal titolare dei poteri sostitutivi che ha disposto la pubblicazione di quanto richiesto, deve presumersi che essa non abbia avuto seguito.
Infatti se il Comune avesse provveduto alla pubblicazione avrebbe dovuto darne avviso, come prescritto dall’art. 5 d.lgs. n. 33/2014 che dispone: “Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale”.
3. La seconda istanza, cui è sopravvenuto il silenzio dell’amministrazione, deve ritenersi parimenti ammissibile, sebbene non presa in considerazione dal Segretario generale.
Detta istanza infatti, sulla base di elementi attinti dal sito web del Comune, premette che lo stato di fatto della via dei Muratori è diverso da quello risultante dalle tavole grafiche del PRG e dalla variante approvata con delibera del C.C. n. 908/1979 e chiede pertanto la pubblicazione degli atti e documenti che avrebbero modificato le previsioni di piano, che, se esistenti, sono parimenti soggetti a pubblicazione ai sensi del citato art. 39.
4. Tanto premesso
deve essere ordinato all’amministrazione di pubblicare, con le modalità descritte dall’art. 39 del d.lgs. n. 33/2014, le planimetrie relative al piano regolatore generale in vigore, nonché gli atti e documenti dai quali poter evincere i dati e le informazioni richiesti con le istanze del 20.10.2014 e del 27.10.2014.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità di odori molesti ben può basarsi sulle dichiarazioni rese da testimoni a condizione che le testimonianze si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza, e qui ribadito, che la contravvenzione di cui all'art. 674 Cod. pen. (Getto pericoloso di cose - Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro) è reato di pericolo, configurabile in presenza anche di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 Cod. civ. (Immissioni - Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi).
Il criterio della normale tollerabilità previsto dall’art. 844 Cod. civ. va, infatti, riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non può essere utilizzato per giudicare della liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o all'integrità dell'ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto, in via immediata, tutto un altro ordine di norme di natura repressiva e preventiva, come il T.U. delle leggi sanitarie di cui al R.D. 27/07/1934, n. 1265, la L. 31/12/1962, n. 1860 sull'impiego pacifico della energia nucleare, nonché, con particolare riferimento agli inquinamenti atmosferici, la L. 13/07/1966, n. 615.
La natura del reato (di pericolo concreto) e il diverso criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni olfattive comporta che sia sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano percepito affatto; né è necessario un accertamento tecnico.
La Corte rileva dunque che «
laddove manchi la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni dei testi, soprattutto se si tratta di persone a diretta conoscenza dei fatti, come i vicini, o particolarmente qualificate, come gli agenti di polizia e gli organi di controllo della USL. Ove risulti l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere l'elemento soggettivo del reato, l'eventuale adozione di tecnologie dirette a limitare le emissioni, essendo evidente che non sono state idonee o sufficienti ad eliminare l'evento che la normativa intende evitare e sanziona. Quel che conta è che le testimonianze non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito da dichiaranti medesimi».
Nel caso di specie si trattava delle emissioni maleodoranti prodotte dall’attività all’aria aperta di un impianto autorizzato di compostaggio di qualità posta in essere a distanza di poco più di un chilometro dall’abitato e atte a molestare gli abitanti delle zone limitrofe; a nulla era valsa la successiva realizzazione di un capannone di copertura (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

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3. I primi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde del reato di cui all'art. 674, cod. pen., in relazione alle molestie olfattive provenienti dall'impianto di compostaggio.
3.2. Trattandosi di molestie olfattive e non delle emissioni di cui alla seconda parte della norma, non rileva il fatto che l'impianto fosse autorizzato, né il dedotto rispetto dei limiti di emissione, né il criterio discretivo della "normale tollerabilità" di cui all'art. 844, cod. civ..
3.3. Costituisce, infatti, principio consolidato di questa Suprema Corte (che va qui ribadito) che
la contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. è reato di pericolo, configurabile in presenza anche di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana di quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 cod. civ. (Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, Alghisi, Rv. 238447, alla cui ampia e articolata motivazione si rimanda; nello stesso senso cfr. anche Sez. 3, n. 11556 del 21/02/2006, Davito, Rv. 233565; Sez. 3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini, Rv. 231651).
3.4. Come ricordato dalla Corte Costituzionale,
l'art. 844, cod. civ. (cui l'imputato fa ampio riferimento nel fondare le proprie censure) è norma <<destinata a risolvere il conflitto tra proprietari di fondi vicini per le influenze negative derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi. Si comprende quindi che il criterio della normale tollerabilità in essa accolto vada riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non possa essere utilizzato per giudicare della liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o all'integrità dell'ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto in via immediata tutto un altro ordine di norme di natura repressiva e preventiva: basti menzionare il t.u. delle leggi sanitarie di cui al r.d. 27.07.1934, n. 1265, e la legge 31.12.1962, n. 1860, sull'impiego pacifico della energia nucleare nonché, con particolare riferimento agli inquinamenti atmosferici, la legge 13.07.1966, n. 615. Resta salva in ogni caso l'applicabilità del principio generale di cui all'art. 2043 del codice civile>> (Sent. n. 247 del 10.07.1974, citata anche da Sez. 3, n. 2475 del 2007, cit.).
3.5.
La natura del reato (di pericolo concreto) e il diverso criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni olfattive, comporta che sia sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano percepito affatto. Né è necessario un accertamento tecnico.
3.6. Questa Corte ha già spiegato che
laddove trattandosi di odori manchi la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni dei testi, soprattutto se si tratta di persone a diretta conoscenza dei fatti, come i vicini, o particolarmente qualificate, come gli agenti di polizia e gli organi di controllo della USL. Ove risulti l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere l'elemento soggettivo del reato, l'eventuale adozione di tecnologie dirette a limitare le emissioni, essendo evidente che non sono state idonee o sufficienti ad eliminare l'evento che la normativa intende evitare e sanziona (così, Sez. 1, n. 407 del 14/12/1999, Rv. 215147; nello stesso senso anche Sez. 1, n. 13083 del 19/02/2003, Attisano, Rv. 223801; Sez. 1, n. 26782 del 01/04/2003, Tornati, Rv. 225000).
Quel che conta è che le testimonianze non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito da dichiaranti medesimi (Sez. 1, n. 5215 del 07/04/1995, Silvestro, Rv. 201195; Sez. 1, n. 7042 del 27/05/1996, Fontana, Rv. 205324; Sez. 1, n. 739 del 04/12/1997, Tilli, Rv. 209451; Sez. 3, n. 6141 del 30/01/1998, Labita, Rv. 210959; Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi, Rv. 262711).
3.7. Nel caso di specie,
lo svolgimento all'aria aperta dell'attività di compostaggio, posta in essere a distanza di poco più di un chilometro dall'abitato, fornisce di ragionevole sostrato oggettivo la percezione degli odori molesti da parte di chi ha testimoniato in tal senso.
3.8.
La successiva realizzazione del capannone di copertura, cui ha fatto seguito l'incontestata attenuazione del fenomeno, concorre a rendere non manifestamente illogiche le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale.
3.9. La sentenza dà conto della testimonianza di varie persone (compreso il Commissario Aggiunto della Polizia Provinciale, pubblico ufficiale la cui terzietà il ricorrente non contesta) che hanno riferito in modo chiaro e preciso circa la natura degli odori molesti, la loro persistenza e insopportabilità, la loro chiara riferibilità all'impianto di che trattasi, le numerose denunce dei cittadini. Il Tribunale dà altresì conto delle dichiarazioni rese dai testimoni addotti dalla difesa e della CT da quest'ultima prodotta circa l'inesistenza del concreto pericolo di diffusione degli odori verso l'abitato del Comune di Martinengo in considerazione dei venti che spirano in senso contrario.
3.10. Il Giudice qualifica come conniventi o compiacenti le testimonianze difensive ma dà atto che anche il Commissario Aggiunto della Polizia Municipale di Ghisalba (testimone della difesa) aveva riferito che dopo la realizzazione del capannone non aveva più ricevuto nemmeno denunce informali (tema che si salda con l'attenuazione del fenomeno percepita anche dai testimoni dell'accusa). Gli altri testimoni della difesa avevano riferito di odori provenienti dall'insediamento, definendoli come "normali".
Questo continuo richiamo alla "normalità" degli odori (che sottende un giudizio esso sì di natura soggettiva) cozza con quanto già affermato circa il diverso criterio di giudizio che deve presiedere alla valutazione di sussistenza del reato per il quale si procede, né si pone in logico contrasto con il fatto che un elevato numero di altre persone fosse concretamente esposta a esalazioni nauseabonde, tanto più che per farle cessare l'imputato ha ammesso di aver investito una somma considerevole.
3.11. Il Giudice peraltro ha escluso, sulla base di un giudizio di fatto non contestato, che i risultati della CT della difesa potessero applicarsi al caso in esame sulla decisiva considerazione che le rilevazioni anemologiche non erano state effettuate nella zona ma in base a modelli non applicabili alla concreta realtà. Né possono avere rilevanza, per escludere la positiva sussistenza del reato e la responsabilità dell'imputato, elementi fattuali estranei al testo della sentenza impugnata, direttamente quanto inammissibilmente sottoposti alla diretta valutazione del Collegio, quali fatti negativi, mancate denunzie, ecc. ecc..
3.12. Dunque tutte le censure che riguardano la materiale sussistenza del reato e la colpevolezza dell'imputato sono infondate.
4. E' fondato, per quanto di ragione, l'ultimo motivo di ricorso.
4.1. Il Collegio non entra nel merito delle scelte in base alle quali il Tribunale ha ritenuto di escludere la sussistenza di circostanze attenuanti.
4.2. Il Tribunale dà atto della persistenza della condotta (protrattasi dal giugno 2011 all'aprile 2013) e del precedente specifico dell'imputato (che questi contesta), ma anche dell'assenza di elementi positivi valutabili a tal fine.
4.3. Non ha rilevanza l'omessa contestazione della recidiva, giuridicamente possibile solo tra delitti (art. 99, cod. pen.); conta l'apprezzamento posto in essere dal Tribunale per la cui insindacabilità è esaustiva la considerazione anche solo della gravità oggettiva della condotta, parametrata alla durata temporale, all'intensità del fenomeno e alla sua dimensione.
4.4. Né, per l'assoluta autonomia che la distingue, la coerenza della decisione del Tribunale in materia sanzionatoria può essere valutata alla stregua del diverso trattamento riservato con il decreto penale di condanna emesso da altro Giudice.
4.5. E' fondata invece l'eccezione relativa al trattamento sanzionatorio.
4.6.
Il reato di cui all'art. 674, cod. pen., ha di regola carattere istantaneo, e solo eventualmente permanente. La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni siano connesse, come nel caso di specie, all'esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo (Sez. 1, n. 9356 del 05/06/1985, Ferrofino, Rv. 170759; Sez. 1, n. 3162 del 10/11/1988, Mazzoni, Rv. 180652; Sez. 1, n. 2598 del 13/11/1997, Garbo, Rv. 209960).
4.7. Ancor più chiaramente Sez. 1, n. 9293 del 10/08/1995, Zanforlini, Rv. 202403, ha affermato che
la contravvenzione prevista e punita dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas, di vapori, di fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e legata al ciclo produttivo, assume il carattere della permanenza, non potendosi ravvisare la consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione di durata temporale non sempre individuabile (nello stesso senso anche Sez. 5, n. 41137 del 15710/2001, Piscitelli, Rv. 220054; cfr. altresì Sez. 3, n. 19637 del 27/01/2012, Ghidini, Rv. 252890, secondo cui il carattere continuativo del reato di getto pericoloso di cose, che ha natura permanente, non si identifica con la ripetitività giornaliera delle emissioni moleste, essendo sufficiente che esse si protraggano, senza interruzioni di rilevante entità, per un apprezzabile lasso di tempo a cagione della duratura condotta colpevole del soggetto agente).
4.8. Correttamente, pertanto, il Pubblico Ministero ha contestato la consumazione del reato in forma aperta, altrettanto correttamente il Giudice all'esito del dibattimento ha individuato il termine finale della condotta (aprile 2013) senza con ciò violare l'obbligo di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza.
4.9. In disparte l'abnorme aumento della pena base, quel che il Tribunale non avrebbe potuto fare era ritenere la pluralità delle condotte (e quindi la continuazione) sol perché le emissioni non erano state continue in quanto condizionate dalle fasi di produzione e dal variare della situazione atmosferica (pressione, venti, pioggia) «pur essendo state ricorrenti e nell'ampio arco di tempo anche costanti».
4.10. Questo concetto di "continuità" non è in linea con l'insegnamento di questa Corte perché non equivale, come detto, a "costanza" delle emissioni, ma all'unica causa che le produce che rende unica la condotta ed il relativo atteggiamento psicologico.
4.11. Ne consegue che, ferma restando l'irrevocabile accertamento della responsabilità penale dell'imputato, la sentenza deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio al Tribunale di Bergamo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.09.2015 n. 36905).

ENTI LOCALI - VARI: Telecamere con l'avviso. Videosorveglianza anche senza registrazione. La Cassazione cambia idea. Volti ripresi sono sempre dato personale.
La ripresa di immagini è sempre videosorveglianza anche se non si fa registrazione. E i volti ripresi sono sempre un dato personale, anche se la persona non viene identificato.

La Corte di Cassazione (Sez. II civile, sentenza 02.09.2015 n. 17440) cambia la sua giurisprudenza e fa chiarezza sulle regole generali della videosorveglianza e conferma la sanzione comminata dal garante della privacy a una torrefazione calabrese, che non aveva esposto il cartello informativo previsto per la videosorveglianza.
Nel caso specifico si è trattato di una telecamera presente all'interno di un negozio, collegata a un monitor sistemato nel soppalco dell'esercizio commerciale, utilizzata dal titolare per sorvegliare l'accesso degli avventori.
La vicenda è stata sanzionata dal Garante della privacy per violazione dell'obbligo di informativa ai sensi dell'articolo 13 del codice della privacy (Ddlgs 196/2003).
Il commerciante ha presentato opposizione in cui ha sostenuto che non aveva trattato dati personali e questo perché non c'era la registrazione delle immagini e perché riprendeva le immagini senza poter identificare le persone.
In effetto un orientamento giurisprudenziale risalente al 2009 (sentenza n. 12997 della Cassazione) sosteneva che l'immagine non fosse di per sé un dato personale, senza una didascalia o un sonoro che individuasse la persona.
Questo orientamento è stato accolto dal giudice di primo grado, che ha annullato la sanzione, ritenendo che l'immagine di una persona non potesse essere definita dato personale in assenza di elementi oggettivi che ne consentano una potenziale identificazione. In particolare, il Tribunale ha valorizzato le modalità e la funzione della videoripresa, finalizzata unicamente a consentire al titolare dell'esercizio di controllare l'accesso di persone sospette nel proprio locale al piano terreno per il tempo in cui lo stesso si trovava nel laboratorio collocato su un soppalco, in assenza di ogni potenziale identificabilità delle persone riprese, peraltro da un apparecchio di non elevata definizione, senza alcuna possibilità di registrazione delle immagini stesse.
Con la sentenza in commento la Cassazione cambia idea, riforma la sentenza di primo grado e sostiene che l'immagine è un dato immediatamente idoneo a identificare la persona, a prescindere dalla sua notorietà.
In particolare, con riferimento all'attività di videosorveglianza senza registrazione, la Cassazione ricorda che il trattamento è legittimo e riporta quanto prescritto dal garante e cioè che «nei casi in cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni (ad esempio gioiellerie, supermercati, filiali di banche, uffici postali)».
Il trattamento è legittimo, ma proprio per questo è soggetto all'obbligo dell'informativa. E in caso di violazione di questo obbligo scatta la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall'articolo 161 del codice della privacy (articolo ItaliaOggi del 20.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie di demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che costituisce uno delle tre tipologie della ristrutturazione edilizia, può rientrare in tale ambito nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, la giurisprudenza di questo Consiglio ha pacificamente affermato che l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Ancora più in dettaglio, si è notato che ai sensi della lettera d), comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.


4. - La questione in scrutinio si fonda sull’originario ricorso in prime cure, accompagnato da motivi aggiunti, con cui As.Pe., proprietaria di un’unità immobiliare sita nel Comune di Grumo Nevano, confinante con una porzione di terreno in via Gilioli, n. 25 rientrante nella medesima “zona B Satura” - Sottozona B2, ha impugnato il provvedimento con il quale il Comune ha rilasciato, in favore della controinteressata Pa.Im. s.r.l., il permesso di costruire n. 123/2008 per lavori di ristrutturazione edilizia comportante la demolizione e ricostruzione di un preesistente fabbricato.
Trattandosi di questione inerente la legittimità del rilascio di un titolo abilitativo, il giudizio si è articolato fondamentalmente intorno ai due temi della qualificazione dell’intervento da realizzare e della sua compatibilità con l’assetto urbanistico dell’area. Pertanto, anche in grado di appello, la trattazione potrà essere organizzata intorno di detti due poli concettuali, da valutare prioritariamente.
4.1. - In merito alla tipologia di intervento da realizzare, la parte appellata ha evidenziato in prime cure come l’area fosse interessata da un intervento di totale demolizione e successiva ricostruzione dove, al posto del preesistente fabbricato, originariamente composto da un piano terra e due piani rialzati, sarebbe stato realizzato un immobile costituito da quattro piani fuori terra (piano terra e tre piani rialzati) ed un sottotetto abitabile, oltre ad un vasto piano interrato. Si sarebbe trattato pertanto di un edificio del tutto diverso rispetto al preesistente e quindi incompatibile con il concetto di ristrutturazione edilizia per demolizione e ricostruzione e con le previsioni valevoli nell’area.
Si tratta quindi di valutare se effettivamente l’edificio da realizzare sia compatibile con il concetto di ristrutturazione edilizia.
A tal fine, va evidenziato come la fattispecie di demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che costituisce uno delle tre tipologie della ristrutturazione edilizia, può rientrare in tale ambito nei soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente conforme alla precedente struttura oggetto di demolizione (sui limiti del concetto, sempre fondamentale il rinvio a Corte Costituzionale, 23.11.2011 n. 309).
A tal fine, la giurisprudenza di questo Consiglio ha pacificamente affermato che l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2014 n. 2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n. 2972).
Ancora più in dettaglio, si è notato (Consiglio di Stato, sez. IV, 06.12.2013 n. 5822) che ai sensi della lettera d), comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Pertanto, e contrariamente a quanto sostenuto dalle parti appellanti, l'intervento edilizio oggetto di contenzioso, dimensionalmente caratterizzato come sopra evidenziato, non rientra nel canone della ristrutturazione ma in quella della nuova edificazione.
Per altro verso, il primo giudice ha convincentemente dimostrato come indicazioni in senso opposto non possano trarsi neppure dalla disciplina regionale (anche perché, qualora ciò fosse possibile, la legge regionale dovrebbe essere posta al vaglio del giudice delle leggi, come già avvenuto per la legge regionale Lombardia, oggetto della pronuncia della Corte costituzionale già sopra citata).
Infatti, in Campania, la legge regionale 28.11.2001, n. 19, all'art. 2, nel prevedere che le ristrutturazioni possono essere realizzate in base a semplice denuncia di inizio di attività (D.I.A.), fa riferimento a “le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e della ricostruzione con lo stesso ingombro volumetrico”. La detta disposizione, foriera di ambiguità interpretatative, è stata poi rimodulata dall'art. 49, comma 5, della successiva legge regionale Campania 22.12.2004, n. 16 che si è adeguata alla disciplina del T.U. dell’edilizia.
Il primo aspetto della questione va poi concluso vagliando il tema del massimo quantum volumetrico che il Comune avrebbe potuto autorizzare, qualora l’opera fosse rimasta nell’ambito della ristrutturazione per demolizione e ricostruzione.
Anche in questo caso, deve essere condivisa la valutazione del primo giudice, atteso che parte dell’immobile preesistente era stato costruito in difformità rispetto al precedente titolo autorizzativo n. 125/1992 e non era stato mai sanato, per cui, autorizzando una ricostruzione volumetrica che andava ad assorbire la parte abusiva, il Comune di fatto ha dato vita ad una sanatoria implicita, del tutto non conforme a legge.
Al contrario, in assenza di condono edilizio, atteso che non poteva dirsi formato su di esso il silenzio-assenso, stante la mancanza dei presupposti di legge (ed effettivamente si trattava di un manufatto privo di tompagnature), la volumetria illegittimamente realizzata non può essere considerata ai fini del rilascio di un titolo abilitativo.
Tale elemento incide anche su un ulteriore profilo dimensionale del progetto autorizzato, oggetto di espressa valutazione da parte del TAR e inerente l’altezza dell’opera realizzanda. Papa Immobiliare s.r.l. ha infatti conseguito un titolo per realizzare il nuovo immobile ad un’altezza superiore (13,50 m) rispetto a quella preesistente (10,50 m), laddove secondo i parametri tecnici dettati dall'art. 8 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, “l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti”. E correttamente il primo giudice ha richiamato il tema dell’inderogabilità (ora possibile ma solo previa legge regionale) del d.m. 02.04.1968, n. 1444 che, integrando con efficacia precettiva il regime delle altezze nelle costruzioni, rendono ancora più palese la non conformità del progetto alle prescrizioni normative.
Conclusivamente, nel caso in esame, si è di fronte al rilascio di un permesso di costruire per un’opera di nuova edificazione, e non di mera ristrutturazione edilizia, nel cui computo dimensionale, si è erroneamente tenuto conto anche di volumetrie illegittimamente realizzate, finendo per autorizzare esiti che violano la disciplina cogente di cui al D.M. 1444 del 1968 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.09.2015 n. 4077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa regola, che la giurisprudenza e la pratica hanno derivato dal succedersi della disciplina urbanistica nel tempo (l. 1150/1942 e legge-ponte n. 765/1967), è che soltanto a decorrere dal primo settembre 1967, in seguito all’entrata in vigore della cosiddetta legge-ponte n. 765 del 1967, sussiste l’obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale; prima di quella data, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150/1942, sussisteva l’obbligo di previa licenza solo per edificare nei centri abitati o nelle zone di espansione previste dal piano regolatore generale.
Pertanto, se si sono realizzati senza titolo interventi edilizi in area posta al di fuori del centro abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la necessità del titolo abilitativo fuori del centro abitato, non è configurabile alcun abuso edilizio e quindi tali opere devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la sanzione della demolizione.
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Il Collegio osserva che, nella detta materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti edilizi comunali. Di tale regola hanno fatto applicazione il Comune e il primo giudice.
Ad opinione del Collegio, tuttavia, tale articolato regime normativo, che impone l’obbligo di munirsi del titolo abilitativo (da intendersi come licenza edilizia o simile), dovendosi intendere tale dovere in senso ristretto -e cioè laddove espressamente tipizzato e obiettivamente riconoscibile dalla disciplina ratione temporis vigente-, non può rinvenirsi in norma regolamentare quale quella presa in esame dal giudice di primo grado: ed infatti, in disparte la questione della titolarità dell’asserito potere permissivo (perché esercitato dalla Giunta Provinciale, valevole per i Comuni della Provincia di Savona, ma non certo di livello comunale), nei suoi contenuti, prevedeva soltanto un “obbligo di denuncia” al Podestà, sicché pare del tutto irragionevole desumerne la violazione dell’obbligo (operante solo in quanto, appunto, normativamente tipizzato anteriormente alla legge urbanistica del 1942) di munirsi di titolo abilitativo edilizio e sostenere la conseguente afflittiva abusività dei manufatti allora realizzati.

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L’appello è fondato nei sensi che seguono.
L’appellante ha sostenuto e dimostrato, con la produzione in giudizio nel fascicolo di primo grado, che il “Regolamento Edilizio Tipo” approvato dalla Giunta provinciale nell’anno 1929, ritenuto dal primo giudice non abrogato dalla entrata in vigore della legge n. 1150 del 1942 ai sensi dell’art. 31 della suddetta legge, in realtà non prevedeva un obbligo di autorizzazione o licenza, ma soltanto un obbligo di denuncia al Podestà (art. 1 del regolamento) per ogni intervento edilizio da realizzare nei Comuni della Provincia di Savona.
La regola, che la giurisprudenza e la pratica hanno derivato dal succedersi della disciplina urbanistica nel tempo (la legge n. 1150 del 1942 e la legge-ponte n. 765 del 1967), è che soltanto a decorrere dal primo settembre 1967, in seguito alla entrata in vigore della cosiddetta legge-ponte n. 765 del 1967, sussiste l’obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale; prima di quella data, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150 del 17.08.1942, sussisteva l’obbligo di previa licenza solo per edificare nei centri abitati o nelle zone di espansione previste dal piano regolatore generale.
Pertanto, se si sono realizzati senza titolo interventi edilizi in area posta al di fuori del centro abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la necessità del titolo abilitativo fuori del centro abitato, non è configurabile alcun abuso edilizio e quindi tali opere devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la sanzione della demolizione.
Il primo giudice ha ritenuto sussistere, ratione temporis, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia sulla base della previdenza del regolamento edilizio comunale, risalente al 1929.
L’appello, al contrario, rimarca che, in primo luogo, non si tratterebbe di regolamento edilizio comunale, ma di tipo provinciale e, soprattutto, che in esso non sarebbe previsto l’obbligo di dotarsi della licenza edilizia o di autorizzazione.
Il Collegio osserva che, nella detta materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti edilizi comunali (tra varie, Cons. Stato, 5141 del 21.10.2008; n. 287 del 14 marzo 1980). Di tale regola hanno fatto applicazione il Comune e il primo giudice.
Ad opinione del Collegio, tuttavia, tale articolato regime normativo, che impone l’obbligo di munirsi del titolo abilitativo (da intendersi come licenza edilizia o simile), dovendosi intendere tale dovere in senso ristretto -e cioè laddove espressamente tipizzato e obiettivamente riconoscibile dalla disciplina ratione temporis vigente-, non può rinvenirsi in norma regolamentare quale quella presa in esame dal giudice di primo grado: ed infatti, in disparte la questione della titolarità dell’asserito potere permissivo (perché esercitato dalla Giunta Provinciale, valevole per i Comuni della Provincia di Savona, ma non certo di livello comunale), nei suoi contenuti, prevedeva soltanto un “obbligo di denuncia” al Podestà, sicché pare del tutto irragionevole desumerne la violazione dell’obbligo (operante solo in quanto, appunto, normativamente tipizzato anteriormente alla legge urbanistica del 1942) di munirsi di titolo abilitativo edilizio e sostenere la conseguente afflittiva abusività dei manufatti allora realizzati.
E’ vero che, in caso di manufatto realizzato al di fuori del centro abitato, colui che contesta l’ordine di demolizione deve fornire almeno un principio di prova in ordine al tempo di realizzazione e ultimazione dello stesso, se si asserisce la precedenza rispetto alla entrata in vigore della legge-ponte n. 765 del 1967, e cioè per quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia (in tal senso, tra varie, Cons. Stato, V, 13.02.1998, n. 157); nella specie, la collocazione temporale della realizzazione dei manufatti all’inizio degli anni sessanta non è in sé contestata dal Comune, che ha appuntato la sua attenzione sulla previgenza del su richiamato regolamento.
L’accoglimento del motivo di appello relativo alla assenza di regolamenti edilizi propriamente recanti l’obbligo preesistente di munirsi di licenza, o altro titolo abilitativo edilizio, per manufatti realizzati negli anni sessanta (prima della legge-ponte n. 765 del 1967) al di fuori del centro abitato, per la regola dell’assorbimento sulla base del principio dell’economia di giudizio (in tal senso, Ad. Plenaria, n. 5 del 27.04.2015), rende superfluo l’esame degli altri motivi di appello.
Soltanto per completezza, il Collegio osserva che le richiamate diverse oscillanti opinioni sull’assenza di affidamento per decorso del tempo in caso di realizzazione di abusi edilizi (ritenuta continuamente da questo Consesso, tra varie, Cons. Stato, V, 15.07.2013, n. 3847) e sulla eventuale attenuazione di tale principio, affermatasi in taluni casi soprattutto dal giudice di primo grado, non possono che valutarsi compiutamente soltanto in relazione alle varie circostanze dei casi concreti, e non già in astratto e secondo una incondizionata ed inderogabile regola generale.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va accolto e, conseguentemente, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il ricorso originario, con conseguente annullamento degli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.08.2015 n. 3899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Cinema, la locandina paga l'imposta.
Per il cinema ubicato all'interno di un centro commerciale, i mezzi pubblicitari che riportano le locandine dei film in programmazione scontano comunque l'imposta comunale sulla pubblicità, qualora i manifesti siano apposti in luoghi comuni a tutti gli esercizi commerciali, quali il parcheggio esterno o i corridoi del centro commerciale. Non opera, in tali casi, l'esenzione stabilita dall'articolo 17, comma 1, lettera c), del dlgs n. 507/93, applicabile solamente laddove le locandine siano esposte all'interno, sulle facciate esterne o sulle recinzioni del cinema stesso.

È quanto si legge nella sentenza 07.08.2015 n. 313/02/15 della Ctp di Como.
Il collegio si pronuncia sul ricorso proposto da un cinema d Cantù, la cui struttura è ubicata all'interno di un centro commerciale, contro un avviso di accertamento recante una maggior imposta comunale di pubblicità.
Oggetto della diatriba erano delle insegne luminose riportanti le locandine dei film in programmazione. Il ricorrente richiamava l'agevolazione prevista dall'articolo 17, comma 1, lettera c), del dlgs n. 507/1993, secondo cui è esente dall'imposta «la pubblicità comunque effettuata all'interno, sulle facciate esterne o sulle recinzioni dei locali di pubblico spettacolo qualora si riferisca alle rappresentazioni in programmazione».
La Commissione, dopo aver analizzato attentamente l'ubicazione delle locandine in parola, supportata dalla documentazione fotografica allegata agli atti del procedimento, ha rigettato il ricorso. La norma richiamata, infatti, è una disposizione di carattere eccezionale e va interpretata in maniera rigida. Per cui, nel caso in questione, riveste un ruolo fondamentale il fatto che le locandine fossero posizionate all'interno del parcheggio del centro commerciale (su di un pannello luminoso) e nella galleria dello stesso; quindi, in luoghi comuni ai diversi esercizi commerciali ospitati dalla struttura.
«Entrambi i luoghi dove sono ubicati i predetti mezzi pubblicitari», si legge nella sentenza, «non soddisfano i requisiti della norma invocata perché non si trovano all'interno ai locali del cinema, né possono dirsi esposti sulle facciate esterne dello stesso o sulle recinzioni».
Non può invocarsi, in tal caso, l'esenzione prevista dal citato articolo 17 che, in quanto norma eccezionale, va applicata solamente ai casi di stretta aderenza alle fattispecie previste. Niente esenzione, dunque, per le locandine esposte all'interno del centro commerciale, in luoghi comuni ai diversi esercizi.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis]
Il ricorso è stato presentato con esclusivo riferimento a due di mezzi pubblicitari contemplati nell'avviso di accertamento oggetto di impugnazione ed in particolare al «pannello con manifesti dei film» e «all'espositore presso ingresso», entrambi ubicati presso le sale cinematografiche di ?..
Dei due mezzi succitati sono state allegate rappresentazioni fotografiche nelle controdeduzioni della? SPA come da documenti 4 e 5 (foto contrassegnate anche nelle lettere N ed H dell'avviso di accertamento).
La norma invocata da parte ricorrente recita che l'esenzione opera per «la pubblicità, comunque effettuata all'interno, sulle facciate esterne o sulle recinzioni dei locali di pubblico spettacolo qualora si riferisca alle rappresentazioni in programmazione».
I mezzi pubblicitari oggetto di contestazione, ancorché riportino le locandine dei film in programmazione, non risultano ubicati in nessuno dei luoghi previsti dalla norma invocata e ciò appare sufficiente a ritenere l'inapplicabilità giacché trattasi di norme eccezionali di stretta interpretazione.
In particolare, il pannello con manifesti del film di cui all'allegato 4) delle controdeduzioni della parte convenuta è collocato all'esterno dei locali di pubblico spettacolo, su una montagnola che sovrasta l'area di parcheggio del ? dove, tra i vari esercizi commerciali, si trova il cinema .
L'allegato 5, ossia quello relativo all'espositore con i film in programmazione, si trova nella galleria interna del Centro Commerciale? all'imbocco delle scale che conducono al piano superiore dove, tra i vari esercizi commerciali, si trovano anche le sale cinematografiche.
Pertanto, entrambi i luoghi dove sono ubicati i predetti mezzi pubblicitari non soddisfano i requisiti della norma invocata perché si non si trovano all'interno dei locali del cinema, né possono dirsi esposti sulle facciate esterne dello stesso, né possono dirsi presenti sulle recinzioni dei locali di pubblico spettacolo (peraltro neppure presenti nel caso di specie).
In definitiva, non sussistono nella fattispecie all'esame della C.T.P. i presupposti per l'esenzione invocata e il ricorso deve essere respinto perché infondato (articolo ItaliaOggi Sette del 19.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla compatibilità paesaggistica circa la mera sostituzione di tre silos preesistenti (due dei quali posizionati in verticale anziché in orizzontale) al mero e dichiarato fine di adeguare l’impianto esistente alle migliori tecnologie.
Dalla documentazione prodotta emerge che i serbatoi sono stati sostituiti e ricollocati in posizione verticale anziché in orizzontale (come in origine) e costituiscono una mera parte integrante e servente di un più complesso e strutturato macchinario volto alla produzione di asfalto, già esistente da circa 60 anni.
L’intervento in questione, dunque, non avendo determinato la formazione di alcun nuovo volume, è quindi pacificamente sussumibile entro la fattispecie di cui agli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del D.lgs. n. 42/2004, come tale possibile oggetto di autorizzazione in sanatoria.
La stessa Circolare Ministeriale n. 33/2009 (richiamata dalla Soprintendenza a sostegno del proprio parere negativo) espressamente afferma che i “volumi tecnici non rilevano ai fini del rilascio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi del combinato disposto degli artt. 167 e 181, D.lgs. n. 42/2004”.

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Tanto l’art. 167, co. 4, lett. c), quanto l’art. 181, co. 1-ter, lett. c), D.lgs. n. 42/2004 dispongono che è sempre possibile rilasciare l’accertamento di compatibilità paesaggistica “per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b), del DPR n. 380/2001, per manutenzione straordinaria si intendono “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire anche parti strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
L’intervento realizzato dalla società ricorrente è riconducibile alla fattispecie della manutenzione straordinaria, dal momento che si è sostanziato nella mera sostituzione di tre silos preesistenti (due dei quali posizionati in verticale anziché in orizzontale) al mero e dichiarato fine di adeguare l’impianto esistente alle migliori tecnologie, rendendo lo stesso più sicuro e abbattendo financo le emissioni (con ogni positivo risvolto in termini ambientali da ciò derivante).
Non si è trattato di un ampliamento dell’impianto esistente ovvero di una sua modifica sostanziale, bensì di un mero adeguamento funzionale dello stesso mediante sostituzione di componenti tecnologici ormai superati e non più adeguati e funzionali al relativo utilizzo.
L’intervento, non avendo determinato formazione di nuovo volume è pacificamente sussumibile nella fattispecie disciplinata dagli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1 ter, lett. a) D.lgs. n. 42/2004, quindi passibile di sanatoria.

... per l’annullamento:
- dell’ordinanza n. 3 del 07.01.2014, notificata in data 10.01.2014, a firma del Responsabile del Servizio Arch. Ma.Be., con la quale è stata ordinata alla ricorrente la rimozione di quanto realizzato pretesamente in assenza di titoli abilitativi nonché di tutti i provvedimenti ad essa preordinati, conseguenti e/o connessi, ancorché sconosciuti, ivi comprese -per quanto occorrer possa- le note della Soprintendenza in data 22.08.2013, prot. n. 10790 e in data 02.09.2013 prot. n. 11169
- e per il risarcimento in forma specifica, e/o per equivalente, dei danni patiti e patiendi a causa degli atti impugnati e dei comportamenti censurati,
e, con i motivi aggiunti depositati in data 31.07.2014, per l’annullamento:
- dell’ordinanza n. 24 del 21.05.2014, notificata alla ricorrente a firma del Responsabile del Servizio Arch. Be. con la quale è stata ordinata la rimozione di quanto realizzato in pretesa assenza di titoli abilitativi;
- della nota della Soprintendenza in data 08.05.2014, prot. n. 5763, nonché di tutti i provvedimenti preordinati, conseguenti e/o connessi, ancorché sconosciuti;
- e per il risarcimento in forma specifica, e/o per equivalente, di ogni danno presente o futuro derivato dagli atti impugnati e dai comportamenti oggetto di giudizio.
...
Il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati.
Va premesso che la società ricorrente è proprietaria di un impianto di produzione di asfalto in Comune di Orta San Giulio (NO) -attivo sin dal 1955- catastalmente individuato ai mapp. nn. 110 sub 1 e 73 sub 3, fg. n. 8.
L’impianto insiste in zona destinata dal vigente strumento urbanistico comunale in area artigianale-industriale esistente e di completamento come previsto dall’art. 72 delle NTA.
Sotto il profilo paesaggistico-ambientale l’area è soggetta a vincolo ex art. 157, co. 1, lett. e), D.Lgs. n. 42/2004 (ex D.M. 01.08.1985, c.d. “Galassino”).
Con istanza 31.08.2012 la ricorrente ha chiesto autorizzarsi l’installazione di un nuovo deposito di oli minerali ad uso industriale.
L’intervento non ha determinato la realizzazione di alcuna nuova opera edilizia perché sono stati utilizzati esclusivamente gli impianti già esistenti, come da allegate due fotografie (doc. 4 della produzione della parte ricorrente) ma si è comunque resa necessaria anche la presentazione della succitata istanza d’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Detta richiesta riguardava la realizzazione di lavori di mera modifica mediante sostituzione della disposizione di due serbatoi facenti parte del più complesso impianto per la produzione di asfalto stradale, portati in posizione verticale (in luogo di quella orizzontale originaria) al fine di ridurre le emissioni dell’impianto e rendere lo stesso più sicuro ed eco-energetico nel proprio funzionamento, in conformità alle moderne tecnologie.
Era altresì prevista la sostituzione di un terzo silos già esistente (esso pure riposizionato in orizzontale).
Assume rilievo la circostanza che l’impianto è presente in loco dagli anni ‘50 e l’intervento non ne ha mutato le caratteristiche, le dimensioni né ha comportato la creazione di nuovi volumi o superfici, essendosi limitato ad apportare mere migliorie tecniche di adeguamento ai moderni standard qualitativi, ambientali e di sicurezza.
Per queste ragioni la richiesta di accertamento di conformità è stata positivamente vagliata dall’Amministrazione comunale.
Di contro, la Soprintendenza, con nota in data 22.08.2013, prot. n. 10790, ha rilevato che l’intervento “non risulta compreso tra quelli descritti dall’art. 181, comma 1-ter (...)” e, pertanto, “l’istanza non risulta procedibile”.
Con nota in data 23.08.2013, prot. n. 7431 il Comune di Orta contestava recisamente alla Soprintendenza il contenuto della succitata nota rilevando come -a differenza di quanto ivi asserito dalla stessa- l’intervento realizzato dalla ricorrente non avesse determinato incremento di volume e che, in ogni caso, tale istanza non potesse ritenersi “improcedibile”, presupponendo pur sempre una pronuncia di merito (ancorché negativa).
Sulla scorta di tali rilievi critici, con nota prot. 8125, il Comune di Orta richiese alla Regione Piemonte un parere in merito alla vicenda oggetto del giudizio.
Con successiva nota in data 02.09.2013, prot. n. 11169, la Soprintendenza ribadiva che “la demolizione e nuova realizzazione di silos per il contenimento di materiali inerti bituminosi non può che configurare un caso di creazione di nuovo volume” e ciò invocando il contenuto della Circolare Ministeriale 26.06.2009 n. 33 per concludere che l’opera non poteva rientrare nell’accezione di volume tecnico.
Il Comune di Orta San Giulio -preso atto della nota della Soprintendenza del 17.01.2014, prot. n. 801, con cui era ritenuto “meritevole di approfondimento” il contributo partecipativo depositato dalla ricorrente dopo il preavviso di diniego sulla domanda di accertamento paesaggistico- con ordinanza n. 29 il 03.03.2014, assunta ex art. 21-quater, co. 2, L. n. 241/1990 ha sospeso per 90 giorni l’esecutività dell’ordinanza di ripristino n. 3/2014 (impugnata con il ricorso introduttivo) in attesa d’una complessiva rivalutazione della fattispecie da parte della Soprintendenza.
Aderendo all’invito della Soprintendenza con la nota del 17.01.2014, prot. n. 801 la ricorrente -tramite il proprio tecnico in data 31.03.2014, prot. n. 3544- ha depositato un’articolata relazione (con documentazione fotografica e schemi grafici) illustrativa di come l’intervento in questione -lungi dal creare nuovi volumi- fosse sussumibile nell’ambito di manutenzione straordinaria, sanabile anche ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004.
La relazione rappresenta in modo puntuale come le opere consistano nella sostituzione di componenti tecnologiche senza ampliamento o modifica sostanziale dell’impianto (presente da oltre 50 anni) per renderlo conforme alle sopravvenute norme produttive.
Con nota in data 08.05.2014, prot. n. 5763, la Soprintendenza -muovendo dal presupposto che l’intervento abbia alterato lo stato dei luoghi comportando “la creazione di nuovo volume”- ha nuovamente espresso parere negativo.
Il Comune di Orta San Giulio emetteva in data 21.05.2014 una nuova ordinanza di riduzione in pristino per le opere realizzate con l’intervento edilizio.
Merita accoglimento il primo motivo di censura del ricorso, dedotto anche in via derivata con i motivi aggiunti, con il quale si lamenta violazione di legge (artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 e della circolare ministeriale n. 33/2009) - eccesso di potere per travisamento, arbitrarietà, carenza di motivazione e di istruttoria.
L’ordinanza impugnata si fonda -motivando per relationem- sul contenuto delle note della Soprintendenza rispettivamente in data 22.08.2013 e 02.09.2013.
Con esse la Soprintendenza ha ritenuto non meritevole di accoglimento l’istanza di sanatoria poiché sarebbe stato creato “nuovo volume”.
Dalla documentazione prodotta emerge che i serbatoi sono stati sostituiti e ricollocati in posizione verticale anziché in orizzontale (come in origine) e costituiscono una mera parte integrante e servente di un più complesso e strutturato macchinario volto alla produzione di asfalto, già esistente da circa 60 anni.
L’intervento in questione, dunque, non avendo determinato la formazione di alcun nuovo volume, è quindi pacificamente sussumibile entro la fattispecie di cui agli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del D.lgs. n. 42/2004, come tale possibile oggetto di autorizzazione in sanatoria.
La stessa Circolare Ministeriale n. 33/2009 (richiamata dalla Soprintendenza a sostegno del proprio parere negativo) espressamente afferma che i “volumi tecnici non rilevano ai fini del rilascio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi del combinato disposto degli artt. 167 e 181, D.lgs. n. 42/2004”.
Con nota 11.10.2014, prot. n. 26629, la Regione ha rilevato come “vi siano ragionevoli ed univoche motivazioni per ritenere che l’impianto in esame sia da ammettere tra casi di volume tecnico (...); tali elementi vanno determinati proprio per le caratteristiche evidenziate dell’opera in progetto e per la sua funzionalità obiettiva nell’ambito della produzione del complesso edilizio”.
Fondato è anche il secondo motivo di censura (fatto valere in via derivata con i motivi aggiunti) con il quale si lamenta la violazione di legge (artt. 167 co. 4, lett. c) e 181, co. 1 ter, lett. c) del d.lgs. n. 42/2004; art. 3 d.m. n. 380/2001) - eccesso di potere per travisamento, arbitrarietà, carenza di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà.
Tanto l’art. 167, co. 4, lett. c), quanto l’art. 181, co. 1-ter, lett. c), D.lgs. n. 42/2004 dispongono che è sempre possibile rilasciare l’accertamento di compatibilità paesaggistica “per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b), del DPR n. 380/2001, per manutenzione straordinaria si intendono “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire anche parti strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
L’intervento realizzato dalla società ricorrente è riconducibile alla fattispecie della manutenzione straordinaria, dal momento che si è sostanziato nella mera sostituzione di tre silos preesistenti (due dei quali posizionati in verticale anziché in orizzontale) al mero e dichiarato fine di adeguare l’impianto esistente alle migliori tecnologie, rendendo lo stesso più sicuro e abbattendo financo le emissioni (con ogni positivo risvolto in termini ambientali da ciò derivante).
Non si è trattato di un ampliamento dell’impianto esistente ovvero di una sua modifica sostanziale, bensì di un mero adeguamento funzionale dello stesso mediante sostituzione di componenti tecnologici ormai superati e non più adeguati e funzionali al relativo utilizzo.
L’intervento, non avendo determinato formazione di nuovo volume è pacificamente sussumibile nella fattispecie disciplinata dagli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1 ter, lett. a) D.lgs. n. 42/2004, quindi passibile di sanatoria.
Il ricorso ed i motivi aggiunti vanno, pertanto, accolti e gli atti impugnati vanno conseguentemente annullati, facendo salva l’ulteriore attività provvedimentale della Pubblica Amministrazione nel rispetto dei principi sopra delineati (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.05.2015 n. 867 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il permesso di costruire in "deroga" agli strumenti urbanistici consentendo la realizzazione di un impianto sportivo in zona classificata come agricola e, dunque, al di là dei limiti autorizzabili di deroga che delinea l'art. 14 dpr 380/2001 per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, ove al terzo comma sono identificati esclusivamente -fermo il rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza- nei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra fabbricati.
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3. Il ricorso è infondato.
Premesso che la censura sul contenuto effettivo della delibera consiliare si colloca su un piano fattuale, cui non si estende il controllo del giudice di legittimità, deve darsi atto che l'ordinanza impugnata esplica in modo adeguato proprio la valutazione della sussistenza degli
elementi giustificativi della cautela disposta dal gip. Per quanto riguarda, in particolare, la questione del contrasto tra la delibera del consiglio comunale del 10.06.2013 e gli strumenti urbanistici vigenti, il  Tribunale espressamente condivide quanto ritenuto dal gip, e cioè che
il permesso conseguentemente rilasciato è illegittimo -concernendo un'area classificata agricola e dunque non edificabile- in quanto sussiste violazione dell'articolo 14 d.p.r. 380/2001.
Infatti -rileva il Tribunale-
il permesso di costruire pone una illegittima deroga appunto agli strumenti urbanistici laddove consente la realizzazione di un impianto sportivo in zona classificata come agricola, e dunque al di là dei limiti autorizzabili di deroga che delinea il citato articolo 14 per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, al terzo comma li identifica esclusivamente -fermo il rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza- nei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra fabbricati (cfr. motivazione, pagina 3).
Peraltro, rimarcando che l'imputazione non include il reato edilizio di cui all'articolo 44 d.p.r. 380/2001, circoscrivendosi al delitto di abuso di ufficio, il Tribunale, ai fini dell'integrazione appunto del reato di cui all'articolo 323 c.p., osserva che il contrasto con il citato articolo 14 era già ravvisabile nel regolamento edilizio del Comune approvato con delibera del consiglio comunale n. 35 del 29.11.2011 -regolamento che prevede all'articolo 108 la possibilità di rilasciare permessi di costruire in deroga anche in zona agricola per interventi di tipo turistico-sportivo-, desumendone la carenza del fumus commissi delicti quanto al dolo intenzionale di favorire i ricorrenti nella condotta degli amministratori, ed avendo d'altronde gli attuali proprietari acquistato il terreno solo quando l'iter prodromico al rilascio del permesso era ormai completo.
In conclusione, deve ritenersi che il Tribunale abbia adempiuto il suo obbligo di riesame vagliando -come si è visto, con esito negativo sul piano dell'elemento soggettivo- il presupposto del fumus commissi delicti, tra l'altro non attribuendo alla delibera consiliare che il 03.05.2013 ha approvato a maggioranza la proposta dell'assessore ai lavori pubblici di rilasciare il permesso in deroga di destinazione d'uso un contenuto di "modifica generale del piano regolatore" (come censura il PM), al contrario ravvisando tale generalità contenutistica nella delibera consiliare del 29.11.2011 che aveva approvato il -illegittimo come il permesso di costruire quanto all'articolo 108- regolamento edilizio comunale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2014 n. 46625 - udienza).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera, da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con quella conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere.
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale conformità consentendo di "correggere" il concreto contenuto di un permesso di costruire (da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui nei reati edilizi "sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda").
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L'articolo 1, commi 37, 38 e 39, l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo sono stati inseriti i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano, non configurando il condono neppure come automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica
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L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi espressamente, in caso di accertamento della compatibilità paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis.
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3. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo adduce che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere non sussistente la c.d. doppia conformità e sarebbe incorsa in un vizio di contraddittorietà motivazionale per non aver adeguatamente valutato la testimonianza del tecnico comunale Le..
Il motivo non trova riscontro nell'effettivo contenuto della motivazione della sentenza impugnata, che esclude la doppia conformità sulla base di elementi specifici, rilevando che il permesso in sanatoria, pur essendovi attestata la doppia conformità, non è conforme alla pianificazione adottata al momento della realizzazione dell'opera.
In particolare nel permesso di costruire 96/2002, rispetto al quale le opere abusive sono state costruite in variazione essenziale secondo il capo di imputazione sub A, rileva il giudice d'appello che il magazzino, per quel che emerge dalla relazione 14.03.2007, doveva essere interrato, per evitare una cubatura esterna, non prevista in quella zona dagli strumenti urbanistici, laddove -evidenzia sempre il giudice d'appello- la documentazione fotografica attinente al manufatto dimostra che ciò non è avvenuto.
D'altronde è stata vagliata la deposizione del Le., evincendone una natura insufficiente a superare l'elemento oggettivo sopra richiamato (osserva tra l'altro il giudice d'appello che il teste "si è limitato a sostenere che, in occasione del sopralluogo che ha dato origine al processo, sarebbe incorso in un errore di computo ma non ha spiegato il percorso dell'asserito errore") tenuto conto del contrasto, in particolare, con le fotografie, con la relazione 14.03.2007 e con la planimetria di raffronto tra quanto assentito e quanto realizzato (motivazione, pagine 2-3).
Nessun vizio motivazionale risulta pertanto sussistere nella esposizione che la corte territoriale offre della sua valutazione che ha negato l'esistenza della doppia conformità. Non può non ricordarsi, d'altronde, che giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che
la sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001 (riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l. 28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell'opera (Cass., sez. III, 21.10.2008 n. 42526; Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499; Cass., sez. III, 18.03.2002 n. 11149), da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici (Cass. sez. III, 31.03.2011 n. 16591) e che comunque il permesso non può essere subordinato all'esecuzione di opere, che contrastano con quella conformità agli strumenti urbanistici che deve già sussistere (Cass. sez. III, 27.04.2011 n. 19587; Cass. sez. III, 26.11.2003-09.01.2004 n. 291 e Cass., sez. III, 18.12.2003 n. 48499, cit.).
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale conformità consentendo di "correggere" il concreto contenuto di un permesso di costruire (da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui nei reati edilizi "sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda").
Risulta pertanto normativamente esatta la valutazione effettuata dalla corte territoriale, per cui, in conclusione, il motivo rimane infondato.
Il secondo motivo, a ben guardare, si incentra sulla fattispecie dell'autorizzazione paesaggistica, che, essendo stata concessa dal Comune di Pieve Ligure nel caso di specie in data 27.02.2009 (sulla base di un parere della Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria nel senso che l'intervento non comprometteva gli equilibri ambientali della zona), avrebbe dovuto, ad avviso del ricorrente, togliere ogni rilievo penale al reato di cui al capo B ai sensi dell'articolo 181, comma 1-ter, d.lgs. 42/2004. La corte territoriale avrebbe dunque violato tale normativa e fornito una motivazione illogica perché di contenuto diverso rispetto ai pareri delle autorità amministrative.
Rilevato che comunque una motivazione di per sé non può definirsi illogica meramente perché non coincide, come contenuto, con un parere della P.A., si osserva che la corte territoriale ha esattamente affermato la non incidenza delle valutazioni della competente autorità amministrativa in ordine alla sussistenza del reato, laddove trattasi di fattispecie di cui all'articolo 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, in forza di "vincolo specifico istituito con D.M. 14.12.1959".
E invero,
l'articolo 1, commi 37, 38 e 39, l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n. 42, in tale articolo inserendo i commi 1-ter e 1-quater che lo disciplinano, non configurando il condono neppure come automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica (Cass. sez. III, 19.09.2013 n. 44189; Cass. Sez. III, 07.12.2007-09.01.2008 n. 583; Cass. sez. III, 10.05.2006 n. 15946; Cass. sez. III, 26.10.2005-03.02.2006 n. 4429).
L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi espressamente, in caso di accertamento della compatibilità paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui al comma 1-bis.
Deve pertanto concludersi per l'infondatezza anche del secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.06.2014 n. 27491 - udienza).

AGGIORNAMENTO AL 16.10.2015

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     In questi ultimi giorni assistiamo a quanto sia grave, oramai, il degrado etico e morale della nostra società, tant'é che qualcuno vorrebbe convincerci che ciò -in questi tempi moderni- sia una cosa ordinaria, di cui farsene una ragione.
     E se allunghiamo lo sguardo nelle Istituzioni e nella Pubblica Amministrazione, in genere, la situazione è ancor peggio...
     Sicché, da parte di tutti gli "onesti" è arrivato il momento di reagire all'indifferenza e di gridare ad alta voce:

NO, io non ci sto!!

     Invero, capita a fagiolo un pronunciamento appena "sfornato" della Corte di Cassazione che, in primis, si interroga in questi termini:

Qual'è il modello astratto di "pubblica amministrazione" e di "pubblico impiegato"??
E la risposta è presto data e cioè

una pubblica amministrazione che:
(a)
rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b)
agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini (art. 1, commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c)
non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta (art. 97 cost.);
(d)
è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti (art. 98 cost.).

     Ed ancora, è stato affermato che «Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi dell'art. 97 cost. e per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un amministratore».

     Nello specifico, la Cassazione ha così statuito:

L'art. 2043 c.c. stabilisce che ciascuno è responsabile del danno causato ad altri con una condotta colposa o dolosa.
La colpa civile di cui all'art. 2043 c.c., consiste nella deviazione da una regola di condotta.
"Regola di condotta" è non soltanto la norma giuridica, ma anche qualsiasi doverosa cautela concretamente esigibile dal danneggiante.

Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o di comune prudenza è accertamento che va compiuto alla stregua dell'art. 1176 c.c., pacificamente applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
L'art. 1176 c.c. impone al debitore di adempiere la propria obbligazione con diligenza.
La diligenza di cui all'art. 1176 c.c. è nozione che rappresenta l'inverso logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato diligente, là dove chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa.
L'autore d'un illecito non è dunque per ciò solo in colpa: quest'ultima sussisterà soltanto nel caso in cui il preteso responsabile non solo abbia causato un danno, ma l'abbia fatto violando norme giuridiche o di comune prudenza.
Le norme di comune prudenza dalla cui violazione può scaturire una colpa civile non sono uguali per tutti.
Nel caso di inadempimento di obbligazioni comuni, ovvero di danni causati nello svolgimento di attività non professionali, il primo comma dell'art. 1176 c.c. impone di assumere a parametro di valutazione della condotta del responsabile il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, il "cittadino medio", ovvero il bonus paterfamilias: vale a dire la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità.
Nel caso, invece, di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni causati nell'esercizio d'una attività "professionale" in senso ampio, il secondo comma dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa.
Il "professionista", infatti, è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus paterfamilias; ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista "medio" (il c.d. homo eiusdem generis et condicionis).

L'ideale "professionista medio" di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., nella giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista "mediocre", ma è un professionista "bravo": ovvero serio, preparato, zelante, efficiente.
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La regola di valutazione della colpa dettata dall'art. 1176, comma 2, c.c., si applica anche alla pubblica amministrazione.
Essa infatti è norma generale dell'intero sistema delle obbligazioni, e detta un criterio suscettibile di applicazione in qualsiasi ipotesi di inadempimento o di responsabilità aquiliana.

Per stabilire, dunque,
se una pubblica amministrazione abbia o meno tenuto una condotta colposa, occorre confrontare la condotta da questa concretamente tenuta con la condotta che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto l'homo eiusdem generis et condicionis: vale a dire una pubblica amministrazione che:
(a) rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b) agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini (art. 1, commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c) non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta (art. 97 cost.);
(d) è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti (art. 98 cost.).

Questo, dunque, è il modello astratto di "pubblica amministrazione" e di "pubblico impiegato".
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Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi dell'art. 97 cost. e per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un amministratore.
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La diligenza esigibile dalla pubblica amministrazione nel compimento dei propri atti, ivi compresa l'adozione di provvedimenti amministrativi, va valutata col criterio dettato dagli artt. 1176, comma 2, c.c., e 97 cost.: ovvero comparando la condotta tenuta nel caso concreto, con quella che -idealmente- avrebbe tenuto nelle medesime circostanze una amministrazione "media", per tale intendendosi non già una pubblica amministrazione "mediocre", ma una pubblica amministrazione efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge.

     Di seguito un relativo articolo di stampa e la sentenza per esteso:

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Benchmark di efficienza per la Pa. Per valutare la colpa del «pubblico» i giudici tracciano l’identikit ideale. Cassazione. Intollerabile l’ignoranza del diritto e delle proprie determinazioni da parte degli uffici.
Per capire se la pubblica amministrazione è in colpa basta confrontare il suo operato con quello che, nella stessa situazione, avrebbe tenuto un’amministrazione virtuosa.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la sentenza 06.10.2015 n. 19883, detta un chiaro principio da usare come indice rivelatore di efficienza e traccia l’identikit del perfetto amministratore.
Nel mirino dei giudici era finito un Comune che, dopo aver rilasciato una concessione per costruire un immobile metà opificio metà abitazione, aveva messo in atto una serie di stop and go. In prima battuta il via libera era stato revocato perché contrario al piano regolatore approvato in un secondo momento, poi ne era stata sospesa l’efficacia perché i lavori eseguiti erano diversi da quelli autorizzati.
Nell’altalena di semafori verdi e rossi si erano inserite anche altre due ordinanze: prima per stabilire la decadenza del diritto a costruire perché il tempo era scaduto, infine per sospendere l’efficacia della concessione, ancora una volta per difformità delle opere.
Il “beneficiario” della concessione aveva così ultimato nel ’94 i lavori iniziati nell’81 e per questo aveva chiesto i danni. La Corte d’appello, pur riconoscendo che i provvedimenti adottati erano illegittimi, aveva escluso il dolo o la colpa. La sentenza, impugnata dai diretti interessati, offre l’occasione per elencare il decalogo del buon amministratore.
Per la Cassazione non è ragionevole pensare che la Pa non sappia se il piano che disciplina l’uso del suo territorio sia vigente o meno e se questo sia in linea con le autorizzazioni che lei stessa rilascia: né può accorgersi dello “scostamento” due anni e quattro mesi dopo aver dato l’ok per la costruzione. Lo stesso vale anche per il provvedimento sulla decadenza della concessione per lo sforamento del termine di ultimazione dei lavori, emesso senza porsi il dubbio che sui tempi dilatati c’era almeno una corresponsabilità degli amministratori così “indecisi” sul da farsi.
Per la Cassazione la Corte d’appello sbaglia a ritenere scusabile e non colposa la condotta della Pa. Perché se l’ignoranza della legge non è ammissibile da parte del cittadino è intollerabile nell’amministratore. I giudici sottolineano che l’articolo 1176 del Codice civile, che detta la nozione di diligenza ai fini dell’accertamento della colpa, è certamente più stringente per il professionista medio che per il cittadino.
Il criterio, precisa la Cassazione vale anche per la Pa e, a scanso di equivoci, chiarisce che per «medio» non si intende mediocre ma bravo, preparato e zelante. Per stabilire se la Pa ha tenuto una condotta colposa è necessario valutare come si sarebbe comportata, in una situazione speculare, un’amministrazione efficiente.
E i giudici
identificano la Pa virtuosa in quella che: rispetta la legge; agisce in modo efficiente senza aggravi per i cittadini; non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta; è composta da funzionari preparati, prudenti e zelanti.
Questo è il modello astratto di Pa e di pubblico impiegato, con il quale la Corte d’appello avrebbe dovuto confrontare il comportamento reale tenuto dal Comune finito sotto accusa. Che siamo lontani è evidente. Anche se l’onere di provare il danno spetta al privato, perché la colpa non basta per dimostrare il pregiudizio subito
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo di ricorso.
   2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360, n. 3, c.p.c..
Si assumono violati gli artt. 2043 c.c.; l'art. 31 della l. 17.08.1942 n. 1150; l'art. 11 della l. 28.01.1977 n. 10.
Anche questo motivo, pur formalmente unitario, si articola nella sostanza in tre censure.
   2.1.1. Con la prima censura (pp. 24-28 del ricorso) i ricorrenti allegano che la Corte d'appello avrebbe errato nel qualificare come "interesse legittimo" la pretesa da loro fatta valere.
Da ciò sarebbe derivato l'errore di pretendere dagli attori, secondo la regola dettata dall'art. 2043 c.c., la prova della colpa della p.a.. Per contro, avendo i ricorrenti fatto valere un diritto soggettivo, la prova del danno doveva ritenersi in re ipsa, e la domanda doveva essere accolta sulla base della sola dimostrazione dell'illegittimità dei provvedimenti adottati dal Comune di Polaveno.
   2.1.2. Con la seconda censura (pp. 28-29 e 30-31 del ricorso) i ricorrenti lamentano che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere esclusa la colpa della pubblica amministrazione per il solo fatto che i vari provvedimenti amministrativi fonte di danno fossero atti dovuti ed emessi sulla base di circostanze di fatto tra loro differenti. Tale circostanza, infatti, non era di per sé sufficiente ad escludere la colpa della p.a..
   2.1.3. Con la terza censura (pp. 29-30 del ricorso), infine, i ricorrenti  lamentano che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere che la domanda di risarcimento del danno causato dalla pubblica amministrazione, per mezzo d'un provvedimento illegittimo, presupponga necessariamente l'accertamento dell'illegittimità di quest'ultimo da parte del giudice amministrativo.
   2.2. La prima censura del secondo motivo di ricorso ("la Corte d'appello ha errato nel qualificare come 'interesse legittimo' la pretesa azionata dal ricorrenti") è manifestamente infondata.
La Corte d'appello ha rigettato la domanda risarcitoria sul presupposto che:
(a) difettasse la prova della colpa della pubblica amministrazione;
(b) l'onere di provare la colpa della pubblica amministrazione grava sulla persona che si dichiara danneggiata dal provvedimento amministrativo.
Queste affermazioni sono corrette in diritto, in quanto:
(a) la responsabilità della pubblica amministrazione conseguente all'adozione d'un provvedimento amministrativo illegittimo è una responsabilità per colpa, non una responsabilità oggettiva;
(b) la responsabilità della pubblica amministrazione è una responsabilità aquiliana, e l'onere di provare la colpa grava dunque sul danneggiato, ai sensi dell'art. 2043 c.c.;
(c) la colpa della pubblica amministrazione non può ritenersi provata per il solo fatto che abbia emesso un provvedimento amministrativo illegittimo; spetta invece al giudice di merito valutare caso per caso se le ragioni dell'illegittimità del provvedimento dannoso siano tali da palesare di per sé una grave negligenza dell'amministrazione
(per tutti questi argomenti si vedano già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 23170 del 31/10/2014, Rv. 633377; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 4172 del 15/03/2012, Rv. 621327; Sez. 3, Sentenza n. 4326 del 23/02/2010, Rv. 611907; Sez. 3, Sentenza n. 12282 del 27/05/2009, Rv. 608431).
V'è solo da aggiungere come le regole appena ricordate non mutino quando il danno causato dalla pubblica amministrazione sia consistito nella lesione d'un diritto soggettivo, piuttosto che in quella d'un interesse legittimo.
Nell'uno come nell'altro caso, infatti, non basta provare la lesione della situazione giuridica soggettiva protetta, per invocare il risarcimento del danno, ma è necessario dimostrare -anche in via presuntiva o facendo ricorso al notorio- che dalla lesione del diritto sia derivata una perdita, patrimoniale o non patrimoniale.

   2.3. La seconda censura del secondo motivo di ricorso ("la Corte d'appello ha errato nell'escludere la colpa della p.a. per il solo fatto che gli atti illegittimi si fondavano su presupposti di fatto tra loro diversi") è inammissibile.
Stabilire se la pubblica amministrazione, nell'emanare un provvedimento risultato illegittimo, abbia o meno agito con imperizia, imprudenza o negligenza è un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto. La relativa statuizione pertanto può essere impugnata per cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione.
Nel caso di specie, invece, col motivo in esame i ricorrenti sostengono che la Corte d'appello, nell'escludere la colpa della p.a., avrebbe violato l'art. 2043 c.c. e le leggi urbanistiche: ed incorrono cosa in un evidente vizio di sussunzione, consistito nel censurare ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. un errore che si sarebbe dovuto censurare, se mai, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c..
Né l'errore in cui sono incorsi i ricorrenti può essere sanato da questa Corte, nemmeno in virtù del principio jura novit curia: l'errore del ricorrente nella sussunzione delle proprie censure in uno dei vizi di cui all'art. 360 c.p.c., infatti, può essere emendato dalla Corte di cassazione soltanto quando la motivazione del ricorso contenga comunque un "inequivoco riferimento" al vizio di cui la parte intende effettivamente dolersi (come stabilito da Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013), circostanza che nel caso di specie non ricorre.
   2.4. La terza censura del secondo motivo di ricorso ("la Corte ha errato nel ritenere che presupposto della responsabilità della pubblica amministrazione sia l'accertamento, da parte del giudice amministrativo, dell'illegittimità dei provvedimenti da essa adottati") è fondata.
   2.4.1. La Corte d'appello di Brescia era chiamata a stabilire se fosse in colpa un Comune che, con quattro diversi provvedimenti amministrativi adottati tra il 1982 ed il 1986, e poi rivelatisi illegittimi od inefficaci, aveva ripetutamente sospeso o annullato l'efficacia della concessione edilizia rilasciata ad Al. e Gi.Br..
Per decidere tale questione, la Corte d'appello di Brescia ha rilevato che:
(-) i due provvedimenti di annullamento (16.10.1982) e di decadenza (24.09.1985) della concessione edilizia, sebbene dichiarati illegittimi dal giudice amministrativo, erano stati adottati senza colpa da parte dell'amministrazione comunale, e dunque la loro emanazione non costituiva fonte di responsabilità per il Comune di Polaveno;
(-) i due provvedimenti di sospensione dei lavori (05.03.1983 e 04.07.1986) non erano mai stati dichiarati illegittimi dal giudice amministrativo: questi infatti, rilevato che l'amministrazione comunale, dopo aver sospeso i lavori, non aveva adottato entro trenta giorni alcun provvedimento definitivo sanzionatorio, aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione delle due ordinanze sospensive, per sopravvenuto difetto di interesse dei ricorrenti.
Ciò posto in facto, la Corte d'appello ne ha ricavato in iure la conseguenza che, con riferimento alle due ordinanze sospensive dei lavori (05.03.1983 e 04.07.1986) fosse mancato il "presupposto necessario ed essenziale" della responsabilità della pubblica amministrazione, e cioè una "pronuncia del giudice amministrativo che [accerti] la illegittimità dell'atto amministrativo" (così la sentenza impugnata, p. 17, secondo e terzo capoverso).
   2.4.2. L'affermazione da ultimo trascritta costituisce una violazione dell'art. 2043 c.c..
L'annullamento dell'atto amministrativo non è infatti presupposto né necessario, né essenziale, della responsabilità provvedimentale della pubblica amministrazione. Tanto meno è necessario che quell'illegittimità sia previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, come da quindici anni questa Corte viene ripetendo (a partire dalla nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 500 del 22/07/1999, Rv. 530555; nello stesso senso si vedano, tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 13619 del 22/07/2004, Rv. 575434; Sez. L, Sentenza n. 7043 del 13/04/2004, Rv. 572035; Sez. 1, Ordinanza n. 7193 del 16/05/2002, Rv. 558140).
   2.5. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Brescia, la quale nel tornare ad esaminare il problema della sussistenza di colpa in capo al Comune di Polaveno si atterrà al seguente principio di diritto: "
L'accertamento della responsabilità aquilana della pubblica amministrazione, derivante dall'adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, non esige che l'illegittimità di questi sia stata previamente dichiarata dal giudice amministrativo".
3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso.
   3.1. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, perché sollevano questioni analoghe.
Con essi i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360, n. 3, c.p.c. (si assume violato l'art. 2043 c.c.); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c..
   3.2. L'illustrazione dei due motivi può essere riassunta come segue.
Sostengono i ricorrenti che la Corte d'appello di Brescia ha escluso la sussistenza della colpa in capo al Comune di Polaveno. Per giungere a questa conclusione, il giudice d'appello:
(-) ha ritenuto non assolto dagli attori l'onere della prova a loro carico, senza tener conto che l'illegittimità degli atti amministrativi dichiarata dal Consiglio di stato costituiva un "indice presuntivo" della negligenza della pubblica amministrazione;
(-) ha ritenuto che il Comune di Polaveno, pur emanando atti illegittimi, non potesse avvedersi, con l'uso dell'ordinaria diligenza, della loro illegittimità, a causa della complessità della fattispecie, della opinabilità delle questioni, e dell'affidamento da esso riposto nei pareri dell'ufficio tecnico, posti a fondamento dei provvedimenti rivelatisi dannosi.
Così decidendo, osservano nella sostanza i ricorrenti, la Corte d'appello avrebbe da un lato violato l'art. 2043 c.c., perché ha escluso la condotta colposa della p.a. nonostante questa avesse tenuto una condotta non diligente; e dall'altro avrebbe adottato una motivazione illogica, perché incoerente rispetto agli elementi di fatto emersi dall'istruttoria.
I due motivi sono fondati, con riferimento ad ambedue i vizi da essi denunciati.
   3.4. Come accennato, la Corte d'appello di Brescia doveva stabilire se fosse colposa o meno la condotta del Comune di Polaveno.
Il Comune di Polaveno aveva per quattro volte impedito ad Al. e Gi.Br. di proseguire i lavori di costruzione di un immobile: due volte annullando la concessione edilizia o dichiarandola decaduta (ordinanze del 16.10.1982 e del 24.09.1985), e due volte sospendendone l'efficacia (ordinanze del 02.03.1983 e del 04.07.1986).
La Corte d'appello ha escluso la natura colposa della condotta dell'amministrazione comunale con riferimento a ciascuno dei quattro provvedimenti suddetti.
   3.4.1. L'ordinanza di annullamento della concessione edilizia del 16.10.1982, emessa sul presupposto che la concessione edilizia fosse stata rilasciata in contrasto con le prescrizioni del Piano Regolatore, venne annullata dal giudice amministrativo (con sentenza divenuta definitiva nel 1992), sul presupposto che all'epoca del rilascio della concessione edilizia il Piano Regolatore non fosse in vigore.
La Corte d'appello ha ritenuto non colposa l'adozione di quel provvedimento da parte del Comune, perché emesso "in buona fede", sulla base di un parere dell'Ufficio Tecnico comunale, e su questione controversa.
   3.4.2. Le due ordinanze di sospensione dell'efficacia della concessione (05.03.1983 e 04.07.1986) vennero adottate dal Comune sul presupposto che i lavori eseguiti dagli odierni ricorrenti fossero difformi da quelli concessi. Risulta dalla sentenza impugnata che il Tribunale Amministrativo Regionale annullò (nel 1987) ambedue quei provvedimenti sul presupposto che le opere eseguite non fossero illegittime (così la sentenza impugnata, p. 14, secondo capoverso; e p. 16, terzo capoverso); e che il Consiglio di Stato, rilevato come il Comune non avesse adottato alcun provvedimento sanzionatorio entro 30 giorni dall'emissione del provvedimenti sospensivi, ne rilevò la sopravvenuta inefficacia e dichiarò cessato l'interesse dei ricorrenti al loro annullamento giurisdizionale.
La Corte d'appello ha ritenuto che l'adozione di quei due provvedimenti non potesse dirsi colposa, perché mancava di tale accertamento il "presupposto necessario", ovvero l'accertamento dell'illegittimità dei provvedimenti da parte del giudice amministrativo.
   3.4.3. L'ordinanza di decadenza dalla concessione edilizia (ordinanza del 24.09.1985), infine, emessa sul presupposto che i Br. non avessero ultimato i lavori nel triennio, venne annullata dal giudice amministrativo (con sentenza divenuta definitiva nel 1992), sul presupposto che la mancata ultimazione dei lavori nel termine stabilito dalla concessione edilizia non fosse imputabile a negligenza dei beneficiari, ma agli stessi provvedimenti di sospensione dei lavori adottati dal Comune.
La Corte d'appello ha ritenuto che l'adozione di quel provvedimento di decadenza da parte del Comune non fu colposa, per tre ragioni:
(a) perché non sarebbe stato agevole stabilire se il ritardo nell'esecuzione delle opere fosse dovuto a inerzia colpevole dei Br. od a forza maggiore;
(b) perché il provvedimento di decadenza era un atto dovuto e necessitato, il cui presupposto era il solo decorso del tempo senza che l'opera fosse stata ultimata;
(c) perché la concessione edilizia rilasciata ai Br. era stata annullata dal giudice amministrativo su ricorso di alcuni privati: e sebbene tale decisione fu poi riformata dal Consiglio di stato, nondimeno tale circostanza confermerebbe "la evidente controvertibilità della materia" e, di conseguenza, l'incolpevolezza della p.a. nell'avere emanato il provvedimento di decadenza.
   3.5. (A) La violazione di legge.
La motivazione riassunta nei §§ 3.4.1. e ss. è, in primo luogo, viziata da violazione degli artt. 2043 e 1176 c.c..
L'art. 2043 c.c. stabilisce che ciascuno è responsabile del danno causato ad altri con una condotta colposa o dolosa.
La colpa civile di cui all'art. 2043 c.c., consiste nella deviazione da una regola di condotta.
"Regola di condotta" è non soltanto la norma giuridica, ma anche qualsiasi doverosa cautela concretamente esigibile dal danneggiante.

Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o di comune prudenza è accertamento che va compiuto alla stregua dell'art. 1176 c.c., pacificamente applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale (ex multis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 17397 del 08/08/2007, Rv. 598610).
   3.5.1.
L'art. 1176 c.c. impone al debitore di adempiere la propria obbligazione con diligenza.
La diligenza di cui all'art. 1176 c.c. è nozione che rappresenta l'inverso logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato diligente, là dove chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa.
L'autore d'un illecito non è dunque per ciò solo in colpa: quest'ultima sussisterà soltanto nel caso in cui il preteso responsabile non solo abbia causato un danno, ma l'abbia fatto violando norme giuridiche o di comune prudenza.
Le norme di comune prudenza dalla cui violazione può scaturire una colpa civile non sono uguali per tutti.
Nel caso di inadempimento di obbligazioni comuni, ovvero di danni causati nello svolgimento di attività non professionali, il primo comma dell'art. 1176 c.c. impone di assumere a parametro di valutazione della condotta del responsabile il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, il "cittadino medio", ovvero il bonus paterfamilias: vale a dire la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità.
Nel caso, invece, di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni causati nell'esercizio d'una attività "professionale" in senso ampio, il secondo comma dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa.
Il "professionista", infatti, è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus paterfamilias; ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista "medio" (il c.d. homo eiusdem generis et condicionis).

L'ideale "professionista medio" di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., nella giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista "mediocre", ma è un professionista "bravo": ovvero serio, preparato, zelante, efficiente.
   3.5.2.
La regola di valutazione della colpa dettata dall'art. 1176, comma 2, c.c., si applica anche alla pubblica amministrazione.
Essa infatti è norma generale dell'intero sistema delle obbligazioni, e detta un criterio suscettibile di applicazione in qualsiasi ipotesi di inadempimento o di responsabilità aquiliana.

Per stabilire, dunque, se una pubblica amministrazione abbia o meno tenuto una condotta colposa, occorre confrontare la condotta da questa concretamente tenuta con la condotta che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto l'homo eiusdem generis et condicionis: vale a dire una pubblica amministrazione che:
(a) rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b) agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini (art. 1, commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c) non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta (art. 97 cost.);
(d) è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti (art. 98 cost.).

Questo, dunque, è il modello astratto di "pubblica amministrazione" e di "pubblico impiegato" cui, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., la Corte d'appello avrebbe dovuto comparare la condotta concretamente tenuta dal Comune di Polaveno.
   3.5.3. Nel caso di specie, la Corte d'appello ha accertato in fatto che il Comune di Polaveno con provvedimento del 16.10.1982 annullò la concessione edilizia rilasciata a Al. e Gi.Br. due anni prima, perché difforme dalle prescrizioni del Piano Regolatore.
In seguito il giudice amministrativo accertò che all'epoca dell'adozione del provvedimento di annullamento della concessione edilizia, il Piano Regolatore non era ancora divenuto efficace, non essendosi esaurito il relativo procedimento di approvazione.
Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi dell'art. 97 cost. e per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un amministratore.
Ora,
appare a questa Corte sorprendente che una amministrazione comunale possa non sapere se il Piano Regolatore che disciplina l'uso del suo territorio sia vigente o meno, sia approvato o meno, sia conforme o meno alle concessioni edilizie che essa stessa rilascia; così come appare sorprendente che una pubblica amministrazione, dopo avere rilasciato una concessione, attenda due anni e quattro mesi prima di avvedersi che essa non è conforme al Piano Regolatore.
Pertanto, una volta accertato in facto che il Comune di Polaveno aveva annullato la concessione edilizia per contrarietà ad un Piano Regolatore mai entrato in vigore, ne sarebbe dovuto seguire in iure un giudizio di difformità della condotta del Comune di Polaveno da quello che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, l'amministratore "medio" di cui all'art. 1176, comma 2, c.c..
Dunque la Corte d'appello, ritenendo "scusabile" che un Comune ignori l'esistenza e l'efficacia del Piano Regolatore del suo stesso territorio, ha effettivamente violato l'art. 1176 c.c. e, di conseguenza, l'art. 2043 c.c.: perché adottato un criterio di valutazione della colpa difforme da quello prescritto dalla legge.
   3.5.4. Considerazioni analoghe debbono essere svolte rispetto a quella parte della sentenza impugnata che ha ritenuto "non colposa", da parte del Comune, l'adozione d'un provvedimento di decadenza dalla concessione edilizia (ordinanza 24.09.1985), motivato con l'inutile decorso del termine ivi previsto per l'ultimazione dei lavori.
Quel provvedimento fu ritenuto illegittimo dal giudice amministrativo, in base al rilievo che il protrarsi dei lavori fu dovuto proprio ai provvedimenti di annullamento e sospensione adottati nei due anni precedenti dal Comune di Polaveno.
Cionondimeno, la Corte d'appello ha ritenuto scusabile la sua adozione da parte della p.a., in base al rilievo in diritto che il provvedimento di decadenza dalla concessione doveva essere emesso per il solo fatto dello spirare del termine concesso per l'ultimazione dei lavori.
   3.5.5. Anche questa affermazione è erronea in diritto.
Il provvedimento di decadenza previsto dall'art. 4 l. 28.1.1977 n. 10 non prevedeva affatto che, decorso il termine per l'ultimazione dei lavori edili previsto nella concessione, il titolare di essa ne decadesse ipso facto.
Quella norma infatti era stata sempre interpretata sia da questa Corte, sia dal Consiglio di stato, nel senso che
la decadenza è subordinata a due presupposti: (a) il mancato completamento dei lavori; (b) l'inerzia colpevole del titolare della concessione. Inerzia che per definizione non sussiste quando sia stata proprio l'amministrazione ad inibire la prosecuzione delle opere (tra le tante, in tal senso, C. Stato, sez. V, 12.03.1996, n. 256; C. Stato, sez. V, 12.07.1996, n. 864; C. Stato, sez. V, 23.11.1996, n. 1414; C. Stato, sez. V, 06.10.1999, n. 1338; C. Stato, sez. V, 03.02.2000, n. 597).
Nel caso di specie risulta essere stato lo stesso Comune di Polaveno ad annullare la concessione prima (nel 1982), ed a sospenderla poi (nel 1983). Esso dunque non poteva ignorare che il ritardo nell'ultimazione dell'opera fosse stato concausato, quanto meno, dalla propria condotta.
Anche in questo caso, pertanto, la Corte d'appello ha compiuto una falsa applicazione dell'art. 1176 c.c., ritenendo scusabile una condotta della pubblica amministrazione che era invece difforme dal modello di amministrazione "diligente" prescritto dalla norma appena ricordata.
   3.5.6. Anche su questo punto la sentenza andrà dunque cassata con rinvio alla Corte d'appello di Brescia, la quale nel riesaminare la vicenda applicherà il seguente principio di diritto: "
La diligenza esigibile dalla pubblica amministrazione nel compimento dei propri atti, ivi compresa l'adozione di provvedimenti amministrativi, va valutata col criterio dettato dagli artt. 1176, comma 2, c.c., e 97 cost.: ovvero comparando la condotta tenuta nel caso concreto, con quella che -idealmente- avrebbe tenuto nelle medesime circostanze una amministrazione "media", per tale intendendosi non già una pubblica amministrazione "mediocre", ma una pubblica amministrazione efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la legge".
   3.6. (B) Il vizio di motivazione.
   3.6.1. Oltre che erronea in iure, la motivazione adottata dalla Corte d'appello per escludere la colpa del Comune di Polaveno è altresì illogica.
L'illogicità riguarda la parte della motivazione con cui è stata esclusa la colpa del Comune di Polaveno per avere adottato una illegittima ordinanza di decadenza dalla concessione edilizia, a causa dell'inutile decorso del termine per l'ultimazione dei lavori (supra, § 3.4.3).
   3.6.2. La Corte d'appello di Brescia, per escludere la colpa dei Comune di Polaveno nell'adozione dell'ordinanza di decadenza dalla concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori nel termini ivi stabilito, ha motivato la propria decisione affermando che:
(a) stabilire se l'inerzia del titolare della concessione fosse stata colpevole o meno era "questione di non agevole comprensibile lettura", perché lo stesso giudice amministrativo "ha in via interpretativa distinto tra inerzia dell'interessato e impossibilità di portare a termine l'opera" (così la sentenza impugnata, p. 17);
(b) la questione che il Comune di Polaveno dovette affrontare era "complessa", perché la concessione edilizia rilasciati ai sigg.ri Br. era stata annullata dallo stesso TAR su ricorso di alcuni privati, con sentenza tuttavia riformata in appello dal Consiglio di Stato. Questa circostanza rendeva evidente la "controvertibilità della materia" (ibidem, p. 17, ultimo capoverso).
Ciascuna di queste due affermazioni è illogica.
   3.6.3. La prima affermazione è illogica per aconsequenzialità.
La Corte d'appello ha infatti nella sostanza affermato che il Comune di Polaveno non poteva con l'ordinaria diligenza avvedersi di avere adottato un provvedimento illegittimo, perché il giudice amministrativo aveva distinto tra mancata ultimazione dei lavori dovuta ad inerzia del titolare (che comportava la decadenza dalla concessione) e mancata ultimazione dei lavori dovuta a forza maggiore (che non comportava la decadenza dalla concessione).
Tra queste due affermazioni non vi è alcun nesso di derivazione logica.
La distinzione tra ritardo colpevole e ritardo incolpevole nell'esecuzione dei lavori è prevista dalla legge stessa, e non c'era bisogno certo d'una sentenza per conoscerla.
Pertanto dal fatto che il TAR, nell'annullare il provvedimento di decadenza adottato dal Comune, ritenne incolpevole il ritardo dei Br. nel completare il loro fabbricato, non deriva affatto come conseguenza ineludibile l'impossibilità per il Comune di accorgersi dell'illegittimità del proprio provvedimento.
   3.6.4. La seconda affermazione è illogica per inconferenza.
La Corte d'appello doveva stabilire se fosse stata colposa o meno l'adozione d'un provvedimento illegittimo di decadenza dalla concessione edilizia, per mancata ultimazione dell'opera in terminis.
La Corte d'appello ha escluso la natura colposa dell'operato della p.a. ritenendo "controvertibile e complessa" la materia oggetto dell'ordinanza di decadenza, e l'ha ritenuta complessa perché la concessione edilizia "era stata annullata dal TAR su ricorso di privati, per violazione delle norme urbanistiche".
Ora, che la concessione edilizia fosse stata annullata dal TAR non è circostanza che giustificava l'adozione d'un provvedimento di decadenza.
Delle due, infatti, l'una: se il Comune avesse ritenuto condivisibile la sentenza del TAR, avrebbe dovuto ritenere non più esistente la concessione a suo tempo rilasciata, ed adottare i provvedimenti consequenziali; se, invece, avesse ritenuto che la decisione del TAR non avesse solide basi, e vi fosse rischio di riforma in appello, proprio per questa ragione avrebbe dovuto considerare vigente ed efficacia la concessione edilizia, ed astenersi dall'adottare provvedimenti di decadenza senza valutare correttamente se il mancato compimento dell'opera fosse ascrivibile a colpa del titolare della concessione.
La Corte d'appello, insomma, ha escluso la colpa nell'adozione dell'ordinanza di decadenza (del 24.09.1985) con una motivazione che poteva al più escludere la colpa della diversa ordinanza di annullamento (del 16.10.1982).

QUINDI??

     Quindi, gli amministratori locali ed i segretari comunali "compiacenti" che si "lamentano" (e continueranno a farlo) dei propri dipendenti tecnici (soprattutto) che sono "particolarmente" preparati, efficienti, prudenti e zelanti nonché i dipendenti dell'U.T. di altri comuni che, con il loro quotidiano modus operandi assai "disinvolto" (...e basta verificarlo consultando gli atti pubblicati all'albo pretorio qua e là), di fatto "sputtanano" professionalmente ed indirettamente (e seguiteranno imperterriti con tale "agere" disdicevole) quelli preparati, efficienti, prudenti e zelanti sono avvisati: la querela (se non altro...) è bella che pronta nel cassetto, basta solo sottoscriverla ed inviarla alla competente Procura della Repubblica.

16.10.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione abusiva di una piscina in area paesaggisticamente vincolata non rientra fra le ristrette ipotesi sanabili ex art. 167 dlgs 42/2004.
In caso di vincolo paesaggistico, com’è noto, è precluso il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, stante il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto dall’art. 146 del D.Lgs. 42/2004. A tale principio fanno eccezione solo i limitatissimi casi previsti dal comma 4, dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, e la realizzazione di una piscina non rientra tra tali ipotesi.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi già realizzati, che abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come da giurisprudenza di questo stesso TAR, la posa in opera di una piscina non rientra tra gli interventi per i quali vige l’eccezione al divieto di autorizzazione postuma di cui al citato art. 167, in quanto comportante la realizzazione di volumi interrati o seminterrati rientranti soggetti anch’essi al regime di insanabilità dettato dall’indicato art. 146.
Il Collegio osserva in proposito che pur se, in ipotesi, non si volesse concordare con l’assunto che la costruzione di una piscina realizza nuovi volumi interrati o seminterrati, tale intervento comporta in ogni caso la realizzazione di superfici utili rientrando quindi, in ogni caso, nel divieto di autorizzazione paesaggistica postuma.
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Qualora la Soprintendenza esprima il proprio parere "negativo" (ex art. 167 dlgs 42/2004) oltre il temine di 90 gg. dalla richiesta da parte del Comune ciò non rende illegittimi né il parere, né il provvedimento di diniego della compatibilità paesaggistica.
L’inosservanza dei termini prescritti dalla legge per l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non priva la Soprintendenza del potere di provvedere, e il relativo parere continua a sussistere e mantiene la sua efficacia vincolante.
Ma anche a voler ipotizzare che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica comporti che il parere tardivo perda il carattere vincolante impressogli dalla legge, questo non lo qualifica in termini di illegittimità. Il parere costituirà sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione ben può valutare e recepire, potendosene, se del caso, motivatamente discostare.

... per l'annullamento:
- della nota dell’Ufficio Tecnico del Comune di Tora e Piccilli, prot. 308/2013, avente a oggetto il diniego dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria;
- della nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici. Artistici e Etnoantropologici per le Province di Caserta e Benevento prot. 22635 del 23.10.2012, mediante la quale la prefata autorità notificava al solo Comune di aver dato parere non favorevole alla sopra citata istanza;
- per quanto di interesse, della nota prot. n. 3432 del 10.11.2012 con cui il Comune di Tora e Piccilli comunicava i motivi del rilascio del permesso di costruire in sanatoria relativamente alla piscina;
- della nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza per i Beni Architettonici. Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici per le Province di Caserta e Benevento prot. n. 1603 del 21.01.2013, pure notificata in data 24.07.2013, mediante la quale la Soprintendenza ribadiva il parere non favorevole già espresso con la nota della soprintendenza prot. 22635 del 23.10.2012;
- dell'ordinanza di rimozione e ripristino dello stato dei luoghi prot. n. 320 del 30.01.2013, notificata in data 24.07.2013, con il quale il Comune di Tora e Piccilli ordinava la riduzione in pristino della piscina.
...
FATTO
Il Comune di Tora e Piccilli, con ordinanza n. 12 del 16.08.2011, ordinava la rimozione e il ripristino dello stato dei luoghi per l’abusiva realizzazione di una piscina in zona paesaggisticamente vincolata.
Gli odierni ricorrenti facevano, quindi, richiesta di compatibilità paesaggistica e presentavano istanza di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.p.r. 380/2001.
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con nota della Soprintendenza prot. 22635 del 23.10.2012, esprimeva però parere sfavorevole alla sopra citata istanza, in quanto, con la realizzazione di una piscina, si sarebbe andata a realizzare una "modifica dell'orografia dell'area pertinenziale".
Con nota prot. n. 3432 dei 10.11.2012, il Comune di Tora e Piccini comunicava i motivi ostativi al rilascio dell’autorizzazione in sanatoria facendo riferimento al parere negativo della Soprintendenza.
I ricorrenti depositavano osservazioni in proposito, ma la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici per le Province di Caserta e Benevento ribadiva, con nota prot. n. 1603 del 21.01.2013, il parere non favorevole già espresso con la precedente nota prot. 22635 del 23.10.2012.
Facevano seguito il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria, n. 308 del 30.1.2013, e l’ordinanza di rimozione e ripristino dello stato dei luoghi prot. n. 320 del 30.01.2013, che ordinava nuovamente la riduzione in pristino del manufatto.
Le parti ricorrenti, con il presente ricorso, notificato il 07.11.2013, impugnavano il parere negativo della soprintendenza e i provvedimenti di diniego del permesso di costruire in sanatoria e dell’ordine di demolizione, chiedendone l’annullamento.
Si costituivano in giudizio il Comune e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
DIRITTO
1) Il ricorso si rivela infondato.
L’area su cui è stata realizzata la piscina risulta essere paesaggisticamente vincolata.
In caso di vincolo paesaggistico, com’è noto, è precluso il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, stante il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto dall’art. 146 del D.Lgs. 42/2004. A tale principio fanno eccezione solo i limitatissimi casi previsti dal comma 4, dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, e la realizzazione di una piscina non rientra tra tali ipotesi.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi già realizzati, che abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come da giurisprudenza di questo stesso TAR, la posa in opera di una piscina non rientra tra gli interventi per i quali vige l’eccezione al divieto di autorizzazione postuma di cui al citato art. 167, in quanto comportante la realizzazione di volumi interrati o seminterrati rientranti soggetti anch’essi al regime di insanabilità dettato dall’indicato art. 146 (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 07/01/2014, n. 1, che richiama sul principio dell’insanabilità anche nel caso di volumi interrati o seminterrati, Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4503).
Il Collegio osserva in proposito che pur se, in ipotesi, non si volesse concordare con l’assunto che la costruzione di una piscina realizza nuovi volumi interrati o seminterrati, tale intervento comporta in ogni caso la realizzazione di superfici utili rientrando quindi, in ogni caso, nel divieto di autorizzazione paesaggistica postuma.
2) Alla luce di quanto indicato, le argomentazioni svolte in ricorso si rivelano prive di pregio.
In particolare, è privo di pregio il primo motivo di ricorso basato sulla circostanza che la Soprintendenza avrebbe reso il suo parere negativo oltre il temine di 90 dalla richiesta da parte del Comune. Ciò non rende, difatti, illegittimi né il parere, né il provvedimento di diniego dell’autorizzazione paesaggistica.
L’inosservanza dei termini prescritti dalla legge per l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non priva la Soprintendenza del potere di provvedere, e il relativo parere continua a sussistere e mantiene la sua efficacia vincolante (TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, 09.02.2015, n. 53).
Ma anche a voler ipotizzare che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica comporti che il parere tardivo perda il carattere vincolante impressogli dalla legge, questo non lo qualifica in termini di illegittimità. Il parere costituirà sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione ben può valutare e recepire, potendosene, se del caso, motivatamente discostare (TAR Lazio Roma Sez. II-bis, 12.02.2014, n. 1733).
Infondato, per quanto anzidetto, è anche il secondo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 167 del DLgs 42/2004 che, a detta di parte ricorrente, avrebbe consentito il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma e, conseguentemente, il rilascio del permesso di costruire per l’opera in questione.
L’opera, infatti, non poteva essere oggetto di autorizzazione paesaggistica postuma, né di conseguenza di accertamento di conformità, per le ragioni in precedenza indicate nel punto 1.
3) Il ricorso deve quindi essere rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.10.2015 n. 4720 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è passibile di accertamento compatibilità paesaggistica l'abusiva piscina interrata di forma irregolare, la pavimentazione di camminamento di area esterna in pietra arenaria ed il locale bagno in muratura ricavato al di sotto di una rampa di scala esterna con copertura a falda inclinata.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie non è dubitabile che la piscina costituisca, al pari del ricavato servizio igienico, un aumento volumetrico e pertanto si ponga fuori dalla previsione invocata.

... per l'annullamento:
–dell'ordinanza di sospensione lavori n. 35977 del 29.09.2005 emessa dal Comune di Sorrento;
–del provvedimento prot. nr. 20152/2009 del 12.08.2009 con il quale la Soprintendenza dei BB.AA. di Napoli ha espresso parere negativo sulla istanza di compatibilità paesaggistica ex art. 167 DLgs. 42/2004;
...
FATTO
1.- La parte ricorrente impugna il provvedimento di sospensione lavori ed il successivo parere negativo della Soprintendenza ai Beni culturali di Napoli in ordine alla compatibilità paesaggistica di una piscina e di un servizio igienico realizzato sine titulo in Sorrento via ... nr. 21/A.
Dopo il deposito di motivi aggiunti e di memoria ha concluso per l’accoglimento.
2.- Resiste l’amministrazione statale concludendo per la reiezione.
3.- All’udienza indicata la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
4.- Il ricorso è in parte improcedibile ed in parte da respingere.
4.1.- L’impugnazione avverso il provvedimento di sospensione lavori è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse sia perché trattasi di atto per sua natura dagli effetti interinali sia perché superato dalla successiva determinazione impeditiva della Soprintendenza ai Beni culturali ed ambientali.
4.2.- Le doglianze avverso il parere negativo di quest’ultima (immediatamente impugnabile stante la sua evidente potenzialità lesiva) sono infondate e, nelle forme sintetiche imposte dal CPA, da rigettare.
Con i motivi articolati che possono congiuntamente esaminarsi stante il loro carattere unitario, si contesta la predetta determinazione della Soprintendenza che così si è espressa:
a seguito di accertamento ..della Polizia Municipale del Comune di Sorrento è stata contestata la realizzazione di opere abusive consistenti in una piscina interrata di forma irregolare; pavimentazione di camminamento e di area esterna in pietra arenaria; locale bagno in muratura ricavato al di sotto di una rampa di scala esterna con copertura a falda inclinata;
.. tali opere ricadono in zona territoriale 1B (tutela dell’ambiente naturale di 2° grado) del PUT e in zona E 1- 1 (tutela agricola) del PRG adeguato al PUT;
..tali opere si configurano quale nuova edificazione anche con incremento DIO volumi e di superfici utili.

Secondo la ricorrente, che si sofferma su tali concetti anche nella memoria finale, per la piccola piscina ed il bagno attiguo ricavato, non si configurerebbe un nuovo volume sia per le ridotte dimensioni che per il loro carattere pertinenziale.
Entrambi gli asserti sono però da respingere.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie, ad avviso del Tribunale, non è dubitabile che la piscina costituisca, al pari del ricavato servizio igienico, un aumento volumetrico e pertanto si ponga fuori dalla previsione invocata.
Basta qui richiamare il seguente principio di portata generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503 dell’11.09.2013): “…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.”
Parimenti inconferente risulta il richiamo al concetto di pertinenza.
Come già enunciato da questo Tribunale (Tar Campania/Napoli - sez. VII - nr. 2088 del 21.04.2009) tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Stante la infondatezza nel merito delle censure proposte, si dequotano i rilievi procedimentali con riferimento alla violazione dell'art. 10-bis L. 241/1990: il provvedimento impugnato, infatti, non avrebbe potuto avere in nessun caso, diverso contenuto.
Per giurisprudenza costante, anche di questo Tribunale, la violazione dell'art. 10-bis L. 07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati (Tar Lazio/Roma – Sez. II-ter nr. 5503 - 15.06.2007) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.01.2014 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAIl nuovo Ape. Guida all'attestato di prestazione energetica (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).

EDILIZIA PRIVATAInterventi edilizi e titoli abilitativi , differenze tra CIL, CILA, SCIA, Super-DIA e Permesso di costruire.
Interventi edilizi e titoli abilitativi, in questo articolo analizziamo le definizioni di CIL, CILA, SCIA, Super-DIA, Permesso di costruire e illustriamo quando sono necessari e quali sono le differenze (...continua) (08.10.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAAPE 2015, controlli a campione e obbligo di sopralluogo.
APE 2015, controlli a campione e obbligo di sopralluogo. Le nuove regole in vigore forniscono maggiori garanzie a tutela della qualità e della professionalità (...continua) (08.10.2015 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROValutazione rischio rumore, la nuova guida Inail.
Valutazione rischio rumore, ecco la nuova guida Inail con tutte le indicazioni e gli aspetti relativi alla sua prevenzione e riduzione (...continua) (08.10.2015 - link a www.acca.it).

APPALTI: PARTECIPAZIONE DELLE RETI D’IMPRESA ALLE PROCEDURE PER L’AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI - Guida pratica per le stazioni appaltanti e gli operatori economici (24.09.2015 - tratto da www.itaca.org).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 42 del 16.10.2015, "Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche" (L.R. 12.10.2015 n. 33).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 42 del 16.10.2015, "Disposizioni per la valorizzazione del ruolo istituzionale della Città metropolitana di Milano e modifiche alla legge regionale 08.07.2015, n. 19 (Riforma del sistema delle autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento della specificità dei Territori montani in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56 ‘Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni’)" (L.R. 12.10.2015 n. 32).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 16.10.2015, "Piano cave provinciale di Bergamo – Sentenze n. 1927/2012 e n. 611/2013 del TAR di Brescia" (deliberazione C.R. 29.09.2015 n. 848).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 13.10.2015, "Ulteriore differimento del termine di entrata in vigore della nuova classificazione sismica del territorio approvata con d.g.r. 11.07.2014, n. 2129 «Aggiornamento delle zone sismiche in Regione Lombardia (l.r. 1/2000, art. 3, comma 108, lett. d)»" (deliberazione G.R. 08.10.2015 n. 4144).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 12.10.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla regione Lombardia alla data del 30.09.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.10.2015 n. 148).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 41 del 09.10.2015, "Misure di efficientamento dei sistemi di illuminazione esterna con finalità di risparmio energetico e di riduzione dell’inquinamento luminoso" (L.R. 05.10.2015 n. 31).

TRIBUTI: G.U. 07.10.2015 n. 233, suppl. ord. n. 55/L:
Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11.03.2014, n. 23 (
D.Lgs. 24.09.2015 n. 156);
Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11.03.2014, n. 23 (D.Lgs.
24.09.2015 n. 158);
Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme in materia di riscossione, in attuazione dell’articolo 3, comma 1, lettera a), della legge 11.03.2014, n. 23 (D.Lgs.
24.09.2015 n. 159).

APPALTI: G.U. 07.10.2015 n. 233 "Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo da parte degli uffici della pubblica amministrazione" (Ministero dell'Interno, decreto 25.09.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Ulteriori modifiche al Decreto Legislativo 09.04.2008, n. 81 (ANCE di Bergamo, circolare 09.10.2015 n. 200).

SICUREZZA LAVORO: LE NUOVE "SEMPLIFICAZIONI" IN MATERIA DEL LAVORO DIMISSIONI-DISABILI-SICUREZZA-REGIME SANZIONI.
Analisi del decreto legislativo 14.09.2015 n. 151 recante disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10.12.2014, n. 183
Indice:
Razionalizzazione e semplificazione in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità
Razionalizzazione e semplificazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro
Revisione del regime delle sanzioni
Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, circolare n. 19/2015).

DOTTRINA  E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: F. Molinaro, Il procedimento di contrattazione in tema di vendita immobiliare - NOTA A CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 06.03.2015 N. 4628 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2015).
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SOMMARIO: 1. Il caso - 2. L’origine del contratto preliminare e lo sviluppo di figure contrattuali ad esso connesse - 3. La prima pronuncia della Suprema Corte sul “preliminare di preliminare” - 4. Il preliminare di preliminare alla luce della sentenza delle Sezioni Unite.

APPALTI SERVIZI: C. Guccione, La finanza di progetto nell’affidamento della concessione di servizi (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2015).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La programmazione nei servizi - 3. I requisiti del promotore e del concessionario - 4. La presentazione della proposta - 5. La valutazione della proposta e la nomina del promotore - 6. La procedura di gara - 7. Conclusioni.

CONSIGLIERI COMUNALI: I Tortelli e R. Di Renzo, Una pausa di riflessione sull’art. 51 T.U.E.L.: interruzione della continuità del mandato di sindaco in caso di gestione commissariale (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Solo con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale.
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Il Sindaco del Comune di Orsogna (CH) premette che nel corso dell’anno 2012 è venuto a cessare un dipendente, a tempo indeterminato ma parziale (40%), che rivestiva il ruolo di funzionario addetto all’Ufficio tributi. In sede di programmazione finanziaria per l’anno 2013 è stata programmata la riferita assunzione che successivamente è stata in effetti bandita.
Con deliberazione di questa Sezione in data 02.04.2015, n. 50, il Comune istante aveva, in particolare, richiesto delucidazioni sull’applicabilità alle procedure già avviate delle disposizioni in materia di contenimento del turn-over, ricevendone risposta positiva.
Ricostruendo la vicenda oggetto del precedente deliberato, si ricorda che:
i) nell’anno 2012 il comune istante ha presentato una cessazione di personale, da poter reintegrare l’anno successivo;
ii) nel 2013 lo stesso comune aveva, in effetti, programmato sotto il profilo finanziario la nuova assunzione nei limiti di spesa pro tempore vigenti;
iii) nel 2014 aveva luogo l’avvio della procedura concorsuale: in pendenza della suddetta sono intervenute norme finanziarie che verranno di presso scrutinate.
Tanto premesso, nell’istanza si chiede di specificare se, alla stregua del sopraggiunto (al bando) D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito nella l. 11.08.2014, n. 114, l’ente possa concludere la procedura concorsuale descritta, allegando a proprio favore il parere della Sezione di controllo della Regione Sardegna, 21.04.2015, n. 32, che ha ristretto l’applicazione dell’art. 1, comma 424, della l. 23.12.2014, n. 190, alle sole assunzioni programmate con budget 2015 e 2016.
...
L’art. 3, comma 5, del decreto citato dal comune istante ha previsto che “Negli anni 2014 e 2015 le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno procedono ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente. Resta fermo quanto disposto dall'articolo 16, comma 9, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135. La predetta facoltà ad assumere è fissata nella misura dell'80 per cento negli anni 2016 e 2017 e del 100 per cento a decorrere dall'anno 2018. Restano ferme le disposizioni previste dall'articolo 1, commi 557, 557-bis e 557-ter, della legge 27.12.2006, n. 296. A decorrere dall'anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
La Sezione delle Autonomie della Corte (deliberazione 21.11.2014 n. 27) ha precisato come, lungi da consentire una indiscriminata applicazione del c.d. “cumulo dei resti”, “la disposizione (…) sembra preordinata a risolvere un problema diverso, pur presente negli enti che debbono ridurre la spesa: la possibilità di tenere conto delle cessazioni future ma già definite. Infatti, il riferimento alla programmazione sembra lasciare intendere che il triennio possa essere quello successivo al 2014, così come la dicitura riferita alle risorse “destinate” alle assunzioni”.
La disposizione in questione è stata tuttavia novellata dal recente d.l. 19.06.2015, n. 78, che ha aggiunto l’inciso “
è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente”.
Si deve ricordare in ogni caso, che a norma dell’art. 1, comma 424, della l. 190/2014, “le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico (tra cui evidentemente non rientrano i vincitori all’esito di procedura non ancora conclusa, ndr) collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Tuttavia, anche tale disposizione non risulta preclusiva all’assunzione programmata, atteso che, secondo quanto indicato dalla Sezione Autonomie, con deliberazione 28.07.2015 n. 26,
solo con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 07.10.2015 n. 247).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONella sostituzione dei pensionandi ragioniere generale e responsabile del servizio del personale il Comune non può superare l’obbligo di avvalersi, in via prioritaria, del personale soprannumerario delle Province.
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Il comune di Poggio a Caiano (PO), per mezzo del Consiglio delle autonomie locali, sottopone il seguente quesito:
- in occasione del pensionamento del Ragioniere generale e del responsabile del servizio del personale si chiede di sapere se all’eventuale assunzione siano applicabili le previsioni dell’art. 4 del d.l. 78/2015 (convertito con legge 125/2015) procedendo preliminarmente la ricollocazione del personale delle Province soprannumerario.
...
Nel merito, si ritiene utile richiamare la deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Sezione delle Autonomie che specificamente si riferisce al comma oggetto del quesito. Tuttavia, il comma stesso (comma 424 della legge di stabilità 2015) è stato modificato, qualche giorno dopo la delibera della Sezione, dal decreto 78/2015 in sede di conversione.
La Sezione delle Autonomie rinveniva
una possibilità di deroga alle disposizioni sulle assunzioni in casi di “specifica e legalmente qualificata professionalità, eventualmente attestata da titoli di studio precisamente individuati” mentre la legge prevede la deroga per quel personale “in possesso di titoli di studio specifici abilitanti”.
Perciò, allo stato attuale della normativa, in presenza di esigenze di assumere personale “in possesso di titoli di studio specifici abilitanti” si può derogare all’obbligo di assumere personale soprannumerario delle Province.
Occorre quindi determinare se il caso specifico rientri nella previsione derogatoria.
La richiesta verte sull’assunzione del Ragioniere generale del comune e il responsabile del servizio del personale. In entrambi i casi non appare necessaria la sussistenza di uno specifico titolo di studio abilitante; infatti, anche da un punto di vista concreto, le due posizioni vengono ricoperte in genere da laureati in economia o giurisprudenza, ma anche da diplomati e personale in possesso di requisiti di specifica esperienza, in assenza di una abilitazione professionale.
Pertanto,
non si ritiene che il Comune richiedente possa superare l’obbligo di avvalersi, in via prioritaria, del personale soprannumerario delle Province (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 06.10.2015 n. 400).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMentre i budget assunzionali 2015/2016 (derivanti anche dalle cessazioni dei trienni precedenti il 2014 e 2015) sono integralmente destinati alle finalità di cui all’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014, può essere utilizzata per effettuare nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato la capacità assunzionale del 2014 derivante dai “resti” relativi al triennio 2011/2013, sempre che sia assicurato il rispetto dei vincoli di finanza pubblica (rispetto del patto di stabilità, dell’art. 1, commi 557 e seguenti, della l. n. 296/2006, delle percentuali di turn-over, quantificate in base alla spesa di personale cessato nell’anno precedente, secondo le previsioni dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014) e siano stati osservati, a suo tempo, gli obblighi previsti dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 90/2014 (programmazione finanziaria e contabile del fabbisogno di personale).
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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 17442/1.13.9, del 16.07.2015, pervenuta il 20.07.2015, una richiesta di parere del Sindaco del Comune di Montevarchi (AR) sulla corretta interpretazione dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78/2015, che consente “l’utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente.
In particolare si chiede:
1. se il triennio di riferimento sia il 2011/2013 ovvero il 2012/2014;
2. se l’utilizzo dei resti può riguardare nuove assunzioni o solo il personale degli enti di area vasta secondo le previsioni dell’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014;
3. se la previsione di utilizzo dei resti assunzionali debba essere stata già prevista nel piano assunzionale 2014 oppure possa esserlo in quello del 2015.
...
L’art. 4, comma 3, d.l. n. 78/2015, convertito in l. n. 125/2015, intervenendo sull'art. 3, comma 5, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito in l. 11.08.2014, n. 114, in tema di limiti alle assunzioni di personale, introduce la disposizione che recita “
è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente”.
Con tale disposizione, al “
cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni”, che la deliberazione 21.11.2014 n. 27 della sezione delle autonomie della Corte dei Conti aveva interpretato come programmabili solo a decorrere dal 2014, si aggiunge la possibilità di utilizzo dei cosiddetti “resti” assunzionali, provenienti dal triennio precedente.
La novella introdotta, con il d.l. n. 78/2015, deve essere coordinata con le previsioni contenute nell’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015) che impone,
pena la nullità dei contratti, alle regioni e agli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, di destinare “le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale cessato negli anni 2014 e 2015, salva completa ricollocazione del personale soprannumerario”.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, con la deliberazione 28.07.2015 n. 26, resa in funzione nomofilattica, interviene sulla questione interpretativa posta per la corretta applicazione dell’art. 1, comma 424, l. n. 190/2014, in relazione ai budget assuntivi residui, precedenti gli anni 2015/2016, ed esprime, sul punto, il seguente principio di diritto: “
gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale”.
La Sezione delle autonomie della Corte dei Conti, con deliberazione 22.09.2015 n. 28, ha integrato la precedente deliberazione n. 26/2015, affermando, tra l’altro, il seguente principio di diritto: “
il riferimento “al triennio precedente” inserito nell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78/2015, che ha integrato l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, è da intendersi in senso dinamico, con scorrimento e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si intende effettuare le assunzioni”.
Pertanto,
mentre i budget 2015/2016 (derivanti anche dalle cessazioni dei trienni precedenti il 2014 e 2015) sono integralmente destinati alle finalità di cui all’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014, può essere utilizzata per effettuare nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato la capacità assunzionale del 2014 derivante dai “resti” relativi al triennio 2011/2013, sempre che sia assicurato il rispetto dei vincoli di finanza pubblica (rispetto del patto di stabilità, dell’art. 1, commi 557 e seguenti, della l. n. 296/2006, delle percentuali di turn-over, quantificate in base alla spesa di personale cessato nell’anno precedente, secondo le previsioni dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014) e siano stati osservati, a suo tempo, gli obblighi previsti dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 90/2014 (programmazione finanziaria e contabile del fabbisogno di personale) (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 06.10.2015 n. 396).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl requisito da considerare ai fini della mobilità disciplinata dal co. 424 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2015 al fine di verificare le esigenze dell’Ente locale è quello della professionalità risultante dalle declaratorie contenute nella descrizione dei profili delle varie categorie contrattuali, a meno che l’Ente locale abbia l’esigenza di ricoprire un particolare posto in organico con un profilo professionale in relazione al quale sia necessaria un’abilitazione o un requisito professionale specifico, indicato dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Negli altri casi, i dipendenti che rientrano in una determinata categoria contrattuale, se non formati in relazione ad una particolare mansione (ad esempio addetto ufficio tributi) dovranno essere riqualificati, così come previsto dal co. 1-bis, dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165 del 2001.

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Il Sindaco del Comune di Lonate Ceppino (VA) ha inoltrato alla Sezione un quesito con il quale ha domandato se sia possibile procedere all’assunzione di un addetto all’Ufficio Tributi, cat. C1 ricorrendo alla mobilità volontaria tra Enti e non alla mobilità di personale dalle Province (Enti di area vasta), così come previsto dall’art. 1, co. 424, della legge n. 190 del 2014, considerato che la specifica figura professionale non sarebbe prevista nelle province dato che le stesse non sarebbero competenti nella gestione dei tributi locali.
Al fine di chiarire la finalità del quesito ha messo in luce che la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 16.06.2015 n. 19 aveva confermato che la disciplina normativa vigente nel 2015 prevedeva unicamente la possibilità di effettuare avvisi di mobilità riservati ai soli dipendenti delle Province, salvo che si dovessero effettuare assunzioni di figure professionali infungibili e non presenti nella Provincia, con onere di verifica a carico dell’ente procedente.
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Il quesito posto dal Sindaco di Lonate Ceppino riguarda la possibilità di procedere all’assunzione di un dipendente utilizzando la procedura della mobilità in relazione ai vincoli e ai limiti alla spesa di personale imposti dalle leggi statali di coordinamento della finanza pubblica e, in particolare dall’art. 1, co. 424, della legge 23.12.2014, n. 190 (legge di stabilità per il 2015) che ha previsto una speciale procedura di mobilità diretta a ricollocare il personale soprannumerario delle province, interessate dal processo di riordino istituzionale, ancora in atto.
Anche a seguito di alcune incertezze interpretative, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, come noto allo stesso richiedente, ha chiarito l’ambito di applicazione della disposizione speciale introdotta dalla legge di stabilità osservando, in linea generale, che “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta; a conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria” (deliberazione 16.06.2015 n. 19).
La Sezione delle Autonomie ha affrontato anche la questione posta dal Sindaco di Lonate Ceppino in relazione alla possibilità di non ricorrere alla speciale procedura di mobilità indicata sopra ma a quella ordinaria qualora nei ruoli della Provincia non risultassero reperibili soggetti con una professionalità specifica e necessaria per le esigenze dell’ente locale.
Al fine di evitare comportamenti elusivi della norma speciale introdotta con la legge di stabilità per il 2015, la Sezione delle Autonomie ha precisato che “se l’ente deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità, eventualmente attestata da titoli di studio precisamente individuati –in quanto tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale- non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti. E se questa dovesse essere l’unica esigenza di organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione come individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
Con l’intento di chiarire l’estensione del principio, nella stessa delibera, la Sezione delle Autonomie ha osservato che “Sull’argomento oggetto del quesito vengono in evidenza due disposizioni della disciplina legislativa concernente la mobilità: la prima, l'art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale le amministrazioni possono ricoprire i posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni; la seconda, il comma 1-bis, dello stesso art. 30, in base al quale, “l’amministrazione di destinazione provvede alla riqualificazione dei dipendenti….eventualmente avvalendosi, ove sia necessario predisporre percorsi specifici o settoriali di formazione, della Scuola nazionale dell’amministrazione”.
In sostanza in base alla legge deve esserci una corrispondenza tra qualifica professionale acquisita nell’ente cedente e professionalità necessaria ai compiti da assolvere nell’ente di entrata. Se non c’è corrispondenza o equivalenza di professionalità, resta la possibilità di riqualificazione. In base a questi presupposti, l’unico ostacolo all’immissione negli organici dell’ente ricevente è la totale carenza dei requisiti soggettivi di professionalità richiesti in base alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale per ricoprire il posto in organico disponibile.
D’altra parte, va anche considerato che la ricollocazione non può operare se non garantendo alle unità ricollocate la posizione giuridica ed economica in godimento, almeno con riferimento al trattamento fondamentale e accessorio, come stabilito dall’art. 1, comma 96, lett. a), della legge n. 56/2014 per il personale trasferito a seguito di trasferimento delle funzioni
”.
Le indicazioni contenute sopra sono idonee a fornire risposta al quesito posto dal Sindaco del Comune di Lonate Ceppino.
Infatti,
il requisito da considerare ai fini della mobilità disciplinata dal co. 424 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2015 al fine di verificare le esigenze dell’Ente locale è quello della professionalità risultante dalle declaratorie contenute nella descrizione dei profili delle varie categorie contrattuali, a meno che l’Ente locale abbia l’esigenza di ricoprire un particolare posto in organico con un profilo professionale in relazione al quale sia necessaria un’abilitazione o un requisito professionale specifico, indicato dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Negli altri casi, i dipendenti che rientrano in una determinata categoria contrattuale, se non formati in relazione ad una particolare mansione (ad esempio addetto ufficio tributi) dovranno essere riqualificati, così come previsto dal co. 1-bis, dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165 del 2001
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.10.2015 n. 317).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014.
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Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Borgaro Torinese (TO) chiede un parere in merito alla possibilità di procedere nel 2015 all'assunzione di un'unità di personale, per effetto di una cessazione intervenuta nel 2013, a conclusione di una procedura concorsuale che, seppure avviata nel 2014, si è conclusa a febbraio 2015.
E ciò alla luce della Legge finanziaria statale per il 2015 (L. n. 190/2014) che all'art. 1, commi 424 e 425, ha fissato specifici limiti alle assunzioni da parte degli Enti Locali al fine di favorire la ricollocazione del personale delle Province destinatario di procedure di mobilità.
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Nella richiesta di parere sono richiamati i contenuti del parere 21.04.2015 n. 32 della Sezione del controllo per la Regione Sardegna, reso su analogo quesito, che di seguito si ripercorre.
Sugli attuali limiti alla capacità assunzionale degli Enti Locali soggetti al patto di stabilità interno, sia in merito al tetto di spesa, sia agli spazi consentiti per il turn-over del personale cessato, previsti dalla vigente normativa (in particolare, dall’art. 3, commi 5, 5-bis e 5-quater del D.L. n. 90/2014, conv. in L. n. 114/2014) è intervenuto l’art. 1, comma 424, della L. n. 190/2014 (Legge finanziaria per il 2015).
La disposizione legislativa da ultimo richiamata ha previsto che gli Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
In merito all’interpretazione tale norma è intervenuta la Circolare n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali chiarendo, tra l’altro, che:
• le risorse da destinare alle finalità di cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni intervenute nel 2014 e nel 2015;
• la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate al 01.12.2015;
• le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area vasta;
• rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.

Con deliberazione 16.06.2015 n. 19 la Sezione delle autonomie ha affrontato diverse questioni, poste dalle Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e per la Lombardia, tutte vertenti sulla corretta interpretazione ed applicazione di quanto dispone l’art. 1, comma 424 della legge 23.12.2014, n. 190, legge di stabilità per il 2015.
Con successiva deliberazione 28.07.2015 n. 26 la Sezione medesima ha inoltre chiarito che “
gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale”.
Peraltro, l’art. 4, comma 3, del D.L. 19.06.2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali), conv. in legge 06.08.2015, n. 125, è intervenuto in materia, novellando l’art. 3, comma 5, del D.L. 24.06.2014, n. 90, conv. in legge 11.08.2014, n. 114.
Tale norma ora dispone che “
Le amministrazioni di cui al presente comma coordinano le politiche assunzionali dei soggetti di cui all'articolo 18, comma 2-bis, del citato decreto-legge n. 112 del 2008 al fine di garantire anche per i medesimi soggetti una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti; è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente”.
Può dirsi pertanto superata la questione interpretativa in esame nel senso che
qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014 (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 30.09.2015 n. 148).

ENTI LOCALI: Stipendi, tagli ai revisori. La riduzione del 10% non risparmia gli enti. La sezione autonomie conferma la tesi già consolidata in giurisprudenza.
Non ci sono dubbi. Il taglio del 10% dei compensi corrisposti agli organi di indirizzo, direzione, controllo, cda e collegiali della pubblica amministrazione, introdotto nel 2010, si applica anche agli enti locali, e in particolare ai revisori.

Il principio, consolidato nella giurisprudenza delle sezioni regionali della Corte conti, è stato sancito una volta per tutte dalla Sez. autonomie della magistratura contabile con la deliberazione 29.09.2015 n. 29.
A sollevare il caso era stata la Corte conti Campania che chiedeva la corretta interpretazione da dare all'art. 6, comma 3, del decreto legge n. 78/2010, dopo che la stessa sezione autonomie, con delibera n. 4/2014, aveva affermato che «le disposizioni dettate dall'art. 6, commi da 1 a 3, non si riferiscono agli enti territoriali».
Un inciso che aveva gettato nel panico i giudici campani convinti che sul punto si fosse nel tempo formata una giurisprudenza concorde nell'affermare, invece, l'applicabilità del predetto taglio agli enti locali e in particolare ai collegi dei revisori dei conti.
In realtà, ha chiarito la sezione autonomie, si è trattato solo di un equivoco perché la delibera «incriminata» (la n. 4/2014) «si è pronunciata sulla gratuità, o meno, dell'incarico di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi».
L'applicabilità dei tagli agli enti locali non è quindi mai stata messa in discussione. «In quella sede», precisa la delibera depositata in segreteria il 29 settembre scorso, «non si affrontava la questione di carattere generale ora posta e cioè se l'articolo 6, comma 3, del dl 78/2010 si applichi o meno agli emolumenti corrisposti ai componenti degli organi collegiali degli apparati amministrativi degli enti locali».
Al quesito non può che darsi risposta affermativa e sul punto non ci sono mai stati dubbi o tentennamenti nei giudici contabili.
L'art. 6 del dl 78, ha ricordato la Corte, è infatti una norma «ritenuta vincolante dalla giurisprudenza costituzionale», rivolta al coordinamento della finanza pubblica e al contenimento della spesa. Ragion per cui è impensabile affermare che gli enti territoriali possano restarne immuni.
«Non essendoci, dunque, un contrasto giurisprudenziale, non sussistono neppure i presupposti per una pronuncia di orientamento», ha sentenziato la sezione autonomie. Tanto più che la norma in esame, entrata in vigore il 31.05.2010, ha cristallizzato fino al 31 dicembre di quest'anno la misura degli emolumenti che saranno quelli corrisposti al 30.04.2010 decurtati del 10%.
«Salvo ulteriori novità normative in materia», ha concluso la Corte confermando l'insussistenza dei presupposti per pronunciare una delibera di orientamento, «non si ravvisano elementi di rilevanza» e per questo «resta ferma la giurisprudenza delle sezioni regionali di controllo» (articolo ItaliaOggi del 03.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl legislatore, per gli esercizi 2015 e 2016, ha ritenuto prevalente l’obiettivo della riallocazione del personale sovrannumerario degli enti di area vasta. A tal fine ha previsto una specifica procedura di mobilità che, tuttavia, non può essere considerata neutra ai fini assunzionali (secondo la regola generale posta dall’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2014), in quanto l’ente da cui dipende il personale in uscita (la provincia o la città metropolitana) deve conseguire un predeterminato obiettivo di riduzione della propria dotazione organica (cfr. art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014).
Proprio in relazione a questo profilo,
la disciplina legislativa delle assunzioni posta dall’ultima legge di stabilità, sia degli enti locali (comma 424) che delle altre pubbliche amministrazioni (comma 425), ha specificamente destinato i contingenti assunzionali (oltre che ai soli vincitori di concorsi già espletati) al riassorbimento del personale delle province.
Pertanto, al fine di assumere, anche mediante mobilità volontaria, personale dipendente da province o città metropolitane, è necessario che l’ente locale disponga di adeguata capacità
(come definita e conteggiata dall’art. 3, comma 5, del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con legge n. 114 del 2014).
Sotto quest’ultimo profilo è opportuno precisare che
il risparmio utile per procedere ad una nuova assunzione nel caso di cessazione di un dipendente con contratto di lavoro a tempo parziale è quello derivante dall’effettivo risparmio che l’ente consegue dalla predetta estinzione del rapporto di lavoro, non quello teorico rapportato ad un contratto di lavoro a tempo pieno.

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Il Sindaco del Comune di Portalbera (PV), con nota del 13.07.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la speciale disciplina limitativa alle assunzioni di personale, vigente, per gli enti locali, negli esercizi 2015 e 2016.
Premette che il Comune, nell'anno 2014, ha registrato una cessazione di personale, con decorrenza 1° dicembre, in seguito a dimissioni. Tale cessazione ha riguardato un dipendente a tempo indeterminato, con contratto di lavoro a tempo parziale a 18 ore settimanali. Inoltre, l’istanza precisa che l’ente è soggetto al patto di stabilità interno.
Ai sensi dell'art. 3 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014, per gli anni 2014 e 2015, gli enti soggetti al patto di stabilità possono procedere ad assunzioni a tempo indeterminato nel limite di un contingente complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente (comma 5, primo periodo). Inoltre, fermi restando i vincoli generali sulla spesa di personale, gli enti nei quali l'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25% possono procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, a decorrere dal 2015, nel limite del 100% del risparmio di spesa relativo al personale di ruolo cessato nell'anno precedente (comma 5-quater).
Il Comune di Portalbera, ente soggetto a patto di stabilità interno, riferisce di rispettare i vincoli in materia di spesa per il personale (comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006), avendo registrato una spesa media nel triennio 2011-2013 pari ad euro 176.705,37 e, per l'anno in corso pari ad euro 175.421,18 (compresa la previsione della somma derivante da un’eventuale assunzione). Inoltre, ha un'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente inferiore al 25% (precisamente, pari al 22,84%).
Possiede, pertanto, per il 2015, una capacità assunzionale pari al 100% del risparmio derivante dal personale di ruolo cessato nell’anno precedente, ovvero pari ad euro 10.951.00 (quota di spesa relativa al posto di istruttore amministrativo a tempo indeterminato, categoria C, posizione economica C5, con contratto a tempo parziale a 18 ore settimanali).
L'art. 1, comma 424, della legge n. 90 del 2014 prevede che "Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile e' comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle".
L’istanza precisa che il Comune di Portalbera non vanta la possibilità di procedere all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie.
Richiama, altresì, la Circolare n. 1 del 30.01.2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie che, per quanto interessa in questa sede, testualmente recita: "in sostanza il legislatore vincola gli enti a destinare il 100% del turn-over alla mobilità del personale degli enti di area vasta, salvaguardando l'assunzione dei vincitori esclusivamente a valere sulle facoltà ordinarie di assunzione. Sono altresì salvaguardale le esigenze di incremento di part-time nel rispetto di quanto previsto dall'art. 3, comma 101, L. 244/2007... Le spese per il personale assorbito in mobilità secondo il comma in argomento non sì calcolano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'art. 1 della Legge 27.12.2006 n. 296".
Sul punto il Comune ricorda anche la deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede se, ferma restando la normativa applicabile in materia di assunzione del personale e la sostenibilità finanziaria e di bilancio, avendo il Comune di Portalbera registrato nel 2014 una cessazione di personale con contratto di lavoro a tempo parziale (18 ore), ed essendo pacifica la non computabilità nelle spese del personale ricollocato nel tetto di spesa posto dal comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 (in applicazione di quanto esplicitato nella Circolare n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione) sia possibile sforare la propria capacità assunzionale (pari al 100% della spesa relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente) destinando le risorse per un'assunzione a tempo pieno ed indeterminato di un dipendente di ente di area vasta (eventualmente previa mobilità volontaria, ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, nelle more della pubblicazione degli elenchi del personale in esubero).
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel presente parere.
Le questioni poste vertono sulla corretta interpretazione ed applicazione di quanto dispone l’art. 1, commi 421-424, della legge 23.12.2014, n. 190, legge di stabilità per il 2015, dei quali appare opportuno riportare il testo normativo: “421. La dotazione organica delle città metropolitane e delle province delle regioni a statuto ordinario è stabilita, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, in misura pari alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore della legge 07.04.2014, n. 56, ridotta rispettivamente, tenuto conto delle funzioni attribuite ai predetti enti dalla medesima legge 07.04.2014, n. 56, in misura pari al 30 e al 50 per cento e in misura pari al 30 per cento per le province, con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri, di cui all'articolo 1, comma 3, secondo periodo, della legge 07.04.2014, n. 56. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i predetti enti possono deliberare una riduzione superiore. Restano fermi i divieti di cui al comma 420 del presente articolo. Per le unità soprannumerarie si applica la disciplina dei commi da 422 a 428 del presente articolo.
422. Tenuto conto del riordino delle funzioni di cui alla legge 07.04.2014, n. 56, secondo modalità e criteri definiti nell'ambito delle procedure e degli osservatori di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 7 aprile 2014, n. 56, è individuato, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il personale che rimane assegnato agli enti di cui al comma 421 del presente articolo e quello da destinare alle procedure di mobilità, nel rispetto delle forme di partecipazione sindacale previste dalla normativa vigente.
423. Nel contesto delle procedure e degli osservatori di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56, sono determinati, con il supporto delle società in house delle amministrazioni centrali competenti, piani di riassetto organizzativo, economico, finanziario e patrimoniale degli enti di cui al comma 421. In tale contesto sono, altresì, definite le procedure di mobilità del personale interessato, i cui criteri sono fissati con il decreto di cui al comma 2 dell'articolo 30 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Per accelerare i tempi di attuazione e la ricollocazione ottimale del personale, in relazione al riordino delle funzioni previsto dalla citata legge n. 56 del 2014 e delle esigenze funzionali delle amministrazioni di destinazione, si fa ricorso a strumenti informatici. Il personale destinatario delle procedure di mobilità è prioritariamente ricollocato secondo le previsioni di cui al comma 424 e in via subordinata con le modalità di cui al comma 425. Si applica l'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 07.04.2014, n. 56. A tal fine è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per l'anno 2015 e di 3 milioni di euro per l'anno 2016.
424. Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle.”
Sul piano generale va ricordato che, con l’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 2014 è stata introdotta una disciplina speciale delle assunzioni a tempo indeterminato degli enti locali, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016, di quella generale. Il valore precettivo della temporanea disciplina limitativa si apprezza, in particolare, nella sanzione comminata per le eventuali assunzioni effettuate in difformità dalle ridette disposizioni, che vengono colpite da
nullità.
Nel comma 424 la finalità derogatoria, concretamente riferibile alla priorità della ricollocazione, discende dalla specifica e temporanea esigenza di riassorbimento del personale soprannumerario dei c.d. enti di area vasta. Soddisfatta tale esigenza, è la stessa norma che contempla, esplicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria.
Circa lo specifico quesito posto dal Comune istante, va richiamato quanto recentemente precisato dalla scrivente Sezione regionale di controllo nella deliberazione n. 287/2015/PAR.
Nell’occasione è stato evidenziato, sulla base di un percorso motivazionale a cui si fa rinvio, che
il legislatore, per gli esercizi 2015 e 2016, ha ritenuto prevalente l’obiettivo della riallocazione del personale sovrannumerario degli enti di area vasta. A tal fine ha previsto una specifica procedura di mobilità (a cui la deliberazione della Sezione delle Autonomie della Corte dei conti e la Circolare del Ministro per la funzione pubblica hanno associato quella ordinaria, sempre riservata), che, tuttavia, non può essere considerata neutra ai fini assunzionali (secondo la regola generale posta dall’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2014), in quanto l’ente da cui dipende il personale in uscita (la provincia o la città metropolitana) deve conseguire un predeterminato obiettivo di riduzione della propria dotazione organica (cfr. art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014).
Proprio in relazione a questo profilo,
la disciplina legislativa delle assunzioni posta dall’ultima legge di stabilità, sia degli enti locali (comma 424) che delle altre pubbliche amministrazioni (comma 425), ha specificamente destinato i contingenti assunzionali (oltre che ai soli vincitori di concorsi già espletati) al riassorbimento del personale delle province.
Pertanto, al fine di assumere, anche mediante mobilità volontaria, personale dipendente da province o città metropolitane, è necessario che l’ente locale disponga di adeguata capacità
(come definita e conteggiata dall’art. 3, comma 5, del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con legge n. 114 del 2014).
Sotto quest’ultimo profilo è opportuno precisare (presupposto che, peraltro, il Comune mostra di conoscere) che
il risparmio utile per procedere ad una nuova assunzione nel caso di cessazione di un dipendente con contratto di lavoro a tempo parziale è quello derivante dall’effettivo risparmio che l’ente consegue dalla predetta estinzione del rapporto di lavoro, non quello teorico rapportato ad un contratto di lavoro a tempo pieno (in aderenza all’interpretazione già adottata dalla Sezione nelle precedenti deliberazioni n. 53/2012/PAR e n. 347/2014/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.09.2015 n. 309).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In caso di trasformazione di rapporto originario part-time in full-time, essendo fattispecie assimilata ad un’assunzione ai sensi dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, trovano applicazione i limiti alle capacità assunzionali dettati dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
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Il Sindaco del Comune di Grottaglie (TA) chiede alla Sezione un parere in merito “alla disciplina in materia di assunzioni di personale alla luce delle novità introdotte dalla legge 23.12.2014 n. 190 (legge finanziaria 2015) ed in particolare in merito alla trasformazione di rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno.
In particolare, il Sindaco, dopo aver richiamato il disposto dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, formula i seguenti quesiti:
1) “se sia possibile effettuare dette trasformazioni in deroga a quanto stabilito dall’art. 1, comma 424, della Legge n. 190/2014 in tema di ricollocazione delle unità soprannumerarie del personale degli enti di area vasta”;
2) “nel caso di trasformazioni a tempo pieno di rapporti di lavoro originariamente stipulati a tempo parziale per un certo numero di ore settimanali e successivamente al 2007 ulteriormente incrementate, se le stesse debbono trovare capienza nella capacità assunzionale dell’Ente per la differenza tra l’attuale oppure l’originaria entità del part-time rispetto al limite del tempo pieno”.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito n. 1 formulato dall’Ente inerisce alla compatibilità della trasformazione di rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno con quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014 in tema di ricollocazione del personale eccedentario delle province.
La disposizione da ultimo richiamata (da ultimo modificata dalla l. 125/2015 di conversione del d.l. 78/2015) limita le facoltà assunzionali degli enti territoriali allo scopo di favorire il riassorbimento del personale provinciale, prevedendo che “Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. È fatta salva la possibilità di indire, nel rispetto delle limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti, le procedure concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di personale in possesso di titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale amministrativo, in caso di esaurimento delle graduatorie vigenti e di dimostrata assenza, tra le unità soprannumerarie di cui al precedente periodo, di figure professionali in grado di assolvere alle predette funzioni. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296 (…..)Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle”.
A delimitare il perimetro applicativo del precetto appena richiamato è intervenuta la Sezione delle Autonomie che, da un lato, ha incluso nell’area del divieto le procedure di mobilità volontaria per il 2015 ed il 2016 (deliberazione 16.06.2015 n. 19) e, dall’altro lato, ha individuato, quale limite esterno (sancendone, di conseguenza, l’estraneità al raggio operativo della norma), le assunzioni di personale a tempo indeterminato, effettuate utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013 (deliberazione 28.07.2015 n. 26).
La medesima Sezione delle Autonomie (deliberazione 28.07.2015 n. 26), con riferimento alla specifica questione della compatibilità della trasformazione di lavoro da part-time in full-time con quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014- questione sollevata dalla Sezione controllo Lombardia con deliberazione n. 135/2015/QMIG- ha statuito il non luogo a deliberare in quanto “la disciplina della trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla disciplina di cui al citato comma 424”.
La problematica in esame, infatti, trova la propria base normativa di riferimento nel disposto dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, a mente del quale: “
Per il personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”.
Le Sezioni regionali di controllo si sono soffermate più volte sull’ambito di operatività della disposizione, giungendo alla conclusione che, delle tre fattispecie di trasformazione astrattamente ipotizzabili (trasformazione a tempo pieno di contratti originariamente a tempo parziale, trasformazione a tempo pieno di contratti originariamente a tempo pieno, maggiorazione percentuale di prestazione lavorativa per contratti a tempo parziale),
solo la trasformazione a tempo pieno di un rapporto di lavoro originariamente sorto come a tempo parziale sia da ricondurre “nell’alveo della totale ed assorbente novazione oggettiva del rapporto stesso, sì da considerarla nuova assunzione” (Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 356/PAR/2013, Sezione controllo Campania, deliberazioni n. 225/PAR/2013 e n. 20/PAR/2014, Sezione controllo Marche, deliberazione n. 61/PAR/2014, Sezione regionale di controllo per la Lombardia n. 462/2012/PAR, n. 184/PAR/2014, Sezione regionale di controllo per la Toscana n. 198/2011/PAR).
Dal quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato consegue che
la trasformazione di rapporti di lavoro originariamente part-time in full-time soggiacciono ai “limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”, tra cui rilevano, per gli enti soggetti al patto di stabilità, oltre all’obbligo di riduzione della spesa di personale di cui all’art. 1, commi 557 e ss. della legge n. 296/2006, anche i vincoli del turn-over di cui all’art. 3, comma 5, d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014 e, per il biennio 2015-2016, i limiti previsti dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
A tali conclusioni conduce lo stesso tenore letterale dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007 che, nell’assimilare ad un’assunzione la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, richiama tutti i limiti imposti dalla normativa in materia, tra i quali rientrano senza dubbio quelli contemplati dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
Siffatta opzione ermeneutica, inoltre, è quella più rispondente, oltre che al dato letterale e sistematico (in forza del rinvio “mobile” contenuto nell’art. 3 comma 101 l. 244), anche alla ratio dell’intera disciplina dettata per il riassorbimento del personale provinciale. “
La trasformazione dei ridetti rapporti, infatti, impegna quota dei contingenti assunzionali di cui l’ente locale dispone in virtù dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014. Questi ultimi, se impegnati per la finalità prospettata dal comune istante, non possono essere destinati (obiettivo del comma 424) all’assunzione del personale in sovrannumero delle province (e/o a coloro che sono vincitori di concorso, inseriti in graduatorie vigenti). L’utilizzo del contingente messo a disposizione dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale potrebbe impedire all’ente locale di raggiungere la percentuale di risparmio necessaria, invece, ad assumere un’unità di personale in sovrannumero” (Sezione controllo Lombardia, deliberazione n. 135/2015/QMIG).
L’interpretazione preferita conduce inevitabilmente alla conclusione che ”
in attesa che si concludano le procedure, previste dal comma 424 della legge di stabilità per il 2015, gli enti locali non possano procedere alla trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in quanto fattispecie equiparata, dalla pregressa esaminata normativa, alla disciplina prescritta per le assunzioni a tempo indeterminato” (Sezione Lombardia, deliberazione n. 135 cit.).
Quanto alle altre due ipotesi di trasformazione sopra enucleate (trasformazione a tempo pieno di contratti originariamente a tempo pieno e maggiorazione percentuale di prestazione lavorativa per contratti a tempo parziale), la Sezione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza contabile, dai quali non ritiene di discostarsi, secondo cui
le stesse non devono essere valutate come nuova assunzione, ferma l’osservanza del disposto dell’art. 1, comma 557, l. 296/2006 e salvo il limite- per le ipotesi di mero incremento orario- delle finalità elusive della disciplina di legge (Sezione controllo Campania, deliberazione n. Campania/20/2014/PAR, Sezione controllo Marche, deliberazione n. 61/PAR/2014).
Per le ragioni sopra esposte, il quesito n. 1 deve essere risolto nel senso che,
in caso di trasformazione di rapporto originario part-time in full-time, essendo fattispecie assimilata ad un’assunzione ai sensi dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, trovano applicazione i limiti alle capacità assunzionali dettati dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
Passando al quesito n. 2, l’esame del medesimo risulta logicamente condizionato dalla risposta positiva al quesito precedente, sicché l’impossibilità di procedere alla trasformazione in rapporti a tempo pieno di rapporti originariamente a tempo parziale rende sostanzialmente priva di concreta rilevanza qualunque soluzione interpretativa espressa sul punto (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 24.09.2015 n. 202).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato non vincolate dalla disposizione del comma 424, art. 1. l. 190/2014, utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale
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Il Sindaco del Comune di Palagiano (TA) chiede alla Sezione un parere in merito alla possibilità di procedere “all’assunzione, a tempo indeterminato, del Responsabile del Settore Economico Finanziario nella persona collocata immediatamente dopo il vincitore del concorso che si è dimesso, utilizzando il budget assunzionale riferito alla cessazione verificatasi nel 2013 senza incorrere nella sanzione prevista dal citato comma 424 art. 1 legge 190/2014.
In particolare, il Sindaco espone che:
1) si è reso vacante il posto di Responsabile del Settore Economico Finanziario, a seguito della mobilità volontaria, presso altro ente locale, del vincitore di concorso a tempo indeterminato, sicché l’Ente vorrebbe coprire il posto rimasto vacante attraverso l’assunzione del secondo candidato presente in graduatoria, ancora valida ed efficace;
2) il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente, per l’anno 2014, è pari al 19%;
3) l’Ente ha sempre rispettato il patto di stabilità interno;
4) nell’anno 2013 si sono verificate cessazioni di lavoro a tempo determinato pari ad € 38.276,74;
5) dalla cessazione di cui al punto precedente non sono state effettuate assunzioni a tempo indeterminato;
6) il costo per l’assunzione a tempo indeterminato di un Responsabile del Settore Economico Finanziario è inferiore all’importo di cui al punto 4 e comunque manterrebbe la spesa annua del personale inferiore a quella media del triennio 2011/2013.
Premesso quanto sopra, il Sindaco, dopo aver richiamato la circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Dipartimento della Funzione Pubblica a mente della quale il budget vincolato dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014 è quello riferito alle cessazioni degli anni 2015 e 2016, chiede alla Sezione un parere in merito alla possibilità di utilizzo del budget assunzionale riferito alla cessazione verificatasi nel 2013 per l’assunzione di idoneo di graduatoria senza incorrere nella nullità prevista dal comma 424 del citato art. 1 l. 190/2014.
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Passando al merito della richiesta, il quesito formulato dall’Ente inerisce alla compatibilità dell’utilizzo del budget assunzionale riferito ad una cessazione verificatasi nel 2013 per l’assunzione di un idoneo di graduatoria (persona collocata immediatamente dopo il vincitore che si è dimesso) con quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014 (legge stabilità 2015).
La disposizione da ultimo richiamata ha introdotto un regime particolare ed inderogabile per il biennio 2015 e 2016 finalizzato all’assunzione dei vincitori di procedure concorsuali vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della disposizione (01.01.2015) ed al riassorbimento del personale delle Province dichiarato eccedentario in applicazione delle disposizioni dei commi 420 e ss. del medesimo articolo 1.
Il regime previsto dal comma 424 si connota, pertanto, per una duplice caratteristica: la particolarità (nel senso di deroga alla disciplina generale, nell’accezione indicata dalle Sezione delle Autonomie deliberazione 16.06.2015 n. 19) e l’inderogabilità.
Quanto alla particolarità della disciplina, essa di sostanzia nella creazione “di una sorta di “binario preferenziale” per quel personale provinciale che, posto in situazione di esubero istituzionale a seguito del riordino delle relative amministrazioni, rischierebbe, ove non riassorbito presso altri enti, di essere collocato in posizione di disponibilità prima, avviandosi poi, fallita la procedura di salvaguardia dei livelli occupazionali di cui art. 34 e 34-bis del d.lgs 165/2001, verso il licenziamento” (Sezione controllo Veneto deliberazione n. 304/PAR/2015).
Sul piano letterale, infatti, la disposizione in esame prevede che, per il biennio 2015 e 2016, le regioni e gli enti locali “destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Con esclusivo riferimento alla ricollocazione del personale soprannumerario viene, inoltre, previsto che “le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296”.
L’inderogabilità della regolamentazione viene garantita attraverso l’espressa comminatoria della
nullità delle assunzioni effettuate in violazione di quanto sancito dal comma in esame, sicché l’eventuale contratto stipulato contra legem è ab origine invalido ed inefficace (con eventuali conseguenti responsabilità in capo a chi ha disposto l’assunzione illegittima).
I due aspetti che connotano l’art. 1, comma 424 (di deroga alla disciplina generale e di inderogabilità- a propria volta- della disciplina in esso contenuta, l’uno intrinsecamente e logicamente legato all’altro) sono stati posti in evidenza dalla Sezione delle Autonomie che, con deliberazione 16.06.2015 n. 19, ha osservato come “con l’art. 1, comma 424, della legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) è stata introdotta una disciplina particolare delle assunzioni a tempo indeterminato, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016 di quella generale; eventuali assunzioni effettuate in difformità da dette disposizioni, sono colpite da nullità di diritto" (“
le assunzioni effettuate in violazioni del presente comma sono nulle” comma 424, ultimo periodo).
Peraltro tale particolarità della disciplina non va intesa alla stessa stregua del carattere della specialità tipico della configurazione delle antinomie giuridiche; per queste, infatti, il fondamento derogatorio risiede in una diversa, sostanziale e strutturale esigenza di eccezione alla norma generale: nel comma 424 la finalità derogatoria concretamente riferibile alla priorità della ricollocazione, discende dalla specifica e temporanea esigenza di riassorbimento del personale soprannumerario. Soddisfatta tale esigenza è la stessa norma che contempla, implicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria: “
salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario”.
Con specifico riferimento alle risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato, la Sezione delle Autonomie ha chiarito come il legislatore abbia individuato due plafond: uno, utilizzabile indistintamente per le assunzioni da graduatorie già approvate e per la ricollocazione delle unità soprannumerarie, l’altro, destinato esclusivamente ad essere utilizzato per la ricollocazione del personale soprannumerario. Il primo plafond è quello quantificato in termini percentuali di risparmio di spesa destinabile a nuove assunzioni negli esercizi 2015 e 2016 secondo le disposizioni di cui all’art. 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90; il secondo corrisponde al complemento a 100 delle medesime percentuali previste per gli anni 2014 e 2015.
Alla luce di quanto sopra, si è posto il problema dell’ampiezza del primo plafond, se cioè tra i risparmi vincolati per gli anni 2015 e 2016 rientrino anche le cessazioni cumulate nel triennio (“bugdet cumulato”: cfr. Sezione controllo Campania deliberazione n. 200/QMIG/2015) alla stregua del comma 5 dell’art. 3 del d.l. n. 90/2014 (Sezione controllo Lombardia deliberazione n. 120/2015/QMIG, Sezione controllo Marche, deliberazione n. 163/2015, Sezione controllo Veneto, deliberazione n. 304/PAR/2015).
La disposizione da ultimo citata prevede che “
a decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
Sul punto è intervenuto recentemente il legislatore, il quale con l’art. 4 d.l. 78/2015, conv. con modificazioni, dalla legge 06.08.2015 n. 125, ha introdotto un nuovo periodo all’art. 3, comma 5, d.l. 90/2014 sopra citato, stabilendo che “
è altresì consentito l’utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente“.
La disposizione da ultimo citata introduce un tassello nuovo ed aggiuntivo (come è evidenziato dall’utilizzo dell’avverbio “
altresì”: cfr. Sezione controllo Campania deliberazione n. 200/QMIG/2015, cit.) al quadro di disciplina tracciato dal citato art. 3, comma 5, d.l. 90/2014, i cui contorni sono stati definiti dalla Sezione Autonomie con la deliberazione 21.11.2014 n. 27 (proiettata, per gli enti soggetti al patto di stabilità, in prospettiva futura: “dal 2014 in poi, in sede di programmazione di fabbisogno e finanziaria, si potrà tenere conto delle cessazioni prevedibili nell’arco di un triennio”).
Il raccordo tra la nuova disciplina dei resti assunzionali come scaturente dall’addenda del d.l. 78/2015 (c.d. d.l. enti locali) e l’assetto delineato dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014 (peraltro, parimenti inciso dal medesimo art 4 d.l. 78/2015 che, al comma 2-bis, ha aggiunto un nuovo periodo al comma 424) è stato realizzato dalla Sezione delle Autonomie con
deliberazione 28.07.2015 n. 26.
In quella sede, la Sezione delle Autonomie, ribadendo e richiamando i principi già espressi nella deliberazione 16.06.2015 n. 19, ha osservato che la novella legislativa introdotta con l’art. 4 d.l. 78/2015, nel completare il quadro interpretativo già delineato dalla Circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 1/2015 (citata dal Comune istante: “
nelle more del completamento del procedimento di cui ai commi 424 e 425 alle amministrazioni sopra individuate è fatto divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato a valere sui budget 2015 e 2016 ……Rimangono consentite le assunzioni, a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da norme speciali”), autorizza i Comuni ad impiegare nel 2015 l’eventuale budget residuo del triennio 2011-2013 per assunzioni non vincolate ai sensi del comma 424.
Da quanto sopra consegue che “
per le cessazioni intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle limitazioni introdotte dal citato comma 424, restando regolata da quanto previsto, per gli enti soggetti al patto di stabilità interno, dall’art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014, che indica le quote percentuali di turn-over consentite per le assunzioni di personale a tempo indeterminato”.
A completare il quadro è, inoltre, intervenuta la recente deliberazione 22.09.2015 n. 28 la quale ha sancito che “
Il riferimento al “triennio precedente” inserito nell’art. 4, comma 3, del d.l n. 78/2015, che ha integrato l’art 3, comma 5, del d.l. 90/2014, è da intendersi in senso dinamico, con scorrimento e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si intende effettuare le assunzioni”.
In conclusione, conformemente a quanto statuito dalla Sezione delle Autonomie
deliberazione 28.07.2015 n. 26, al cui orientamento questa Sezione si conforma ai sensi dell’art 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, si osserva che “gli enti locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato non vincolate dalla disposizione del comma 424 utilizzando la capacità assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del personale provinciale” (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 24.09.2015 n. 198).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta.
A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Edolo (BS), richiamata la Legge di Stabilità per l'anno 2015 che riserva gli spazi assunzionali degli enti pubblici per gli anni 2015 e 2016 a favore dei dipendenti in esubero degli enti provinciali in fase di riorganizzazione e la deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei Conti sulla corretta interpretazione della norma, chiede alla Sezione un parere “in merito alla legittimità o meno di un'assunzione di personale mediante mobilità volontaria esterna utilizzando parte degli spazi finanziari dedicati fino alla fine dello scorso anno al Segretario comunale titolare a tempo pieno presso codesto Comune.
L'Amministrazione Comunale precisa che vi è l'urgente necessità di sostituire la responsabile dell'area economico-finanziaria, svolgente funzioni dirigenziali, che è cessata dal servizio per quiescenza il 01.05.2015. Lo spazio finanziario liberato da tale dipendente, categoria giuridica D1, posizione economica D3, con indennità di posizione al massimo consentito dai CCNL, sarà spazio assunzionale per l'anno 2016.
Il Comune inoltre ha avuto un'altra cessazione nell'anno 2014, il cui spazio finanziario in termini assunzionali non è stato utilizzato, riguardante la figura della bibliotecaria comunale, categoria giuridica C, posizione economica C5.
Nel settembre dello scorso anno il Segretario comunale (fascia professionale B) titolare a tempo pieno della sede di Segreteria unica ha cessato dal proprio incarico lasciando vacante la sede di Segreteria attualmente retta a scavalco da un Segretario comunale (fascia professionale C) titolare di uno dei comuni della medesima zona e facente parte dell'Unione dei Comuni alla quale partecipa anche il Comune di Edolo. Tale fatto ha portato ad avere un notevole risparmio in termini di spesa del personale e conseguenti spazi finanziari utilizzabili.
Ad avviso dell’Ente, il riutilizzo di tali spazi finanziari, dedicati alla retribuzione del precedente Segretario comunale titolare cessato dal proprio incarico e quindi resisi liberi, per l'assunzione mediante mobilità volontaria di un nuovo responsabile dell'area economico-finanziaria, svolgente finzioni dirigenziali, al fine della sostituzione del precedente responsabile in quiescenza dal 01.05.2015, non si porrebbe in contrasto con la finalità della Legge di Stabilità 2015 tesa a salvaguardare il riassorbimento del personale in esubero degli enti di area vasta.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione se procedere o meno ad effettuare nuova assunzione mediante mobilità volontaria attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente che potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel parere della Sezione.
Il quesito che il Sindaco di Edolo (BS) rivolge alla Sezione riguarda la legittimità o meno di un'assunzione di personale mediante mobilità volontaria esterna utilizzando parte degli spazi finanziari dedicati fino alla fine dello scorso anno al Segretario comunale titolare a tempo pieno presso l’Ente. Nell’istanza di parere si aggiunge che nell’ente ci sono state due cessazioni, rispettivamente nell’anno 2014 e 2015.
In linea generale, si ricorda all’ente che
i limiti assunzionali specifici per gli enti locali vanno individuati nell’art. 3 D.L. n. 90/2014 (convertito con legge 114/2014); la norma da ultimo richiamata introduce criteri maggiormente flessibili in ordine alla disciplina del c.d. turn-over; la ratio va ravvisata nel fatto che alcuni interventi legislativi passati avevano ‹‹irrigidito la disciplina in maniera eccessiva, rendendo difficoltosa l’assunzione di personale anche da parte di enti che rispettavano i parametri di spesa e di consistenza delle risorse umane presenti. Perciò con gli interventi più recenti il legislatore ha ritenuto di rendere più flessibile e favorire proprio gli enti definibili “virtuosi”›› (Sez. Autonomie deliberazione 18.09.2015 n. 27).
La norma stabilisce che è possibile assumere personale nei limiti del 60% della spesa relativa al personale cessato nell’anno precedente, limite portato all’80% nel caso di enti con spesa del personale pari o inferiore al 25% della spesa corrente. Inoltre, fermo restando il limite dell’art. 1, comma 557, della l. n. 296/2006 nel 2014, è possibile cumulare le risorse destinate alle assunzioni nel limite temporale dei tre anni.
A parte detta precisazione sulla necessità che i risparmi di spesa per procedere al c.d. turn-over derivino dalla cessazioni avvenute nel triennio precedente, questa Sezione osserva che, nonostante l’ente istante dichiari di essere a conoscenza della deliberazione assunta dalla Sezione Autonomie (deliberazione 16.06.2015 n. 19), non prospetta questioni ermeneutiche astratte e generali che non siano già state risolte dalla richiamata pronuncia.
Pertanto, in questa sede, ci si limita a richiamare il principio espresso dalla deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Sezione Autonomie: “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria” (Corte dei Conti, sez. controllo Lombardia, parere 23.09.2015 n. 305).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sindaci, lo staff va retribuito. Corte conti: niente lavoro gratuito.
È da escludere che i rapporti di lavoro nello staff del sindaco, ex articolo 90 del Tuel, possano essere svolti a titolo gratuito. La collaborazione agli organi di vertice politico, infatti, deve essere costituita in forma subordinata prevedendo la corresponsione di un emolumento.

È quanto precisa la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la regione Campania, nel testo del parere 23.09.2015 n. 213 con cui fa luce sulla natura delle collaborazioni che si attivano nelle strutture di vertice degli enti locali.
Rispondendo ad un quesito posto dal comune di Cesa (Ce), sulla possibilità di costituire uno staff di collaborazione al sindaco senza che i soggetti scelti a farne parte possano percepire emolumenti e «al di fuori di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato o autonomo», la magistratura contabile ha risposto negativamente. Infatti, si ribadisce il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti investiti di funzioni di staff, organo che, è bene ribadirlo, «è eventuale e non necessario per il funzionamento dell'ente».
La norma richiamata, pertanto, nel prevedere che ai contratti di staff si applichi la disciplina del personale degli enti locali, non ammette altre forme di collaborazione al di fuori del lavoro subordinato oneroso, cosi da tutelare altri principi, come quello costituzionale della dignità del lavoro.
Peraltro, anche se si volesse sostenere la tesi della gratuità della prestazione, la Corte sottolinea come tale scelta potrebbe esporre l'ente a rischi legali e a probabili soccombenze in caso di contenzioso. Le eccezioni alla necessaria onerosità del rapporto di lavoro, pertanto, sono quelle espressamente previste dalla legge come, ad esempio, la disciplina ex articolo 7 della legge n. 266/1991 che prevede la gratuità del lavoro prestato nelle organizzazioni di volontariato, in convenzione con gli enti locali.
In definitiva, ammette la Corte, il rapporto dei soggetti ex articolo 90 Tuel, non può che essere di tipo oneroso in ragione del fatto che l'inserimento del soggetto nell'organizzazione pubblica, anche in staff, non può non comportare la soggezione al potere di controllo, necessario alla realizzazione delle finalità istituzionali (articolo ItaliaOggi del 06.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei Comuni assunzioni solo flessibili. Poche alternative al blocco sostanziale fino alla ricollocazione degli ex provinciali.
Personale. Entro il 10 ottobre va acquisito il consenso dei «distaccati» ed entro il 15 vanno completate le mobilità volontarie.

Con la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto sui criteri per la mobilità dei dipendenti provinciali prendono l'avvio le procedure attraverso il portale di incontro e domanda e offerta predisposto dalla Funzione pubblica. I tempi non saranno brevi e, pertanto, le amministrazioni locali sono alle prese con un dubbio: cosa fare nel frattempo? Come è possibile gestire le funzioni e i servizi, in questa situazione di sostanziale blocco delle assunzioni che si protrae ormai da dieci mesi?
Le assunzioni a tempo indeterminato sulla capacità assunzionale degli anni 2015 e 2016 (calcolata sulle cessazioni del 2014 e del 2015) sono congelate fino al totale riassorbimento dei dipendenti di Province e Città metropolitane.

Lo hanno confermato la Funzione Pubblica nella
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 e la Corte dei Conti Sezione Autonomie, nella deliberazione 16.06.2015 n. 19, deliberazione 28.07.2015 n. 26 e deliberazione 22.09.2015 n. 28. Rimane qualche dubbio sulla possibilità dei Comuni di procedere autonomamente con assunzioni a valere sui budget residui degli anni precedenti.
Nella deliberazione 28/2015, infatti, i magistrati contabili, oltre ad affermare che il triennio di riferimento per utilizzare i resti è «dinamico», sembrano affermare che tali resti siano “liberi” per assunzioni, ma solo se erano già stati inseriti nella programmazione del fabbisogno di personale. L'altra classica modalità per assunzioni a tempo indeterminato risiede nella mobilità volontaria, vietata dall'entrata in vigore della legge di stabilità 2015.
Entro 15 giorni dalla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, è però consentito agli enti locali di concludere le procedure di mobilità avviate prima del 01.01.2015 e quelle riservate in via prioritaria al personale degli enti di area vasta. L'articolo 11, precisa che queste assunzioni non incidono sul regime delle assunzioni per gli anni 2015 e 2016.
Rimane un'altra corsia preferenziale per le assunzioni stabili nei Comuni, ovvero il trasferimento dei dipendenti ex provinciali che al 20.06.2015 erano in comando o distacco o altri istituti comunque denominati. Infatti, entro soli 10 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto è necessario acquisire il consenso del lavoratore e procedere con il passaggio dalla Provincia al Comune.
Per il resto, si tratta di sopravvivenza. Basti ricordare che l'articolo 36, comma 1, del Dlgs 165/2001 chiede alle amministrazioni di assumere a tempo indeterminato sui fabbisogni ordinari, per rendersi conto dell'impasse a cui si è costretti per tentare di garantire le funzioni fondamentali. L'attenzione, quindi, è tutta spostata sul lavoro flessibile. Via libera, quindi, ad assunzioni a tempo determinato, lavoro accessorio, somministrazione, ma anche comando, distacco, assegnazioni temporanee, convenzioni. Nel rispetto, va detto, del limite di quanto speso nel 2009, come stabilito dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010. Rimangono poi consentite le assunzioni in base agli articoli 90 e 110 del Tuel.
Discorso separato per la Polizia locale. In questo caso, il legislatore ha previsto un esodo ancora più immediato: il trasferimento dei dipendenti nei ruoli della Polizia municipale, anche in deroga -sostiene il decreto- alle proprie facoltà di assumere. Anche gli enti che non hanno capacità assunzionale 2015 e 2016, potranno quindi ricevere questi dipendenti, purché siano previsti nella programmazione del fabbisogno e siano in grado di garantire la sostenibilità di bilancio.
Il prezzo da pagare, però, è più caro. Nelle funzioni della Polizia locale scatta infatti, il divieto di qualsiasi assunzione a qualsiasi titolo, fino alla totale ricollocazione, tranne che per i contratti a termine per esigenze stagionali non superiori a cinque mesi per anno solare.
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Incognita calcoli sui tetti di spesa.
Vincoli. Le conseguenze di ridurre l’incidenza del personale sulle uscite correnti.

Con la deliberazione 18.09.2015 n. 27 la sezione delle Autonomie della Corte dei conti ha «resuscitato» l’obbligo di ridurre l’incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente (si veda Il Sole 24 Ore del 22 settembre).
Gli enti sottoposti al Patto devono assicurare la riduzione della spesa di personale con azioni da modulare nell’ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio, alla riduzione di questo indicatore, alla razionalizzazione delle strutture e al contenimento della dinamica della contrattazione integrativa.
Il Dl 90/2014, nel confermare i vincoli alla spesa pubblica disciplinati dai commi 557, 557-bis e 557-ter della legge 296/2006, abroga l’articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008 che stabiliva il divieto di assunzioni negli enti in cui l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti.
Secondo i magistrati le disposizioni che impongono la riduzione dell’incidenza della spesa di personale rispetto al complesso delle spese correnti sarebbero immediatamente cogenti come il parametro fissato dal comma 557-quater.
L’espresso richiamo al comma 557-quater operato dalla Corte lascerebbe intendere che il parametro di riferimento per la verifica dell’indicatore debba essere individuato nel triennio 2011-2013 anziché nell’anno precedente. L’incidenza della spesa di personale sulla corrente dovrebbe, in altre parole, essere confrontata con l’indicatore medio del triennio in questione.
L’interpretazione giunge tuttavia a sorpresa. Con l’abrogazione dell’articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008 sembrava infatti esser venuto meno l’obbligo di verifica di questo rapporto, anche in considerazione di quanto disposto al comma 557, in base quale le azioni finalizzate al contenimento della spesa di personale sono liberamente modulabili nell’ambito dell’autonomia decisionale degli enti.
L’applicazione ai bilanci dei principi di competenza finanziaria potenziata, che impone la registrazione di impegni di spesa solo in presenza di obbligazioni giuridicamente perfezionale e la loro imputazione agli esercizi di esigibilità, rende di fatto poco comparabili gli indicatori riferiti a esercizi precedenti all’entrata in vigore della riforma.
Occorre inoltre valutare, per la quantificazione dei valori da inserire al denominatore del rapporto e dunque allo scopo di comparare valori omogenei, le diverse modalità di contabilizzazione delle entrate e delle spese. Si pensi, a solo titolo di esempio, alle disposizioni introdotte dall’articolo 6 del Dl 16/2014, che disciplina la contabilizzazione dell’Imu al netto dell’importo versato all’entrata del bilancio dello Stato.
L’indicatore in questione risulta poi fortemente condizionato dalle dinamiche di contenimento della spesa pubblica, e dunque dagli obblighi di riduzione della spesa corrente.
Gli effetti di un eventuale sforamento di questo indicatore sono rilevanti. La violazione di questo vincolo produrrebbe infatti il blocco delle assunzioni e l’impossibilità di finanziare le risorse aggiuntive variabili del fondo per il salario accessorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti ha affermato come il comma 424 della legge di stabilità per il 2015 detti una disciplina temporaneamente derogatoria, con valore “conformativo di tutte le necessità esegetiche che riguardano l’attuazione di quella disposizione”.
Di conseguenza, ha ritenuto che, per il 2015 ed il 2016, agli enti locali sia consentito indire bandi per procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario di provincie e città metropolitane.
A conclusione del processo di ricollocazione dell’indicato personale
(come delineato dai commi 421 e seguenti della legge n. 190 del 2014), invece, sarà possibile, per gli enti locali, tornare ad indire ordinarie procedure di mobilità volontaria, e considerare neutre le conseguenti assunzioni ai fini delle limitazioni poste dalla legge al reclutamento di personale a tempo indeterminato
(in aderenza alla regola generale posta dall’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004).
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Il Sindaco del Comune di Finale Ligure (SV) ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto i limiti all’assunzione di personale posti dalla legge di stabilità 23.12.2014, n. 190.
In particolare, premette che, ai sensi dell'art. 30 del decreto-legislativo 30.03.2001, n. 165, ha previsto, in sede di programmazione triennale del fabbisogno di personale 2015-2017 e di piano delle assunzioni 2015 (deliberazione di Giunta comunale n. 199 del 30.12.2014, prodotta in allegato), la copertura di posti vacanti mediante mobilità volontaria, previo esperimento delle procedure previste dall'art. 34-bis del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001. Riferisce di aver conseguito, nel 2014, gli obiettivi finanziari posti dal patto di stabilità interno e rispettato la riduzione della spesa storica per il personale, nei termini definiti dall'art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296.
In particolare, l'art. 1, comma 47, della legge 30.12.2004, n. 311, stabilisce che "in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente".
La suddetta norma, prosegue il Sindaco, è stata oggetto di ripetute pronunce delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, chiamate a chiarirne la portata applicativa in rapporto ai vincoli posti dalla legge alle assunzioni di personale (richiama, quale recente precedente, il parere della Sezione per la Lombardia n. 378/2014).
La magistratura contabile ha ritenuto che la cessione del contratto di personale dipendente (c.d. “mobilità”), fra enti soggetti entrambi dalla legge a limitazioni alle assunzioni, non interferisce con il rispetto dei contingenti limitativi alle assunzioni, in quanto la mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte a disciplina limitativa, non produce variazione della spesa complessiva e, di conseguenza, risulta neutra per la finanza pubblica.
Quanto esposto ha portato a ritenere, quale corollario, che la cessione del contratto di lavoro non costituisca, per l'ente cedente, una “cessazione” legittimante assunzioni dall’esterno del perimetro della pubblica amministrazione. Correlativamente, l'ingresso di personale in mobilità, per l'ente destinatario, non costituisce “assunzione”, e, pertanto, non intacca eventuali contingenti, numerici o finanziari, destinati a queste ultime (l’istanza richiama il parere della Sezione regionale di controllo per la Lombardia n. 373/2012).
Il dubbio oggetto dell’istanza di parere sorge per effetto dell’entrata in vigore dell'art. 1, comma 424, della citata legge di stabilità per il 2015, in cui viene stabilito che: "gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle".
Alla luce di quanto sopra, il Sindaco ritiene che il ricorso alla mobilità volontaria tra enti sottoposti al patto di stabilità non interferisca con la disciplina tesa al ricollocamento del personale delle province, in quanto non incide sulla disponibilità di spesa da destinare alle nuove assunzioni di personale, chiedendo un parere in merito alla conformità alla normativa vigente dell’acquisizione di un’unità di personale, nel corso del 2015, a mezzo di cessione del contratto di lavoro.
...
La richiesta di parere avanzata dal Comune di Finale Ligure verte su uno dei profili interpretativi che investono il comma 424 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2015, n. 190 del 2014, al cui tenore letterale, esposto in premessa, si fa rinvio.
Come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nella citata deliberazione 16.06.2015 n. 19, con tale norma è stata introdotta una specifica disciplina per le assunzioni a tempo indeterminato degli enti locali, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016, a quella generale, con comminazione di un’esplicita sanzione di nullità per quelle effettuate in difformità.
In particolare, la citata pronuncia ha avuto modo di affermare un principio di orientamento generale anche in relazione al dubbio interpretativo posto dal comune di Finale Ligure, a cui la Sezione regionale di controllo deve conformarsi, in aderenza al disposto dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012.
Infatti, in riferimento alla possibilità per un ente locale, in presenza della disciplina posta dalla legge di stabilità per il 2015, di effettuare assunzioni a tempo indeterminato mediante l’attivazione delle procedura per la mobilità volontaria, prevista dall’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, la Sezione regionale per la Lombardia, nel parere 24.02.2015 n. 85, ha ritenuto, in virtù delle motivazioni a cui si fa rinvio, che il vincolo di attingere dal personale soprannumerario delle provincie sia limitato alle sole assunzioni a tempo indeterminato e non ai trasferimenti diretti di personale mediante cessione del contratto (c.d. “mobilità”), considerati neutri, in costanza di un regime limitativo alle assunzioni, dall’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004.
Tale tesi non è stata condivisa dal
la Sezione delle Autonomie, che ha affermato che il comma 424 della legge di stabilità per il 2015 detti una disciplina temporaneamente derogatoria, con valore “conformativo di tutte le necessità esegetiche che riguardano l’attuazione di quella disposizione”.
Di conseguenza, sulla base del percorso motivazionale a cui si fa rinvio, ha ritenuto che, per il 2015 ed il 2016, agli enti locali sia consentito indire bandi per procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario di provincie e città metropolitane. A conclusione del processo di ricollocazione dell’indicato personale (come delineato dai commi 421 e seguenti della legge n. 190 del 2014), invece, sarà possibile, per gli enti locali, tornare ad indire ordinarie procedure di mobilità volontaria, e considerare neutre le conseguenti assunzioni ai fini delle limitazioni poste dalla legge al reclutamento di personale a tempo indeterminato (in aderenza alla regola generale posta dall’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004) (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 30.07.2015 n. 58).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’obbligo normativo di riservare, per il 2015 e 2016, le procedure di mobilità al personale soprannumerario provinciale esclude la possibilità di assorbire, mediante mobilità volontaria, unità provenienti da altre amministrazioni, incluse le Comunità montane.
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Con nota del 02.07.2015, pervenuta a questa Sezione il 20.07.2015, il Sindaco del Comune di Pescasseroli (AQ) ha trasmesso una richiesta di parere concernente il comportamento da tenere in merito alla possibilità di attivare, alla luce dell’attuale quadro normativo in materia di capacità assunzionali degli enti locali e di riassorbimento del personale soprannumerario provinciale, procedure di mobilità da Comunità montane in fase di soppressione.
...
La richiesta di parere concerne la possibilità per gli enti locali di attivare procedure di mobilità volontaria ex art. 30 del D.Lgs. 165/2001 per il personale proveniente dalle Comunità montane in fase di soppressione, alla luce dei vincoli assunzionali gravanti sugli enti locali per effetto del processo di ricollocazione del personale soprannumerario delle Province.
In altre parole, il dubbio interpretativo sollevato dal Comune di Pescasseroli attiene alla circostanza “se la mobilità del personale delle comunità montane in via di soppressione soggiaccia ai […] limiti stabiliti dal legislatore statale, ovvero, essendo personale proveniente da processi di riordino delle Comunità montane, che al pari di quanto previsto con la riforma delle Province dalla legge finanziaria 2015 sono tesi al raggiungimento di obiettivi di contenimento della spesa pubblica, sia da considerarsi esente”.
La questione posta attiene al coordinamento delle discipline concernenti il personale delle Comunità montane in fase di soppressione e quello delle Province. Appare quindi necessario, in via preliminare, richiamare le disposizioni rilevanti in materia.
Con riferimento alle Comunità montane, l’art. 2, comma 17, della legge 244/2007 delegava alle regioni, al fine di concorrere agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, il riordino della disciplina delle Comunità montane, in modo da ridurne a regime la spesa corrente di funzionamento. Le leggi regionali dovevano tenere in considerazione i principi generali di riduzione del numero delle Comunità, del numero di componenti degli organi rappresentativi e delle relative indennità, fissati nel successivo comma 18 del medesimo articolo 2.
Nel caso della Regione Abruzzo, la legge regionale n. 1/2013 recante “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 17.12.1997, n. 143, (Norme in materia di riordino territoriale dei Comuni. Mutamenti delle circoscrizioni, delle denominazioni e delle sedi comunali. Istituzione di nuovi Comuni, Unioni, Fusioni), disposizioni in materia di riassetto degli enti del territorio montano e norme in materia di politiche di sviluppo della montagna abruzzese” ha proceduto, all’art. 3, per finalità di contenimento delle spese degli enti territoriali e di migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici, al complessivo riassetto degli enti operanti nel territorio montano, contestualmente promuovendo la costituzione di unioni tra i Comuni montani.
Al fine di favorire il passaggio alle nuove Unioni montane viene aggiunto l’art. 15-septies della legge 143/1997 il quale contiene disposizioni di agevolazione per gli enti locali e le Unioni che assumono nei propri organici personale delle Comunità Montane soppresse per effetto del riordino; tali agevolazioni consistono nell’attribuzione prioritaria di spazi finanziari nell’ambito del patto regionale verticale.
Dalla lettura delle citate norme
appare evidente che le stesse non introducono obblighi di assunzione in capo agli enti locali, ma operano secondo una logica di incentivazione, garantendo benefici finanziari alle amministrazioni che si impegnano nel riassorbimento del personale delle soppresse Comunità montane.
In un’ottica profondamente diversa si muove il legislatore statale con riferimento alle Province.
Al riguardo, l’articolo 1, comma 424 della legge 190/2014 dispone che: “
Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono nulle.”
La disposizione si colloca nell’ambito di un articolato normativo (commi da 421 a 427 dell’art. 1 della legge 23.12.2014 n. 190) volto alla rimodulazione organizzativa delle province e delle città metropolitane (i c.d. enti di area vasta interessati dal processo riordino delle funzioni di cui alla legge 07.04.2014 n. 56) attraverso una rideterminazione delle dotazioni organiche e la ricollocazione, mediante mobilità, del personale risultato in soprannumero.
Al riassorbimento del personale in mobilità sono destinate le previsioni dei commi 424 e 425 dell’art. 1, la cui attuazione concreta deve conformarsi al criterio di priorità espressamente sancito nel comma 423, a mente del quale “
il personale destinatario delle procedure di mobilità è prioritariamente ricollocato secondo le previsioni di cui al comma 424 e in via subordinata con le modalità di cui al comma 425”.
Dalle disposizioni precedenti
emerge un quadro normativo vincolante per gli enti locali che si giustifica alla luce della temporaneità dello stesso (esercizi 2015 e 2016) e della specifica finalità di garantire il transito del personale provinciale parallelamente alla riduzione delle funzioni istituzionali assegnate agli enti di area vasta. Le esigenze peculiari cui tali vincoli assunzionali rispondono prevalgono rispetto a quelle invece previste in materia di personale delle Comunità montane in soppressione, le quali si limitano ad incentivare gli enti locali senza vincolarli nelle scelte di reclutamento.
Nel senso di escludere, in via generale, la possibilità di ricorrere alle procedure di mobilità volontaria sino al riassorbimento del personale provinciale si esprime anche la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 19 del 2015, secondo la quale, sebbene l’art. 1, comma 424 della legge di stabilità non innova nella disciplina della mobilità volontaria per cui, sempre in linea teorica, non sembrerebbero sussistere ostacoli alla sua operatività, la priorità della ricollocazione del personale “destinatario delle procedure di mobilità” secondo le previsioni del comma 424, non è compatibile con la operatività, per il limitato arco temporale dei due esercizi 2015 e 2016, delle disposizioni di mobilità volontaria, salvo la completa ricollocazione del personale soprannumerario.
La stessa Sezione delle Autonomie conclude affermando che “per dette ragioni
deve ritenersi che per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
In linea con quanto sopra si pone anche la
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, laddove, nell’evidenziare i “divieti e gli effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le amministrazioni pubbliche”, si precisa che non sono consentite procedure di mobilità.
Alla luce delle precedenti considerazioni, questa Sezione ritiene che
l’obbligo di riservare, per il 2015 e 2016, le procedure di mobilità al personale soprannumerario provinciale escluda la possibilità di assorbire, mediante mobilità volontaria, unità provenienti da altre amministrazioni, incluse le Comunità montane
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 28.07.2015 n. 199).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCon il primo quesito si chiede: “il comma 424 esclude la facoltà di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici in vigore presso altri enti locali ai sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n. 101/2013 convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa “deroga restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti locali, il divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici approvate da altri enti locali vale per tutto il biennio 2015/2016 oppure è limitato solo alla permanenza di personale soprannumerario della provincia di appartenenza?”
La Sezione delle Autonomie ha ritenuto, al riguardo, che “
per gli anni 2015 e 2016 la facoltà̀ di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica”.
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Con il secondo quesito ci si chiede se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità, a cui evidentemente non è possibile impedire la partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a priori la validità di graduatorie di merito nelle quali siano collocati personale non soprannumerario della provincia.
In sostanza il comune che abbia esperito un procedimento selettivo per l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale proveniente da enti diversi da quello inserito tra i soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria di merito?”
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie ha formulato il seguente principio di diritto: “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve, dunque, a monte il quesito interpretativo posto dal Comune istante, in quanto
esclude la possibilità che si possa proceder all’esperimento di procedure di mobilità non riservate ai dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta.
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Con il terzo quesito si chiede se “l’ente locale sia svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della provincia non siano presenti profili professionali adeguati alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana”.
La Sezione delle Autonomie sul punto ha così statuito: “
se l’Ente che deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità̀ attestata, ove contemplato dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità̀ è strettamente e direttamente funzionale, non potrà̀ ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata l’inesistenza di tali professionalità̀ tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
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Con il successivo quesito ci si chiede a quale contingente fanno riferimento i primi due capoversi del comma 424. legge 23.12.2014 n. 190, essendo accomunate nella medesima disposizioni fattispecie diverse?”.
Il legislatore ha indicato le risorse da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato per il 2015 ed il 2016 per le regioni e gli enti locali, individuando due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile per le assunzioni da graduatorie approvate e per la ricollocazione delle unita soprannumerarie, l’altro, solo per la predetta ricollocazione.
Il primo, è quello quantificato in termini percentuali dei risparmi di spesa destinabili a nuove assunzioni negli esercizi 2015 (60% della spesa del personale di ruolo cessato nell’anno precedente) e 2016 (80% dello stesso parametro) secondo le disposizioni di cui all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il secondo corrispondente al complemento a 100 delle medesime percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa ancora il legislatore che le sole spese per le assunzioni a tempo indeterminato finalizzate alla ricollocazione non rilevano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità̀ finanziaria e di bilancio dell’ente.
Conclusivamente
va precisato che «la capacita di assunzioni a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato nelle graduatorie dell’ente» si esaurisce con l’utilizzazione delle risorse corrispondenti «ad una spesa pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente»; le ulteriori risorse corrispondenti al complemento a cento delle ricordate percentuali sono destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione. Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime risorse destinandone parte alle predette assunzioni da graduatorie”.
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Con l’ultimo quesito si pone la seguente questione: “il vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al personale soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se il Comune debba far riferimento esclusivamente al personale della provincia di appartenenza oppure al personale delle Provincie che la funzione pubblica provvederà ad indicare e quindi di altre provincie”.
La Sezione delle Autonomie ha avuto modo di precisare che “
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni”.
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Il Sindaco del Comune di Comune di Botticino (BS), con nota prot. n. 353 del giorno 13.01.2015, premesso che:
- l’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 23/12/2014 dispone testualmente “le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità, le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell’ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle;
- la disposizione sembrerebbe prescrivere che per il reperimento delle risorse umane a tempo indeterminato, gli enti locali possono attingere esclusivamente dalle proprie graduatorie in vigore al 31/12/2014 oppure dal ruolo del personale soprannumerario della Provincia;
- la corretta interpretazione della disposizione ha una immediata rilevanza sulla finanza locale in ragione della sanzione contemplata dall’ultimo capoverso del comma in esame che sancisce la nullità delle assunzioni effettuate in violazione di queste regole
”;
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
1. “il comma 424 esclude la facoltà di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici in vigore presso altri enti locali ai sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n. 101/2013 convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa “deroga restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti locali, il divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici approvate da altri enti locali vale per tutto il biennio 2015/2016 oppure è limitato solo alla permanenza di personale soprannumerario della provincia di appartenenza?
2. La disposizione in esame sembra escludere per il biennio 2014/2015 [da intendersi 2015/2016 alla luce dell’oggetto della richiesta] la possibilità di reperire risorse umane attraverso l’istituto della mobilità se non attingendo dalle graduatorie dei soprannumerari della provincia. Ci si chiede se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità, a cui evidentemente non è possibile impedire la partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a priori la validità di graduatorie di merito nelle quali siano collocati personale non soprannumerario della provincia.
In tal caso si potrebbe configurare l’assurdo di una legittima causa di esclusione dalla partecipazione alla procedura di mobilità oppure una riserva nell’ambito della graduatoria, che rimarrebbe difficilmente applicabile nel caso sia una sola la risorsa da assumere. In sostanza il comune che abbia esperito un procedimento selettivo per l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale proveniente da enti diversi da quello inserito tra i soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria di merito?
3. Allo stesso modo si chiede se l’ente locale sia svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della provincia non siano presenti profili professionali adeguati alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana;
4. Il primo capoverso del comma 424 in esame sembra prefigurare la possibilità di esaurire la propria capacità di assunzioni a tempo indeterminato attingendo dalle proprie graduatorie ovvero da quelle dalle “unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità’’ delle Provincie. Il secondo capoverso del comma 424 dispone poi che “Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità, le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario".
La capacità di assunzione a tempo indeterminato è soggetto ad una diversa disciplina a seconda che si attinga da graduatorie di concorso, in tal caso si configura una nuova assunzione, rispetto all’ipotesi di mobilità da altro ente. Nel primo caso la recente novella introdotta dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 114/2014, ha fissato come regola generale un contingente pari al 60% delle cessazioni dell’anno precedente, fatto salvo il 2014 dal quale è possibile operare il cumulo delle cessazioni per un arco temporale di tre anni. Viceversa le assunzioni attraverso mobilità da altri enti non sono soggette a tali contingenti, rimanendo quale unico limite il tetto della spesa del personale, anch’esso novellato dal dl. n. 90/2014. Detto ciò ci si chiede a quale contingente fanno riferimento i primi due capoversi del comma 424 essendo accomunate nella medesima disposizioni fattispecie diverse?
5. Il vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al personale soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se il Comune debba far riferimento esclusivamente al personale della provincia di appartenenza oppure al personale delle Provincie che la finizione pubblica provvederà ad indicare e quindi di altre provincie
”.
...
1. L’articolata richiesta di parere avanzata dal Comune di Botticino verte su diversi profili interpretativi che investono il disposto del comma 424, dell’art. 1, della legge n. 190 del 23/12/2014, che così statuisce: “Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, a Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle”.
Come sopra ricordato, la Sezione, valutata la particolare rilevanza delle questioni sottese ai quesiti, sopra riportati, proposti dal Comune istante, con il parere 24.02.2015 n. 85, ha ritenuto di trasmetterle al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza, affinché potesse considerare la possibilità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale in presenza, in particolare, di questioni di massima di particolare rilevanza, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano.
La Sezione delle Autonomie, con la deliberazione 16.06.2015 n. 19, ha risolto le richiamate questioni interpretative fornendo i principi, a cui questa Sezione si conforma.
2. Rinviando al parere 24.02.2015 n. 85 per la disamina della posizione precedentemente assunta da questa Sezione sulle singole questione prospettate dal Comune istante, con il primo quesito si chiede: “il comma 424 esclude la facoltà di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici in vigore presso altri enti locali ai sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n. 101/2013 convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa “deroga restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti locali, il divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici approvate da altri enti locali vale per tutto il biennio 2015/2016 oppure è limitato solo alla permanenza di personale soprannumerario della provincia di appartenenza?
La Sezione delle Autonomie, condividendo l’assunto di questa Sezione, ha ritenuto, al riguardo, che “
per gli anni 2015 e 2016 la facoltà̀ di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica”.
3. Con il secondo quesito si pongono le seguenti questioni: la disposizione in esame sembra escludere per il biennio 2015/2016 “la possibilità di reperire risorse umane attraverso l’istituto della mobilità se non attingendo dalle graduatorie dei soprannumerari della provincia. Ci si chiede se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità, a cui evidentemente non è possibile impedire la partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a priori la validità di graduatorie di merito nelle quali siano collocati personale non soprannumerario della provincia.
In tal caso si potrebbe configurare l’assurdo di una legittima causa di esclusione dalla partecipazione alla procedura di mobilità oppure una riserva nell’ambito della graduatoria, che rimarrebbe difficilmente applicabile nel caso sia una sola la risorsa da assumere.
In sostanza il comune che abbia esperito un procedimento selettivo per l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale proveniente da enti diversi da quello inserito tra i soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria di merito?

Il quesito, così come formulato dall’Ente, appare sovrapporre due profili tematici che, invece, vanno tenuti distinti: il primo, relativo ai vincoli imposti dal comma 424 alle facoltà̀ di assunzioni a tempo indeterminato a valere sulle risorse a ciò̀ destinate per gli anni 2015 e 2016; il secondo, concernente la possibilità̀ di continuare a fare ricorso, anche per detto biennio, all’istituto della mobilità esterna fra enti che risulta finanziariamente neutra.
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie, con la pronuncia sopra richiamata, non condividendo la tesi sostenuta da questa Sezione –sintetizzabile nel ritenere il vincolo alle assunzioni ex comma 424 non applicabile ai trasferimenti diretti di personale a seguito delle procedure di mobilità volontaria– ha formulato il seguente principio di diritto: “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve, dunque, a monte il quesito interpretativo posto dal Comune istante, in quanto
esclude la possibilità che si possa proceder all’esperimento di procedure di mobilità non riservate ai dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta.
4. Con il terzo quesito si chiede se “l’ente locale sia svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della provincia non siano presenti profili professionali adeguati alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana”.
La risposta negativa al quesito, cui era pervenuta questa Sezione, non è stata condivisa dalla Sezione delle Autonomie, che sul punto ha così statuito: “
se l’Ente che deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità̀ attestata, ove contemplato dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità̀ è strettamente e direttamente funzionale, non potrà̀ ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata l’inesistenza di tali professionalità̀ tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
5. Con il successivo quesito l’Ente istante rappresenta che: “il primo capoverso del comma 424 in esame sembra prefigurare la possibilità di esaurire la propria capacità di assunzioni a tempo indeterminato attingendo dalle proprie graduatorie ovvero da quelle dalle “unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità’’ delle Provincie. Il secondo capoverso del comma 424 dispone poi che “Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità, le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario".
La capacità di assunzione a tempo indeterminato è soggetta ad una diversa disciplina a seconda che si attinga da graduatorie di concorso, in tal caso si configura una nuova assunzione, rispetto all’ipotesi di mobilità da altro ente. Nel primo caso la recente novella introdotta dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 114/2014, ha fissato come regola generale un contingente pari al 60% delle cessazioni dell’anno precedente, fatto salvo il 2014 dal quale è possibile operare il cumulo delle cessazioni per un arco temporale di tre anni. Viceversa le assunzioni attraverso mobilità da altri enti non sono soggette a tali contingenti, rimanendo quale unico limite il tetto della spesa del personale, anch’esso novellato dal d.l. n. 90/2014.
Detto
ciò ci si chiede a quale contingente fanno riferimento i primi due capoversi del comma 424 essendo accomunate nella medesima disposizioni fattispecie diverse?”.
Tale quesito, come rileva la Sezione delle Autonomie, prospetta “difficoltà interpretative relative alla precisa individuazione dell’ammontare delle disponibilità̀ finanziarie destinabili alle assunzioni a tempo indeterminato a seconda che si proceda ad un’assunzione dei vincitori collocati in graduatoria o ad una ricollocazione.
Al riguardo va precisato che il legislatore ha indicato le risorse da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato per il 2015 ed il 2016 per le regioni e gli enti locali, individuando due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile per le assunzioni da graduatorie approvate e per la ricollocazione delle unità soprannumerarie, l’altro, solo per la predetta ricollocazione.
Il primo, è quello quantificato in termini percentuali dei risparmi di spesa destinabili a nuove assunzioni negli esercizi 2015 (60% della spesa del personale di ruolo cessato nell’anno precedente) e 2016 (80% dello stesso parametro) secondo le disposizioni di cui all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il secondo corrispondente al complemento a 100 delle medesime percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa ancora il legislatore che le sole spese per le assunzioni a tempo indeterminato finalizzate alla ricollocazione non rilevano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità̀ finanziaria e di bilancio dell’ente.
Conclusivamente
va precisato che «la capacità di assunzioni a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato nelle graduatorie dell’ente» si esaurisce con l’utilizzazione delle risorse corrispondenti «ad una spesa pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente»; le ulteriori risorse corrispondenti al complemento a cento delle ricordate percentuali sono destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione. Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime risorse destinandone parte alle predette assunzioni da graduatorie”.
6. Con l’ultimo quesito si pone la seguente questione: “il vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al personale soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se il Comune debba far riferimento esclusivamente al personale della provincia di appartenenza oppure al personale delle Provincie che la funzione pubblica provvederà ad indicare e quindi di altre provincie”.
A quest’ultimo quesito, concordemente alla tesi di questa Sezione, la Sezione delle Autonomie ha avuto modo di precisare che “
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.07.2015 n. 243).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014.
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Il Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Autonoma della Sardegna ha trasmesso a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della Legge del 05.06.2003 n. 131, la richiesta di parere inoltrata dal Sindaco del Comune di Nurri ritenendola ammissibile.
Con il predetto quesito si chiede se il Comune possa procedere nel 2015 all’assunzione di un’unità di personale, per effetto di una cessazione intervenuta nel 2013, a conclusione di una procedura concorsuale che, seppure avviata nel 2014, si concluderà nel corso del 2015.
E ciò alla luce della Legge finanziaria statale per il 2015 (L. n. 190/2014) che all’art. 1, commi 424 e 425, ha fissato specifici limiti alle assunzioni da parte degli Enti Locali al fine di favorire la ricollocazione del personale delle Province destinatario di procedure di mobilità.
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Il Collegio ritiene opportuno, innanzitutto, illustrare sinteticamente gli attuali limiti alla capacità assunzionale degli Enti Locali soggetti al patto di stabilità interno.
A tale proposito deve essere evidenziato che la vigente disciplina vincolistica impone, da un lato, di contenere la spesa per il personale entro un certo tetto e, dall’altro, di limitare le nuove assunzioni alla parziale reintegrazione dei cessati (turn-over).
In particolare, l’art. 3, comma 5-bis, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha introdotto, all’art. 1, della L. n. 296/2006, il comma 557-quater che ha previsto quale limite di spesa per il personale il “valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione” ovvero la media di quanto speso per il personale negli anni 2011, 2012 e 2013 (si veda sul punto la
deliberazione 06.10.2014 n. 25/2014).
Per potere assumere, però, non basta rispettare tale parametro. Infatti, sono previsti specifici vincoli di turn-over che si basano sul principio della parziale reintegrazione dei cessati. In particolare, per gli enti soggetti al patto di stabilità interno, l’art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha previsto la possibilità di assumere negli anni 2014 e 2015 un contingente di personale a tempo indeterminato nei limiti di una spesa pari al 60% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente.
Tale percentuale, ai sensi dell’art. 3, comma 5-quater, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, è destinata ad aumentare se l’incidenza della spesa per il personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25%. Così, nel 2014 si potrà assumere nei limiti dell’80% e dal 2015 nella misura del 100% della spesa sostenuta per il personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente.
Si deve, inoltre, ricordare che il citato art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha anche previsto che “a decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
Ciò significa che
qualora la cessazione sia intervenuta nel 2013, l’Ente Locale soggetto al patto di stabilità avrà nel 2014 una capacità assunzionale pari al 60% della spesa sostenuta per il personale cessato nel 2013 ed eventualmente dell’80% di tale spesa se il rapporto tra spesa per il personale e spesa corrente è pari o inferiore al 25%. Se l’assunzione non viene effettuata nel 2014 ma programmata per il 2015, si potrà cumulare la capacità assunzionale del 2014 (60% o 80% della spesa per il personale cessato nel 2013) con quella del 2015 (60% o 100% della spesa per il personale cessato nel 2014), sempre che nel 2014 siano intervenute nuove cessazioni in quanto la capacità assunzionale di ogni anno si calcola sulle cessazioni intervenute nell’anno precedente (si veda sul punto la deliberazione 21.11.2014 n. 27).
Su tale assetto normativo è intervenuta la L. n. 190/2014 (Legge finanziaria statale per il 2015) che all’art. 1, comma 424, ha previsto che gli Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Per fare chiarezza sulla portata applicativa di tale norma sono intervenuti il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e il Ministro per gli affari regionali che, con la Circolare n. 1/2015, hanno chiarito, tra l’altro, che:
• le risorse da destinare alle finalità di cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni intervenute nel 2014 e nel 2015;
• la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate al 01.01.2015;
• le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area vasta;
• rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget degli anni precedenti.

Pertanto,
qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014 (Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna, parere 21.04.2015 n. 32).

APPALTI: Sulla fattispecie dei "debiti fuori bilancio".
Il debito fuori bilancio è un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è disciplinato dall'art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000, che prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada posto in essere in occasione della ricognizione dello stato di attuazione dei programmi e dell'accertamento degli equilibri generali di bilancio (art. 193, comma 2, del TUEL), nonché nelle altre cadenze periodiche previste dal regolamento di contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di ipotesi, tassative in quanto derogatorie rispetto all'ordinario procedimento di spesa, in cui è possibile procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma 1, lett. e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni ed ai servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza giusta causa dal privato contraente ai sensi dell'art. 2041 cc.).
L'accertamento della sussistenza di entrambi questi presupposti
è obbligatorio e non può essere automaticamente ed implicitamente ricondotto alla semplice adozione della deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
In questo contesto,
la delibera consiliare ha dunque il compito di:
- riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
- accertare e documentare puntualmente se ed in che misura sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
- accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'art. 191, comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la prestazione in favore dell'ente);
- ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del sistema di bilancio dell'ente;
- individuare le risorse per il finanziamento;
- accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
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La situazione debitoria fuori bilancio e l’incidenza delle passività potenziali possono richiedere scelte di programmazione e, conseguentemente, di gestione volte a reperire le risorse necessarie per fare fronte ai debiti insorti.
A tal fine può essere utile prevedere un apposito fondo rischi per passività potenziali vincolando l’avanzo libero, se disponibile, o reperendo risorse a carico del bilancio annuale.
La presenza di tale tipologia di debiti può assumere una particolare rilevanza nel contesto degli equilibri della gestione anno corrente e degli anni futuri e ciò deve essere valutato in sede di controllo a salvaguardia degli stessi, tutte le volte in cui emergono sopravvenienze passive per le quali non si sia fatto validamente fronte con le modalità previste dall'art. 193 del TUEL
.
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La tempestività della segnalazione dell'insorgenza di tali debiti e del loro riconoscimento consente di evitare l'insorgere di ulteriori passività a carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali interessi o spese di giustizia.
La Sezione ricorda, infine,
l'obbligo di trasmissione della delibera anzidetta alla Procura della Corte dei conti, in virtù di quanto stabilito dall’art. 23 L. 289/2002.

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7. Riconoscimento di debiti fuori bilancio
Dall’esame della relazione emerge una cospicua consistenza dei debiti fuori bilancio formatisi nel corso dell’esercizio, pari allo 0,81% dei valori di accertamento delle entrate correnti.
In un'ottica collaborativa, il Collegio ricorda, innanzitutto, che
il debito fuori bilancio è un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è disciplinato dall'art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000, che prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada posto in essere in occasione della ricognizione dello stato di attuazione dei programmi e dell'accertamento degli equilibri generali di bilancio (art. 193, comma 2, del TUEL), nonché nelle altre cadenze periodiche previste dal regolamento di contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di ipotesi, tassative in quanto derogatorie rispetto all'ordinario procedimento di spesa, in cui è possibile procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma 1, lett. e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene acquisito in relazione alle funzioni ed ai servizi di competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza giusta causa dal privato contraente ai sensi dell'art. 2041 cc.). L'accertamento della sussistenza di entrambi questi presupposti
, come già più volte ricordato da questa Sezione (cfr. delibere 156/2009/PRSP e 107/2009/PRSP), è obbligatorio e non può essere automaticamente ed implicitamente ricondotto alla semplice adozione della deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
In questo contesto,
la delibera consiliare ha dunque il compito di:
- riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una delle fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
- accertare e documentare puntualmente se ed in che misura sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
- accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'art. 191, comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la prestazione in favore dell'ente);
- ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e del sistema di bilancio dell'ente;
- individuare le risorse per il finanziamento;
- accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.

Va ricordato, inoltre, che il riferimento ad opera dell'art. 194, comma 1, del TUEL ad adempimenti periodici e temporalmente cadenzati testimonia come l'adempimento in questione, in presenza dei presupposti di legge, costituisca un atto dovuto e vincolato per l'ente, in quanto consente di far emergere eventuali passività insorte nel corso dell'esercizio, in applicazione dei principi di veridicità, trasparenza e pareggio di bilancio, nonché di adottare le misure necessarie al ripristino dell'equilibrio della gestione finanziaria.
Si rammenta che la Sezione delle Autonomie nella propria deliberazione di indirizzo 23/SEZAUT/2013/INPR recante “Indicazioni per la sana gestione delle risorse nel caso del protrarsi dell’esercizio provvisorio e primi indirizzi, ex art. 1, commi 166 e seguenti, della legge 23.12.2005, n. 266, relativi al Bilancio di Previsione 2013”, al punto H) ha sottolineato come “
….la situazione debitoria fuori bilancio e l’incidenza delle passività potenziali possono richiedere scelte di programmazione e, conseguentemente, di gestione volte a reperire le risorse necessarie per fare fronte ai debiti insorti. A tal fine può essere utile prevedere un apposito fondo rischi per passività potenziali vincolando l’avanzo libero, se disponibile, o reperendo risorse a carico del bilancio annuale. La presenza di tale tipologia di debiti può assumere una particolare rilevanza nel contesto degli equilibri della gestione 2013 e degli anni futuri e ciò deve essere valutato in sede di controllo a salvaguardia degli stessi, tutte le volte in cui emergono sopravvenienze passive per le quali non si sia fatto validamente fronte con le modalità previste dall'art. 193 del TUEL”.
Rammenta il Collegio che
la tempestività della segnalazione dell'insorgenza di tali debiti e del loro riconoscimento consente di evitare l'insorgere di ulteriori passività a carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali interessi o spese di giustizia.
La Sezione ricorda, infine,
l'obbligo di trasmissione della delibera anzidetta alla Procura della Corte dei conti, in virtù di quanto stabilito dall’art. 23 L. 289/2002 (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, deliberazione 19.03.2015 n. 182).

INCARICHI PROFESSIONALI: Se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. a), sia possibile procedere al pagamento delle spese legali di soccombenza e delle spese di parte capitale con apposite determinazioni da sottoporre all’Organo collegiale in un momento successivo al pagamento.
Sussiste la necessità, per tutte le ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, della preventiva e tempestiva deliberazione consiliare finalizzata a ricondurre l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente, ad individuare le risorse per farvi fronte, ad accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla norma, ed, infine, ad individuare le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Si rinvia pertanto alle motivazioni già ampiamente esposte in altri pareri a sostegno della
linea interpretativa tesa ad escludere qualsiasi attività gestionale (impegno di spesa e/o pagamento) dell’Ente prima della deliberazione di riconoscimento del debito, al fine di evitare un’inversione procedimentale lesiva delle attribuzioni dell’Organo consiliare.
Il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta dunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso.
Anche in questi casi, infatti,
l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono infatti circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto, transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è appunto il bilancio di previsione.

Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti, rappresenta espressione di un momento necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è intestata la responsabilità politica dell’azione amministrativa.
La fase gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività gestionale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili.
In conclusione, anche in tale fattispecie,
l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002.

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Con la nota in epigrafe, il Commissario straordinario della Provincia regionale di Catania formula una richiesta di parere in materia di debiti fuori bilancio.
L’Ente chiede di conoscere se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. a), sia possibile procedere al pagamento delle spese legali di soccombenza e delle spese di parte capitale con apposite determinazioni da sottoporre all’Organo collegiale in un momento successivo al pagamento, fase in cui, secondo la prospettazione dell’Ente richiedente, potrebbe utilmente collocarsi l’esercizio delle funzioni di controllo e di indagine di specifica competenza del Consiglio.
Quanto sopra sia in considerazione della peculiarità dell’ipotesi contemplata dalla lettera a) dell’art. 194 del TUEL che, a differenza delle altre fattispecie, escluderebbe qualsiasi valutazione, da parte del Consiglio, dei fatti o rapporti giuridici produttivi dell’obbligazione di pagamento, sia in ragione dell’opportunità di evitare un aumento delle spese per l’Ente -con effetti pregiudizievoli sulle finanze dello stesso- ove il creditore procedesse all’esecuzione forzata del titolo in proprio possesso prima dell’intervento della delibera consiliare di riconoscimento.
A tale ipotesi viene assimilata quella contemplata nella lettera e) dell’art. 194 del Tuel, con specifico riferimento alle sentenze di condanna nei giudizi di opposizione alla stima o di risarcimento danni per occupazioni illegittime.
La rilevata disomogeneità delle varie ipotesi contemplate dal richiamato art. 194 del Tuel, sotto il profilo della sussistenza o meno di un’attività valutativa del Consiglio circa la validità e riconducibilità all’Ente della fonte giuridica dell’obbligazione -da escludersi nelle ipotesi di ottemperanza alle sentenze ed ai provvedimenti esecutivi di condanna– potrebbe, sempre secondo la prospettazione dell’Ente richiedente, sorreggere l’opzione ermeneutica della legittimità dei pagamenti effettuati prima della delibera consiliare di riconoscimento del debito.
Tale approdo interpretativo, riferito alle peculiari ipotesi sopra citate, consentirebbe peraltro il superamento dell’orientamento già espresso dalla Sezione nei più recenti pareri sul tema (55/2014/PAR e 189/2014/PAR), ove, per tutte le ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, si è esclusa qualsiasi possibilità di interposizione, sia pure in via d’urgenza, da parte di altri Organi, rispetto all’imprescindibile attività valutativa dell’Organo consiliare.
...
Nel merito, la Sezione ritiene di dover richiamare integralmente le argomentazioni già esposte nei succitati pareri n. 55/2014/PAR e n. 189/2014/PAR, ove si è affermata
la necessità, per tutte le ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, della preventiva e tempestiva deliberazione consiliare finalizzata a ricondurre l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente, ad individuare le risorse per farvi fronte, ad accertare la sussumibilità del debito all’interno di una delle fattispecie tipizzate dalla norma, ed, infine, ad individuare le cause che hanno originato l’obbligo, anche al fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Si rinvia pertanto alle motivazioni già ampiamente esposte nei succitati pareri a sostegno della
linea interpretativa tesa ad escludere qualsiasi attività gestionale (impegno di spesa e/o pagamento) dell’Ente prima della deliberazione di riconoscimento del debito, al fine di evitare un’inversione procedimentale lesiva delle attribuzioni dell’Organo consiliare.
Il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta dunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza finanziaria maturato all’esterno di esso (pr. cont. 2.101).
Anche in questi casi, infatti,
l’avvio del procedimento di spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul piano logico, una positiva valutazione dell’Organo consiliare sulla sussistenza dei presupposti di riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono infatti circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto, transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è appunto il bilancio di previsione.

Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai dirigenti, rappresenta espressione di un momento necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è intestata la responsabilità politica dell’azione amministrativa.
La fase gestionale, di natura prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di indirizzo politico ed attività gestionale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e quant’altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti formatisi al di fuori delle norme giuscontabili (pr. cont. 1-105; Sezione controllo per la Basilicata, delibera n. 6/2007/PAR).
In conclusione, anche in tale fattispecie,
l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002.
La soluzione prospettata risulta infine coerente anche con i nuovi parametri di deficitarietà strutturale (DM Interno 18.02.2013), che, non prendendo più a riferimento la consistenza dei debiti “formatisi” nel corso dell’esercizio di riferimento, bensì quella dei debiti “riconosciuti” (cfr. parametro n. 8), valorizzano al massimo livello l’importanza del momento formale di riconduzione della passività al sistema di bilancio, nonché del rispetto della scansione procedimentale delineata dal legislatore.
In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione rileva, come già nel ricordato parere n. 189/2014/PAR, come il termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo previsto (art. 14, del D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in L. n. 30/1997 e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive nei confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio per provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 del TUEL”, alla luce del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Puglia, par. 9/2012, Sezione regionale di controllo per la Campania, delibera n. 213/2013/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 03.02.2015 n. 80).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPer quanto riguarda la spesa del personale si ribadisce che deve essere considerato principio cardine quello di contenimento della spesa complessiva, con riferimento a quella media sostenuta nel triennio precedente, ai sensi dell’art. 1, comma 557 e seguenti della legge n. 296/2006.
Il limite di spesa per procedere alle assunzioni nel 2014 e 2015 deve essere calcolato sulla base del 60% della spesa relativa a quella del personale di ruolo cessato nell’anno precedente, mentre per gli anni successivi i limiti vengono ampliati fino al 100%.
Dal 2014 le assunzioni possono essere programmate destinando alle stesse, in sede di programmazione del fabbisogno e finanziaria, risorse che tengano conto delle cessazioni del triennio
.
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... la Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima richiamata in premessa, posta dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata con deliberazione n. 97/2014, enuncia il seguente principio di indirizzo:
Per quanto riguarda la spesa del personale si ribadisce che deve essere considerato principio cardine quello di contenimento della spesa complessiva, con riferimento a quella media sostenuta nel triennio precedente, ai sensi dell’art. 1, comma 557 e seguenti della legge n. 296/2006.
Il limite di spesa per procedere alle assunzioni nel 2014 e 2015 deve essere calcolato sulla base del 60% della spesa relativa a quella del personale di ruolo cessato nell’anno precedente, mentre per gli anni successivi i limiti vengono ampliati fino al 100%.
Dal 2014 le assunzioni possono essere programmate destinando alle stesse, in sede di programmazione del fabbisogno e finanziaria, risorse che tengano conto delle cessazioni del triennio
” (Corte dei Conti. Sez. autonomie, deliberazione 21.11.2014 n. 27
).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 in area paesaggisticamente vincolata - Comune di Riano (Regione Lazio, parere 13.10.2015 n. 400993 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sedute insindacabili. Al presidente poteri limitati sulle convocazioni. Rifiuto ammesso solo per carenza del numero di consiglieri e per illiceità.
Può il presidente del consiglio comunale riscontrare negativamente la richiesta di convocazione, formulata ai sensi dell'art. 39 comma 2, del Tuel n. 267/2000, recante all'ordine del giorno «comportamenti del sindaco» in relazione ad un'offerta di acquisto di immobili fatta dall'amministratore in qualità di privato cittadino ad una scuola materna ubicata nel territorio comunale?

La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale, pertanto, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio, ipotesi nelle quali non sembrerebbe essere ricompreso il tema proposto all'o.d.g dell'assemblea (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Atti di sindacato ispettivo.
In assenza di specifica disciplina regolamentare, può trovare diretta applicazione un articolo dello statuto comunale ai sensi del quale è previsto che le interrogazioni, le interpellanze e le mozioni sono discusse all'inizio di ciascuna seduta consiliare o, secondo le norme del regolamento, in sessioni distinte da quelle destinate alla trattazione degli argomenti di natura amministrativa?

Nella fattispecie in esame il dubbio appare originare dalla posizione assunta dal segretario comunale che ha ritenuto di demandare al sindaco l'onere di stabilire l'ordine di precedenza degli argomenti iscritti all'ordine del giorno, allorché gli atti di sindacato ispettivo fossero stati indirizzati al protocollo dell'ente e non al sindaco, considerato che non vi sarebbero norme regolamentari riferibili alle interpellanze o alle integrazioni presentate con la suddetta modalità.
La disciplina applicabile deve essere rinvenuta nelle disposizioni statutarie e regolamentari che l'ente locale si è dato in materia di atti di sindacato ispettivo, anche nell'ipotesi in cui tali atti siano presentati al protocollo del comune e non al sindaco come previsto dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
Dall'esame del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale si evince che «il sindaco, all'inizio di seduta, nel dare lettura al consiglio delle interrogazioni presentate, comunica se alle stesse darà subito risposta oppure in altro giorno che dovrà essere precisato».
La fonte regolamentare dispone che la discussione concernente l'interpellanza dovrà essere preceduta soltanto dalle interrogazioni.
Pertanto, dalle disposizioni citate, si evince che la normativa recata nello statuto comunale in ordine alla trattazione degli atti di sindacato ispettivo ad inizio di seduta risulta essere stata confermata dalla fonte regolamentare.
Inoltre, nell'ipotesi di silenzio del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, la normativa statutaria avrebbe dovuto trovare comunque applicazione, in quanto sufficientemente dettagliata e, pertanto, suscettibile di immediata attuazione (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità tra la carica di consigliere comunale e quella di revisore dei conti in altro Comune, qualora le due amministrazioni comunali facciano parte della medesima UTI. Insussistenza.
Non paiono individuarsi disposizioni che facciano emergere una qualche causa di incompatibilità per il consigliere comunale di un Comune che riveste, altresì, l'incarico di revisore dei conti presso un altro Comune, appartenente alla medesima Unione territoriale comunale (UTI).
Il Consigliere chiede di conoscere un parere in merito all'esistenza di una causa di incompatibilità per un consigliere comunale che riveste, altresì, l'incarico di revisore dei conti presso altro Comune, atteso che le due amministrazioni comunali fanno parte della medesima Unione territoriale comunale (UTI).
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti considerazioni.
Al quesito posto si ritiene di fornire risposta negativa. Infatti, da un'analisi della normativa vigente non paiono individuarsi disposizioni che facciano emergere una qualche causa di incompatibilità relativamente alla fattispecie prospettata.
In via generale, si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall'articolo 51 della Costituzione.
L'articolo 24 della legge regionale 17.07.2015, n. 18 prevede che: 'In materia di revisione economico-finanziaria degli enti locali si applica la normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge regionale'. In tema di incompatibilità la norma di riferimento è l'articolo 236 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, rubricato 'Incompatibilità ed ineleggibilità dei revisori', il quale recita: '1. Valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile,
[1] intendendosi per amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti delle regioni, delle province, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle unioni di comuni relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione territoriale di competenza.
3. I componenti degli organi di revisione contabile non possono assumere incarichi o consulenze presso l'ente locale o presso organismi o istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo o vigilanza dello stesso
'.
Il caso prospettato pare non rientrare in alcuna delle ipotesi contemplate dalla norma in riferimento. In particolare, non può farsi applicazione del disposto di cui al comma 2 primo periodo dell'articolo 236 TUEL, nella parte in cui sancisce che l'incarico di revisione economico-finanziaria non possa essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente locale atteso che essa introduce una causa di incompatibilità per il consigliere comunale che sia revisore contabile nel medesimo comune nel quale esercita il proprio mandato elettivo.
La fattispecie in esame non risulta riconducibile neppure nell'alveo dell'articolo 78, comma 5, TUEL il quale prevede che ai consiglieri comunali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del relativo comune, atteso che il fatto che il Comune presso cui l'amministratore esercita il proprio mandato e quello presso cui è revisore dei conti siano appartenenti alla medesima Unione territoriale intercomunale non realizza i presupposti per l'insorgenza del divieto di cui alla norma in commento.
[2]
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[1] Recita l'articolo 2399, primo comma, del codice civile: 'Non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall'ufficio:
a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall'articolo 2382;
b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo;
c) coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza.'.
[2] Per completezza si evidenzia che la giurisprudenza ha affermato che l'articolo 78, comma 5, non determina una causa di incompatibilità a carico del consigliere, ma si configura come divieto di ricoprire l'incarico presso l'ente controllato o vigilato. Così Cassazione civile, sez. I, sentenza del 24.05.1994, n. 5076 (in relazione al corrispondente art. 26 della L. 81/1993)
(08.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso agli atti illimitato. Diritto ad ampio raggio per i consiglieri. Ma non sono applicabili le norme in materia di potere sostitutivo.
Nel caso in cui un consigliere comunale, a fronte dell'inutile decorso del termine di 30 giorni dalla presentazione di una richiesta di accesso agli atti del comune, ha prodotto un'istanza di intervento sostitutivo, è applicabile l'art. 2, commi 9-bis e seguenti della legge n. 241/1990, come modificato dall'art. 1 del dl n. 5/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 35/2012?

Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato espressamente dall'art. 43, comma 2, del Tuel del 18.08.2000, n. 267, il quale prevede, in capo agli stessi, il diritto di ottenere dagli uffici comunali, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del loro mandato.
Dal contenuto di tale norma emerge chiaramente che i consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del proprio mandato, senza alcuna limitazione, essendo estraneo all'ampiezza di tale diritto qualunque divieto di «ottenere notizie e informazioni» su atti o documenti che possano essere qualificati «segreti» e come tali sottratti alla visione o estrazione di copia (cfr. commissione di accesso ai documenti amministrativi - determinazione del Plenum in data 06.04.2011).
Nella fattispecie, lo Statuto del comune prevede che i consiglieri comunali, ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari, hanno diritto di accesso, con le modalità previste dal regolamento, ai documenti ed agli atti dei procedimenti del comune utili all'espletamento del proprio mandato, ivi compresi quelli riservati.
Il regolamento comunale disciplina la materia prevedendo, in particolare, che il diritto di informazione e di accesso agli atti amministrativi si esercita mediante richiesta al segretario comunale o ad altro dipendente da questi designato.
La libera consultazione degli atti è fissata per due giorni alla settimana come individuati direttamente dal segretario, mentre per il rilascio di copie da parte del responsabile del servizio competente in materia, il regolamento prevede il termine massimo di trenta giorni successivi a quello della richiesta.
Entro lo stesso termine, il segretario comunale, qualora rilevi la sussistenza di divieti od impedimenti al rilascio della copia richiesta, informa il consigliere interessato, con comunicazione scritta nella quale sono illustrati i motivi che non ne consentano la consegna.
Le norme interne all'ente, dunque, non prevedono l'istituto del silenzio diniego, stabilito, invece, dall'art. 25, comma 4, della legge n. 241/1990 esclusivamente nei confronti dei cittadini che intendono accedere agli atti della pubblica amministrazione, i quali possono poi utilizzare i rimedi giurisdizionali e paragiurisdizionali previsti dalla stessa disposizione, al fine di fare valere il diritto negato.
Ferma restando la possibilità di utilizzare i predetti rimedi giurisdizionali, il diritto di accesso dei consiglieri è diversamente qualificato dal nostro ordinamento, in quanto è strettamente connesso all'esercizio del mandato elettorale, attenendo a finalità diverse rispetto a quelle che trovano specifica disciplina nel capo V (artt. 22-28) della legge n. 241/1990.
Considerato che l'art. 2 della citata legge disciplina le procedure da adottare per la «conclusione del procedimento», il comma 9-bis, non è applicabile alle ipotesi di accesso del consigliere, previste, invece, dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Tale assunto trova conferma dalla lettura del successivo comma 9-ter dell'art. 2, laddove è prevista la facoltà, al «privato» che ha titolo alla conclusione del procedimento, di rivolgersi al responsabile di cui al comma 9-bis.
Tuttavia, la non applicabilità delle richiamate disposizioni, non può condurre alla conclusione di una minore tutela del diritto di accesso del consigliere, il quale, invero, gode delle più vaste garanzie connesse al proprio status, così come stabilito dall'articolo 43 del Tuel (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIO - TRIBUTI: Regolamento per la partecipazione della comunità locale in attività per la tutela e valorizzazione del territorio per l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica di favorire la partecipazione della comunità locale nella valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere, prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da contributi monetari qualora questi siano corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli associati partecipanti all'intervento, per il tributo specifico individuato, in relazione alla tipologia delle attività svolte.

L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale concernente la partecipazione della comunità locale in attività per la tutela e valorizzazione del territorio (cosiddetto servizio di volontariato civico), per l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno della previsione nel Regolamento di un contributo economico alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi possano assumere le determinazioni più opportune nei casi concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n. 133/2014
[1], 'i comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4, della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere, prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e tributo interessato»
[2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da contributi monetari qualora questi siano corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli associati partecipanti all'intervento, per il tributo specifico individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle Associazioni in misura percentuale dell'importo di un determinato tributo versato complessivamente dai partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
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[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive', convertito, con modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici
(01.10.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Intervento sostitutivo della stazione appaltante a favore di INARCASSA, ai sensi dell'art. 4, D.P.R. n. 207/2010.
La normativa vigente definisce il documento unico di regolarità contributiva (DURC) quale certificato che attesta la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti, specificamente, INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento (art. 6, D.P.R. n. 207/2010) e statuisce l'intervento sostitutivo della stazione appaltante espressamente nei confronti di detti istituti previdenziali in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del subappaltatore accertata con il DURC (art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010).
Per quanto concerne la possibilità per le stazioni appaltanti di applicare l'intervento sostitutivo anche nei confronti di INARCASSA, nell'ipotesi di irregolarità contributiva accertata verso quest'ultima, l'AVCP ha ritenuto che non si possa procedere ad un'applicazione analogica dell'art. 4, D.P.R. n. 407/2010, argomentando sulla base del tenore letterale dell'art. 6, D.P.R. n. 207/2010, che parla di accertamento della regolarità di un operatore economico per quanto concerne 'gli adempimenti INPS, INAIL, nonché Cassa edile per i lavori', e del fatto che le norme in tema di DURC sono contenute nel titolo II della parte I del D.P.R. n. 207/2010, contenente norme in materia 'di tutela dei diritti dei lavoratori'.

L'Ente chiede un parere in merito alla possibilità di liquidare gli importi dovuti ad un libero professionista, per l'incarico di RUP svolto, a prescindere dalla Certificazione di regolarità contributiva.
Un tanto anche alla luce dei pareri ANAC, secondo cui non sarebbe possibile per la stazione appaltante attivare la procedura sostitutiva, in caso di certificazione negativa di regolarità contributiva, stante la natura privata della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti (INARCASSA).
Sentito il Servizio lavori pubblici della Direzione centrale infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale, lavori pubblici, edilizia, si esprime quanto segue.
La questione posta dall'Ente è stata già affrontata da questo Servizio nel parere prot. n. 16037, del 07.05.2012
[1], le cui conclusioni si ritiene di confermare, non essendo nel frattempo sopravvenuti novelle normative, chiarimenti interpretativi o pronunce giurisprudenziali di diverso avviso.
In quella sede, nel richiamare la normativa in materia di DURC, in particolare gli artt. 6 e 4 del D.P.R. n. 207/2010
[2], nonché l'art. 90, comma 7, D.Lgs. n. 163/2006, in materia di appalti di servizi attinenti all'ingegneria ed all'architettura [3], si è affermato che, in considerazione della specificità della previsione di cui all'art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010, statuente l'intervento sostitutivo dell'amministrazione aggiudicatrice espressamente nel caso di irregolarità contributiva verso INP S, INAIL e cassa edile per il lavori, ed in assenza, altresì, di indicazioni da parte delle autorità competenti che in qualche modo estendano l'ambito di detto intervento sostitutivo, non sembra potersi sostenere una sua applicazione, per analogia, all'ipotesi di irregolarità contributiva verso INARCASSA.
Alle medesime conclusioni è pervenuta l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ( AVCP)
[4], argomentando dall'interpretazione letterale dell'art. 6, D.P.R. n. 207/2010, il quale in modo esplicito parla della funzione del DURC di accertamento della regolarità di un operatore economico per quanto concerne 'gli adempimenti INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento'. Per l'AVCP non solo sono indicati espressamente due istituti che erogano prestazioni contributive e assicurative, ma è anche prevista una (ed una sola) eccezione, la cassa edile. Inoltre, osserva l'AVCP, le norme in tema di DURC sono dettate nel titolo II della parte I del D.P.R. n. 207/2010, contenente nome in materia 'di tutela dei diritti dei lavoratori' [5].
Le considerazioni esposte consentono di ritenere, venendo al caso di specie, la possibilità per l'Ente di liquidare quanto dovuto al professionista incaricato del ruolo di RUP, con la precisazione, peraltro, che l'irregolarità contributiva verso INARCASSA può avere delle conseguenze per i pagamenti di importo superiore ad € 10.000 da effettuare da parte delle pubbliche amministrazioni, qualora INARCASSA si sia attivata per la riscossione dei contributi insoluti.
L'art. 48-bis, D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall'art. 2, comma 9, D.L. n. 262/2006, convertito con modificazioni, dalla L. n. 286/2006, stabilisce, infatti, che 'le amministrazioni pubbliche e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare a, qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all'agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell'esercizio dell'attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo'.
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[1] Il parere è consultabile sul sito della Regione Friuli Venezia Giulia, all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[2] L'art. 6 in parola definisce il documento unico di regolarità contributiva , a tutela dei lavoratori, in particolare il regime del Documento unico di regolarità contributiva (DURC). Detta norma definisce, inoltre, ai commi 3 e 4, le fasi in cui le amministrazioni aggiudicatrici acquisiscono d'ufficio il documento unico di regolarità contributiva in corso di validità.
L'art. 4, comma 2, in commento, prevede che nelle ipotesi in cui il DURC acquisito riveli un'inadempienza contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del contratto, le amministrazioni aggiudicatrici trattengono dal certificato di pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza e dispongono il pagamento di quanto dovuto direttamente agli enti previdenziali e assicurativi.
[3] L'art. 90, comma 7, in commento, impone la verifica della regolarità contributiva in relazione alla fase di affidamento dell'incarico, senza recare ulteriori disposizioni per l'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva.
[4] Cfr. AVCP, ora ANAC, parere n. 26 del 06.10.2011. Sempre nel senso della non sostenibilità di un'applicazione analogica delle disposizioni in tema di intervento sostitutivo della stazione appaltante anche per l'irregolarità contributiva accertata verso INARCASSA, si è espressa anche l'ANCI, parere del 28.01.2015.
[5] Per completezza di esposizione, si segnala che INARCASSA, chiamata ad esprimersi sull'intervento sostitutivo in suo favore da parte della stazione appaltante, nel rilevare che detto istituto è previsto dalla legge in caso di irregolarità contributiva accertata verso INPS, INAIL e Casse Edili, si è dichiarata disponibile a ricevere le somme a copertura dei crediti contributivi da essa vantati, qualora la stazione appaltante ritenga di procedere in tal senso, previo accordo del professionista interessato (v. nota n. 96 del 12.03.2014)
(23.09.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIDall’Anac stop ai bandi di gara che condizionano i pagamenti. Controlli. Illegittimo subordinare i versamenti all’arrivo di un finanziamento.
Gli appalti che condizionano i pagamenti delle prestazioni all’erogazione effettiva di un finanziamento sono illegittimi, e violano praticamente tutte le fonti del diritto, dalla Costituzione alle norme Ue, dalla legge ordinaria alle regole di concorrenza.
A sottolinearlo è il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, che nel comunicato del Presidente 06.10.2015 (Oggetto: clausole relative alle modalità di pagamento dei lavori pubblici finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni) interviene sul tema per rispondere alle sollecitazioni arrivate dalle imprese.
All’Authority è stato infatti segnalato che «diversi bandi di gara relativi all’affidamento di lavori pubblici» contengono la clausola che subordina il pagamento all’arrivo di finanziamenti da terzi, che possono essere l’Europa oppure per esempio le Regioni nel caso di gare bandite da un Comune. In questo modo, l’impresa che vince esegue il lavoro, ma per essere pagata deve sperare che alla Pa arrivi in fretta il finanziamento.
Il meccanismo è contrario alle logiche di mercato, e soprattutto illegittimo. Per sostenere questo secondo aspetto, Cantone richiama prima di tutto la Costituzione, che impone di assumere un provvedimento di spesa solo quando la copertura finanziaria è certa (articolo 81) anche per assicurare il «buon andamento» della Pa (articolo 97); di qui l’articolo 191 del Testo unico degli enti locali, che consente di impegnare spese quando la copertura è “certificata”.
Sul punto, l’obiezione potrebbe essere legata per esempio al fatto che il finanziamento è stato ottenuto, ma se ne attende l’erogazione effettiva. L’osservazione, però, cade di fronte a un’altra regola, cioè al Dlgs 231/2002, modificato tre anni fa per adeguarsi alla disciplina Ue sui tempi certi di pagamento. In questo quadro, non è possibile per esempio invocare i vincoli del Patto di stabilità per giustificare un pagamento che ritarda: il programma dei pagamenti deve tener conto di tutti i fattori in gioco, e il bando funziona solo se si può chiudere la partita in modo puntuale.
In realtà, questa rimane un’utopia, come dimostrano le tante norme che hanno provato a realizzarla senza successo, a partire dal decreto anti-crisi del 2009 (articolo 9, comma 2, del Dl 78/2009) che ha previsto tagli di stipendio al funzionario che non accerta l’assenza di ostacoli ai pagamenti prima di firmare impegni di spesa. La norma, che sulla carta è durissima, è in vigore da più di sei anni, ma non ha impedito la crescita dei debiti commerciali della Pa.
L’ultima tranche dello sblocca-debiti è stata attivata dal decreto enti locali approvato prima dell’estate (Dl 78/2015), e vale due miliardi per le Regioni e 850 milioni per i Comuni. Nel capitolo enti locali, l’Economia ha pubblicato il decreto attuativo il tasso d’interesse, ma per far partire davvero il meccanismo, però, bisogna aggiornare l’Addendum che regola i rapporti con Cdp: ieri il presidente dell’Anci Piero Fassino ha scritto al Governo chiedendo di accelerare
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Lavori, il Patto non è una scusa. Anac: vietato subordinare i pagamenti.
Vietato subordinare i pagamenti dei lavori adducendo i vincoli del patto di stabilità o il mancato finanziamento. Il rispetto dei termini di pagamento è elemento essenziale per garantire le condizioni di concorrenza sul mercato.

È quanto afferma l'Anac con il
comunicato del Presidente 06.10.2015 (Oggetto: clausole relative alle modalità di pagamento dei lavori pubblici finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni) concernente le modalità di pagamento dei lavori pubblici finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni.
La questione sulla quale si esprime l'Autorità con il comunicato siglato dal presidente Raffaele Cantone riguarda alcuni bandi di gara di lavori pubblici, oggetto di segnalazione, che subordinano i pagamenti dovuti all'impresa all'ottenimento di finanziamenti da parte di soggetti terzi (per esempio, finanziamenti derivanti da fondi europei) ovvero a risorse non ancora a disposizione.
Il comunicato delinea quanto la stazione appaltante può fare in questi casi. In primo luogo l'Anac precisa che la stazione appaltante «ha l'onere di verificare ex ante la sostenibilità finanziaria degli interventi che intende realizzare, anche in considerazione dei limiti posti dal patto di stabilità, garantendone la permanenza anche in fase di esecuzione».
È infatti l'articolo 64 del codice dei contratti pubblici a rinviare all'allegato IX A dello stesso codice che prevede l'indicazione delle modalità essenziali di finanziamento e di pagamento e/o i riferimenti alle disposizioni in materia da inserire nei bandi di gara.
Si deve trattare sempre di una disciplina dei pagamenti conforme alla normativa vigente, sembrerebbe ovvio, ma evidentemente non lo è, e a tale riguardo il comunicato cita anche la determinazione n. 4 del 07.07.2010. In questa determina si precisa innanzitutto che i termini di pagamento non possono essere derogati soltanto con un «generico richiamo alla necessità del rispetto del patto di stabilità interno».
«In via del tutto eccezionale, il bando potrà indicare quelle condizioni oggettive, specificamente individuate, che impediscono alla stazione appaltante di rispettare le condizioni di pagamento imposte dalle norme, purché le stesse non siano imputabili alla violazione del dovere generale che grava sulle p.a. di verificare la compatibilità del programma dei pagamenti con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica» (articolo ItaliaOggi del 07.10.2015).

ENTI LOCALIPartecipate, dal 20 ottobre le verifiche anticorruzione. Anac. Da pubblicare i dati su incarichi dirigenziali e consulenti.
Le società partecipate dagli enti locali devono dare piena attuazione alla normativa in materia di trasparenza e di prevenzione della corruzione, rischiando in caso di inadempimento pesanti sanzioni pecuniarie e limitazioni operative.

Con il comunicato del Presidente 01.10.2015 (Oggetto: Attività di vigilanza sulla pubblicazione dei dati dei componenti degli organi di indirizzo e dei soggetti titolari di incarichi dirigenziali e di consulenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati da pubbliche amministrazioni), l'ANAC ha richiamato le società e gli altri enti di diritto privato controllati dalle amministrazioni pubbliche ad adempiere all’obbligo di pubblicazione dei dati relativi agli incarichi dirigenziali e di consulenza, a rischio, in caso di inadempienza, di non poter trasferire agli organismi alcuna somma, compresi i corrispettivi previsti dai contratti di servizio.
La mancata pubblicazione dei dati degli incarichi di consulenza è peraltro autonomamente sanzionata nello stesso articolo 15 del Dlgs 33/2013, poiché impedisce l’acquisizione dell’efficacia dell’atto di affidamento e la liquidazione dei relativi compensi al consulente.
Il comunicato firmato da Raffaele Cantone precisa che l’Autorità svolgerà dal 20 ottobre una specifica attività di verifica, con applicazione, in caso di rilevazione di violazioni, delle pesanti sanzioni pecuniarie previste dal decreto trasparenza.
Il richiamo dell’Anac è l’ultimo di una serie di atti rivolti agli enti di diritto privato in controllo pubblico, per i quali la determinazione n. 8 del 17.06.2015 ha definito in modo puntuale le condizioni di applicazione delle norme in materia di trasparenza e del sistema anticorruzione, eliminando i dubbi residui dopo la riformulazione dell’articolo 11 del Dlgs 33/2013, divenuta norma di riferimento ineludibile.
L’effettività degli obblighi è stata rimarcata con il comunicato del presidente del 13.07.2015, nel quale è stato ribadito che tutti i soggetti tenuti (quindi le società e gli altri organismi partecipati in situazione di controllo da parte delle amministrazioni) devono adottare il Piano anticorruzione, rischiando, in caso contrario, come minimo l’applicazione di una pesante sanzione pecuniaria (sino a 10mila euro).
Il quadro che ne deriva comporta da un lato la vigilanza degli enti soci o comunque controllanti gli enti di diritto privato, dall’altro la necessaria compliance per la verifica del rispetto degli obblighi: in caso di non conformità, le società e gli altri organismi partecipati devono immediatamente adottare le misure volte a soddisfare l’adempimento.
In questa prospettiva le società, in particolare, devono correlare il piano anticorruzione al modello organizzativo-gestionale previsto dal Dlgs 231/2001; quindi risulta necessaria la revisione della mappatura dei processi e delle condizioni di rischio, accanto al potenziamento delle attività di audit.
La compliance dovrebbe consentire la rilevazione di criticità rilevanti, sulle quali intervenire tempestivamente: rientrano in questo novero problematico la limitata applicazione del Dlgs 163/2006 alle procedure di selezione dei contraenti, la mancanza di regole per il reclutamento del personale o la mancanza di criteri per l’affidamento di incarichi e consulenze.
L’applicazione integrale della normativa in materia di trasparenza e di prevenzione della corruzione vale anche per molte tipologie di enti con forte connotazione pubblicistica (come le aziende speciali), e sono compresi tra questi anche gli ordini professionali, secondo quanto ha sancito il Tar Lazio–Roma, sezione III, con la sentenza n. 11391 del 24.09.2015.
Nella pronuncia viene sviluppata una disamina dettagliata degli adempimenti, a partire dalla nomina del responsabile per la prevenzione della corruzione, che deve essere effettuata anche negli ordini con struttura organizzativa più limitata, anche se privi di dirigenti.
In questi casi, il Tar evidenzia come all’eventuale assenza di professionalità in gradi di redigere il piano anticorruzione si possa far fronte con accordi con altre amministrazioni (in base all’articolo 15 della legge 241/1990) (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it.

APPALTICentrali di committenza senza deroga ai «piccoli». Nessuna deroga per la costituzione delle centrali di committenza da parte dei comuni non capoluogo, salvo quelle previste dalla legge, ma il modello non si applica agli appalti di servizi socio assistenziali e alle concessioni.
Comuni. I chiarimenti Anac sui modelli aggregativi.
Questi gli ulteriori chiarimenti, sull’applicazione del comma 3-bis dell’articolo 33 del Codice dei contratti, forniti dall’Autorità nazionale anticorruzione con la determinazione 23.09.2015 n. 11 (Ulteriori indirizzi interpretativi sugli adempimenti ex art. 33, comma 3-bis, decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 e ss.mm.ii.), specificando anzitutto una serie di elementi su modelli aggregativi individuati dalla norma.
Il riferimento all’Unione di comuni «ove esistenti» non può intendersi come volto a stabilire un primato di tale organismo rispetto alle altre modalità di aggregazione, però le amministrazioni interessate devono evitare un dispendioso utilizzo di «moduli aggregativi di scopo» ma al tempo stesso devono favorire la specializzazione del buyer pubblico, con conseguente efficientamento del sistema.
Il ricorso ai soggetti aggregatori specificato nella disposizione impone che i comuni non capoluogo si debbano avvalere di quelli compresi nell’elenco formato dall’Anac in base all’articolo 9 della legge 89/2014, non potendo fare ricorso ad altre centrali di committenza.
Tuttavia le amministrazioni o le Unioni di comuni possono costituire, esclusivamente ai fini dell’articolo 33, comma 3-bis, anche società interamente pubbliche quali soggetti operativi di associazioni di comuni o di accordi consortili tra i medesimi in rapporto di stretta strumentalità, con il solo compito di svolgere le funzioni di relativo ufficio competente per l’espletamento delle procedure di affidamento dei contratti pubblici.
L’Anac, facendo riferimento alla logica di razionalizzazione che è alla base della disposizione del codice, chiarisce che anche i comuni capoluogo di provincia possono procedere ad acquisti tramite i moduli organizzativi e operativi individuati dal comma 3-bis, esercitando la facoltà di unirsi agli altri enti.
In relazione alle eccezioni applicative dell’obbligo aggregativo, la determinazione 11/2015 precisa che il ricorso agli strumenti elettronici gestiti da Consip (Mepa) o dai soggetti aggregatori regionali (piattaforme telematiche, altri mepa), non definisce una disciplina speciale per tali modalità di acquisto (semmai rappresentando la norma una sollecitazione ad un utilizzo più frequente), che sono comunque obbligatorie per gli acquisti di beni e servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria (in base all’articolo 1, comma 450, della legge 296/2006).
Inoltre, le disposizioni dell’articolo 125 del Codice, relativo agli acquisti in economia, non possono ritenersi norme speciali che continuano ad applicarsi ai comuni non capoluogo di provincia: solo i comuni con popolazione superiore a 10mila abitanti possono procedere ad acquisti autonomi, secondo le regole dettate per la soglia inferiore all’importo di 40mila euro.
Intanto il presidente dell’Anac annuncia che partirà una verifica a tutto campo sul rispetto degli obblighi di trasparenza (redditi e patrimoni) degli amministratori nelle partecipate (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: Concessioni, regole per le amministrazioni. Determinazione dell'autorità anticorruzione del 02.10.2015.
Studi di fattibilità da sottoporre a débat public, applicazione immediata delle regole Ue sul calcolo dell'importo della concessione, attenta valutazione dei benefici attesi da un project finance, necessità del trasferimento al concessionario del rischio di domanda.

Sono questi alcuni dei punti della corposa determinazione 23.09.2015 n. 10 (Linee guida per l'affidamento delle concessioni di lavori pubblici e di servizi ai sensi dell’articolo 153 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163) emessa il 2 ottobre dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) sulle linee guida per l'affidamento delle concessioni di lavori pubblici e di servizi.
Detta alle amministrazioni tutte le indicazioni necessarie per avviare e portare a compimento operazioni di finanza di partenariato pubblico-privato che prevedono l'affidamento di concessioni.
La determina, che costituisce un tipico esempio di quella soft law che il ddl delega sugli appalti pubblici prevede in capo all'Anac, di intesa con il ministero delle infrastrutture, contiene molti richiami alla nuova direttiva sulle concessioni (la 23/2014) che dovrà essere recepita nei prossimi mesi, primo fra tutti quello riferito al calcolo dell'importo della concessione, che l'Autorità ha rilevato essere spesso lo strumento per eludere l'obbligo di gara europea.
Per l'Anac le disposizioni Ue della nuova direttiva (che richiamano sette elementi per il calcolo dell'importo) devono essere attuate immediatamente, anche in assenza del recepimento, sottintendendo il carattere self executing di questa parte e soprattutto la necessità di garantire piena trasparenza e concorrenza. «Si tratta di una norma che esplica principi di concorrenza, ai quali l'Autorità si è sempre ispirata nei propri provvedimenti».
In particolare, la determina specifica come «nel calcolo di tale valore debbano essere ricompresi tutti i proventi di qualsiasi natura a favore del concessionario». Il riferimento è anche a elementi diversi alla riscossione delle tariffe, come, per esempio, altre utilità derivante dalla cessione di diritti o beni.
Dal punto di vista procedurale, ai fini della gestione del consenso con le popolazioni locali, le linee guida vanno oltre, superando il modello della conferenza preliminare per accertare criticità progettuali e suggeriscono alle stazioni appaltanti di applicare il cosiddetto débat public: «considerato che attualmente non esiste alcuna norma ostativa allo svolgimento di una consultazione preventiva in un momento che precede la definizione dello studio di fattibilità e, quindi, la predisposizione dei documenti di programmazione, il dialogo competitivo è già utilizzabile per l'affidamento della concessione di lavori».
A monte però l'amministrazione deve valutare attentamente se risulti «conveniente effettuare un determinato progetto mediante uno schema di partenariato pubblico-privato (Ppp) e non tramite un tradizionale schema di appalto solo quando il rendimento atteso per l'intera società è positivo».
Si richiama inoltre la necessità che nella concessione avvenga una reale traslazione del rischio di domanda sul concessionario perché, «in assenza di un effettivo trasferimento del rischio in capo al concessionario, le procedure di aggiudicazione dovranno essere quelle tipiche dell'appalto e i relativi costi dovranno essere integralmente contabilizzati nei bilanci della stazione appaltante» rientrando quindi nei vincoli del patto di stabilità (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015).

APPALTI: Offerte, no a commistioni coi requisiti dei concorrenti. Parere Anac su precontenzioso relativo a un appalto di servizi.
Nella valutazione delle offerte di un appalto è illegittimo valutare requisiti soggettivi del concorrente. È possibile derogare a tale principio soltanto se l'esperienza pregressa rileva in relazione all'oggetto del contratto.

L'ha stabilito l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere di precontenzioso 09.09.2015 n. 148 - rif. PREC 54/15/S riguardante un appalto di servizi, rispetto al quale si è pronunciato sulla possibilità di considerare in sede di valutazione delle offerte determinati requisiti del concorrente.
In particolare, il bando di gara prevedeva, alla voce «offerta progettuale», l'attribuzione di punteggio per «le caratteristiche dell'affidatario: descrizione dell'azienda, organizzazione, organico, sede operativa nel territorio».
Il parere riconosce che la clausola era tale da determinare una commistione tra criteri di valutazione dell'offerta e requisiti soggettivi in quanto gli elementi di valutazione dell'offerta riguardavano caratteristiche organizzative e soggettive del concorrente, ad esempio l'esperienza pregressa maturata dal medesimo o il suo livello di capacità tecnica e specializzazione professionale, le quali, in linea di principio, possono legittimamente rilevare solo in sede di ammissione alla gara.
In realtà l'Anac chiarisce anche che, rispetto a questo principio generale (divieto di commistione fra requisiti soggettivi e elementi di valutazione dell'offerta), vi sono casi in cui l'inserimento nella valutazione dell'offerta di criteri che normalmente rientrano nella selezione dell'offerente è stato ritenuto legittimo, ad esempio per appalti di servizi di ingegneria e architettura in cui si valuta qualitativamente l'esperienza pregressa su tre progetti analoghi, se rispondente a due vincoli: devono essere connessi all'oggetto della prestazione e non devono risultare decisivi o preponderanti nella valutazione dell'offerta.
In sostanza, ha detto l'Autorità nel parere, fermo restando il divieto di commistione tra requisiti soggettivi ed elementi oggettivi, occorre sempre effettuare una valutazione specifica del caso concreto, con l'effetto che determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto afferenti all'oggetto del contratto, possono essere valutate per la selezione dell'offerta. In tale senso si era espressa l'Anac nei pareri 21.05.2014, n. 106, e 20.11.2013, n. 192 e la determina 4/2015 lo ha confermato con riguardo anche alla direttiva 2014/24 che ammette elementi di valutazione qualitativa dell'offerta fondati sull'esperienza pregressa.
A parte questi casi, la regola è che «l'offerta tecnica non si sostanzia in un progetto o in un prodotto, ma nella descrizione di un facere che può essere valutato unicamente sulla base di criteri quali-quantitativi». Le prescrizioni del caso di specie, invece, per il parere «indubbiamente attengono a requisiti soggettivi dell'offerente piuttosto che a caratteristiche dell'offerta e non sono direttamente afferenti all'oggetto del contratto (organico, sede nel territorio, organizzazione dell'azienda)» e hanno anche il risultato di restringere la concorrenza (sede nel territorio del comune). E quindi non possono essere ritenuti legittimi (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Cablaggio con meno formalità. Ma le disposizioni per il «lancio» definitivo non sono ancora al traguardo.
Banda larga. Per costruzioni nuove e ristrutturazioni dal 1° luglio la tecnologia è comunque obbligatoria.
La possibilità di avvalersi di tecnologie sempre più avanzate ha portato il legislatore a occuparsi anche della trasmissione dati attraverso la fibra ottica che consente di connettersi, scaricando immagini e video wireless, a una velocità che fino a pochi anni fa era impensabile.
L’installazione della fibra ottica all’interno delle parti comuni condominiali è sempre stata oggetto non solo di contestazione, ma di vera opposizione da parte dei condòmini, che sentivano minata la parte estetica del loro edificio, così come il pari uso delle parti comuni, nel timore di vedersi anche mutata o modificata la loro originaria destinazione.
Le semplificazioni
Per tutti questi motivi l’Italia risulta essere uno dei Paesi meno cablati. Il legislatore, quindi, al fine di ridurre questo divario digitale ha posto in essere una serie di interventi normativi atti a semplificare e alleggerire le autorizzazioni e gli adempimenti al fine di favorire all’interno degli edifici la diffusione della banda ultralarga.
In particolare l’intervento più incisivo è stato apportato dalla legge 164/2014 di conversione del Dl 133/2014, il cosiddetto Decreto Sblocca Italia, che ha introdotto il nuovo articolo 135-bis del Testo unico edilizia (Dpr 380/2001), che stabilisce che tutte le nuove costruzioni, per le quali le domande di autorizzazione edilizia siano presentate dopo il 01.07.2015, dovranno essere equipaggiate con una infrastruttura fisica multiservizio passiva, interna all’edificio, costruita da adeguati spazi installativi e da impianti di comunicazione ad alta velocità in fibra ottica fino ai punti terminali di rete.
Lo stesso obbligo viene applicato nel caso di opere che richiedono il permesso di costruire (articolo 10, comma 1, lettera c, del Dpr 380/2001), cioè gli interventi in un edificio che comportano una ristrutturazione profonda atta a modificare la volumetria complessiva dell’edificio o dei prospetti ovvero, per gli immobili compresi nelle zone omogenee A, che comportano un mutamento della destinazione d’uso o delle modificazioni della sagoma degli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del Dl 42/2004 e successive modificazioni.
Nuove costruzioni
Sempre dal 01.07.2015, le nuove costruzioni e quelle sottoposte a interventi di ristrutturazione edilizia che richiedono il permesso a costruire dovranno essere equipaggiate di un punto di accesso, ovvero di un punto fisico situato all’interno o all’esterno dell’edificio e accessibile alle imprese autorizzate a fornire reti pubbliche di comunicazione, che consente la connessione con l’infrastruttura interna all’edificio predisposta per i servizi di accesso in fibra ottica e banda ultralarga.
Questi edifici potranno esporre la targa “predisposto alla banda larga”, come segno distintivo anche per chi affitta e vende gli appartamenti siti in quell’edificio.
Per la progettazione e il rilascio dell’etichetta è necessario un tecnico abilitato (punto 3 dell’articolo 135-bis). In Italia le figure professionali idonee a questo tipo di attività sono gli ingegneri del settore dell’informazione.
Il nuovo decreto
La legge di riforma del condominio, nell’articolo 1120 del Codice civile, comma 3, prevede che l’assemblea disponga questo tipo di innovazione con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio) oppure con la maggioranza del terzo comma del medesimo articolo (almeno un terzo del valore e un terzo dei partecipanti) se questi impianti non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e non ne impediscono il pari uso.
In tutto questo, anche e soprattutto al fine di contemperare questi contrasti, è ancora in corso la discussione sul Piano nazionale strategico per la banda larga, contenuto nel decreto Telecomunicazioni che il governo avrebbe dovuto approvare successivamente al decreto Sblocca Italia e che invece è stato, per ora, rinviato .
In particolare, il decreto stabilisce (almeno così si può leggere nella bozza) che gli operatori che intendono posare le proprie reti in fibra ottica in adiacenza di aree di proprietà privata e condominiale possono farlo comunicandolo con raccomandata al proprietario o all’amministratore di condominio. Se entro 30 giorni questi ultimi non esprimono il loro dissenso, l’operatore procederà con i lavori.
Questi lavori, infatti, nella bozza di decreto non sono più considerati una innovazione ai sensi dell’articolo 1120 del Codice civile e, quindi, non sono soggetti al vaglio assembleare
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2015).

EDILIZIA PRIVATATermini e tutela dei terzi: le insidie della nuova Scia. Pesa l’incertezza nel computo dei 18 mesi per l’autotutela.
Abilitazioni. I vicini che vogliono contestare l’intervento devono prima diffidare il Comune.

L’ultimo ritocco all’istituto della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) risale a questa estate. Con la legge 124/2015 (la riforma della Pa), il legislatore ha modificato i poteri di intervento attribuiti all’amministrazione in caso di Scia.
Ma nonostante le numerose modifiche introdotte da quando nel 2010 con la legge 122 è stato varato il nuovo modello autorizzatorio, la Scia continua a presentare alcune criticità. Vediamole con ordine partendo dall’ultima riforma.
I termini per l’autotutela. In via ordinaria, il Comune -se accerta la carenza dei requisiti previsti per la Scia- può adottare provvedimenti inibitori entro 30 giorni dal ricevimento della segnalazione (in materia edilizia).
Tuttavia, se sussistono le condizioni per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, cioè se l’amministrazione comunale verifica a posteriori che l’attività edilizia segnalata è illegittima, i provvedimenti inibitori possono essere adottati anche una volta decorso questo termine di 30 giorni.
La modifica, però, lascia spazio a qualche difficoltà interpretativa. La riforma infatti ha modificato anche l’articolo 20-nonies della legge 241/1990, precisando in generale che l’annullamento in autotutela può essere esercitato entro 18 mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
Come si declina questa norma in relazione alla Scia? Trattandosi di una segnalazione del privato, non si ha l’adozione di un provvedimento e, nondimeno, l’individuazione del momento in cui la Scia porta all’attribuzione di vantaggi economici appare coincidere col momento in cui la particolare procedura edilizia in esame abilita l’avvio dei lavori.
Di conseguenza, si può ritenere che il termine di 18 mesi decorra dal giorno stesso in cui la Scia è depositata, perché è in quel momento che l’interessato matura il vantaggio economico di poter avviare legittimamente i lavori.
Le ragioni dei terzi. La Scia presenta peraltro qualche ulteriore criticità. La segnalazione non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile.
I terzi interessati che intendano contestare la legittimità di opere edilizie oggetto di Scia, pertanto:
- in primis, devono sollecitare l’amministrazione a effettuare le verifiche di competenza;
- solo in caso di inerzia, possono esperire azione contro il silenzio.
Questo percorso impone quindi un onere di preventiva diffida all’amministrazione che può limitare la tempestività della tutela, ciò anche tenuto conto che le lavorazioni oggetto di Scia possono essere avviate dal giorno della relativa presentazione, mentre al Comune va concesso un congruo termine per rispondere (quello generale fissato dalla legge 241/1990 corrisponde a 30 giorni).
L’avvio dei lavori. Un ulteriore, delicato, profilo dell’istituto è proprio quello inerente all’opportunità di avviare immediatamente le lavorazioni. Come detto, la legge consente all’amministrazione di inibire le lavorazioni oggetto di Scia, in via ordinaria, entro 30 giorni dalla presentazione della segnalazione.
Idealmente, al momento della presentazione, la parte dovrebbe aver verificato la piena correttezza e legittimità della pratica e dovrebbe quindi poter procedere serenamente all’avvio della lavorazioni dalla data di presentazione della segnalazione.
La complessità tecnica e la disomogeneità della materia, tuttavia, spesso non permettono una simile “spensieratezza” dell’interessato, con l’effetto che a volte si preferisce attendere il decorso del termine ordinario di 30 giorni, piuttosto che esporsi al rischio di dover sospendere lavori già in corso, con ogni conseguenza riguardo ai contratti con gli appaltatori, agli investimenti e alla necessità di modificare il progetto. ---------------
Per i tecnici decisiva la pre-istruttoria. Le sanzioni. I rischi connessi alle prassi locali.
Con la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), il ruolo dei tecnici abilitati è divenuto ancor più rilevante rispetto al passato. Agli onori si accompagnano, però, gli oneri e le responsabilità. Infatti, l’articolo 19 della legge 241/1990 nell’attuale formulazione, prevede che ogni autorizzazione il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale è sostituito da una segnalazione dell’interessato (la Scia, appunto).
La segnalazione deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati eventualmente occorrenti, corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione.
In materia edilizia, il tecnico ha quindi il compito di asseverare la conformità delle opere progettate alla disciplina urbanistico-edilizia vigente.
L’articolo 19 della legge 241/1990, al comma 6, prevede ora una specifica responsabilità in merito a queste attestazioni, chiarendo che, ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti previsti ai fini della presentazione della segnalazione è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Ora, concettualmente, la sanzione introdotta dalla norma non dovrebbe spaventare, in quanto un tecnico abilitato dovrebbe poter agevolmente verificare la piena conformità degli interventi in progetto a tutte le previsioni di legge e di regolamento applicabili.
Nella realtà, tuttavia, la complessità della normativa tecnica, la notevole disomogeneità e frammentarietà della stessa tra le varie Regioni e, ancor più, tra i diversi Comuni e le differenti possibili interpretazioni applicabili alla medesima norma complicano, non poco, questo quadro concettuale.
Nella pratica, ai fini della presentazione di una Scia edilizia può rendersi necessaria una pre-istruttoria tecnica in contraddittorio con i responsabili dei competenti uffici comunali (non disciplinata, né tantomeno richiesta dalla legge) e, nondimeno, la presentazione di una Scia può comunque lasciare un margine di incertezza circa la possibilità che il Comune intervenga con un provvedimento inibitorio, con ogni conseguenza riguardo alle possibili responsabilità dei tecnici.
Questi profili di criticità che ancora oggi contraddistinguono la materia edilizia rischiano di svilire la stessa ratio dell’istituto della Scia, che difatti è stata introdotta per snellire e semplificare le procedure richieste ai fini dell’esecuzione di determinate opere edilizie.
In quest’ottica, appare quanto mai opportuna l’adozione dello schema di regolamento edilizio-tipo, unico per l’intero territorio nazionale, già previsto, proprio al fine di uniformare la materia, dal decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014). L’auspicio è dunque che la conferenza unificata, alla quale è affidato il compito di redigere lo schema del regolamento unico, assuma un testo chiaro e che tratti tutti i principali aspetti della materia
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici, piano al via con il calendario della spesa. I contenuti confluiscono nel «documento unico».
Scadenze. Niente armonizzazione per le regole sul programma da adottare entro giovedì.
Entro il 15 ottobre la Giunta deve “adottare” lo schema di programma triennale e l'elenco annuale dei lavori pubblici (articolo 13, comma 3, del Dpr 207/2010) -redatti dagli uffici entro il 30 settembre– per la nuova programmazione.
Non è arrivata in tempo l'attesa semplificazione, quindi gli enti sono ancora tenuti a rispettare le regole scritte senza tener conto dell'armonizzazione contabile. Con il nuovo principio di programmazione da quest'anno (per gli sperimentatori anche prima) entra in vigore l'obbligo di inserire nel Dup (parte 2 della sezione operativa) –anche nella versione semplificata- la programmazione in materia di lavori pubblici, oltre che di personale e patrimonio.
Gli enti dovranno quindi far confluire il programma triennale dei lavori pubblici adottato dall'organo esecutivo, nel Dup 2016-2018 che la Giunta deve approvare entro il 31 ottobre per la successiva deliberazione in Consiglio. I contenuti del programma dei lavori pubblici entrano subito a far parte delle previsioni di bilancio 2016-2018, il cui schema deve poi essere approvato in Giunta entro il 15 novembre.
Lo schema di programma triennale e i suoi aggiornamenti annuali sono redatti, in collaborazione fra i responsabili degli interventi e il responsabile del servizio finanziario, seguendo i modelli approvati con Dm Infrastrutture 24.10.2014, che da quest'anno ha sostituito il Dm 11.11.2011. Il programma e gli aggiornamenti devono essere resi pubblici, prima della loro approvazione, con affissione nella sede delle amministrazioni per almeno 60 giorni consecutivi (articolo 128, comma 2, del Dlgs 163/2006). L'elenco annuale deve essere approvato (in via definitiva) con il bilancio di previsione, e deve contenere l'indicazione dei mezzi finanziari stanziati o disponibili (articolo 128, comma 9, del Dlgs 163/2006).
La coerenza nella programmazione impone la verifica della corrispondenza fra le previsioni di bilancio e quelle di realizzazione delle opere pubbliche, da verificare già nel Dup.
Pur non essendo ancora aggiornata con le regole dell'armonizzazione contabile, la programmazione dei lavori pubblici dovrebbe comunque produrre per ogni intervento programmato il cronoprogramma, per individuare l'esigibilità della spesa per ogni esercizio. Per le opere per le quali non è possibile predisporre il cronoprogramma, andrebbe fornita adeguata motivazione. Il principio della competenza finanziaria potenziata richiede infatti che le spese di investimento siano impegnate negli esercizi in cui scadono le singole obbligazioni passive sulla base del cronoprogramma.
La parte 2 della sezione operativa accoglie anche la programmazione del fabbisogno del personale, per la cui adozione la competenza finora è stata della Giunta (Consiglio di Stato, sentenza 1208/2010). Nel Dup dovranno essere inseriti, infine, tutti quegli ulteriori strumenti di programmazione, come il piano delle alienazioni, i piani triennali di razionalizzazione della spesa (articolo 16, comma 4, del Dl 98/2011) e l'eventuale programma degli incarichi.
Superato il primo appuntamento con il Dup 2016-18, resta però urgente un intervento di «armonizzazione» delle norme di settore sulla programmazione dei lavori pubblici
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, classificazione assistita. Chiarimenti su nuove voci di pericolo e codici Cer. Le istruzioni del Minambiente per raccordare le norme nazionali alla disciplina Ue.
Novità sostanziali per la codificazione «Cer» dei rifiuti, disallineamenti linguistici nella traduzione in lingua italiana dei provvedimenti comunitari di riferimento, rapporti tra le stesse norme Ue e quelle nazionali.

Questi i punti nodali della nuova disciplina europea su classificazione dei rifiuti e attribuzione agli stessi delle caratteristiche di pericolo, in vigore dallo scorso 1° giugno, oggetto dei primi chiarimenti del Minambiente con nota 28.09.2015 n. 11845 di prot..
Le istruzioni Minambiente. Il dicastero sottolinea la piena e integrale applicazione sul piano nazionale a partire dal 1° giugno delle norme contenute nella decisione 2014/995/Ue (che contiene il nuovo Elenco europeo dei rifiuti) e nel regolamento Ue n. 1357/2014 (che ha introdotto le nuove indicazioni per l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di pericolo).
Annunciando la revisione della normativa nazionale al fine di allinearla alle nuove norme Ue, il Minambiente effettua una ricognizione delle regole nazionali che, essendo invece compatibili con i citati provvedimenti Ue, mantengono la loro applicabilità fornendo al contempo chiarimenti su alcuni punti critici della neonata disciplina comunitaria.
Sulla nuova classificazione dei rifiuti. L'attuale allegato D alla Parte IV del dlgs 152/2006 reca l'Elenco dei rifiuti tradotto dalla previgente decisione 2000/532/Ce, senza dunque dare atto della riformulazione dello stesso effettuata dalla nuova decisione 2014/995/Ue.
Il Minambiente ritiene che conservino tuttavia efficacia i punti 6 e 7 del paragrafo «Introduzione» del suddetto allegato D al Codice ambientale, poiché costituenti attuazione di norme comunitarie recate dai paragrafi 2 e 3, articolo 7, della direttiva 2008/98/Ce ancora vigenti nel quadro normativo comunitario, non modificate dalle ultime disposizioni europee e dunque con esse compatibili. Tali punti sanciscono la possibilità per gli Stati membri di proporre all'Ue modifiche sulla classificazione di alcuni rifiuti, chiedendone in via motivata la transizione dal novero dei non pericolosi a pericolosi e viceversa.
Definizioni e istruzioni da utilizzare nell'ambito della classificazione dei rifiuti sono invece ora quelle previste dalla nuova decisione 2014/995/Ue (che prevalgono, dunque, integralmente sulle disposizioni del citato allegato D al dlgs 152/2006), in relazione alle quali Minambiente chiarisce la portata lessicale di due disposizioni. Ossia: quella relativa ai residui di leghe, precisando come essi siano da classificarsi in via assoluta come rifiuti pericolosi solo nelle loro declinazioni specificamente indicate nell'Elenco con l'asterisco «*»; quella relativa ai rifiuti che contengono quantitativi di una determinata sostanza inferiore al valore soglia per essa indicata, sottolineando come in tal caso essa sostanza non debba essere presa in considerazione per il calcolo del valore limite di concentrazione.
Parte della dottrina ritiene che conservino tuttavia efficacia anche i punti 1 e 7 introdotti nell'apertura del suddetto allegato D dal dl 91/2014 (come convertito in legge 116/2014), rilevandone la non incompatibilità con norme recate dalla neo decisione 2014/995/Ue. Tali punti dispongono che la classificazione dei rifiuti debba essere effettuata dal produttore degli stessi assegnandogli il competente Codice Cer e, in ogni caso, prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione.
Con la nota il dicastero si pronuncia sulla nuova elencazione dei codici identificativi («Cer») contenuti nel nuovo «Elenco dei rifiuti», confermando la portata limitata delle novità in relazione al vecchio Elenco (recato dalla versione della decisione 2000/532/Ce precedente alle modifiche ex decisione 2014/995/Ue, ancora presente nell'allegato D al dlgs 152/2006 divenuto per tal motivo obsoleto).
Le novità sostanziali coincidono con: l'introduzione di due nuovi codici («010310», identificativo dei «fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina contenenti sostanze pericolose, diversi da quelli di cui alla voce 010307» e «190308», relativo al «mercurio parzialmente stabilizzato»); la modifica della descrizione del codice «010309» (che in base alla nuova decisione Ue è relativo ai «fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina, diversi da quelli di cui alla voce 010310»).
Eventuali altri disallineamenti tra altri vecchi e nuovi codici, sottolinea il dicastero, sono invece da imputarsi alla traduzione in lingua italiana del testo originario della decisione 2014/995/Ue ma nella sostanza non comportanti una modifica.
Sulle caratteristiche di pericolo dei rifiuti. L'attuale allegato I alla Parte IV del dlgs 152/2006 indica i criteri per l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di pericolo tradotti dalla versione della direttiva 2008/98/Ce precedente alle modifiche introdotte dal regolamento Ue n. 1357/2014.
Con la nota il Minambiente precisa come detto allegato I al dlgs 152/2006 debba ritenersi dal 01.06.2015 interamente disapplicato (a favore, dunque, delle citate nuove norme Ue). Le novità introdotte dal regolamento Ue del 2014, lo ricordiamo, coincidono con una riformulazione delle classi generali di pericolo (mediante la sostituzione delle precedenti caratteristiche da «H 1» ad «H 15» con quelle da «HP 1» ad «HP 15»), il rimodellamento di alcune categorie e valori limite, la rivisitazione degli specifici criteri per l'attribuzione delle caratteristiche di rischio.
Le precisazioni del dicastero vertono sulle nuove caratteristiche di pericolo «HP», e in particolare: in relazione alla «HP 6» (tossicità acuta), laddove per il Minambiente il richiamo ai valori limite da prendere in considerazione debba in realtà intendersi più propriamente effettuato ai «valori soglia»; in relazione alla «HP 9» (infettivo), laddove la nota precisa come la normativa nazionale sottesa da prendere a riferimento sia costituita dal Dpr 254/2003 (che elenca i rifiuti sanitari pericolosi).
In relazione alla nuova voce «HP 14» (eco tossico) la nota Minambiente 28.09.2015 (intervenendo a correzione di un proprio analogo atto del precedente 25 settembre) prende invece atto delle novità introdotte dalla legge 125/2015 in sede di conversione dl 78/2015, novità in base alle quali (lo ricordiamo) detta caratteristica di pericolo deve essere attribuita, in attesa dell'adozione da parte dell'Ue di specifici criteri, secondo le modalità sancite dalla disciplina «Adr» (Accordo europeo sul trasporto internazionale delle merci su strada) per le classi «9 - M6 e M7».
Sul punto, appare opportuno rilevarlo, a più voci la dottrina ha tuttavia individuato un possibile disallineamento tra il dettato della citata legge nazionale e le prescrizioni del nuovo regolamento Ue 1357/2014 (che sull'attribuzione dell'«HP 14» richiama criteri previsti da altre norme comunitarie); disallineamento sul quale, evidentemente, solo una pronuncia interpretativa della competente Corte europea di giustizia potrebbe offrire un chiarimento definitivo (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per le Pa obbligo di conservazione del «protocollo». Pubbliche amministrazioni. Da domani registro digitale.
Da domani scatta l’obbligo di invio in conservazione a norma del registro giornaliero di protocollo: termina infatti il periodo di 18 mesi concesso alle pubbliche amministrazioni per adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti alle regole tecniche per il protocollo informatico dettate dal Dpcm del 03.12.2013.
Tale decreto, in attuazione del Codice dell’amministrazione digitale, si è occupato innanzitutto di disciplinare la gestione dei flussi documentali sia ricevuti che prodotti dalle amministrazioni. Con tale finalità le pubbliche amministrazioni sono state chiamate a individuare le aree organizzative omogenee e i relativi uffici di riferimento, a nominare il responsabile della gestione documentale (e un suo vicario in caso di assenza o impedimento), nonché il coordinatore della gestione documentale in presenza di più aree organizzative nell’ambito della medesima amministrazione. Deve essere inoltre adottato il manuale di gestione.
Altro adempimento richiesto è la definizione dei tempi e delle modalità per l’eliminazione dei protocolli di settore e di reparto, di quelli multipli e di quelli telefax. L’unico protocollo da utilizzare è infatti quello informatico,da caselle di posta elettronica e da quelle di posta certificata, nonché le istanze e le dichiarazioni presentate alle amministrazioni per via telematica.
Entro la giornata lavorativa successiva a quella di produzione, il registro va inviato al sistema di conservazione garantendone l’immodificabilità del contenuto. Quanto alla prima fase, e cioè quella di formazione, il registro giornaliero deve essere alimentato con numero di protocollo del documento generato automaticamente dal sistema, data di registrazione del protocollo assegnata anch’essa in via automatica, mittente per i documenti ricevuti e destinatario per quelli spediti, oggetto, data e protocollo del documento ricevuto nonché impronta del documento informatico se trasmesso in via telematica e l’indicazione del registro nel cui ambito deve essere effettuata la registrazione.
A tale proposito l’Agid (Agenzia per l’Italia digitale) ha pubblicato sul proprio sito internet le linee guida per la produzione e conservazione del registro giornaliero, sottolineando come in fase di formazione deve essere assicurata la staticità, l’immodificabilità e l’integrità nel tempo del documento informatico, contenente le registrazioni effettuate nell’arco dello stesso giorno, attraverso la produzione di un’estrazione statica dei dati, secondo una struttura predeterminata, e il loro trasferimento nel sistema di conservazione.
Agid ha definito a tal fine anche i metadati da associare al registro giornaliero, chiarendo altresì come la modalità di formazione del registro non rende necessaria la sua sottoscrizione con firma digitale o qualificata, la cui apposizione resta comunque facoltativa.
Entro il giorno successivo alla formazione, il registro va inviato al sistema di conservazione, il quale può essere interno alla struttura organizzativa del soggetto produttore o essere affidato a un conservatore accreditato. La produzione del pacchetto di versamento e del suo formato, come concordati con il responsabile della conservazione, resta a carico del responsabile della gestione documentale o del servizio per la tenuta del protocollo informatico
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2015).

APPALTI: Appalti sempre più trasparenti. Al ministero dei lavori pubblici le scelte sulla pubblicità. Un emendamento al nuovo codice del presidente della commissione ambiente, Realacci.
Da lunedì rush finale per il nuovo codice degli appalti
(Atto Camera n. 3194), che andrà in aula alla camera per gli ultimi aggiustamenti, quindi tornerà blindato al senato per l'approvazione definitiva a stretto giro.
La struttura del nuovo codice, quindi, è ormai definita e il presidente della commissione ambiente e lavori pubblici, Ermete Realacci, ne è decisamente soddisfatto. «Mi pare che sia stato fatto un buon lavoro. Abbiamo ora una normativa più snella ed efficace e sono stati dati all'Autorità Anticorruzione poteri tali da farla diventare davvero la nuova Authority sui lavori pubblici, poteri che non aveva nemmeno il vecchio organismo di vigilanza. È un nuovo modello, che si basa su decreti madre ma marcia poi con formule legislative più leggere che consentono la necessaria flessibilità. Negli anni passati l'ipertrofia legislativa è stata una delle principali cause di corruzione. Già Tacito diceva che moltissime sono le leggi quando lo stato è corrotto
».
Domanda. Il vecchio codice era già corposo, ma poi ogni anno venivano aggiunte altre norme. Sarà ancora così?
Risposta. No, è proprio quello che abbiamo voluto impedire. Come Banca d'Italia ci ha ricordato, gli aggiustamenti, le modifiche e le aggiunte degli anni scorsi sono state più di 600. In quel modo non c'era mai certezza della norme. Nelle imprese lavoravano più avvocati che ingegneri. Non sarà più così.
D. Con la delega, però, trasferite le decisioni al governo.
R. Il ruolo del Parlamento, se vogliamo, è stato addirittura rafforzato. Abbiamo previsto una doppia lettura del codice, per dar modo alla commissione di segnalare tutto ciò che riterrà giusto e di chiedere modifiche, quello che abbiamo eliminato è il vecchio working in progress continuo.
D. Avete anche cancellato la vecchia legge obiettivo.
R. Sì, e anche questa è una novità importante. Quella legge è stata un fallimento. In 14 anni ha raggiunto solo l'8% degli obiettivi previsti e ha creato disfunzioni enormi, svilendo non solo il ruolo della progettazione (il general contractor lavorava essenzialmente sulla base di progetti preliminari), ma anche quello del controllo pubblico, visto che i direttori dei lavori erano dipendenti del general contractor stesso.
D. E poi c'è l'eliminazione del criterio del massimo ribasso nell'assegnazione degli appalti.
R. Anche quello era un sistema sbagliato, che non privilegiava la qualità degli appalti e non serviva nemmeno a frenare i costi, visto che al massimo ribasso seguivano praticamente sempre la varianti in corso d'opera. Ma non vorrei che si dimenticasse l'altra grande novità che abbiamo introdotto: il meccanismo del débat public, che coinvolge la popolazione interessata all'opera, garantendo però i giusti tempi di realizzazione.
D. Il presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone ha insistito molto sulla necessità di garantire la massima trasparenza, ma in commissione è passato un emendamento che ha abolito l'obbligo di pubblicazione dei bandi sui quotidiani. Non è un controsenso?
R. C'è un dibattito se basti mettere i bandi sui siti internet o ci sia ancora bisogno di pubblicarli sui giornali, ma siccome nessuno vuole ridurre la trasparenza, io credo che sia giusto che tempi e modi li decida il governo nel corso dell'applicazione della delega, per questo presenterò un emendamento chiedendo che sia il ministero dei lavori pubblici a indicare i criteri per garantire il massimo della trasparenza possibile. Il massimo.
D. Intanto oggi ha annunciato i risultati dell'Ecobonus e degli incentivi alle ristrutturazioni edilizie.
R. Sì, un successo: nel 2014 hanno prodotto 28,5 miliardi di investimenti e 425mila posti di lavoro fra diretti e indotto, ormai il 70% del mercato edilizio gira intorno alle ristrutturazioni. Bisogna insistere e semmai allargare gli incentivi. L'edilizia è un grande volano per la ripresa (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità, due pesi e due misure. Quelle già attivate si finanziano solo con resti assunzionali. Il dpcm contiene una sorpresa che potrebbe inficiare molte procedure non ancora concluse.
Mobilità extra piattaforma gestita dalla funzione pubblica da concludere entro il 15 ottobre ma a condizione che siano finanziate dai resti assunzionali.
L'articolo 11, comma 1, del dpcm 14.09.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 227 del 30.09.2015) contiene una sorpresa che potrebbe inficiare molte delle mobilità, attivate dalle amministrazioni pubbliche avvalendosi di quanto indicato dalla circolare interministeriale 1/2015, secondo la quale, nelle more del funzionamento della piattaforma prevista proprio dal dpcm, era possibile realizzare bandi di mobilità interamente riservati al personale delle province. Senza alcun riferimento alla fonte di finanziamento.
Invece, il dpcm subordina la salvezza delle mobilità «interamente riservate» (anche se il testo del decreto parla di riserva «prioritaria») alla circostanza che esse non solo debbono concludersi entro il 15 ottobre, ma «non devono incidere sulle risorse previste dal regime delle assunzioni per gli anni 2015 e 2016».
Dunque, il dpcm non fa salve le procedure di mobilità rette dalla circolare 1/2015 in quanto tali, consentendo loro di concludersi entro il 15 ottobre: il regime transitorio immaginato consente di conservare validità solo per le mobilità che abbiano reperito il finanziamento dal budget assunzionale diverso da quello vigente negli anni 2015 e 2016.
In termini molto semplici, poiché in questo biennio il 60 e l'80% del costo del personale cessato gli anni precedenti (rispettivamente 2014 e 2015) sono da riservare ai vincitori di concorsi appartenenti a graduatorie vigenti o approvate all'01.01.2015 o ai dipendenti in sovrannumero delle province, mentre la restante percentuale rispettivamente del 40 e del 20% è da riservare esclusivamente ai dipendenti delle province, l'unico legittimo finanziamento delle mobilità del periodo transitorio previsto dal dpcm potrebbe provenire dai «resti assunzionali» del triennio 2011-2013, nel 2015 e del triennio 2012-2014, nel 2016.
Letta al contrario la disposizione dell'articolo 11, comma 1, del dpcm significa che dal 30.09.2015 non è più possibile portare avanti mobilità extra piattaforma, che non siano espressamente finanziate dai resti assunzionali. Forse, si tratta di una cautela, volta a lasciare ai dipendenti provinciali in sovrannumero il più elevato possibile livello di risorse assunzionali a disposizioni, per assicurare il successo della ricollocazione.
Sta di fatto che le amministrazioni pubbliche riuscite ad attivare le procedure di mobilità si trovano solo a ottobre con l'imprevisto di poterle portare a termine solo laddove dimostrino di finanziarle con i resti. Nulla, invece, viene detto in merito alle mobilità concluse prima ancora della pubblicazione del dpcm in Gazzetta. Segno che quelle assunzioni vanno bene anche se non finanziate con i resti assunzionali.
Tuttavia, è evidente la disparità di condizioni e la confusione che si continua a generare nell'attuazione estremamente sofferta della riforma delle province. Confusione che coinvolge anche l'utilizzo delle risorse assunzionali, soggetto ad un reticolo di vincoli ormai difficile da districare e sintetizzato in tabella.
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Solo dal 30 ottobre le p.a. comunicheranno i posti disponibili.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta lo scorso 30 settembre, del dpcm 14.09.2015, che fissa i criteri per la mobilità dei dipendenti provinciali in sovrannumero, scatta l'operazione che dovrebbe portare 20 mila dipendenti degli enti di area vasta ad accasarsi presso altre pubbliche amministrazioni. Anche se sussistono ancora non poche incertezze.
Il conto alla rovescia per l'operazione di trasferimento di migliaia di lavoratori pubblici è, dunque scattato. I tempi previsti, però, appaiono fin troppo ottimistici: ci sono voluti 10 mesi dall'entrata in vigore della legge 190/2014 per mettere a punto l'elemento fondamentale della ricollocazione dei soprannumerari, appunto il dpcm e la piattaforma informatica per la mobilità. Immaginare che il tutto possa realmente concludersi come prevede la tabella di marcia al massimo entro marzo 2016 è auspicabile, ma poco credibile.
Intanto, occorre chiarire quale sarà l'entità dei dipendenti interessati dal processo di mobilità. Teoricamente sarebbero 20 mila i soprannumerari di province e città metropolitane. Ma 4.000 circa sono quelli destinati (o andati già) ad andare in pensione con i requisiti pre-Fornero. Vi sono, poi, i 7.500 dipendenti addetti ai servizi per il lavoro. A questa massa di 11.500 dipendenti circa il dpcm, firmato dal ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, come prevede l'articolo 1, comma 3, non si applica: essi, dunque, non dovranno essere trasferiti verso altre amministrazioni, sebbene i loro nominativi dovranno essere caricati.
Pertanto, potranno transitare verso le altre p.a. i restanti 9.500 dipendenti soprannumerari. C'è, però, la situazione peculiare degli addetti ai corpi di polizia provinciale: ai sensi dell'articolo 5 del dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, le province dovrebbero adottare provvedimenti per determinare quali dei circa 2 mila addetti saranno da considerare adibiti ad attività accessorie alle funzioni fondamentali e, dunque, da sottrarre alla mobilità.
Ancora, non dovrebbero prendere parte alla procedura disciplinata dal dpcm i circa 500-600 dipendenti provinciali parte della procedura di mobilità per 1.031 posti indetta dal ministero della giustizia.
Per le pubbliche amministrazioni non è dunque chiaro quale possa essere l'effettivo plafond dei dipendenti da assumere, il che tinge ancora in modo fosco il processo.
Tanto più che partirà solo da 30 ottobre l'elemento essenziale del meccanismo: l'inserimento dei posti disponibili nelle amministrazioni. Se i posti, quantitivamente o qualitativamente (c'è il problema dell'assorbimento delle qualifiche dirigenziali e dei funzionari di categoria D), non saranno sufficienti, l'intero sistema rischia di restare impantanato.
Occorrerà poi capire cosa succede ai dipendenti delle province, adibiti a funzioni non fondamentali che le regioni decidano restino alle province stesse: il Veneto, ad esempio, sta approvando una legge di riordino che lascia integralmente alle province le funzioni non fondamentali. Tecnicamente, allora, il personale provinciale non potrebbe considerarsi in sovrannumero e non dovrebbe essere nemmeno caricato sulla piattaforma di incontro domanda/offerta (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015).

APPALTI: Codice appalti, una rivoluzione. Sparisce il regolamento, sostituito da linee guida Anac-Mit. Nuove funzioni per le stazioni appaltanti, apertura al mercato con affidamenti in house al 20%.
Nuove funzioni per le stazioni appaltanti, predisposizione di soft law di intesa Anac-ministero infrastrutture al posto del regolamento attuativo, valorizzazione e centralità del progetto.
Sono queste le linee fondamentali sulle quali si muove il testo del ddl delega sugli appalti pubblici
(Atto Camera n. 3194) approvato la scorsa settimana dalla commissione ambiente della camera che a breve sarà esaminato dall'aula.
Fra le diverse novità apportate vi è in primo luogo il cambio di impostazione dell'intera operazione normativa, con il recepimento delle direttive europee su appalti e concessioni da realizzare entro la scadenza del 18.04.2016, con la successiva messa a punto del nuovo codice entro il 31.07.2016.
Viene poi prevista l'eliminazione del regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici che verrà sostituito da linee guida predisposte di intesa fra Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e ministero delle infrastrutture (Mit) (e su questo aspetto occorrerà approfondire bene la forma giuridica di questa «soft law» e il grado di vincolatività delle stesse).
Molto profondo è l'intervento che il testo varato in commissione compie sul ruolo delle stazioni appaltanti, visto che il testo chiarisce che il nuovo codice dovrà prevedere che le amministrazioni siano indirizzate verso le attività di programmazione e controllo. Conseguentemente nel testo varato in commissione si prevede che l'incentivo non possa essere concesso per la progettazione.
Ma è sul fronte della disciplina della progettazione che vi sono i maggiori contenuti innovativi del testo che già al senato aveva visto una particolare attenzione a questa fase procedurale. Importante è l'accenno previsto nel testo varato in commissione alla piena accessibilità, visibilità e trasparenza, anche in via telematica, degli atti progettuali, «al fine di consentire un'adeguata ponderazione dell'offerta da parte dei concorrenti».
Ma è sul piano della qualità, a partire dal richiamo ai concorsi di progettazione, per arrivare all'eliminazione del criterio del massimo ribasso per le gare di progettazione, già inserito oggi nel dpr 207/2010 ma spesso eluso soprattutto per gli affidamenti di direzione lavori, che si dà un segnale importante alle stazioni appaltanti e agli operatori del settore.
Non da poco è poi la fortissima limitazione degli appalti integrati che saranno possibili soltanto ponendo a base di gara il progetto definitivo (non più quindi il preliminare con il definitivo presentato in gara da tutti i concorrenti) e l'affermazione della regola generale per cui i lavori devono essere appaltati sulla base del progetto esecutivo (l'eccezione è la presenza di componenti innovative e tecnologiche per più del 70% e l'appalto di opere puntuali; in questi casi è possibile l'appalto integrato).
A questa limitazione dell'appalto integrato, che creerà certamente un maggiore mercato per i progettisti, vanno aggiunti gli interventi finalizzati a favorire l'uso del cosiddetto «débat pubblic», strumento di democratizzazione del percorso di realizzazione delle opere pubbliche, e si ha così un'idea del netto rafforzamento della fase progettuale che mira anche a ridare dignità al progetto e al progettista.
C'è poi la nuova disciplina degli affidamenti in house dove si è trovato un primo punto di equilibrio sull'obbligo di terziarizzazione che passa dal 100% delle attività, all'80% (l'in house sarà possibile per il 20%). Per i lavori si tratta di un incremento del ricorso al mercato del 20% in più rispetto al regime attuale, per servizi e forniture, invece, si tratta di una vera e propria rivoluzione visto che ad oggi non esiste alcun obbligo di affidare a terzi (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: P.a. sentinelle antiriciclaggio. Le amministrazioni invieranno le segnalazioni all'Uif. Pubblicato in G.U. il decreto con gli indici di anomalia per le operazioni sospette.
Segnalazioni antiriciclaggio al debutto nelle pubbliche amministrazioni. Arrivano, con il decreto dell'Interno del 25 settembre, in Gazzetta Ufficiale n. 233 di ieri, gli indicatori di anomalia per individuare le operazioni sospette da parte degli uffici della pubblica amministrazione e inoltrarle all'Uif (unità di informazione finanziaria).
Gli enti (già tenuti per legge alle segnalazioni ma finora largamente inoperosi) dovranno individuare al loro interno la figura del gestore che riceverà le informazioni rilevanti ai fini delle operazioni sospette.
In particolare, per gli enti locali con popolazione inferiore a 15 mila abitanti sarà possibile individuare un gestore in comune ai fini dell'adempimento dell'obbligo di segnalazione delle operazioni sospette.
La finalità degli indicatori di anomalia, si legge nel decreto, è quella di «ridurre i margini di incertezza connessi con le valutazioni soggettive e hanno lo scopo di contribuire al contenimento degli oneri e al corretto e omogeneo adempimento di segnalazione».
Nel provvedimento si spiega che la mera ricorrenza di un comportamento non è motivo di per sé per far scattare la segnalazione per la quale è comunque necessaria una valutazione effettiva.
Gli operatori trasmettono la segnalazione all'Uif quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per individuare la presenza di operazioni di riciclaggio. Le valutazione potranno prendere spunto ad esempio, dall'uso elevato del contante, dai settori interessati all'erogazione di fondi pubblici come quelli relativi ad appalti e sanità, rifiuti o fonti rinnovabili. Non dovranno essere segnalate le violazioni della normativa sulla circolazione del contante.
Una specifica indicazione è fornita per quanto riguarda le operazioni e i comportamenti svolti nei settori dei controlli fiscali, degli appalti e dei finanziamenti pubblici. Dovranno «essere valutati sulla base degli elementi di anomalia indicati per ciascun settore e dei seguenti criteri (...): incoerenza con l'attività o il profilo economico patrimoniale del soggetto cui è riferita l'operazione; assenza di giustificazione economica; inusualità, illogicità, elevata complessità o significativo ammontare dell'operazione».
La strada della segnalazione dell'operazione sospetta è autonoma e parallela all'eventuale segnalazione in procura, qualora siano riscontrati profili di reato.
Gli indicatori di anomalia non rappresentano un quadro statico ma, come spiega lo stesso decreto, il provvedimento sarà aggiornato periodicamente per l'integrazione degli indicatori di anomalia per l'individuazione delle operazioni sospette (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Anagrafi collegate. Certificati, rilascio in ogni ente. Circolare del Viminale sulle novità del dpr 126/2015.
Novità in arrivo per l'anagrafe della popolazione residente. I certificati anagrafici potranno essere rilasciati anche in comuni diversi da quello di residenza; vi sarà l'obbligo di identificazione del cittadino richiedente ed, inoltre, l'accesso ai dati contenuti nelle anagrafi di tutti i comuni sarà disciplinato con i principi stabiliti dal codice sulla protezione dei dati personali.

È quanto precisa la circolare 02.10.2015 n. 12/2015 emanata dalla Direzione centrale per i servizi demografici del Mininterno, con cui si forniscono alcune puntuali indicazioni alle novità introdotte dal dpr n. 126 del 17/07/2015 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 agosto scorso. Novità che si sostanziano nell'istituzione, presso il Viminale, dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) che subentra all'Indice nazionale delle anagrafi, all'Aire e, con gradualità, alle anagrafi della popolazione residente e dei cittadini italiani residenti all'estero, tenute dai comuni.
L'ottica è quella del superamento della dimensione locale delle anagrafi e la circolare sintetizza alcune delle modifiche apportate.
Tra queste, il superamento del concetto di comune di iscrizione anagrafica che viene sostituito da quello di comune di residenza, eliminando, al contempo, i riferimenti al comune di iscrizione Aire. Si introduce, poi, la cosiddetta mutazione anagrafica, ovvero quando si concretizza il trasferimento da altro comune o dall'estero del cittadino.
Inoltre, la circolare sottolinea come adesso il regolamento preveda che i certificati anagrafici siano rilasciati anche dagli ufficiali di anagrafe diversi da quello in cui risiede il cittadino richiedente. In aggiunta, viene previsto l'obbligo di identificazione del soggetto richiedente e la disciplina dell'accesso dell'interessato ai propri dati contenuti nell'Anpr, effettuabile presso gli uffici anagrafici di tutti i comuni, secondo i dettami del dlgs n. 196/2003.
In conclusione, la circolare del Viminale, nel sottolineare la enorme portata delle modifiche apportate dal regolamento e stante la gradualità del passaggio dalle anagrafi comunali a quella unitaria, invita tutti i comuni a procedere al citato subentro, senza arrecare disagio ai cittadini. Infatti, i comuni ancora «fermi» devono osservare tutti gli adempimenti anagrafici relativi alla vecchia regolamentazione, così come quelli che riguardano congiuntamente un comune transitato in Anpr che uno non ancora transitato (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2015).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, più severe le sanzioni. Sul lavoro.
Costerà più caro non rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Il dlgs n. 151/2015 (disposizioni di razionalizzazione e di semplificazione di procedure e adempimenti a carico di cittadini e di imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità), in attuazione della legge n. 183/2014 (Jobs act), infatti, arricchisce di nuove previsioni l'impianto sanzionatorio del T.U sicurezza.

A spiegarlo, tra l'altro, la circolare n. 19/2015 della Fondazione studi dei consulenti del lavoro.
Più precisamente, vengono individuate una serie di disposizioni la cui violazione determina il raddoppio dell'importo della sanzione, qualora la violazione riguardi più di cinque lavoratori o addirittura una triplicazione dell'importo, qualora la violazione si riferisca a più di dieci lavoratori.
La nuova previsione si riferisce alle seguenti violazioni:
a) mancato invio dei lavoratori alla visita medica periodica e mancata richiesta al medico competente dell'osservanza degli obblighi previsti a suo carico. La sanzione prevista è solo quella dell'ammenda da 2.000 a 4.000 euro;
b) mancata o inadeguata formazione del lavoratore in materia di salute e sicurezza lavoro. La sanzione prevista è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro;
c) mancata o inadeguata formazione di dirigenti e preposti in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. La sanzione prevista è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro;
d) mancata o inadeguata formazione dei lavoratori incaricati dell'attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza. La sanzione prevista è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro;
e) mancata o insufficiente formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sul lavoro. La sanzione prevista è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro (articolo ItaliaOggi del 07.10.2015).

CONDOMINIOIl calore disperso va nelle spese. Il «consumo involontario» va computato con la tabella millesimale.
Contabilizzazione. Oltre a quanto risulta dai radiatori ci sono i costi per manutenzione e tecnici.

Con i nuovi contabilizzatori di calore, chi paga per i costi non direttamente riconducibili al consumo volontario? Di questo dubbio si è discusso al convegno organizzato da Ambasciata di Danimarca, Unicasa e Anap lo scorso mercoledì a Milano.
La questione nasce con il Dlgs 102/2014, che all’articolo 9, comma 5, recependo la direttiva 2012/27/Ue, ha reso obbligatoria, per i condomìni riforniti da una fonte di riscaldamento o raffreddamento centralizzata, l’installazione, entro il 31.12.2016, di sistemi di controllo e di contabilizzazione del calore, per misurare il consumo individuale di ogni singola unità immobiliare.
Il decreto ha poi imposto l’ulteriore obbligo di suddividere tra i condòmini le spese connesse al consumo del calore in relazione: 1) agli effettivi prelievi volontari di energia termica, 2) ai costi generali di manutenzione dell’impianto secondo quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200. Dato che si tratta di materia soggetta alla legislazione concorrente fra Stato e Regioni, la normativa è stata accompagnata da norme regionali.
Va ricordato che queste norme, essendo dettate a tutela di un interesse pubblico nazionale, e anche sovranazionale, sono imperative, assolutamente inderogabili, e ogni negozio giuridico in violazione delle stesse è radicalmente nullo.
Ciò posto, l’amministratore, per adempiere agli obblighi di legge entro il 31.12.2016, dovrà sottoporre alla delibera dell’assemblea l’affidamento dell’incarico al progettista per la redazione del progetto e della relazione tecnica, nonché l’esecuzione dell’intervento medesimo. Trattandosi di interventi per l’adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore, ai sensi dell’articolo 28 della legge 10/1991, essi possono essere deliberati con la maggioranza prevista dall’articolo 1120 del Codice civile o con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio. Se, però, l’assemblea non raggiungesse il quorum deliberativo, e tenuto conto del carattere imperativo delle norme, qualunque condòmino sarebbe legittimato a ricorrere alla magistratura per ottenere l’esecuzione d’ufficio dei lavori previsti dalla legge.
La norma ha effetti di grande rilievo anche sulle modalità di riparto delle spese, che dovranno essere addebitate, per una parte, in base agli effettivi prelievi volontari di ogni condomino, rilevati dai contabilizzatori; per un’altra parte, in base ai costi generali di manutenzione determinati secondo la norma Uni 10200 e, quindi, addebitati sulla base dei millesimi di riscaldamento, calcolati sempre, secondo la stessa norma Uni; il tutto sulla base di un’ulteriore relazione predisposta da un tecnico abilitato.
Nel concetto di spese di manutenzione sono da comprendersi le manutenzioni ordinarie, le piccole riparazioni, i costi del tecnico abilitato alla conduzione e del terzo responsabile. In tale ambito dovrebbero, però, essere ricompresi anche i costi collegati ai cosiddetti consumi involontari, ovvero le dispersioni, che la norma Uni 10200 prevede ma che, apparentemente, non troverebbero collocazione nelle modalità di riparto previste dall’articolo 9, comma 5, del decreto in esame.
Anche la norma Uni 10200 è divenuta, per effetto del suo recepimento nella legge dello Stato, norma imperativa non derogabile. Ogni delibera assunta in violazione della disciplina è nulla, con la possibilità di impugnazione senza limiti di tempo. I nuovi criteri di ripartizione quindi prevarranno sui regolamenti condominiali, anche se contrattuali, e sulle relative tabelle millesimali.
Sono nulle anche le deliberazioni fondate su ripartizioni dei costi che abbiano introdotto “criteri correttivi” (connessi all’impatto delle dispersioni) nella individuazione dei consumi addebitabili ai singoli utenti, dato che tale meccanismo non è previsto dalla norma Uni 10200. E quelle che abbiano individuato quote fisse “forfettarie” una da addebitare secondo i consumi, l’altra secondo le tabelle millesimali
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARICaldaie, calendario mobile per il controllo dei fumi. Ogni Regione può dettare le tempistiche per le verifiche.
Efficienza energetica. Percorsi diversificati rispetto a quelli per la sicurezza impianti.

Il meccanismo ricorda quello delle automobili. Come per una vettura scatta l’obbligo di un tagliando, così per la caldaia a gas che molti hanno in casa (condominiale o a servizio di un solo appartamento) è necessario effettuare una manutenzione periodica, secondo le modalità e le tempistiche indicate dal produttore. Questo per non trascurare la sicurezza e per non disattendere quanto previsto dalle regole di garanzia dell’apparecchio.
C’è però una seconda verifica da effettuare, a carico di chi abita l’immobile. Per gli impianti termici occorre, infatti, effettuare periodicamente il “controllo dei fumi” (cioè dell’efficienza energetica del sistema) ed è necessario pagare un onere (il cosiddetto «bollino blu») e inviare, per tramite di un tecnico abilitato, un rapporto all’ente locale di riferimento che certifichi l’avvenuta verifica.
A dettare i tempi, in questo caso, non sono i produttori come per la sicurezza, ma è la legge: statale o regionale o, in alcuni casi, con indicazioni a livello locale.
Gli obblighi
Il controllo di efficienza energetica delle caldaie è stato introdotto la prima volta con la legge 10/1991. Riguarda –dopo le modifiche apportate due anni fa con il Dpr 74/2013- tutti gli impianti termici alimentati non da fonte rinnovabile e con una potenza sopra i 10 kW e serve a verificare che l’efficienza energetica del sistema sia ancora quella dichiarata in fase di collaudo. Il controllo deve essere effettuato da tecnici abilitati, ma spetta all’iniziativa di chi vive in casa, proprietario o inquilino.
Per i condomìni, responsabile è l’amministratore o la persona da questi delegata. Agli stessi soggetti spetta anche l’aggiornamento del libretto della caldaia, cioè quel documento che contiene tutte le informazioni del sistema dalla sua prima accensione.
A livello nazionale, per le caldaie fra i 10 e i 100 kW, il controllo deve scattare ogni quattro anni, come scritto nel Dpr 74/2013 e si conclude con l’invio in autocertificazione (questo passaggio lo esegue il tecnico) del rapporto di controllo. Ma attenzione: perché in moltissimi territori, nonostante la nuova legge statale, si seguono ancora le vecchie periodicità fissate dal Dpr 551/1999, che prescriveva controlli biennali per gli impianti domestici, o sotto i 35 kW, e annuali per gli altri.
Inoltre, anche le Regioni che hanno recepito negli ultimi mesi il Dpr 74, l’hanno fatto spesso in modo non lineare (si veda la tabella a fianco). In Toscana, ad esempio, il rapporto ha una scadenza quadriennale per i sistemi fino a 100kW, ma solo se la caldaia è posta in locali non abitati e ha meno di otto anni di vita. Altrimenti l’obbligo scatta ogni due anni.
I costi
Il compito di stabilire importi e modalità di erogazione di bollini (e degli oneri di ispezione) è lasciato agli enti locali. Il risultato è una situazione tariffaria eterogenea. Non solo fra una Regione e l’altra, ma anche all'interno di uno stesso territorio.
Si va dalla completa gratuità del Piemonte (unico caso in Italia) ai 25 euro stabiliti in talune aree della Puglia per le caldaie sotto i 35 kW mentre per impianti di taglia superiore si superano anche i 300 euro, sempre in Puglia. Fino ai paradossi più estremi: a Roma vigono dieci tariffe diverse per il bollino a seconda di dieci fasce di potenza degli impianti predeterminate.
Anche dal punto di vista fiscale la situazione non è omogenea. Alcuni enti sottopongono ad Iva il bollino pur essendo stato ampiamente chiarito dall’agenzia delle Entrate che questa somma non è soggetta a questa imposta(Risoluzione 186/E del 06.12.2000).
La sostituzione
Dal 26 settembre è scattata anche in Italia la direttiva europea Ecodesign n. 2009/125/Ce. La norma mette fuori produzione le caldaie convenzionali a camera stagna, imponendo quelle a condensazione. Ma le vecchie caldaie potranno ancora essere vendute: sconti troppo marcati potrebbero pertanto nascondere, nei prossimi mesi, lo smercio (peraltro legittimo) di prodotti di vecchia generazione.
Per effetto del regolamento n. 66/2010 («Ecolabel»), chi installa un nuovo impianto o integra una caldaia a condensazione esistente con nuovi sistemi ad efficienza energetica dovrà inoltre verificare il rilascio, da parte del tecnico che esegue i lavori, dell’etichettatura (anche di sistema) prevista.
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Ispezioni a campione con sanzioni elevate. Costi. Le tariffe variano molto a livello locale.
Manutenere la caldaia o mettersi in regola e inviare l’autocertificazione all’ente che raccoglie a livello locale i dati sugli impianti presenti nel territorio è un obbligo di legge: chi trasgredisce rischia sanzioni, anche salate.
Le verifiche scattano a campione: le prime caldaie a finire sotto la lente di ingrandimento sono quelle per cui risulta assente (nel cervellone delle banche dati locali) il pagamento periodico del bollino blu e l’invio del rapporto di controllo.
Per chi viene trovato non in regola, scatta innanzitutto un onere di ispezione, con importi variabili a seconda della località in cui è ubicata l’unità immobiliare. A questo, se il sistema risulta anche fuori norma, occorre aggiungere il costo di un tecnico abilitato, che ripristini una situazione di regolarità.
La responsabilità di raccogliere i rapporti di controllo (creando un catasto, che solo in quattro Regioni tuttavia è attivo, anche se esistono altre banche dati a livello provinciale e comunale) e di disporre le verifiche a campione, ricade in genere sulle Province e sui Comuni sopra i 40mila abitanti. A loro volta, questi enti sono supportati da agenzie per l’energia o società in house. Non mancano eccezioni.
La Provincia e il Comune di Isernia hanno, ad esempio, affidato l’attività direttamente a una società misto pubblico-privata che vede all’interno della compagine sociale anche tecnici manutentori (cioè coloro il cui operato dovrebbe essere oggetto di verifica). Il Comune di Fasano –che non arriva a 40mila abitanti- ha affidato i controlli ad una società privata, dimenticandosi che il compito spetterebbe alla Provincia di Brindisi. Quest’ultima, a sua volta, ha provveduto a dare l’incarico a un proprio ente. Risultato: in due operano su uno stesso bacino.
Come per il bollino blu, il compito di stabilire importi e oneri di ispezione è stato lasciato, agli enti locali. Il risultato è una babele di cifre: la forbice va dai 42 a 200 euro per gli impianti domestici e dai 50 ad oltre mille euro per gli impianti più grandi. In alcune Regioni, la situazione è stata però semplificata, con una tariffa unica a livello regionale. Che in Liguria va dai 150 euro per gli impianti domestici ai 250 per quelli condominiali, fino a 350/400 euro per i grandi condomini. Decisamente meno salato l’onere imposto nelle Marche: dove si va da 80 a 110 fino a 180/250 euro.
Il cittadino che non fa fare la manutenzione nei tempi stabiliti (dall’installatore ovvero dal manutentore, perché la legge affida a loro questo compito) è passibile di sanzione come (articolo 15 del Dlgs 192/2015) fissata fra i 500 e i 3mila euro. Nel caso d’ispezione su impianto non autocertificato (che per forza di cose dovrebbe risultare anche non manutenuto) l’utente rischia dunque anche questa ammenda. Tuttavia, solo molto di rado, è stata applicata questa disposizione. Al contrario, a carico dell’utente resta il costo del tecnico abilitato che deve essere chiamato per rimettere in regola la caldaia.
 
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Per i costi dell’impianto si segue il criterio dei millesimi. Valvole termostatiche, il riparto tiene conto di consumi e quota fissa.
Nel nostro condominio abbiamo una vecchia caldaia che, ormai, ha fatto il suo tempo. Dovremmo procedere alla sua sostituzione e, contestualmente, installare le valvole termostatiche e la contabilizzazione. Sono sorte perplessità in assemblea circa i criteri di riparto, in quanto alcuni ritengono che debbano essere utilizzati i millesimi del riscaldamento e non quelli di proprietà.
Non siamo d'accordo nemmeno sulla ripartizione delle spese per la termoregolazione in quanto ad alcuni di noi non sembra giusto dividere per millesimi. Come dobbiamo fare?
L’impianto di riscaldamento non è costituito solamente da quanto vi è in centrale termica. Esso è composto da 4 sottoinsiemi: 1) produzione (caldaia eccetera); 2) distribuzione (pompa di distribuzione e tubazioni); 3) regolazione (valvole termostatiche); 4) emissione (caloriferi).
Il primo e buona parte del secondo punto riguardano beni comuni ai sensi dell'articolo 1117, comma 1, n. 3 del Codice civile. La parte terminale della distribuzione, ovvero dal punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, la regolazione del calore e l'emissione dello stesso sono, invece, di proprietà individuale. L'impianto deve essere considerato sotto due aspetti: esso è sia bene (gli impianti) sia servizio (il calore erogato).
Ciò significa che per ripartire le spese ad esso inerenti occorre fare riferimento a due tabelle millesimali: quella generale e quella del riscaldamento (rispettivamente ai sensi dell'articolo 1123, commi 1 e 2, Codice civile). Le citate tabelle, se contenute in un regolamento avente natura assembleare, devono consistere nella mera applicazione dei criteri legali di spesa. È nulla (impugnabile in ogni tempo, anche da chi ha votato a favore) la delibera che vi deroga istituendo diversi criteri di ripartizione.
È, invece, annullabile (impugnazione entro trenta giorni solo da assenti, contrari ed astenuti) la delibera che, in ciascun rendiconto, dà concreta attuazione ai diversi criteri.
La deroga
Solo il regolamento avente natura contrattuale (firmato da tutti i condomini dopo il venire in essere del condomino oppure allegato al primo atto di vendita e richiamato in tutti i successivi per accettazione) può derogare ai criteri legali di spesa prevedendone altri, per la modifica dei quali occorre il consenso unanime di tutti i condomini.
Solamente nel caso della contabilizzazione del calore, ai sensi del Dlgs 04.07.2014 n. 102 (per quanto attiene al servizio) la modifica dei criteri contenuti nel regolamento contrattuale (in quanto contrari a norma imperativa) può avvenire con la maggioranza dei presenti e almeno la metà dei millesimi.
I costi dell’impianto
In assenza di diversa pattuizione, tutto ciò che è riferito al bene (inteso quale impianto) deve essere ripartito in base alla tabella generale. Ci si riferisce a tutto ciò che è in centrale termica e alle tubazioni che portano l'acqua calda all'interno delle singole unità immobiliari (sino al punto di diramazione) o nei singoli edifici (in caso di supercondominio).
Occorre tenere presente il cosiddetto “condominio parziale” di cui all'articolo 1123, comma 3, del Codice civile. In tal caso, se un bene (o parte di esso) serve solamente alcuni condomini, solo questi devono essere convocati, deliberano e pagano. Ne consegue che sono esclusi dal pagamento tutti coloro che non sono mai stati serviti dall'impianto.
Per quanto attiene alle tubazioni per la distribuzione del calore, pagheranno solo quei condomini che da quella tubazione sono serviti. Con la stessa tabella vanno ripartiti il compenso del professionista e tutte le spese di manutenzione straordinaria. Ciascun condomino, invece, dovrà pagare le opere eseguite all'interno della sua unità immobiliare (sostituzione o manutenzione dei caloriferi, le valvole termostatiche e i ripartitori).
Le spese per il calore
Diverso è, invece, il caso della ripartizione delle spese afferenti il servizio (erogazione del calore). In assenza di contabilizzazione del calore e di diversa indicazione contenuta nel regolamento contrattuale, la spesa deve essere ripartita sulla base della superficie radiante deputata al riscaldamento di ciascuna unità immobiliare (Cassazione, 26.01.1995, n. 946).
In presenza, invece, di contabilizzazione, ai sensi del Dlgs 04.07.2014 n. 102, articolo 9, comma 5, lettera d), la spesa per il riscaldamento va ripartita sulla base dei consumi effettivi. Tale voce va divisa in due sottovoci. Vi è anzitutto la quota a consumo, che va calcolata sulla base degli effettivi prelievi volontari di energia termica utile (quindi il solo calore prelevato da ciascun termosifone senza calcolare le dispersioni verso l'esterno o gli ambienti confinanti).
L'altra sottovoce è composta dalla spesa per potenza termica impegnata (la cosiddetta quota fissa). Essa comprende il costo che deve necessariamente essere sopportato per portare l'acqua calda all'ingresso di ciascuna unità immobiliare. Tale quota è composta dalle dispersioni di calore nelle tubazioni, dalla manutenzione ordinaria, dal compenso per l'eventuale terzo responsabile, dal costo dell'energia elettrica necessaria per il funzionamento dell'impianto.
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Caldaie, un’eccezione lo scarico a parete. Gas combusti. La regola è l’eliminazione dal tetto.
Nel condominio in cui abito è sorta una discussione piuttosto animata sulla possibilità di installare una caldaietta autonoma senza realizzare lo scarico sul tetto, ma limitandosi a far uscire i fumi dalla parete.
A sostenere questa possibilità, lamentando non meglio precisati «motivi tecnici» avanzati dalla ditta che eseguirà l’installazione, è un condomino che ha acquistato un appartamento nell’edificio e sta procedendo con una ristrutturazione integrale con contestuale sostituzione dell’impianto termoautonomo.
L’argomento in effetti è controverso. L’espulsione dei gas combusti può generare controversie e discussioni, anche perché non è sempre chiaro cosa possano (o non possano) fare i proprietari dei singoli appartamenti in condominio. Va detto subito che, normalmente, i gas devono essere convogliati oltre la sommità del tetto, salvo casi particolari.
Il punto di partenza è il decreto legislativo 04.07.2014, n. 102, che ha ridisegnato le regole per lo scarico a parete dei generatori di calore a gas. Regole che, a loro volta, erano state già recentemente modificate dalla legge 03.08.2013, n. 90. In sostanza, dal 31.08.2013 -termine fissato dalla legge 90 appena citata- qualsiasi tipologia di installazione ha il vincolo di dover condurre al tetto i fumi della combustione, mediante camini, canne fumarie, condotti di scarico. Questo vale sia per le nuove installazioni che per le «mere sostituzioni» di impianti esistenti.
Ci sono però alcune deroghe che consentono lo scarico dei fumi all’esterno di una parete. Ed è proprio su queste deroghe che in ambito condominiale spesso si concentrano le discussioni maggiori. Può essere utile, allora, ripercorrere passo a passo l’elenco delle deroghe contenuto nella normativa, come ha fatto il Centro studi Anaci Padova - Settore impianti, per i propri associati.
Caldaie:
- sostituzione di una caldaia, di qualsiasi tipo, che già scaricava a parete, con una nuova caldaia a condensazione;
- sostituzione di una caldaia a camera aperta, a tiraggio naturale, che scaricava in una canna fumaria collettiva ramificata condominiale, con una nuova caldaia a condensazione;
- installazione in edifici storici o sottoposti a norme di tutela;
- impossibilità tecnica di andare a tetto con lo scarico fumi, asseverata da un professionista abilitato.
Scaldabagni:
- sostituzione di uno scaldabagno, di qualsiasi tipo, che già scaricava a parete, con un nuovo scaldabagno a condensazione;
- sostituzione di uno scaldabagno a camera aperta, a tiraggio naturale, che scaricava in una canna fumaria collettiva ramificata condominiale, con un nuovo scaldabagno a condensazione;
- installazione in edifici storici o sottoposti a norme di tutela;
- impossibilità tecnica di andare a tetto con lo scarico fumi, asseverata da un professionista abilitato.
Inoltre, dal 19.07.2014, a queste eccezioni si aggiungono altri due casi in cui è consentito lo scarico a parete.
Caldaie:
- installazione di apparecchi a condensazione, nell’ambito di ristrutturazioni di impianti termici individuali già esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella versione iniziale non dispongano già di camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio, funzionali e idonei o comunque adeguabili alla applicazione dei generatori;
- installazione di uno o più generatori ibridi compatti, composti almeno da una caldaia a condensazione a gas e da una pompa di calore, dotati di specifica certificazione di prodotto.
Scaldabagni:
- installazione di apparecchi a condensazione, nell’ambito di ristrutturazioni di impianti termici individuali già esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella versione iniziale non dispongano già di camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio, funzionali e idonei o comunque adeguabili all’applicazione dei generatori.
Va ricordato, comunque, che lo scarico a parete, fermo restando il rispetto della casistica appena elencata, deve in ogni caso rispettare le distanze minime da aperture, finestre, terrazze e così via indicate nella norma Uni 7129:2008.
Inoltre, si devono sempre verificare i regolamenti comunali, che possono essere più restrittivi delle norme nazionali. In questo caso, oltre alla norma, è utile riscontrare l’interpretazione dello sportello comunale per l’edilizia e la prassi applicativa locale
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Privacy sul lavoro viva e vegeta. Datori di lavoro tenuti a una molteplicità di adempimenti. Dal badge alla denuncia contributiva: strumenti che impongono attenzione e formalità.
Privacy a 360 gradi sugli adempimenti del lavoro. Dal badge aziendale alla denuncia contributiva, infatti, è un continuo tuttofare di pratiche e informative al fine di evitare di violare le regole sulla comunicazione di dati personali.
Per principio generale, infatti, il datore di lavoro può sapere dei lavoratori solamente i dati strettamente indispensabili al rapporto di lavoro (nome, cognome e residenza): nulla di più. E altrettanto devo stare attento a comunicare all'esterno.
Le regole generali. Il trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro, ovviamente, segue i principi e le regole generali in materia di privacy e dettate dal c.d. Codice privacy, il dlgs n. 196/2003. Pertanto, i dati personali oggetto di trattamento vanno:
• trattati in modo lecito e secondo correttezza;
• raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, e utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;
• esatti e, se necessario, aggiornati;
• pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati;
• conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.
I dati personali trattati in violazione di tali regole e principi non possono essere utilizzati.
Le regole sul lavoro. Declinando i principi generali nello specifico ambito dei rapporti di lavoro ne derivano le regole specifiche. Prima regola generale: il datore di lavoro può trattare le informazioni personali dei lavoratori solamente se ciò sia strettamente indispensabile all'esecuzione del rapporto di lavoro. Pertanto, «informarsi» speculativamente sulla personalità dei propri collaboratori (preferenze, tendenze, usi, costumi ecc.) è vietato.
Perché (anche) sul luogo di lavoro va assicurata la tutela dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone (a partire dai lavoratori), garantendo la sfera della riservatezza nelle relazioni personali e professionali.
Le informazioni personali che vengono trattate possono riguardare, oltre a quelle strettamente legate all'attività lavorativa, la sfera personale e la vita privata dei lavoratori (ad esempio, i dati sulla residenza e i recapiti telefonici) e terzi (ad esempio, i dati relativi al nucleo familiare per garantire determinate provvidenze, come l'assegno per il nucleo familiare).
In tal caso è rispettato un altro principio che vuole che il trattamento di dati personali, anche sensibili, riferibili a singoli lavoratori è lecito se è finalizzato ad assolvere obblighi derivanti dalla legge, dal regolamento o dal contratto individuale (ad esempio, per verificare il corretto adempimento della prestazione o commisurare l'importo della retribuzione).
I trattamenti di dati personali devono poi rispettare il principio di necessità, secondo cui i sistemi informativi e i programmi informatici devono essere configurati riducendo al minimo l'utilizzo delle informazioni personali e identificative. Inoltre, va rispettato il principio di correttezza, secondo il quale le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori. Ancora i trattamenti devono essere effettuati per finalità determinate, esplicite e legittime in base ai principi di pertinenza e non eccedenza.
Il trattamento di dati personali può avvenire per mano diretta del datore di lavoro o per mezzo di suoi dipendenti. Nel secondo caso, quando cioè i dati vengono trattati dal personale incaricato, vanno assicurate idonee misure di sicurezza per proteggerli da intrusioni o divulgazioni illecite. Ovviamente, il trattamento può avvenire esclusivamente dal personale debitamente incarico dal datore di lavoro.
I badge di riconoscimento. A chi è capitato di entrare in un ufficio postale avrà notato, appeso sulla giacca dell'impiegato/a, un'etichetta su cui è indicato un nome e un numero: è il badge personale del lavoratore, cioè un cartellino che lo identifica nell'ambito dell'organizzazione aziendale.
È lecito il badge ai fini della privacy? Sì, è lecito. Tuttavia, ha avvertito il Garante, può essere eccessivo riportare per esteso tutti i dati anagrafici o le generalità complete del dipendente: a seconda dei casi, allora, ci si può accontentare di un codice identificativo (in genere è la matricola aziendale) o del solo nome o del solo il ruolo professionale.
Le comunicazioni ai sindacati. Non è lecito, invece, il comportamento del datore di lavoro che, senza avvertirli, dia informazioni dei lavoratori ai sindacati. In ambito di lavoro privato, infatti, al fine di comunicare informazioni sui lavoratori alle associazioni di datori di lavoro, ex dipendenti o conoscenti, familiari, parenti occorre il consenso dell'interessato. In ambito di lavoro pubblico, addirittura, è richiesto che vi sia una norma di legge o di regolamento.
Bacheche aziendali. Stesso discorso vale per le informazioni, sindacali e non, pubblicate nelle bacheche aziendali, sui cui generalmente vengono affissi gli ordini di servizio, i turni lavorativi o feriali e molte altri dati e informazioni relativi all'organizzazione aziendale.
Infatti, non si possono affiggere i documenti strettamente inerenti ai lavoratori quali, ad esempio, quelli contenenti gli emolumenti percepiti, le sanzioni disciplinari applicate, le motivazioni delle assenze (malattie, permessi, congedi ecc.), l'eventuale adesione a sindacati o altre associazioni.
Pubblicazioni sui siti web e reti interne. Occorre il consenso dell'interessato anche per pubblicare informazioni personali (foto, curricula) nella intranet aziendale e, a maggior ragione sulla rete internet, nell'ambito di lavoro privato. In ambito di lavoro pubblico, le pubbliche amministrazioni possono mettere a disposizione sui siti web istituzionali atti e documenti amministrativi (in forma integrale o per estratto, ivi compresi gli allegati) contenenti dati personali, solo se la normativa di settore preveda espressamente tale obbligo.
Anche in tal caso, tuttavia, il datore di lavoro pubblico deve comunque selezionare i dati personali da inserire negli atti e documenti da pubblicare, evitando di divulgare dati eccedenti o non pertinenti, verificando caso per caso che qualora ricorrano determinate informazioni esse siano oscurate dagli atti e documenti destinati alla pubblicazione.
Ciò perché i soggetti pubblici devono ridurre al minimo l'utilizzo di dati identificativi e di tutti gli altri dati personali ed evitare il relativo trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante dati anonimi o altre modalità che permettano di identificare l'interessato solo in caso di necessità.
Invece non è assolutamente possibile la pubblicazione (è vietata!) di qualsiasi dato e informazione da cui si possa desumere lo stato di malattia o l'esistenza di patologie di soggetti, compreso qualsiasi riferimento alle condizioni d'invalidità, disabilità o handicap fisici o psichici (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

VARI: Imprese virtuose ecocertificate. Premiata l'attenzione ai prodotti e alle aspettative green. Dal 15 settembre è in vigore il nuovo sistema di gestione ambientale Iso 14001:2015
Attenzione alle prestazioni ecologiche dei prodotti nell'intero loro ciclo di vita, risposta alle aspettative green di clienti e contesto esterno, valutazione delle macro problematiche ambientali come cambiamenti climatici, scarsità delle risorse e declino del capitale naturale.

Questi i requisiti che, oltre al rispetto delle prescrizioni di Legge, le aziende che vorranno fregiarsi della nuova certificazione ambientale volontaria Iso 14001:2015 dovranno dimostrare agli organismi competenti.
Le strutture già certificate in base all'edizione 2004 dello standard di gestione ambientale dovranno invece adeguarsi ai nuovi parametri pubblicati dall'International Organization for Standardization lo scorso 15 settembre entro i prossimi tre anni.
Le principali novità dell'edizione 2015. Al centro del rinnovato sistema di gestione ambientale, il concetto di sostenibilità, principio e valore che dovrà informare non solo lo svolgimento dell'attività interna dell'organizzazione, ma soprattutto quella esterna, coincidente con i prodotti forniti. Ciò anche in linea con il trend, affermatosi in questi ultimi anni, di considerare la tutela ambientale come un'opportunità per le imprese di migliorare il business.
L'Iso 14001:2015 chiede innanzitutto alle aziende di considerare l'intero ciclo di vita dei propri beni e servizi, dunque di determinarne gli aspetti ambientali di ogni fase: dall'acquisto delle materie prime alla loro gestione a fine vita, passando per progettazione, produzione, trasporto, consegna e utilizzo.
Questo secondo una rinforzata logica di transizione concettuale dalla gestione in senso verde dell'attività produttiva interna al miglioramento delle proprie prestazioni ambientali oltre i confini del sito aziendale.
Ancora, le imprese dovranno dimostrare maggior interazione con clienti, comunità locali, autorità di regolamentazione, organizzazioni non governative al fine di comprenderne esigenze ed aspettative (come ad esempio, la riduzione del quantitativo dei rifiuti) ed integrarle, per quanto possibile, nel proprio sistema di gestione ambientale con valenza di «obblighi di conformità» (come, ad esempio, l'obiettivo di aumentare il novero dei beni a fine vita ritirati direttamente).
Al centro della nuova gestione ambientale dovrà altresì esservi un'ampia visione del contesto in cui si opera, comprensiva, oltre agli effetti dell'organizzazione sull'ambiente, anche dell'impatto generato dall'ambiente sull'organizzazione. Ampio coinvolgimento, domanda la nuova Iso, anche in relazione al «top management» dell'azienda, che dovrà essere in grado di integrare la visione ambientale in tutti i processi dell'organizzazione, partecipando attivamente sia alla prevenzione dell'inquinamento che alla protezione dell'ecosistema.
Il sistema di gestione ambientale. L'Iso 14001 coincide con l'insieme di requisiti cui deve rispondere il sistema di gestione ambientale (c.d. «sga») di una organizzazione collettiva (pubblica o privata), quale parte del più generale sistema che regola il funzionamento della struttura e finalizzata a garantirne l'attività in modo da attenuare gli effetti negativi sull'ecosistema.
Le novità dell'esordiente standard 2015 si innestano, conservandone l'impianto, sul modello di miglioramento continuo previsto dell'edizione 2004 (noto come «Ciclo di Deming» e) costituito da quattro fasi: pianificazione (nella quale si identificano le problematiche ambientali legate all'attività e si individuano strumenti e mezzi per risolverli o attenuarne la portata, compreso il rispetto delle norme cogenti in materia); attuazione (della politica ambientale così definita, mediante risorse e procedure necessarie); verifica (coincidente con valutazione degli obiettivi raggiunti ed eventuali punti di non conformità); azione (correttiva, al fine di raggiungere gli obiettivi pianificati e di migliorarli continuamente).
Il rispetto da parte dell'organizzazione di tali «requisiti di sistema» è verificato e certificato tramite analisi ambientali condotte da organismi esterni accreditati da Enti nazionali di riferimento.
Il regime di transizione. Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema di certificazione ruota intorno ad un preciso regime transitorio, in base al quale: per i 3 anni successivi alla data di pubblicazione della nuova Iso 14001 (avvenuta nella citata data del 15.09.2015) saranno valide nuove certificazioni e rinnovi emessi sulla base di entrambe le edizioni della norma (2004 e 2015); dopo tre anni dalla pubblicazione dell'edizione 2015 le certificazioni fondate sulla versione 2004 saranno revocate.
La data di scadenza delle certificazioni Iso 2004 emesse durante il periodo transitorio corrisponderà alla cessazione di questo e le nuove certificazioni Iso 2015 potranno essere rilasciate solo da organismi di certificazione in merito accreditati dall'Ente nazionale di riferimento.
I vantaggi per i soggetti certificati. Oltre al ritorno in termini d'immagine e alle connesse prospettive di entrata in nuovi mercati, la certificazione Iso permette anche positivi riflessi sul piano degli adempimenti di legge.
In relazione alla gestione dei rifiuti, il Codice ambientale (dlgs 152/2006) prevede infatti agevolazioni in sede di rinnovo delle necessarie autorizzazioni: le attività di esercizio impianti così come quelle di raccolta e trasporto rifiuti possono infatti essere condotte nelle more della procedura di rinnovo dei titoli (fino a 180 giorni dalla loro richiesta) dietro semplice autocertificazione da parte dei soggetti certificati in base alla 14001 (articolo 209).
Ancora, alle imprese parimenti certificate è riconosciuta una riduzione del 40% sull'importo dovuto a titolo di garanzia finanziaria all'atto dell'iscrizione all'Albo gestori ambientali per la conduzione di determinate attività (articolo 212).
La presenza di un sistema di gestione della qualità figura inoltre tra i requisiti dei processi di trattamento dei residui, laddove se ne voglia invocare l'idoneità a trasformarli in nuovi beni ai sensi della disciplina Ue sull'«End of waste» (ossia, sulla «cessazione della qualifica di rifiuto», richiamata dall'articolo 184-ter, dlgs 152/2006).
Negli appalti pubblici verdi (c.d. «green public procurement») per l'acquisto da parte della p.a. di determinati beni e servizi, la presenza di certificazioni ambientali d'impresa come l'Iso 14001 è dalle norme in materia (dm Ambiente 11.04.2008) contemplato tra gli strumenti per valutare i potenziali fornitori.
È infine utile ricordare che i sistemi di gestione ambientale, tra cui la stessa Iso 14001, costituiscono una buona base di partenza per la costruzione del «Modello di organizzazione e gestione» da applicare nell'azienda al fine di arginare la responsabilità dell'Ente ex dlgs 231/2001 in caso di reati ambientali ad essa riconducibili. L'identificazione delle problematiche ambientali più significative dell'impresa evidenziate da tali sistemi agevolano infatti la corretta costruzione del citato modello esimente secondo i requisiti imposti dall'articolo 6, comma 2 del citato decreto (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

TRIBUTI: Coltivazioni, la Tari è illegittima. Minambiente.
La tariffa rifiuti urbani è illegittima sui terreni agricoli produttivi di rifiuti speciali o che, in considerazione delle particolari attività svolte, non siano suscettibili di produrre rifiuti. Nella determinazione della superficie assoggettabile alla Tari non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori.

Questo è quanto sostiene il Ministero dell'ambiente, con il parere 25.09.2015 n. 11722 di prot. reso a Coldiretti, con il quale viene chiarita la questione relativa all'applicazione della Tari ai terreni agricoli.
Il caso che ha dato origine al quesito formulato da Coldiretti al ministero dell'ambiente riguardava la delibera del comune di Laives (Bz) circa l'estensione dell'applicazione della tariffa per i rifiuti urbani, indistintamente, a tutti i terreni agricoli, commisurandone l'ammontare all'estensione degli stessi.
In particolare, nell'ambito della delibera di modifica del regolamento comunale in materia di tariffa rifiuti, il comune statuiva di prendere in considerazione, ai fini dell'applicazione della tariffa rifiuti per il settore agricolo, tutte le aziende operanti sul territorio amministrato dal comune di Laives e iscritte nell'anagrafe provinciale delle imprese agricole. Il ministero dell'ambiente ha precisato che, ai sensi della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di Stabilità 2014), «il presupposto della Tari è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani».
I tecnici dell'ambiente hanno chiarito, quindi, come i rifiuti eventualmente derivanti dalle attività svolte su terreni agricoli sono classificati, per legge, come rifiuti speciali e che, quand'anche il comune stabilisca di procedere all'assimilazione di tali tipologie di rifiuti a quelli urbani, è necessario, comunque, assicurare il rispetto delle norme di riferimento che impongono che «l'assimilazione sia limitata a rifiuti speciali non pericolosi ed avvenga per determinate qualità e quantità» (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da www.fiscooggi.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ai revisori tutti i controlli in p.a., enti locali e scuola. Revisori news.
Saranno i revisori legali al centro del monitoraggio contabile e della valutazione sulle performance della p.a. e degli enti locali. Nel dettaglio saranno gli Oiv (Organismo indipendenti di valutazione), istituiti dalla legge Brunetta al centro della misurazione della qualità dell'attività amministrativa, ma dovranno essere composti solo da membri scelti da un elenco ad hoc tenuto dal dipartimento della funzione pubblica. I requisiti per essere iscritti nell'elenco saranno definiti con decreto del ministro delegato per la semplificazione e la p.a. che sarà emanato nelle prossime settimane.

Lo prevede il regolamento che disciplina le nuove funzioni in materia di valutazione delle performance, approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri.
Il dpr che rivede la normativa sulla valutazione dei risultati da parte delle p.a., contenuta nella «riforma Brunetta». Nello specifico, i nuovi Oiv potranno essere in forma monocratica o collegiale (tre componenti) ed entreranno a regime a partire dai rinnovi degli organismi attualmente in vigore che resteranno in carico fino alla naturale scadenza del loro mandato.
Anche nella scuola è previsto un ruolo per i revisori legali: a loro spetterà l'analisi della rendicontazione relativa in particolare alle spese sostenute dai docenti per l'aggiornamento professionale, così come la gestione delle carte elettroniche.
Tutta questa documentazione contabile sarà fatta oggetto di controlli da parte dei revisori dei conti delle istituzioni scolastiche dove prestano servizio i docenti interessati (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it.

PUBBLICO IMPIEGO: Contratti p.a., si apre il tavolo. Madia all'Aran: ridurre i comparti.
Primo passo del governo nella riapertura della trattativa sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Il ministro della pubblica amministrazione, Marianna Madia, ha dato infatti mandato all'Aran per arrivare a un accordo con i sindacati sulla riduzione dei comparti da 11 a 4, in attuazione della riforma Brunetta.
Ora la palla passa all'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle p.a. che dovrà convocare i sindacati per ragionare attorno al delicato tema della riduzione dei comparti senza cui però non si può passare a parlare dell'aggiornamento dei livelli salariali.
Com'è noto la riduzione dei comparti, prevista dalla legge Brunetta del 2009, è rimasta fino ad ora congelata anche perché da allora la contrattazione nel pubblico impiego è rimasta ferma. Il tema è tornato d'attualità dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha sentenziato l'illegittimità «sopravvenuta» del blocco dei contratti pubblici. E con la mossa di ieri il governo ha compiuto il primo passo formale verso la riapertura del tavolo contrattuale anche in vista della sessione di bilancio ormai prossima.
«Siamo pronti a sfidare il governo sull'innovazione contrattuale e organizzativa che meritano i cittadini e che le lavoratrici e i lavoratori pubblici aspettano da troppo tempo», ha commentato Giovanni Faverin, segretario generale della Cisl Fp.
«Sei anni di blocco contrattuale non hanno congelato solo i salari dei dipendenti e professionisti pubblici, ma il cambiamento nel modo di organizzare e gestire i servizi alle comunità. Serve una stagione di vera innovazione pubblica. E per questo bisogna far ripartire la contrattazione nazionale e integrativa. Puntando sulle competenze e le professionalità e costruendo servizi più avanzati, veloci, sostenibili e di qualità» (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI: Protezione civile senza deroghe. Limitato il potere di ordinanza in caso di emergenza.
La riforma contenuta nel ddl delega approvato alla camera. Nuovi obblighi per i comuni.
Limiti alle ordinanze di protezione civile, che dovranno rispettare anche i vincoli della norme Ue; confermata l'organizzazione articolata sul territorio; coordinamento della pianificazione in materia di protezione civile con quella ambientale.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo contenuti nel testo del disegno di legge delega sul riordino e l'integrazione della normativa in materia di protezione civile, che il governo ha approvato il 23.09.2015 alla camera e che fra poco passerà all'esame del senato (Atto Senato n. 2068).
Si tratta di un Testo unificato di tre proposte di legge composto da un solo articolo che delega il governo all'adozione, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, di uno o più decreti legislativi di ricognizione, riordino, coordinamento, modifica e integrazione delle norme vigenti che disciplinano il servizio nazionale della protezione civile e le relative funzioni.
Dal punto di vista organizzativo si imposta la delega su di un sistema policentrico a livello centrale, regionale e locale e attribuzione delle funzioni di protezione civile allo stato, alle regioni, ai comuni, alle unioni dei comuni, alle città metropolitane, agli enti di area vasta e alle diverse componenti e strutture operative del servizio nazionale della protezione civile.
Particolare risalto si dà all'esigenza di raccordo delle attività di pianificazione in materia di protezione civile, svolte ai diversi livelli, con quelle di valutazione ambientale e di pianificazione territoriale nei diversi ambiti e di pianificazione strategica, nonché alla necessità di integrazione del servizio nazionale della protezione civile con la disciplina in materia di protezione civile dell'Unione europea.
Altrettanto rilevante è anche l'indicazione di prevedere meccanismi e procedure di revisione e valutazione periodica dei piani di emergenza comunali.
Il punto centrale attiene alla disciplina dello stato di emergenza e alla previsione del potere di ordinanza in deroga alle norme vigenti, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e della normativa europea. È noto, infatti, come il potere di ordinanza sia stato negli anni scorsi esercitato con grande disinvoltura sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo.
Nel primo caso numerose ordinanze sono andate ben al di là del periodo emergenziale determinato dalla calamità naturale e così hanno dimostrato che l'esigenza cui rispondevano le ordinanze era principalmente quella di eludere il rispetto delle regole ad evidenza pubblica.
Nel secondo caso, l'applicazione del potere di ordinanza anche ai cosiddetti «grandi eventi» ha rappresentato una ulteriore distorsione delle regole di trasparenza e concorrenza che hanno determinato le conseguenze rese note dalle inchieste giudiziarie degli anni scorsi.
Lo stesso presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, evidenziava mesi fa, in audizione al senato sulla delega appalti, che «non c'è grande opera che non preveda una deroga e il nuovo codice le dovrà impedire, oppure dovrà prevedere un regolamento a monte».
Analogo discorso per le ordinanze della protezione civile: «l'idea che attraverso le ordinanze del presidente del consiglio dei ministri si può derogare perfino alla legge fa rabbrividire».
Anche da queste considerazioni, al senato, il testo del ddl delega appalti è stato corretto prevedendo che possano essere emanate ordinanze derogatorie «connesse ad urgenze determinate da calamità naturali, per le quali devono essere previsti adeguati meccanismi di controllo e di pubblicità successiva» (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, mobilità con corsie preferenziali. Pubblico impiego. Precedenze in base a vicinanza e presenza di handicap - Per i sindacati «rischio caos».
Mobilità sì, ma con giudizio. Per non mettere a rischio il limite dei 50 chilometri fissato lo scorso anno (articolo 4, comma 2, del Dl 90/2014), il decreto sui «criteri generali» per la mobilità, pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale, apre una fitta rete di “corsie preferenziali”, destinate a tutelare le categorie deboli e, più in generale, la vicinanza territoriale fra il vecchio e il nuovo posto.
Prima di tutto, ovviamente, la questione riguarda gli "esuberi” delle Province, perché il provvedimento rappresenta l’ultimo (e più importante) tassello per provare ad attuare la riforma.
Più scoperto è il versante regionale, perché 9 Regioni su 15 a Statuto ordinario non hanno ancora approvato il riordino delle funzioni.
In ogni caso, il decreto della Funzione pubblica fissa una doppia griglia di “priorità”, individuali e generali. Prima di tutto, chi oggi lavora nelle Città metropolitane capoluogo di Regione hanno la preferenza nei posti collocati nella stessa città. Un’altra precedenza è riconosciuta ai portatori di handicap grave (lo impone del resto l’articolo 21 della legge 104/1992) e ai lavoratori che assistono parenti portatori di handicap, mentre una quarta riguarda chi ha figli con meno di tre anni. Il Portale nazionale della mobilità tratterà queste precedenze in ordine di priorità (la più importante, quindi, è quella territoriale), e a parità di condizioni saranno determinanti il numero di famigliari a carico e l’età anagrafica.
Tra i criteri generali, invece, il primo parametro è quello del personale in distacco o in comando, chiamato a dire «sì» al trasferimento definitivo, e due corsie ad hoc sono previste per la Polizia provinciale (destinata in parte a essere assorbita negli organici comunali, previa espressione della preferenza per il mantenimento della funzione) e per i dipendenti impegnati nella gestione dell’Albo degli autotrasportatori, che dovrebbero essere indirizzati al ministero delle Infrastrutture (sul passaggio dei centri per l’impiego, invece, si farà il punto oggi in Stato-Regioni). Per il resto del personale si guarderà all’inquadramento, alla categoria e, «possibilmente», alle funzioni svolte.
Funzionerà tutto l’impianto? Forti dubbi sono stati espressi ieri dai sindacati, che parlano di «rischio caos». Forte preoccupazione si respira anche negli stessi enti di area vasta, alle prese con bilanci all’osso e una spesa di personale che, se tutto andasse per il meglio, comincerebbe a ridursi solo dalla prossima primavera
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2015).

INCARICHI PROGETTUALIMIUR. Per agronomi, geometri e periti basta il diploma.
I nuovi diplomi, quelli post riforma Gelmini, sono validi per l’iscrizione agli albi professionali.

Con questo parere espresso dall’ufficio legislativo del Miur (nota 28.09.2015 n. 27133 di prot.) sull’accesso agli esami di abilitazione alle professioni di periti industriali, geometri, periti agrari e agrotecnici.
Due le tesi sul tavolo, la “tesi A” -sostenuta dai periti industriali- che ritiene i nuovi diplomi non equipollenti ai vecchi e di conseguenze necessaria la laurea triennale per l’accesso all’albo e la “tesi B” -portata avanti dai geometri e dagli agrotecnici- che, invece, ritiene i nuovi diplomi equipollenti a quelli del vecchio ordinamento e quindi validi per la partecipazione agli esami di abilitazione.
Secondo il parere del Miur la “tesi B” è quella «maggiormente aderente al piano normativo» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Accesso con laurea triennale. Nota dei periti.
L'accesso all'albo resta subordinato alla laurea triennale.

Lo sostengono i periti industriali considerando «non condivisibile nella forma e nella sostanza» il parere con il quale il ministero dell'istruzione ha aperto le porte ai neodiplomati tecnici Gelmini.
Per il Consiglio nazionale dei periti industriali e dei periti industriali laureati il presunto chiarimento non contiene elementi giuridicamente risolutivi, tanto che la questione è stata rinviata al ministero della giustizia (peraltro non competente in materia di istruzione tecnica).
I periti contestano anche che il chiarimento sia stato diramato alla conclusione di un incontro allo stesso ministero in cui «casualmente» gli unici assenti sono stati proprio i periti industriali (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Dal 5 ottobre per l'auto solo certificati digitali.
Dal 5 ottobre il tradizionale certificato di proprietà cartaceo farà posto al nuovo documento digitale che sarà conservato negli archivi magnetici del Pra. L'utente potrà consultare il Cdpd da remoto e non dovrà più preoccuparsi della sua conservazione.

Lo ha chiarito l'Aci con la lettera-circolare 28.09.2015 n. 7641 di prot..
Il progetto semplific@uto intende recepire le disposizioni del codice dell'amministrazione digitale anche nel mondo della burocrazia stradale. Per questo motivo l'Aci sta progressivamente innovando tutte le procedure che porteranno gradualmente alla scomparsa della documentazione cartacea anche dagli archivi. Una innovazione particolarmente significativa è rappresentata dall'introduzione del certificato di proprietà digitale.
In pratica dal 5 ottobre l'ex foglio complementare non sarà più stampato in modalità tradizionale ma verrà prodotto digitalmente e conservato dall'Aci nei propri archivi magnetici. All'interessato verrà consegnata una semplice ricevuta contenente un codice (anche QR-code) per l'accesso informatico alla visura del documento e ai suoi aggiornamenti successivi in tempo reale.
I vantaggi per gli utenti stradali e gli operatori a parere dell'Aci sono innumerevoli. Innanzitutto il documento digitale non potrà più essere smarrito o sottratto all'interessato e la contraffazione dell'importante documento sarà resa molto più difficoltosa per i malintenzionati. Le economie di gestione e conservazione digitale del supporto però non avranno ricadute dirette sugli automobilisti e le tariffe del Pra non diminuiranno. Solo l'intestatario del veicolo o un suo delegato potranno disporre del certificato digitale per le formalità di rito, specifica la circolare.
La completa digitalizzazione del certificato di proprietà digitale avverrà gradualmente. Fino al prossimo mese di febbraio ci sarà infatti un regime transitorio che vedrà ancora la parziale presenza della carta nella gestione delle pratiche.
In questa fase, per esempio, in attesa delle successive implementazioni procedurali gli atti predisposti dai notai e dai comuni continueranno a essere effettuati in modalità tradizionale (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Strutture abusive sequestrate a prescindere dal danno.
La Cassazione ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo della struttura abusiva, realizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico, a prescindere dall'effettività del danno all'ambiente (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2015 n. 40370).
I giudici hanno, dichiarato che il presupposto dell'attualità e concretezza del pericolo di danno al territorio e all'equilibrio ambientale, necessario per l'emissione di questa misura cautelare, è integrato dall'esistenza stessa dell'opera abusiva, indipendentemente dalla circostanza che questa sia o meno ultimata.
L'indirizzo giurisprudenziale anticipa la tutela dei beni giuridici ambientali. La maggiore sensibilità nei confronti di tali beni ha azionato un percorso di riforme normative teso a proseguire con l'inserimento nell'ambito dei delitti delle ipotesi più gravi di abuso edilizio doloso, mantenendo nell'ambito contravvenzionale soltanto le ipotesi meno gravi e quelle colpose. La sentenza ha preso in considerazione i requisiti che legittimano il sequestro preventivo nei reati edilizi e urbanistici per evidenziare le differenze di disciplina rispetto all'analogo provvedimento adottato nei reati paesaggistici.
Secondo quanto già stabilito dalle Sezioni unite della Cassazione, nei reati edilizi è ammissibile il sequestro preventivo di un immobile realizzato abusivamente anche quando i lavori non siano stati ultimati purché la disponibilità dell'opera, da parte dell'indagato o di terzi, comporti il rischio effettivo di un'ulteriore pregiudizio per il territorio e, quindi, il pericolo concreto di una ulteriore lesione del bene giuridico protetto rispetto al momento della consumazione del reato. Tale accertamento deve essere condotto dal giudice di merito che deve valutare la reale offensività della condotta.
La Cassazione nella sentenza citata, tenuto conto della natura permanente dei reati paesaggistici, ha, invece, in questo tipo di reati, considerato l'esistenza e l'utilizzazione della costruzione abusiva determinante per il protrarsi nel tempo del rischio di pregiudizio all'ambiente. L'adozione del sequestro preventivo, determinando il venir meno della disponibilità della costruzione in capo all'autore del reato, fa cessare tale pericolo (articolo ItaliaOggi del 15.10.2015).
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In materia di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell’attualità e concretezza del pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio e dall’incremento del carico urbanistico, perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata.
Il periculum in mora è in re ipsa per il solo fatto che è stata costruita un’opera abusiva senza autorizzazione in area protetta dal vincolo paesaggistico in quanto il danno all’ambiente è dato alla sola presenza e utilizzazione dell’opera, diversamente da quanto accade per il sequestro preventivo operato in relazione a reati edilizi per i quali, ai fini della valutazione del periculum in mora, occorre avere riguardo alla incidenza che l’opera ultimata ha sull’assetto del territorio.
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Come più volte affermato da questa stessa Corte, in materia di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell’attualità e concretezza del pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio e dall’incremento del carico urbanistico, perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata.
Il periculum in mora è in re ipsa per il solo fatto che è stata costruita un’opera abusiva senza autorizzazione in area protetta dal vincolo paesaggistico in quanto il danno all’ambiente è dato alla sola presenza e utilizzazione dell’opera, diversamente da quanto accade per il sequestro preventivo operato in relazione a reati edilizi per i quali, ai fini della valutazione del periculum in mora, occorre avere riguardo alla incidenza che l’opera ultimata ha sull’assetto del territorio
(ex pluris Cass. Sez. III n. 42363/2013; Cass. Sez. III n. 24539/2013).
In proposito, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte Suprema in relazione ai reati edilizi ed urbanistici, hanno ritenuto ammissibile il sequestro preventivo di una costruzione abusiva già ultimata, affermando che
il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa –che va accertato e adeguatamente motivato dal giudice– presenti i requisiti della concretezza e dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l’accertamento irrevocabile del reato. Dunque spetta al giudice di merito, con adeguata motivazione, compiere una attenta valutazione del pericolo derivante dal libero uso della cosa pertinente all’illecito penale (Cass. Sez. Un. n. 12878/2003).
In particolare,
vanno approfonditi la reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa, da parte dell’indagato o di terzi, possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l’attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività (Cass. Sez. III n. 24539/2013).
In altri termini,
il giudice deve determinare in concreto, il livello di pericolosità che l’impiego della cosa appare in grado di raggiungere in ordine all’oggetto della tutela penale, in correlazione al potere processuale di intervenire con la misura preventiva cautelare.
Per esempio, nel caso di ipotizzato aggravamento del c.d. carico urbanistico, va accertata in concreto tale evenienza sotto il profilo della consistenza reale e dell’intensità del pregiudizio paventato, tenendo conto della situazione esistente al momento dell’adozione del provvedimento coercitivo.
Diversa è invece la situazione con riferimento ai reati paesaggistici, poiché per tali reati, al fine della legittimità del provvedimento di sequestro preventivo, la sola esistenza di una struttura abusiva, realizzata senza autorizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico integra il requisito dell’attualità del pericolo, indipendentemente dal fatto che l’edificazione sia stata o meno ultimata, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale -a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio- perdura in stretta connessione all’utilizzazione della costruzione ultimata (Cass. Sez. III n. 32247/2003; Cass. Sez. III n. 43880/2004; Cass. Sez. II n. 23681/2008; Cass. Sez. III n. 30932/2009)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.10.2015 n. 40370).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'accesso in materia ambientale ex art. 3 del d.lgs. n. 195/2005: differenze con la disciplina ex art. 22 del D.Lgs. n. 241/1990.
L'art. 3 del d.lgs. n. 195/2005, con il quale è stata data attuazione alla direttiva n. 2003/4/Ce sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, ha introdotto una fattispecie speciale di accesso in materia ambientale, che si connota, rispetto a quella generale prevista nella l. n. 241/1990, per due particolarità: l'estensione del novero dei soggetti legittimati all'accesso ed il contenuto delle cognizioni accessibili.
Sotto il primo profilo, l'art. 3 del d.lgs. n. 195/2003 chiarisce che le informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda, senza necessità, in deroga alla disciplina generale sull'accesso ai documenti amministrativi, di dimostrare un suo particolare e qualificato interesse. Sotto il secondo, la medesima disposizione estende il contenuto delle notizie accessibili alle "informazioni ambientali" (che implicano anche un'attività elaborativa da parte dell'amministrazione debitrice delle comunicazioni richieste), assicurando, così, al richiedente una tutela più ampia di quella garantita dall'art. 22, l. n. 241/1990, oggettivamente circoscritta ai soli documenti amministrativi già formati e nella disponibilità dell'amministrazione.
Peraltro le informazioni cui fa riferimento la succitata normativa concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che possono incidere sull'ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con esclusione quindi di tutti i fatti ed i documenti che non abbiano un rilievo ambientale.
Pertanto, l'accesso alle informazioni ambientali è del tutto svincolato da motivazioni precise e dalla dimostrazione dell'interesse del singolo, in quanto l'informazione ambientale consente, a chiunque ne faccia richiesta, di accedere ad atti o provvedimenti che possano incidere sull'ambiente quale bene giuridico protetto dall'ordinamento, con l'unico limite delle richieste "estremamente generiche", posto che esse devono essere specificamente individuate con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori o alle misure di cui all'art. 2, p.3, del d.lgs. n. 195/2005 (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 08.10.2015 n. 678 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing diventa abuso d’ufficio. Lavoro. Per il primario è reato anche la sola violazione del dovere di imparzialità della Pa.
Il mobbing del primario nei confronti del suo aiuto fa scattare i reati di maltrattamenti in famiglia e abuso d’ufficio.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale (sentenza 07.10.2015 n. 40320) accoglie il ricorso di un dirigente medico, progressivamente emarginato dal direttore dell’unità chirurgica presso la quale lavorava. I giudici di merito avevano deciso per il non luogo a procedere nei confronti del “capo” affermando anche l’insussistenza dell’abuso d’ufficio e dei maltrattamenti nei confronti di familiari e conviventi (articolo 572 del Cp), reato ormai esteso, a certe condizioni, ai rapporti di lavoro.
Condizioni che per la Cassazione ci sono. La Suprema corte esclude che tra «professionisti di elevata qualificazione» sia assente la dinamica relazionale supremazia-soggezione psicologica. Anche professionisti di alto livello hanno una forte soggezione nei confronti del superiore che, con le sue scelte, può determinare il loro destino lavorativo. Né il rapporto para-familiare può essere escluso in virtù della grande dimensione dell’ospedale, essendo questo è diviso in reparti e unità operative all’interno dei quali è possibile che esistano relazioni di sudditanza fra direttore e aiuto.
Per finire, il mobbing in famiglia non è escluso neppure della possibilità di mettere in atto, dopo avere a lungo subìto, le tutela previste dalla legge.
Per il primario-padrone c’è anche l’abuso d’ufficio (articolo 323 del Cp). La Cassazione ricorda che il Dpr 3/1957 (articolo 13) impone al pubblico dipendente un dovere di collaborazione con tutti i colleghi. Da questa norma, nonostante le riforme e la contrattazione collettiva per la dirigenza medica, la categoria non si è mai “sfilata” non avendo regolato la materia. Nel suo raggio d’azione rientrano quindi le vessazioni del primario.
La Cassazione, discostandosi da un precedente orientamento, ritiene che l’abuso d’ufficio si concretizzi anche con la sola violazione dell’articolo 97 della Costituzione sull’imparzialità della Pa, per la parte in cui vieta al pubblico ufficiale di mettere in atto ingiustificate preferenze o favoritismi. Un dettato costituzionale ritenuto in genere inutilizzabile, per la sua natura programmatica, in un campo come quello penale che impone una tassativa descrizione della norma incriminatrice
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).

APPALTI: Il procedimento di verifica dell'anomalia mira ad accertare in concreto che l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto.
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Principi sul giudizio di anomalia dell'offerta. Il nuovo gestore deve impegnarsi ad assumere i dipendenti del gestore uscente, precedentemente addetti al servizio di distribuzione del gas, ma non anche obbligarsi ad assegnarli allo specifico servizio oggetto di gara.

Il procedimento di verifica dell'anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare in concreto che l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto.
Detto procedimento, dunque, risulta di per sé avulso da ogni formalismo, essendo improntato alla massima collaborazione tra Amministrazione appaltante e offerente, ponendosi quale mezzo indispensabile per l'effettiva instaurazione del contraddittorio ed il concreto apprezzamento dell'adeguatezza dell'offerta, in modo da garantire e tutelare l'interesse pubblico concretamente perseguito dall'amministrazione, attraverso la procedura di gara, e consistente nell'effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto.
La legittimità del procedimento di verifica postula, dunque, quale suo elemento costitutivo e caratterizzante, l'effettività del contraddittorio (tra Amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari, l'assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte e l'immodificabilità dell'offerta.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità.
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il g.a. possa sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre non possa invece operare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..
Inoltre, il giudizio di anomalia postula una motivazione rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole all'offerente, mentre non si richiede, di contro, una motivazione analitica nell'ipotesi di esito positivo della verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare per relationem con riferimento alle giustificazioni presentate dal concorrente (sempre che a loro volta adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli specifici elementi da cui il g.a. possa evincere che la valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei o travisati. Infine, il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme: questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, rendano l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità.
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La clausola sociale va interpretata nel senso che l'appaltatore subentrante deve prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell'appaltatore uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante.
I lavoratori che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali. Nel caso in cui la c.d. "clausola sociale" sia stata richiamata espressamente dal bando, essa assume portata cogente, sia per gli offerenti che per l'Amministrazione.
Ciò implica che l'offerente non può obliarne la portata riducendo ad libitum il numero di unità impiegate nell'appalto cui rapportare il servizio; ovvero, a tutto concedere, potrebbe così operare, chiarendo però il formale rispetto della detta prescrizione, richiamando la "flessibilità" affermata dal diritto vivente, e disponendo che le unità assunte vadano adibite ad altre mansioni e servizi".
Dunque, il nuovo gestore ha certamente l'obbligo prioritario di rispettare le mansioni proprie del "personale assorbito" e, solo nel caso in cui ciò non sia possibile, impiegarlo in altri settori, ovvero, quale extrema ratio, fare ricorso alle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.10.2015 n. 2106 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTITicket fisso sui ricorsi negli appalti. Non vi è l’obbligo di pagare altri tributi se i motivi aggiunti non ampliano la controversia.
Corte Ue/1. I giudici europei ritengono legittimo il contributo da 2mila a 6mila euro modulati in base all’entità dei lavori o dei servizi in gara.
La Corte di giustizia dell’Unione europea si pronuncia sui contributi che vanno pagati quando si impugna una gara di appalto.
La sentenza 06.10.2015 (C-61/14) ritiene legittimi gli importi (da 2mila a 6mila euro) dovuti contestualmente al deposito di ricorsi in primo e in secondo grado. La sentenza stessa, tuttavia, consentirà agli operatori notevoli risparmi lungo il procedimento giurisdizionale, con riferimento ai motivi aggiunti e ai ricorsi incidentali. Questa seconda affermazione della Corte di giustizia interessa, in quanto principio generale, tutti i tipi di contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi, cioè anche quelli che non riguardano appalti di lavori, servizi o forniture.
Per ciò che riguarda il primo tema, cioè la fase iniziale della lite, i giudici europei ritengono che la soglia di peso eccessivo del contributo iniziale sia individuabile nel 2% del valore dell’appalto: solo un contributo che superi tale percentuale limiterebbe l’esercizio del diritto alla giustizia. Non ha quindi rilievo il vantaggio che l’impresa può attendersi dall’aggiudicazione dell’appalto (il cosiddetto utile d’impresa, che può anche essere modesto), con la conseguenza che è corretto pretendere il pagamento di importi fissi (2, 4 e 6mila euro) a seconda del valore dell’appalto (inferiore a 200mila euro, tra 200mila e 1 milione, superiore al milione di euro).
Rimane quindi il rilevante peso economico del contributo iniziale, che in materia di appalti aggiunge ad altri ostacoli quali i tempi ridotti per agire in giudizio (30 giorni per le gare), i limiti alla lunghezza degli atti giudiziari (25 pagine) e infine le difficoltà, per chi risulta vincitore in giudizio, di ottenere l’effettiva assegnazione dei lavori nel frattempo iniziati da un altro, scorretto concorrente.
Ogni problema sull'entità del contributo, sottolinea la Corte, deve poi tenere presente che, in caso di vittoria in giudizio, vi è il diritto a ottenere il rimborso del contributo pagato. Il secondo principio espresso dalla Corte, può giovare a tutti coloro i quali hanno liti giudiziarie, ed è quello che dà rilievo al «bene della vita» cui la lite tende. Quando infatti in un unico procedimento giurisdizionale la parte interessata presenti poche richieste successive, quali motivi aggiunti o ricorsi incidentali, tutti convergenti verso un unico risultato, dovrà accertarsi se vi sia un «ampliamento considerevole» dell’oggetto della controversia già pendente: mancando tale ampliamento, non vi è nemmeno l’obbligo di pagare ulteriori tributi giudiziari.
Ciò consentirà risparmi consistenti, in quanto ogni ricorso si arricchisce, in attesa della sentenza, di fasi successive quali i motivi aggiunti o le domande incidentali man mano che si chiarisce l’operato dell’amministrazione. Se i vari segmenti della lite convergono verso un unico oggetto (l’annullamento del provvedimento lesivo), il contributo sarà unico. Spetta al giudice amministrativo l’accertamento su tali elementi: fino a oggi si è applicata una circolare del Segretariato della giustizia amministrativa (18.10.2011) che esigeva un contributo ogni volta che si ampliasse l’oggetto del giudizio, impugnando provvedimenti diversi o connessi.
Di fatto, ogni volta che si depositava un ulteriore atto notificato alle controparti, scattava l’onere di pagare un nuovo contributo, perché in ogni atto si leggeva un ampliamento del giudizio. Oggi invece, sulla base del chiaro indirizzo della Corte di giustizia si potrà adottare il criterio del «bene nella vita» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 15/2011) tenendo cioè presente il risultato cui tende la parte ricorrente.
Se tale risultato è unico (la vittoria di una gara, un titolo edilizio, un posto messo a concorso), non conta il numero degli atti giudiziari se questi servono solamente a circostanziare la pretesa
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
... Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
1) L’articolo 1 della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché i principi di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziari, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi.
2) L’articolo 1 della direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2007/66, nonché i principi di equivalenza e di effettività non ostano né alla riscossione di tributi giudiziari multipli nei confronti di un amministrato che introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziari aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso.
Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi.

APPALTI: Liti, contributo legittimo. Nei ricorsi al Tar in materia di appalti pubblici. Corte di giustizia Ue: ok chiedere più versamenti per lo stesso giudizio.
È legittimo e non esoso il contributo unificato previsto per i ricorsi al Tar in materia di contratti pubblici; corretta anche la richiesta di più contributi nello stesso giudizio, ma soltanto se sia giustificato da un'effettiva estensione dell'oggetto del processo e dei motivi di ricorso e ciò è rimesso alla valutazione del giudice nazionale.

Sono questi i principi affermati dalla Corte di giustizia europea nella
sentenza 06.10.2015 (C-61/14) pronunciata nelle cause riunite C-61/14 (Orizzonte salute), emessa su richiesta pregiudiziale del Tar Trento a seguito della ordinanza di rinvio del 29.01.2014 n. 23.
La vicenda nasce da un ricorso presentato da uno studio infermieristico associato che aveva partecipato a un appalto e aveva impugnato l'aggiudicazione ad altro studio.
Dopo un primo pagamento del contributo unificato per 650 euro, il Tar Trento aveva chiesto di effettuare un pagamento supplementare per raggiungere la cifra di 2.000 euro prevista dalla normativa vigente.
Da qui il ricorso in merito alla legittimità della richiesta dei 1.350 euro di differenza; nel gennaio 2014, il Tar Trento ha valutato opportuno rimettere al giudice europeo la questione pregiudiziale di legittimità per violazione di alcune norme della direttive 89/665/Ce sui ricorsi in materia di contratti pubblici.
Dopo aver premesso che il tributo giudiziario è necessario in quanto contribuisce al buon funzionamento della giustizia perché è fonte di finanziamento dell'attività giurisdizionale degli stati membri e, dall'altro, svolge anche un'efficacia dissuasiva rispetto a domande pretestuose o manifestamente infondate, la sentenza entra nel merito affermando la legittimità dei contributi unificati.
In particolare la sentenza afferma che il diritto dell'Unione permette al legislatore nazionale di stabilire un tariffario di contributi unificati, anche cumulativi, applicabile specificamente ai procedimenti amministrativi in materia di appalti.
La condizione è che l'importo del tributo giudiziario non sia di ostacolo l'accesso alla giustizia (principio di effettività) e che da ciò non derivi una violazione del principio di equivalenza per cui le modalità di tutela dei diritti previste nell'ordinamento italiano siano equivalenti a quelle approntate per la protezione di diritti sanciti dall'ordinamento dell'Unione europea.
Il limite del 2% previsto in Italia per i contributi processuali per la sentenza «non lede il predetto principio di effettività, sia perché tale percentuale in sé è assai contenuta sia perché, secondo le direttive dell'Unione, la partecipazione di un'impresa a un appalto pubblico ne presuppone un'appropriata capacità economica e finanziaria sia perché, infine, il soggetto soccombente nel giudizio è normalmente tenuto a rimborsare alla parte vittoriosa le spese di giustizia».
Per quel che concerne il cumulo di più contributi unificati nell'ambito dello stesso processo relativo al medesimo appalto, la sentenza lo ammette «se giustificato da un'effettiva estensione dell'oggetto del processo e dei motivi di ricorso», ma su questo rimette la valutazione al giudice nazionale (articolo ItaliaOggi del 07.10.2015).

APPALTI: Conta la solidità finanziaria. Dell'impresa ausiliaria nell'avvalimento.
In un appalto pubblico per il contratto di avvalimento relativo al fatturato non è necessaria la specifica messa a disposizione dei mezzi e delle risorse da parte dell'impresa ausiliaria. È sufficiente l'impegno a garantire con la propria solidità finanziaria l'esecuzione del contratto. La capacità economica è anche elemento di prova dell'esperienza nel settore.

È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, III Sez., con la sentenza 02.10.2015 n. 4617 in merito a un contratto di avvalimento concernente il requisito di capacità economico-finanziaria.
Nello specifico, la stazione appaltante aveva richiesto di dimostrare l'esistenza di un fatturato globale triennale di almeno 3 mln di euro e la società ausiliaria aveva previsto nel contratto di avvalimento a favore del concorrente di prestare «la sua capacità economico-finanziaria, nonché tutte le risorse per consentire l'esecuzione del servizio» e «il fatturato globale di impresa conseguito nel triennio per oltre 13 mln».
Riguardo l'oggetto della prestazione inerente l'avvalimento, i giudici hanno chiarito che quando un'impresa intenda avvalersi dei requisiti finanziari di un'altra impresa, la prestazione (oggetto specifico dell'obbligazione) è costituita «non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche». Così facendo l'impresa ausiliaria mette a disposizione del concorrente quello che la sentenza definisce come «suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato costituisce indice significativo».
In questo caso, quindi, non è necessario, per ritenere legittimo il contratto di avvalimento, il riferimento a specifici beni patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una determinata consistenza patrimoniale.
Viceversa, diversamente da quanto accade per l'avvalimento di mezzi e attrezzature, per esempio, è sufficiente che dal contratto emerga l'impegno della società ausiliaria a «prestare» la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, e garantire con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015.).
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MASSIMA
1.1.1. Quanto al primo profilo (sub a), non può non concordarsi con quanto ritenuto dal Giudice di primo grado; e cioè che il ‘contratto di avvalimento’ sottoscritto dalla società controinteressata (aggiudicataria), non è affatto generico.
La Stazione appaltante aveva richiesto di dimostrare la esistenza di un fatturato globale, relativo al triennio corrente dal 2008 al 2010, pari (o superiore) a €. 3.000.000,00.
Nel contratto di avvalimento stipulato dalla società DO.TR. con la società AU.GR. & GA. è chiaramente stabilito che quest’ultima ‘presta’ alla (rectius: mette a disposizione della) prima “la sua capacità economico-finanziaria, nonché tutte le risorse, nessuna esclusa, per consentire l’esecuzione del servizio”.
Il contratto in questione precisa altresì che le risorse messe a disposizione sono costituite:
- dal “fatturato globale di impresa conseguito nel triennio 2008-2010 di importo economico pari ad €.13.493.060,00 (i.v.a. esclusa)”;
- nonché dalle “risorse, mancanti all’avvalente, di qualsiasi genere o tipo nella disponibilità dell’impresa ausiliaria ivi comprese eventuali consulenze”.
Non appare revocabile in dubbio, pertanto, che il contenuto del contratto e della obbligazione è chiaro e sufficientemente specifico; e che la dichiarazione negoziale è idonea ad impegnare tutte le risorse della società ausiliaria (precisamente e letteralmente: la sua “intera capacità economico-finanziaria, nonché tutte le risorse, nessuna esclusa, per consentire l’esecuzione del servizio”); ed a garantire in pieno la c.d. società “ausiliata”.
D’altra parte la Sezione ha già chiarito -in un analogo precedente- che
allorquando un’impresa intenda avvalersi (mediante stipula di un c.d. ‘contratto di avvalimento’) dei requisiti finanziari di un’altra, la prestazione (oggetto specifico dell’obbligazione) è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi ‘materiali’, ma dal suo impegno a “garantire” con le proprie complessive risorse economiche -il cui indice è costituito dal fatturato- l’impresa ‘ausiliata’ (munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal Bando) (C.S., III, 06.02.2014 n. 584)
In altri termini
ciò che la impresa ausiliaria ‘presta’ alla (rectius: mette a disposizione della) ‘impresa ausiliata’ è il suo valore aggiunto in termini di “solidità finanziaria” e di acclarata “esperienza di settore”, dei quali il fatturato costituisce indice significativo.
Ne consegue che
non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale (dunque alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare), essendo sufficiente che da essa (dichiarazione) emerga l’impegno (contrattuale) della società ausiliaria a ‘prestare’ (ed a mettere a disposizione della c.d. società ausiliata) la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, e garantire con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità.
E poiché dal contratto di avvalimento esaminato emerge che la volontà negoziale dei contraenti è orientata nel senso sopra descritto, il provvedimento impugnato resiste, sotto il profilo in esame, alla censura.
1.1.2. Del pari infondata si appalesa il secondo profilo (sub b) del motivo in esame, con cui l’appellante lamenta che il Presidente della società aggiudicataria non aveva i necessari poteri (cc.dd. “poteri di rappresentanza”) per sottoscrivere il contratto di avvalimento, non essendo stato espressamente autorizzato dall’Assemblea dei soci.
La giurisprudenza afferma, al riguardo, che
gli Amministratori (ed il Presidente del Consiglio di Amministrazione) delle società di capitali possono compiere tutti gli atti che rientrano nell’”oggetto sociale” della società amministrata (Cass., I, 03.03.2010 n. 5152).
Ne consegue che tutti gli atti di tal genere (rientranti, cioè, nell’oggetto sociale in quanto fisiologicamente orientati al raggiungimento degli obiettivi statutari), vanno considerati “ordinari”.
E proprio perché compiuti nell’esercizio dell’”ordinaria” gestione dell’impresa, costituiscono, per essa, “atti di ordinaria amministrazione”, che -perciò stesso- ben possono essere compiuti dai soggetti che esercitano poteri di amministrazione e che hanno la rappresentanza del soggetto giuridico che esercita l’attività d’impresa.
Sicché,
essendo evidente che l’atto di sottoscrizione di un contratto di avvalimento per la partecipazione ad una gara costituisce un atto di ordinaria amministrazione nel senso testé indicato -in quanto fisiologicamente volto a realizzare, quale “fatto di ordinaria gestione”, gli obiettivi statutari- non appare revocabile in dubbio che il Presidente del CdA ben potesse sottoscriverlo nell’ordinario esercizio dei suoi poteri di rappresentanza e senza alcuna specifica autorizzazione al riguardo da parte dell’Assemblea dei soci.
Se a ciò si aggiunge che nella fattispecie non risulta che fossero operanti espresse limitazioni statutarie agli ordinari poteri di amministrazione e che in pendenza di giudizio (in data 25.11.2014) è stata prodotta la delibera del CdA che autorizzava il Presidente della società a sottoscrivere il contratto di avvalimento, non resta che concludere che la condotta della Stazione appaltante resiste sotto ogni profilo alla doglianza in esame.

EDILIZIA PRIVATA: In base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, se l’autorità amministrativa non si pronuncia sull’istanza di accertamento di conformità nel termine di 60 giorni, la richiesta è da considerare come respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza che il silenzio serbato dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto” e non come silenzio “inadempimento”.
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo da escludere che l’amministrazione, una volta formato il silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui all’art. 117 c.p.a..
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio del potere amministrativo previo accertamento dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella violazione dell’obbligo di concludere un procedimento mediante un provvedimento espresso, purché la legge non assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato.
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque previsto un termine decadenziale per la proposizione del ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del Comune sull’istanza in questione.
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per cui l’amministrazione non perde il relativo potere di provvedere in merito, fermo restando che tale potere ha carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela.

1. Preliminarmente è da osservare che, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, se l’autorità amministrativa non si pronuncia sull’istanza di accertamento di conformità nel termine di 60 giorni, la richiesta è da considerare come respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 14/02/2006, n. 598) che il silenzio serbato dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto” e non come silenzio “inadempimento” (inerzia a fronte di attività vincolata, ovvero “rifiuto”, inerzia a fronte di attività discrezionale: cfr. TAR Sicilia, sez. I Catania, 02/11/2010, n. 4309).
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo da escludere che l’amministrazione, una volta formato il silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui all’art. 117 c.p.a. (cfr. TAR Campania, sez. III, 31/03/2015, n. 1874).
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio del potere amministrativo previo accertamento dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella violazione dell’obbligo di concludere un procedimento mediante un provvedimento espresso, purché la legge non assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato (cfr. Cons. St., sez. III, 03/03/2015, n. 1050).
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque previsto un termine decadenziale per la proposizione del ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del Comune sull’istanza in questione (cfr. Cons. St., sez. IV, 13/01/2010, n. 100).
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per cui l’amministrazione non perde il relativo potere di provvedere in merito (cfr. TAR Campania, sez. III, 13/07/2010, n. 16689), fermo restando che tale potere ha carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela (cfr. Cons. St., sez. V, 25/07/2014, n. 3964) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 01.10.2015 n. 4673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, non partecipa chi ha carichi pendenti. Cds: anche senza sentenza definitiva.
Non occorre attendere la sentenza definitiva per escludere un concorrente da una gara per grave negligenza o malafede.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 28.09.2015 n. 4502 rispetto a una procedura di gara nella quale a carico di un concorrente era risultata la pendenza di indagini penali con richiesta di rinvio a giudizio e fissazione dell'udienza preliminare relativamente ad attività inerenti l'appalto da affidare, svolte negli anni precedenti. Profilo che avrebbe a sua volta configurato una grave negligenza o malafede e quindi una esclusione dalla gara.
I giudici hanno precisato che il requisito della grave negligenza e malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale comportamento.
In sostanza, prima ancora della sentenza definitiva la stazione appaltante può valutare l'inidoneità del concorrente sotto il profilo dell'affidabilità e procedere alla sua esclusione. In tema di contenzioso per l'esclusione da gara di appalto ai sensi dell'articolo 38, comma 1, lettera f), del dlgs n. 163 del 2006 per inadempimenti in precedenti contratti, la decisione di esclusione per deficit di fiducia è quindi frutto di una valutazione discrezionale della stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva l'individuazione del «punto di rottura dell'affidamento» nel pregresso o futuro contraente.
La sentenza chiarisce anche i limiti dell'intervento del giudice amministrativo che, nell'esame degli atti, non può rivalutare nel merito i fatti già vagliati dall'amministrazione nel provvedimento impugnato dovendosi limitare a un controllo teso soltanto ad accertare la mera pretestuosità del giudizio di inaffidabilità dell'impresa. Pertanto, il controllo del giudice amministrativo su tale valutazione discrezionale deve essere svolto ab extrinseco, ed è diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di simulazione (dissimulante una odiosa esclusione), ma non è mai sostitutivo.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall'appaltante come ragione di rifiuto e non può avvalersi di criteri che portano a evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
7.- L’appello è fondato e va accolto.
8.- Deve premettersi che, alla stregua della consolidata giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato,
l’elemento che caratterizza la misura interdittiva di cui all’articolo 38, comma 1, lettera f), del codice dei contratti pubblici è il pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o dell’inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali, alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre ex ante nell’impresa alla quale affidare un servizio di interesse pubblico ed include di conseguenza presupposti squisitamente soggettivi, incidenti sull’immagine della stessa agli occhi della stazione appaltante.
Ne consegue che, esclusa la natura sanzionatoria di detta misura, l’ambito operativo prescinde dalla rilevanza penale dei comportamenti ascritti e degli inadempimenti contrattuali e dalla necessità di una sentenza penale di condanna per i fatti contestati, venendo in rilievo solamente la loro incidenza sull’elemento fiduciario che connota i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione.
In questa prospettiva il requisito della grave negligenza e malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta dalla stessa amministrazione, ed il giudice amministrativo nell’esame degli atti non può rivalutare nel merito i fatti già vagliati dall’amministrazione nel provvedimento impugnato
(Cons. Stato, V, 16.08.2010, n. 5725), dovendosi limitare ad un controllo ex externo onde accertare la mera pretestuosità del giudizio di inaffidabilità dell’impresa.
Come ha precisato la Cassazione (cfr. Cass. sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; 14.01.1997, n. 313; 22.12.2003, n. 19664),
in tema di contenzioso per l’esclusione da gara di appalto ai sensi dell’articolo 38, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163 del 2006 per inadempimenti in precedenti contratti, la decisione di esclusione per deficit di fiducia è frutto di una valutazione discrezionale della stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva la individuazione del “punto di rottura dell’affidamento” nel pregresso o futuro contraente.
Pertanto il controllo del giudice amministrativo su tale valutazione discrezionale deve essere svolto ab extrinseco, ed è diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di simulazione (dissimulante una odiosa esclusione), ma non è mai sostitutivo.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall’appaltante come ragione di rifiuto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa
La sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata all’amministrazione, quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto.

9.- Ciò posto in via di principio, è indubbio che la sentenza impugnata ha disatteso i limiti al potere giurisdizionale del giudice di legittimità, avendo ritenuto che la valutazione dell’amministrazione comunale di considerare gravi le infrazioni accertate in capo alla Sa.Vi. alla luce delle previsioni del capitolato speciale e per ciò solo incidenti sull’affidabilità dell’appaltatore, sarebbe manifestamente sproporzionata e irragionevole a fronte delle infrazioni accertate in capo alla Sa.Vi..
Il Comune -si assume nella sentenza– non avrebbe confutato in punto di fatto le argomentazioni dell’impresa, concludendo nel senso della loro gravità e incidenza sull’affidabilità.
Così argomentando il TAR ha invaso non solo l’ambito di giurisdizione spettante al giudice ordinario nella materia della esecuzione del contratto ma la stessa sfera di potere riconosciuta in materia alla pubblica amministrazione, atteso che
nell’indagine demandata al giudice amministrativo, il requisito della grave negligenza e malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta dalla stessa amministrazione e non può rivalutare nel merito i fatti già vagliati dall’amministrazione nel provvedimento impugnato (Cons. Stato, V, 16.08.2010, n. 5725).
Orbene è incontestabile che il TAR nell’accertare la sussistenza degli elementi di cui all’articolo 38, comma 1, lettera f) del codice dei contratti pubblici ha sostanzialmente compiuto un accertamento palesemente rivolto non tanto alla verifica dell’eventuale figura sintomatica dell’eccesso di potere, quanto alla valutazione operata dalla stazione appaltante ai fini del riconoscimento della causa ostativa di cui all’articolo 38, comma 1, lettera f), ovvero della sussistenza delle gravi negligenze e della malafede idonee a compromettere il rapporto fiduciario.
Il TAR non ha confutato i fatti valutati dall’amministrazione, ma la valutazione che ne ha fatto l’amministrazione ai fini dell’affidabilità, ingerendosi in valutazioni rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione.
Così operando è incorso nella figura sintomatica dell’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi dell’articolo 111, comma 8, della Costituzione sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, essendosi spinto alla valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, così che la volontà dell’organo giudicante si è sostituita a quella dell’amministrazione.
In sostanza, la sentenza dietro la rilevata contraddittorietà del comportamento del Comune che non avrebbe contestato tempestivamente gli inadempimenti relativi alla gestione del servizio 2006–2007 e avrebbe concesso proroghe alla ditta, è entrato nel merito dell’azione amministrativa e delle sue valutazioni, sostituendosi all’amministrazione nella valutazione delle gravi negligenze e dei relativi effetti ai fini del giudizio prognostico sulla sua affidabilità nella gestione del servizio.
Ne consegue la fondatezza del vizio di eccesso di potere giurisdizionale della sentenza dedotto con il terzo motivo di appello dal Comune di Bari.

INCARICHI PROFESSIONALIDifficile lasciare i clienti. Addio al mandato appena c'è un altro legale. Corte di cassazione sulla decorrenza dei termini per gli avvocati.
Il legale che, manente processo, rinuncia al proprio mandato, abbandonando la difesa del proprio assistito, deve comunque aspettare non solo che quest'ultimo abbia un nuovo difensore, ma che sia anche decorso il termine per la difesa espressamente previsto all'art. 108 c.p.p. (a norma del quale, nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità o abbandono, il nuovo difensore ovvero quello designato d'ufficio ha diritto ad un «termine congruo, non inferiore a sette giorni», al fine di prendere cognizione del processo e visionarne gli atti).

È quanto emerge nella sentenza 24.09.2015 n. 38944, nella quale i giudici della V Sez. penale della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso di un consulente aziendale accusato di bancarotta fraudolenta, condannandolo al pagamento delle spese processuali.
In particolare, in sede di censura, l'uomo, gestore di fatto di una società, aveva lamentato l'esistenza di una «nullità assoluta e insanabile» per omessa presenza del suo difensore (prontamente nominato subito dopo la rinuncia del primo) all'udienza dibattimentale.
A parere del collegio giudicante tuttavia non si era verificata alcuna «costrizione contra legem», dal momento che «la rinunzia del difensore (al pari della revoca) non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore (di fiducia o di ufficio)» e non sia decorso il termine eventualmente concesso a norma dell'art. 108 c.p.p..
Non va dimenticato –spiegano, all'uopo, gli ermellini– che la concessione di un simile termine per la difesa non comporta alcuna necessità di rinvio dell'atto processuale da compiere, né tanto meno pone alcun ostacolo al regolare corso del processo. Ecco perché il Tribunale aveva deciso «del tutto legittimamente» di procedere alla istruttoria dibattimentale in presenza del precedente difensore.
Alla luce di queste considerazioni, hanno quindi affermato il seguente principio di diritto: «il difensore di fiducia, cui sia stato revocato il mandato, dovrà comunque presenziare all'udienza poiché la revoca del difensore non ha effetto fintanto che la parte non sia assistita da nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa di cui all'art. 180 c.p.p.» (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).

VARI: L'anticorruzione si estende anche agli studi legali.
Obblighi e adempimenti tesi a prevenire la corruzione applicabili anche agli Ordini e ai collegi professionali degli avvocati.

Questo è quanto ha sancito il TAR Lazio–Roma, Sez. III, con la sentenza 24.09.2015 n. 11391.
Con tale decisione sono state ritenute legittime le deliberazioni n. 144/14 e n. 145/14 con le quali l'Autorità nazionale anticorruzione ha ritenuto adottabili la legge n. 190 del 2012 e i decreti delegati che prevedono adempimenti finalizzati alla prevenzione della corruzione agli Ordini e ai Collegi professionali degli Avvocati, ritenendo che essi si collocano, ai sensi dell'art. 1 comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nel novero degli Enti pubblici non economici e che tra di essi ed i loro dipendenti intercorre un rapporto di pubblico impiego.
La sentenza in rassegna ha rilevato che la natura pubblica degli Ordini forensi risponde appieno alla finalità che la medesima riforma attribuisce agli stessi e che attiene all'attuazione dell'art. 24 della Costituzione e del diritto di difesa.
Anche l'art. 1 della legge n. 247 del 2012 attesta questa natura giuridica «quando richiama la regolamentazione della professione di avvocato nell'interesse pubblico, l'indipendenza e l'autonomia degli avvocati come indispensabili condizioni dell'effettività della difesa e della tutela dei diritti, l'affidamento della collettività e della clientela mediante l'obbligo della correttezza dei comportamenti e la cura della qualità ed efficacia della prestazione professionale, il merito come chiave di ingresso alla professione di avvocato».
Da queste considerazioni ne discende che anche gli ordini professionali dovranno provvedere alla predisposizione del Piano triennale di prevenzione della corruzione e del Piano triennale della trasparenza, nonché alla nomina del responsabile della prevenzione della corruzione. Essi dovranno poi curare l'adempimento agli obblighi di trasparenza di cui al decreto legislativo n. 33 del 2013 e osservare i divieti in materia di inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi di cui al decreto legislativo n. 39 del 2013 (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

EDILIZIA PRIVATANo al barbecue fatto con la Scia.
Questa casa non è un ristorante. Stop al forno-barbecue del confinante che è stato realizzato senza permesso di costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il vicino ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio mettendo fine ai fumi molesti che invadono casa sua, specie nel weekend. E ciò perché in ambito urbanistico il concetto di pertinenza del cespite risulta più restrittivo che in campo civile e non si può invocare quando manca un rapporto di stretta consequenzialità con l'immobile principale.

È quanto emerge dalla sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
Oggetto e soggetto
Il manufatto «incriminato» è una grossa fornace con struttura portante in mattoni e cemento, chiusa da due lati: dal tetto spiovente in tegole, di ben venti metri quadrati, spuntano due vistosi comignoli.
La segnalazione di inizio attività non basta perché, diversamente che in ambito civile, in materia edilizia la pertinenza non può avvenire ex articolo 817, secondo comma c.c., per destinazione per destinazione del proprietario dell'immobile o da chi un diritto reale sul bene: per l'urbanistica conta l'oggetto e non il soggetto e dunque il rapporto di pertinenzialità deve nascere dalla struttura stessa dell'opera destinata a servizio di quella principale.
Quando i servizi dell'abitazione sono completi, allora, non può ritenersi che il forno-barbecue sia necessario: costituisce invece una costruzione autonoma che ha bisogno della concessione.
Il Comune e i vicini pagano le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 14.10.2015).
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MASSIMA
3) Parte ricorrente reputa che l’intervento in questione costituisca attività di trasformazione urbanistica ed edilizia, subordinata non ad una S.c.i.a. (in sanatoria), quale quella presentata dai contro-interessati, bensì a permesso di costruire.
I contro-interessati sostengono, invece, che si tratti di un intervento pertinenziale ai sensi dell’art. 3, I comma, lett. e. 6) del T.U.Ed. e, come tale, soggetto a S.c.i.a.
Il motivo è fondato.
Precedente, numerosa e consolidata giurisprudenza ha messo in rilievo che
la nozione di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica e non può consentire la costruzione di opere consistenti, in quanto l’impatto volumetrico incide in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio e, conseguentemente, si rende necessario il rilascio di permesso di costruire
La nozione di pertinenza urbanistica, in altre parole, richiede che si tratti di opera collegata all’edificio principale in un rapporto di stretta e necessaria consequenzialità funzionale
(ex multis, da ultimo, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 07.05.2015, n. 789).
Il rapporto di strumentalità, pertanto, non può essere frutto sic et simpliciter della destinazione “effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima”, come previsto dall’art. 817, II comma, c.c., bensì deve, altresì, ontologicamente emergere dalla struttura stessa dell’opera destinata a servizio di quella principale, sì da rivelare un carattere oggettivo e non meramente soggettivo.
In un caso del tutto analogo a quello che qui ci occupa (corpo separato adibito a forno con dimensioni raggiungenti un’altezza di mt. 2,20 con copertura sporgente in mattoni), è stata già negata la “individuabilità di un obiettivo rapporto pertinenziale, connaturale alla struttura del fabbricato principale … il quale appare invece come una realizzazione autonoma ed a sé stante” (TAR Lazio, Roma, Sezione II-ter, n. 7292/2002) in ragione della completezza dei servizi situati nella costruzione principale, adibita ad uso residenziale e della mancanza di ogni collegamento, anche funzionale, con l’edificio abitativo.
In applicazione di tali principi, anche il Giudice penale ha affermato che “
non costituisce pertinenza, ed abbisogna di concessione, un forno costruito come corpo separato dal fabbricato, sul confine del fondo” (Cass. pen., 09.02.1990, in Riv. pen., 1991, 201).
Ne consegue la necessità del rilascio del permesso di costruire e la non realizzabilità dell’intervento in questione tramite S.C.I.A.
L’art. 37, IV comma, T.U.Ed., pertanto, non è applicabile al caso di specie dal che deriva l’illegittimità della nota prot. n. 10977 del 23.08.2013 con cui il Comune resistente ha ritenuto di definire positivamente il procedimento di sanatoria ivi previsto.
...
5) Quanto alla domanda di annullamento dell’autorizzazione in deroga ex art. 60 del D.P.R. n. 753/1980 prot. n. 1736, rilasciata da R.F.I. in data primo luglio 2013 si osserva quanto segue.
L’art. 60 del D.P.R. n. 753/1980 prevede che quando la sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la natura dei terreni e le particolari circostanze lo consentano, possono essere autorizzate riduzioni alle distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
L'art. 49 prevede il divieto lungo i tracciati delle linee ferroviarie di costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza minore di trenta metri dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia.
In base all’art. 64, II comma, c.p.a., il manufatto adibito a forno deve ritenersi posizionato a 5 metri dalla prima rotaia della linea ferroviaria. Tale circostanza, a prescindere dalle varie planimetrie di parte allegate, è affermata dal ricorrente e non è stata contestata, neanche genericamente, dalle parti costituite.
Per quanto riguarda R.F.I., non costituita, non v’è dubbio che comunque la distanza sia inferiore a metri 30.
Parte ricorrente, in considerazione delle dimensioni e della particolare vicinanza del manufatto alla linea ferroviaria, contesta nel merito (e, dunque inammissibilmente) la scelta effettuata dall’Autorità ferroviaria, denunciando la pericolosità per la sicurezza pubblica dell’opera assentita in deroga, ed eccepisce il difetto di istruttoria e di motivazione.
La censura relativa al difetto di motivazione è meritevole di accoglimento.
Deve rilevarsi che
la normativa di settore, definendo soltanto le eventuali ragioni di sicurezza ferroviaria, conservazione delle ferrovie, natura dei terreni e altro, poste a base dell'autorizzazione alla deroga alle distanze e non anche i presupposti, le condizioni o i parametri per esprimere un eventuale diniego, attribuisce all’Amministrazione una ferroviaria un’ampia discrezionalità.
E’ evidente, inoltre, come
il Legislatore abbia configurato la deroga alle distanze come ipotesi del tutto eccezionale: come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, “il disposto dell' art. 60, D.P.R. 11.07.1980, n. 753 va interpretato nel senso che, in mancanza delle cause ostative ivi previste (sicurezza pubblica, conservazione delle ferrovie, natura dei terreni e particolari circostanze locali), l'amministrazione sia non già obbligata a rilasciare l'autorizzazione in deroga, bensì semplicemente facultata a valutare discrezionalmente l'opportunità di rilasciare o meno l'autorizzazione stessa; nel senso, cioè, che la mancanza di dette cause costituisca un presupposto necessario ma non sufficiente per il rilascio dell'autorizzazione (in tal senso, da ultimo, TAR Piemonte, Sez. II, 23.01.2015, n. 151).
Dall’ampiezza della discrezionalità e dalla eccezionalità della deroga non può che derivare in capo all’Amministrazione un onere motivazionale rafforzato.
La motivazione dell’autorizzazione in deroga prot. n. 1736 del primo luglio reca i seguenti passaggi:
a) (all’ottava riga) “Visto il parere sulla sicurezza pubblica e sull’esercizio ferroviario del 19.06.2013”;
b) (alla decima riga) “Vista l’avvenuta eliminazione della canaletta di raccolta acque piovane e la definitiva chiusura del cancello con blocchi di cemento per comunicato dalla Ditta richiedente in data 24.05.2013”;
c) (all’undicesima riga) “considerato che viene garantita la sicurezza pubblica e dell’esercizio delle ferrovie, nonché delle opere, della sede e degli impianti ferroviari”;
d) (alla dodicesima riga) “considerato che la zona dove ricade l’opera da mantenere, allo stato attuale, non è interessata da potenziamenti o ampliamenti, né da varianti alla linea F.S.:
e) (alla tredicesima riga) “considerato che il patrimonio è garantito per il rispetto delle norme vigenti
”.
Appare evidente che, in disparte il non chiaro contenuto motivazionale del solo indicato parere del 19.06.2013,
l’autorizzazione è stata rilasciata senza dare conto della comparazione tra l’interesse del richiedente al mantenimento del manufatto e l’interesse pubblico alla sicurezza dell’esercizio delle ferrovie, comparazione da effettuare alla luce della caratteristiche dimensionali (per stessa ammissione dei contro interessati, il manufatto ha una dimensione di 17,66 mq ed è alto almeno tre metri, sempre in considerazione della mancata contestazione di quanto affermato dal ricorrente) e funzionali dell’opera abusiva, adibita a forno e barbecue, nonché della ravvicinata distanza alla linea ferroviaria.

PUBBLICO IMPIEGO: Niente rimborso spese legali ai lavoratori pubblici assolti.
Assolti sì, rimborsati no. Contro i dipendenti del comune cade definitivamente l'accusa di truffa per essersi allontanati dal servizio dopo aver fatto scattare il badge che segnala l'inizio della giornata di lavoro.
L'unico nesso fra il processo penale, i due lavoratori e l'amministrazione, dunque, è costituito dal cartellino timbrato all'ingresso. Ma non basta per far condannare l'ente datore a rifondere le spese legali sostenute dai due lavoratori: strisciare il badge al momento dell'accesso in ufficio è un atto dovuto che non risulta connesso ad alcuna attività di servizio.

È quanto emerge dalla sentenza 23.09.2015 n. 4448, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
Gli operai del comune incriminati ex articolo 640 cp si pagheranno da soli l'avvocato che li ha fatti assolvere: l'imputazione era di aver realizzato durante l'orario di servizio alcuni lavori a casa di un geometra, pure lui dipendente dell'amministrazione. Il punto è che i due lavoratori non hanno una sede fissa e dunque ben possono trovarsi all'esterno durante l'orario di servizio. E in ogni caso la loro condotta è stata giudicata non rilevante dal punto di vista penale.
I due operai, però, non possono pretendere il rimborso dal comune perché il processo penale in cui sono stati imputati non è stato aperto per motivi connessi al servizio. Timbrare il cartellino, osservano infatti i giudici di Palazzo Spada, costituisce l'adempimento di un dovere del dipendente legato al rapporto di lavoro esistente con la pubblica amministrazione, senza alcun riguardo al compimento di atti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio.
Il proscioglimento in sede penale è stato deciso proprio perché il giudice penale ha ritenuto che l'attività svolta in favore di soggetti privati, durante l'orario di servizio, non era riconducibile all'espletamento del servizio o all'adempimento di compiti d'ufficio.
Manca dunque il nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto per far scattare l'obbligo a carico dell'amministrazione di rifondere le spese di giudizio pagate dai due dipendenti del comune (articolo ItaliaOggi del 03.10.2015).
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MASSIMA
3. - Nel merito, l'appello è infondato.
Con il secondo motivo di censura, gli appellanti lamentano la violazione dell'art. 16 del D.P.R. n. 191/1979 e degli artt. 22 del D.P.R. n. 347/1983 e 67 del D.P.R. n. 268/1987.
Gli appellanti sostengono che nel caso in esame vi sarebbero tutti i presupposti per la concessione dell'assistenza legale (e per la spettanza del rimborso delle spese sostenute), a carico dell’amministrazione, dal momento che la timbratura del cartellino non costituirebbe «una mera esplicazione del dovere di ufficio, ma è l'atto attraverso il quale è certificata la presenza del dipendente sul posto di lavoro ed al servizio dell'ente stesso».
Gli appellanti sostengono, poi, che il rimborso andrebbe effettuato per entrambe le parcelle, atteso che l'art. 7, richiamato dal Comune nella relazione istruttoria, sarebbe applicabile solo alle cause civili, amministrative e tributarie, e non anche a quelle penali.
3b.- Orbene, l'invocato art. 67 del D.P.R. 13.05.1987, n. 268, il cui testo è stato recepito anche nel più recente C.C.N.L. del comparto del personale degli enti locali prevede che «l
'ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento».
Si tratta di una forma di tutela che trova giustificazione nel fatto che il dipendente pubblico, che viene convenuto in giudizio in tale sua veste, è portatore di un interesse non soltanto suo proprio, poiché vi è un coesistente interesse della pubblica amministrazione per la quale ha agito.
La spettanza del rimborso delle spese legalo postula una serie di condizioni, ossia che:
a) il giudizio penale sia promosso nei confronti del dipendente pubblico;
b) il soggetto abbia la qualifica di dipendente pubblico;
c) vi sia una connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali;
d) una sentenza o un provvedimento ne abbia escluso la responsabilità.

Il giudizio di responsabilità si considera promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali, solo nei casi in cui l'imputazione riguardi un'attività svolta in diretta connessione con i fini dell'ente e, come tale, ad esso imputabile.
La finalità della normativa di settore è l'esigenza di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all'espletamento del servizio (e dunque di consentire lo svolgimento sereno delle funzioni e dei servizi pubblici) e tenere indenni i soggetti delle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all'espletamento dei propri compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito essenziale in questione può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell'agire del pubblico dipendente direttamente all'amministrazione di appartenenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.11.2003, parere n. 332/2003).
In sostanza, il fatto oggetto del giudizio deve essere compiuto nell'esercizio delle attribuzioni o delle mansioni affidate al dipendente e deve esservi un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere ed il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quella determinata condotta.
Nel caso di specie, gli appellanti sono stati incolpati del reato di truffa aggravata nei confronti della propria amministrazione, «(operando) con artifici e raggiri, consistiti nel timbrare il cartellino marca-tempo, attestando le proprie presenze in ufficio, allontanandosene poi arbitrariamente, ponendo in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a procurarsi un ingiusto vantaggio».
Orbene, non può che osservarsi che
la timbratura del cartellino marca-tempo, al momento di accedere in ufficio, è l'adempimento di un dovere del dipendente legato al rapporto di lavoro esistente con la pubblica amministrazione, senza alcun riguardo al compimento di atti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio o di servizio riferibili all'ente.
Del resto, nella specie, il proscioglimento in sede penale vi è stato proprio perché il giudice penale ha ritenuto che l’attività svolta in favore di soggetti privati -durante l’orario di servizio- non era riconducibile all’espletamento del servizio o all’adempimento di compiti d’ufficio.

TRIBUTI: Il cambio di classamento deve essere motivato.
Catasto. Va precisato se la variazione di inquadramento dipende da trasformazioni edilizie o miglioramenti del contesto urbano.
È nullo per difetto di motivazione l’atto con cui l'agenzia del Territorio (oggi agenzia delle Entrate) modifica il classamento di un immobile senza indicare in maniera specifica le ragioni della rettifica.
Lo ricorda la Ctp Cosenza (presidente Gaetani, relatore Lento) nella sentenza 22.09.2015 n. 4850/2/2015.
La controversia scaturisce da un avviso di accertamento, con cui l’allora agenzia del Territorio variava il classamento di un immobile. Secondo il ricorrente, la modifica era inammissibile per “ne bis in idem”, giacché sulla questione la Ctp si era già pronunciata nel 1998; l’avviso si doveva comunque ritenere nullo perché carente di motivazione.
Dal canto suo, l’Agenzia ha dedotto che l’obbligo di specificare le ragioni del provvedimento era stato assolto con l’indicazione di categoria e classe dell’immobile. Inoltre ha precisato che l’appartamento del contribuente era inserito in un fabbricato di 29 unità abitative, uguali per tipologia e anno di costruzione; sicché anche al bene del ricorrente, registrato in A/3, si doveva assegnare la categoria A/2 attribuita alle altre unità.
Nell’accogliere il ricorso, la Ctp osserva, innanzitutto, che un precedente giudicato non impedisce all’amministrazione di effettuare un nuovo classamento in caso di trasformazione del bene. Nel merito, i giudici affermano che l’Agenzia, quando modifica d’ufficio il classamento di un immobile, deve specificare («a pena di nullità del provvedimento per difetto di motivazione») se il mutamento è dovuto a:
trasformazioni specifiche dell’unità;
una risistemazione dei parametri della microzona in cui si trova il bene.
Nel primo caso si devono specificare -prosegue la Ctp, richiamando l’ordinanza 16643/2013 della Cassazione- «le trasformazioni edilizie intervenute». Nella seconda ipotesi va indicato «l’atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano».
Ciò per consentire al contribuente di valutare se fare ricorso o prestare acquiescenza al provvedimento, ma anche per impedire all’amministrazione di addurre, in un eventuale successivo contenzioso, «ragioni diverse rispetto a quelle enunciate». In ogni caso, la motivazione del provvedimento -si legge ancora nella sentenza- non si può limitare «a contenere l’indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall’agenzia del Territorio».
Nel caso in esame, l’atto non solo non richiama le norme di legge su cui l’amministrazione ha fondato la modifica, ma soprattutto è «privo di approfondita motivazione», giacché è stata omessa la descrizione «delle specifiche e concrete differenze riscontrate».
La Ctp, inoltre, osserva che l’Agenzia, nel costituirsi in giudizio, aveva sostenuto di aver disposto il nuovo classamento per ragioni di uniformità con gli altri immobili dello stabile e con i fabbricati esistenti nel raggio di 200 metri. Tuttavia, questi chiarimenti non sono presi in considerazione, dal momento che -sostiene ancora la Commissione, citando la sentenza 23248/2014 della Corte suprema- l’amministrazione non può «sopperire con integrazioni in sede processuale alle lacune dell’atto di classamento impugnato».
L'avviso è quindi annullato, con condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese processuali
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica dei prospetti.
Appartengono al novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni) le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi.
E tali
opere, per costante giurisprudenza anche amministrativa, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano -a pieno titolo e come da contestazione- nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del genere, è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente.
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L'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire.
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I
n tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso.
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Le cosiddette opere interne, di cui al previgente art. 26 L. 47/1985, non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti di talché esse rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso.
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D
eve escludersi che, entrato in vigore il D.P.R. 06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus, di ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure ottenuta.
Tale disposizione, infatti, realizza solo una semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e la loro non contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti.

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Gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche se soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi.
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Gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata disposizione, laddove insistenti in area paesaggisticamente vincolata, necessitano del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
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7. Chiave di volta della decisione è, infatti, la qualità dei lavori eseguiti sull'immobile del Sarno con la direzione dei lavori dell'ing. Ca.: se lavori di manutenzione per lo più ordinaria e solo in parte straordinaria ovvero se lavori di ristrutturazione interna, come si legge nell'imputazione.
La conclusione del giudice di prime cure, a cui dire le opere edilizie de quibus, in quanto assentibili con semplice DIA e da qualificare di manutenzione straordinaria, piuttosto che di ristrutturazione interna, come nel capo, non costituirebbero illecito penale, ma solo amministrativo, sanzionabile a mente dell'art. 37 piuttosto che dell'art. 44 del D.P.R. 380/2001 non può essere condivisa secondo la Corte territoriale in quanto non considera né la tipologia di intervento praticato, né il fatto che il principio invocato è valido esclusivamente in caso di loro conformità agli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San Giorgio a Cremano.
Così si evince, fuori da ogni dubbio, secondo i giudici del gravame del merito, dalla piana lettura dell'art. 22 del precitato testo normativo il cui I comma recita testualmente "Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente", risulta integrata la fattispecie penalmente sanzionata.
In primo luogo, secondo quanto si legge nella motivazione del provvedimento impugnato, vanno qualificati gli interventi edilizi in parola, atteso che, ancorché senza aumento volumetrico,
appartengono al novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni) le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi.
Corretta è l'affermazione secondo cui queste ultime, per costante giurisprudenza anche amministrativa, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano -a pieno titolo e come da contestazione- nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del genere, è sufficiente che siano modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente.

Ebbene, proprio dalla lettura della DIA -rileva la Corte territoriale- si acquisisce la certezza che si versi in tale ipotesi, essendo stati gli interventi giustificati dalla necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni alfine di adeguare gli impianti igienici alle regole comunitarie, a nulla rilevando il fatto che non sia stata interessata la struttura portante del fabbricato e che il volume e le superfici dello stesso siano rimaste immutate.
La modifica delle aperture sui muri di tompagno, invero, viene ricordato nella sentenza impugnata, ha comunque modificato i prospetti, alterando la sagoma. E sul punto non va dimenticato che questa Corte di legittimità ha precisato che
l'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire (sez. 3, n. 38338 del 21.05.2013, Cataldo, rv. 256381, fattispecie in cui è stato ritenuto integrato il reato dì cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001; conf. sez. 3, n. 48478 del 07.11.2013, Cottone, rv. 258352).
Questa Corte di legittimità ha anche precisato che,
in tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso (sez. 3, n. 3953 del 16.10.2014 dep. il 28.1.2015, Statuto, rv. 262018, fattispecie relativa a trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale).
8. Né giova, secondo il condivisibile opinare dei giudici di appello, il riferimento alla conservazione del procedimento amministrativo per le cosiddette opere interne di cui al previgente art. 26 L. 47/1985 le quali non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti di talché
esse rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti -com'è nel caso di specie- e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (corretto è il richiamo al dictum di questa Corte Suprema di cui a sez. 3 n. 47438 del 24/11/2011 , Truppi, rv. 251637; vedasi anche in senso conf. sez. 3, n. 27713 del 20.5.2010, Olivieri ed altro, rv. 247919; sez. 3, n. 35177 del 12.7.2001 dep. 21.10.2002, Cinquegrani, rv. 222740).
Come ricorda in sentenza la Corte napoletana
deve escludersi che, entrato in vigore il D.P.R. 06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus, di ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure ottenuta. Tale disposizione, infatti, realizza solo una semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e la loro non contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti.
...
9. La Corte territoriale analizza in maniera approfondita e corretta i risvolti normativi che giustificavano la necessità del permesso di costruire per l'opera realizzata.
E fa buon governo della giurisprudenza di questa Corte di cui alla richiamata sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010:
gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche se soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi (sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010, Perna, rv. 246217, relativa ad un caso di un intervento di demolizione e ricostruzione, eseguito in base a D.I.A., di un preesistente manufatto abusivamente realizzato).
Nella stessa sentenza 8739/2014 si precisa, peraltro, che
gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata disposizione, necessitano del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (in motivazione la Corte ha precisato che solo per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non comportanti alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2015 n. 38139 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio della valutazione paesaggistica ed estinzione reato.
La punibilità del reato di pericolo previsto dall'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, non è subordinata alla sussistenza di un effettivo pregiudizio per l'ambiente, ma discende dalla realizzazione ex se di una qualsivoglia opera abusiva in area vincolata, potendo essere escluso l'illecito soltanto nell'ipotesi di interventi di "minima entità", e cioè di quelli inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale.
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 la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti.
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Il rilascio della valutazione paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la "sanatoria".
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3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, osserva la Corte che, per costante indirizzo di legittimità,
la punibilità del reato di pericolo previsto dall'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, non è subordinata alla sussistenza di un effettivo pregiudizio per l'ambiente, ma discende dalla realizzazione ex se di una qualsivoglia opera abusiva in area vincolata, potendo essere escluso l'illecito soltanto nell'ipotesi di interventi di "minima entità", e cioè di quelli inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale (Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv. 245908).
Orbene, la Corte di appello ha fatto buon governo di questo principio, come emerge dal complessivo tenore della pronuncia che evidenzia la natura non irrilevante degli interventi eseguiti; a fronte della quale, peraltro, la doglianza in oggetto -secondo cui, nella vicenda in esame, non si sarebbe realizzata alcuna lesione del paesaggio- contiene l'esplicita richiesta di una valutazione in punto di fatto (in specie, circa il carattere "interno" degli interventi), che questa Corte non è legittimata a compiere, potendo valutare soltanto la coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argornentativo, e restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/03/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
4. Con riguardo, poi, al secondo, terzo e quarto motivo, da esaminare congiuntamente, ritiene la Corte che gli stessi siano parimenti del tutto infondati.
La sentenza di appello ha dato conto dell'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte della Soprintendenza competente, ma -con motivazione adeguata e fondata su riscontri istruttori- ha altresì individuato gli errati presupposti di fatto in forza dei quali il provvedimento medesimo era stato emanato; in particolare, quello, «tratto dalla documentazione prodotta a corredo dell'istanza, che trattasi di "interventi di piccola entità che riguardano opere pertinenziali con struttura precaria" e senza valutare che "i pilastrini sono all'interno annegati nella struttura", come chiarito davanti a questa Corte dal funzionario della Sovrintendenza responsabile del procedimento».
Questa considerazione, poi, si lega strettamente alle precedenti, con le quali il Collegio di merito ha escluso la natura precaria e pertinenziale degli interventi; ciò, in particolare, alla luce della difficile amovibilità delle strutture (evidenziata anche dal perito d'ufficio), «dal momento che sono stati utilizzati profilati in acciaio scatolare saldati tra loro e collegati alle strutture murarie senza piastre o altri idonei sistemi di fissaggio poiché "direttamente annegate alle murature"».
Quel che ha condotto la Corte -con solido argomento logico-giuridico, peraltro nient'affatto confutato dal presente ricorso- ad affermare che la Ma. aveva realizzato un vero e proprio ampliamento della superficie utile abitabile, in ottica tutt'altro che precaria (ampliamento del vano lavanderia, trasformazione del vano cucina in locale bagno, realizzazione di una struttura scatolare a copertura del vano scale); sì da aderire al costante indirizzo di legittimità in forza del quale
la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici, per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 (applicata dal primo Giudice quanto al reato urbanistico) non richiede concessione e/o autorizzazione, va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv. 261156; Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771).
Facile rimovibilità esclusa dalla Corte, in ragione delle pacifiche conclusioni del perito di ufficio.
Dal che l'affermazione -logica ma priva di effetti- per cui il Tribunale non avrebbe dovuto assolvere la Ma. dall'imputazione di cui all'art. 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, attesa la configurazione del reato.
Orbene, in forza di queste diffuse e congrue considerazioni, la Corte di merito ha quindi affermato la sussistenza del delitto pur a fronte del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica; rilascio avvenuto su un presupposto -la già richiamata natura precaria degli interventi- poi verificatosi inesistente. Quel che ha condotto lo stesso Collegio a confermare l'indirizzo per cui
il rilascio della valutazione paesaggistica all'esito della menzionata procedura non determina automaticamente la non punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la "sanatoria" (per tutte, Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, Falconi+2, non massimata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2015 n. 38134 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Chiusura per chi occupa abusivamente suoli pubblici.
È lecita la chiusura dell'esercizio commerciale che occupa abusivamente il suolo pubblico.

A disporlo è il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, che con la sentenza 18.09.2015 n. 11297 e sentenza 18.09.2015 n. 11300, legittima l'operato di un comune, il quale, al fine di contenere il crescente fenomeno di occupazione abusiva di suolo pubblico da parte di titolari di esercizi commerciali, ha rispolverato una norma del 2009 che per troppo tempo era rimasta nel dimenticatoio.
Si tratta, infatti, dell'art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009 il quale dispone che nei casi di indebita occupazione di suolo pubblico il sindaco può ordinare l'immediato ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti e, se si tratta di occupazione a fine di commercio, la chiusura dell'esercizio fino al pieno adempimento dell'ordine e del pagamento delle spese o della prestazione di idonea garanzia e, comunque, per un periodo non inferiore a cinque giorni.
L'amministrazione comunale, nei confronti di un esercizio commerciale che aveva effettuato un'occupazione senza essere in possesso della relativa concessione, ha reagito disponendo la rimozione dell'occupazione abusiva del suolo pubblico antistante l'esercizio per l'immediato ripristino dello stato dei luoghi a cura e spese dell'interessato, nonché la chiusura dell'esercizio per un periodo pari a cinque giorni e, comunque, fino al completo ripristino dello stato dei luoghi.
Immediata è stata la reazione dell'interessato, il quale ha subito eccepito che la questione relativa all'occupazione di suolo pubblico doveva essere ricondotta nel vasto novero delle attività commerciali per le quali vige, per conforme normativa nazionale ed europea, il principio della libertà di attività commerciale e la possibilità per il cittadino di accedere liberamente alla medesima senza alcuna limitazione.
Pertanto l'amministrazione comunale non potrebbe negare o differire nel tempo il rilascio della concessione. Tale prospettazione non è stata però condivisa dai giudici di palazzo Spada i quali hanno precisato che la tutela costituzionale dell'iniziativa economica incontra il limite dell'utilità sociale (art. 41 Cost.).
Nella specie il legislatore, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che lo svolgimento di tali attività commerciali in maniera non conforme alle regole di disciplina della materia e in particolare di uso del territorio cittadino giustifica l'applicazione della sanzione della chiusura, per un periodo di tempo limitato, del relativo esercizio commerciale (articolo ItaliaOggi del 10.10.2015).

INCARICHI PROFESSIONALILa riduzione dei compensi dell'avvocato in presenza di nota spese, se non motivata, dovrà ritenersi illegittima.
Riduzione dei compensi, ok solo se motivata.

A sottolinearlo sono stati i giudici della I Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 17.09.2015 n. 18238.
I giudici di piazza Cavour hanno, altresì, evidenziato come la determinazione degli onorari di avvocato e degli (onorari) e diritti di procuratore rappresenta, secondo quanto anche affermato già nel 1993 dalla medesima Cassazione (si veda: Cass., 19/10/1993, n. 10350), «esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando sia stato l'interessato stesso a specificare le singole voci della tariffa che assume essere state violate».
Inoltre, qualora ci si trovi in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice non potrà limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti, ma avrà l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, al fine evidente di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all'inderogabilità dei relativi minimi, a norma della legge n. 794 del 1942, art. 24 (si vedano: Cass., 30/03/2011, n. 7293; Cass., 30/10/2009, n. 23059; Cass., 24/02/2009, n. 4404).
Sarà, quindi, dovere del giudice quello di indicare dettagliatamente le singole voci che riduce, perché chieste in misura eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in modo da consentire l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe in relazione all'inderogabilità dei minimi (si veda anche: Cass., 08/02/2007, n. 2748).
La Corte di cassazione, nel caso specifico, era stata chiamata ad esprimersi sul seguente thema decidendum: un soggetto adiva la Corte di cassazione asserendo che la Corte d'appello, quale giudice di rinvio in una causa avente ad oggetto la determinazione di indennità di espropriazione e di occupazione legittima, aveva liquidato le spese e competenze delle tre fasi processuali d'ufficio in misura ridotta rispetto a quanto richiesto, con indicazioni e voci di spesa dettagliate (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli edilizi. Impugnazione Vicinitas sufficiente.
Ai fini del riconoscimento della sussistenza delle condizioni che legittimano all'impugnazione di singoli titoli edilizi, vale il principio della sufficienza della sola vicinitas, con esclusione di qualunque indagine volta ad accertare, in concreto, l'esistenza di un obiettivo pregiudizio per il soggetto che agisce in giudizio.

È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Liguria con la sentenza 17.09.2015 n. 746.
Circa, poi, l'eccezione di inammissibilità della domanda di annullamento della Dia i giudici amministrativi genovesi hanno richiamato il comma 6-ter dell'art.19 della legge n. 241/1990, aggiunto dall'art. 6, comma 1, lett. c), del dl n. 138/2001, che espressamente prevede che la Dia non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile.
È inoltre previsto, al secondo periodo del comma citato, che «gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all' art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104». Pertanto la tutela del terzo che si ritiene leso dalla Dia, atto dichiaratamente non provvedimentale, potrebbe essere affidata esclusivamente a meccanismi sollecitatori della pubblica amministrazione e, in sede giurisdizionale, all'attivazione dello speciale rito del silenzio.
Se si prende, inoltre, in considerazione l'esclusività del rimedio giurisdizionale approntato dal legislatore, va altresì esclusa, secondo i giudici liguri, «l'ammissibilità dell'azione intesa a sindacare il mancato esercizio dei poteri inibitori che competono all'amministrazione».
Non è, infine, possibile ipotizzare nel caso sottoposto all'attenzione del tribunale amministrativo ligure, neppure, d'altronde, la sua convertibilità in azione avverso il silenzio, poiché non risulta che fosse stata presentata alcuna istanza diretta a sollecitare l'esercizio dei poteri inibitori suddetti e conseguentemente non è possibile ipotizzare nella fattispecie un'ipotesi di silenzio inadempimento censurabile con il ricorso ex art. 31 cod. proc. amm. (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).
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MASSIMA
1) La ricorrente, proprietaria di una porzione di un fabbricato in Pieve Ligure e residente in altro immobile sito nello stesso Comune, agisce per conseguire l’annullamento della denuncia di inizio attività (d.i.a.) e degli atti presupposti aventi ad oggetto un intervento di demolizione e ricostruzione, con ampliamento volumetrico, della porzione dello stesso fabbricato di proprietà del controinteressato.
Come già precisato in premessa, l’intervento in questione comporta la sopraelevazione di un piano della parte di immobile del controinteressato che, in conseguenza, si eleverà per due piani fuori terra, sovrastando la porzione di cui è proprietaria la ricorrente.
In alternativa all’azione di annullamento, l’esponente chiede che sia accertata l’illegittimità del comportamento del Comune che non ha esercitato i poteri inibitori nei confronti della d.i.a. asseritamente illegittima.
2) In via preliminare, la difesa del controinteressato eccepisce l’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse ad agire.
Infatti, la proprietà immobiliare della ricorrente, destinata a box auto, non sarebbe in alcun modo pregiudicata, né in termini di funzionalità né di valore commerciale, dal contestato intervento edificatorio.
L’interesse all’impugnazione, peraltro, non potrebbe fondarsi sulla circostanza di essere residente nello stesso Comune, stante la notevole distanza che separa l’abitazione della ricorrente dall’immobile del controinteressato.
L’eccezione contrasta con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui,
nel caso di impugnazione di singoli titoli edilizi, vale il principio della sufficienza, ai fini del riconoscimento della sussistenza delle condizioni che legittimano all’impugnazione, della sola vicinitas, con esclusione di qualunque indagine volta ad accertare, in concreto, l’esistenza di un obiettivo pregiudizio per il soggetto che agisce in giudizio (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1217; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.09.2014, n. 752).
Non ravvisando ragioni per discostarsi da tale consolidato orientamento, il Collegio ritiene che l’eccezione in parola debba essere disattesa, poiché
l’interesse all’impugnazione della ricorrente deriva dall’evidente vicinitas tra l’immobile di proprietà e quello che forma oggetto del contestato intervento edificatorio (si tratta, anzi, di due porzioni di un fabbricato unico).
3) E’ fondata, invece, l’eccezione di inammissibilità della domanda di annullamento della d.i.a.
Il comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241/1990, aggiunto dall’art. 6, comma 1, lett. c), del d.l. n. 138/2001, prevede espressamente, infatti, che la d.i.a. non costituisce un provvedimento tacito direttamente impugnabile.
E’ inoltre previsto, al secondo periodo del comma citato, che “gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
In forza di tali previsioni, pacificamente applicabili ratione temporis nella vicenda che forma oggetto della controversia,
la tutela del terzo che si ritiene leso dalla d.i.a., atto dichiaratamente non provvedimentale, è affidata esclusivamente a meccanismi sollecitatori della pubblica amministrazione e, in sede giurisdizionale, all’attivazione dello speciale rito del silenzio.
Nel caso in esame, pertanto, la possibilità di esperire l’azione di annullamento della d.i.a. deve essere esclusa direttamente in forza della previsione legislativa.
Considerando l’esclusività del rimedio giurisdizionale approntato dal legislatore, va altresì esclusa l’ammissibilità dell’azione intesa a sindacare il mancato esercizio dei poteri inibitori che competono all’amministrazione.
Non si può neppure ipotizzare, d’altronde, la sua convertibilità in azione avverso il silenzio, poiché non risulta che fosse stata presentata alcuna istanza diretta a sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori suddetti e non può, in conseguenza, configurarsi nella fattispecie un’ipotesi di silenzio inadempimento censurabile con il ricorso ex art. 31 cod. proc. amm.

Per tali ragioni, deve essere dichiarata inammissibile l’azione proposta avverso la d.i.a..

ATTI AMMINISTRATIVIConsiglio di stato in Cassazione. Decisione impugnabile se viola i confini tra le funzioni. Il Supremo consesso precisa le coordinate entro le quali le sentenze sono contestabili.
Precisate le coordinate entro le quali è impugnabile in Cassazione una sentenza del Consiglio di stato: con la sentenza 15.09.2015 n. 18079 il Supremo consesso -Sezz. Unite civili- ha avuto modo di definire le linee di confine tra le due diverse giurisdizioni, affermando che «in linea generale, si può impugnare una decisione del Consiglio di stato per aver violato o i confini che distinguono le funzioni dello Stato (legislativa, amministrativa, giurisdizionale) o, all'interno della funzione giurisdizionale, i confini che distinguono tra giudice ordinario, giudice amministrativo e altri giudici speciali».
In dettaglio, era accaduto che dopo aver partecipato all'esame per l'abilitazione all'esercizio della professione forense, un dottore in legge aveva impugnato le valutazioni negative relative ai suoi elaborati contestando il metodo di giudizio della commissione esaminatrice; mentre il Tar competente accoglieva l'istanza cautelare, ritenendo immotivati e irragionevoli i giudizi espressi, il Cds (davanti al quale il ministero della giustizia aveva proposto appello) si esprimeva in senso opposto, annullando la sentenza e compensando le spese. A questo punto, l'aspirante avvocato si rivolgeva direttamente alle sezioni unite della cassazione con un unico motivo di ricorso.
Nel ricordare che non hanno il compito (ed il conseguente potere) di valutare nel merito il giudizio del Cds, le S.u. spiegano che il ricorrente aveva scambiato per «rifiuto od omissione» di giurisdizione quello che invece era stato un esercizio della giurisdizione: il Cds si era infatti espresso in maniera articolata, richiamando i principi giuridici che regolano la materia, valutando i giudizi della commissione d'esame e le argomentazioni critiche del Tar e spiegando i motivi per i quali aveva ritenuto, in difformità dal giudizio del Tar, che la commissione, nel valutare gli elaborati, non avesse travisato i fatti né tanto meno avesse formulato un giudizio qualificabile come manifestamente illogico.
Per questi motivi lo hanno dichiarato inammissibile, proprio «perché si colloca al di fuori dell'ambito entro il quale una decisione del Consiglio di Stato può essere oggetto di ricorso per Cassazione» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIRicorso per motivi aggiunti, paletti anti-abusi. Tar Lombardia: non si può considerare come memoria notificata.
l ricorso per motivi aggiunti non può essere neppure considerato come «memoria notificata», perché, in quanto tale, dovrebbe essere depositata (previa sua notificazione) entro i termini di cui all'art. 73 c.p.a. tenuto conto della fissazione dell'udienza di merito e comunque la dichiarazione circa la sua proposizione non potrebbe in alcun modo giustificare un rinvio della trattazione di merito.

È quanto hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano, con la sentenza 14.09.2015 n. 1974.
I giudici amministrativi milanesi ribadiscono poi, nella sentenza in commento, che ai sensi dell'art. 43 c.p.a., possono essere introdotti con motivi aggiunti «nuove ragioni» a sostegno delle domande già proposte, oltre che domande nuove purché connesse a quelle già proposte.
Si tratta, quanto ai primi, dei motivi aggiunti c.d. «propri», volti a integrare la causa petendi, e, quanto ai secondi, dei motivi aggiunti c.d. «impropri», volti all'ampliamento del petitum, oltre che delle causa petendi.
Ebbene: «Secondo una definizione ormai comune in dottrina e in giurisprudenza, i motivi aggiunti propri contengono censure nuove, proposte contro il provvedimento già impugnato con l'atto introduttivo del giudizio con lo scopo di evidenziare ulteriori vizi conosciuti solo successivamente, mentre sono motivi aggiunti cd. impropri, quelli che, seppur contenenti una domanda nuova, sono materialmente inseriti nello stesso processo, per ragioni di connessione oggettiva e di concentrazione della decisione (Consiglio di stato, sez. IV, 03.09.2014, n. 4480)».
Non bisogna, quindi, incorrere, secondo il tribunale amministrativo lombardo nell'ipotesi di abuso del processo che si potrebbe facilmente riscontrare in caso di esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa (si veda: Consiglio di stato, sezione IV, 02.03.2012, n. 1209; Ad. Plen. 23.03.2011 n. 3).
Vige infatti nel nostro sistema (si vedano: Cass. Sez. I 12.05.2011, n. 10488; idem 03.05.2010, n. 10634; Ss.uu. 15.11.2007, n. 23726) un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, il quale, ai sensi dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto, e che quindi si applica anche in chiave processuale (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015).

EDILIZIA PRIVATADa soffitta ad alloggio: non basta la Dia. Tar Lazio.
L’ordinanza di demolizione è legittima se per lavori che prevedono un cambio di destinazione d’uso tra due categorie edilizie diverse manca il «permesso di costruire» rilasciato dalla Pa.

L’ha chiarito il TAR Lazio-Roma nella sentenza 11.09.2015 n. 11216, depositata dalla Sez. I-quater, bocciando il ricorso di un privato che chiedeva di annullare l’ordine di demolizione disposto da un Comune per i lavori di ristrutturazione e «risanamento conservativo» di una soffitta di inizio 900 ormai pericolante.
Secondo il ricorrente, tali interventi erano realizzabili con la denuncia di inizio attività (Dia) presentata in base alle norme del Testo unico dell’edilizia (articolo 22, Dpr 380/2001) e l’ordinanza era nulla poiché «il bene preesiste agli interventi di mero risanamento», non essendo cioè un’opera di nuova costruzione per cui è richiesto il permesso di costruire (lettera c, comma 1, articolo 10, Testo unico).
I lavori avevano portato al «cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio». I giudici hanno spiegato che «in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d’uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d’uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta)».
Il Tar, in pratica, ha precisato come «solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo, l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione interna,
sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto,
non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che,
in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero,
solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/200, è stata ordinata la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed il ricorso deve essere respinto.

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Nella concreta gestione la parola al dirigente.
Nel caso in cui l'oggetto del provvedimento amministrativo riguardi la concreta gestione e organizzazione di un servizio pubblico, disciplinato da atti normativi di vario livello, la competenza spetta agli organi dirigenziali e non al Sindaco.

È quanto hanno stabilito i giudici della II Sez. del TAR Sardegna con la sentenza 11.09.2015 n. 1018.
Si pensi, a mo' di esempio, al caso in cui il provvedimento riguarda la regolazione delle modalità di conferimento dei rifiuti solidi urbani, in una specifica e circoscritta zona del territorio comunale.
Infatti, la materia oggetto degli atti impugnati posti all'attenzione dei giudici amministrativi sardi, riguardava proprio un particolare profilo di organizzazione e gestione del servizio di ritiro e conferimento dei rifiuti solidi urbani comunali.
I giudici cagliaritani, nel caso specifico, hanno osservato come l'art. 107 del Tuel riservi alla competenza dei dirigenti l'intera gestione amministrativa dei comuni, con un'ampia formula secondo la quale «spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108».
E', poi, la medesima norma a individuare una sorta di limite nelle disposizioni di legge o di statuto che individuano le competenze degli organi di indirizzo politico; limite, che costituisce la traduzione in termini più specifici del principio di distinzione tra gestione, da un lato, e indirizzo e controllo dall'altro.
Si osserva, inoltre, che l'art. 54 del Testo unico degli enti locali, subordina il potere di ordinanza del sindaco a diversi presupposti, tra i quali (tipicamente) la necessità e l'urgenza «di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana» (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, l'abusivo può avere l'esposto.
Qualcuno ha fatto la «spia» ai vigili. A un vicino i lavori edilizi nella casa attigua proprio non sono andati giù e si è rivolto alla Municipale. Ecco allora che il proprietario dell'immobile chiede di vedere l'esposto contro di lui ma il comando della polizia locale risponde che l'accesso è precluso dall'articolo 329 Cpp in quanto è stata comunicata una notizia di reato.
In realtà, invece, il responsabile dei lavori ha diritto a leggere l'esposto anche se rischia l'incriminazione penale: in questo caso la comunicazione dei vigili in procura non rientra fra le attività di polizia giudiziaria, mentre chi è soggetto a un controllo o a un'ispezione ha l'interesse qualificato a conoscere tutti i documenti dai quali scaturisce l'iniziativa.

È quanto emerge dalla sentenza 10.09.2015 n. 11188, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma.
Secondo cui la polizia municipale, in quanto espressione del comune, agisce nell'ambito della sua attività istituzionale, che è amministrativa e non come polizia giudiziaria laddove ha ricevuto l'esposto dal terzo.
Risulta dunque esclusa l'applicazione della regola secondo cui gli atti d'indagine compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.
Deve invece riconoscersi al proprietario dell'immobile la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale di accedere a esposti o denunce presentati nei suoi confronti (articolo ItaliaOggi del 13.10.2015).
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MASSIMA
... ritiene il Collegio che il ricorso meriti favorevole esame.
La gravata determinazione oppone un diniego all’istanza del ricorrente, volta ad ottenere l’accesso all’esposto presentato nei suoi confronti con riguardo a lavori edili eseguiti nella propria abitazione, nel ritenuto presupposto che essendo stato trasmessa comunicazione di notizia di reato all’Autorità Giudiziaria ed essendo in corso l’attività di indagine vi osterebbe la previsione recata dall’art. 329 c.p.p.
Al riguardo, osserva il Collegio l’erroneità della motivazione posta a base del gravato diniego in quanto, in adesione alla giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis, da ultimo: Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.01.2013 n. 547; TAR Reggio Calabria 22.10.2014 n. 584),
non ogni denuncia di reato presentata all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, dal momento che, se la denuncia è presentata dalla p.a. nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p., diversamente da quanto accade nell’ipotesi in cui la p.a. che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento, venendo in rilievo in tali casi atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. che sono conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Esclusa quindi l’applicabilità, alla fattispecie in esame, dell’art. 329 c.p.p. –il quale prevede, al comma 1, che gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari– e ciò in quanto la comunicazione effettuata dall’Amministrazione all’Autorità Giudiziaria non rientra tra le attività di polizia giudiziaria attribuite all’Amministrazione stessa, ritiene ancora il Collegio, quanto a verifica della sussistenza dei presupposti per l’accesso, che
deve in linea generale riconoscersi in capo all’istante la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale di accedere ad esposti o denunce presentati nei suoi confronti, trattandosi di interesse collegato ad una situazione giuridicamente tutelata in capo al soggetto istante e connesso al documento al quale è chiesto l'accesso.
Chi subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha, infatti, un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti d'iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti, non essendovi, alla luce del quadro normativo di riferimento, ostacoli a tale diritto di accesso, non offrendo l’ordinamento tutela alla segretezza delle denunce, a meno che la comunicazione del nominativo del denunciante non si rifletta negativamente sullo sviluppo dell'istruttoria, il che può unicamente giustificare il differimento del diritto di accesso, ma non consente, invece, il diniego del diritto alla conoscenza degli atti (Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2009, n. 3081; Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601).
Nello stesso senso,
ancor più di recente, il Consiglio di Stato (Sez. III, 08.09.2014, n. 4539) ha riconosciuto l'ostensibilità delle denunce che hanno dato origine ad un accertamento medico a cui è stato sottoposto il lavoratore, da parte del datore di lavoro, ancorché conclusosi con esito negativo.
I richiamati principi di diritto, che trovano applicazione alla fattispecie in esame, conducono quindi all’accoglimento del ricorso, dovendo per l’effetto disporsi l'annullamento del gravato provvedimento di diniego con contestuale ordine, alla resistente Amministrazione, di consentire l’accesso al ricorrente, mediante estrazione di copia, all’esposto presentato nei suoi confronti entro il termine di 30 (trenta) giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore, della presente pronuncia.

LAVORI PUBBLICI: La prosecuzione dell’attività «salva» i contratti pubblici. Concordato. Non serve l’ok del giudice.
Quando, durante la fase del concordato “in bianco”, si prospetta un concordato con continuità diretta, i contratti pubblici in essere al momento del deposito della domanda proseguono senza necessità di un’autorizzazione da parte del giudice.
Ad affermarlo è il TRIBUNALE di Mantova (ordinanza 10.09.2015, presidente Alfani, relatore De Simone).
Nella vicenda sottoposta all’attenzione del tribunale una società per azioni operante nel settore della costruzione di strade, autostrade e piste aeroportuali aveva proposto domanda di concordato preventivo e, con successiva istanza, aveva rappresentato la volontà di proseguire e regolarmente adempiere ai contratti pubblici pendenti.
La legge fallimentare prevede che i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito della domanda di concordato non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura. Per quanto riguarda i contratti stipulati con pubbliche amministrazioni, l’articolo 186-bis della legge fallimentare stabilisce però che la prosecuzione automatica dei contratti in essere riguarda solo le proposte di concordato in continuità aziendale.
L’autorizzazione del tribunale è invece necessaria per la partecipazione dell’imprenditore a procedure di affidamento di nuovi contratti pubblici. La norma non prevede espressamente l’automatica prosecuzione dei contratti stipulati con la Pa durante il tempo del concordato in bianco.
Il giudice mantovano ha ricollegato la fattispecie sottoposta alla sua attenzione, ossia il caso in cui durante il concordato in bianco venga prospettato un concordato con continuità diretta, all’istituto del concordato con continuità aziendale: ne consegue che i contratti in corso possono proseguire regolarmente anche durante il tempo del concordato in bianco senza alcuna necessità di autorizzazione da parte del tribunale.
Il giudice di primo grado ha cioè ritenuto che, durante il concordato in bianco, l’automatica prosecuzione dei contratti in corso stipulati con le pubbliche amministrazioni, quand’anche non espressamente prevista per il concordato con continuità diretta, si evince dal complesso delle disposizioni normative in quanto il concordato in continuità diretta è una delle forme in cui si attua il concordato il continuità aziendale.
Secondo il collegio, la norma prevista in materia di continuità aziendale, si limita ad imporre all’imprenditore, in sede di deposito del piano, di armonizzare la prosecuzione dei rapporti in essere intervenuta ex lege con il piano concordatario predisposto. La prosecuzione dei rapporti in essere non è invece subordinata all’ammissione dell’imprenditore alla procedura. L’automatica prosecuzione appare altresì coerente con la logica della continuità aziendale a cui la stabilità contrattuale è sottesa.
Il tribunale mantovano ha dunque rigettato la richiesta dell’imprenditore ritenendo che quando, durante il periodo del concordato in bianco, viene prospettato un concordato con continuità diretta, i contratti pubblici in essere al momento del deposito della domanda proseguono senza necessità di autorizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Rimescolate le carte sulla campionatura.
Il Consiglio di Stato (Sez. III, sentenza 08.09.2015 n. 4191) rimescola le carte sul valore della campionatura in tema di appalti pubblici.
Partendo dal dato normativo (art. 42, comma 1, lett. l), ha ritenuto che
la funzione della campionatura non sia quella di rappresentare (o integrare) l'offerta tecnica quanto quella di comprovare l'effettiva idoneità dei concorrenti a soddisfare le esigenze della p.a. appaltante. Ne consegue che il campione non costituisce un elemento costitutivo ma solo dimostrativo delle proposte di gara, in quanto «consente all'Amministrazione di saggiare e di toccare con mano, se così può dirsi, la bontà tecnica del prodotto offerto».
Da ciò ne consegue che, non essendo un elemento dell'offerta, la campionatura non dev'essere aperta in seduta pubblica, per cui la sentenza del Tar Milano deve essere riformata.
La sentenza ha ribaltato il precedente orientamento, seguito dal Tar Milano secondo il quale la campionatura era invece una componete essenziale della proposta tecnica dei concorrenti, per cui la sua mancata «apertura» in seduta pubblica configurava una violazione dei principi di pubblicità, con conseguente l'annullamento della partecipazione. Negli appalti pubblici e, in particolare, nelle procedure per l'affidamento di forniture di beni, la campionatura ha spesso costituito un elemento su cui le interpretazioni sono state mutevoli.
Secondo l'art. 42, comma 1, lett. l), dlgs n. 163/2006 prevede la «produzione di campioni» a dimostrazione della capacità tecnica e professionale di un concorrente ma, al tempo stesso, dispone la possibilità del deposito di una «descrizione o fotografie dei beni», ovvero delle c.d. schede tecniche che, di fatto, rappresentano il vero e proprio contenuto dell'offerta tecnica, relegando quindi la produzione dei campioni ad una episodica eventualità. La campionatura ha dunque assunto nel tempo un ruolo di mera conferma del contenuto delle schede tecniche oppure di dimostrazione delle serietà e congruità delle offerte.
A seguito della sentenza del Cds, nelle procedure di gara l'offerta è e resta essenzialmente documentale e pertanto qualsiasi «incidente» dovesse eventualmente riguardare la campionatura (come nel caso in cui risultasse incompleta, oppure difforme alle schede tecniche depositate dal concorrente), tutto ciò non può mai comportare l'esclusione ma solo motivare il soccorso istruttorio al concorrente, trattandosi (come detto) la campionatura di un elemento «non essenziale» delle offerte (articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.201).
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MASSIMA
18. Il motivo è fondato.
18.1. Proprio muovendo da quest’ultimo rilievo, infatti, si deve evidenziare che
la funzione assegnata dall’art. 42, comma 1, lett. l), del d.lgs. 163/2006 alla campionatura non è quella di integrare, essa stessa, l’offerta tecnica, bensì di comprovare, con la produzione di capi o prodotti dimostrativi detti appunto “campioni”, la capacità tecnica dei concorrenti e la loro effettiva idoneità a soddisfare le esigenze, spesso complesse, delle stazioni appaltanti.
18.2.
Il campione non è, dunque, un elemento costitutivo, ma semplicemente dimostrativo dell’offerta tecnica, che consente all’Amministrazione di saggiare e di toccare con mano, se così può dirsi, la bontà tecnica del prodotto offerto, e non può considerarsi parte integrante di essa, per quanto oggetto di valutazione, a determinati fini, da parte della Commissione giudicatrice, perché la sua funzione è quella, inequivocabile ed espressamente stabilita dall’art. 42, comma 1, lett. l), del d.lgs. 163/2006, di fornire la «dimostrazione delle capacità tecniche dei contraenti», per gli appalti di forniture, attraverso la «produzione di campioni, descrizioni o fotografie dei beni da fornire».
18.3. Lo stesso art. 1.6 del capitolato, con previsione chiara ed inequivocabile, stabilisce che le concorrenti possono integrare la campionatura con altri articoli, qualora lo ritengano necessario.
18.4.
La possibilità di integrare la campionatura con altri articoli, anche una volta scaduti i termini per la presentazione dell’offerta tecnica, contraddice la sua affermata natura costitutiva dell’offerta stessa, non integrabile né emendabile o modificabile in alcun modo, e ne conferma, diversamente da quanto ritiene il TAR che offre una interpretazione riduttiva di tale previsione, la natura di elemento materiale dimostrativo, e non integrante, della stessa offerta tecnica.
18.5. E tanto è precisato dalla stessa stazione appaltante che, nel chiarimento n. 6 del 16.01.2014, per quanto impugnato da Se.It. s.p.a., ha evidenziato che «la mancata tempestiva consegna dei campioni non determinerà l’esclusione dell’offerta, ma renderà la stessa non valutabile dalla Commissione Tecnica» ed ha posto due distinti termini –il 28.01.2014 e il 31.01. 2014– per la presentazione dell’offerta, da un lato, e della campionatura, dall’altro.
18.6.
L’offerta tecnica, del resto, consiste pacificamente, secondo quanto prevede la lex specialis, in documentazione –progetto tecnico ed allegati– da acquisirsi con modalità telematiche (piattaforma Sintel).
19.
Netta è dunque la distinzione, funzionale ancor prima che strutturale, tra la documentazione tecnica e la campionatura, sicché non può ritenersi corretto affermare che la campionatura sia parte integrante dell’offerta tecnica e, in quanto tale, debba essere aperta in seduta pubblica.
19.1.
Se essa ha infatti, per espressa e inderogabile volontà del legislatore, una funzione meramente esemplificativa delle caratteristiche dell’offerta, mirando a dimostrare le capacità tecniche della concorrente, e può, addirittura, essere integrata nel corso della gara, come ha previsto la lex specialis, finché non sia oggetto di valutazione da parte della Commissione, non vi è alcuna esigenza di par condicio tra i concorrenti né alcun interesse pubblico alla imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa che ne giustifichi l’apertura in seduta pubblica, con il ricorso ad operazioni materiali di apertura, aventi ad oggetto molti e ingombranti campioni, lunghe, complesse e finanche inutili, una volta che i campioni possano essere cambiati dalla concorrente, anche successivamente, per dimostrare la bontà della propria offerta tecnica, che è e resta nella sua essenza documentale, come pure si dirà tra breve, il parametro principale e imprescindibile al quale la stazione appaltante deve fare riferimento, pur essendo condizione necessaria, ma non sufficiente, nella gara in questione, per la congiunta necessità di depositare anche la campionatura.
19.2.
La previsione dell’art. 42, comma 1, lett. l), del d.lgs. 163/2006, ha già del resto chiarito questo Consiglio, trova la sua ratio nell’esigenza di disporre, fin dalla fase di qualificazione, di «un parametro fermo di raffronto dei contenuti dell’offerta tecnica cui deve poi corrispondere l’esecuzione del contratto» (Cons. St., sez. III, 23.10.2014, n. 5225), ciò che, nel caso di specie, è reso manifesto dalla stessa previsione dell’art. 1.6. del capitolato, secondo cui, durante la validità del contratto, tutti i capi oggetto del servizio dovranno corrispondere esattamente a quelli campionati in sede di gara.
19.3. Non paiono al Collegio condivisibili le contrarie argomentazioni, pur fini e suggestive, articolate da Se.It. s.p.a. nella propria memoria difensiva, laddove sostiene, in particolare (p. 17), che la tesi dell’appellante principale, Ad., proverebbe in realtà troppo, perché la campionatura, seguendo tale tesi, sarebbe tutto e il contrario di tutto (requisito di partecipazione, ma non a pena di esclusione, elemento dimostrativo dell’offerta, ma estraneo al suo contenuto), ma giammai offerta tecnica.
19.4. Al contrario rileva il Collegio che la tesi dell’appellante principale, oltre che conforme al dato normativo e alla ratio legis della campionatura, rispecchia la sola ed esclusiva funzione, anche alla stregua della lex specialis, che la campionatura può avere, quella, cioè, di illustrare, in modo esemplificativo e non tassativo, il contenuto dell’offerta tecnica, comprovando le capacità tecniche dell’impresa concorrente, e quindi di essere, rispetto all’offerta tecnica, un elemento richiesto ad probationem e non ad substantiam, rendendo quest’ultima, in sua assenza, non valutabile, come ha chiarito la stazione appaltante, e non già inammissibile.
19.5. Da quanto esposto consegue l’accoglimento dell’appello, proposto da Ad., e la reiezione in parte qua del ricorso proposto in primo grado da Se.It. s.p.a., non dovendo i campioni essere aperti in seduta pubblica.

AMBIENTE-ECOLOGIA: La materia delle emissioni acustiche prodotte nello svolgimento di servizi pubblici essenziali ed in particolare quello ferroviario non possono essere disciplinate dagli enti locali.
In tema di inquinamento acustico, l'art. 9 della l. 26.10.1995 n. 447 prevede espressamente la possibilità di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in caso ricorrano "eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente", ma riserva il potere di ordinanza alle Autorità rispettivamente indicate, secondo le competenze di ciascuno, individuando, tuttavia, il Presidente del Consiglio dei ministri "nel caso di servizi pubblici essenziali", all'evidente scopo di uniformare l'azione amministrativa applicata alle enucleate peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici essenziali.
Il legislatore ha conferito allo Stato la disciplina delle emissioni ed immissioni sonore prodotte nello svolgimento di servizi pubblici essenziali e in particolare quello ferroviario, nel quale rientra l'attività di uno scalo ferroviario, con la conseguenza che le emissioni ed immissioni sonore prodotte da quest'ultima attività non possono essere disciplinate dagli enti locali (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.09.2015 n. 1920 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Si può affidare un contratto di appalto solo sulla base del massimo ribasso.
È possibile affidare contratti di appalto anche caratterizzati da ampi profili di complessità sulla base del solo criterio del massimo ribasso.

È questo il principio sancito dal Consiglio di Stato -Sez. V- nella sentenza 31.08.2015 n. 4040.
I giudici di palazzo Spada hanno ribaltato, infatti, la sentenza del Tar del Lazio riguardante una gara, contestata da un'impresa esclusa, per l'affidamento in appalto della gestione dei servizi di call center e di back office per i reclami della clientela, la cui aggiudicazione era prevista sulla base del solo criterio del massimo ribasso.
In primo luogo, i giudici del Tar affermavano come il criterio di selezione del massimo ribasso non apparisse idoneo a garantire un servizio non caratterizzato da elevata standardizzazione, e, in aggiunta, rilevavano che il disciplinare e il bando di gara predisposti dalla stazione appaltante non erano definiti in modo compiuto ed esaustivo, essendo, perciò, tali da compromettere la par condicio tra le imprese concorrenti, a causa dell'indeterminatezza dei contenuti dell'offerta da presentare.
In merito al primo rilievo riscontrato dal Tar, nell'accogliere l'appello presentato dalla stazione appaltante, il Consiglio di stato afferma come i servizi oggetto dell'appalto in contestazione non costituiscano attività con contenuti tecnico-specialistici prevalenti o significativi, sia per quanto riguarda l'organizzazione dei mezzi e del personale, sia per quanto attiene ai processi produttivi.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, sono molti gli elementi che inducono a ritenere ragionevole la decisione dell'ente aggiudicatore di attribuire all'«elemento prezzo» rilevanza esclusiva nella scelta dell'appaltatrice del servizio: la serialità delle prestazioni oggetto del servizio, la non necessità di ricorrere a personale altamente specializzato, l'assenza di dotazione strumentale di elevata complessità tecnologica e, non ultimo, la possibilità di delocalizzare le unità produttive anche in paesi extracomunitari, sfruttando così le asimmetrie salariali esistenti tra diverse nazioni.
Di conseguenza, è legittima, secondo i giudici, la scelta della stazione appaltante di basare la selezione di gara solo sull'elemento del risparmio economico, fatti salvi gli standard minimi di tipo organizzativo e di rendimento, necessari a garantire l'integrazione delle attività dell'appaltatrice con la propria struttura e il rispetto della vigente normativa di settore, compresa quella di provenienza dell'Autorità competente, predisponendo a tal fine appositi indicatori di qualità del servizio e prevedendo conseguentemente premi o penali.
E neanche rileva, secondo i giudici di palazzo Spada, l'eccezione presentata dalla ricorrente basata sulle significative differenze (una forbice di oltre due milioni di euro tra l'offerta migliore e quella contenente il minore ribasso) registrate nei ribassi offerti in sede di gara: infatti, la varietà di soluzioni organizzative reperibili sul mercato può consentire il raggiungimento di elevati margini di comprimibilità dei costi interni, anche per quelle tipologie di servizi incentrate su basso contenuto tecnologico e alta intensità di lavoro.
Per quanto riguarda, poi, il secondo rilievo riscontrato dai giudici di primo grado, il Consiglio di stato ritiene idonea, e in linea con il disciplinare tecnico predisposto dalla stazione appaltante, la scelta di demandare all'appaltatore la combinazione dei fattori produttivi necessari alla fornitura del servizio, ferme restando le proprie responsabilità per il raggiungimento dei risultati previsti. Tale previsione appare, peraltro, in linea con il contenuto dell'articolo 1655 del codice civile, nel quale è riconosciuta all'appaltatrice la facoltà di svolgere ed organizzare autonomamente le proprie attività, fermo restando il vincolo del risultato.
Nella sentenza del Consiglio di stato è richiamato, poi, l'articolo 81, comma 2, del dlgs 163/2006 (c.d. «Codice degli appalti») secondo il quale è riconosciuta alla stazione appaltante ampia discrezionalità nell'individuare il metodo di selezione delle offerte nell'ambito di procedure di affidamento, tra il criterio del prezzo più basso ed quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Inoltre, nell'enunciare le «caratteristiche dell'oggetto dell'appalto» quale elemento discrezionale nell'individuazione del criterio di selezione, la disposizione suddetta rimanda, quindi, alla fase preparatoria della gara, e cioè alla progettazione che ogni ente aggiudicatore deve svolgere in vista del futuro affidamento del contratto, per la definizione delle caratteristiche di quest'ultimo, e all'esito di tale fase, per gli ulteriori aspetti per i quali si preveda, invece, la ricerca presso gli operatori privati di soluzioni in grado di conseguire prestazioni qualitativamente migliori rispetto a quelle individuate in sede progettuale.
In conclusione, secondo i giudici di palazzo Spada, qualora il grado di dettaglio della progettazione svolta dalla stazione appaltante sia tale da non richiedere, secondo valutazioni di carattere discrezionale di quest'ultima, l'acquisizione di soluzioni tecniche migliorative, è possibile procedere ad affidamenti sulla base del solo criterio del massimo ribasso anche per quei contratti d'appalto caratterizzati da rilevanti profili di complessità, quali, in particolare, gli appalti di opere pubbliche (articolo ItaliaOggi del 02.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Avvocati della p.a., stop a controfirme dirigenziali.
No alla «sudditanza tecnica» degli avvocati funzionari della Regione. Gli addetti al servizio legale ben possono essere posti in rapporto di subordinazione gerarchica nei confronti dei dirigenti dell'ente, in quanto comunque dipendenti pubblici. Ma non devono essere soggetti alla controfirma del responsabile dell'unità operativa direzionale laddove (Uod) quel potere vale come un diritto di veto del capo che impedisce all'avvocato di esprimere il suo punto di vista. Mentre anche il dissenso rappresenta una caratteristica imprescindibile dell'attività forense. Annullata sul punto, dunque, la delibera della Campania per il riassetto degli uffici: risulta contraria ai principi affermati dal nuovo statuto dell'avvocatura, contenuto nella legge 247/2012.

È quanto emerge dalla sentenza 27.07.2015 n. 3945, della III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto in parte il ricorso degli avvocati-funzionari dell'ente. La controfirma del dirigente sugli atti ha un senso solo quando è diretta a condividere le valutazioni professionali già espresse dal legale.
Nel nostro caso, invece, si consegna al coordinatore dell'Uod la facoltà di bloccare tutta l'attività se l'avvocato è incaricato di un affare legale contro il parere del responsabile dell'unità. Il quale può negare il suo placet anche in contrasto con le scelte operate dall'avvocato capo. Ecco allora che prevedere una controfirma «senza l'introduzione di contrappesi e bilanciamenti», si legge in sentenza, «appare un'evidente ingerenza sull'autonomo svolgimento dell'attività professionale forense».
E ciò perché le valutazioni professionali non possono essere soggette a convalida altrui ma devono sempre risultare il portato di «un libero ed autonomo giudizio intellettuale» da parte del singolo avvocato incaricato dell'affare: il legale, d'altronde, assume la piena responsabilità individuale degli atti giudiziali e consultivi.
Senza dimenticare che l'avvocato-funzionario ha il diritto di manifestare e formalizzare il dissenso e di fare comunque valere le sue idee sui profili tecnico-giuridici riguardanti la questione esaminata di volta in volta. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 15.10.2015).
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MASSIMA
9.- Delineato quindi in parallelo il quadro normativo disegnato con le due delibere, il Collegio è dell’avviso che il nuovo riassetto organizzativo non compromette di per sé le prerogative del ruolo forense.
Come ha avuto modo di chiarire il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4366/2014, “la nuova delibera n. 731/2012 ha modificato in modo significativo l’assetto dei rapporti interni all’Avvocatura appena disegnato dal precedente provvedimento (ndr delibera 478/2012), configurando in termini diversi le relazioni interne a ciascuna UOD come pure, più ampiamente, la posizione rivestita dagli avvocati-funzionari in seno alla complessiva struttura.”.
Ed invero,
l’assimilazione dell’Avvocatura agli altri uffici della giunta regionale ed il fatto che l’Ufficio legale mutui il relativo impianto strutturale non si pone come un’inaccettabile impostazione gerarchica entro cui gli avvocati-funzionari dell’ente vengono inevitabilmente compressi nelle loro prerogative professionali.
Questa Sezione, con la sentenza n. 2508 del 2013, ha precisato che “
…non vi sono ostacoli all’individuazione all’interno dell’Ufficio Avvocatura (dunque tra gli Avvocati iscritti all’albo) di posizioni differenziate in ragione dell’anzianità di servizio e dell’esperienza maturata. Ciò si realizza anche attraverso la suddivisione in Avvocati–dirigenti e Avvocati–funzionari”.
10.- Il punto che, al contrario, pone perplessità circa il libero esercizio dell’attività forense e che costituisce l’aspetto caratterizzante della delibera 731/2012 è nella previsione della controfirma dei pareri e degli atti degli avvocati-funzionari da parte dei Coordinatori di UOD, in aggiunta a quella dell’Avvocato Capo.
In altri termini, l’assoggettamento a modelli organizzativi e gerarchici non appare di per sé incompatibile con la funzione di avvocato dipendente di un ente pubblico e non in contraddizione con i principi del’ordinamento professionale forense; ciò che invece, al di là delle variabili organizzative e strutturali, può ledere o almeno seriamente compromettere le garanzie volte all’autonomo svolgimento del mandato professionale è il potere di controfirma sugli atti e sui pareri legali senza che vi sia alcuna possibilità da parte del legale di fare emergere inequivocabilmente la propria posizione sulla specifica questione.
Sul punto,
la controfirma, in senso tecnico, assume il valore di convalida della prima firma.
I ricorrenti richiamano, per analogia, l’istituto dell’art. 89 della Costituzione che postula la necessità del requisito formale della controfirma quale condizione di efficacia, validità e legittimità degli atti per i quali essa è prevista. In questo senso, la controfirma su un documento servirebbe a convalidare la prima firma, nel caso di specie quella apposta dall’avvocato-funzionario.
Ebbene, a sostegno delle deduzioni dei ricorrenti, il Collegio riflette sulla circostanza che
le valutazioni professionali non sono suscettibili di convalida altrui ma devono sempre essere il risultato del formarsi di un libero ed autonomo giudizio intellettuale del singolo avvocato incaricato dell’affare, tant’è che la stessa comporta la sua piena responsabilità individuale e non concorrente, in quanto unico legittimato a predisporre il contenuto dei propri atti giudiziali e consultivi.
La controfirma ha un senso solo laddove sia diretta a condividere le valutazioni professionali già espresse dal legale.
Pertanto,
ciò che non è conciliabile con le funzioni proprie dell’avvocato non è la subordinazione gerarchica o l’inserimento nel contesto di modelli di coordinamento, aspetti fondamentalmente giustificati da ineludibili e razionali esigenze organizzative dell’ente,quanto l’essere sottoposto a forme di “sudditanza tecnica”, ancorché il legale sia dipendente di un’amministrazione pubblica.
11.- Il sistema organizzativo congegnato dalla delibera 731/2012 comporta che, nel caso in cui l’avvocato funzionario venga incaricato di un affare legale contro il parere del proprio coordinatore di UOD, quest’ultimo, disponendo del potere di “controfirma” su tutti gli atti del sottoposto, può inibirne in concreto l’attività, negando di volta in volta l’apposizione anche in contrasto con le scelte operate dall’Avvocato capo.
La previsione della controfirma, senza l’introduzione di contrappesi e bilanciamenti, questi ultimi individuabili fondamentalmente nella possibilità, da parte dell’avvocato-funzionario, di manifestare e formalizzare il dissenso e di fare comunque valere i propri convincimenti, relativamente ai profili tecnico-giuridici inerenti la questione di volta in volta oggetto di esame, appare un’evidente ingerenza sull’autonomo svolgimento dell’attività professionale forense.
La possibilità, per il legale, di esprimere incondizionatamente il proprio punto di vista, anche sotto forma di dissenso, costituisce un elemento irrinunciabile dell’attività forense, anche laddove svolta in qualità di dipendente di amministrazioni pubbliche, più o meno conformate a modelli che richiedono forme di gerarchia o, perlomeno, di coordinamento.
La salvaguardia della piena libertà di espressione è fattore imprescindibile perché il contributo professionale, i pareri e le valutazioni tecniche svolte dall’avvocato abbiano i caratteri dell’attendibilità e dell’affidabilità.
La legge professionale forense, in particolare l’art. 23 L. 247/2012, riconosce infatti l’autonomia del giudizio tecnico ed intellettuale dell’avvocato.
L’autonomia, la professionalità e la specializzazione è garantita, peraltro, dalla stessa Costituzione (artt. 3, 24, 33, 97 e 111 Cost.; Corte Cost, 27.06.2012, n. 166).
Anche nell’ambito degli enti pubblici, l’avvocato gode di autonomia ed indipendenza di giudizio, nella fase precontenziosa e contenziosa, nell’impostazione da dare alla difesa degli interessi del proprio datore di lavoro, in questo caso pienamente assimilabile alla posizione del “cliente”; sotto questo profilo, il ruolo dell’avvocato dell’ente non è dissimile da quella del libero professionista. Ed invero, l’avvocato risponde verso il proprio ente a titolo di responsabilità professionale ove non avesse tempestivamente e motivatamente sconsigliato gli uffici amministrativi ad insistere nella difesa giudiziale di un provvedimento palese illegittimo.
Ciò spiega perché anche il legale dipendente di un ente pubblico deve essere pienamente libero di valutare la legittimità della pretesa del proprio datore di lavoro e, più in particolare, di potere apprezzare che la stessa non sia in contrasto alle regole deontologiche ed ai principi fondamentali dell’ordinamento
(cfr. in questo senso Tar Lazio, Roma, sez. II, 13.04.2011, n. 3222; Tar Basilicata, Potenza, sez. I, 08.07.2013, n. 405; Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 730).
In conclusione, limitatamente ai profili sopra richiamati, la delibera appare illegittima perché lesiva delle prerogative e delle intrinseche caratteristiche proprie dell’attività legale, confermate dal legislatore con la Legge sulla professione forense n. 247/2012. Pertanto, nei termini sopra descritti il ricorso introduttivo merita accoglimento con conseguente annullamento in parte qua e per quanto di ragione dell’impugnata delibera n. 731/2012.

TRIBUTI: Tributi locali, prescrizione in 5 anni.
In tema di riscossione di tributi locali, si applica il termine di prescrizione quinquennale, a decorrere dalla data di notifica della cartella di pagamento, divenuta definitiva per mancata impugnazione. Non può invocarsi, dunque, l'applicazione della prescrizione decennale, in via analogica rispetto a quanto avviene nel caso in cui la pretesa erariale si fondi su una sentenza passata in giudicato.
Dunque, contro una intimazione di pagamento per tributi locali, che si riferisca a una cartella notificata oltre cinque anni addietro, è possibile proporre ricorso dinanzi al giudice tributario e ottenerne l'annullamento.

Sono le conclusioni a cui giunge la Ctp di Salerno, nella sentenza 13.07.2015 n. 3603/10/15.
Un contribuente della provincia campana impugnava un'intimazione di pagamento notificata da Equitalia Sud nell'anno 2014, riferita a una precedente cartella di pagamento per tributi locali, notificata nell'anno 2005 e mai contestata.
Il ricorrente eccepiva la prescrizione, essendo trascorsi più di 5 anni tra la notifica della cartella e quella della successiva intimazione. L'Agente della riscossione, invece, sosteneva l'applicazione della prescrizione decennale, chiedendo l'applicazione, in via analogica, dell'articolo 2953 del codice civile, secondo cui: «I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo a essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
Secondo il resistente, infatti, la definitività del titolo paragiudiziale (nella specie, la cartella di pagamento), verificatasi per la mancata impugnazione, produce degli effetti del tutto equiparabili al passaggio in giudicato della sentenza, ancorando la prescrizione della pretesa a dieci anni anziché al termine breve.
La Ctp ha respinto tale impostazione difensiva dell'Agente della riscossione, accogliendo il ricorso del contribuente. L'effetto giuridico previsto dall'art. 2953 c.c., spiega il collegio, consegue esclusivamente al passaggio in giudicato di una sentenza e non può essere esteso, in via analogica, ad altre situazioni.
Il citato articolo 2953, infatti, è norma speciale che non può essere suscettibile di applicazione analogica. Per cui, dopo la notifica della cartella e la sua definitività per mancata impugnazione, il termine di prescrizione non subisce alcun allungamento, rimanendo quello originariamente previsto in ragione della tipologia di credito assunto in riscossione.
Trascorsi più di cinque anni senza la notifica di atti interruttivi, la pretesa cade in prescrizione ed è possibile eccepire dinanzi al giudice tributario tale vizio, impugnando la relativa intimazione di pagamento.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso può essere accolto.
In sostanza merita attenzione l'eccezione di prescrizione sollevata da parte ricorrente sul presupposto che la cartella di pagamento afferente l'intimazione opposta e relativa ai tributi locali anni 1998/19999, è stata notificata in data 18/02/2005 come riportato nella stessa intimazione.
Sul punto parte resistente ha dedotto che, anche per i tributi locali, il termine da applicare è quello decennale in forza della teoria dei c.d. titoli paragiudiziali che diventano definitivi in mancanza di tempestiva opposizione.
Secondo tale impostazione, dal c.d. passaggio in giudicato della cartella esattoriale, discenderebbe la trasformazione della prescrizione propria dei crediti in quella ordinaria, indipendentemente dalla natura degli stessi sicché, ancorché il credito si prescriva in un termine più breve, quest'ultimo si trasformerebbe in decennale per applicazione analogica della norma.
Orbene, al riguardo la Commissione osserva che l'effetto giuridico previsto dall'art. 2953 cod. civ, secondo il quale i diritti che si prescrivono in un termine inferiore ai dieci anni, quando è intervenuta sentenza di passato in giudicato si prescrivono con il decorso di dieci anni, consegue esclusivamente al passaggio in giudicato di una sentenza e non può essere esteso in via analogica ad altri atti.
In merito la giurisprudenza della S.C. è abbastanza uniforme nel ritenere che gli effetti dell'art. 2953 cc non possono e non devono essere applicati in via analogica, trattandosi di norma speciale e che solo quando la pretesa erariale si fondi su una sentenza passata in giudicato, la relativa cartella esattoriale, avendo a oggetto un credito definitivamente accertato a seguito di contenzioso e come tale avente diritto nella sentenza, va emessa entro il termine decennale di prescrizione (cfr Cass. sez. 5, n. 19077/2014).
Tanto premesso nel caso di specie, il termine prescrizionale applicabile è quello quinquennale e, di conseguenza, l'eccezione di parte ricorrente è fondata poiché dalla notifica della cartella, avvenuta in data 18/2/2005, alla successiva notifica dell'intimazione del 28/11/2014, sono decorsi più di cinque anni.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso.
Condanna la resistente Equitalia Sud SpA al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi euro 330,00 di cui 30,00 per spese, oltre accessori se dovuti (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATADisabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma. Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare, nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice, anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il principio contenuto nella motivazione della sentenza 03.07.2015 n. 1541 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il permesso per installare nel vano scale una piattaforma elevatrice necessaria per il superamento delle barriere architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale è stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma richiede la precisa indicazione di reali alternative concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme, anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure, con il quale si allega l’illegittimità del diniego di permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva, sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge regionale n. 12 del 2005.

2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei ricorrenti,
l’interruzione dei termini procedimentali a seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga alla presente, concernente l’allegata formazione per silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla disciplina dell’articolo 13 della legge regionale dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso, infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel rispetto del termine di quindici giorni previsto per l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di permesso di costruire e –come detto– di provvedimento intervenuto nei termini e non successivamente alla prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che l’intervento progettato non sarebbe conforme alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si evidenzia che “l’intervento così come proposto non è comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e, quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma 1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni caso essere garantita la possibilità del trasporto di soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani, degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine, sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m. 0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti– delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135 del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181 del Regolamento edilizio dispone che “Il presente regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123 del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che permanente, con ridotte o impedite capacità motorie, sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione, devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da parte di tutte le persone, in special modo per i portatori di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti di adattabilità, visitabilità, accessibilità
.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce un generale favor –in conformità ai principi costituzionali e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e alternative per la realizzazione degli interventi volti a realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli edifici da parte dei portatori di handicap (v. in particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe –secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo 3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che
la prevista inapplicabilità alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo di adeguamento alle nuove regole degli edifici già realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò, però, fermo restando che le previsioni del Regolamento debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al rilascio di concessione o autorizzazione da parte del Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso, per interventi anche parziali di ristrutturazione, ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978, n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo restando che per esigenze tecniche documentabili saranno ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di igiene della presente normativa purché le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata” (quinto comma).
In altri termini, l
a disposizione del Regolamento locale di igiene non può essere interpretata come volta a consentire, in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche per gli interventi da eseguire su costruzioni già autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità tecnica di superamento di dislivelli mediante la realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il predetto articolo 127 non esclude, di per sé, l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte, e considerato che nessuna previsione concernente la larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni, lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la possibilità di assentire l’intervento senza necessità di derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative alla realizzazione dell’intervento risultano essere suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio, la derogabilità delle relative previsioni discende dal disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli, eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3, comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20 della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme sull'eliminazione delle barriere architettoniche e prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti, si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di “impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”– rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6 del 1989, che prevede espressamente la possibilità di concedere deroghe in favore di interventi specificamente finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche e localizzative; sennonché anche tale disposizione si riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del quadro normativo sopra ricostruito:
-
la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che “le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari (nelle fattispecie di cui al terzo comma dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento “permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma derogata (articolo 3.0.0, quinto comma);
-
la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio comunale (articolo 182), il quale dovrà peraltro tenere conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da parte delle persone portatrici di handicap (finalità richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base del diniego di permesso di costruire consistono, in buona sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere stata effettivamente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti, depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la necessità di prescegliere la soluzione progettuale consistente nella realizzazione di una piattaforma elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale (v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione consistente nella realizzazione di un montascale quale alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state, quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente praticabili e idonee a consentire il rispetto della disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene effettivamente presa in considerazione la praticabilità tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di un montascale, e tale soluzione viene indicata quale alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento” informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico. L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare se sussistono le condizioni per assentire l’intervento richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili (legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di costruire era corredata dalla delibera condominiale di assenso all’intervento, solo successivamente sospesa nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa essere realizzabile anche in violazione della normativa tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé, un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia all’installazione della modesta opera consistente nella pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale e tale da non soddisfare completamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione di un montascale possa costituire un’alternativa praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame le considerazioni tecniche poste alla base di tale valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in merito alla effettiva praticabilità della prospettata soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e valutativi in relazione agli elementi contenuti nella relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato nel provvedimento impugnato, ossia che
la possibilità di concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che
l’eliminazione delle barriere architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le persone affette da handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto –ossia il presupposto per la concessione della deroga alle previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti nel caso di specie.
In altri termini,
il rigetto della domanda di permesso di costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da ritenere come reali alternative, ossia come possibilità effettivamente e concretamente praticabili.
E invero,
laddove si ritenesse che l’esistenza solo in astratto di altre possibili soluzioni costituisca una ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le finalità stesse della deroga, oltre che i principi costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni
è necessario che la valutazione tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali, sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di diniego del permesso di costruire.
8.
Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il relativo onere, per consolidato orientamento giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto,
l’annullamento del permesso di costruire lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti, per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento dell’impugnazione non può costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV, 04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729).

EDILIZIA PRIVATAIl condominio non può controllare il vicino. Tar Liguria. Il Comune non può condizionare una costruzione al consenso dei confinanti.
Non è legittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune a un’impresa che vuole realizzare un’autorimessa, se viene subordinato al consenso dei condomìni confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di veto in ordine alla fattibilità dell’opera.
Lo ha affermato dal TAR Liguria, Sez. I, nella sentenza 11.06.2015 n. 561.
Nel caso esaminato un’impresa edile chiede il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un’autorimessa da svilupparsi su cinque livelli interrati. L’imponenza dell’opera suscita le proteste di alcuni residenti i quali, temendo che le opere di sbancamento potessero provocare crolli o cedimenti, presentano esposti al Comune. L’impresa allora ridimensiona l’opera prevista e il Comune, dopo un supplemento di istruttoria, approvava il nuovo progetto in versione ridotta.
Il titolo abilitativo, però, impone all’impresa non solo di predisporre (prima dell’avvio dei lavori di costruzione dell’autorimessa interrata) una relazione congiunta sottoscritta anche da un tecnico dei residenti che riconoscesse la fattibilità dell’intervento, ma di acconsentire anche un’attività di controllo da parte del professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. In altre parole, il Comune condizionava l’esecuzione dei lavori al consenso degli autori dei precedenti esposti e degli amministratori dei condomini circostanti. L’impresa, perciò, dopo l’inutile tentativo di accordarsi con i caseggiati vicini fa ricorso al Tar contro questi obblighi.
I giudici amministrativi liguri, nell’accogliere il ricorso, hanno rilevato come, in linea generale, sia da considerare legittimo un provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione. Tuttavia, secondo il Tar, il permesso di costruire deve essere rilasciato solo in base a precisi parametri normativi, attinenti alla legittimazione del richiedente e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici, senza considerare situazioni finalizzate a costituire forme di tutela dei residenti del vicinato.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che, considerando possibili pericoli legati all’esecuzione delle opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (potere che comporta un potere di veto circa la realizzazione dell’opera)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015).
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MASSIMA
6.1)
In linea di principio, deve darsi atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che ammette l’apposizione di condizioni al permesso di costruire, ritenendo che l’inserimento di particolari clausole accidentali possa risultare funzionale alla semplificazione della procedura e all’ampliamento dei poteri conformativi dell’amministrazione la quale, in questo modo, ha la possibilità di “modellare” meglio la propria decisione alle particolarità del caso concreto (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
Anche in tale prospettiva, però,
il permesso di costruire mantiene la propria natura di atto vincolato che deve essere rilasciato in base a precisi parametri normativi, pacificamente attinenti alla legittimazione del richiedente e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli strumenti urbanistici.
I presupposti di assentibilità del permesso di costruire non possono includere, invece, analisi della situazione di fatto sostanzialmente finalizzate, come nel caso di specie, a precostituire forme di tutela dei terzi in sede di esecuzione dei lavori.

Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che, avendo riguardo agli ipotetici (ma non dimostrati) pericoli cagionati dall’esecuzione delle opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (o, se si preferisce, un inammissibile potere di veto circa la realizzazione dell’intervento stesso).
Tanto più che la stessa Amministrazione aveva riconosciuto come tali elementi, riguardando la successiva fase della progettazione esecutiva, fossero estranei ai presupposti richiesti per l’approvazione del progetto edificatorio.
6.2) L’apposizione della contestata condizione sospensiva sembra anche funzionale alla prevenzione di potenziali contenziosi tra i privati (la Società titolare del permesso di costruire e i proprietari degli stabili limitrofi).
In tale prospettiva, si verifica un’obiettiva divergenza dell’atto rispetto alla sua funzione istituzionale, non identificabile con la tutela preventiva di interessi privati (tanto che esso viene normalmente rilasciato con la formula “fatti salvi i diritti dei terzi”), ma con la verifica della conformità dell’intervento alla normativa urbanistica ed edilizia.
Peraltro, la clausola in contestazione non arricchisce concretamente gli strumenti di tutela dei privati i quali, laddove abbiano ragione di temere i danni derivanti da una nuova opera intrapresa da altri, possono tutelare i propri diritti dinanzi al giudice ordinario mediante l’azione prevista dall’art. 1171 cod. civ..
6.3) La prescrizione di cui si controverte si pone anche immotivatamente in contraddizione con le risultanze dell’articolata istruttoria procedimentale.
Tutti gli uffici che si erano pronunciati in ordine all’intervento edificatorio, compreso l’Ufficio geologico del Comune, infatti, avevano reso parere favorevole.
Inoltre, il responsabile di quest’ultimo Ufficio, con una relazione in data 05.12.2011, si era scrupolosamente soffermato sulle relazioni tecniche allegate agli esposti presentati dai privati, escludendo la sussistenza delle criticità ivi segnalate.
6.4) E’ condivisibile anche la censura inerente alla violazione del divieto di aggravio del procedimento sancito dall’art. 1, comma 2, della legge n. 241/1990.
Come già precisato, infatti, l’approfondita istruttoria svolta dagli uffici comunali non aveva evidenziato la sussistenza di esigenze straordinarie che potessero eventualmente giustificare gli ulteriori adempimenti formali imposti con la contestata prescrizione, tali da determinare, anche nel caso di esito favorevole, una significativa dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere in progetto.
6.5) Infine,
la prescrizione in parola è illegittima per indeterminatezza in quanto, non contenendo la precisa individuazione dei soggetti legittimati ad esprimere il proprio consenso in ordine all’esecuzione dei lavori (genericamente identificati con gli “esponenti” e con gli “amministratori dei palazzi soprastanti”), introduce obiettivi elementi di incertezza in ordine alla possibilità di adempiervi compiutamente.
7) Per tali ragioni, il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATANon è sufficiente invocare il concetto di “stabile collegamento” per radicare la propria legittimazione a ricorrente quando, per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili, la “vicinitas” non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio.
Il criterio in esame è stato coniato dalla giurisprudenza, pur sempre al fine di selezionare una posizione giuridica soggettiva protetta, cosicché può ritenersi sufficiente a radicare la legittimazione del confinante, solo quando la modifica del preesistente assetto edilizio debba ritenersi “ictu oculi”, ovvero sulla scorta di sicure base statistiche tratte dall’esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell’area in cui insiste al proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale. Quando, invece, il pregiudizio non sia di per sé insito nella violazione edilizia (ad esempio per la distanza sussistente tra gli edifici), il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato non è sufficiente.
Occorre, per contro, dare plausibile riscontro dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all’avversata struttura.
Ragionare diversamente, ritenendo che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano “sempre” legittimati ad impugnare i titoli edilizi, anche quando non sia offerto alcun plausibile riscontro dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, significa elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare.

III.1. Pur in presenza di un quadro giurisprudenziale ancora non sufficientemente organico, ritiene il Collegio che non sia sufficiente invocare il concetto di “stabile collegamento” per radicare la propria legittimazione a ricorrente quando, per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili, la “vicinitas” non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio.
Il criterio in esame è stato coniato dalla giurisprudenza, pur sempre al fine di selezionare una posizione giuridica soggettiva protetta, cosicché può ritenersi sufficiente a radicare la legittimazione del confinante, solo quando la modifica del preesistente assetto edilizio debba ritenersi “ictu oculi”, ovvero sulla scorta di sicure base statistiche tratte dall’esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell’area in cui insiste al proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale. Quando, invece, il pregiudizio non sia di per sé insito nella violazione edilizia (ad esempio per la distanza sussistente tra gli edifici), il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato non è sufficiente.
Occorre, per contro, dare plausibile riscontro dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all’avversata struttura. Ragionare diversamente, ritenendo che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano “sempre” legittimati ad impugnare i titoli edilizi, anche quando non sia offerto alcun plausibile riscontro dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, significa elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare (la prospettazione offerta dal Collegio, non è priva di riscontri in giurisprudenza; cfr., ad esempio, Consiglio di Stato, sez. V 13/03/2014 n. 1263; sez. V 27/04/2012 n. 2460) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.05.2015 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto.
Ne consegue che
il soggetto privato può teoricamente assumere la posizione di persona offesa dal reato ed è pertanto legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.M..
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Il dovere di risposta presuppone che sia incardinato un procedimento amministrativo e perciò, se questo, come nella specie, non è stato ancora avviato, non v'è alcun obbligo di risposta.
Detto altrimenti,
non ogni richiesta di atto che il privato sollecita alla P.A. ha idoneità ad attivare, in tesi, il meccanismo per l'operatività della previsione delittuosa di cui al secondo comma dell'art. 328 cod. pen., con la conseguenza che restano al di fuori della tutela penale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla P.A. un'attività che è dalla stessa ritenuta ragionevolmente superflua
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Tanto premesso, in primo luogo, ed in relazione all'assunto del Procuratore generale, che ha sostenuto l'inammissibilità del ricorso, non rivestendo il ricorrente la qualità di "parte lesa", va rilevato che
il delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto.
Ne consegue che
il soggetto privato può teoricamente assumere la posizione di persona offesa dal reato ed è pertanto legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.M. (Cass. pen. sez. 2, 17345/2011 Rv. 250077 Massime precedenti Conformi: N. 1817 del 1995 Rv. 202818, N. 3806 del 1997 Rv. 210306, N. 4316 del 1998 Rv. 211123, N. 5376 del 2003 Rv. 223937).
Tuttavia siffatta generica asserzione -correlata allo schema dogmatico dell'art. 328 cod. pen.- va chiarita nel senso che
il dovere di risposta presuppone che sia incardinato un procedimento amministrativo e perciò, se questo, come nella specie, non è stato ancora avviato, non v'è alcun obbligo di risposta (cfr. in termini: cass. pen. sez. 6, U.P. 04.10.2001, in ricorso Giordano e altri).
Si vuole in altri termini significare che
non ogni richiesta di atto che il privato sollecita alla P.A. ha idoneità -come si pretende nella specie- ad attivare, in tesi, il meccanismo per l'operatività della previsione delittuosa di cui al secondo comma dell'art. 328 cod. pen., con la conseguenza che restano al di fuori della tutela penale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla P.A. un'attività che è dalla stessa ritenuta ragionevolmente superflua e non doverosa (cfr. sul punto: cass. Pen. sezione 6, U.P. 06.10.1998, in ricorso Concu) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza n. 79/2012).

AGGIORNAMENTO AL 06.10.2015

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OKKIO AL DANNO ERARIALE (sempre possibile, appena dietro l'angolo...)
* * *
Realizzazione diretta opere di urbanizzazione a scomputo oo.uu. 1^ e 2^:
1) per le opere di importo sotto soglia comunitaria
si deve prendere come riferimento il prezzo "pieno" del redatto computo metrico estimativo, sulla base delle voci di costo dell'ultimo listino della C.C.I.A.A. di appartenenza del comune??
2) per le opere di importo sopra soglia comunitaria
a chi rimane lo sconto di gara??
Ecco, a seguire, le risposte recenti della Corte dei Conti...

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria a scomputo degli oo.uu..
L’importo da porre a scomputo degli oneri di urbanizzazione è preliminarmente determinato in relazione al computo metrico estimativo, ritenuto congruo dai competenti uffici comunali.
Ciò, però, non preclude, nel caso che dalla contabilità di fine lavori risultasse un importo effettivamente speso dall’attuatore inferiore a quello determinato a monte –ove ovviamente detto importo fosse inferiore alla quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione– che il Comune possa chiedere al privato attuatore la differenza tra il primo importo e quello effettivamente speso.
Tale valore differenziale potrà essere corrisposto all’Amministrazione Comunale, a scelta di quest’ultima, o sotto forma di conguaglio economico o sotto forma di opere complementari ed integrative.
In questo senso, del resto, milita in primo luogo la considerazione che, nel caso si seguisse la procedura ordinaria, ovvero che l’Amministrazione eseguisse direttamente le opere di urbanizzazione, sopportandone i relativi oneri, beneficerebbe direttamente anche delle eventuali riduzioni, conseguite in fase di aggiudicazioni dei lavori, rispetto ai valori astrattamente indicati nel computo metrico estimativo
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Il ricorso all’istituto dello scomputo, dunque, non può consentire un esito deteriore per il Comune, con l’attribuzione al privato dei possibili guadagni relativi al minor costo di realizzazione delle opere.
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Ancora oggi risulta attuale e condivisibile la conclusione cui è giunta la Corte veneta nel 2009, pur tenuto conto delle successive modifiche legislative, circa la «spettanza al Comune dei ribassi d’asta eventualmente conseguiti in sede di gara rispetto al corrispettivo astrattamente e aprioristicamente posto a base d’asta.
Invero, il ribasso d’asta si traduce in una minore entità del corrispettivo che sarà in concreto corrisposto dal privato per la realizzazione delle opere rispetto a quello teorico ipotizzato prima della gara, al quale è stato commisurato lo scomputo iniziale.
E’ dunque evidente che, ove la differenza determinata dal ribasso d’asta non fosse riversata al Comune, la misura dello scomputo sarebbe maggiore rispetto a quella degli oneri di urbanizzazione in concreto sostenuti dal privato, determinandosi per tale parte un’ingiustificata decurtazione del contributo per permesso di costruire spettante al Comune».

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Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG), con nota del giorno 29.06.2015, dopo aver premesso che:
- “l’art. 16, comma 2-bis, del DPR n. 380/2001 così dispone: nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”;
- “ciò significa che
a) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria il cui importo è al di sotto della soglia comunitaria (ad oggi € 5.186.000,00) non sussiste più l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara d'appalto;
b) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria il cui importo è pari o superiore alla soglia comunitaria (€ 5.186.000,00) sussiste ancora l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara d'appalto
”;
- “ora, come è noto, il computo metrico estimativo delle opere di urbanizzazione primaria da realizzare è dettagliatamente redatto sulla base delle voci di costo desumibili dal "Bollettino prezzi opere edili" edito dalla C.C.I.A.A. di Bergamo con cadenza semestrale, sul cui Bollettino sono anche redatti i computi metrici estimativi dei lavori pubblici da porre in gara d'appalto. Ed è altresì noto come su tali voci di costo, nell'ambito di una gara d'appalto, normalmente il ribasso d'asta non sia di poco conto”,
ha posto i seguenti quesiti:
1) “per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria il cui importo (computo metrico estimativo redatto siccome specificato al comma precedente) è al di sotto della soglia comunitaria (€ 5.186.000,00), ancorché non sussista più l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara d'appalto, bisogna scomputare dall'importo degli oo.uu. prima dovuti l'importo (pieno) del computo metrico estimativo oppure la somma (sicuramente minore) che il lottizzante andrà effettivamente a spendere chiedendo (ovviamente) più preventivi di spesa ad imprese edili, le quali offriranno uno sconto percentuale sulle varie voci di costo? Nel caso la risposta propendesse per la seconda ipotesi, quali pezze giustificative si dovrebbero chiedere al lottizzante per avere la certezza dell'importo di spesa?
2) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria il cui importo (computo metrico estimativo redatto siccome specificato al comma precedente) è pari o superiore alla soglia comunitaria (€ 5.186.000,00), e quindi sussiste ancora l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara d'appalto, il ribasso d'asta resta nella disponibilità̀ del lottizzante oppure del Comune”?
...
1. Deve preliminarmente evidenziarsi come l’analisi delle questioni proposte dall’Ente rimane circoscritta ai profili generali ed astratti relativi all’interpretazione delle disposizioni che vengono in rilievo, essendo preclusa qualunque interferenza sulle scelte gestionali riservate alla discrezionalità dell’Ente.
Allo stesso tempo si invita l’Ente a valutare l’opportunità di adottare un apposito Regolamento relativo all’esecuzione delle opere di urbanizzazione da realizzarsi a scomputo degli oneri di urbanizzazione, in modo da disciplinare ex ante la materia in esame, evitando incertezze interpretative e il rischio di possibili contenziosi con i soggetti attuatori dei predetti oneri.
Questa Sezione ha già avuto modo di esaminare l’evoluzione della disciplina applicabile in subiecta materia in una precedente deliberazione (
parere 21.05.2012 n. 222). In quella sede si è avuto modo di precisare come la regolamentazione dell'istituto delle “opere di urbanizzazione a scomputo” risale alla normativa in materia urbanistica, secondo la quale la realizzazione di tali opere condiziona il rilascio del permesso di costruire (cfr. art. 31 della legge 1150/1942, art. 8 legge n. 765/1967, art. 6 legge n. 10/1977). Le pregresse disposizioni sono state poi trasfuse nell'articolo 16 del Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001 che, ai commi 7, 7-bis e 8, stabilisce la suddivisione in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, prevedendo che il rilascio del permesso di costruire comporta per il privato "la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2 del citato art. 16, la possibilità di scomputare la quota del contributo relativa agli oneri di urbanizzazione, nel caso in cui il titolare del permesso di costruire, o l’attuatore del piano, si obblighi a realizzarle direttamente. Tra l'operatore privato e l'amministrazione viene stipulata una convenzione che accede al permesso di costruire nella quale vengono regolate le opere da realizzare, i tempi, le modalità della loro esecuzione, la loro valutazione economica e le garanzie dell'adempimento, imprimendo così una connotazione negoziale al rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
La ratio dell'istituto va individuata nella possibilità offerta all'amministrazione locale di dotarsi di opere di urbanizzazione senza assumere direttamente i rischi legati alla loro realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza 12.07.2001 C-399/98 ("Scala 2001"),
che ha affermato le direttive europee in tema di appalti ostano “ad una normativa nazionale in materia urbanistica che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi".
La Corte di Giustizia ha precisato che “
la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione secondo le condizioni e le modalità previste dalla normativa italiana in materia urbanistica costituisce un appalto pubblico di lavori”. In sostanza, la Corte ha sostenuto che tali opere sono da ritenere pubbliche sin dall’origine (anche se eseguite su proprietà privata e se formalmente tali prima del passaggio al patrimonio pubblico) e che la realizzazione delle medesime in luogo del pagamento del contributo conferma tale natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti il quadro normativo si è evoluto nella direzione di un più esteso assoggettamento delle opere a scomputo alle procedure di evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la citata determinazione 02.04.2008 n. 4
ha poi esteso la portata dell'articolo 32, comma 2, lettera g), del d.lgs. 163/2006 a tutti i piani urbanistici e accordi convenzionali, comunque denominati, stipulati tra privati e amministrazioni (cosiddetti "accordi complessi", compresi gli accordi di programma) che prevedano l'esecuzione di opere destinate a confluire nel patrimonio pubblico.
Il Legislatore nazionale, per dare piena attuazione ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia, è intervenuto più volte sulla materia attraverso una serie di correttivi al Codice degli appalti. Di particolare rilievo appare l'art. 45 del D.L. n. 201/2011 che nuovamente interviene sulla materia in questione, inserendo il comma 2-bis all'art. 16 t.u. dell'edilizia, attraverso il quale viene reintrodotta la possibilità̀, per il titolare del titolo abilitativo o l'attuatore di un piano di lottizzazione o altro piano attuativo, di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria. Vengono, così, escluse dall'ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici, le strade residenziali, gli spazi di sosta o parcheggio, le fognature, le reti idriche, le reti di approvvigionamento di energia elettrica e gas, il verde attrezzato, che siano di importo inferiore alla soglia comunitaria.
In sintesi, sono assoggettate a procedure pubbliche di affidamento le opere di urbanizzazione sia primarie che secondarie di rilevanza comunitaria. Per le opere sotto soglia, l'operatore privato può eseguire direttamente e senza formalità̀ le opere pubbliche a scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria, di importo inferiore alla soglia comunitaria; mentre l'indizione della gara trova applicazione solo per le opere di urbanizzazione secondaria.
2. Venendo ad esaminare il primo dei quesiti posti dall’Ente istante, vertente sul criterio di determinazione dell’importo delle opere di urbanizzazione da scomputare dalla quota di oneri di urbanizzazione complessivamente dovuti dal lottizzante, appare dirimente richiamare, preliminarmente, quanto già affermato dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto di questa Corte (
parere 07.08.2009 n. 148), partendo dai tratti caratterizzanti l’istituto del contributo per costruire, che «costituisce un’entrata di integrale spettanza dell’Ente e … lo stesso è commisurato … all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, la cui esecuzione spetta, in primis, al Comune. L’esercizio di tale opzione derogatoria da parte del privato ha dunque l’effetto di sollevare il Comune, in misura corrispondente alle opere assunte dal privato, dalla corresponsione immediata dei relativi oneri di urbanizzazione, ciò nonostante assumendo comunque la proprietà delle opere realizzate.
Ciò posto,
l’istituto dello scomputo ha dunque la funzione di riequilibrare l’entità del contributo per permesso di costruire -commisurato, tra l’altro e come detto, all’incidenza degli oneri di urbanizzazione che sono di regola a carico del Comune- al passaggio di tali oneri dal Comune al soggetto privato. L’istituto consente dunque di evitare un indebito arricchimento del Comune ai danni del privato, che altrimenti verrebbe a determinarsi ove la commisurazione dell’entità del contributo per permesso di costruire non tenesse conto della misura in cui gli oneri di urbanizzazione ai quali quel contributo va commisurato sono stati effettivamente sostenuti dal Comune, scomputandovi conseguentemente gli oneri in realtà sostenuti dal privato. In assenza di scomputo, si creerebbe, in altri termini, una situazione disparitaria tra l’ipotesi in cui il Comune acquista la proprietà delle opere di urbanizzazione avendone sostenuto i relativi oneri e quella in cui il Comune acquista la proprietà medesima, ma senza averne sostenuto i relativi oneri, ipotesi quest’ultima che viene riequilibrata, per l’appunto, mediante lo scomputo degli oneri di urbanizzazione sostenuti in realtà dal privato dal contributo che egli deve corrispondere al Comune.
L’esigenza di aderenza della misura del contributo per permesso di costruire ai costi effettivi dell’urbanizzazione è, del resto, resa evidente anche dall’art. 16, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001, che menziona espressamente quale criterio sulla base del quale procedere alla revisione periodica dell’incidenza degli oneri di urbanizzazione cui è commisurato il contributo per permesso di costruire quello della considerazione dei “riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione” (comma 6)
».
Alla luce di questa premessa generale, viene condivisibilmente affermato che «
in ragione dell’incidenza indiretta sulle finanze dell’Ente locale degli oneri sostenuti in prima battuta dal privato proprio in virtù del meccanismo dello scomputo, che fa sì che gli oneri di urbanizzazione sostenuti dal privato si traducano in una corrispondente decurtazione di un’entrata dell’ente locale (quella appunto derivante dal contributo per permesso di costruire)» non può che collegarsi, pertanto, «l’esigenza di assicurare che gli oneri che si vanno a scomputare dall’entrata del Comune (e dunque dalle finanze pubbliche) corrispondano al “giusto prezzo” per le opere realizzate».
Ne deriva, dunque, in relazione allo specifico quesito in esame, che
l’importo da porre a scomputo degli oneri di urbanizzazione è preliminarmente determinato in relazione al computo metrico estimativo, ritenuto congruo dai competenti uffici comunali. Ciò, però, non preclude, nel caso che dalla contabilità di fine lavori risultasse un importo effettivamente speso dall’attuatore inferiore a quello determinato a monte –ove ovviamente detto importo fosse inferiore alla quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione– che il Comune possa chiedere al privato attuatore la differenza tra il primo importo e quello effettivamente speso. Tale valore differenziale potrà essere corrisposto all’Amministrazione Comunale, a scelta di quest’ultima, o sotto forma di conguaglio economico o sotto forma di opere complementari ed integrative. In questo senso, del resto, milita in primo luogo la considerazione che, nel caso si seguisse la procedura ordinaria, ovvero che l’Amministrazione eseguisse direttamente le opere di urbanizzazione, sopportandone i relativi oneri, beneficerebbe direttamente anche delle eventuali riduzioni, conseguite in fase di aggiudicazioni dei lavori, rispetto ai valori astrattamente indicati nel computo metrico estimativo.
Il ricorso all’istituto dello scomputo, dunque, non può consentire un esito deteriore per il Comune, con l’attribuzione al privato dei possibili guadagni relativi al minor costo di realizzazione delle opere.
In questo senso, del resto si muove la stessa disciplina legislativa regionale di riferimento (Legge regionale n. 12/2005, su cui cfr. parere 23.02.2015 n. 83 di questa Sezione), che, all’art. 46, comma 1, lett. b), prevede: “
la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale”.
Al riguardo meritano, infine, di essere richiamate anche le conclusioni da ultimo formulate dal Consiglio di Stato, Sez. IV (sentenza 24.04.2015 n. 2121), che ha avuto modo di precisare, in particolare in riguardo al secondo profilo del quesito in analisi, che «
occorre muovere dal principio, chiaramente recepito dal comma 2 dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, per cui il diritto allo scomputo dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta dal costruttore sorge alla “realizzazione delle opere” di che trattasi. E’ inoltre principio generale (ex art. 190 D.P.R. n. 207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui viene certificata la loro regolare esecuzione, che segna anche la chiusura della relativa contabilità. Dallo stesso momento deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo scomputo delle somme spese per lavori di urbanizzazione, sul cui importo possono insorgere divergenze dipendenti dalla contabilizzazione delle opere (le c.d. “riserve” che l’impresa ha l’onere di presentare nei termini di legge la cui inosservanza produce decadenza (cfr. Cass. n. 14381/2000), ma certamente non sorge la facoltà dell’impresa di presentare “ad libitum” nel tempo una ulteriore contabilità dei lavori. Aderire alla tesi in esame significherebbe peraltro individuare una sorta di diritto potestativo dell’impresa di incidere “sine die” e con effetti patrimoniali sulla certezza del rapporto giuridico convenzionale già definito. Pertanto e conclusivamente, deve ritenersi sostanzialmente corretta la posizione espressa dal primo giudice nel confermare la legittimità della decisione dell’amministrazione di considerare, ai fini della definitiva determinazione dell’onere concessorio, soltanto il primo computo metrico “prodotto, restando a carico della ricorrente (imputet sibi) un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella precedentemente documentata”».
3. I principi ora richiamati consentono, altresì, di rispondere anche al secondo quesito posto dal Comune istante, ovvero se, nei casi sopra visti in cui sussiste l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara d'appalto, il ribasso d'asta resta nella disponibilità̀ del lottizzante oppure del Comune.
Al riguardo la Sezione di controllo del Veneto, nel
parere 07.08.2009 n. 148 precedentemente richiamato è giunta alla conclusione, ancora attuale e condivisibile, pur tenuto conto delle successive modifiche legislative, della «spettanza al Comune dei ribassi d’asta eventualmente conseguiti in sede di gara rispetto al corrispettivo astrattamente e aprioristicamente posto a base d’asta. Invero, il ribasso d’asta si traduce in una minore entità del corrispettivo che sarà in concreto corrisposto dal privato per la realizzazione delle opere rispetto a quello teorico ipotizzato prima della gara, al quale è stato commisurato lo scomputo iniziale. E’ dunque evidente che, ove la differenza determinata dal ribasso d’asta non fosse riversata al Comune, la misura dello scomputo sarebbe maggiore rispetto a quella degli oneri di urbanizzazione in concreto sostenuti dal privato, determinandosi per tale parte un’ingiustificata decurtazione del contributo per permesso di costruire spettante al Comune».
In una successiva deliberazione (
parere 28.07.2010 n. 94), la stessa Sezione ha avuto modo di precisare che «l’onere assunto dal privato per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria superi (e non risulti quindi con essi in posizione di corrispettività) gli oneri di urbanizzazione, occorre procedere ad una valutazione globale della fattispecie, di modo che l’eventuale ribasso d’asta potrà competere al privato (in applicazione, anche in tal caso, ma in senso inverso, del criterio del “giusto prezzo”) purché, come suggerito dallo stesso Comune richiedente, in casi limite, il ribasso d’asta non scenda sotto i valori tabellari degli oneri dovuti. Al di fuori di quest’ultima ipotesi, infatti, il Comune sarebbe comunque garantito che il valore delle opere da realizzare superi comunque –a prescindere dalla spettanza del ribasso d’asta– quanto il privato avrebbe dovuto versare quali oneri di urbanizzazione primaria» (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.09.2015 n. 314).

     E per una migliore comprensione dei termini della questione, a seguire anche alcuni pronunciamenti menzionati nel suddetto parere:

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl diritto allo scomputo dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta dal costruttore sorge alla “realizzazione delle opere” di che trattasi.
E’ inoltre principio generale (ex art. 190 d.p.r. n. 207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui viene certificata la loro regolare esecuzione, che segna anche la chiusura della relativa contabilità.
Dallo stesso momento deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo scomputo delle somme spese per lavori di urbanizzazione, sul cui importo possono insorgere divergenze dipendenti dalla contabilizzazione delle opere (le c.d. “riserve” che l’impresa ha l’onere di presentare nei termini di legge la cui inosservanza produce decadenza), ma certamente non sorge la facoltà dell’impresa di presentare “ad libitum” nel tempo una ulteriore contabilità dei lavori.

... per la riforma della
sentenza 23.01.2013 n. 50 del TAR Sardegna-Cagliari: Sez. II, resa tra le parti, concernente la determinazione conguaglio per opere di urbanizzazione primaria.
...
1.- La società appellante chiede la riforma della sentenza, in epigrafe specificata, con la quale il TAR della Sardegna ha respinto il suo ricorso proposto per la determinazione di un conguaglio su oneri di urbanizzazione primaria relativi a lavori (una condotta fognaria) previsti da una convenzione di lottizzazione.
In particolare la controversia verte sulla quantificazione dello scomputo previsto -in favore della ricorrente- dalla convenzione urbanistica stipulata col Comune di Sestu in data 09.03.2003 rispetto al contributo dovuto commisurato al costo di costruzione ex lege n. 10/1977; nell’atto convenzionale, infatti, si prescriveva una riduzione di tale contributo nella misura del 50% del costo di realizzazione del predetto collettore.
2.- Con la sentenza epigrafata il TAR ha respinto il ricorso, che chiedeva (in difformità dal provvedimento comunale n. 19923 del 14.09.2010 teso alla riscossione di un contributo pari ad Euro 57.232,13) un riconoscimento di un credito verso il Comune per la realizzazione dell’opera di urbanizzazione (in forza di nuova contabilità dei lavori presentata dalla ricorrente) in quanto non condividendo “una valutazione di sopravvenuta illegittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale”.
3.- A sostegno del gravame la società istante ha dedotto motivi che risultano tuttavia infondati.
In sintesi, la sentenza sarebbe incorsa nella violazione degli artt. 5 e 10 della legge n. 10/1977 e dell’art. 16 del dpr n. 380/2001, e della convenzione urbanistica, per aver respinto il ricorso sulla base di una circostanza irrilevante, costituita dal fatto che i conteggi che supportano la pretesa azionata sono stati depositati successivamente al collaudo; del resto la contabilità finale dei lavori sotto il profilo temporale non era disciplinata dalla convenzione, con la conseguenza che non sussisteva alcun impedimento ad addivenire al diverso computo consuntivo dei lavori presentato.
Nel merito della somma richiesta, la ricorrente supporta le proprie ragioni esibendo specifica perizia.
La tesi è infondata.
Punto nodale della controversia, come specifica il Comune appellato, è la natura giuridica da attribuire al computo metrico presentato dall’appellante in data 31.08.2010 e sulla base del quale il Comune ha determinato il conguaglio spettante alla società, da essa contestato sul “quantum”.
In particolare si tratta di stabilire se successivamente al collaudo dei lavori necessari per realizzare l’opera di urbanizzazione ed ai fini della determinazione degli oneri dovuti, può assumere rilievo una contabilità diversa da quella assunta a base del collaudo. Alla questione ritiene il Collegio debba darsi esito negativo.
Al riguardo occorre muovere dal principio, chiaramente recepito dal comma 2 dell’art. 16 del dpr n. 380/2001, per cui il diritto allo scomputo dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta dal costruttore sorge alla “realizzazione delle opere” di che trattasi. E’ inoltre principio generale (ex art. 190 d.p.r. n. 207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui viene certificata la loro regolare esecuzione, che segna anche la chiusura della relativa contabilità. Dallo stesso momento deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo scomputo delle somme spese per lavori di urbanizzazione, sul cui importo possono insorgere divergenze dipendenti dalla contabilizzazione delle opere (le c.d. “riserve” che l’impresa ha l’onere di presentare nei termini di legge la cui inosservanza produce decadenza - cfr. Cass. n. 14381/2000), ma certamente non sorge la facoltà dell’impresa di presentare “ad libitum” nel tempo una ulteriore contabilità dei lavori.
Aderire alla tesi in esame significherebbe peraltro individuare una sorta di diritto potestativo dell’impresa di incidere “sine die” e con effetti patrimoniali sulla certezza del rapporto giuridico convenzionale già definito.
Pertanto e conclusivamente, deve ritenersi sostanzialmente corretta la posizione espressa dal primo giudice nel confermare la legittimità della decisione dell’amministrazione di considerare, ai fini della definitiva determinazione dell’onere concessorio, soltanto il primo computo metrico “prodotto, restando a carico della ricorrente (imputet sibi) un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella precedentemente documentata”.
4.- Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

...il cui Consiglio di Stato ha confermata l'impugnata sentenza del TAR Sardegna:

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In data 31.08.2010 la ricorrente depositava presso l’amministrazione comunale la contabilità dei lavori concernenti le opere di urbanizzazione primaria soggette a scomputo.
Successivamente, in data 29.02.2012 la medesima società presentava al Comune una nuova contabilità dei lavori, recante gli importi superiori che hanno determinato l’odierna contestazione.
Ritiene il Collegio che questa nuova produzione della ricorrente non valga a determinare una valutazione di sopravvenuta illegittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale.
Da un lato, infatti, non è stata indicata alcuna ragionevole giustificazione della produzione –a distanza di quasi 2 anni– di una seconda contabilità, recante valori economici di importo sensibilmente superiori rispetto a quanto precedentemente comunicato.
Dall’altro lato tale ripensamento della ricorrente risulta vieppiù incomprensibile se si considera che fin dal 2006 i lavori erano stati già abbondantemente eseguiti e risultava già interamente chiusa la relativa procedura amministrativa (comunicazione di fine lavori, collaudo, delibera di approvazione del collaudo da parte della giunta comunale).
Con la conseguenza che si rivela corretta la decisione dell’amministrazione di tenere in considerazione, ai fini della definitiva determinazione dell’onere concessorio, soltanto il primo computo metrico prodotto (ndr: contabilità lavori), restando a carico della ricorrente (imputet sibi) un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella precedentemente documentata.

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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 19923 del 14.09.2010, con il quale è stato richiesto alla società ricorrente il pagamento di un conguaglio per opere di urbanizzazione primaria nella misura di euro 57.232.13;
...
FATTO
La società Po.D. de J. S.p.a. ha realizzato un complesso intervento edilizio nel Comune di Sestu, località “More Corraxe”.
A tal fine ha stipulato, in data 09.03.2003, la convenzione urbanistica n. 4035 di attuazione dello stralcio 1 del Piano di Lottizzazione “More Corraxe” e, in pari data, la convenzione urbanistica n. 4036 di attuazione dello stralcio 2 del medesimo Piano di Lottizzazione.
In entrambe le convenzioni l’art. 6 prevedeva che l’amministrazione comunale avrebbe scontato dal contributo commisurato al costo di costruzione ex lege n. 10/1977 l’importo pari al 50% del costo della realizzazione del collettore fognario.
Successivamente il Comune di Sestu rilasciava le concessioni edilizie previste per la realizzazione delle opere convenzionate.
Sennonché, nell’assunto della ricorrente, col provvedimento impugnato il Comune di Sestu avrebbe determinato un conguaglio errato rispetto a quanto concordato in sede di convenzionamento.
Di qui il ricorso in esame affidato ai seguenti motivi:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge 28.01.1977 n. 10 e dell’art. 16, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380 – Eccesso di potere e carenza di motivazione anche per violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della Convenzione urbanistica n. 4035 del 09.03.2003 e dell’art. 7 della la convenzione urbanistica n. 4036 di pari data: in quanto l’amministrazione comunale avrebbe erroneamente conteggiato i costi sopportati dalla ricorrente per la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione primaria.
Concludeva quindi la ricorrente chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato, con vittoria delle spese.
Per resistere al ricorso si è costituito il Comune di Sestu che, con articolate difese scritte, ne ha chiesto il rigetto, vinte le spese.
A seguito di rinuncia al mandato degli originari difensori, con memoria di costituzione depositata il 30.11.2012, la società ricorrente si è costituita con nuovo procuratore.
In vista dell’udienza di trattazione le controparti hanno depositato ulteriori scritti difensivi con i quali hanno confermato le rispettive conclusioni.
Alla pubblica udienza del 16.01.2013, sentiti i difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
La vicenda per cui è causa concerne la quantificazione dello scomputo previsto -in favore della ricorrente- dalla convenzione urbanistica stipulata col Comune di Sestu in data 09.03.2003 rispetto al contributo dovuto commisurato al costo di costruzione ex lege n. 10/1977.
Nell’atto convenzionale, infatti, si prescriveva un riduzione di tale contributo nella misura del 50% del costo di realizzazione del collettore fognario.
A ben vedere, infatti, le discordanze tra le controparti non concernono l’applicazione o meno dell’anzidetta riduzione, pacificamente riconosciuta dall’amministrazione comunale, ma attengono esclusivamente al quantum del costo sopportato dalla ricorrente quale base applicativa dello scomputo.
In particolare la ricorrente contesta la quantificazione operata dal Comune circa il costo di realizzazione della condotta fognaria assumendo di aver sostenuto un costo complessivo pari ad euro 2.018.496,62, valutabili al 50% per euro 1.009.248,31, con la conseguenza che non solo sarebbe errata la richiesta del conguagli di euro 57.232,13 operata dal Comune di Sestu, ma, a ben vedere si determinerebbe addirittura un credito in suo favore.
L’argomento non merita accoglimento.
In data 31.08.2010 la ricorrente depositava presso l’amministrazione comunale la contabilità dei lavori concernenti le opere di urbanizzazione primaria soggette a scomputo.
Sulla base della documentazione presentata (allegati 3, 4, 5, 6 delle produzioni comunali) il Comune di Sestu provvedeva alla liquidazione dello scomputo, determinandolo in euro 517.008,95 (pari al 50% di euro 1.034.017,89).
Tenuto conto dello scomputo già precedentemente applicato, l’ente comunale determinava la somma ancora dovuta dalla ricorrente in euro 57.232,13 e, al fine del recupero, adottava il provvedimento oggi impugnato.
Successivamente all’adozione di tale provvedimento, in data 29.02.2012, la società Po. presentava al Comune di Sestu una nuova contabilità dei lavori, recante gli importi superiori che hanno determinato l’odierna contestazione.
Ritiene il Collegio che questa nuova produzione della ricorrente non valga a determinare una valutazione di sopravvenuta illegittimità della determinazione assunta dall’amministrazione comunale.
Da un lato, infatti, non è stata indicata alcuna ragionevole giustificazione della produzione –a distanza di quasi 2 anni– di una seconda contabilità, recante valori economici di importo sensibilmente superiori rispetto a quanto precedentemente comunicato dalla stessa società Po..
Dall’altro lato tale ripensamento della ricorrente risulta vieppiù incomprensibile se si considera che fin dal 2006 i lavori erano stati già abbondantemente eseguiti e risultava già interamente chiusa la relativa procedura amministrativa (comunicazione di fine lavori, collaudo, delibera di approvazione del collaudo da parte della giunta comunale: vedi allegati 7, 8, 9, e 10 delle difese comunali).
Con la conseguenza che si rivela corretta la decisione dell’amministrazione di tenere in considerazione, ai fini della definitiva determinazione dell’onere concessorio, soltanto il primo computo metrico prodotto, restando a carico della ricorrente (imputet sibi) un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella precedentemente documentata.
Di qui la reiezione del ricorso n esame.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed altri interessanti princìpi recentissimamente enunciati dall'A.N.AC.:

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: ANCE Marche – mancato pagamento di opere di urbanizzazione e tutela dell’impresa esecutrice - richiesta di parere.
Il privato titolare del permesso di costruire è titolare diretto della funzione di stazione di appaltante in qualità di “altro soggetto aggiudicatore” ex art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006. Il titolare del permesso di costruire è pertanto «esclusivo responsabile dell’attività di progettazione, affidamento e di esecuzione delle opere di urbanizzazione».
Residuano in capo al Comune i poteri di vigilanza e controllo che spettano all’Amministrazione, consistenti nell’approvazione del progetto in linea tecnica ed economica, nell’approvazione delle eventuali varianti in corso di esecuzione e degli atti di collaudo, oltre che nella possibilità di chiedere al privato informazioni circa le modalità di svolgimento della gara d’appalto.
Si tratta di poteri che il Comune conserva in quanto istituzionalmente preposto alla cura dell’assetto e dell’utilizzazione del territorio, giustificati dalla natura pubblica delle opere di urbanizzazione, in quanto opere di utilità generale destinate a fare parte del patrimonio comunale, e finalizzati pertanto a garantirne la piena rispondenza alla funzione cui sono preposte. Tali poteri sono dunque esercitati per garantire specifiche caratteristiche e funzionalità delle opere di urbanizzazione.
Non sono invece contemplati poteri/obblighi solidali o sussidiari del Comune rispetto alle obbligazioni contrattualmente assunte dal titolare del permesso di costruire nei confronti dell’operatore economico esecutore delle opere di urbanizzazione.
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I costi delle opere di urbanizzazione, benché queste siano destinate al patrimonio del Comune, devono rimanere a carico del titolare del permesso di costruire in forza dell’originaria obbligazione avente titolo nella legge.
Dunque,
il titolare del permesso di costruire, avendo assunto l’obbligazione di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione in luogo della corresponsione del contributo ed essendo titolato ex lege all’espletamento della procedura per la selezione dell’operatore economico incaricato della realizzazione dell’opera, è l’unico soggetto tenuto ad adempiere all’obbligazione assunta nei confronti dell’amministrazione, anche adempiendo diligentemente alle obbligazioni scaturenti dal contratto stipulato con l’operatore economico.
Sicché,
è da escludere che possa rinvenirsi nella normativa vigente un titolo su cui fondare la responsabilità del Comune per gli eventuali inadempimenti del titolare del permesso di costruire nei confronti dell’operatore economico.
Una simile responsabilità del Comune potrebbe avere solo origine pattizia se dedotta nella convenzione urbanistica o altro atto d’obbligo che accede al permesso di costruire/lottizzazione.

Sotto una diversa prospettiva,
può considerarsi che l’obbligazione di sostenere i costi dei lavori di realizzazione delle opere di urbanizzazione tramite il pagamento del corrispettivo all’operatore economico esecutore potrebbe essere contemplata, nella medesima convenzione, tra le obbligazioni coperte dalle garanzie prestate dal titolare del permesso di costruire all’atto della stipula, la cui violazione comporta l’escussione delle garanzie medesime.
Anche in tal caso, dovrebbe comunque esservi una espressa previsione in questo senso nella convenzione.

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In esito a quanto richiesto con nota acquisita al protocollo n. 42361 del 09.04.2015 relativamente alle possibili azioni a tutela delle imprese affidatarie della realizzazione delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione a seguito di procedura di gara espletata dal titolare del permesso di costruire, nel caso in cui non venga loro corrisposto il pagamento dei crediti maturati a seguito dell’esecuzione del contratto, si rappresenta che il Consiglio dell’Autorità, nell’adunanza del 23.09.2015, ha approvato le seguenti considerazioni.
Tralasciando di ripercorrere il noto iter che ha condotto dalla previsione dell’art. 11, comma 1, della legge n. 28.01.1977, n. 10 (ora trasfusa nell’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001) –contemplante la possibilità di scomputare in tutto o in parte il contributo per gli oneri di urbanizzazione dovuto dal titolare del permesso di costruire attraverso la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione– attraverso la
sentenza 12.07.2001 C-399/98 della Corte di Giustizia, all’obbligo per il titolare del permesso di costruire che intende avvalersi di detta possibilità di affidare la realizzazione delle opere di urbanizzazione con procedura ad evidenza pubblica (oggi sancito dall’art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006), si evidenzia come nella determinazione 16.07.2009 n. 7 l’Autorità abbia delineato l’inquadramento giuridico dell’istituto affermando, sotto il profilo soggettivo, che il privato titolare del permesso di costruire è titolare diretto della funzione di stazione di appaltante in qualità di “altro soggetto aggiudicatore” ex art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006.
Essendo destinatario diretto della normativa sulle gare pubbliche in qualità di stazione appaltante,
il titolare del permesso di costruire è pertanto «esclusivo responsabile dell’attività di progettazione, affidamento e di esecuzione delle opere di urbanizzazione».
Come chiarito nella stessa determinazione,
residuano in capo al Comune i poteri di vigilanza e controllo che spettano all’Amministrazione, consistenti nell’approvazione del progetto in linea tecnica ed economica, nell’approvazione delle eventuali varianti in corso di esecuzione e degli atti di collaudo, oltre che nella possibilità di chiedere al privato informazioni circa le modalità di svolgimento della gara d’appalto.
Si tratta di poteri che il Comune conserva in quanto istituzionalmente preposto alla cura dell’assetto e dell’utilizzazione del territorio, giustificati dalla natura pubblica delle opere di urbanizzazione, in quanto opere di utilità generale destinate a fare parte del patrimonio comunale, e finalizzati pertanto a garantirne la piena rispondenza alla funzione cui sono preposte. Tali poteri sono dunque esercitati per garantire specifiche caratteristiche e funzionalità delle opere di urbanizzazione.
Non sono invece contemplati poteri/obblighi solidali o sussidiari del Comune rispetto alle obbligazioni contrattualmente assunte dal titolare del permesso di costruire nei confronti dell’operatore economico esecutore delle opere di urbanizzazione.

Occorre altresì considerare che
l’onere di copertura almeno parziale degli oneri di urbanizzazione grava sul titolare del permesso di costruire in forza di espressa previsione normativa (art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001) e che, quando il titolare del permesso di costruire si avvale della facoltà di scomputare quanto dovuto realizzando direttamente le opere, altro non fa che stipulare con l’amministrazione locale una sorta di novazione dell’obbligazione originaria a proprio carico sostituendola con la diversa obbligazione di realizzazione diretta delle opere (determinazione cit. «il privato adempie l’obbligo eseguendo la diversa prestazione delle realizzazione delle opere»).
Ne consegue -oltre al fatto evidenziato nella citata determinazione che gli eventuali ribassi derivanti dalla procedura di gara permangono nella disponibilità del titolare del permesso di costruire– che
i costi delle opere di urbanizzazione, benché queste siano destinate al patrimonio del Comune, devono rimanere a carico del titolare del permesso di costruire in forza dell’originaria obbligazione avente titolo nella legge.
Dunque,
il titolare del permesso di costruire, avendo assunto l’obbligazione di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione in luogo della corresponsione del contributo ed essendo titolato ex lege all’espletamento della procedura per la selezione dell’operatore economico incaricato della realizzazione dell’opera, è l’unico soggetto tenuto ad adempiere all’obbligazione assunta nei confronti dell’amministrazione, anche adempiendo diligentemente alle obbligazioni scaturenti dal contratto stipulato con l’operatore economico.
Una ricostruzione in questi termini dell’istituto induce ad
escludere che possa rinvenirsi nella normativa vigente un titolo su cui fondare la responsabilità del Comune per gli eventuali inadempimenti del titolare del permesso di costruire nei confronti dell’operatore economico.
Una simile responsabilità del Comune potrebbe avere solo origine pattizia se dedotta nella convenzione urbanistica o altro atto d’obbligo che accede al permesso di costruire/lottizzazione.

Sotto una diversa prospettiva,
può considerarsi che l’obbligazione di sostenere i costi dei lavori di realizzazione delle opere di urbanizzazione tramite il pagamento del corrispettivo all’operatore economico esecutore potrebbe essere contemplata, nella medesima convenzione, tra le obbligazioni coperte dalle garanzie prestate dal titolare del permesso di costruire all’atto della stipula, la cui violazione comporta l’escussione delle garanzie medesime. Anche in tal caso, dovrebbe comunque esservi una espressa previsione in questo senso nella convenzione.
Per ciò che concerne la mancata riconsegna delle opere di urbanizzazione da parte dell’operatore economico, si osserva che il contratto di appalto stipulato tra titolare del permesso di costruire e l’operatore economico selezionato con gara, come evidenziato nella richiamata determinazione, è disciplinato dalle norme del diritto civile e che pertanto l’operatore economico può avvalersi dell’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. che consente al contraente, che non abbia ottenuto la prestazione cui ha diritto, di rifiutare quella di cui è debitore.
Invero, anche la disciplina pubblicistica dell’appalto di lavori riconosce, nell’art. 133, comma 1, del Codice dei contratti, la possibilità per l’operatore economico, qualora l’ammontare delle rate di acconto per le quali non sia stato tempestivamente emesso il certificato di collaudo o il titolo di spesa raggiunga il quarto dell’importo netto contrattuale, di agire ai sensi dell’art. 1460 c.c.. La previsione dell’art. 133 è in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui la preminenza della posizione riservata alla pubblica amministrazione non incide sulla natura privatistica del contratto di appalto di opere pubbliche(cfr., ex multis, Cassazione Civile, sez. I, 12.08.2010, n. 18644).
E da tempo la Cassazione aveva già riconosciuto la facoltà all’operatore economico di esperire il rimedio cautelativo della sospensione dei lavori a fronte dell’inadempimento dell’amministrazione, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento, ove lo stesso deduca e dimostri che detto inadempimento sia ascrivibile a dolo o colpa grave dell’amministrazione e sempreché l’inadempimento stesso presenti gravità idonea a compromettere l’equilibrio fra le contrapposte prestazioni (Cassazione civile, sez. I, 24.10.1985, n. 5232).
Quanto riconosciuto a favore dell’operatore economico nell’ambito degli appalti di lavori soggetti alla disciplina pubblicistica conferma la legittimità dell’esercizio dell’eccezione di inadempimento nel caso di contratto di appalto che, benché avente ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche, è stipulato tra privati ed è «disciplinato dalle norme del diritto civile, nel rispetto delle disposizioni contenute nella convenzione urbanistica, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle disposizioni della procedura di gara» (determinazione cit.).
Per completezza si rammenta che l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. va esercitata nel rispetto dei principi ermeneutici enucleati dalla giurisprudenza per i contratti con prestazioni corrispettive, per i quali, in particolare, si ritiene che, ove una delle parti giustifichi la propria inadempienza con l’inadempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico ma anche e soprattutto dei rapporti di proporzionalità e corrispettività esistenti tra le prestazioni inadempiute, per stabilire se l’inadempimento o la prospettiva di inadempimento di una parte giustifichi il rifiuto di esecuzione della prestazione dovuta dall’altra; a tal fine il giudice non deve avere riguardo alle sole obbligazioni principali dedotte in contratto (e cioè, nell’appalto, a pagamento del compenso, per il committente ed il compimento dell’opera, per l’appaltatore), ma anche a quelle secondarie cui le parti, nell’esplicamento della loro autonomia contrattuale, abbiano attribuito carattere di essenzialità sul piano sinallagmatico (cfr. Cassazione civile I, 27.09.1999, n. 10668) (parere sulla normativa 23.09.2015 n. 65 - rif. AG 65/2015/AP  - link a www.autoritalavoripubblici.it).

 

IN EVIDENZA

Come deve provvedere un piccolo comune, giusta i 1.000 e più vincoli normativi d'ogni genere, a garantire legittimamente ai propri cittadini il servizio dell'Ufficio Tecnico??

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se risulti possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all’interno della propria dotazione organica, provvedere alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio tecnico comunale.
Il Comune aveva già interpellato questa Sezione regionale di controllo, sulla medesima vicenda, con una richiesta formulata il 01.06.2011.
All’epoca
il Sindaco aveva chiesto se fosse possibile, per superare il problema dell’assenza del titolare dell’UTC, provvedere con una consulenza continuativa.
La Sezione aveva rilevato l’impossibilità di procedere con tale strumento, stante l’ordinarietà dei compiti amministrativi riservati all’Ufficio tecnico “non richiedendosi per lo svolgimento di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali finalizzate”, suggerendo di ricorrere alle forme di lavoro c.d. “flessibili” (assunzioni a tempo determinato e contratti di collaborazione ordinaria), ai sensi dell’art. 92 TUEL.
Oggi
il Comune, riprendendo la questione, precisa di non potere ricorrere alle medesime in quanto non si rispetterebbero i limiti previsti in materia di contenimento di spese per personale a tempo determinato e torna a chiedere “se risulti possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all’interno della propria dotazione organica, provvedere alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio tecnico comunale”.
Al riguardo, la Sezione non può che confermare la propria consolidata giurisprudenza.
Peraltro,
nel precedente parere, la Sezione aveva espressamente indicato, come soluzione al problema prospettato dal Comune, “la possibilità di ricorrere agli istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e dall’art. 33 (esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni) del TUEL”.
Entrambi gli istituti consentirebbero di affrontare una spesa sensibilmente inferiore rispetto a quella sostenibile per un’assunzione a tempo determinato.
Pertanto, la Sezione ritiene che,
in presenza di una situazione di fatto come quella esposta dal Comune di Pontinvrea nella sua richiesta, sia possibile stipulare una convenzione con altro Comune per usufruire congiuntamente del servizio dello stesso tecnico comunale, percorso giuridico sicuramente meno complesso e più celere rispetto a, quello comunque esperibile, dell’esercizio stabilmente associato della funzione dell’ufficio tecnico insieme ad un altro comune.

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Con istanza in data 25.05.2015, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria con nota n. 46 del 10.06.2015, assunta in pari data al protocollo della Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria con il n. 2456 – 10.06.2015 – SC _ LIG - T85 – A, il Comune di Pontinvrea (SV) ha inviato una richiesta di parere inerente alla possibilità di conferire l’incarico esterno di responsabile dell’Ufficio tecnico comunale (UTC), ai sensi dell’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
In particolare il Sindaco, dopo avere ricordato che per la stessa vicenda aveva già chiesto un parere, rilasciato con il
parere 21.06.2011 n. 54, evidenzia che il Comune continua a non avere al suo interno professionalità da valorizzare per il funzionamento dell’Ufficio tecnico comunale, il quale risulta privo di personale.
Per tale ragione, secondo quanto riferisce il Sindaco, si rende necessario operare una esternalizzazione del servizio “stante la sempre più diffusa tendenza verso pratiche di outsourcing, al fine di razionalizzare e rendere efficiente l’uso di risorse umane ed economiche a disposizione” specificando, peraltro che si fornirebbe idonea motivazione in ordine agli obiettivi da raggiungere e alla durata dell’incarico, da conferire solo a seguito di “una rigorosa procedura comparativa”.
A sostegno della propria tesi, il Sindaco menziona la sentenza 04.02.2015 n. 826, con la quale il TAR Campania riconosce ampia discrezionalità agli enti locali nell’organizzazione dei propri uffici, in presenza di un “rapporto deficitario tra personale in servizio e pratiche in corso”.
...
Come correttamente riconosciuto nella richiesta di parere,
il Comune di Pontinvrea aveva già interpellato questa Sezione regionale di controllo, sulla medesima vicenda, con una richiesta formulata il 01.06.2011.
All’epoca
il Sindaco aveva chiesto se fosse possibile, per superare il problema dell’assenza del titolare dell’UTC, provvedere con una consulenza continuativa.
La Sezione aveva rilevato l’impossibilità di procedere con tale strumento, stante l’ordinarietà dei compiti amministrativi riservati all’Ufficio tecnico “non richiedendosi per lo svolgimento di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali finalizzate”, suggerendo di ricorrere alle forme di lavoro c.d. “flessibili” (assunzioni a tempo determinato e contratti di collaborazione ordinaria), ai sensi dell’art. 92 TUEL.
Il Comune, nella richiesta di parere oggi in esame, riprendendo la questione, precisa di non potere ricorrere alle medesime in quanto non si rispetterebbero i limiti previsti in materia di contenimento di spese per personale a tempo determinato e torna a chiedere “se risulti possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all’interno della propria dotazione organica, provvedere alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio tecnico comunale”, richiamando allo scopo i principi contenuti nella sentenza del TAR Campania n. 826 del 2015.
Tale decisione ha ritenuto legittimo l’incarico, conferito dal Comune ad un avvocato del libero foro, di patrocinare e assistere in giudizio il Comune per tutti i nuovi giudizi, in attesa dell’espletamento del concorso per la nomina del Dirigente del Settore Affari Legali, pur in presenza di un avvocato comunale, riconoscendo la necessità di una professionalità altamente qualificata.
Il principio richiamato, peraltro, non sembra applicabile alla fattispecie de qua: non si può infatti sostenere che la difesa e rappresentanza in giudizio di tutte le nuove cause che coinvolgono un comune (che possono spaziare dalle questioni civilistiche a quelle più propriamente amministrative, fino a giungere al diritto penale, laddove il medesimo ritenesse di costituirsi come parte civile in determinati processi) presupponga conoscenze e nozioni possedute ordinariamente dagli impiegati pubblici.
A conferma di ciò, si rileva la circostanza che il bando emesso per coprire quella posizione organizzativa richiedeva, quale requisito di ammissione alle prove scritte non solo l’abilitazione alla professione legale ma, addirittura, l’iscrizione all’albo dei Cassazionisti, che si ottiene solo a seguito di uno specifico esame, ovvero dopo otto anni di esercizio della professione e la frequentazione, con ottimi risultati, dei corsi istituiti dalla Scuola superiore dell’avvocatura con verifica finale per accertare la sussistenza dei relativi requisiti.
Si tratta pertanto dell’individuazione di una professionalità non rinvenibile ordinariamente nelle piante organiche dei Comuni e che, pertanto, può legittimare, come ha ritenuto il TAR Campania, con una decisione condivisibile secondo questa Sezione, il conferimento di un incarico esterno con durata e compenso predeterminati.
Non altrettanto può dirsi per il caso in esame, relativamente al quale la Sezione non può che confermare la propria consolidata giurisprudenza.
Peraltro,
nel precedente parere, la Sezione aveva espressamente indicato, come soluzione al problema prospettato dal Comune, “la possibilità di ricorrere agli istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e dall’art. 33 (esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni) del TUEL”.
Entrambi gli istituti consentirebbero di affrontare una spesa sensibilmente inferiore rispetto a quella sostenibile per un’assunzione a tempo determinato.
Pertanto, la Sezione ritiene che,
in presenza di una situazione di fatto come quella esposta dal Comune di Pontinvrea nella sua richiesta, sia possibile stipulare una convenzione con altro Comune per usufruire congiuntamente del servizio dello stesso tecnico comunale, percorso giuridico sicuramente meno complesso e più celere rispetto a, quello comunque esperibile, dell’esercizio stabilmente associato della funzione dell’ufficio tecnico insieme ad un altro comune (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 30.07.2015 n. 61).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per avere l'Ufficio Tecnico coperto ed operativo è illegittimo conferire un incarico esterno quale "consulenza".
E' legittimo il conferimento all'esterno dell'incarico (di consulenza, collaborazione) di geologo ma solo nel momento in cui tali forme di spesa non incidono sul bilancio pubblico, in questo caso dell’ente locale. Detto altrimenti, quando tali istituti si auto-finanziano o trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati, ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali istituti giuridici.

L’incarico da conferire per il funzionamento dell’ufficio tecnico non può essere ricompreso nella nozione di consulenza esterna di cui all’art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010.
Difatti, tale incarico è finalizzato allo svolgimento degli ordinari compiti amministrativi facenti capo all’ufficio tecnico comunale non richiedendosi per lo svolgimento di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali finalizzate (titolo di studio, esperienze lavorative, specializzazioni, ecc).
Inoltre, contrasta con i caratteri tipici della consulenza, individuati al comma 6 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il carattere continuativo della prestazione richiesta al “consulente”.
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La finalità perseguita dalla normativa finanziaria degli ultimi anni consiste nella riduzione delle spese pubbliche al fine di realizzare gli obiettivi di finanza pubblica e, per ciò che concerne istituti come quello delle consulenze esterne, ridurre l’incidenza di tali spese sui bilanci degli enti pubblici.

Pertanto
le norme non mirano a vietare o ridurre l’utilizzo tout court di tali istituti (consulenze, collaborazioni, sponsorizzazioni, missioni, ecc.) ma solo nel momento in cui tali forme di spesa incidono sul bilancio pubblico, in questo caso, dell’ente locale.
Diversamente,
quando tali istituti si auto-finanziano o trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati, ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali istituti giuridici.
Pertanto
qualora non vi siano oneri in capo alle amministrazioni locali non vi è alcuna preclusione al conferimento all’esterno dell’incarico di geologo.

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Con istanza n. 1251 del 15.05.2011, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria con nota n. 42 del 30.05.2011 ed assunta al protocollo della Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria l’01.06.2011 con il n. 2246 – 01.06.2011 – SC _ LIG - T85 – A, il Sindaco del Comune di Pontinvrea (SV) chiede alla Sezione un parere in merito all’applicazione dell’art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010, convertito in Legge n. 122/2010, in materia di riduzione dei costi degli apparati amministrativi.
In particolare il Sindaco evidenzia che il comune di Pontinvrea non ha al suo interno professionalità da valorizzare per il funzionamento dell’ufficio tecnico comunale che risulta privo di personale, motivo per cui si rende necessario stipulare un contratto di consulenza continuativa per il funzionamento dell’ufficio predetto.
Tale affidamento si porrebbe in contrasto con quanto stabilito dall’art. 6, comma 7 sopra citato che prevede, anche per gli enti locali, precisi limiti di spesa in materia di consulenza, spesa che non può eccedere per l’anno 2011 il 20% di quella sostenuta nell’anno 2009.
Pertanto il Sindaco chiede si sapere se al fine di perseguire lo scopo del funzionamento dell’ufficio tecnico sia possibile, nonostante il disposto della norma citata, stipulare una consulenza continuativa in mancanza di professionalità interne all’amministrazione locale.
Il Sindaco, inoltre, pone un secondo quesito. In considerazione della soppressione delle comunità montane, alcuni servizi, tra cui quelli relativi al vincolo idrogeologico, devono essere svolti in forma associata dalle Amministrazioni comunali tra le quali il comune di Pontinvrea si è proposto come comune capofila.
Il Sindaco chiede di sapere se l’affidamento esterno ad un geologo, mancando all’interno del comune la relativa figura professionale, debba ricadere nell’ambito di applicazione del comma 7 dell’art. 6 citato considerando, inoltre, che il servizio svolto in forma associata si auto-finanzierebbe nella sua totalità senza alcun onere, pertanto, in capo alle amministrazioni comunali associate.
...
I quesiti posti riguardano, secondo la prospettazione fattane dal Sindaco del comune di Pontinvrea, la stipula di due incarichi di consulenza e la compatibilità degli stessi con quanto disposto dalla norma di cui al comma 7 dell’art. 6 del D.L. 78/2010, convertito in Legge n. 122/2010, in base al quale “al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell'anno 2009. L'affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale".
La norma in esame, pertanto, si inserisce in un quadro di interventi finanziari volti al cd. taglio lineare di alcune categorie di spesa pubblica, al fine di ridurre i costi della macchina amministrativa e realizzare gli obiettivi di finanza pubblica richiesta dalla partecipazione all’Unione europea, in considerazione del difficile periodo congiunturale che attraversa l’economia europea e mondiale.
Delineato il quadro normativo
questo Collegio esprime dubbi circa la corretta qualificazione giuridica della fattispecie così come prospettata dal Sindaco del comune di Pontinvrea.
A tal fine è necessario, se pur brevemente, circoscrivere l’istituto delle consulenze giuridiche così come delineatosi soprattutto ad opera della giurisprudenza contabile al fine della corretta applicazione delle norme finanziarie che hanno interessato tale tipologia contrattuale.
Gli incarichi esterni sono fondamentalmente di tre tipi: incarichi di studio, incarichi di ricerca e incarichi di consulenza propriamente detti affidati, mediante convenzioni o contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ad esperti esterni all’amministrazione dotati di particolari doti professionali nel campo giuridico, amministrativo, scientifico, ecc..
Tali incarichi sono ormai raggruppati all’interno di un’unica nozione di collaborazione autonoma che può assumere contenuto diverso (richieste di parere, consulenze legali, studi e ricerche) ma che si caratterizza, in tutti i casi, per l’elevata e qualificata professionalità richiesta al consulente che agisce, nell’esplicazione dell’incarico, con la massima autonomia.

Tali incarichi trovano ormai puntuale disciplina nell’art. 7, comma 6, del D.Lgs. 165/2001, come modificato dall’art. 46, comma 1, della legge n. 133/2008, in base al quale “
Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione…..
”.
Pertanto, come evidenziato dalle SS.RR, ciò che accomuna le differenti tipologie di incarico è la sostanziale riconducibilità di tali fattispecie alla categoria del contratto di lavoro autonomo di cui agli articoli 2229-2238 c.c..
Motivo per cui, secondo le SS.RR,
vi è ormai una sostanziale differenza, voluta dal legislatore, tra gli incarichi ad alto contenuto professionale e le altre “semplici” collaborazioni coordinate e continuative, avendo le prime a oggetto prestazioni implicanti un’alta specializzazione (non rinvenibile nelle normali competenze del personale della P.A.) e una correlativa attività lavorativa sostanzialmente autonoma, mentre le altre collaborazioni (co.co.co.) hanno ad oggetto prestazioni ordinarie non richiedenti un elevato grado di autonomia organizzativa (collaborazioni utilizzate, al pari dei contratti di lavoro a tempo determinato per far fronte ai tagli o ai blocchi delle assunzioni di lavoratori subordinati nella P.A.).
Tale distinzione concettuale tra i due diversi tipi di collaborazione emerge in modo chiaro dall’impostazione delle leggi di natura finanziaria che si sono susseguite negli ultimi anni.
La legge finanziaria per il 2008 adotta una logica restrittiva nei confronti delle collaborazioni ordinarie. Difatti ai sensi dell’art. 79, che sostituisce l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, “
le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali. Il provvedimento di assunzione deve contenere l'indicazione del nominativo della persona da sostituire”.
L’art. 36 citato, a seguito delle modifiche intervenute per opera dell’art. 49 della legge n. 133/2008 e dell’art. 17, comma 26, della legge n. 102/2009, attualmente dispone quanto segue: “
1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35.
2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro ed il lavoro accessorio …..
”.
Se pertanto gli articoli 7 e 36 del D.Lgs. n. 165/2001 (nel testo vigente) prevedono rispettivamente la disciplina giuridica relativa ai due diversi tipi di collaborazione, attualmente la disciplina finanziaria trova regolamentazione rispettivamente negli articoli 6, comma 7, e 9, comma 28.
Il primo, come ricordato, prevede che “al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell'anno 2009. L'affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”.
Il comma 28 dell’art. 9 citato dispone, invece, che “a decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, incluse le Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto legislativo 30.07.1999, n. 300, e successive modificazioni, gli enti pubblici non economici, le università e gli enti pubblici di cui all'articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni e integrazioni, fermo quanto previsto dagli articoli 7, comma 6, e 36 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. Per le medesime amministrazioni la spesa per personale relativa a contratti di formazione lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro, nonché al lavoro accessorio di cui all'articolo 70, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, e successive modificazioni ed integrazioni, non può essere superiore al 50 per cento di quella sostenuta per le rispettive finalità nell'anno 2009. Le disposizioni di cui al presente comma costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si adeguano le regioni, le province autonome, e gli enti del Servizio sanitario nazionale…”.
Per tutto quanto premesso, distinte le due diverse forme di collaborazione, questo Collegio ritiene che
l’incarico da conferire per il funzionamento dell’ufficio tecnico non possa essere ricompreso nella nozione di consulenza esterna di cui all’art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010. Difatti, tale incarico è finalizzato allo svolgimento degli ordinari compiti amministrativi facenti capo all’ufficio tecnico comunale non richiedendosi per lo svolgimento di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali finalizzate (titolo di studio, esperienze lavorative, specializzazioni, ecc). Inoltre, contrasta con i caratteri tipici della consulenza, individuati al comma 6 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il carattere continuativo della prestazione richiesta al “consulente”.
La situazione descritta dal Sindaco sembra maggiormente rispondente all’ipotesi prevista dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 laddove prevede che “
per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”.
Nel caso di specie, pertanto, il comune di Pontinvrea potrà ricorrere a forme di lavoro flessibili (assunzioni a tempo determinato, contratti di collaborazione “ordinaria”) così come previsto dall’art. 92 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) e dalla normativa di settore. In tal caso l’ente comunale, che nel caso di specie non è sottoposto alle regole del Patto di Stabilità avendo una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, dovrà rispettare la normativa in materia di contenimento per le spese di personale espressamente prevista per gli enti appartenenti alla categoria in esame.
Inoltre non può non rimarcarsi che i comuni di ridotte dimensioni, in situazioni come quella evidenziata dal Sindaco del comune di Pontinvrea, hanno la possibilità di ricorrere agli istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e dall’art. 33 (esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni) del TUEL.
Quanto al secondo quesito valgono le considerazioni appena espresse dal Collegio con un’ulteriore precisazione.
Difatti, anche a voler considerare la prestazione del geologo come rientrante nella tipologia di consulenza esterna, occorre evidenziare, come anche ricordato dalle SS.RR (da ultimo Delibera n. 7/2011), che
la finalità perseguita dalla normativa finanziaria degli ultimi anni consiste nella riduzione delle spese pubbliche al fine di realizzare gli obiettivi di finanza pubblica e, per ciò che concerne istituti come quello delle consulenze esterne, ridurre l’incidenza di tali spese sui bilanci degli enti pubblici.
Pertanto
le norme non mirano a vietare o ridurre l’utilizzo tout court di tali istituti (consulenze, collaborazioni, sponsorizzazioni, missioni, ecc.) ma solo nel momento in cui tali forme di spesa incidono sul bilancio pubblico, in questo caso, dell’ente locale.
Diversamente,
quando tali istituti si auto-finanziano o trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati, ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali istituti giuridici.
Pertanto
qualora non vi siano oneri in capo alle amministrazioni locali, come evidenziato dal comune di Pontinvrea, non vi è alcuna preclusione al conferimento all’esterno dell’incarico di geologo (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 21.06.2011 n. 54).

06.10.2015 - LA SEGRETARIA PTPL

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGOChiedere un parere alla Corte dei Conti:
   1) in merito alla necessità, o meno, dell’iscrizione all’albo professionale del dipendente comunale tecnico per l'espletamento di attività progettuali di cui all'art. 90 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
il quesito non contiene profili contabili e, come tale, è inammissibile.
Invero,
le Sezioni regionali della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere generale in favore degli enti locali, ma le attribuzioni consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di controllo collaborativo conferite dalla legislazione.
Si è precisato che
la funzione consultiva non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente alla materia contabile pubblica, quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere generale nella materia contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti hanno delineato una
nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri.
In particolare, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica […] in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
   2) ed in merito all’individuazione del soggetto, Comune o dipendente interessato, sul quale graverebbero i connessi oneri economici,
la questione è ugualmente inammissibile per carenza delle caratteristiche indicate nella deliberazione n. 54/2010 delle Sezioni riunite della Corte dei conti, in quanto la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo professionale– “solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
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Il Sindaco del Comune di Bellusco (MI) ha formulato una richiesta di parere in merito alla necessità, o meno, dell’iscrizione all’albo professionale per l'espletamento di attività progettuali di cui all'art. 90 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e all’individuazione del soggetto, Comune o dipendente interessato, sul quale graverebbero i connessi oneri economici.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre precisare che, come previsto dall’art. 7 della legge n. 131/2003,
le Sezioni regionali della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere generale in favore degli enti locali, ma le attribuzioni consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di controllo collaborativo conferite dalla legislazione.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha fissato principi e modalità per l’esercizio dell’attività consultiva, modificati ed integrati con le successive delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009.
Si è precisato che
la funzione consultiva non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente alla materia contabile pubblica, quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere generale nella materia contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenendo con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, con legge n. 102/2009, hanno delineato una
nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (delibera n. 54 del 17.11.2010).
In particolare, nella citata pronuncia, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica […] in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa
si ritengono inammissibili entrambi i quesiti proposti.
Il primo quesito, relativo alla necessità, o meno, dell’iscrizione all’albo professionale per l'espletamento di attività progettuali di cui all'art. 90 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, non contiene, infatti, profili contabili.
Con riferimento al secondo quesito, riguardante l’individuazione del soggetto, Comune o dipendente interessato, sul quale graverebbero i connessi oneri economici, le Sezioni Riunite in sede di controllo hanno ritenuto, con deliberazione n. 1/CONTR/11, che la questione sia inammissibile per carenza delle caratteristiche indicate nella citata deliberazione n. 54/2010, in quanto la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo professionale– “solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
P.Q.M.
la Sezione
dichiara oggettivamente inammissibile la richiesta di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.09.2015 n. 293).

PUBBLICO IMPIEGOE' inammissibile porre un quesito alla Corte dei Conti per conoscere:
1. quando ed in quali termini una professione deve intendersi esercitata nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro;
2. se è da ritenersi dovuto da parte dell'Ente d'appartenenza il pagamento/rimborso del contributo annuale di iscrizione all'Albo/Ordine degli Architetti ed Ingegneri in favore dei dipendenti che espletano le attività tecniche più sopra indicate e che ne facciano richiesta;
3. nel caso di risposta affermativa, da quale anno è consentito provvedere al rimborso del contributo annuale di iscrizione al rispettivo Albo o Ordine,
poiché
lo stesso non contiene profili contabili e, nel contempo, risulta carente delle caratteristiche indicate nella deliberazione n. 54/2010 delle Sezioni riunite della Corte dei conti, in quanto la questione prospettata “solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
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Il Sindaco del Comune di Cologno al Serio (BG) ha formulato una richiesta di parere in merito alla rimborsabilità ai dipendenti pubblici del contributo annuale di iscrizione all’albo professionale.
In particolare si chiede:
"1. quando ed in quali termini una professione deve intendersi esercitata nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro;
2. se è da ritenersi dovuto da parte dell'Ente d'appartenenza il pagamento/rimborso del contributo annuale di iscrizione all'Albo/Ordine degli Architetti ed Ingegneri in favore dei dipendenti che espletano le attività tecniche più sopra indicate e che ne facciano richiesta;
3. nel caso di risposta affermativa, da quale anno è consentito provvedere al rimborso del contributo annuale di iscrizione al rispettivo Albo o Ordine
”.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre precisare che, come previsto dall’art. 7 della legge n. 131/2003,
le Sezioni regionali della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere generale in favore degli enti locali, ma le attribuzioni consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di controllo collaborativo conferite dalla legislazione.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha fissato principi e modalità per l’esercizio dell’attività consultiva, modificati ed integrati con le successive delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009.
Si è precisato che
la funzione consultiva non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente alla materia contabile pubblica, quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere generale nella materia contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenendo con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, con legge n. 102/2009, hanno delineato una
nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (delibera n. 54 del 17.11.2010).
In particolare, nella citata pronuncia, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica […] in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa
si ritengono inammissibili tutti e tre i quesiti proposti.
Il primo quesito, relativo alla nozione di professione esercitata nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di lavoro, non contiene, infatti, profili contabili.
Con riferimento al secondo e al terzo quesito, riguardanti la rimborsabilità ai dipendenti pubblici del contributo annuale di iscrizione all’albo professionale, con la connessa problematica relativa alla decorrenza temporale di tale onere, le Sezioni Riunite in sede di controllo hanno ritenuto, con deliberazione n. 1/CONTR/11, che la questione sia inammissibile per carenza delle caratteristiche indicate nella citata deliberazione n. 54/2010, in quanto la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo professionale– “solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
P.Q.M.
la Sezione
dichiara oggettivamente inammissibile la richiesta di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.09.2015 n. 291).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione del manufatto abusivo e acquisto del bene per successione a causa di morte.
L'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, perciò,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente.
Invero, se ne ricorresse la fattispecie,
il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
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L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
E nemmeno l'ordine di demolizione di un immobile abusivo può essere revocato o sospeso in conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità.
Parimenti,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia ancora pendente il procedimento per il reato edilizio.
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L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria.
Pertanto nell'ipotesi di acquisto dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell'erede del condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale della stessa.
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Peraltro,
nel ribadire che l'esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, questa Corte ha già avuto modo di precisare che tale principio è conforme alle norme CEDU.

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1. Il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. E' stato precisato da questa Corte di legittimità che
l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (cfr. sez. 3 n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, caso in cui la Corte ha precisato in motivazione che, comunque, la mancata condanna del terzo per concorso nell'abuso edilizio non implica necessariamente una posizione di buona fede rispetto ad esso).
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, perciò,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (sez. 3, n. 22853 del 29.3.2007, Coluzzi, rv. 236880, occasione in cui la Corte ha ulteriormente precisato che il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, infatti, ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (sez. 3, n. 37120 dell'11.5.2005, Morelli, rv. 232175; conf. sez. 3, n. 16035 del 26.2.2014, Attardi, rv. 259802).
E nemmeno l'ordine di demolizione di un immobile abusivo può essere revocato o sospeso in conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità (cfr. sez. 3, n. 38941 del 09.07.2013, DE Martino, rv. 256383).
Parimenti,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia ancora pendente il procedimento per il reato edilizio (così sez. 3, n. 45301 del 7.10.2009, Roscetti, rv. 245213, in un caso in cui era stata respinta la richiesta, presentata dal correo non ancora giudicato, avente ad oggetto la sospensione dell'ordine di demolizione impartito con sentenza già divenuta irrevocabile nei confronti del coimputato).
3. Nello specifico del caso che ci occupa il G.E. di Torre Annunziata ha operato un buon governo del costante dictum di questa Corte di legittimità secondo cui
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria (cfr. ex multis sez. 3, n. 3861 del 18.01.2011, Baldinucci ed altri, rv. 249317).
Pertanto nell'ipotesi di acquisto dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell'erede del condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale della stessa (sez. 3, n. 3720 del 24.11.1999 dep. il 27.1.2000, Barbadoro, rv. 215601).
Peraltro,
nel ribadire che l'esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio questa Corte ha già avuto modo di precisare, diversamente da quanto opina il ricorrente, che tale principio è conforme alle norme CEDU, come interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (cfr. sez. 3, n. 48925 del 22.10.2009, Viesti ed altri, rv. 245918).
Peraltro, in ogni caso, la circostanza che Re.An. fosse nel possesso dell'immobile, rende la stessa soggetto passivo legittimato a ricevere la notifica dell'ingiunzione alla demolizione del manufatto abusivo originariamente di proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2015 n. 36383).

PATRIMONIO: Risponde penalmente il dirigente comunale per le gravi negligenze in merito al (mancato) controllo delle condizioni di sicurezza della strada.
Sussiste la condotta colposa del dirigente comunale (in virtù della sua qualifica, preposto alla manutenzione del patrimonio comunale) laddove nell'omettere di manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un marciapiede nello stesso, a causa di una rottura della copertura, un passante affonda con il piede destro, cadendo quindi al suolo.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Giudice di Pace di Messina con la quale Am.An. é stato giudicato colpevole di aver cagionato a Sa.Ti.Tr. lesioni personali lievi, con
condotta colposa consistita nell'omettere -in qualità di dirigente comunale preposto al competente servizio- di manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un marciapiede di via Cesare Battisti, in Messina, nel quale, a causa di una rottura della copertura, il Tr. affondava con il piede destro, cadendo quindi al suolo.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l'imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. Gi.Sa..
2.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 187, co. 1 e 192, co. 1 e 2 cod. proc. pen. e vizio motivazionale.
Rileva il ricorrente che il Tribunale non ha tenuto conto del comportamento negligente della persona offesa e non ha accertato l'esistenza di una oggettiva insidia non potendosi spingere la difesa degli interessi degli utenti della strada sino al punto di escludere il principio di auto-responsabilità della vittima.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto l'attendibilità della persona offesa senza rilevare che la medesima si é costituita parte civile e che quindi le sue dichiarazioni necessitavano di riscontri; riscontri che non possono essere colti né nel verbale di accertamento dei vigili urbani né nella affermata compatibilità delle lesioni riportate dal Tr..
2.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 40, co. 2, 45 cod. pen. in relazione all'art. 169 d.lgs. n. 67 del 18.8.2000 nonché mancanza di motivazione.
Il Tribunale é pervenuto alla decisione senza verificare la possibilità giuridica dell'imputato di provvedere all'adozione delle opportune cautele, in relazione alla titolarità delle necessarie risorse economiche per lo svolgimento delle funzioni assegnategli.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. L'intero sviluppo delle argomentazioni del ricorrente appare attraversato da un limite intrinseco, quello dell'astrattezza, nel senso della posizione di asserzioni che, pur valevoli in linea di principio, appaiono prescindere dal concreto contenuto della sentenza impugnata e dalle circostanze in essa affermate.
Sembra opportuno prendere le mosse dalla censura che si indirizza al giudizio di attendibilità della persona offesa.
E' certamente vero che quando questa si costituisce parte civile mostra di avere specifico interesse all'affermazione di responsabilità dell'imputato e che tanto si riflette in un onere rafforzato di prudente valutazione da parte del giudice.
Ma nel caso di specie tale accorta ponderazione é stata compiuta dal Tribunale, il quale ha evidenziato che non risultano elementi che mettano in discussione l'attendibilità del Tr.; che la querela esponeva i fatti con linearità e precisione; che dal verbale della Polizia Municipale si evinceva la presenza sul marciapiede del tombino con una parte di piastrelle mancante lì dove lo aveva segnalato il Tr.; che anche le lesioni patite risultavano, siccome compatibili con la dinamica narrata, elemento di conforto alla versione dell'accusa.
Il Tribunale, quindi, ha operato la prescritta analisi dei materiali e, con motivazione né mancante né manifestamente illogica, ha spiegato le ragioni per le quali la persona offesa potesse essere assunta come primaria fonte di conoscenza dei fatti.
3.2. A fronte di ciò l'esponente, in definitiva, lascia intendere che il Tr. possa essersi inventato di sana pianta l'accadimento, al fine di lucrare un indebito risarcimento (e perciò, si intuisce, si ritiene non valevole quale riscontro il verbale dei VV.UU.). Ma tale sospetto può valere quale motore di una acuminata difesa, che porti in emersione specifiche circostanze in grado di sostanziare il sospetto sino a dargli la corporeità di una evidenza probatoria. Nulla di ciò si riscontra nel caso di specie; di qui quel connotato di astrattezza che si é sopra menzionato.
Certo non é dirimente il rilievo che indica una diversità nella descrizione dell'accaduto nel trascorrere dalla querela al verbale della P.M. perché
il rovinare al suolo non nega lo sprofondare con un piede nel tombino, potendo quest'ultimo essere antecedente causale del primo.
3.3. Quanto alla necessità, ai fini dell'addebito per colpa, che si dia l'esistenza di una insidia, si tratta di un assunto fondato.
Il ricorrente richiama, attraverso la massima redatta dal CED, la giurisprudenza di questa Corte per la quale,
in tema di omicidio colposo a seguito di incidente stradale, affinché le condizioni della strada assumano un'esclusiva efficienza causale dell'evento, è necessario che le sue anomalie assumano i caratteri dell'insidia e del trabocchetto, di guisa che per la loro oggettiva invisibilità e la conseguente imprevedibilità, integrino una situazione di pericolo occulto inevitabile con l'uso della normale diligenza; qualora, invece, adottando la normale diligenza che si richiede a colui che usi una strada pubblica, la situazione di pericolo sia conoscibile e superabile, la causazione dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta (Sez. 4, n. 34154 del 13/06/2012 - dep. 06/09/2012, Di Carro, Rv. 253520). 
Si tratta, tuttavia, di un principio che non si attaglia al caso di specie.
Nella vicenda oggetto della sentenza in causa Di Ca. si discuteva della incidenza causale di un dislivello del piano stradale che aveva determinato una sterzata del conducente del veicolo che, impattando altro veicolo, aveva procurato la morte del conducente di questo secondo veicolo. Si trattava, quindi, di verificare se il dislivello avesse avuto esclusiva efficienza causale.
La Corte lo ha negato, evidenziando che si sarebbe dovuto ritenere diversamente se avesse costituito una insidia o un trabocchetto, come tale non percepibile con l'ordinaria diligenza dall'utente della strada; mentre nel caso all'esame il dislivello sarebbe stato percepibile all'imputato se avesse usato l'ordinaria diligenza.
In tale contesto si é quindi concluso che la causazione dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta.
Nella vicenda oggetto del presente processo, per contro, viene in considerazione il comportamento della persona offesa dal reato; la cui eventuale negligenza nulla toglie alla rilevanza causale della condotta ascritta all'imputato, eventualmente concorrendo con questa (aspetto non attinto dalle censure del ricorrente).
3.4. Infine, a riguardo della pretesa mancata verifica della sussistenza della posizione di garanzia in capo all'Am. alla data del fatto e della effettiva titolarità delle necessarie risorse economiche, evidenziato che
non é in alcun modo contestato che l'Am. rivestisse il ruolo dirigenziale che gli é stato attribuito dai giudici di merito, va registrato come -diversamente da quanto opinato dal ricorrente- la Corte di Appello abbia preso in esame il profilo della impossibilità di adempiere all'obbligo gravante sull'Am., da un canto evidenziando come tale impossibilità non fosse in alcun modo emersa e dall'altro puntualizzando che essa avrebbe dovuto verificarsi non già in relazione ad interventi manutentivi ma solo rispetto al controllo delle condizioni di sicurezza per gli utenti, con l'apposizione di segnali di pericolo per il caso che quel controllo avesse fatto emergere fonti di pericolo.
Rispetto a tali corrette osservazioni il ricorrente non formula alcuna specifica censura.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 08.09.2015 n. 36242).

UTILITA'

SCUREZZA LAVORO: D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 - REV. SETTEMBRE 2015.
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Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro.
Disponibile il testo coordinato nell'edizione settembre 2015.

Disponibile on-line il testo coordinato del Decreto Legislativo 09.04.2008 n.81 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro con tutte le disposizioni integrative e correttive.
Novità in questa versione:
• Corretto l’importo massimo previsto per l’ammenda all’art. 284, comma 1;
• Inseriti gli interpelli dal n. 26 al n. 28 del 31/12/2014, le precisazioni all’interpello n. 20/2014 del 31/12/2014, e gli interpelli dal n. 1 al n. 5 del 23 e 24/06/2015;
• Inserite le circolari n. 34 del 23/12/2014, n. 35 del 24/12/2014, n. 3 del 13/02/2015, n. 5 del 03/03/2015 e n. 22 del 29/07/2015;
• Inserito il decreto interministeriale n. 201 del 18.11.2014, recante norme per l'applicazione, nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro (avviso pubblicato nella G.U. n. 15 del 20.01.2015);
• Abrogazione del comma 5 dell’art. 3, ai sensi dell’art. 55, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 15.06.2015, n. 81 (SO n. 34 alla G.U. 24/06/2015, n. 144, in vigore dal 25/06/2015);
• Modifica dell’art. 88, comma 2, lettera g-bis), ai sensi dell'art. 16, comma 1, della legge 29.07.2015, n. 115 (G.U. 03/08/2015, n. 178, in vigore dal 18/08/2015);
• Inserite le modifiche agli artt. 3, 5, 6, 12, 14, 28, 29, 34, 53, 55, 69, 73-bis (nuovo articolo), 87, 98 e 190, introdotte dal d.lgs. 14.09.2015, n. 151 recante “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10.12.2014, n. 183” (G.U. n. 221 del 23/09/2015 - S.O. n. 53, in vigore dal 24/09/2015) (tratto da www.lavoro.gov.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità ed assunzioni quasi completamente bloccate negli enti locali (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.10.2015).

PENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comune di Stezzano (BG): per i danni arrecati alle casse del comune c'è la Corte dei Conti (CGIL-FP di Bergamo, nota 28.09.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Modifica di alcune norme del Decreto Legislativo 09.04.2008, n. 81 (ANCE di Bergamo, circolare 02.10.2015 n. 198).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: chiarimenti interpretativi in merito alla nuova classificazione dei rifiuti introdotta dal Regolamento UE 1375/2014 e dalla Decisione UE 955/2014. Errata-corrige (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, nota 28.09.2015 n. 11845 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 del 02.10.2015, "Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo" (L.R. 01.10.2015 n. 27).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 30.09.2015, "Nuovi indirizzi generali per i comuni sugli orari e i turni di apertura e chiusura degli impianti di distribuzione dei carburanti ex artt. 81, comma 2, lett. c) e 106 della l.r. n. 6/2010, disciplina in tema di sospensione volontaria dell’attività di distribuzione carburanti ai sensi dell’art. 95 della l.r. 6/2010 s.m.i. e modifica della d.g.r. VIII/9590 dell’11.06.2009" (deliberazione G.R. 25.09.2015 n. 4071).

ENTI LOCALI: G.U. 30.09.2015 n. 227 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3 della legge 31.12.2009, n. 196 e ss.mm. (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT, elenco).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 30.09.2015 n. 227 "Criteri per la mobilità del personale dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta dichiarato in soprannumero, della Croce rossa italiana, nonché dei corpi e servizi di polizia provinciale per lo svolgimento delle funzioni di polizia municipale" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, decreto 14.09.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: Skype: le conversazioni dei dipendenti non possono essere spiate (29.09.2015 - tratto da www.quotidianogiuridico.it).
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Garante della privacy, newsletter 28.09.2015 n. 406 (link a www.garanteprivacy.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: A. Testa, Effettiva commerciabilità di un immobile costruito ante '67 e garanzie dell'acquirente sulla conformità urbanistico-edilizia (29.09.2015 - tratto da www.quotidianogiuridico.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: G. Palliggiano, Competenze geometri: per progettazioni e direzione lavori di "modeste costruzioni civili" (22.09.2015 - tratto da www.quotidianogiuridico.it).

SEGRETARI COMUNALI: C. Passalacqua, Il segretario comunale: una specie in estinzione? (21.09.2015 - tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: CERTIFICAZIONE ENERGETICA - LE NOVITÀ IN VIGORE DALL'01.10.2015 (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 18.09.2015).
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Sommario:
1. DECRETO 26.06.2015; 1.1. Entrata in vigore; 1.2. Finalità ed ambito di intervento; 1.3. Contenuto del decreto; 1.4. La prestazione energetica degli edifici; 1.5. La classificazione degli edifici in base alla destinazione d’uso; 1.6. Definizione degli interventi edilizi e di riqualificazione energetica;
2. DECRETO 26.06.2015 ; 2.1. Entrata in vigore; 2.2. Finalità ed ambito di intervento; 2.3. Contenuto del decreto;
3. DECRETO 26.06.2015; 3.1. Entrata in vigore; 3.2. Finalità ed ambito di intervento; 3.3. Contenuto del decreto; 3.4. La validità dell’APE; 3.5. Contenuto dell’APE a pena di invalidità; 3.6. Obbligo di sopralluogo; 3.7. Annunci commerciali; 3.8. Il Sistema Informativo sugli Attestati di Prestazione Energetica (SIAPE); 3.9. Informazione;
4. LE NUOVE LINEE GUIDA NAZIONALI PER L’ATTESTAZIONE DELLA PRESTAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI; 4.1. Entrata in vigore; 4.2. Finalità ed ambito di intervento; 4.3. Funzioni dell’APE; 4.4. Modalità di redazione dell’APE; 4.5. La prestazione energetica; 4.6. La classificazione degli immobili in funzione della prestazione energetica; 4.7. Il contenuto dell’Attestato di prestazione Energetica (APE); 4.8. Annunci commerciali; 4.9. Procedura di attestazione della prestazione energetica; 4.10. L’attestato di qualificazione energetica e suoi rapporti con l’APE; 4.11. La registrazione e la sottoscrizione dell’attestato di qualificazione energetica; 4.12.I casi di esclusione dall’obbligo di dotazione dell’APE.

EDILIZIA PRIVATA: M. A. Sandulli, Gli effetti diretti della 07.08.2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela (16.09.2015 - tratto da www.federalismi.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI SERVIZI: Concessione parcheggi, vale il codice dei contratti. Anac: nell'importo a base d'asta anche i servizi opzionali.
In una concessione di servizi per la gestione di aree di sosta si applicano anche le regole del codice dei contratti se vi sia un rinvio ad esse negli atti di gara; c'è l'obbligo di indicare i criteri motivazionali per la valutazione delle offerte; ed è necessario calcolare nell'importo a base di gara anche i servizi opzionali.

Sono questi alcuni dei principi affermati dall'Autorità nazionale anticorruzione nella delibera 26.08.2015 n. 64 (Affidamento del servizio di gestione della sosta a pagamento senza custodia mediante parcometro e ausiliari del traffico nel centro storico) relativa ad un affidamento del servizio di gestione della sosta a pagamento senza custodia mediante parcometro e ausiliari del traffico in un centro storico.
Il primo problema affrontato nella deliberazione dell'Anac riguarda la disciplina applicabile alla procedura, stante il fatto che negli atti di gara venivano richiamate sempre norme del codice dei contratti pubblici.
Al riguardo l'Autorità ha precisato che seppure l'affidamento fosse relativo ad una concessione di servizi, fattispecie che in via generale esula dall'ambito di applicazione del Codice dei contratti, tuttavia il sistematico rimando negli atti di gara alle norme dello stesso Codice e alle regole ivi previste, comporta la vincolatività della stazione appaltante alle stesse. Ma anche a prescindere da tale motivazione, l'Autorità fa presente che in ogni caso l'affidamento di una concessione di servizi non può essere sottratto ai principi del Trattato in tema di tutela della concorrenza, richiamati peraltro anche dal codice dei contratti (articolo 30).
Nel merito delle prescrizioni di gara la delibera eccepisce che il bando abbia omesso di indicare il criterio di valutazione (cd. criterio motivazionale) per la ponderazione dei vari elementi e aspetti dell'offerta tecnica; questo elemento aveva determinato la palese violazione dell'articolo 83, comma 4 del codice dei contratti pubblici che vincola la commissione ad applicare tali criteri.
La delibera nota che se è poi vero che la norma del codice non prevede espressamente che i criteri motivazionali debbano essere predefiniti a monte, è comunque pacifico che il bando debba dettagliare i criteri e i punteggi in modo da lasciare margini di discrezionalità ristretti alla commissione, la quale deve operare solo in modo vincolato, avendo cura di assegnare per quel «criterio uno specifico e determinato punteggio corrispondente alla definizione dell'offerta». E tutto ciò non era avvenuto.
Infine, un altro profilo di rilievo riguardava la definizione dell'importo a base di gara. In particolare l'Autorità ha rilevato che nel capitolato si prevede che al concessionario venga riconosciuto a titolo di rimborso spese per le iniziative per la realizzazione di opere, strutture e apparecchiature intese a migliorare l'attività di pianificazione, controllo e gestione del sistema di viabilità delle aree destinate a parcheggio, l'importo di 10 euro per ogni multa emessa regolarmente ed effettivamente riscossa.
Di questo importo, relativo ad un servizio aggiuntivo e opzionale, non si è però tenuto conto nel calcolo della base d'asta nonostante l'articolo 29 del codice dei contratti pubblici faccia riferimento per il calcolo stimato dell'importo anche alle «opzioni» prestazionali (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: La Sezione ritiene che la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente,
nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l’intervento legislativo in discorso, appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare,
sotto il profilo della “indispensabilità e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un “prezzo” di acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”), l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari).
Infine,
si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell’operazione transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito istituzionale dell’ente
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Il Sindaco del Comune di Milano, con nota del 16.06.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’acquisto di un immobile nel contesto di un contratto di transazione.
Il Comune di Milano formula il quesito in ordine all'ambito oggettivo di applicazione dell'art. 12, comma 1-ter del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito dalla legge 15.07.2011, n. 111. Il predetto comma, nella formulazione vigente, stabilisce che "a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del Demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente".
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se tale norma si applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o prevenire una lite e, in particolare, a casi in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità pubblica.
Al fine di far comprendere la portata del quesito, l’istanza rappresenta che la fattispecie è relativa ad un caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad accettare che un credito, accertato con sentenza passata in giudicato, venga pagato non in denaro, ma con il trasferimento di un bene immobile (oltre alla rinuncia da parte del debitore a crediti vantati nei confronti dell'ente locale, ancora sub iudice, ed alle relative azioni già intraprese).
L'opinione del Comune di Milano è che il suddetto comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 non si applichi anche alle fattispecie transattive, riguardando solo ipotesi di operazioni di acquisto puro, inquadrabili nello schema del contratto di vendita, e ciò in ragione della lettera e della ratio della norma.
Sotto il profilo della lettera della legge, l’istante osserva che la disposizione in questione subordina le operazioni di acquisto di immobili ad una attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo" ed al successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito".
La norma, dunque, utilizzando la terminologia propria dell'istituto della compravendita fa evidentemente riferimento solo ad ipotesi in cui l'acquisto avvenga mediante alienazione; la transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, evidenzia che la norma in esame è contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria"; la ratio espressa è quella di "pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno". La norma ha dunque carattere finanziario ed ha l'esclusivo scopo di dettare disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica e, quindi, concerne acquisti di immobili a fronte del pagamento di un prezzo, ossia di uscite di denaro pubblico.
La transazione, nell'ambito della quale l'ente locale acquisisce un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del bene immobile che verrà acquisito dall'ente locale, e che coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso in essere nonché considerazioni sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici.
La transazione non si presta, per sua natura, ad essere assoggettata alle limitazioni e ai vincoli contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non strettamente indispensabile ed indilazionabile e, tuttavia, altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.
Sotto altro profilo anche l'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non si presta a trovare applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene immobile da trasferire, vi possono essere ulteriori reciproche concessioni che definiscono i contenuti dell'accordo transattivo, tra cui la rinuncia della controparte ad altri crediti oggetto di contenzioso. Tali elementi nel loro complesso concorrono congiuntamente a comporre il quadro di convenienza economica della transazione stessa e dunque, in ultima analisi, il giudizio circa la presenza di risparmi di spesa, non riducibile ad una stima meramente economica.
L’istanza precisa che, comunque, la stima del valore del bene oggetto di trasferimento viene effettuata, nell'ambito del procedimento che conduce alla stipula dell'accorcio transattivo, dalla Direzione Centrale Sviluppo del Territorio del Comune.
Assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e vincoli, appare contrario al raggiungimento degli stessi obiettivi di conseguimento di effetti finanziari positivi che la norma in questione vuole perseguire. L'applicazione della suddetta norma potrebbe, infatti, impedire il raggiungimento di accordi economicamente convenienti, costringendo l'Amministrazione a non acquisire beni immobili che rivestono pubblica utilità od esponendola al rischio dell'accoglimento di domande risarcitorie già formulate in giudizio dalla controparte.
Si evidenzia, infine, che l'art. 12 comma 1-ter del decreto-legge n. 98 del 2011 è norma eccezionale, in quanto limitativa della generale capacità giuridica degli enti locali, e, in quanto tale, va interpretata restrittivamente.
Tanto premesso, il Comune di Milano chiede parere in merito all’applicabilità della norma sopra indicata agli accordi transattivi stipulati dagli enti locali, nell'ambito dei quali sia prevista l'acquisizione di beni immobili, di potenziale utilità pubblica, da parte dell'ente locale stesso.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel presente parere.
Il Comune di Milano chiede lumi sulla portata applicativa dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione della disciplina introdotta dall’art. 12 del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, come novellato dal citato art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012. La disposizione in commento è stata varie volte scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni, n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni è stato chiarito come, a decorrere dal 1° gennaio 2014, a differenza di quanto disposto per il 2013, gli enti locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni immobili, sia pure nei limiti e con le modalità previste dal comma 1-ter del citato art. 12 del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012. Attualmente, quindi, non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili (contenuta nel comma 1-quater dell’indicato art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011).
La vigente formulazione del comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 dispone, infatti, che, “
a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, al regime di divieto (salvo specifiche eccezioni) è stata sostituita una disciplina che consente le operazioni di acquisto di beni immobili, ma solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento dall’amministrazione.
Il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella disciplina legislativa limitativa ora esposta, l’acquisizione di un bene immobile quale effetto di un contratto di transazione.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, la Sezione, già nella vigenza del regime più restrittivo del divieto, imposto nell’esercizio 2013, ha chiarito, per esempio nella deliberazione n. 164/2013/PAR, che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR). Allo stesso modo la Sezione regionale per le Marche, nella deliberazione n. 7/2013/PAR, ha sottolineato come, dal punto di vista civilistico, l’acquisto di un immobile a titolo oneroso si richiama senz’altro allo schema tipico della compravendita, la quale risulta esplicitamente coinvolta nel divieto.
Peraltro, l’effetto traslativo del diritto di proprietà su beni immobili si realizza anche attraverso altri contratti, come, a titolo esemplificativo, il conferimento in società, la donazione, la transazione, i contratti ad effetti reali, anche atipici. Indirettamente si può procedere al trasferimento della titolarità di beni immobili anche attraverso la cessione di quote o di azioni di società che posseggano immobili (argomentazioni simili si ritrovano nella deliberazione della Sezione Toscana n. 125/2013/PAR).
L’interpretazione condotta circa i presupposti oggettivi di applicazione della disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili da parte di enti locali, tesi a valorizzare la natura eccezionale della norma posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, come tale non suscettibile di estensione oltre i casi da essa considerati (art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile), trova maggiore supporto in presenza di una rinnovata disciplina che, dal 2014, non vieta più l’acquisto di immobili, ma lo sottopone soltanto a limitazione. In questa direzione può farsi rinvio alle deliberazioni della Sezione n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni, riprendendo le coordinate interpretative affermate in precedenti pronunce, la Sezione ha avuto modo di escludere la soggezione alla disciplina limitativa nel caso di acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che, in queste ipotesi, l’acquisizione avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici, non ad una compravendita (cfr. deliberazione n. 21/2015/PAR e, nella vigenza del precedente divieto, la deliberazione n. 220/2013/PAR).
In queste occasioni è stato sottolineato, fra l’altro, come la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita.
Nella deliberazione n. 97/2014/PAR, la Sezione è giunta a conclusioni simili per quanto riguarda l’acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità. Nell’occasione, è stato richiamato anche il parere della Sezione Veneto che, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, i soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si applichi quindi alle procedure espropriative (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR).
Anche in questo caso, inoltre, è stato sottolineato come
la richiesta attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio in ordine al prezzo di acquisto dell’immobile trova difficoltosa applicazione nell’ambito di una procedura espropriativa (nella quale la determinazione dell'indennità è soggetta agli specifici criteri previsti dalla legge).
Infine, i canoni ermeneutici generali sono stati applicati dalla Sezione per escludere la riconducibilità alla disciplina limitativa del contratto di permuta. Sempre nella deliberazione n. 97/2014/PAR, infatti, è stato precisato come il comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, contiene un’espressa indicazione della propria finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno”) ed è inserito nell’ambito della legge di stabilità, la quale, come previsto dall’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, contiene norme tese a realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, invece, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce un’operazione finanziariamente neutra (in termini, le precedenti deliberazioni della Sezione n. 162/2013/PAR, n. 164/2013/PAR e n. 193/2013/PAR) e, di conseguenza, non rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter in esame. Anche in questa occasione è stato evidenziato, altresì, come la norma indicata preveda, espressamente, una serie di obblighi concernenti il “soggetto alienante” ed il “prezzo pattuito”, mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche, e riferibili a entrambi i contraenti.
La Sezione ritiene che le argomentazioni esposte, sia in linea generale, che in riferimento a specifiche modalità di acquisizione di beni immobili al patrimonio comunale, tese a ricondurre l’applicazione oggettiva della disciplina limitativa alle sole acquisizione di beni immobili discendenti direttamente da contratti ad effetti traslativi (quali la compravendita) debbano valere anche per il contratto di transazione (anche in aderenza ai canoni interpretativi posti dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile).
Quest’ultimo, come noto, ai sensi dell’art. 1965 del codice civile, è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti. Appare opportuno sottolineare, anche ai fini dell’interferenza interpretativa con la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, come elemento essenziale della transazione sia, fra gli altri, l’esistenza di reciproche concessioni (in difetto, sussiste rinuncia unilaterale).
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili si applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o prevenire una lite e, in particolare, ai casi in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità pubblica (nello specifico, la fattispecie è relativa ad un caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad accettare che un credito, accertato con sentenza passata in giudicato, venga pagato a mezzo del trasferimento di un bene immobile, cui accederebbe la rinuncia, da parte del debitore, a differenti crediti vantati nei confronti dell'ente locale ed alle relative azioni già intraprese).
Sotto il profilo letterale, la disposizione in questione subordina, in effetti, le operazioni di acquisto di immobili all’attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo", nonché al successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito". La norma, utilizzando la terminologia propria del contratto di compravendita, sembra far riferimento, come sottolineato in precedenza, a questa fattispecie, mentre il contratto di transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, inoltre, pare opportuno ricordare nuovamente come
la norma in esame sia contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria" ("pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno"). Avendo carattere finanziario, e quindi lo scopo di dettare disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica, dovrebbe concernere i soli acquisti di immobili a fronte del pagamento di un prezzo (o della mancata acquisizione di un credito liquido ed esigibile).
La transazione, invece, anche nell'ipotesi in cui conduca, come effetto, all’acquisto di un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del bene che verrà acquisito, quale prestazione della controparte, dall'ente locale. Valutazioni che coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso in essere, nonché considerazioni sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici tendenti alla definizione transattiva di una controversia.
Sotto quest’ultimo profilo, il contratto di transazione fa fatica, per sua natura, ad essere assoggettato ai vincoli contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non strettamente indispensabile ed indilazionabile, ma altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.

Sotto altro aspetto,
anche la richiesta attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non riesce a trovare piana applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, in questo caso, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene immobile da trasferire, vanno valutate le ulteriori reciproche concessioni che definiscono i contenuti dell'accordo transattivo. Tutti elementi che, nel loro complesso, concorrono a definire il quadro di convenienza economica della transazione e, in conclusione, il giudizio circa la presenza di effettivi risparmi di spesa per l’amministrazione stipulante.
La Sezione osserva, altresì, come, assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e vincoli, possa produrre effetti contrari al raggiungimento degli stessi obiettivi di contenimento finanziario che la norma in questione vuole perseguire. L'applicazione ai contratti di transazione, infatti, potrebbe impedire il raggiungimento di accordi economicamente convenienti, esponendo l’amministrazione al rischio dell'accoglimento giudiziale delle pretese di controparte.
Sulla base delle motivazioni sopra esposte,
la Sezione ritiene che la disciplina limitativa, vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte degli enti locali, posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del 2012, non possa trovare diretta applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente,
nello spirito del contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili, che caratterizza l’intervento legislativo in discorso, appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare,
sotto il profilo della “indispensabilità e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile, risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione alla stipula della transazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta necessario porre fine ad una controversia mediante la necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita attestazione di congruità, anche se non appare necessario, alla luce della differente conformazione della fattispecie transattiva (in cui è assente un “prezzo” di acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”), l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia certificata dagli appositi uffici tecnici interni, costituendo elemento della complessiva stima di convenienza economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale, va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di legge o regolamentari).
Infine,
si ritiene necessario, non risultando incompatibile con la struttura dell’operazione transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito istituzionale dell’ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.09.2015 n. 310).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla possibilità del ripristino del passaggio del personale da part-time a tempo pieno.
I dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Peraltro, in un’ottica più generale di riduzione e di contenimento della spesa pubblica,
la “maggior spesa in questione va, comunque, riassorbita, sia pur gradualmente ed a partire dall’esercizio finanziario immediatamente successivo a quello nel quale si è verificata la riespansione del rapporto di lavoro“.
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Il Sindaco del Comune di Cinto Caomaggiore (VE), con la suindicata nota, sollecita l'esercizio della funzione consultiva da parte di questa Sezione su alcune problematiche in materia di personale, ed in particolare sulla richiesta di un dipendente comunale per il ripristino dell'orario di lavoro a tempo pieno.
Nella suindicata nota il Sindaco evidenzia come l'accoglimento di tale richiesta, essendo trascorsi i due anni previsti dall'art. 4, comma 14, del CCNL del 14.09.2000, potrebbe comportare l'aumento ed il conseguente sforamento delle spese di personale ai sensi del comma 557 della legge 27/12/2006, n. 296, mostrando altresì di conoscere la posizione della Corte Conti nelle sue varie articolazioni territoriali e le problematiche sottese.
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II. La richiesta di parere avanzata dal Comune di Cinto Caomaggiore –che comunque attiene alla materia della contabilità pubblica come sopra definita- assume, peraltro, un sufficiente carattere di generalità tale da poter consentire alla Sezione di esprimersi nel merito,
circa cioè la possibilità del passaggio del personale part-time a tempo pieno e sul contestuale rispetto del vincolo di riduzione della spesa di personale dell’ente rispetto a quella sostenuta nell’esercizio precedente: vincolo posto in dubbio dall’incremento conseguente agli oneri derivanti dalla riespansione del rapporto di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno.
Sul punto, giova evidenziare che l’art. 4 del CCNL del Comparto Regioni–Autonomie Locali del 14.09.2000 riconosce ai dipendenti in regime di part-time, la possibilità di ottenere la riconduzione del rapporto alle condizioni originarie (full-time). Detta possibilità, che sembra atteggiarsi quale vero e proprio diritto potestativo, viene riconosciuta anche normativamente atteso che l’art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, convertito dalla Legge n. 140 del 1997, tutt’oggi in vigore, prevede che
i dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Per converso, la possibilità per l’ente locale di convertire a tempo pieno il rapporto di lavoro di un dipendente assunto a tempo parziale incontra, come noto, il limite posto dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria per il 2008, n. 244/2007, che stabilisce quanto segue: “
per il personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”.
Dette disposizioni vincolistiche, attualmente in vigore e destinate agli enti locali soggetti al patto, si sostanziano nelle previsioni di cui all’articolo 1, commi 557 - 557-quater della legge 27.12.2006 n. 296.
In particolare il comma 557 di detta disposizione, letto in combinato disposto con il successivo comma 557-quater, introdotto dall’articolo 3, comma 5-bis del D.L. 90/2014, prevede che “…. a decorrere dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente”.
Alla luce delle richiamate disposizioni appare chiaro che
le amministrazioni, una volta che il dipendente abbia esercitato detto diritto, potrebbero trovarsi di fronte all’evidenza di dover sostenere per l’esercizio interessato una spesa di personale ben più alta di quella programmata (con la necessità tuttavia del rispetto dei vincoli vigenti), non potendo prevedere puntualmente quando la richiesta alla riespansione dell’orario di lavoro verrà effettivamente formulata dal dipendente. Con ciò, incidendo la maggiore spesa sull’importo della media triennale imposta dalla normativa sopra richiamata.
Va poi evidenziato che la successiva circolare n. 1/2015 della Funzione Pubblica, ha precisato sul punto quanto segue “il legislatore vincola gli enti a destinare il 100% del turn-over alla mobilità del personale degli enti di area vasta, salvaguardando l'assunzione dei vincitori esclusivamente a valere sulle facoltà ordinarie di assunzione. Sono altresì salvaguardate le esigenze di incremento di part-time nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 3, comma 101, della legge 244/2007”.
Proprio alla luce delle richiamate coordinate ermeneutiche va dunque inquadrata la questione interpretativa sollevata dal comune di Cinto.
III. Sul punto, il Collegio osserva peraltro che il quesito proposto dal Comune di Cinto Caomaggiore è in tutto simile a quello oggetto di recentissima remissione alla Sezione autonomie, in cui la Sezione Lombardia con deliberazione n. 135/2015/QMIG del 27.03.2015 aveva chiesto espressamente “se la trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, sottoposta alla disciplina limitativa delle assunzioni di personale dall’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2007, sia soggetta, per gli anni 2015 e 2016, anche agli ulteriori limiti e divieti posti dall’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014”.
La Sezione remittente, sulla scorta del dettato letterale delle normativa in materia (art. 3, comma 101, legge n. 244/2007; art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014; art. 1, comma 424, legge n. 190/2014), nonché dei pregressi orientamenti assunti da alcune Sezioni regionali di controllo, aveva ritenuto che,
nell’attesa che si concludano le procedure previste dal comma 424 della legge di stabilità per il 2015, gli enti locali non possano procedere alla trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in quanto fattispecie normativamente equiparata alla disciplina prescritta per le assunzioni a tempo indeterminato.
Al riguardo, poiché la disciplina della trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla disciplina di cui al citato comma 424, la Sezione delle Autonomie con la deliberazione n. 26 SEZAUT/2015/QMIG del 20.07.2015 ha confermato l’orientamento già espresso nella propria deliberazione n. 19/SEZAUT/2015/QMIG del 04.06.2015, concludendo per il non luogo a deliberare sul quesito deferito dalla Sezione di controllo per la Lombardia con deliberazione n. 135/2015/QMIG.
Nella deliberazione n. 19/SEZAUT/2015/QMIG, infatti, si trova affermato che “l’esame delle questioni è limitato alle difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale, sistematico e logico, direttamente ed esclusivamente connesse al tenore dell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014; altri istituti concernenti altre facoltà assunzionali degli enti interessati, anche se indirettamente rilevanti nell’ambito del lavoro esegetico, restano fuori dal perimetro della questione di massima. La ragione di questa delimitazione dell’ambito esegetico risiede nel fatto che il comma 424 contiene solo un espresso regime derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna novella legislativa esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli previsti dalle leggi”, a cui questo Collegio fa rinvio e che sono state descritte in precedenza.
Più specificamente, deve essere sottolineato che la stessa Sezione delle Autonomie nella citata deliberazione n. 26/2015 ha precisato che la circolare n. 1/2015 del Dipartimento della Funzione Pubblica è stata registrata dalla Corte dei Conti in data 20.02.2015 (Reg. ne. - Prev. n. 399), la quale, come ricordato, ha ritenuto di escludere dalla disciplina vincolistica posta dal comma 424 della legge n. 190/2014 le conversioni da part-time a tempo pieno (“Sono altresì salvaguardate le esigenze di incremento di part-time nel rispetto di quanto previsto dall’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2007”).
In relazione a ciò, il citato art. 6, comma 4, del D.L. n. 79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997, prevede che
i dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Peraltro, in un’ottica più generale di riduzione e di contenimento della spesa pubblica, questa Sezione ha ripetutamente sottolineato (deliberazione n. 287/2011/PAR, n. 106/2013/PAR e n. 406/2014/PAR) che
la “maggior spesa in questione va, comunque, riassorbita, sia pur gradualmente ed a partire dall’esercizio finanziario immediatamente successivo a quello nel quale si è verificata la riespansione del rapporto di lavoro (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 23.09.2015 n. 410).

INCENTIVO PROGETTAZIONEGli incentivi possono essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
Il che porta necessariamente ad escludere il diritto all’incentivo per tutte quelle attività di pianificazione territoriale che, quantunque funzionali e preordinate alla realizzazione di opere pubbliche non si estrinsechino in una attività di puntuale progettazione delle opere stesse.
Questa Sezione, in precedenti pareri resi in materia, ha negato la configurabilità dell’incentivo per la redazione del Piano di governo del territorio o delle relative varianti, così come dei Piani integrati di intervento.
Le attività richieste per l’adozione di tali strumenti urbanistici, come emergono dalle disposizioni della legge regionale che li ha introdotti e come descritte nelle schede fornite dal comune istante, non si estrinsecano infatti, di regola, nella progettazione di un’opera nel senso sopra descritto.
Tale requisito, in particolare, non può essere ravvisato, contrariamente a quanto sostenuto dal comune istante, nella sola localizzazione e nella previsione di realizzazione di un'opera pubblica, apportando i necessari presupposti di conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica generale.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale progettazione di un’opera pubblica.

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Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Milano formula un quesito sulla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in vigore fino al 18.08.2014, con particolare riferimento ai compensi riconosciuti ai dipendenti dell’ente per attività di pianificazione.
Il Comune intende infatti procedere alla determinazione e alla conseguente liquidazione, ai dipendenti, dei compensi incentivanti inerenti la pianificazione urbanistica, maturati in vigenza della disposizione sopra citata.
Si richiama al riguardo l'orientamento più volte espresso da questa Sezione e condiviso dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti (
deliberazione 15.04.2014 n. 7 di orientamento generale), secondo il quale il riconoscimento del compenso richiede che il contenuto specifico dell'atto di pianificazione sia connesso alla realizzazione di un'opera pubblica.
Ciò premesso si chiede se in considerazione del predetto orientamento possano ritenersi ricompresi nella fattispecie di pianificazione, collegata alla realizzazione di opera pubblica, sia gli atti di pianificazione urbanistica generale del PGT, inerenti il Piano dei Servizi e il Piano Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo, le Varianti urbanistiche per la localizzazione di opere pubbliche, sia gli atti di pianificazione urbanistica attuativa, nonché gli strumenti di programmazione negoziata, il cui contenuto, secondo la prospettazione del comune istante, rappresenta quel "quid pluris" di progettualità interna e si estrinseca nella localizzazione e nella previsione di realizzazione di un'opera pubblica, apportando i necessari presupposti di conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica generale previsti dal "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità" - D.P.R. 327/2001, nonché nella definizione degli scenari di intervento (sotto il profilo urbanistico, ambientale, costruttivo), preliminarmente all'avvio del procedimento di realizzazione dell'opera.
A tal fine si precisa inoltre che l'atto di pianificazione è un atto complesso, per la cui redazione occorre svolgere un'attività di ricerca, di organizzazione e di elaborazione di dati, nonché di analisi degli aspetti di natura urbanistico-edilizia, ambientale, storico-monumentale di un determinato ambito territoriale, attività che richiedono specifiche competenze di figure professionali interne all'Amministrazione, adeguate anche per un confronto con i professionisti esterni.
L'Amministrazione si è avvalsa della collaborazione di dipendenti che sono in possesso di queste specifiche competenze professionali, ottenendo un risparmio di spesa rispetto ai costi, che avrebbe dovuto sostenere, per il ricorso di tali prestazioni professionali all'esterno degli uffici comunali.
Alla richiesta di parere sono allegate le schede sintetiche delle fattispecie di atti di pianificazione con illustrazione dell'attività urbanistica svolta, considerata essenziale ai fini della progettazione delle opere pubbliche/opere di urbanizzazione.
...
Conviene preliminarmente ricordare che l’art. 13 del decreto legge del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato una nuova normativa in materia, confluita nell’art. 93 del codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico interesse ai fini del presente parere, la definitiva soppressione degli incentivi per la redazione di atti pianificazione la cui disciplina non è stata riproposta nelle nuove disposizioni di legge le quali, viceversa, limitano la remunerazione alle sole attività di progettazione propriamente detta.
Si deve tuttavia ritenere, come confermato dai pareri resi in materia dalle sezioni di controllo di questa Corte, che
i dipendenti che abbiano realizzato attività di pianificazione conclusesi prima dell’entrata in vigore della riforma sopra accennata, mantengano il diritto agli incentivi maturato nel rispetto della precedente disciplina normativa.
Ciò detto, l’esame del merito del quesito sottoposto alla sezione, nei termini sopra riferiti, richiede di fornire la corretta interpretazione del previgente art. 92, comma 6, del codice dei contratti pubblici, ove si disponeva che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Si tratta di chiarire, in particolare, la natura delle attività riconducibili alla nozione di “atto di pianificazione comunque denominato” agli effetti del riconoscimento al personale interno dell’ente dei compensi “incentivanti” ivi previsti.
Questa Sezione, nei diversi pareri forniti in materia, ha sempre ritenuto di circoscrivere tale nozione ai soli atti di pianificazione che siano strettamente connessi alla progettazione di opere pubbliche, escludendo la possibilità di corrispondere gli incentivi per la redazione di atti di pianificazione di carattere generale, privi dei predetti requisiti e rientranti, come tali, nelle ordinarie mansioni richieste al personale dipendente (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 06.03.2012 n. 57, parere 30.05.2012 n. 259,
parere 23.10.2012 n. 440, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 10.02.2014 n. 62).
Un’interpretazione restrittiva della disposizione in esame, per la cui completa disamina si rinvia ai precedenti citati, porta a sostenere che “
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ossia a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72).
Al predetto orientamento, condiviso dalla maggioranza delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (tra le varie: Sezione regionale di controllo per la Toscana, deliberazione n. 15/2013/PAR; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 290/2012/PAR) si è contrapposto il diverso avviso, recentemente ribadito in seno alla giurisprudenza contabile, volto, viceversa, ad ammettere il diritto all’incentivo per la sola attività di pianificazione a prescindere dall’eventuale collegamento con la progettazione di un’opera pubblica (Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 22.11.2013 n. 361 e parere 03.12.2013 n. 381).
La questione è stata sottoposta all’esame della Sezione Autonomie della Corte dei conti, chiamata a stabilire, a fronte del citato contrasto interpretativo, se il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussista solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, oppure se tale diritto sussista anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale.
La Sezione Autonomie, nel risolvere la questione di massima, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha ritenuto di aderire all’orientamento maggioritario che riconosce di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici, reputando l’ambito applicativo della disposizione di legge, apparentemente ampio ed indefinito, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
Si riportano di seguito le argomentazioni poste a fondamento della predetta interpretazione, rinviando al testo della deliberazione citata per la completa disamina della questione.
Si considera dirimente, innanzitutto, l’argomento che attiene all’interpretazione sistematica delle disposizioni in esame e che ha riguardo alla collocazione delle stesse (sedes materiae) all’interno del Capo IV “Servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria”- Sez. I “Progettazione interna ed esterna e livelli di progettazione”- del Codice dei Contratti ed al fatto che le stesse siano immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici".
Disposizione quest’ultima che affida la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici tecnici delle stazioni appaltanti o, in alternativa, a liberi professionisti e che, al comma 6, limita la possibilità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere a professionalità esterne ai soli casi di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori, o, infine, nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento.
L’art. 92 rubricato “corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti“ completa quanto disposto dai precedenti articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della progettazione dei lavori pubblici.
Decisivo appare, nondimeno, l’argomento basato sull’interpretazione funzionale della norma in esame.
Il citato art. 92 del codice dei contratti pubblici, ai commi 5 e 6, esprime, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale.
Pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego il cui sistema retributivo è basato, come è noto, sui principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1. In base a tali principi nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.
Il legislatore, con le disposizioni in parola, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi.
In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92, ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.
La norma deve essere considerata, dunque, di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato.
La funzione “incentivante” riconosciuta all’art. 92, comma 6, oltre a limitarne l’ambito di applicazione oggettivo nei termini sopra riferiti, ne circoscrive l’applicazione soggettiva al solo personale interno dell’ente, escludendo implicitamente, come confermato nei precedenti pareri resi dalla Sezione, che possano essere erogati speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di un atto di pianificazione che sia affidato ad un professionista esterno.
Tutto ciò premesso, questa Sezione, con riferimento alla richiesta formulata, non può che ribadire il proprio precedente e consolidato orientamento, confermato anche dalla Sezione Autonomie, per cui
gli incentivi possono essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
Il che porta necessariamente ad escludere il diritto all’incentivo per tutte quelle attività di pianificazione territoriale che, quantunque funzionali e preordinate alla realizzazione di opere pubbliche non si estrinsechino in una attività di puntuale progettazione delle opere stesse.
Questa Sezione, in precedenti pareri resi in materia, ha negato la configurabilità dell’incentivo per la redazione del Piano di governo del territorio o delle relative varianti, così come dei Piani integrati di intervento
(parere 24.10.2012 n. 452).
Le attività richieste per l’adozione di tali strumenti urbanistici, come emergono dalle disposizioni della legge regionale che li ha introdotti e come descritte nelle schede fornite dal comune istante, non si estrinsecano infatti, di regola, nella progettazione di un’opera nel senso sopra descritto.
Tale requisito, in particolare, non può essere ravvisato, contrariamente a quanto sostenuto dal comune istante, nella sola localizzazione e nella previsione di realizzazione di un'opera pubblica, apportando i necessari presupposti di conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica generale.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale progettazione di un’opera pubblica.
Spetta naturalmente all’ente istante stabilire se nel caso concreto, con riferimento alle diverse tipologie di pianificazione adottate, il predetto requisito possa ritenersi soddisfatto (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 22.09.2015 n. 303).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti locali, meno paletti sulle nuove assunzioni. Sezione autonomie: i resti vanno considerati in senso dinamico.
Il triennio dei resti assunzionali da calcolare ai fini della determinazione del budget per le nuove assunzioni va considerato in senso dinamico e non statico. Gli enti locali, dunque, ogni anno dovranno calcolare il budget considerando il costo delle cessazioni dell'anno precedente, aggiungendo i resti assunzionali del triennio a scorrimento.

Lo chiarisce la deliberazione 22.09.2015 n. 28 della Corte dei conti, sezione autonomie, che torna sui problemi già in parte affrontati con la precedente deliberazione 26/2015, innovandone parzialmente i contenuti, analizzando le disposizioni del dl 78/2015 che ha novellato l'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, prevedendo che «è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente».
Il meccanismo dettato dalla delibera 28/2015 può essere chiarito come segue. Per il 2015 le capacità assunzionali degli enti locali corrispondono al 60% del costo delle cessazioni intervenute nel 2014, più i resti del budget assunzionale degli anni 2011-2013; per il 2016, invece, le capacità assunzionali saranno pari all'80% del costo delle cessazioni del 2015, più i resti del budget assunzionale del nuovo triennio 2012-2014.
La sezione autonomie non si limita a chiarire la natura dinamica del triennio. Sottolinea che gli enti possono utilizzare i resti assunzionali solo a condizione che le connesse risorse «siano state a suo tempo previste, nell'ambito della programmazione del turn-over». Occorre, dunque, che i «resti» si formino in corrispondenza a previsioni di assunzioni formalizzate, altrimenti non avrebbero un fondamento né giuridico, né finanziario.
La delibera, inoltre, torna sugli effetti della novellazione dell'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014 rispetto alla disciplina di congelamento delle assunzioni contenuta nell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, dando l'impressione di rivedere in senso critico le indicazioni della delibera 26/2015. Questa, infatti, ha ritenuto che gli enti locali possano porre in essere assunzioni a tempo indeterminato a valere sui resti assunzionali del trienni 2011-2013, senza che esse incorrano nelle limitazioni poste dalla legge 190/2014.
La delibera 28/2015 indica, dal canto suo che «le limitazioni di cui alla legge n. 190/2014, finalizzate a garantire il riassorbimento del personale provinciale, sono da ritenere operanti, con riguardo al budget di spesa per il 2015 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel 2014), anche nei casi in cui sia possibile utilizzare gli spazi assunzionali connessi alle cessazioni intervenute nel triennio precedente».
La Corte dei conti pare dunque correggersi: afferma, infatti, che i resti assunzionali del triennio 2012-2014 accedano al budget del 2015, così da formare un corpo unico che finanzi le assunzioni ammesse dal comma 424: la chiamata dei vincitori dei concorsi con graduatorie vigenti o approvate all'01/01/2015, nonché la ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Un secondo importante chiarimento dettato dalla delibera 28/2015 riguarda il calcolo del costo delle cessazioni. La delibera dispone che «con riguardo alle cessazioni di personale verificatesi in corso d'anno, il budget assunzionale di cui all'art. 3, comma 5-quater, del dl n. 90/2014 va calcolato imputando la spesa a regime per l'intera annualità», allo scopo di evitare le distorsioni nei calcoli derivanti dal conteggio per cassa» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2015).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla questione interpretativa posta dalla Sezione regionale di controllo per la Campania con la deliberazione n. 200/2015/QMIG pronuncia i seguenti principi di diritto:
1) Il riferimento “al triennio precedente” inserito nell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78/2015, che ha integrato l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, è da intendersi in senso dinamico, con scorrimento e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si intende effettuare le assunzioni.
2) Con riguardo alle cessazioni di personale verificatesi in corso d’anno, il budget assunzionale di cui all’art. 3, comma 5-quater, del d.l. n. 90/2014 va calcolato imputando la spesa “a regime” per l’intera annualità.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa trasformazione di un rapporto di lavoro costituito originariamente a tempo parziale in un rapporto a tempo pieno (36 ore settimanali) deve considerarsi una nuova assunzione.
Invero, per il personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire solo nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
Invece, nell’eventualità in cui il dipendente sia stato originariamente assunto a tempo pieno e abbia successivamente beneficiato di una riduzione dell’orario di lavoro, la trasformazione del rapporti di lavoro in full-time non è assimilabile ad una nuova assunzione, avendo il lavoratore diritto alla riespansione dell’orario di lavoro secondo quanto previsto dal CCNL e dalla sussistenza del posto in organico.
Per completezza, si ribadisce la possibilità per l’ente locale, fermo restando i vigenti vincoli di contenimento della spesa, di rimodulare in aumento l’orario di lavoro di dipendente assunto in part-time (senza tuttavia trasformare il rapporto in full-time); tale aumento non incontra il limite posto dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria per il 2008 (n. 244/2007).

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Il sindaco del comune di Cairate (VA), mediante nota n. 5449 del 15.05.2015, espone quanto segue.
Nell’ufficio di segreteria del comune di Cairate (7.834 residenti) sono in servizio 2 dipendenti a tempo indeterminato di fascia “C” di cui uno a part-time a 34 ore ed una a tempo pieno; quest’ultima unità sarà assente per congedo obbligatorio dovuto a maternità.
Ciò premesso, e precisato che la disponibilità della spesa del personale è ritenuta sufficiente a rispettare i vigenti limiti di legge, il sindaco chiede “un parere in merito alla possibilità di trasformare il part-time di 34 ore in tempo pieno per il tempo di assenza della dipendente, ovvero se tale temporanea trasformazione debba considerarsi nuova assunzione".
Quanto suddetto al fine di consentire l’adozione di una nuova assunzione a tempo determinato di un minor numero di ore favorendone, con le ulteriori due ore al dipendente a tempo indeterminato, un’idonea formazione.
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In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione se procedere o meno alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno, nonché all’assunzione a tempo determinato prospettata nel quesito attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, pertanto, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente, che potrà orientare la propria decisione in base alle conclusioni contenute nel parere della Sezione.
Spetta all’ente, in particolare, valutare l’effettivo rispetto dei limiti e dei vincoli stabiliti in tema di contenimento della spesa di personale per gli enti sottoposti al patto di stabilità interno dagli articoli 1, comma 557, legge n. 296/2006 e s.m.i. e 76, comma 7, d.l. 25.06.2008, n. 112 convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133, e s.m.i.
Nel quesito posto dal sindaco del comune di Cairate non è specificato se il dipendente attualmente in servizio a 34 ore settimanali sia stato originariamente assunto a tempo pieno (36 ore) o con contratto part-time; tale circostanza, di fatto, si dimostra dirimente, in quanto le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si sono più volte espresse sulla questione, evidenziando che
la trasformazione di un rapporto di lavoro costituito originariamente a tempo parziale in un rapporto a tempo pieno (36 ore settimanali) debba considerarsi una nuova assunzione, che, come tale, soggiace ai limiti previsti dalla legge per i vincoli assunzionali.
Infatti, l’art. 3, comma 101, della Legge n. 244/2007 stabilisce che
per il personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire solo nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni (Cfr. ad es. Sez. Controllo Emilia Romagna 8/2012/PAR; Sez. Controllo Lombardia 51/2012/PAR).
Invece, nell’eventualità in cui il dipendente sia stato originariamente assunto a tempo pieno e abbia successivamente beneficiato di una riduzione dell’orario di lavoro, la trasformazione del rapporti di lavoro in full-time non è assimilabile ad una nuova assunzione, avendo il lavoratore diritto alla riespansione dell’orario di lavoro secondo quanto previsto dal CCNL e dalla sussistenza del posto in organico. Infatti l’art. 4, comma 14, del CCNL Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000, dispone che “i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale hanno diritto di tornare a tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, anche in soprannumero oppure, prima della scadenza del biennio, a condizione che vi sia la disponibilità del posto in organico”.
La previsione della contrattazione collettiva sopra riportata trova riscontro nell’art. 6, comma 4, del decreto legge 2803.1997, n. 79, convertito dalla legge 28.05.1997, n. 140, a tenore del quale: ”i dipendenti che trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale hanno diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze” (Cfr. Sez. Controllo Lombardia 51/2012/PAR; Sez. Controllo Lombardia 873/2010/PAR; Sez. Controllo Lombardia 251/2014/PAR).
Per completezza, si ribadisce
la possibilità per l’ente locale, fermo restando i vigenti vincoli di contenimento della spesa, di rimodulare in aumento l’orario di lavoro di dipendente assunto in part-time (senza tuttavia trasformare il rapporto in full-time); tale aumento non incontra il limite posto dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria per il 2008, n. 244/2007 (Sez. Controllo Lombardia
parere 30.10.2012 n. 462; Sez. Controllo Campania 20/2014/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.09.2015 n. 298).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'intenzione di istituire l’Ufficio di staff del Sindaco ex art. 90 tuel, finalizzato a supportare il medesimo nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo nel rispetto delle previsioni contenute nell’art. 90 del D.Lgs. 267/2000 e del vigente regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
La giurisprudenza contabile ha già analizzato l’istituto di cui all’art. 90 TUEL e si può affrontare la problematica posta dal Comune istante in merito al rapporto intercorrente fra l’assunzione a tempo indeterminato di cui all’art. 90 TUEL e l’art. 1, comma 424, della legge di stabilità per il 2015.
Sul piano letterale, il comma 424 si riferisce alle sole “assunzioni a tempo indeterminato”, non alle “assunzioni” genericamente intese. Sul piano sistematico, il legislatore ha, al comma 420, disciplinato diversamente, ed in modo più stringente, le facoltà assunzionali delle sole province, impedendo a queste ultime anche le assunzioni a tempo determinato (oltre che gli incarichi ex art. 90 e 110 TUEL, oggetto di analisi nel punto successivo).
Precludere le assunzioni in esame anche agli altri enti locali non pare coerente con il sistema complessivamente delineato dal legislatore, che ha dettato, all’interno del medesimo testo legislativo, una disciplina differente per le province (comma 420, più stringente) rispetto a quella degli altri enti locali (commi 424 e 425, meno stringente).
Del resto, la facoltà di assumere a tempo determinato è disciplinata da altre norme di legge (l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 sul piano sostanziale e l’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, sul piano finanziario), tuttora vigenti, anche se i limiti dell’art. 9, comma 28, sono stati oggetto di recente espansione ad opera del d.l. n. 90/2014.
Sul punto corre, peraltro, l’obbligo di richiamare le prescrizioni contenute nell’art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006 e nell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, che devono essere rispettate, nei termini ivi disciplinati, dall’ente allorquando assume a tempo determinato.
Al riguardo si richiama, fra l’altro, la Sezione delle Autonomie, la quale ha affermato che “Le limitazioni dettate dai primi sei periodi dell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, in materia di assunzioni per il lavoro flessibile, alla luce dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. 90/2014 non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione della spesa di personale di cui ai commi 557 e 562 dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma restando la vigenza del limite massimo della spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009, ai sensi del successivo ottavo periodo dello stesso comma 28”.

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Il Sindaco della Città di Muggiò (MI) ha formulato una richiesta di parere in merito alle possibilità applicative dell’art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000 in combinato disposto con l’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014 (cd. Legge Stabilità 2015).
A tale fine si premette che è intenzione dell’Amministrazione, in sede di riorganizzazione della propria struttura, istituire l’Ufficio di staff del Sindaco ex art. 90 tuel, finalizzato a supportare il medesimo nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo nel rispetto delle previsioni contenute nell’art. 90 del D.Lgs. 267/2000 e del vigente regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
L’art. 5 prevede che “1. Il Sindaco, indipendentemente da quanto previsto dalla dotazione organica, può dotarsi di un ufficio posto alle sue dirette dipendenze per coadiuvarlo nell'esercizio delle proprie attività, con particolare riguardo a quelle riferite alle relazioni esterne.
2. All'Ufficio è preposto un dipendente con incarico coincidente con l'effettiva durata del mandato del Sindaco che lo ha nominato.
3. Tale incarico può essere assegnato ad un dipendente dell'Ente ovvero ad altro soggetto assunto a tempo determinato con contratto di diritto privato, la cui durata deve prevedere l'automatica risoluzione del rapporto in caso di anticipata cessazione dalla carica di Sindaco.
4. Nel caso di dipendente dell’Amministrazione, lo stesso deve essere posto fuori organico con garanzia di reinserimento in organico a tutti gli effetti, a scadenza del contratto e o alla cessazione della carica di Sindaco
”.
La Città di Muggiò intende reclutare -nel rispetto degli obblighi posti dalla normativa, quali il patto di stabilità interno, la riduzione della spesa del personale, gli obblighi in materia di certificazioni dei crediti, i tempi medi di pagamento, e nell’ambito della programmazione del fabbisogno triennale di personale- una unità di personale a tempo determinato, in part-time per 18 ore, con contratto di lavoro da destinare all’Ufficio di Staff. Tale risorsa, alla quale verrà applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali, con inquadramento di cat. D1, sarà assunta a tempo determinato fino alla scadenza del mandato Sindacale.
Alla luce di quanto sopra si chiede un parere “in merito alla fattibilità di reclutamento del sopracitato personale alla luce dell’entrata in vigore della nuova normativa introdotta dal legislatore nell’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014, dando atto che la disciplina contenuta nell’art. 90 TUEL parrebbe a giudizio di questo Ente, peculiare trattandosi di attività lavorativa intrinsecamente collegata all’esercizio della funzione di direzione politica del Sindaco, a tempo determinato e senza compiti gestionali.
...
Occorre preliminarmente precisare che la decisione da parte dell’Amministrazione sulle modalità interpretative delle norme di contabilità è frutto di valutazioni proprie dell’Ente medesimo, rientranti nelle prerogative dei competenti organi decisionali, pur nel rispetto delle previsioni legali e nell’osservanza delle regole di sana gestione finanziaria e contabile.
Ciò nondimeno il Comune richiedente potrà tenere conto, nelle determinazioni di propria competenza, dei principi generali enunciati in sede interpretativa nel presente parere.
La richiesta di parere verte sulle possibilità applicative dell’art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000 in combinato disposto con l’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014 (cd. Legge Stabilità 2015).
A tale fine si premette che è intenzione dell’Amministrazione, in sede di riorganizzazione della propria struttura, istituire l’Ufficio di staff del Sindaco ex art. 90 tuel, finalizzato a supportare il medesimo nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo nel rispetto delle previsioni contenute nell’art. 90 del D.Lgs. 267/2000 e del vigente regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
L’art. 5 prevede che “1. Il Sindaco, indipendentemente da quanto previsto dalla dotazione organica, può dotarsi di un ufficio posto alle sue dirette dipendenze per coadiuvarlo nell'esercizio delle proprie attività, con particolare riguardo a quelle riferite alle relazioni esterne.
2. All'Ufficio è preposto un dipendente con incarico coincidente con l'effettiva durata del mandato del Sindaco che lo ha nominato.
3. Tale incarico può essere assegnato ad un dipendente dell'Ente ovvero ad altro soggetto assunto a tempo determinato con contratto di diritto privato, la cui durata deve prevedere l'automatica risoluzione del rapporto in caso di anticipata cessazione dalla carica di Sindaco.
4. Nel caso di dipendente dell’Amministrazione, lo stesso deve essere posto fuori organico con garanzia di reinserimento in organico a tutti gli effetti, a scadenza del contratto e o alla cessazione della carica di Sindaco
”.
La Città di Muggiò intende reclutare -nel rispetto degli obblighi posti dalla normativa, quali il patto di stabilità interno, la riduzione della spesa del personale, gli obblighi in materia di certificazioni dei crediti, i tempi medi di pagamento, e nell’ambito della programmazione del fabbisogno triennale di personale- una unità di personale a tempo determinato, in part-time per 18 ore, con contratto di lavoro da destinare all’Ufficio di Staff. Tale risorsa, alla quale verrà applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali, con inquadramento di cat. D1, sarà assunta a tempo determinato fino alla scadenza del mandato Sindacale.
Alla luce di quanto sopra
si chiede un parere “in merito alla fattibilità di reclutamento del sopracitato personale alla luce dell’entrata in vigore della nuova normativa introdotta dal legislatore nell’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014, dando atto che la disciplina contenuta nell’art. 90 TUEL parrebbe a giudizio di questo Ente, peculiare trattandosi di attività lavorativa intrinsecamente collegata all’esercizio della funzione di direzione politica del Sindaco, a tempo determinato e senza compiti gestionali”.
L’art. 90 TUEL (che riproduce sostanzialmente il precetto del secondo periodo dell’art. 51, comma 7, della Legge n. 142/1990, nel testo modificato dalle leggi n. 127/1997 e n. 191/1998) reca la disciplina degli uffici di supporto agli organi di direzione politica dell’ente locale (uffici c.d. di staff) demandando, sul piano delle fonti, al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi la possibilità di costituire tali uffici.
Sul piano organizzativo è previsto che tali uffici siano posti alle dirette dipendenze del sindaco (o del presidente della provincia), della giunta o degli assessori e svolgano esclusivamente le funzioni di indirizzo e di controllo attribuite dalla legge agli organi che se ne avvalgono e, sul piano della consistenza organica, che tali uffici siano costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni. Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce che a tali contratti di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
Inoltre, con provvedimento motivato della Giunta, per il personale in discorso il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale (comma 3).
La Sezione osserva come la giurisprudenza contabile abbia già avuto modo di analizzare l’istituto di cui all’art. 90 TUEL con le deliberazioni Piemonte/312/2013/SRCPIE/PAR e Campania/155/2014/PAR, che si richiamano.
In particolare sono stati affermati i seguenti principi:
- la necessità che tali uffici non svolgano funzioni gestionali.
Il personale in staff, infatti, ai sensi dell’art. 90 TUEL, può svolgere esclusivamente funzioni di supporto all’attività di indirizzo e di controllo, alle dirette dipendenze dell’organo politico, al fine di evitare qualunque sovrapposizione con le funzioni gestionali ed istituzionali. Il principio sopra esposto è stato chiaramente sintetizzato dalla Sezione Prima Giurisdizionale Centrale della Corte dei conti nella Sentenza n. 785/2012/A, laddove ha affermato che “l'incarico ex articolo 90 non può negli effetti andare a sovrapporsi a competenze gestionali ed istituzionali dell'ente. Se così il legislatore avesse voluto, si sarebbe espresso in maniera completamente diversa e non avrebbe affatto fatto riferimento alle funzioni di indirizzo e controllo dell'autorità politica”.
Ancora di recente, la giurisprudenza (Sez. Giur. Puglia, sent. n. 208/2013) ha ribadito che la previsione dell’art. 90 del TUEL «costituisce un portato del principio di separazione tra politica e amministrazione, rispondendo alla finalità di assicurare agli organi titolari della specifica funzione di “direzione politica” di potersi avvalere di uffici posti alle proprie dirette dipendenze sotto il profilo funzionale e, per tale via, di poter disporre, al fine di supportare il concreto “esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo” di loro esclusiva spettanza, di personale diretto in prima persona, senza il tramite dell’apparato gerarchico amministrativo, che ad essi direttamente risponda nell’ambito di un rapporto instaurato in base all’intuitu personae».
- il carattere fiduciario della selezione del personale. Si rammenta, in ogni caso, che
la specializzazione va valutata in relazione alle funzioni da svolgere, tenendo conto della declaratoria delle funzioni previste da ogni qualifica funzionale nel CCNL e dai titoli previsti dallo stesso contratto per l’accesso dall’esterno (cfr. Sez. Giur. Toscana, sent. n. 622/2004: «Il comando normativo dell’art. 90 non permette, peraltro, […], di prescindere dalla valutazione della specificazione della categoria e del profilo professionale che, visti anche gli insegnamenti della Corte costituzionale, 28.07.1999 n. 364, la quale ha rimarcato la necessaria comparazione nello scrutinio dei soggetti aspiranti ad essere incardinati nella Pubblica Amministrazione, costituiscono fondamentali elementi di valutazione al fine dell’inserimento di un soggetto nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione. La presenza dell’elemento fiduciario, che pur deve sussistere nell’ambito di un rapporto di staff, pertanto, non prescinde da una oggettiva valutazione del curriculum vitae del soggetto preso in considerazione, anche al fine di collocare nell’ambito della “macchina amministrativa” collaboratori in osservanza del fondamentale principio di trasparenza che deve connotare l’attività dell’Amministrazione»);
- il carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro subordinato.
È da escludere la possibilità di corrispondere al personale dell’ufficio di staff il mero rimborso delle spese sostenute e debitamente documentate nell’esercizio dell’attività lavorativa, con esclusione di qualsiasi compenso o retribuzione per l’attività svolta, essendo testualmente previsto dall’art. 90, comma 2, TUEL che “al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali”.
Peraltro, come è stato esplicitato nel parere della Sez. Contr. Calabria n. 395/2010, la citata norma di legge statale non è suscettibile di essere derogata dal regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e servizi, trattandosi di norma imperativa posta a tutela del lavoratore, al quale viene garantito un trattamento economico equivalente a quello disciplinato dalla contrattazione collettiva nazionale del personale degli enti locali, alla quale si fa espresso rinvio.
In tale contesto con le deliberazioni sopra richiamate
è stato confermato il carattere dotazionale delle assunzioni effettuate ai sensi dell’art. 90 TUEL (a differenza di quelle ex art. 110 TUEL, di carattere extradotazionale), già illustrato dalla Sezione Giur. Toscana con la sentenza n. 622/2004.
Considerato quanto sopra, si può affrontare la problematica posta dal Comune istante in merito al rapporto intercorrente fra l’assunzione a tempo indeterminato di cui all’art. 90 TUEL e l’art. 1, comma 424, della legge di stabilità per il 2015.
Ai sensi dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014 “Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. È fatta salva la possibilità di indire, nel rispetto delle limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti, le procedure concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di personale in possesso di titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale amministrativo, in caso di esaurimento delle graduatorie vigenti e di dimostrata assenza, tra le unità soprannumerarie di cui al precedente periodo, di figure professionali in grado di assolvere alle predette funzioni. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono nulle”.
Sul piano letterale, il comma 424 si riferisce alle sole “assunzioni a tempo indeterminato”, non alle “assunzioni” genericamente intese. Sul piano sistematico, il legislatore ha, al comma 420, disciplinato diversamente, ed in modo più stringente, le facoltà assunzionali delle sole province, impedendo a queste ultime anche le assunzioni a tempo determinato (oltre che gli incarichi ex art. 90 e 110 TUEL, oggetto di analisi nel punto successivo).
Segnatamente è fatto divieto alle province delle regioni a statuto ordinario: ”a) di ricorrere a mutui per spese non rientranti nelle funzioni concernenti la gestione dell'edilizia scolastica, la costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente, nonché la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza;
b) di effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza;
c) di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, anche nell'ambito di procedure di mobilità;
d) di acquisire personale attraverso l'istituto del comando. I comandi in essere cessano alla naturale scadenza ed è fatto divieto di proroga degli stessi;
e) di attivare rapporti di lavoro ai sensi degli articoli 90 e 110 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, e successive modificazioni. I rapporti in essere ai sensi del predetto articolo 110 cessano alla naturale scadenza ed è fatto divieto di proroga degli stessi;
f) di instaurare rapporti di lavoro flessibile di cui all'articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, e successive modificazioni;
g) di attribuire incarichi di studio e consulenza
”.
Precludere le assunzioni in esame anche agli altri enti locali non pare coerente con il sistema complessivamente delineato dal legislatore, che ha dettato, all’interno del medesimo testo legislativo, una disciplina differente per le province (comma 420, più stringente) rispetto a quella degli altri enti locali (commi 424 e 425, meno stringente).
Del resto, la facoltà di assumere a tempo determinato è disciplinata da altre norme di legge (l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 sul piano sostanziale e l’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, sul piano finanziario), tuttora vigenti, anche se i limiti dell’art. 9, comma 28, sono stati oggetto di recente espansione ad opera del d.l. n. 90/2014.
Sul punto corre, peraltro, l’obbligo di richiamare le prescrizioni contenute nell’art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006 e nell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, che devono essere rispettate, nei termini ivi disciplinati, dall’ente allorquando assume a tempo determinato.
Al riguardo si richiama, fra l’altro, la deliberazione n. 2/SEZAUT/2015/QMIG della Sezione delle Autonomie, nella quale si afferma che “
Le limitazioni dettate dai primi sei periodi dell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, in materia di assunzioni per il lavoro flessibile, alla luce dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. 90/2014 (che ha introdotto il settimo periodo del citato comma 28), non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione della spesa di personale di cui ai commi 557 e 562 dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma restando la vigenza del limite massimo della spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009, ai sensi del successivo ottavo periodo dello stesso comma 28” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.09.2015 n. 292).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta.
A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria.

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Il Sindaco del Comune di Pieve Emanuele (MI), con nota del giorno 16.03.2015, dopo aver premesso che:
- l’ente ha indetto nel corso dell’anno 2014 un concorso pubblico per l’assunzione di n. 1 Istruttore Direttivo Esperto Cat. D3 nell'Area Programmazione Economica;
- la prima classificata ha rinunciato all’assunzione in data 23/07/2014, pertanto si è proceduto con l'assunzione in prova del 2° classificato, il quale ha rassegnato le proprie dimissioni con decorrenza dal 17/01/2015, finito il periodo di prova;
- contestualmente entra in vigore la legge n. 190/2014 (cosiddetta “Legge di Stabilità’’) secondo cui “per gli anni 2015 e 2016 gli enti locali destinano le proprie risorse per assunzioni a tempo indeterminato nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità";
- l’ente ha approvato la propria graduatoria di merito in data 30/06/2014 e la procedura di assunzione dalla suddetta graduatoria ha avuto esito infruttuoso,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”possa dare corso nell'anno 2015 allo scorrimento della suddetta graduatoria per l’assunzione di un vincitore, come previsto dal piano delle assunzioni dell’ente, o se debba attendere il 2017 per poterlo fare;
b) se “possa legittimamente assumere mediante mobilità da enti del comparto provvedendo all'indizione di procedura di mobilità.
Al quesito sub a) questa Sezione ha già fornito risposta con il parere 22.04.2015 n. 168, residua il quesito sub b), il cui esame era stato sospeso in attesa del pronunciamento su analoga questione della Sezione delle Autonomie di questa Corte, avvenuta con la deliberazione 16.06.2015 n. 19.
...
1. Come premesso, degli originali quesiti posti dal Comune istante residua soltanto il secondo, ovvero se “possa legittimamente assumere mediante mobilità da enti del comparto provvedendo all'indizione di procedura di mobilità”.
Su analogo quesito si è pronunciata la Sezione delle Autonomie di questa Corte, che, nella deliberazione 16.06.2015 n. 19, ha così statuito: “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve, dunque, a monte il quesito interpretativo posto dal Comune istante, in quanto
esclude la possibilità che si possa procedere all’esperimento di procedure di mobilità non riservate ai dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.09.2015 n. 289).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Alla luce del disposto del comma 424 dell’art. 1 della legge 23.12.2014, n. 190, un Ente, nel biennio 2015-2016, non può procedere allo scorrimento di una propria graduatoria di concorso per l’assunzione di un idoneo, nel caso in cui il vincitore chiamato si sia dimesso successivamente all’entrata in vigore della predetta disposizione.
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Il Sindaco del Comune di Pieve Emanuele (MI), con nota del giorno 16.03.2015, dopo aver premesso che:
- l’ente ha indetto nel corso dell’anno 2014 un concorso pubblico per l’assunzione di n. 1 Istruttore Direttivo Esperto Cat. D3 nell'Area Programmazione Economica;
- la prima classificata ha rinunciato all’assunzione in data 23/07/2014, pertanto si è proceduto con l'assunzione in prova del 2° classificato, il quale ha rassegnato le proprie dimissioni con decorrenza dal 17/01/2015, finito il periodo di prova;
- contestualmente entra in vigore la legge n. 190/2014 (cosiddetta “Legge di Stabilità’’) secondo cui “per gli anni 2015 e 2016 gli enti locali destinano le proprie risorse per assunzioni a tempo indeterminato nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità";
- l’ente ha approvato la propria graduatoria di merito in data 30/06/2014 e la procedura di assunzione dalla suddetta graduatoria ha avuto esito infruttuoso,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”possa dare corso nell'anno 2015 allo scorrimento della suddetta graduatoria per l’assunzione di un vincitore, come previsto dal piano delle assunzioni dell’ente, o se debba attendere il 2017 per poterlo fare;
b) se “possa legittimamente assumere mediante mobilità da enti del comparto provvedendo all'indizione di procedura di mobilità.
...
1. Deve preliminarmente evidenziarsi come l’analisi delle questioni proposte dall’Ente rimane circoscritta ai profili generali ed astratti relativi all’interpretazione delle disposizioni che vengono in rilievo, essendo preclusa qualunque interferenza sulle scelte gestionali riservate alla discrezionalità dell’Ente.
Deve, altresì, evidenziarsi, in riferimento al secondo quesito formulato dall’Ente (riportato sopra sub b), che questa Sezione, con il parere 24.02.2015 n. 85 abbia ritenuto di sottoporre al Presidente della Corte l’opportunità -relativamente ad alcuni quesiti sollevati dal Comune di Botticino proprio sul disposto e la portata applicativa dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 23/12/2014- di valutare la possibilità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale in presenza, in particolare, di questioni di massima di particolare rilevanza, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano.
Il quesito posto dall’odierno Comune istante in relazione alla ora richiamata novella legislativa appare involgere profili analoghi a quelli posti nella richiesta di parere del Comune di Botticino, attualmente al vaglio della Sezione Autonomie di questa Corte.
2. Alla luce delle premesse ora richiamate può, dunque, procedersi ad esaminare nel merito il solo primo quesito posto dall’Ente, con il quale si domanda se, alla luce del disposto dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 23/12/2014, si possa dare corso nell'anno 2015 allo scorrimento di una graduatoria, approvata nel 2014, per l’assunzione di un’unità di personale, a seguito di dimissioni del vincitore avvenute nella seconda metà del mese di gennaio 2015.
3. Com’è noto, la menzionata disposizione, volta a favorire la ricollocazione del personale soprannumerario degli Enti di area vasta, ha introdotto una disciplina speciale delle assunzioni, valevole per i soli anni 2015 e 2016 (su cui cfr. parere 24.02.2015 n. 85 di questa Sezione): in riferimento ai predetti anni, infatti, gli enti locali devono destinare le proprie risorse per assunzioni a tempo indeterminato nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Tale previsione normativa è entrata in vigore il giorno 01.01.2015.
4. Costituisce, altresì, principio generale, in materia di disciplina dei concorsi pubblici, che siano dichiarati vincitori, nei limiti dei posti complessivamente messi a concorso, i candidati utilmente collocati nelle graduatorie di merito (cfr. art. 15 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487). Ne deriva, in relazione alla fattispecie enucleabile dal caso prospettato dal Comune istante, che al momento dell’entrata in vigore del disposto dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 23/12/2014, nella graduatoria concorsuale risultavano presenti dei soggetti “idonei”, ma non vincitori, alla luce dei posti complessivamente messi a concorso.
Il recentissimo intervento normativo ha, però, previsto che per gli anni 2015 e 2016 le risorse assunzionali disponibili debbano essere, come visto, destinate alle due sole finalità sopra richiamate, con la conseguenza che, nei due anni considerati, non appare possibile procedere all’assunzione di eventuali soggetti idonei, ma non vincitori, utilmente collocati in graduatoria, avendo il Legislatore ritenuto di privilegiare –oltre ai vincitori di concorso pubblico collocati in graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della norma in esame– la ricollocazione delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Ne deriva, dunque, che il discrimen che assume rilievo nella fattispecie in esame è dato dal fatto che
soltanto la qualificazione come vincitore in una graduatoria vigente o approvata alla data del 01.01.2015 consente all’Ente di procedere all’assunzione in via prioritaria della relativa unità di personale. Risulta, invece, inibita la possibilità di procedere, nel biennio considerato, allo scorrimento delle eventuali graduatorie di merito, al fine di consentire la ricollocazione del personale sopra richiamato.
Milita, del resto, in questo senso la stessa Circolare n. 1/2015, recante “linee guida del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie in materia di attuazione delle disposizioni in materia di personale e di altri profili connessi al riordino delle funzioni delle province e delle città metropolitane. Articolo 1, commi da 418 a 430, della legge 23.12.2014, n. 190”.
In essa, in piena aderenza al dato normativo e in riferimento –in particolare- al successivo comma 425, si limita “l'eventuale assunzione anche di idonei, nel rispetto delle procedure di autorizzazione previsti dalla normativa vigente” e nei limiti del turn-over consentito secondo il regime ordinario, al solo “personale infungibile (es.: magistratura, carriera prefettizia e diplomatica, docenza universitaria; personale educativo e docente degli enti locali)”.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia:
- sospende la pronuncia in relazione al secondo quesito posto dal Comune di Pieve Emanuele;
- in merito al primo quesito,
l'avviso della Sezione è nel senso che, alla luce del disposto del comma 424 dell’art. 1 della legge 23.12.2014, n. 190, un Ente, nel biennio 2015-2016, non possa procedere allo scorrimento di una propria graduatoria di concorso per l’assunzione di un idoneo, nel caso in cui il vincitore chiamato si sia dimesso successivamente all’entrata in vigore della predetta disposizione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 22.04.2015 n. 168).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco può delegare. Atti a rilevanza esterna preclusi ai consiglieri. Non possono essere trasferiti compiti di amministrazione attiva.
Quali sono i limiti delle deleghe conferite dal sindaco ai consiglieri comunali?

Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Secondo un criterio generale, il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando «alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco e dei singoli assessori» (art. 42, comma 3, del Tuel) ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge, quali quelli previsti dall'art. 54, comma 7, per le funzioni svolte dal sindaco nella sua attività di ufficiale di governo, e dall'art. 31 del citato Testo unico, che consente al sindaco di trasferire proprie attribuzioni ad altro organo in caso di partecipazione alle assemblee consortili, composte «dai rappresentanti degli enti associati nella persona del sindaco o di un suo delegato».
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrà prevedere disposizioni compatibili con tali principi, recati dalla legge dello stato, in quanto lo stesso statuto può integrare le norme di legge che stabiliscono il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, ma non può derogarle.
Nel caso di specie, lo statuto dell'ente locale prevede che «il sindaco può delegare le sue funzioni o parte di esse ai singoli assessori o consiglieri».
In proposito, il Tar Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato».
Inoltre il Consiglio di stato, con parere n. 4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse».
Per completezza va considerato, che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno e pertanto gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati potranno essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione delle commissioni consiliari permanenti.
Le commissioni consiliari, ai sensi dell'art. 38 TUEL, devono rispecchiare in modo proporzionale la composizione del consiglio.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo -anche se formato da un solo consigliere- presente in consiglio. Un diverso indirizzo, ad oggi minoritario, interpreta in maniera meno rigida il concetto di proporzionalità e ritiene che il criterio proporzionale risulterebbe soddisfatto rispettando le proporzioni dei due schieramenti di maggioranza e minoranza complessivamente considerate.

Il consigliere comunale chiede di conoscere un parere in merito alla composizione delle commissioni consiliari permanenti e, in particolare, alla necessità o meno che in ciascuna di esse sia rappresentato ogni gruppo consiliare.
In particolare, nel riferire di essere l'unico componente del proprio gruppo consiliare e di essere stato designato a far parte di una sola delle tre commissioni consiliari presenti, desidera sapere se il Comune abbia l'obbligo di prevedere la sua partecipazione anche nelle altre due commissioni esistenti.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce che 'quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni consiliari costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori'.
Per quanto concerne, in particolare, la composizione, la legge si limita a disporre che tali commissioni devono essere formate da soli consiglieri e devono rispecchiare in modo proporzionale quella del consiglio. Pertanto, le stesse, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
La ratio della norma in esame, attesa la natura giuridica di tali commissioni, che sono delle articolazioni interne del consiglio, consiste nella necessaria rappresentazione al loro interno dei rapporti di forza tra maggioranza e opposizione presenti in consiglio comunale.
Come rilevato, anche di recente, dal Ministero dell'Interno,
[1] 'ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto'.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto.
Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia
[2] stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo -anche se formato da un solo consigliere- presente in consiglio. [3]
Il predetto principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di Stato il quale con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010 emesso su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ha osservato che 'come da consolidata giurisprudenza dalla quale la Sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna Commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche TAR Lombardia Sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della Commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel Consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al Consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata'.
[4]
Per completezza espositiva, merita segnalare un diverso indirizzo, ad oggi minoritario, che interpreta in maniera meno rigida il concetto di proporzionalità. Secondo tale indirizzo il criterio proporzionale risulterebbe soddisfatto rispettando le proporzioni dei due schieramenti di maggioranza e minoranza complessivamente considerate. In tale senso certa giurisprudenza
[5] ha affermato che: 'Non risulta difatti contrario al principio di cui all'art. 38, c. 6, TUEL prevedere che il criterio proporzionale venga applicato mediante la rispondenza, nei rapporti (numerici) fra membri di maggioranza e di minoranza, della proporzione dei gruppi'.
Aderendo a tale filone interpretativo, ed al fine di contemperare, da un lato l'esigenza di funzionalità, speditezza e semplificazione dell'azione amministrativa,
[6] dall'altro la rappresentatività delle minoranze, la scelta circa il numero dei componenti le commissioni consiliari potrebbe essere operata in funzione dei compiti e delle attività attribuiti alle singole commissioni, avendo cura di garantire la presenza di tutti i gruppi consiliari nelle commissioni cui siano attribuiti maggiori poteri.
Da ultimo, ed a fronte dell'esistenza di due orientamenti difformi esistenti sulla questione posta, si fa presente che spetta al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale operare la scelta relativa alla composizione delle commissioni consiliari ed alla nozione da dare al principio statutario di 'rispetto del principio di proporzionalità fra maggioranza e minoranze'.
[7]
Atteso che l'articolo 7 dell'indicato regolamento, al comma 2, recita: 'Ciascun consigliere ha diritto di far parte di almeno una commissione ma non può di norma far parte di più di due commissioni salvo che ciò sia indispensabile per rispettare quanto previsto dal comma seguente', ed il comma 3 recita: 'La composizione numerica delle commissioni deve rispettare il rapporto proporzionale esistente in seno al Consiglio comunale tra la coalizione di maggioranza e di opposizione', parrebbe seguire l'adesione all'orientamento giurisprudenziale minoritario sopra citato.
Conseguentemente, e per rispondere al quesito posto, alla luce della disposizione regolamentare sopra riportata non si ritiene possibile affermare con certezza la necessità che il consigliere comunale faccia parte anche delle altre due commissioni esistenti. Spetterà unicamente ad un giudice, eventualmente investito della questione, esprimersi sulla stessa prendendo posizione circa l'obbligatoria presenza o meno di ciascun gruppo consiliare esistente in tutte le commissioni permanenti.
---------------
[1] Ministero dell'Interno, parere dell'08.07.2015.
[2] TAR Lombardia Brescia, sentenza del 04.07.1992, n. 796; TAR Lombardia, Milano, sentenza del 03.05.1996, n. 567.
[3] In tal senso si veda, anche, il parere dell'ANCI del 04.09.2014.
[4] Si osserva che le considerazioni sopra espresse sono state mutuate dal parere del Ministero dell'Interno, dell'08.07.2015. Peraltro, il Ministero, anche in precedenza, si era espresso in senso analogo: si vedano, al riguardo, i pareri del 21.10.2013 e del 18.10.2012.
[5] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.03.2013, n. 516.
[6] L'orientamento che ritiene necessaria la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo consiliare presente in consiglio, determinerebbe, infatti, l'inevitabile aumento del numero dei componenti delle commissioni consiliari.
[7] Si veda articolo 17 dello statuto comunale
(22.09.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Obbligo di astensione dall'esercizio di attività professionale, ai sensi dell'art. 78, comma 3, TUEL. Divieto di assunzione di incarichi ai sensi dell'art. 78, comma 5, TUEL.
1) Il sindaco libero professionista (geometra) che abbia conferito agli assessori comunali le deleghe nelle materie dell'urbanistica, dell'edilizia e dei lavori pubblici non è tenuto all'osservanza dell'obbligo di astensione dall'esercizio dell'attività professionale nel territorio amministrato, previsto dall'art. 78, comma 3, TUEL.
2) Nel caso in cui il sindaco gestisca degli incarichi professionali conferitigli da parte di due Comuni che hanno stipulato una convenzione con il Comune (che risulta capofila) presso cui egli svolge il mandato, pare non venire in rilievo la fattispecie di cui all'art. 78, comma 5, TUEL, secondo cui il sindaco non può ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del comune, atteso che tale situazione non sembra riconducibile alla fattispecie disciplinata dal legislatore che fa espresso riferimento ad 'enti' ed 'istituzioni'.

Il Comune chiede un parere in merito a due distinte problematiche, relative alla possibilità per il sindaco:
a) di svolgere attività di libero professionista (geometra) nel territorio del Comune;
b) di mantenere incarichi professionali che gli sono stati conferiti, prima dell'assunzione della carica, da parte di due Comuni che hanno stipulato una convenzione con l'Ente (che risulta capofila) presso cui egli svolge il mandato. Detta convenzione prevede la gestione in comune di alcuni servizi, tra i quali i lavori pubblici, l'edilizia privata, l'urbanistica e le manutenzioni.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
  
a) Ai sensi dell'articolo 78, comma 3, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), «I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall'esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato».
La ratio della disposizione in argomento si prefigge «la garanzia dell'imparzialità dell'azione amministrativa in un quadro comunque di attenzione alle concrete condizioni di operatività degli enti locali, soprattutto di quelli minori, e si rivolge a coloro che svolgono in proprio un'attività libero-professionale nello stesso delicato settore nel quale come pubblici amministratori sono chiamati a tutelare interessi della collettività locale».
[1]
La norma non introduce alcuna causa di incompatibilità, bensì impone un dovere di astensione per i componenti della giunta che svolgano attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio amministrato ed ai quali sia stata formalmente conferita la delega in materia di edilizia, urbanistica e lavori pubblici
[2].
In particolare, per quanto concerne il sindaco, è stato chiarito anche dal Ministero dell'Interno
[3] che lo stesso non è tenuto all'osservanza dell'obbligo di astensione in argomento, qualora abbia conferito agli assessori comunali le deleghe nelle materie indicate dalla norma. Resta comunque fermo il generale obbligo, previsto dal comma 2 del medesimo articolo 78, di astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere eventualmente riguardanti interessi propri, da valutare in relazione alle singole fattispecie concrete.
  
b) Ai sensi dell'art. 78, comma 5, TUEL, il sindaco, gli assessori ed i consiglieri comunali non possono ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del comune.
Come chiarito dalla giurisprudenza
[4], la norma non incide sulla titolarità dell'ufficio pubblico, ma ha inteso soltanto disporre che la titolarità della carica preclude l'assunzione o l'espletamento [5] dell'incarico.
Il divieto di ricoprire incarichi presso enti controllati dal comune ha lo 'scopo di evitare che il controllo dell'ente locale sull'operato dell'ente controllato sia svolto dai medesimi destinatari delle commesse dell'ente controllato.'
[6].
Riguardo al caso in esame, si osserva che la situazione della gestione associata di un servizio sulla base di una convenzione stipulata tra più comuni, con costituzione di un ufficio comune presso l'Ente capofila, non sembra riconducibile alla fattispecie disciplinata dal legislatore nell'art. 78, comma 5, TUEL., che fa espresso riferimento ad 'enti' ed 'istituzioni'.
Peraltro, in considerazione del compito, attribuito alla conferenza dei sindaci, di sovrintendere al corretto funzionamento della gestione associata, eventuali situazioni di conflitto di interesse andranno risolte alla luce del generale obbligo di astensione previsto dal citato comma 2 dell'articolo 78, ovvero mediante la partecipazione dell'assessore delegato, in luogo del sindaco/professionista, alle sedute dell'organismo di coordinamento relative al servizio associato.
---------------
[1] Cfr. da ultimo il parere del Ministero dell'Interno, Dipartimento degli affari interni e territoriali, del 25.11.2014.
[2] In questo senso si è espressa la Corte d'Appello di Salerno con sentenza del 03-11.08.2000, n. 270.
[3] Si veda il citato parere del 25.11.2014: 'Solo avvalendosi dello strumento della delega nello specifico settore, l'organo di vertice può ritenersi esentato dall'obbligo di astensione di che trattasi...'.
[4] Si veda Cassazione civile, sez. I, 24.05.1994, n. 5076, in relazione alla disposizione di cui all'art. 26 della legge 25.03.1993, n. 81, poi trasfusa nell'art. 78, comma 5, TUEL.
[5] Qualora l'assunzione sia già avvenuta, precedentemente all'attribuzione della carica pubblica.
[6] Così Ministero dell'Interno, parere del 28.11.2008
(
11.09.2015 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti delle province, mobilità solo fra sei mesi. Confermata la tutela parziale per gli stipendi.
Pa. Via libera della Corte dei conti al decreto sui criteri - Pesa la complessità delle procedure.

Il bollino della Corte dei conti arriva anche per il decreto sui criteri generali per la mobilità dei dipendenti pubblici, che ora aspetta solo la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» per completare il quadro attuativo della riforma delle Province.
I tasselli mancanti, a questo punto, si concentrano nelle nove Regioni ordinarie che non hanno ancora approvato le leggi di redistribuzione delle funzioni provinciali, e che dovrebbero procedere entro fine ottobre se non vogliono inciampare nelle sanzioni (non semplicissime da attuare) previste nel decreto enti locali.
Con la pubblicazione del nuovo decreto firmato dal ministro per la Pa Marianna Madia, comunque, partirà il conto alla rovescia per attuare la mobilità dei dipendenti in «soprannumero» negli enti di area vasta. La prima tappa è prevista 10 giorni dopo la pubblicazione, e riguarda il consenso del personale in comando o in distacco a essere inquadrato nell’ente in cui già si trova.
Entro fine ottobre (se come tutto lascia supporre la pubblicazione del testo in Gazzetta avverrà a breve) Province e Città dovranno inserire nel portale nazionale della mobilità gli elenchi degli esuberi, e nei 30 giorni successivi (quindi entro fine novembre) Regioni, enti locali, sanità e Pa statali dovranno pubblicare i posti disponibili nei loro organici per l’assorbimento degli ex provinciali.
Il censimento dovrà essere pubblicato dalla Funzione pubblica nei 30 giorni successivi (e siamo a fine dicembre), dopo di che i diretti interessati avranno 30 giorni per esprimere la propria preferenza sulla ricollocazione. Nei 30 giorni successivi, quindi entro l’inizio di marzo, la Funzione pubblica assegnerà ai nuovi datori di lavoro i dipendenti interessati, che entro un mese dovranno prendere servizio.
Anche secondo il serrato calendario scritto nel decreto, quindi, la maxi-mobilità collegata alla riforma ha bisogno di almeno altri sei mesi. I bilanci di Città metropolitane e Province, che già hanno il fiato corto per i tagli da un miliardo scritti nell’ultima manovra, cominceranno ad alleggerirsi davvero dei costi del personale solo in primavera: una prospettiva che pone qualche interrogativo pesante sulla sostenibilità dei conti locali, in vista di una manovra che già dovrebbe trovare il modo di rivedere l’altro miliardo di tagli in calendario per il 2016.
A complicare la corsa c’è poi il fatto che anche questo decreto, oltre a fissare i criteri per la scelta sulla nuova collocazione e le priorità in caso di preferenze analoghe, in fatto di stipendi parla ovviamente la stessa lingua del provvedimento già varato sulla mobilità fra diversi compartimenti pubblici, prevedendo la salvaguardia del trattamento fondamentale e dell’accessorio solo per le voci «con carattere di generalità e natura fissa e continuativa» (da finanziare con una sezione ad hoc dei fondi decentrati).
Questo meccanismo, motivato dalla necessità di allineare stipendi e inquadramenti, ha già fatto infuriare i sindacati, che annunciano ricorsi in caso di buste paga alleggerite
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2015).

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze: dialogo avviato. Un pronunciamento innovativo che segna un nuovo corso.
Il presidente del Cngegl Savoncelli sulle novità legate al parere del Consiglio di stato n. 2539.
Si è ampiamente discusso, soprattutto nell'ambito delle professioni tecniche, del parere n. 2539 espresso dal Consiglio di stato in merito alle competenze dei geometri. Un parere che ho subito definito innovativo rispetto ai precedenti pronunciamenti, non sempre in grado di sciogliere le ambiguità più ricorrenti.
A distanza di qualche settimana e di un numero imprecisato di letture, approfondimenti e confronti, aggiungo un secondo aggettivo: inequivocabile. Partendo dalla disamina degli argomenti presentati nel 2013 dall'interpellante Regione Toscana, i giudici di palazzo Spada hanno sancito con estrema chiarezza:
- l'abrogazione del Rd del 1939, che elimina riserve in capo ad alcune categorie; il principio generale della «collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali», precisando che ciascun tecnico risponderà della progettazione «per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità»;
- anche per le modeste costruzioni civili, il geometra può progettare, con l'uso del cemento armato, «piccole costruzioni accessorie, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e non implichino per destinazione pericolo per l'incolumità delle persone»;
- la competenza dei geometri nell'attività di «progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della modesta costruzione civile»;
- solo nelle zone ad alto rischio sismico il professionista strutturista interverrà fin dalle prime fasi della progettazione, assumendo il ruolo di capofila e interagendo con il progettista architettonico (la progettazione statica, in questi casi, avrà la prevalenza sulla progettazione architettonica).
Ho più volte sostenuto che il tema delle competenze nell'ambito delle costruzioni debba essere affrontato e risolto tra le categorie direttamente interessate: ingegneri, architetti e geometri, un bacino di quasi 500 mila professionisti.
L'attuale e generalizzato clima positivo induce a pensare che il parere possa rappresentare il terreno comune sul quale approfondire un dialogo da tempo avviato all'interno delle Rete delle professioni tecniche: l'obiettivo condiviso è arrivare in tempi brevi a una definizione chiara ed esaustiva delle reciproche competenze, a patrimonio dei liberi professionisti e dell'intera collettività (articolo ItaliaOggi del 30.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nuova Ape parte il 1° ottobre. L’attestazione condominiale vale anche in caso di vendita o affitto.
Risparmio energetico. La validità del documento è di 10 anni, quindi non va rifatto da chi lo possiede già.
Il conto alla rovescia è partito: dopodomani, 1° ottobre, entra in vigore in tutta Italia il nuovo modello di attestato di prestazione energetica, compilato secondo i contenuti delle linee guida firmate il 26 giugno dal ministero dello Sviluppo Economico e concordate fra lo Stato e le Regioni [G.U. 15.07.2015 n. 162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto ai fini dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015)]
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Le novità riguardano sia i proprietari di casa che i professionisti: cambia il sistema di classificazione degli immobili, cambiano i parametri presi in esame per decretare se una casa è o meno efficiente sotto l’aspetto energetico e cambia il documento finale che sarà consegnato agli utenti.
Chi deve averlo
In caso di nuova costruzione e per i risanamenti l’Ape è necessario e spetta al costruttore farlo predisporre. L’attestato deve inoltre essere prodotto in caso di compravendita o locazione di un immobile. Il compito di farlo redigere spetta al proprietario.
Ma può anche essere fatto dal condominio (ed è decisamente più economico): l’articolo 6, comma 4, del Dlgs 192/2005 dice che «l’attestazione della prestazione energetica (...) riferita a più unità immobiliari può essere prodotta solo qualora esse abbiano la medesima destinazione d’uso, la medesima situazione al contorno, il medesimo orientamento e la medesima geometria e siano servite, qualora presente, dal medesimo impianto termico destinato alla climatizzazione invernale e, qualora presente, dal medesimo sistema di climatizzazione estiva».
Attenzione: anche in caso di Ape “condominiale” è possibile consegnare all’inquilino o all’acquirente, all’atto della stipula del contratto, l’attestato condominiale. Se si tratta di locazione, basta inserire nel contratto, se soggetto a registrazione, una clausola con cui il conduttore dichiara di avere ricevuto le informazioni in ordine all’attestazione della prestazione energetica dell’edificio.
La “targa energetica” viene rilasciata dai tecnici qualificati, singoli o associati, dalle Esco o da tutti gli enti e organismi in possesso dei requisiti del Dpr 75/2015 e accreditati a livello nazionale. In ogni caso va compiuto almeno un sopralluogo fisico nell’edificio.
L’attestazione ha una durata di dieci anni (quindi chi la ha già non la deve rifare), a meno che l’immobile sia stato sottoposto, dopo la compilazione del documento, a un intervento di ristrutturazione o di riqualificazione tale da averne modificato la performance energetica. In questo caso, terminati i lavori, l’attestato non ha più validità e se l’unità immobiliare viene ceduta in affitto o compravendita sarà da rifare.
Le Regioni
Con la nuova norma si torna ovunque (eccetto che nelle province autonome) a una metodologia omogenea per definire le classi degli edifici. Le Regioni che avevano un proprio format per il rilascio dell’Ape si sono via via adeguate al modello nazionale, salvo mantenere in alcuni casi (come in Lombardia) un proprio software per la compilazione del documento (ricalcato su quello nazionale).
Controlli e sanzioni
Le verifiche sugli Ape scattano d’obbligo su almeno il 2% degli attestati rilasciati e a partire dalle targhe energetiche che attestano classi più efficienti. Per chi non verrà trovato in regola, le sanzioni sono severe.
Il progettista che rilascia un Ape senza il rispetto dei criteri obbligatori è punito con una sanzione amministrativa non inferiore a 700 euro e non superiore a 4.200 euro, più la segnalazione del fatto all’ordine o collegio di riferimento per provvedimenti disciplinari.
Se manca l’Ape per gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o il proprietario sono puniti con una sanzione amministrativa da 3mila euro a 18mila euro.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la nullità dell’atto stesso
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Chiamate Skype protette. Il datore non può spiare le conversazioni. Il principio del garante a tutela della privacy della corrispondenza.
Il datore di lavoro non può conservare le conversazioni Skype dei dipendenti. Neanche per documentare una condotta denigratoria ai danni dell'azienda e neppure se il lavoratore ha lasciato attiva l'icona di Skype sul computer della postazione lavorativa.

Il principio è stato affermato dal garante privacy (provvedimento 04.06.2015 n. 345, solo ora reso noto), che ha accolto il ricorso proposto da una dipendente che lamentava l'illecita acquisizione, tramite un apposito software, di conversazioni, avute con alcuni clienti e fornitori, poste poi alla base del suo licenziamento.
Alla base della pronuncia il garante pone le norme costituzionali sulla segretezza della corrispondenza, valide anche per le comunicazioni di tipo elettronico o telematico scambiate dai dipendenti nell'ambito del rapporto di lavoro.
Le motivazioni della condanna del datore di lavoro invocano anche le linee guida per posta elettronica e internet (adottate dal garante il 01.03.2007 e pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10.03.2007), che vietano condotte lesive della personalità del lavoratore.
Nel caso esaminato una lavoratrice, andando in ferie, ha lasciato il proprio computer acceso con l'icona Skype in evidenza, dando la possibilità di leggere le conversazioni intrattenute dalla dipendente. Inoltre il datore di lavoro ha installato sul computer in uso alla dipendente il programma SkypeLog View, dopo aver preso conoscenza dell'inoltro di comunicazioni denigratorie a soggetti esterni all'azienda e al solo scopo di documentare le conversazioni e non di controllare la dipendente.
Quindi, da un lato, abbiamo il datore di lavoro che sostiene la tesi del controllo difensivo e difende l'accesso alla corrispondenza telematica della dipendente, poiché avvenuto non per verificare la corretta esecuzione della prestazione lavorativa, ma per avere la prova delle violazioni, tali da giustificare il licenziamento.
Dall'altro lato abbiamo il lavoratore che invoca la normativa sulla privacy, per bloccare casi di questo tipo come gravi interferenze nelle comunicazioni. Tra l'altro l'applicativo ha consentito di conservare e intercettare anche le conversazioni avvenute con il medesimo account Skype da un computer collocato presso la propria abitazione.
Proprio l'installazione dell'applicativo rende comunque illecito il controllo effettuato, anche se spetta pur sempre al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli strumenti aziendali.
I controlli, infatti, non devono essere occulti (le caratteristiche essenziali dei trattamenti di dati devono essere rese note ai lavoratori), e non possono determinare la raccolta di informazioni personali, anche non pertinenti, di natura sensibile oppure riferite a terzi. Tali aspetti sono validi anche dopo l'entrata in vigore della modifica ai controlli a distanza effettuata dal decreto attuativo del Jobs act.
A seguito del provvedimento del garante il datore di lavoro non potrà effettuare alcun trattamento dei dati personali contenuti nelle conversazioni ottenute in modo illecito, limitandosi alla conservazione di quelli finora raccolti ai fini di una eventuale acquisizione da parte dell'autorità giudiziaria (articolo ItaliaOggi del 29.09.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: Acqua, entro mercoledì passaggio ai gestori unici. Servizi locali. Scadono i termini previsti dallo Sblocca-Italia.
Mercoledì prossimo scade il termine entro il quale gli enti di governo degli ambiti territoriali ottimali che non vi hanno ancora provveduto devono redigere il piano d’ambito e, soprattutto, devono disporre l’affidamento del servizio idrico al gestore unico, a rischio di esercizio dell’intervento sostitutivo del presidente della regione.
Mancano pochi giorni alla scadenza stabilita dall’articolo 172 del Dlgs 152/2006 a seguito della riformulazione della disposizione a opera del decreto «sblocca Italia» (Dl 133/2014) e nei 76 ambiti definiti a livello nazionale si apre la fase finale dei processi di riassetto della gestione dell’acqua.
L’Osservatorio dei servizi pubblici locali, attraverso il servizio Monitor-Ato, ha tuttavia rilevato alcune criticità, tra cui spicca (secondo la rilevazione effettuata nel mese in corso) la mancata adesione degli enti locali agli enti di governo in 13 Ato sui 76 costituiti.
Questa situazione ha inciso sia sulla definizione dei piani d’ambito sia sull’individuazione del gestore unico.
L’analisi degli affidamenti in essere del servizio idrico rileva una situazione ancora molto frammentata, con 474 aziende che erogano il servizio sul territorio nazionale, aggiungendosi a queste moltissimi Comuni (il 29%) che gestiscono in economia tutto il servizio o sue frazioni.
Il numero notevole di attori rende problematico l’affidamento a un unico gestore, secondo un percorso che si è concretizzato solo in pochi ambiti (ad esempio in Veneto si rileva la situazione nei bacini di Venezia, Belluno e del Brenta) e al quale gli enti di governo devono dare attuazione entro la fine di settembre, affrontando situazioni in alcuni casi molto complesse, a fronte della presenza di molte aziende affidatarie attuali.
L’obiettivo che il legislatore intende perseguire con il modello dell’Ato è garantire il rispetto del principio di unicità della gestione all’interno dell’ambito territoriale ottimale: in questa prospettiva il gestore unico deve subentrare agli ulteriori soggetti operanti all’interno del medesimo Ato, assorbendo immediatamente quelli già scaduti e in proroga, e subentrando alla scadenza del contratto di servizio ai gestori che hanno affidamenti in essere conformi ai requisiti comunitari.
Tuttavia il mancato affidamento al soggetto individuato come responsabile della gestione unitaria del servizio idrico integrato fa scattare l’intervento sostitutivo del presidente della regione, il quale esercita, i poteri sostitutivi, comunicandolo al ministero dell’Ambiente e all’Aeeg, e ponendo le relative spese a carico dell’ente inadempiente.
Il presidente della regione è tenuto anche a determinare le scadenze dei singoli adempimenti procedimentali e ad avviare entro 30 giorni le procedure di affidamento, secondo una tempistica molto stringente finalizzata a sostenere in tempi rapidi l’ottimizzazione del processo di riassetto del servizio nei vari contesti.
Qualora il Presidente della regione non provveda nei termini stabiliti, spetta all’Autorità per l’energia elettrica, il gas segnalare entro i successivi 30 giorni l’inadempienza al Presidente del consiglio dei ministri che nomina un commissario ad acta, le cui spese sono a carico dell’ente inadempiente.
Rileva in questo quadro di riferimento l’esplicita previsione contenuta all’articolo 172, comma 4, ultimo periodo, del Dlgs 152/2006, in base alla quale la violazione della disposizione sul gestore unico comporta responsabilità erariale.
La regione diviene quindi il livello istituzionale di snodo per la trasformazione del sistema del servizio idrico, dovendo in questa fase assicurare l’impulso all’affermazione definitiva del modello di gestione unitaria previsto dalla riforma del 2014, anche superando le resistenze degli enti locali (in alcuni casi essi stessi gestori)
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Energia, per l'attestato unico è partenza a singhiozzo. Dall'1/10 Ape in vigore solo nelle regioni che non si sono ancora adeguate alla direttiva Ue.
Ape ai nastri di partenza, ma non per tutti. Dal prossimo 1° ottobre proprietari e operatori del settore dovranno tenere conto delle numerose novità introdotte dai due decreti del ministero dello sviluppo economico del 26.06.2015 (emanati di concerto con i ministeri dell'ambiente, delle infrastrutture e della semplificazione e pubblicati sulla G.U. n. 162 del 15.07.2015, ai quali occorre aggiungere quello sugli schemi e le modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto, già entrato in vigore lo scorso 16 luglio) [G.U. 15.07.2015 n. 162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto ai fini dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015)].
Tuttavia per le regioni che si siano già conformate alla direttiva 2010/31/Ue, detta scadenza viene procrastinata di due anni. Il nuovo attestato di prestazione energetica è quindi destinato a diventare unico sull'intero territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea, e porterà a 10 le classi energetiche (la classe A viene infatti spacchettata in quattro, di cui la A4 rappresenterà quella più efficiente).
Per gli annunci di vendita e locazione di immobili sarà disponibile un format unico che evidenzierà in maniera semplificata le prestazioni energetiche dell'edificio. Ma vediamo di illustrare più nel dettaglio le numerose novità.
Che fine fanno gli attestati già rilasciati? Gli attestati di prestazione energetica redatti prima dell'01.10.2015, purché a loro tempo compilati conformemente alle regole e ai modelli in vigore, manterranno comunque la propria validità fino alla naturale scadenza di dieci anni.
Quanto sopra a condizione che non avvengano trasformazioni dell'immobile (ristrutturazioni o riqualificazioni tali da modificarne la classe energetica) e che siano rispettate le prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica dei sistemi tecnici dell'edificio, in particolare per gli impianti termici, comprese le eventuali necessità di adeguamento, previste dalle normative vigenti.
A tale proposito si ricorda come il dlgs n. 192/2005 prescriva che i libretti di impianto debbano essere allegati all'Ape, in originale o in copia. Quindi, per esempio, per quanto riguarda gli atti di vendita degli immobili, il proprietario potrà tranquillamente continuare ad avvalersi dell'Ape già in suo possesso.
Quanto sopra è stato confermato anche dal Consiglio nazionale del notariato in un proprio recente studio dello scorso 18.09.2015, riallacciandosi alla specifica disposizione di cui all'art. 10 del medesimo dm del 26.06.2015, nonché al principio ricavabile dall'art. 6, comma 10, del dlgs n. 192/2005, norma che fa salvi gli attestati di certificazione energetica rilasciati prima del 06.06.2013 in conformità alla direttiva n. 2002/91/Ce e in corso di validità.
Applicazione sul territorio ancora a macchia di leopardo. Come detto le nuove regole sull'Ape si applicheranno a partire dal prossimo 1° ottobre soltanto in quelle regioni e province autonome che non abbiano ancora adottato specifiche disposizioni in materia di certificazione energetica o che, pur avendo già legiferato, abbiano recepito esclusivamente le prescrizioni della precedente direttiva 2002/91/Ce e non si siano ancora conformate alla direttiva 2010/31/Ue.
Le altre regioni, infatti, avranno tempo per adeguare la propria normativa alle linee guida ministeriali fino all'01.10.2017 (si veda altro articolo nella pagina seguente per l'elenco delle regioni coinvolte).
Il nuovo attestato di prestazione energetica. Il decreto definisce la prestazione energetica degli edifici come il valore determinato sulla base della quantità di energia necessaria annualmente per soddisfare le esigenze legate a un uso standard dell'immobile e corrisponde al fabbisogno energetico annuale globale in energia primaria per il riscaldamento, il raffrescamento, la ventilazione, la produzione di acqua calda sanitaria e, nel settore non residenziale, per l'illuminazione, gli impianti ascensori e scale mobili. Si stabilisce anche che è consentito tener conto, a particolari condizioni, dell'energia derivante da fonti rinnovabili.
La nuova Ape, che manterrà la validità massima decennale, presenterà una metodologia di calcolo omogenea e porterà a 10 le classi energetiche (la classe A viene infatti spacchettata in quattro, di cui la A4 rappresenterà quella più efficiente). La validità temporale massima resta comunque subordinata al rispetto delle prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza energetica degli impianti tecnici dell'edificio, in particolare per gli impianti termici.
Nel caso di mancato rispetto di queste disposizioni, infatti, l'Ape decade il 31 dicembre dell'anno successivo a quello in cui è prevista la prima scadenza non rispettata per le predette operazioni di controllo di efficienza energetica. A tale scopo, all'attestazione devono essere allegati i libretti di impianto in originale, in formato cartaceo o elettronico.
Una delle novità più importanti è che per la prima volta viene indicato un contenuto minimo che l'attestato deve possedere a pena di invalidità (si veda la tabella in pagina). D'ora in poi sarà quindi particolarmente importante verificare a fondo le informazioni riportate nell'Ape, perché in caso contrario il proprietario dell'immobile rischia di incappare nelle pesanti sanzioni previste dall'art. 15 del dlgs n. 192/2005.
Vengono inoltre banditi gli attestati, per così dire, per corrispondenza, nel senso che d'ora in poi sarà obbligatorio che il soggetto incaricato di redigere l'Ape abbia effettuato almeno un sopralluogo presso l'edificio o l'unità immobiliare interessata.
Il decreto interministeriale prevede poi l'istituzione del c.d. Siape, Sistema informativo sugli attestati di prestazione energetica, che dovrà essere istituito dall'Enea entro 90 giorni a partire dall'01.10.2015 per raccogliere i dati relativi agli attestati di prestazione energetica, i quali dovranno essere obbligatoriamente inviati dalle regioni e le province autonome entro il 31 marzo di ogni anno.
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Una promozione con riserva. Parola agli addetti ai lavori: non sarà una rivoluzione normativa con effetti dirompenti.
Un passo in avanti in direzione della semplificazione e di una omogeneizzazione della normativa a livello nazionale. Così gli addetti ai lavori giudicano la nuova Ape che entrerà in vigore il 1° ottobre, che comunque non si attendono dall'innovazione normativa effetti dirompenti.
Bene la semplificazione, ma restano punti oscuri. «Per quanto riguarda il nostro lavoro, cambia poco», commenta Giovanni Rizzi, componente della commissione Studi pubblicistici del Consiglio nazionale del notariato. «Sicuramente va accolto positivamente il cambio di format del certificato, che d'ora in avanti sarà più leggibile anche dai non addetti ai lavori, così come l'obiettivo di superare la frammentazione della disciplina a livello regionale, ma per le pratiche notarili l'impatto sarà trascurabile».
Da Confedilizia arriva una sostanziale promozione: «Di positivo c'è l'obiettivo, espressamente dichiarato dal legislatore, di favorire l'applicazione omogenea e coordinata dell'attestazione della prestazione energetica degli edifici e delle unità immobiliari sull'intero territorio nazionale», spiegano dall'organizzazione della proprietà immobiliare. «In questo modo si supera finalmente la frammentazione legislativa alla quale abbiamo assistito in questi anni».
Il riferimento è al fatto che le nuove disposizione saranno immediatamente operative nelle regioni e nelle province autonome che non abbiano ancora provveduto ad adottare propri strumenti di attestazione della prestazione energetica degli edifici in conformità alla direttiva 2010/31/Ue. Le restanti regioni e province autonome (vale a dire Liguria, Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Trento, Bolzano ed Emilia-Romagna) dovranno, invece, adeguarvisi entro due anni rispettando alcuni elementi essenziali e disposizioni minime comuni.
Non manca una nota negativa: «Su alcuni passaggi», spiegano da Confedilizia, «il legislatore avrebbe dovuto essere più chiaro. In particolare, allorché si occupa di disciplinare alcuni adempimenti da effettuare in occasione del distacco dall'impianto centralizzato da parte del singolo condomino».
Professioni tecniche soddisfatte con riserva. Per Maurizio Savoncelli, presidente nazionale del Cngegl (Consiglio nazionale geometri e geometri laureati), è positivo l'avvio di un percorso «per uniformare la procedura di compilazione dell'Ape, che prevede anche la conoscenza diretta dell'immobile, in linea con le politiche di razionalizzazione e trasparenza intraprese dal Paese sulle procedure a tutela del cittadino e di tutti gli operatori».
I geometri si dicono soddisfatti anche per il cambio di passo rispetto al passato nel modo di legiferare: «Questa volta, con un unico decreto sono state definite sia le linee guida, che i requisiti minimi per la prestazione energetica degli edifici», sottolinea Savoncelli. Che vede nell'ultimo intervento normativo il pieno recepimento della direttiva 2010/31/Ue. «Finalmente si fa chiarezza nel settore e questo aiuterà gli operatori».
Gaetano Fede, consigliere nazionale, responsabile area Energia del Cni (Consiglio nazionale ingegneri), giudica positivamente la riduzione dei coefficienti di trasmissione termica degli elementi dell'involucro edilizio e, più in generale, la semplificazione dell'attestazione. Tuttavia smorza gli entusiasmi di alcuni operatori: «Non ci facciamo troppe illusioni sull'innalzamento della qualità degli Ape, perché ormai il mercato è inquinato da personaggi assai poco competenti e non sarà semplice invertire la rotta».
Infine, Fede lamenta il fatto che il ministero dello Sviluppo economico continui a non consultare preventivamente i professionisti quando si tratta di assumere decisioni di tipo energetico.
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Il sopralluogo è d'obbligo.
Adempimenti invertiti per la consegna e la registrazione dell'Ape da parte del soggetto certificatore il quale, a differenza del passato, dovrà obbligatoriamente effettuare almeno un sopralluogo presso l'immobile oggetto di attestazione. Viene inoltre confermato che la sottoscrizione con firma digitale dell'Ape ha valenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Queste alcune delle novità contenute nelle nuove linee guida nazionali per l'attestazione della prestazione energetica degli edifici di cui all'allegato n. 1 del dm del 26.06.2015, che dal prossimo 1° ottobre andranno a sostituire quelle utilizzate fino a oggi.
Le vecchie linee guida prevedevano infatti che nei 15 giorni successivi alla consegna dell'Ape al richiedente, il certificatore ne dovesse trasmettere copia alla regione o alla provincia autonoma competente per territorio. Come detto, è stato quindi invertito l'ordine degli adempimenti, perché l'Ape dovrà essere in primo luogo trasmesso in forma di dichiarazione sostitutiva di atto notorio alla p.a. e poi, entro i successi 15 giorni, il certificatore dovrà consegnarne copia al richiedente.
Pertanto, come rilevato dal Consiglio nazionale del notariato, se sino al 30.09.2015 si potranno utilizzare e allegare agli atti notarili anche Ape non ancora trasmessi alla p.a., dall'1 ottobre l'attestazione potrà essere allegata soltanto se preventivamente trasmessa alla regione o alla provincia autonoma territorialmente competente, producendo al notaio la relativa ricevuta.
Per quanto riguarda gli immobili esclusi dall'obbligo di attestazione, le nuove linee guida, oltre a richiamare i casi già previsti dalla normativa vigente, prevedono ulteriori ipotesi che, come sottolineato dal Notariato nel menzionato studio del 18.09.2015, non trovano riscontro nel dlgs n. 192/2005, ma l'esclusione delle quali si ricava dai principi che regolano il sistema dell'attestazione di prestazione energetica.
Si tratta degli edifici industriali e artigianali utilizzati per attività che non ne prevedano il riscaldamento o la climatizzazione, dei ruderi, purché tale stato venga espressamente dichiarato nell'atto notarile, dei fabbricati in costruzione per i quali non si disponga dell'abitabilità o dell'agibilità al momento della compravendita, purché anche in tale caso il relativo stato venga espressamente dichiarato nell'atto notarile (si tratta degli immobili venduti nello stato di scheletro strutturale, cioè privi di tutte le pareti verticali esterne o di elementi dell'involucro edilizio e degli immobili venduti al rustico, cioè privi delle rifiniture e degli impianti tecnologici), nonché dei manufatti comunque non riconducibili alla definizione di edificio di cui al menzionato dlgs n. 192/2005 (per esempio una piscina all'aperto, una serra non realizzata con strutture edilizie ecc.).
Anche le nuove linee guida, come già quelle precedenti, evidenziano poi la differenza tra attestato di qualificazione energetica e attestato di prestazione energetica. Viene quindi ribadito che il primo documento ha carattere complementare rispetto all'Ape, nel senso che il soggetto certificatore, nel redigere quest'ultimo, può utilizzare i dati ricavabili dal primo, ove il proprietario ne sia già in possesso, per semplificare il proprio lavoro e ridurre gli oneri a carico di quest'ultimo.
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Un bollino per gli agenti immobiliari.
Annunci immobiliari con il bollino verde. D'ora in poi gli agenti immobiliari dovranno utilizzare uno specifico format per evidenziare le condizioni energetiche dell'edificio o dell'unità immobiliare offerta sul mercato. Gli operatori del settore saranno quindi in linea di massima facilitati dalla maggiore omogeneità territoriale degli adempimenti richiesti dalla nuova normativa.
Per quanto riguarda gli annunci di vendita e locazione immobiliare, il decreto interministeriale stabilisce, infatti, che i corrispondenti annunci, effettuati tramite tutti i mezzi di comunicazione commerciali, debbano riportare gli indici di prestazione energetica dell'involucro, l'indice di prestazione energetica globale dell'unità immobiliare, sia rinnovabile che non rinnovabile, e la classe energetica corrispondente.
A tal fine occorrerà utilizzare, con l'esclusione degli annunci via internet e a mezzo stampa, lo specifico format approvato col medesimo regolamento (appendice C alle linee guida allegate al decreto interministeriale), nel quale dovranno essere indicati la classificazione dell'immobile oggetto di attestazione (con indicazione se si tratta eventualmente di «edificio a energia quasi zero»), l'indice della prestazione energetica rinnovabile e le valutazioni in ordine alla prestazione energetica, invernale ed estiva, del medesimo.
Si tratta di un modello molto semplice e intuitivo, anche grazie all'utilizzo di specifici emoticon destinati a un pubblico non tecnico, che riporta le nuove dieci classi energetiche e indica quella specifica in cui ricade l'immobile, con il riferimento preciso del valore rilevato dal soggetto certificatore nell'Ape che sarà stata visionata dall'agente immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

ENTI LOCALI - VARIAutoveicoli, conto alla rovescia per l'addio ai tagliandi rc. Si conclude l'iter avviato dal dl 1/2012. Dal 18/10 non sarà d'obbligo esporre i contrassegni.
Dal 18 ottobre non sarà più obbligatorio esporre sul parabrezza dei veicoli il contrassegno attestante la copertura assicurativa. La verifica sarà effettuata direttamente dagli organi di polizia stradale sfruttando apposite banche dati telematiche. Ma i controlli completamente automatici resteranno difficili perché servono strumenti specificamente omologati al momento non disponibili.

Con la smaterializzazione dei contrassegni assicurativi giunge a conclusione il lungo iter avviato dal dl 1/2012 con lo scopo di contrastare i fenomeni della contraffazione ed evasione dell'obbligo di copertura della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli.
Il contrassegno assicurativo tradizionale andrà in soffitta dal 18 ottobre. Il decreto legge n. 1/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 24.03.2012 ha previsto la sostituzione con sistemi elettronici o telematici del tradizionale tagliando. Il ministro per lo sviluppo economico, di concerto con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ha quindi emanato il decreto n. 110/2013, con il quale è stata regolamentata in dettaglio la dematerializzazione dei contrassegni assicurativi.
Questo decreto ha indicato il 18.10.2015 come termine a partire dal quale cessa l'obbligo di esposizione del tagliando. Da questa stessa data l'esistenza e la validità della copertura obbligatoria della rc auto dovranno essere verificate da remoto anche mediante l'utilizzo dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo e rilevamento a distanza delle violazioni delle norme del codice della strada approvati od omologati ai sensi dell'art. 45, comma 6, del codice della strada.
In una prima fase transitoria le compagnie di assicurazione continueranno a rilasciare al contraente il contrassegno assicurativo cartaceo, che, però, non occorrerà esporre nella parte anteriore del veicolo. Inoltre, per circolare in un altro Stato dell'Unione europea il conducente dovrà avere con sé il certificato di assicurazione cartaceo.
Per garantire una migliore efficacia dei controlli sulla situazione assicurativa del veicolo è prevista la piena realizzazione di un unico archivio Aia (Archivio integrato antifrode) che deve collegare le banche dati dell'Ivass, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, del Ministero dell'interno, dell'Ania, dell'Agenzia delle entrate, della Consap, dell'Aci e dell'Uci.
I controlli in strada da parte degli organi di vigilanza. Una prima modalità di controllo dell'esistenza del contrassegno assicurativo dematerializzato prevede la verifica, da parte degli organi di polizia stradale, della banca dati dei veicoli istituita presso la Motorizzazione, alimentata dalle informazioni contenute nell'Archivio nazionale dei veicoli e nell'Anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, nonché dalle informazioni provenienti dalla banca dati «Sita» dell'Ania, appositamente creata per raccogliere, con aggiornamenti in tempo reale, i dati delle compagnie di assicurazione sulle polizze auto.
In questo modo l'agente accertatore è in grado di sapere in pochi secondi se per un veicolo sussiste oppure no la copertura assicurativa.
Accertamento mediante autovelox, tutor e varchi ztl. In conseguenza delle modifiche che sono state introdotte dalla legge di Stabilità 2012, l'art. 193 del Codice della strada prevede che l'accertamento della mancanza di copertura assicurativa obbligatoria del veicolo possa essere effettuato anche utilizzando i seguenti dispositivi omologati ovvero approvati per il funzionamento in modo completamente automatico e gestiti direttamente dagli organi di polizia stradale:
- apparecchi che consentono la determinazione dell'illecito in tempo successivo, poiché il veicolo oggetto del rilievo è a distanza dal posto di accertamento o comunque nell'impossibilità di essere fermato in tempo utile o nei modi regolamentari;
- dispositivi per il rilevamento a distanza delle violazioni del Codice della strada di cui agli artt. 142 (velocità), 148 (sorpasso) e 176 (comportamenti su autostrade e strade extraurbane principali);
- dispositivi per la rilevazione degli accessi di veicoli non autorizzati ai centri storici, alle zone a traffico limitato, alle aree pedonali, o della circolazione sulle corsie e sulle strade riservate.
In arrivo strumenti ad hoc. L'altra procedura di contrasto dei furbetti del tagliando assicurativo è invece quella prevista dall'art. 31 del dl 1/2012, convertito nella legge 27/2012, non ancora operativa per la mancanza degli adempimenti previsti dall'art. 31 che prefigura una procedura di accertamento della violazione in via autonoma. In questi casi però è richiesta una specifica omologazione dei dispositivi predisposti al controllo.
E il ddl 3012, nella versione all'esame della camera in questi giorni, conferma questa indicazione normativa. Ovvero che per attivare controlli automatici della mancata copertura assicurativa dei veicoli serviranno strumenti ad hoc omologati. Non basterà utilizzare gli impianti già in dotazione in tutta Italia, gratuitamente.
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Controlli automatici, si naviga a vista.
La lacuna nel contrasto efficace della mancata copertura assicurativa è rappresentata dalla mancanza di dispositivi specificamente omologati per la verifica a distanza della regolarità assicurativa dei veicoli in transito. Ma anche dalla mancata liberalizzazione dei controlli in base alle risultanze delle videosorveglianza comunale.
Questo aspetto è stato evidenziato anche dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con il parere prot. n. 3560 del 21.07.2015. La procedura autonoma di accertamento della violazione della mancata copertura assicurativa con sistemi elettronici non presidiati dagli organi di polizia stradale richiede che sussista una specifica omologazione. Ma, al momento, nessun dispositivo in tal senso è stato approvato per questo uso.
In ogni caso, anche qualora intervenisse tempestivamente la necessaria modifica per colmare il vuoto burocratico, considerati i tempi che generalmente sono richiesti per il rilascio dell'omologazione, occorrerebbe poi attendere almeno un anno prima dell'effettiva commercializzazione degli apparecchi.
Tutto ciò, peraltro, non esclude che già adesso possano essere utilizzati i dispositivi automatici in funzione ausiliaria, con la presenza del personale di polizia stradale. Per potenziare efficacemente e senza oneri il contrasto della mancata copertura assicurativa basterebbe sdoganare tutti i varchi di controllo targhe presenti sul territorio nazionale. Non solo autovelox, tutor o varchi ztl. Ma anche telecamere di videosorveglianza che documentano con precisione le circostanze e sono in grado di immortalare i trasgressori.
Del resto, mentre per documentare un'infrazione come l'eccesso di velocità sono necessarie verifiche tecniche sempre più scrupolose, per accertare la circolazione di un veicolo senza copertura assicurativa basterebbe un semplice fotogramma. Che evidenzi chiaramente il passaggio del mezzo sotto alle telecamere munite di riconoscimento numerico della targa, data ora e circostanza esatta del passaggio (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

ENTI LOCALI  - VARI: Cibi e bevande, rischi in chiaro. Sostanze allergeniche in vista su menù, registri o cartelli. Gli adempimenti per gli esercenti che effettuano la somministrazione al pubblico.
Chiarezza nell'indicazione di sostanze o prodotti che provocano allergie. Gli esercenti della somministrazione di alimenti e bevande dovranno indicare le sostanze o i prodotti allergenici su un menù o un registro o su un apposito cartello o altro sistema equivalente, da tenere bene in vista. In alternativa al registro o al menù, potrà essere apposto un cartello che avvisi la clientela della possibile presenza degli allergenici e rimanderà al personale cui chiedere le necessarie informazioni. Le notizie sugli allergenici dovranno risultare da una documentazione scritta e facilmente reperibile sia per l'autorità competente sia per il consumatore finale.

Queste alcune delle novità contenute in una bozza di dpcm (Mise e ministero delle salute) sulla etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari nei limiti consentiti dal capo VI del regolamento Ue n. 1169/2011.
Il nuovo testo modifica il dlgs 27.01.1992 n. 109, in materia di etichettatura dei prodotti alimentari.
Indicazione specifica nell'elenco degli ingredienti. Un ingrediente richiamato nella denominazione dell'alimento o nell'etichettatura in generale di un prodotto finito potrà figurare con il solo nome generico, purché nell'elenco ingredienti esso compaia con la sua denominazione specifica. La commercializzazione di un prodotto alimentare avverrà solo se accompagnato da un'indicazione che consentirà di identificarne lotto o partita alla quale appartiene. Per lotto o partita si intende un insieme di unità di vendita di un prodotto alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate in circostanze praticamente identiche.
Nell'elenco ingredienti non sarà necessario indicare il lotto o la partita dei prodotti agricoli che, all'uscita dall'azienda agricola, saranno venduti o consegnati ai centri di deposito, di preparazione o di confezionamento o quando saranno raccolti per essere immediatamente integrati in un sistema operativo di preparazione o trasformazione.
Inoltre non sarà necessario indicare il lotto quando gli alimenti saranno offerti non preconfezionati in quanto offerti in vendita al consumatore finale o alle collettività senza confezione, preincartati sui luoghi di vendita su richiesta del consumatore o generalmente venduti previo frazionamento, anche se originariamente preconfezionati, preincartati sui luoghi di vendita ai fini della vendita a libero servizio.
Quando i prodotti alimentari saranno preconfezionati, l'indicazione del lotto o della partita, e all'occorrenza la lettera «L», figurano sulla confezione o su un'etichetta che a esso si accompagnerà.
Quando i prodotti alimentari non saranno preconfezionati, le indicazioni del lotto o della partita, e all'occorrenza la lettera «L», figureranno sulla confezione o sul recipiente o, in mancanza, sui relativi documenti commerciali.
Esse figureranno in tutti i casi in modo da essere facilmente visibili, chiaramente leggibili e indelebili. L'indicazione del termine minimo di conservazione non sarà richiesta per i prodotti di confetteria consistenti quasi unicamente in zuccheri e/o edulcoranti, aromi e coloranti quali caramelle e pastigliaggi.
Distributori automatici. Nel caso di distribuzione di alimenti non preconfezionati, posti in involucri protettivi, o di bevande a preparazione estemporanea o ad erogazione istantanea, dovranno essere riportati sui distributori o nei locali commerciali automatizzati e per ciascun prodotto, la denominazione di vendita del prodotto finito, e l'elenco degli ingredienti, nonché il nome o la ragione sociale e l'indirizzo dell'impresa responsabile della gestione dell'impianto.
Prodotti non preconfezionati. I prodotti alimentari non preconfezionati in quanto offerti in vendita al consumatore finale o alle collettività senza confezione dovranno essere muniti di apposito cartello o altro sistema equivalente, applicato ai recipienti che li contengono oppure applicato nei comparti cui saranno esposti, da tenere bene in vista e a disposizione dell'acquirente, sul quale dovranno essere riportate le seguenti informazioni:
- la denominazione dell'alimento;
- l'elenco degli ingredienti ;
- le condizioni particolari di conservazione per i prodotti alimentari molto deperibili dal punto di vista microbiologico;
- la data di scadenza per le paste fresche e le paste fresche con ripieno ;
- il titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande con contenuto alcolico superiore a 1,2% in volume;
- la percentuale di glassatura, considerata tara, per i prodotti ittici congelati glassati.
Negozi vari. Per i prodotti della gelateria, della pasticceria, della panetteria e della gastronomia, ivi comprese le preparazioni alimentari e della macelleria, l'elenco degli ingredienti potrà essere riportato per tipologia di prodotti sul «cartello unico» nonché ad eventuale integrazione del cartello unico o in alternativa allo stesso, per singoli prodotti, su apposito «registro degli ingredienti e degli allergeni» tenuto ben in vista.
Se si ricorre a questa modalità di indicazione dell'elenco degli ingredienti, sarà previsto che il cartello recante le altre indicazioni obbligatorie riporti, se del caso, l'avviso che il prodotto contiene allergeni da consultare nell'apposito libro o registro.
Verrà inoltre offerta la possibilità che i prodotti preincartati saranno posti in vendita nei medesimi banchi o spazi in cui sono esposti i prodotti preconfezionati, a condizione che siano distinti mediante l'impiego di appositi separatori o cartelli divisori. Nell'elenco ingredienti dovranno figurare le indicazioni delle sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze. Le medesime informazioni potranno essere rese disponibili anche attraverso impiego di supporti digitali o tecnologie equipollenti purché direttamente consultabili dal consumatore.
Prodotti sfusi. L'articolo 11 della bozza dpcm (in materia di etichetta alimentare) modifica infatti l'articolo 16 del dlgs 109/1992 sui prodotti sfusi prevedendo che questi prodotti siano muniti di un apposito cartello, o altro sistema equivalente, applicato ai recipienti che li contengono oppure nei comparti in cui sono esposti, da tenere bene in vista e a disposizione dell'acquirente, su cui riportare le informazioni obbligatorie.
Quando parliamo prodotti sfusi ci riferiamo ai non preconfezionati in quanto offerti in vendita al consumatore finale o alle collettività senza confezione, confezionati sui luoghi di vendita su richiesta del consumatore o generalmente venduti previo frazionamento, anche se originariamente preconfezionati e preconfezionati sui luoghi di vendita ai fini della vendita a libero servizio, definiti «preincartati» (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Figli, congedi lunghi retroattivi. Fruizione estesa ai 12 anni anche per «vecchi» genitori. Guida ai calcoli secondo le novità introdotte dalla riforma del Jobs act in vigore dal 25/6.
Più tempo per il prolungamento del congedo parentale al fine dell'assistenza di figli disabili. A partire dal 25 giugno, infatti, è possibile fruire del prolungamento del congedo fino alla durata di tre anni entro i dodici anni di età del figlio (o dell'ingresso in famiglia, in caso di adozione o affidamento), in luogo del limite di otto anni rimasto operativo fino al 24 giugno.
In tal caso, il congedo, per tutta la sua durata (tre anni) dà diritto all'indennità del 30% della retribuzione.
Il nuovo congedo parentale. Il congedo parentale (ex astensione facoltativa) è il diritto di genitore, lavoratore dipendente, di assentarsi dal lavoro secondo modalità e durate prestabilite dalla legge e contratti collettivi. Tale diritto (cioè la fruizione del congedo parentale), dal 25 giugno, è riconosciuto nei primi dodici anni di vita di ciascun figlio; fino al 24 giugno, invece, era riconosciuto nei primi otto anni di vita di ciascun figlio.
Il congedo parentale può essere fruito, complessivamente tra i due genitori (mamma e papà), per massimo 10 mesi; tuttavia, se il papà ne fruisce per almeno 3 mesi, il limite complessivo tra i due genitori sale a 11 mesi. Nell'ambito dei predetti limiti (10 ovvero 11 mesi), il diritto di astenersi dal lavoro spetta:
a) alla madre, trascorso il periodo di congedo di maternità (ex astensione obbligatoria), per un periodo non superiore a 6 mesi da fruire in maniera sia continuativo sia frazionata;
b) al padre, sin dalla nascita del figlio, per un periodo non superiore a 7 mesi da fruire in maniera continuativa o frazionata. Nell'ipotesi di un solo genitore (single, ragazza-madre, ecc.) il congedo parentale spetta per un periodo massimo di 10 mesi, da fruire in maniera continuativa o frazionata.
Fruibili anche i «vecchi periodi». La novità del prolungamento del periodo di fruizione del congedo parentale si applica anche ai «vecchi» genitori, a coloro cioè che non hanno fruito di tutto il congedo entro il 24.06.2015, nel vecchio limite di otto anni del figlio. Dal 25 giugno, pertanto, possono fruire dei periodi di congedo parentale residui fino all'età di 12 anni del figlio (la tabella in pagina riporta le possibili combinazioni di durate del congedo per entrambi i genitori).
La fruizione frazionata. Particolari criteri vigono ai fini del calcolo della durata del congedo parentale fruito (specie quando è richiesto in modalità frazionata, cioè per alcuni giorni della settimana) e, quindi, per la relativa indennizzabilità (messaggi n. 28379 del 25.10.2006 e n. 19772 del 18.10.2011 dell'Inps).
Caso emblematico è quello in cui il congedo risulti inframmezzato da ferie, malattia, assenze ad altro titolo incluse le pause di sospensione previste da contratto nel part-time di tipo verticale o misto. Ai fini del computo e dell'indennizzo delle giornate di congedo, l'Inps applica questo criterio: i giorni festivi e le domeniche, nonché i sabati ma solo in caso di settimana corta, che ricadono all'interno di un periodo di ferie, malattia o assenze ad altro titolo non sono in alcun caso indennizzabili, né computabili in conto al congedo parentale.
Pertanto, nel caso in cui un lavoratore, con orario di lavoro articolato su cinque giorni lavorativi (c.d. settimana corta), fruisca di congedo parentale nel seguente modo:
• 1ª settimana: dal lunedì al venerdì = congedo parentale
sabato e domenica
• 2ª settimana: dal lunedì al venerdì = ferie/malattia/assenza ad altro titolo
sabato e domenica
• 3ª settimana: dal lunedì al venerdì = ferie o malattia o assenza ad altro titolo
sabato e domenica
• 4ª settimana: dal lunedì al venerdì = congedo parentale il sabato e la domenica compresi tra la seconda e la terza settimana non sono computabili, né indennizzabili a titolo di congedo parentale in quanto tali giorni (compresi in un periodo unico di congedo parentale posto che, dalla prima alla quarta settimana, non vi e ripresa dell'attività lavorativa) risultano comunque ricompresi all'interno di un periodo di assenza fruita ad altro titolo (periodo neutro ai fini di interesse).
Viceversa, il sabato e la domenica ricadenti tra la prima e la seconda settimana e tra la terza e la quarta sono computabili e indennizzabili in conto congedo parentale, in quanto tali giorni cadono, rispettivamente, subito dopo e subito prima il congedo parentale richiesto.
Lo stesso vale anche nei casi in cui il lavoratore alterni congedo parentale e ferie nel seguente modo:
• dal martedì al giovedì = congedo parentale
• venerdì = ferie
sabato e domenica
• lunedì = ferie
• dal martedì a giovedì = congedo parentale
anche in tal caso, cioè, il sabato e la domenica non si computano a titolo di congedo parentale in quanto inclusi in un periodo, seppur breve, di ferie (venerdì e lunedì).
Il prolungamento fino a 3 anni. Nel caso di figlio affetto da handicap grave (situazione di gravità accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, della legge n. 104/1992), la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre ha diritto fino ai 12 anni d'età del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati (oppure anche in caso di ricovero, a condizione che sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore).
Nel calcolo del limite massimo di congedo parentale prolungato (tre anni) si tiene conto anche dei periodi di congedo parentale ordinario fruito dai genitori (10/11 mesi). Si ricorda che l'handicap è la situazione di svantaggio sociale che dipende dalla disabilità o menomazione e dal contesto sociale di riferimento in cui una persona vive (art. 3 comma 1, legge n. 104/1992).
L'handicap è poi considerato «grave» quando la persona necessita di intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione (art. 3 comma 3, legge n. 104/1992).
Il prolungamento del congedo parentale decorre dal termine del periodo corrispondente alla durata massima del congedo parentale ordinario spettante al genitore richiedente.
La riforma del Jobs act. Anche in questo caso la riforma Jobs act ha ridefinito il limite di età del figlio con disabilità in situazione di gravità entro cui i genitori possono fruire del prolungamento del congedo parentale: fino al 24.06.2015, infatti, il prolungamento del congedo parentale era possibile entro il compimento dell'ottavo anno di vita del bambino con disabilità in situazione di gravità; dal 25.06.2015, invece, la possibilità è data fino al dodicesimo anno di vita del figlio con disabilità in situazione di gravità.
Ovviamente, l'ampliamento dell'arco temporale entro cui fruire del prolungamento del congedo parentale trova applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento.
Pertanto, dal 25.06.2015 il prolungamento del congedo parentale può essere fruito dai genitori adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro 12 anni (e non più 8 anni) dall'ingresso in famiglia del minore con disabilità in situazione di gravità. Inoltre, i giorni fruiti fino al dodicesimo anno di vita del bambino (o fino al dodicesimo anno dall'ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o affidamento) a titolo di prolungamento del congedo parentale danno diritto pieno all'indennità economica pari al 30% della retribuzione.
Non risulta cambiato, invece, che il prolungamento del congedo parentale:
• ha una durata massima di tre anni;
• decorre a partire dalla conclusione del periodo di normale congedo parentale teoricamente fruibile dal genitore richiedente;
• non può essere fruito oltre il raggiungimento della maggiore età del minore.
Domanda online. Per quanto riguarda la richiesta del prolungamento del periodo di congedo parentale, questa va fatta all'Inps in via telematica. In particolare, l'istituto ha provveduto all'adeguamento degli applicativi informatici utilizzati per la presentazione della domanda online e, a partire dal 14 settembre, accetta unicamente le domande presentate in via telematica.
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Ampliamento anche per adozioni e affidi.
L'ampliamento dell'arco temporale entro cui fruire del prolungamento del congedo parentale, ha precisato l'Inps, trova applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento (messaggio n. 4805/2015).
Pertanto, il prolungamento può essere fruito dai genitori adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro 12 anni (non più 8) dall'ingresso in famiglia. In ogni caso, ha aggiunto ancora l'Inps, resta fermo che il prolungamento:
a) decorre dalla conclusione del periodo di normale congedo parentale teoricamente fruibile dal genitore richiedente;
b) non può essere fruito oltre la maggiore età del minore.
Le prestazioni alternative. In alternativa al prolungamento del congedo parentale fino a tre anni, i genitori (lavoratori dipendenti) possono fruire di altre prestazioni allo scopo di assistere i figli con disabilità in situazione di gravità.
Tali prestazioni alternative (significa, quindi, che non possono essere fruite assieme al prolungamento del congedo parentale) sono le seguenti:
• tre giorni di permesso mensile, oppure le ore di riposo giornaliere (c.d. «allattamento»), per bambini anche adottivi o affidati fino a tre anni di età;
• tre giorni di permesso mensile per bambini tra i tre e i dodici anni di vita, oppure tra i tre anni di vita e fino a dodici anni dall'ingresso in famiglia in caso di adozione e affidamento (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

APPALTI: Doppio binario per la delega appalti. Nuovo codice entro luglio 2016.
Doppio binario per la delega appalti: il recepimento delle direttive appalti pubblici dovrà essere concluso entro aprile 2016, mentre il nuovo codice dei contratti pubblici verrà completato entro luglio 2016. Sarà abrogato il regolamento attuativo del codice, sostituito da linee guida messe a punto dall'Autorità nazionale anticorruzione di concerto con il ministero delle infrastrutture, previo parere delle commissioni parlamentari. Contratti secretati al vaglio della Corte dei conti. Accelerazione sull'introduzione del Bim (Building information modelling).

Sono queste le novità contenute nei quattro emendamenti presentati mercoledì sera dai relatori del disegno di legge delega sugli appalti pubblici
(Atto Camera n. 3194) (da mercoledì la votazione degli emendamenti in commissione) che modificano la tempistica del complesso lavoro di recepimento delle direttive e di emanazione del nuovo codice.
Il revirement, finalizzato anche a concedere più tempo alla Commissione ministeriale guidata da Antonella Manzione che si occuperà dei decreti, prevede un doppio binario: prima (entro il 18.04.2016) si procederà al recepimento delle tre direttive su appalti e concessioni; poi (entro il 31.07.2016) si emanerà il nuovo codice dei contratti pubblici.
Gli emendamenti prevedono anche l'abrogazione del regolamento del codice (l'attuale dpr 207/2010): al suo posto saranno emanate, sulla base delle norme del nuovo codice e di concerto fra Anac e ministero delle infrastrutture, linee guida di carattere generale, anch'esse da trasmettere prima dell'adozione alle competenti commissioni parlamentari per il parere.
Per quanto riguarda la procedura di consultazione pubblica che seguirà l'adozione degli schemi di decreto, si prevede che sia gestita e coordinata dalla presidenza del consiglio dei ministri di concerto con il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, sentita l'Anac. L'emendamento delinea con cura anche la fase di acquisizione dei pareri sia sul decreto di recepimento, sia su quello concernente il nuovo codice: Consiglio di stato, Conferenza unificata e Commissioni parlamentari (da notare che l'Anac non è espressamente citata) si esprimeranno «contestualmente, su ciascuno schema, entro trenta giorni dalla trasmissione
». Dopo i 30 giorni il decreto, in mancanza dei pareri, verrà adottato. Nel caso delle commissioni parlamentari, se verrà segnalata la non conformità di alcune norme ai principi e criteri direttivi, il governo dovrà rimandare un nuovo testo sul quale entro 15 giorni il parlamento darà l'ok.
Gli emendamenti introducono ulteriori novità in tema di contratti secretati (quelli del settore della difesa), affidati con procedure derogatorie: vi saranno regole specifiche con controllo della Corte dei conti. È poi stato introdotto un riferimento al progressivo uso, nella fase di progettazione degli interventi, di strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione elettronica e informativa per l'edilizia e le infrastrutture.
Il riferimento è alla norma (art. 22 della direttiva europea) che lascia gli stati membri liberi di promuovere l'uso di metodologie quali il Bim. Infine con un altro emendamento si danno indicazioni al governo per dettare le regole anche negli appalti al di sotto della soglia comunitaria (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sui dirigenti apicali la legge Madia è troppo rigida.
Il 28 agosto scorso è entrata in vigore la legge delega n.124 concernente la nuova normativa in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Una vera e propria sfida del governo Renzi in un terreno di riforma in cui si sono cimentati in passato ministri illustri con risultati non ancora soddisfacenti. La legge punta soprattutto sulla profonda riforma della dirigenza pubblica.
Rilevante appare dunque la finalità posta all'inizio della norma che collega la disciplina della materia della dirigenza pubblica alla valutazione dei rendimenti dei pubblici uffici e che mira a creare una nuova figura di dirigente selezionato sul principio del merito, competente, proiettato verso l'esterno, orientato al risultato.
I principi e i criteri direttivi espressi nella delega riguardano l'istituzione di un nuovo sistema di dirigenza pubblica articolato in ruoli tra loro distinti, ma unificati e coordinati da una disciplina comune dell'accesso basata sul merito e dalla mobilità da un ruolo all'altro.
In particolare, con riferimento alla dirigenza degli enti locali, la norma prevede l'istituzione, previa intesa in sede di Conferenza stato-città, del ruolo unico dei dirigenti degli enti locali in cui confluiscono, in sede di prima applicazione, i dirigenti di ruolo negli enti locali e i segretari comunali e provinciali iscritti all'albo nazionale nelle fasce professionali A e B e, con alcune riserve, nella fascia C.
Nello stesso tempo è prevista l'abolizione della figura dei segretari e la soppressione. dell'albo. Una decisione storica che ha destato molte perplessità ma che, nel trasformare i segretari in dirigenti, attribuisce ai segretari medesimi, in sede di prima applicazione e per un periodo non superiore a tre anni, la funzione di dirigente apicale degli enti, con l'eccezione delle città metropolitane e dei comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti per i quali è prevista la possibilità di nominare un direttore generale.
Ne deriva che la funzione di direzione viene definita in maniera riduttiva come «attuazione dell'indirizzo politico e coordinamento dell'attività amministrativa» e a «misura» dei segretari in quanto comprende anche il «controllo della legalità dell'azione amministrativa».
Con la stessa terminologia la norma definisce anche la funzione di direzione apicale e che addirittura comprende anche la funzione rogante! L'inserimento di questa funzione nella sfera delle competenze del dirigente di vertice (ad eccezione delle città metropolitane e dei comuni che optano per il direttore generale e per i quali si ripropone in termini quasi analoghi il dualismo attuale tra il dg e il dirigente rogante, ex segretario) e l'obbligo per i comuni di conferire l'incarico di direzione apicale ai segretari comunali e provinciali confluiti nel ruolo unico confermano la sensazione che, in attesa di necessari sviluppi in sede di decreti delegati, la definizione della funzione di direzione di vertice sia stata fortemente influenzata dall'esigenza di dare una prima sistemazione ai segretari medesimi in seguito all'abolizione dell'albo.
Ma ciò che sorprende è la presenza dell'«obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale».
L'obbligo implica infatti un problema di scelta circoscritta a soggetti iscritti nel ruolo e potrebbe comportare oneri aggiuntivi tenendo conto del numero e della situazione attuale dei comuni.
La generalizzazione dell'obbligo richiederebbe una maggiore attenzione all'esercizio della funzione di direzione apicale che necessita di esperienze e professionalità adeguate e che andrebbe disciplinata in relazione alla dimensione, all'importanza dell'ente e al contesto territoriale, economico e sociale in cui esso opera.
Sarebbe pertanto opportuno individuare meglio la platea degli enti interessati e introdurre strumenti di maggiore flessibilità estendendo la possibilità di conferire incarichi di direzione apicale anche a soggetti non iscritti nel ruolo dei dirigenti degli enti locali, ma che siano in possesso di una serie di requisiti analoghi a quelli che saranno fissati per i direttori generali; requisiti previsti dalla legge e certificati dalla stessa Commissione per la dirigenza locale incaricata della gestione del ruolo.
In tal modo sarebbe ampliata la possibilità di scelta da parte degli enti locali interessati, sarebbero agevolati i processi di mobilità dei dirigenti dal settore privato al settore pubblico, sarebbe avviata in concreto la riforma del management pubblico insieme con una energica e continua azione di formazione (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La giurisdizione del g.a. prevale su quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (TSAP) in quelle controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche.
L'art. 143, R.D. n. 1775/1933, c. 1, lett. a), non limita la giurisdizione del TSAP alle controversie tra concedente e concessionario in tema di derivazione idrica, ma utilizza una formula più ampia, facendo riferimento più in generale alla "materia delle acque pubbliche".
Tale nozione è stata chiarita con il contributo della giurisprudenza delle magistrature superiori ed in particolare, delle Sezioni Unite della Cassazione e del Consiglio di Stato. In particolare, l'ambito della giurisdizione del TSAP è stato individuato in relazione a tutti i provvedimenti aventi incidenza diretta e immediata di tali atti sul regime delle acque pubbliche, inteso come regolamentazione del loro decorso e della loro utilizzazione.
Questa Sezione ha anche chiarito che la giurisdizione del TSAP ha ad oggetto i provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Restano, invece, sottratte alla giurisdizione del TSAP quelle controversie nelle quali i provvedimenti impugnati incidono sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta.
Nello stesso senso è la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che utilizza lo stesso criterio esegetico dell'immediata incidenza dell'atto sull'uso delle acque. Così, Cass, Sez. Un., 25.10.2013, n. 24154, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del TSAP nel caso di impugnazione dell'atto di approvazione, da parte della P.A., con deliberazione contenente anche la dichiarazione di pubblica utilità ai fini ablatori, di un progetto per la realizzazione di un serbatoio di accumulo di acque pubbliche.
In questo senso deve rilevarsi che la giurisdizione del g.a. prevale su quella del TSAP in quelle controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative volte all'affidamento di concessioni o di appalti di opere relative a tali acque (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.10.2015 n. 4594 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizio-urbanistici, sono principi fondamentali della materia del governo del territorio le disposizioni del d.P.R. n. 380/2001 che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
Di conseguenza, occorre il permesso di costruire per una ristrutturazione comportante mutamento della destinazione d’uso, pur in presenza di leggi regionali che dispongono diversamente.
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G
li interventi di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire sia nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico sia nel caso in cui, se eseguiti nei centri storici, comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea.
Diversamente, se eseguiti fuori dei centri storici, gli stessi sono eseguibili in base a denuncia di inizio attività (DIA) qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea.

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RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza 23.01.2012 il Tribunale di Firenze, rigettando la richiesta di riesame, ha confermato il sequestro preventivo di un fabbricato in viale ..., in relazione ad alcune violazioni edilizie ipotizzate a carico di Sa.Ma. (legale rappresentante della società proprietaria dell'immobile), Bo.Eu. (direttore dei Lavori) e Fr.Cr. (esecutore).
Agli indagati -quanto interessa- è stata contestata la violazione dell'art. 44, lett. c), DPR n. 380/2001, per avere posto in essere, nelle rispettive qualità, una attività di "sostituzione edilizia" nell'immobile originariamente destinato a magazzino, mediante completa demolizione e successiva ricostruzione del complesso edilizio con modifica di sagoma e destinazione d'uso, avendo iniziato la realizzazione, mediante iniziale demolizione completa, di 50 appartamenti destinati a civile abitazione e uffici nonché 109 autorimesse, in assenza di permesso di costruire.
Secondo i giudici del riesame, gli indagati avevano realizzato una ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d'uso mediante opere strutturali e totali modificazioni rispetto al preesistente edificio con variazioni tra categorie non omogenee, sicché per tale intervento -definito di ampia portata- occorreva il permesso di costruire e non già la DIA (di cui essi erano in possesso), trattandosi di un organismo del tutto diverso. Hanno inoltre ritenuto privo di rilievo il parere 11.01.2012 della Commissione Edilizia osservando che esso riguarda solo la fedele ricostruzione della parte demolita, ma nulla dice del cambio di destinazione d'uso.
2. I difensori degli indagati Bo. e Sa. ricorrono per cassazione denunziando due censure:
2.1 Con una prima censura, lamentano ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cpp, la violazione degli artt. 3, comma 1, lett. d), 22 e 44 DPR n. 380/2001 nonché 79 della legge regionale n. 1/2005.
Rilevano innanzitutto che la demolizione ha interessato solo una parte dell'immobile (la campata centrale) come risulta dall'accertamento svolto il 26.09.2011 e richiamano all'uopo il parere della Commissione Edilizia rilasciato l'11.1.2012, ritenuto di importanza decisiva perché definisce con esattezza la natura e i caratteri dell'intervento, soprattutto nella parte in cui precisa che "per la parte demolita si può procedere alla fedele ricostruzione, mantenendo invariata la sagoma": da ciò consegue -secondo i ricorrenti- la sottoposizione dell'intervento alla semplice DIA e quindi la sua legittimità. Osservano inoltre che l'immobile si trova in zona A ("Centro Storico fuori le mura") ed è suscettibile di manutenzione (ordinaria o straordinaria) oppure di ristrutturazione.
Analizzano poi il progetto allegato alla DIA nonché la normativa di riferimento nazionale (DPR n. 380/2001 art. 3, comma 1, lett. d), e regionale (legge regionale n. 1/2005 art. 79, comma 2, lett. d), osservando che la demolizione rappresenta un intervento minoritario rispetto alla consistenza dell'edificio, e quindi non è propedeutica ad una demolizione totale e quindi ancora una volta soggetta a DIA: a tale problematica il Tribunale -secondo i ricorrenti- non ha fatto alcun riferimento benché sollevata nel corso delle discussione.
2.2 Col secondo motivo i ricorrenti deducono le stesse violazioni di legge indicate nella precedente censura ed in più la violazione degli artt. 7.5 e 8 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore nonché dell'art. 170 del regolamento edilizio comunale. In particolare osservano che il cambio di destinazione d'uso su cui si è soffermato il Tribunale deve invece ritenersi conforme agli strumenti urbanistici.
Riportano il contenuto dell'art. 10 del DPR n. 380/2001 e, quanto alla potestà regionale in materia prevista dall'ultimo comma di tale disposizione, richiamano gli artt. 77 e 78 della legge n. 1/2005 per concludere che gli interventi di ristrutturazione implicanti modifica della destinazione d'uso non richiedono il rilascio del permesso di costruire. A tal fine invocano anche il contenuto degli artt. 7 e 8 delle norme tecniche di attuazione del Piano regolatore che qualificano tra gli interventi di ristrutturazione anche quelli finalizzati al mutamento di destinazione d'uso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati
L'articolo 10, comma 1, lett. c), del DPR n. 380/2001 assoggetta a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino determinate opere (ivi specificamente indicate) ovvero, anche quegli interventi senza opere "nelle zone omogenee A" che comportino "mutamenti della destinazione d'uso".
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte precisato che
in tema di reati edilizi, gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire sia nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico sia nel caso in cui, se eseguiti nei centri storici, comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea; diversamente, se eseguiti fuori dei centri storici, gli stessi sono eseguibili in base a denuncia di inizio attività (DIA) qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 9894 del 20/01/2009 Cc. dep. 05/03/2009 Rv. 243102; Sez. 3, Sentenza n. 5712 del 13/12/2013 Cc. dep. 05/02/2014 Rv. 258686; Sez. 3, Sentenza n. 39897 del 24/06/2014 Ud. dep. 26/09/2014 Rv. 260422).
I ricorrenti riconoscono che sia stata eseguita una ristrutturazione edilizia e che vi sia stato mutamento di destinazione d'uso, ma ritengono che anche in tal caso il titolo richiesto non è il permesso di costruire, ma la semplice DIA, come consentito dalla legge regionale toscana n. 1/2005 all'art. 79, comma 2, lett. d), in mancanza di una demolizione "totale", anche perché il cambio di destinazione è conforme agli strumenti urbanistici. Ritengono che, secondo la previsione dell'ultimo comma dell'art. 10 DPR n. 380/2001 spetti alle regioni di stabilire quali mutamenti sono subordinati a permesso di costruire o a DIA e che nel silenzio della previsione dell'art. 79, comma 2, lett. d), della citata legge regionale, le ristrutturazioni comportanti modifica dei destinazione d'uso in Toscana non sono soggette al previo rilascio del permesso di costruire.
La tesi non è condivisibile.
La questione di diritto sottoposta al Collegio riguarda evidentemente la competenza concorrente in materia di governo del territorio: ebbene, per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale,
rientrano «nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sentenza Corte Cost. n. 259/2014, punto 3.1 del Considerato in diritto; sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2): a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali» (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013).
Più specificamente, la sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 2011, occupandosi di una legge della Regione Lombardia, ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale proprio in quanto definiva come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, in contrasto con il principio fondamentale stabilito ("allora") dall'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380 del 2001.
Da quanto esposto, discende che la potestà legislativa della Regione Toscana, nella materia di legislazione concorrente (quella relativa appunto al governo del territorio), non poteva incidere su principi fondamentali, come quello di cui oggi si discute, riservati alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 3, Cost.) e quindi errano i ricorrenti nel fondare la legittimità dell'intervento su una potestà legislativa regionale intervenuta su una normativa di "principio" riservata alla legislazione statale.
Nel caso di specie, è assolutamente pacifico (v. ricorso pagg. 4 e 5) che l'immobile si trova in "zona A" (Centro Storico fuori le mura) e che vi è stato un mutamento di destinazione d'uso (da commerciale a residenziale) e ciò è sufficiente per ritenere necessario il previo rilascio del titolo abilitativo.
E' comunque il caso di aggiungere -ma solo per mera completezza- che la legge regionale n. 1/2005 invocata dai ricorrenti è stata di recente abrogata dall'art. 254 della legge regionale 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio) che ha disciplinato nuovamente le trasformazioni urbanistiche ed edilizie soggette a permesso di costruire (art. 134), le opere ed interventi soggetti a SCIA (art. 135) e l'attività edilizia libera (art. 136), prevedendo, in particolare, il permesso di costruire anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia ricostruttiva (v. art. 134, comma 1, lett. h, n. 2).
Si rivela pertanto corretta l'ordinanza impugnata laddove ha ritenuto necessario, in presenza di una ristrutturazione implicante mutamento della destinazione d'uso, il permesso di costruire.
Il ricorso va perciò rigettato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2015 n. 39374).

APPALTI SERVIZI: Sugli indici che devono sussistere per stabilire la natura pubblica o privata di una società affidataria in house del servizio pubblico.
Per stabilire la natura pubblica o privata di una società, affidataria in house del servizio pubblico svolto in precedenza dal Consorzio dei Comuni, si deve aver riguardo al regime giuridico che conforma l'attività degli organi societari, gli atti adottati e, per quel che qui più rileva nel caso di specie, il rapporto di impiego con i dipendenti.
Pertanto, alla luce di tali indici la società rientra nel genus delle società di diritto privato, come del resto dimostrato dal fatto che il rapporto d'impiego intrattenuto col ricorrente non è soggetto alle regole di cui al d.lgs. 165 del 2001 contenente "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", bensì interamente assoggettato al diritto del lavoro privato.
Ne consegue che è infondata la censura che lamenta l'errata valutazione della Commissione concernente un bando di concorso pubblico, per soli titoli, per la copertura del posto di segretario generale dell'autorità di bacino Regionale, che ha esattamente ascritto la società presso la quale il ricorrente ha svolto l'attività di lavoro tra le strutture private (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2015 n. 4510 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

TRIBUTI: Paga Ici l’albergo dell’istituto religioso. Beni ecclesiastici. Cassazione: sì al tributo se l’attività è commerciale.
Deve pagare l’Ici l’istituto religioso proprietario di un complesso immobiliare concesso in affitto per attività alberghiera.
Con l'ordinanza 24.09.2015 n. 19016 la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- ha confermato l’esito del giudizio di merito, ponendosi in linea a proprie precedenti pronunce peraltro intervenute tra le stesse parti in causa ed inerenti altre annualità di imposta.
Nel caso in questione l’istituto religioso aveva già ricevuto altri avvisi di accertamento Ici per annualità pregresse al 2007, tutti impugnati fino ad arrivare al giudizio di legittimità conclusosi negativamente con tre pronunce della Cassazione emesse nel 2011.
Tuttavia l’istituto religioso insiste e ripercorre le stesse tappe anche per l’accertamento Ici del 2007, tentando di ottenere questa volta una pronuncia favorevole. Ma i giudici di Piazza Cavour ritengono inammissibili i motivi di ricorso in quanto redatti in modo plurimo mediante la prospettazione di più censure su questioni differenti.
Sul punto la Corte evidenzia che il “giudicato” (articolo 2909 del codice civile) è applicabile non solo allorché si tratti della medesima imposta, ma anche nel caso in cui gli atti tributari impugnati in due giudizi siano diversi.
Un altro rilievo dell’istituto religioso riguarda la cartella di pagamento emessa da Equitalia durante il contenzioso. E per la Cassazione l’ente impositore, e per esso l’agente della riscossione, può procedere al recupero del tributo anche in presenza di contenzioso.
Per quel che riguarda il fatto, l’ente ecclesiastico ha concesso in affitto il proprio immobile ad una società di capitali che effettua attività alberghiera, traendo così un reddito. Pertanto è del tutto evidente che difetta, ai fini della richiesta esenzione Ici, anche il requisito oggettivo previsto dalla norma, non trattandosi di un immobile destinato esclusivamente allo svolgimento di attività non commerciali
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2015).

VARI: TAR LAZIO/ Coa e Cnf battuti dall'Anac
L'Anac batte Consiglio nazionale forense. Le misure di trasparenza della riforma Severino si applicano anche agli Ordini professionali, in primis agli avvocati, che sì vedono respingere dal Tar Lazio il ricorso contro le delibere dell'autorità anticorruzione. Via libera, dunque, alla pubblicazione di incarichi, redditi e patrimoni da par te dei consiglieri. E ciò perché, sul fronte degli organismi forensi, è la stessa riforma del 2012 a definire Cnf e Coa come «enti pubblici non economici», il che basta a ricomprenderli nei controlli anticorruzione dell'Anac.

È quanto emerge dalla sentenza 24.09.2015 n. 11392, pubblicata dalla III Sez. e attesa da mesi.
Niente da fare, quindi, per il ricorso del Cnf e di oltre 50 Coa: gli obblighi di pubblicazione introdotti dalla legge 190/12 per le pubbliche amministrazioni valgono anche per gli Ordini forensi. Basta il dato testuale dell'art. 24 della legge 247/2012, il nuovo statuto dell'avvocatura, a escludere che gli organismi dei legali possano evitare di rendere pubblici atti di nomina, curricula, compensi legati alla carica e ad altri incarichi pubblici.
Non conta che gli Ordini, in definitiva, si finanziano con i contributi degli iscritti. Né giova agli avvocati ricordare che il dl 101/2013, con il suo restyiing delle amministrazioni, ha escluso gli Ordini professionali alla diretta applicazione del testo unico del pubblico impiego, ciò che li farebbe uscire dalla categoria degli enti pubblici non economici, in cui invece restano nonostante la natura associativa.
In realtà gli enti esponenziali della categoria forense sono pubblici perché collegati alla funzione sociale dell'avvocato: la riforma forense affida a Cnf, Coa e agli avvocati iscritti l'attuazione di principi costituzionali come il diritto di difesa dei cittadini. Insomma: gli Ordini non esistono solo per fornire servizi agli iscritti ma anzitutto per regolare la relativa professione.
A questo punto diventano irrilevanti anche le altre censure secondo cui gli Ordini sono sottratti al controllo della Corte dei conti, non considerati nel conto economico consolidato dello Stato né individuati a tal fine dall'Istat (articolo ItaliaOggi del 29.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIOrdini, su internet piani anticorruzione e redditi dei vertici. Tar del Lazio. Trasparenza estesa ai professionisti.
Trasparenza per gli ordini professionali. Avvocati, ma anche architetti, ingegneri, commercialisti e tutti gli altri enti di rappresentanza dei professionisti sono obbligati a dotarsi di uno scudo anti-corruzione come gli enti pubblici. Devono predisporre un piano triennale di prevenzione, nominare un responsabile anticorruzione e rispettare incompatibilità e inconferibilità degli incarichi, oltre all’obbligo di pubblicare i dati su patrimonio e redditi dei titolari delle funzioni di indirizzo politico.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Lazio, Sez. III, con la sentenza 24.09.2015 n. 11391, che ha rigettato il ricorso promosso da cinque ordini locali degli avvocati (Locri, Pisa, Biella, Catanzaro, Cosenza), contro le delibere (144 e 145/2014) con cui l’Anticorruzione ha applicato gli obblighi di trasparenza della legge Severino (190/2012) e dei suoi decreti attuativi (Dlgs 33/2013 e 39/2013) anche agli Ordini professionali.
Il Tar ha escluso che gli ordini non rientrino nel novero delle Pa elencate dal Dlgs 165/2001, come dimostrerebbe il fatto di non essere soggetti alla Corte dei Conti, proprio perché non a carico delle casse pubbliche ma finanziati con i contributi dei professionisti.
Argomentazioni smontate dal tribunale amministrativo, ricorrendo proprio alla legge di riforma della professione forense ( 247/2012) che al contrario «dispone espressamente che il Cnf e gli ordini circondariali sono enti pubblici non economici a carattere associativo». Una definizione che, qualificando gli ordini come enti pubblici «deve ritenersi di per sé sufficiente al rigetto delle censure in esame».
Non rileva l’obiezione secondo la quale gli ordini hanno natura associativa, o autonomia finanziaria. Perché «l’ordinamento non ha avuto difficoltà a riconoscere prima e a ribadire dopo, la qualificazione di enti pubblici ad altre organizzazioni di tipo associativo». Bocciato anche l’argomento relativo «all’esclusivo finanziamento mediante i contributi degli iscritti».
Piuttosto, è la risposta, il fatto che la «tassa annuale» venga appunto assimilata a un «tributo» non fa che rafforzare la «qualificazione pubblicistica» degli ordini professionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI: Qualora il bando richieda come requisito di partecipazione un fatturato specifico relativo a precedenti servizi svolti ed inerenti l'oggetto dell'appalto è necessario che le precedenti esperienze del concorrente siano identiche a quelle dell'appalto.
L'art. 41, c. 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 relaziona il fatturato al settore di gara in generale e non all'oggetto specifico della fornitura o del servizio, in quanto, sostituendo la precedente locuzione "servizi identici" con il riferimento al "settore oggetto della gara", ha inteso ampliare l'ambito delle tipologie di servizi che possono essere fatti valere ai fini della partecipazione alla gara; ciò all'evidente scopo di evitare il cristallizzarsi di situazioni di oligopolio o monopolio e favorire l'apertura del mercato medesimo attraverso l'ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
Quindi nelle gare pubbliche, se il bando richiede come requisito di partecipazione un fatturato specifico relativo a precedenti servizi svolti ed inerenti l'oggetto dell'appalto, è necessario che le precedenti esperienze del concorrente riguardino settori identici a quelli oggetto dell'appalto o quanto meno ad essi collegate secondo un ragionevole criterio di analogia o inerenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.09.2015 n. 4425 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: L'impresa che non rispetta il salario minimo è fuori gara. La sua offerta è ritenuta anomala.
In una gara di appalto la violazione dei minimi salariali è indice di anomalia dell'offerta.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 18.09.2015 n. 4361 concernente un appalto per l'affidamento del servizio di portierato e assistenza alla didattica presso un'università statale.
Il problema affrontato dai giudici riguardava l'anomalia di una offerta presentata da un concorrente da accertare alla luce del disposto degli articoli 86 e 87 del codice dei contratti pubblici e in particolare dell'articolo 3-bis dell'articolo 86 il quale impone che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
L'offerta era apparentemente favorevole per l'amministrazione, ma in misura tale da porre in dubbio che fosse stata frutto di valutazioni corrette e in concreto attuabili da parte dell'impresa, con conseguenze che, in caso contrario, si sarebbero riflesse negativamente sulla fase esecutiva del contratto.
Esaminati gli atti i giudici premettono in termini generale che il costo del lavoro è indice di anomalia quando non risultino rispettati i livelli salariali che la normativa vigente, anche a base pattizia, rende obbligatori.
Sotto tale profilo, dice la sentenza, la ragione di invalidità dell'offerta va ricercata nella possibile inaffidabilità dell'impresa; per i giudici infatti una convenienza dei costi inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (anche in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore, «costituisce indice inequivoco di inattendibilità economica dell'offerta».
Non solo: emergono anche profili di lesione del principio di par condicio dei concorrenti (essenziale per l'imparzialità e il buon andamento dell'azione amministrativa), «fonte di evidente pregiudizio delle altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato il fattore retributivo» (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).
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MASSIMA
La questione sottoposta a giudizio riguarda le modalità di individuazione e di accertamento –nonché i limiti della sindacabilità in sede giurisdizionale– di un’offerta cosiddetta “anomala”, ovvero apparentemente favorevole per l’Amministrazione, ma in misura tale da porre in dubbio che la medesima sia frutto di valutazioni corrette e in concreto attuabili da parte dell’impresa, con conseguenze che, in caso contrario, si rifletterebbero negativamente sulla fase esecutiva del contratto.
Il tema è disciplinato dagli articoli 86 e 87 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18 /CE), normalmente intesi come impositivi di una valutazione dell’offerta nel suo complesso, anche al di là delle voci direttamente indicate dall’Amministrazione come incongrue, in ogni caso con riconoscimento al riguardo di ampi margini di discrezionalità tecnica –insindacabile nel merito, salvo i consueti limiti di manifesta illogicità o errore di fatto– per l’apprezzamento affidato all’Amministrazione stessa (giurisprudenza consolidata: cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 05.09.2014, n. 4516 e 22.12.2014, n. 6237; IV, 11.11.2014, n. 5518, 20.01.2015, n. 147 e 26.02.2015, n. 963).
La prima delle disposizioni legislative citate (art. 86) contiene, ai commi 1 e 2, alcuni indicatori automatici di anomalia, ma al comma 3 consente comunque una valutazione di congruità per ogni offerta che, “in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”; il successivo comma 3-bis –nel testo introdotto dall’art. 1, comma 909, lettera a), della legge 27.12.2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge Finanziaria 2007)– impone inoltre, per quanto qui interessa, che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro […] il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
Seguono precisazioni circa le competenze affidate al Ministero del lavoro e della previdenza sociale, incaricato della predisposizione di apposite tabelle, che tengano conto della contrattazione collettiva (specifica, o riferita al «settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione»), con altri parametri riferiti anche all’ambito territoriale, nonché all’individuazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi.
Il costo del lavoro è dunque indice di anomalia quando non risultino rispettati i livelli salariali che la normativa vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori.
Sotto tale profilo,
la ragione di invalidità dell’offerta va ricercata in una prospettiva di inaffidabilità dell’impresa, che tale offerta abbia presentato, diversa da quella riconducibile a un’erronea valutazione in fatto della prestazione richiesta, o di singoli parametri cui la stessa deve rapportarsi.
Una convenienza dei costi, inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (anche in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore, infatti, costituisce indice inequivoco di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio di par condicio dei concorrenti (essenziale per l’imparzialità e il buon andamento, di cui all’art. 97 della Costituzione), fonte di evidente pregiudizio delle altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato il fattore retributivo.

APPALTI: Le indicazioni dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) assumono valenza di canoni oggettivi di comportamento per gli operatori del settore, la cui violazione integra un'ipotesi di negligenza.
Le indicazioni dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture -Avcp (ora, Autorità nazionale anticorruzione- Anac) a prescindere dal loro inquadramento dogmatico, assumono, in ogni caso, valenza di canoni oggettivi di comportamento per gli operatori del settore, la cui violazione integra un'ipotesi di negligenza, per gli effetti di cui all'art. 70, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 207 del 2010, essendo all'Autorità riconosciuti il ruolo di garante dell'efficienza e del corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore dei contratti pubblici e, quindi, del sistema di qualificazione, nonché penetranti poteri di vigilanza e controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.09.2015 n. 4358 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Il prezzo imposto «segue» la casa. Per accordi fuori dal «Peep» le rivendite successive sono possibili con prezzo libero.
Sezioni unite. Se l’immobile è in un piano di edilizia residenziale pubblica la convenzione impresa-Comune vale per ogni vendita
Quando un piano di edilizia residenziale pubblica venga realizzato in base a una convenzione tra l’impresa costruttrice e il Comune, stipulata ai sensi della legge 865/1971, nella quale sia pattuito un “prezzo imposto” per la vendita delle singole unità immobiliari comprese nel Peep, questo prezzo deve essere applicato anche in tutte le rivendite successive alla prima (e cioè successive a quella tra il costruttore e il primo compratore).
È quanto la Corte di Cassazione ha deciso, a Sezz. Unite civili, con la sentenza 16.09.2015 n. 18135, nella quale è stato precisato che, invece, il prezzo di vendita “imposto” in conseguenza delle convenzioni stipulate ai sensi degli articoli 7 e 8 della legge 10/1977, vale solo per la prima vendita, ma non per le rivendite successive (come già ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 13006/2000).
Le convenzioni di cui alla legge 10/1977 non sono inerenti l’edilizia residenziale pubblica (come quelle della legge 865/1971), ma consentono lo sconto degli oneri concessori a favore del costruttore che si impegni a moderare i prezzi delle sue vendite (o locazioni) oppure alla realizzazione di opere di urbanizzazione.
La controversia giunta all’esame della Suprema corte concerneva l’inadempimento di un contratto preliminare di vendita, avente a oggetto la proprietà superficiaria di un appartamento edificato sulla base di una convenzione Peep, stipulata tra il Comune di Roma e la società costruttrice, ai sensi dell’articolo 35, legge 22.10.1971 n. 865.
In questo preliminare, la promittente venditrice e la promissaria acquirente avevano pattuito un prezzo fissato convenzionalmente, sul presupposto che il vincolo di determinazione del prezzo (stabilito nella convenzione con il Comune) fosse venuto meno; successivamente, però, la parte promissaria acquirente aveva rifiutato di acquistare al prezzo convenuto, intendendo pagare solo il prezzo “imposto” dalla convenzione.
Alle Sezioni unite è stato dunque chiesto se il vincolo di imposizione del prezzo operi solo nei confronti del cessionario che acquisti dalla società costruttrice (come deciso dalla Cassazione nella sentenza n. 7630/2011 e nella sentenza n. 13006/2000) o anche nei confronti dei successivi aventi causa dal primo cessionario (come deciso dalla Cassazione nella sentenza n. 9266/1995).
La Cassazione fonda, in particolare, la sua decisione sul rilievo che l’articolo 31, comma 49-bis, legge 448/1998 (introdotto dal dl 70/2011, convertito in legge 106/2011), ha statuito che i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all’articolo 35 della legge 865/1971, «possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario» con il Comune verso il pagamento di un corrispettivo stabilito dal Comune stesso sulla base di un decreto ministeriale. Questa norma dunque evidenzia chiaramente che, in mancanza della predetta convenzione, il vincolo del prezzo «segue il bene nei successivi passaggi di proprietà, a titolo di onere reale, con naturale efficacia indefinita».
Ne segue che la clausola del contratto preliminare nella quale sia stabilito un prezzo convenzionale superiore a quello “imposto” si intende affetta da nullità e automaticamente integrata con il prezzo “imposto”, ai sensi dell’articolo 1419 del Codice civile.
Si tratta infatti di una nullità parziale e cioè un vizio che concerne solo la specifica clausola contrattuale contraria a legge, senza estendersi all’intero contratto: con la conseguenza che alla clausola nulla si sostituisce ex lege la volontà della legge (ai sensi dell’articolo 1339 del Codice civile); nel caso specifico, la volontà del legislatore di non permettere speculazioni in sede di successiva rivendita a chi abbia approfittato di un regime di favore predisposto per agevolare (nell’acquisto dell’abitazione) i ceti meno abbienti e non per agevolare il conseguimento di plusvalenze da rivendita
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Tar Campania. Muri cinta. Distanze in libertà.
Muro di cinta o di contenimento? C'è una bella differenza: il primo rappresenta una mera recinzione e non risulta soggetto alle distanze minime fra costruzioni, il secondo serve a contenere il dislivello fra due fondi e dunque costituisce un'opera vera e propria, assoggettata al regime di concessione edilizia, con obbligo di demolizione in caso di inosservanza.

È quanto emerge dalla sentenza 11.09.2015 n. 1992, che è stata pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Salerno.
Tutela del territorio
Non ha buon gioco il proprietario del fondo nel tentativo di far demolire le opere realizzate dal vicino. È vero: soltanto il muro di cinta può essere considerato una mera pertinenza dell'immobile e dunque risultare sottratto al rispetto delle distanze legali. E ciò perché non altera la conformazione del terreno ma serve soltanto a delimitare e proteggere la proprietà privata, con eventuali abbellimenti.
Il muro di contenimento, invece, può ben essere utilizzato come recinzione ma costituisce comunque un'opera autonoma perché nasce per evitare danni in caso di frane.
Nella specie, tuttavia, la distinzione non è utile a dirimere la controversia: anche il muro di contenimento può sorgere sul confine se il terreno del vicino risulta «inedificato» e le norme di attuazione del piano urbanistico comunale sono ispirate al principio della prevenzione per la tutela del territorio rimandando alle disposizioni del codice civile. Spese di giudizio compensate per la peculiarità della questione (articolo ItaliaOggi del 30.09.2015).
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MASSIMA
2.- Il gravame è, per contro, tempestivo in relazione ai profili di doglianza attinenti l’autorizzazione alla variatio del progetto edificatorio, non essendo stata dimostrata (giusta il consueto canone probatorio, gravante sulla parte eccipiente) la effettiva risalenza temporale della relativa e piena percezione della concreta e specifica lesività delle opere assentite.
Siffatte doglianze si appuntano, in sostanza, sulla autorizzazione alla realizzazione, in asserita violazione del regime legale delle distanze, di un muro posto al confine con la proprietà del ricorrente.
Sul punto, l’intero apparato critico si fonda sul presupposto –diffusamente argomentato– della distinzione tra “muro di cinta” o “di recinzione” (concretante pertinenza dell’unità immobiliare e, come tale, sottratto, in assenza di autonomia sotto il profilo costruttivo, al rispetto delle distanze legali) e “muro di contenimento”.
Nella specie, a dispetto della qualificazione effettuata dall’interessato, si tratterebbe di un muro della seconda specie, in quanto finalizzato a contenere un dislivello non preesistente, ma frutto della contestata iniziativa edificatoria.
È noto, invero, giusta il diffuso orientamento giurisprudenziale in subiecta materia, che per muro di cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, comma 7, lett. c), d.l. 05.10.1993 n. 398, convertito con modificazioni in l. 04.12.1993 n. 493, e sostituito per effetto dell'art. 2, comma 60, l. 23.12.1996 n. 662, devono intendersi le opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è invece la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di contenimento”, i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso e quindi devono necessariamente presentare una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive.
Di conseguenza il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche una concomitante funzione di recinzione, sotto il profilo edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale; il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014, n. 1651).
Ne discende che,
in caso di dislivello derivante dall'opera dell'uomo, sono da considerare costruzioni in senso tecnico-giuridico, rientranti nell'art. 873 c.c., il terrapieno ed il relativo muro di contenimento, che lo abbiano prodotto, o che abbiano accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi; è pertanto illegittimo il provvedimento di accertamento di conformità richiesto con d.i.a. a sanatoria in relazione a lavori oggetto di d.i.a. in variante al permesso di costruire, ove venga in rilievo un muro di fabbrica -di altezza superiore a tre metri, e dunque non considerabile quale muro di cinta ex art. 878 c.c.- recante sostegno di un terrapieno e posto a una distanza dal confine laterale inferiore ai mt. 3 prescritta dall'art. 873 c.c. (in termini, TAR Lazio Latina, sez. I, 05.05.2014, n. 324).
Così posta la questione, la controversia andrebbe, in tesi astratta, risolta sull’accertamento, in punto di fatto, della effettiva natura e consistenza del muro oggetto del contestato provvedimento abilitativo (che parte ricorrente –assumendo artificialmente mutato il dislivello tra i fondi finitimi– ritiene, per l’appunto, muro di contenimento).
Tuttavia, osserva il Collegio come il punto, in concreto, non appaia nella specie decisivo, in quanto, ai sensi dell’art. 10 delle norme tecniche di attuazione del PUC di Caposele, per le zone B2, di completamento del tessuto urbano moderno la distanza dal confine risulta regolata con espresso richiamo alle disposizioni dettate in materia dal codice civile, le quali si ispirano e valorizzano il c.d. principio della prevenzione.
Con il che, in buona sostanza –essendo in concreto incontestato che il fondo di proprietà del ricorrente è, allo stato, inedificato– il muro in contestazione, quand’anche dovesse qualificarsi, per le sua concrete caratteristiche, nuova costruzione, potrebbe legittimamente essere collocato, come dal titolo, in contestazione, sulla linea di confine tra i fondi.

APPALTI: Sull'omissione da parte della stazione appaltante del rilascio del codice identificativo di gara (CIG) all'Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici (AVCP).
La stazione appaltante omettendo di richiedere all'Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici (AVCP) il rilascio del codice identificativo di gara (CIG) non ha violato la normativa sui contratti pubblici e dunque la nullità dell'intera procedura in quanto la sanzione della nullità deve essere espressamente prevista dalla legge e non può essere desunta in via d'interpretazione di provvedimenti attuativi.
Peraltro non si ritiene che la mancata indicazione di tale codice escluda l'obbligo dei partecipanti alla gara di provvedere al versamento di quanto dovuto a titolo di contributo a favore della predetta Autorità ed in ogni caso tale obbligo non è previsto a pena d'inammissibilità, sicché la sua inosservanza non determina l'invalidità della partecipazione alla procedura (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.09.2015 n. 809 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'applicabilità della disciplina dei contratti pubblici riguardo all'affidamento delle gestioni aeroportuali.
L'art. 30 del Codice dei Contratti esclude l'applicazione delle disposizioni del Codice alle concessioni di servizi salvo il rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali in materia di contratti pubblici ed inoltre fatte salve le discipline specifiche che prevedono forme più ampie di tutela della concorrenza.
Il D.lgs. n. 96/2005 -art. 3- modificativo del titolo III della parte II del Codice della Navigazione ed in particolare dell'art. 704, dispone però con riguardo all'affidamento delle gestioni aeroportuali, che la concessione è adottata su proposta dell'ENAC all'esito di selezione effettuata tramite procedura di gara ad evidenza pubblica secondo la normativa comunitaria, previe idonee forme di pubblicità.
Discende dal tenore letterale della disposizione l'applicabilità della disciplina dei contratti ad evidenza pubblica alle concessioni di gestione aeroportuale (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.09.2015 n. 809 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente in una gara pubblica che non abbia dichiarato le sentenze riportate risultanti dal casellario giudiziale.
E' legittima l'esclusione di un concorrente in una gara pubblica che, come nel caso di specie, non abbia dichiarato le sentenze riportate risultanti dal casellario giudiziale (sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta delle parti a due anni di reclusione e sospensione condizionale per il reato di bancarotta fraudolenta, sentenza passata in giudicato per violazione dei sigilli, violazione delle norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, violazione del TU delle leggi sanitarie), né la pendenza di altri carichi penali, con richiesta di rinvio a giudizio, di cui al relativo certificato.
Non è dubitabile, infatti, che le suddette condanne debbano essere ricomprese tra quelle considerate dall'art. 38, c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, e siano tali da incidere gravemente sulla affidabilità e sulla moralità professionale del soggetto, soprattutto se poste in relazione all'oggetto della procedura di gara, relativa all'affidamento di servizi in favore della collettività e da svolgersi su bene demaniale. Proprio l'oggetto della gara esclude la legittimità dell'affidamento ad un soggetto il cui legale rappresentante sia stato condannato per i su riportati reati, incidenti sulla correttezza personale e professionale del legale rappresentate della società concorrente.
Inoltre, la valutazione circa il requisito dell'affidabilità dell'impresa concorrente ad una gara pubblica è riservata all'Amministrazione, ed è frutto di una valutazione sulla quale il sindacato giurisdizionale deve mantenersi "sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti come ragioni del rifiuto" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2015 n. 4228 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Chi non fa tutto il possibile è negligente.
Sarà negligente l'avvocato che non svolge tutte le attività esigibili, in senso assoluto, per la tutela del cliente.

Lo hanno affermato i giudici della seconda sezione civile della Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la sentenza 08.09.2015 n. 17758.
Da una disamina degli atti processuali (opposizione a decreto ingiuntivo e atto di appello), secondo i giudici di piazza Cavour risultava che la domanda era stata fondata sulla responsabilità professionale dell'avvocato Tizio per la negligenza consistita nel non avere formulato domanda di mala gestio nei confronti di una società assicuratrice del danneggiante nel giudizio civile per danni da sinistro stradale in cui l'avvocato aveva rappresentato e difeso Caio, il quale aveva chiesto il consequenziale pregiudizio patrimoniale determinato dalla inadeguatezza del risarcimento liquidato per effetto della mancata rivalutazione del massimale assicurato.
A parere degli Ermellini siamo dinanzi ad un caso di perdita di chance, come corretta qualificazione giuridica della fattispecie concreta dedotta in giudizio, essendosi i Giudici (secondo il noto principio iura novit curia) limitati a inquadrare i fatti posti a base della domanda nella norma applicabile. Il caso sul quale gli Ermellini sono stati chiamati a esprimersi aveva come protagonista un avvocato (sopra denominato Tizio) che si era rivolto al Tribunale al fine di ottenere un decreto ingiuntivo contro il proprio cliente per il pagamento delle prestazioni professionali rese in una causa di risarcimento danni.
Il cliente Caio presentava opposizione al decreto evidenziando l'imperizia e la negligenza del professionista legale per non aver svolto nella causa di risarcimento alcuna domanda volta a far valere la responsabilità per mala gestio della compagnia assicurativa del danneggiante, risultando così fortemente ridotta l'entità del risarcimento ottenuto.
In prima istanza il Tribunale confermava il decreto ingiuntivo, ma successivamente la Corte d'appello considerava l'avvocato responsabile e liquidava il risarcimento in via equitativa, condannando l'assicurazione professionale del legale a manlevarlo e tenerlo indenne. Così, l'avvocato adiva alla Cassazione (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorso obbligatorio anche per le promozioni. Personale. Per il Consiglio di Stato deroghe possibili solo «adeguatamente motivate».
Il concorso è la via ordinaria non solo per le assunzioni pubbliche, ma anche per le “promozioni” di chi è già in organico.
Su questi presupposti il Consiglio di Stato, -Sez. V- con la sentenza 07.09.2015 n. 4139, ha annullato gli atti della Giunta regionale della Calabria con la quale era stata data copertura a circa mille posti di funzionario: non attraverso un ordinario concorso pubblico ma con una selezione verticale interamente riservata agli interni.
Il Consiglio di Stato richiama il principio più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale (da ultimo con la sentenza 227/2013) secondo la quale il concorso pubblico costituisce la regola ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi di uguaglianza (articolo 3), di imparzialità e di buon andamento (articolo 97).
I concorsi interni, o comunque le selezioni riservate agli interni, sono da considerare come eccezione al generale principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso. Anche la facoltà del legislatore di introdurre deroghe a questo principio deve essere delimitata in senso rigoroso: le deroghe sono legittime solo se funzionali al buon andamento dell’amministrazione e se ricorrono peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle.
Il Consiglio di Stato riconosce al concorso pubblico un ambito di applicazione particolarmente ampio: esso vale non solo per le ipotesi di assunzione di soggetti in precedenza estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche ai casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo.
Principio di particolare interesse è quello per il quale la scelta di effettuare selezioni verticali, in deroga al pubblico concorso, deve essere adeguatamente motivata e proporzionatamente vanno espresse le ragioni della deroga. Si tratta ora di valutare quali possano essere gli effetti di una decisione del genere, sia nei confronti della Regione parte del giudizio sia nei confronti delle altre Pa che abbiano deciso progressioni verticali con atti privi di adeguata motivazione o come spesso avvenuto senza alcuna motivazione.
Sugli effetti nei confronti della Regione interessata è dei più l’opinione che l’attuale prestazione lavorativa sia priva di titolo: l’effetto di novazione del contratto di lavoro che segue alla verticalizzazione cade con l’annullamento giudiziale degli atti a monte derivante dalla sentenza definitiva.
In materia va richiamato il contratto nazionale di Regioni ed enti locali, il cui articolo 14 precisa che «è, in ogni modo, condizione risolutiva del contratto, senza obbligo di preavviso, l’annullamento della procedura di reclutamento che ne costituisce il presupposto». In altri termini, una volta annullati giudizialmente gli atti amministrativi posti a monte dell’avvenuta assunzione, il contratto di lavoro dei dipendenti dovrebbe essere risolto. Salvo a voler discutere e interpretare il termine «procedura di reclutamento» come attinente solo alla prima costituzione di un rapporto di lavoro, tesi in verità di difficile dimostrazione essendo da sempre la verticalizzazione una novazione del contratto e una nuova assunzione.
Sulle altre Pa, invece, un atto di autotutela amministrativa sarebbe in contrasto con il principio (legge Madia) per il quale l’annullamento d’ufficio venga effettuato entro 18 mesi e non più entro «un tempo ragionevole». Ragionevole lasso di tempo che nel caso di specie (le progressioni sono per lo più sino al 2009) sarebbe anche poco dimostrabile. Malgrado le perplessità però, come fatto per i dirigenti delle Entrate potrebbe essere cercata una soluzione legislativa: i funzionari interessati hanno fatto affidamento sulla correttezza della procedura adottata, e ora si vedono retrocessi dopo circa 12 anni, per un difetto di motivazione del quale, probabilmente, sarà difficile trovare il responsabile.
E questa soluzione, difficilmente potrà essere in una legge regionale, palesemente incostituzionale (la materia è di diritto civile) per violazione dell’articolo 117 della Costituzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2015).
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MASSIMA
4. L’appello è fondato.
4.1. La giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 227 del 2013, n. 90 e n. 62 del 2012, n. 310 e n. 299 del 2011) ha più volte ribadito che
il concorso pubblico costituisce la modalità ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi costituzioni di uguaglianza (art. 3) ed i canoni di imparzialità e di buon andamento (art. 97) e che pertanto i concorsi interni sono da considerare come eccezione al principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso.
In tal senso anche
la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al predetto principio deve essere delimitata in senso rigoroso, potendo tali deroghe considerarsi legittime soltanto allorquando siano funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ricorrano altresì peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle (sent. n. 95, n. 150 e n. 100 del 2010, n. 293 del 2009).
E’ stato precisato inoltre che al principio del concorso pubblico “
…deve riconoscersi un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non istaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo” (Corte Cost. 12.04.2012, n. 90): come ha sottolineato Cons. St., sez. IV, 25.06.2013, n. 3438, ciò “…implica che la valutazione delle necessità eccezionali, tali da escludere il ricorso alle procedure ordinarie, può essere giustificata solo in collegamento con altre esigenze di pari rango costituzionale, spesso richiamate dalla Corte, quando afferma che il principio del pubblico concorso non è <incompatibile, nella logica dell’agevolazione del buon andamento della pubblica amministrazione, con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione> (Corte Costituzionale 10.11.2011, n. 299).
Secondo la ricordata sentenza di questo Consiglio di Stato “
…la salvaguardia della legittimità ordinamentale dei concorsi interni, nei limiti complessivi quantitativi e qualitativi delineati dalla giurisprudenza costituzionale, passa necessariamente attraverso la valutazione dei criteri utilizzati per la selezione e rende ammissibile una selezione concorsuale riservata solo in quanto i criteri utilizzati siano effettivamente compatibili con il consolidamento dell’esperienza maturata all’interno della stessa pubblica amministrazione
”.
Proprio insistendo sull’obbligo dell’amministrazione di rispettare il principio del concorso pubblico quale mezzo ordinario di accesso al pubblico impiego, anche per quanto attiene i passaggi a qualifiche funzionali superiori e sottolineando che il concorso pubblico costituisce un meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito, è stato evidenziato che esso rappresenta un ineludibile presidio delle esigenze di trasparenza e di efficienza dell’azione amministrativa e che di conseguenza le eccezioni a tale regole possono essere disposte solo con legge e debbono rispondere a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico, risolvendosi altrimenti la deroga in un inammissibile privilegio in favore di categorie più o meno ampie di persone (Cons. St., sez, V, 22.03.2012, n. 1625).

PATRIMONIO: Sul demanio marittimo spazio ai giudici ordinari.
La controversia concernente la determinazione dei canoni per la concessione delle aree del demanio marittimo spetta alla giurisdizione del giudice ordinario salvo che nella causa non assumono rilievo provvedimenti autoritativi della pubblica amministrazione di cui si chieda in via principale la valutazione al giudice adito per la eventuale disapplicazione o annullamento.

Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 07.09.2015 n. 803.
Il caso sul quale sono stati chiamati ad esprimersi i giudici amministrativi bolognesi vedeva Tizio ricorrente, titolare di una concessione demaniale marittima, che impugnava alcuni provvedimenti della pubblica amministrazione contestando il pagamento del canone per l'anno 2007, rideterminato dall'amministrazione, con efficacia retroattiva, in applicazione dei nuovi criteri stabiliti dall'articolo 1, comma 251, della legge 296 del 2006, e ne deduceva l'illegittimità.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato che contro deduceva alle avverse doglianze eccependo, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. In seguito alla presentazione del ricorso il Comune rettificava la richiesta di canone avendo applicato erroneamente su tutta la superficie della pertinenza demaniale marittima il canone per l'attività commerciale, terziario e direzionale calcolando, conseguentemente, il coefficiente maggiorato previsto dalla legge soltanto per la superficie di mq 22,09 riconoscendo per questa parte, la fondatezza della pretesa azionata.
Tale rettifica andava a ridimensionare enormemente la richiesta di aggiornamento del canone e determinava la parziale sopravvenuta cessazione della materia del contendere.
Il tribunale amministrativo accoglieva, quindi, l'eccezione della difesa dell'amministrazione intimata, e dichiarava il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, essendo competente sulla controversia in esame il giudice ordinario, previa declaratoria parziale della sopravvenuta cessazione della materia del contendere nei termini sopra indicati.
Pertanto il giudizio sarà riassunto davanti al giudice ordinario in applicazione della regola della translatio judicii di cui all'articolo 11 del c.p.a. (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTI: Appalti, azienda risarcita per la perdita di tempo.
Scatta il danno da tempo perso per l'azienda rimasta sospesa per la gara prima bandita e poi annullata in autotutela dall'ente. Si configura la responsabilità extracontrattuale in capo alla stazione appaltante, costretta a «rimangiarsi» la procedura a evidenza pubblica rivelatasi illegittima fin dall'inizio.
L'impresa risultata vincitrice del bando, in seguito cancellato per un vizio dalla stessa amministrazione, ha diritto al risarcimento perché ha comunque interesse a non essere coinvolta in trattative inutili, perdendo tempo e denaro, laddove la procedura pubblica è destinata a non andare a buon fine per la condotta scorretta dell'amministrazione pubblica.

È quanto emerge dalla sentenza 02.09.2015 n. 11008, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma.
Buona fede. L'interesse negativo dell'impresa fa scattare il ristoro del danno emergente e del lucro cessante: il primo per le spese sostenute ai fini della partecipazione alla gara e in previsione della stipulazione del contratto, il secondo per la perdita di ulteriori occasioni contrattuali.
Anche le pubbliche amministrazioni hanno infatti il dovere di comportarsi secondo buona fede, sia nelle mere trattative negoziali sia nell'ambito degli appalti pubblici. E dunque si configura l'obbligo di ristoro quando l'ente è costretto ad annullare la procedura per un suo errore. Nella specie non è rifuso all'impresa il lucro cessante perché non risulta provato.
Né possono essere risarcite le voci di danno che fanno riferimento all'interesse positivo in quanto riguardano le utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).
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MASSIMA
7. Parte ricorrente ha infine criticato, in sé, l’esercizio del potere di autotutela, in quanto non sarebbe stato palesato l’interesse pubblico ad esso sotteso, né si sarebbe tenuto conto dell’affidamento ingenerato nei soggetti utilmente collocati in graduatoria.
L’amministrazione, inoltre, non avrebbe considerato che l’opzione alternativa alla gara annullata (presumibilmente, l’affidamento di una concessione di lavori), sarebbe più costosa, e, comunque, non adeguata alle finalità perseguite.
7.1. Circa la pretesa insussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’intera gara, giova ricordare che è del tutto consolidato nella giurisprudenza amministrativa l’orientamento secondo cui,
in relazione alle procedure selettive per l'affidamento di lavori, servizi e forniture, l'amministrazione conserva il potere di annullare in autotutela il bando, le singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi vizi dell'intera procedura.
Tale potere di autotutela “trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, [...] in attuazione dei quali l'amministrazione deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire, fermo l'obbligo nell'esercizio di tale delicato potere, anche in considerazione del legittimo affidamento eventualmente ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di fornire un'adeguata motivazione in ordine alle ragioni che giustificano la differente determinazione e di una ponderata valutazione degli interessi, pubblici e privati, in gioco (così Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2011 n. 5032).
Orbene, nel caso di specie, gli atti di gara sono radicalmente inficiati dall’assenza, a monte, dell’esatta individuazione dell’oggetto dell’affidamento, e quindi degli stessi “necessari contenuti per l’individuazione e descrizione dell’intervento” nonché della “consistenza e tipologia del servizio previsto in modo da garantire l’omogeneità e la comparabilità nella valutazione delle offerte più vantaggiose per l’amministrazione”.
E’ evidente, pertanto, che le ragioni di pubblico interesse risiedono nella necessità di ripristino delle condizioni ottimali di funzionamento dei meccanismi concorrenziali, a partire dall’elaborazione di un bando legittimo e rispondente agli scopi perseguiti dall’amministrazione.
Allo stato, inoltre, non è possibile sapere con quali modalità l’amministrazione capitolina intenda perseguire gli obiettivi di riqualificazione dei parchi pubblici cittadini.
Si tratta, peraltro, di scelte che attengono al merito dell’azione amministrativa, di talché le affermazioni di parte ricorrente circa l’illegittimità e/o convenienza di una eventuale nuova gara, tesa all’affidamento di una concessione di lavori pubblici, risultano inconferenti.
7.2.
Relativamente all’esigenza, esplicitata dall’art. 21–nonies della l. n. 241/1990, che l’annullamento intervenga entro un “termine ragionevole”, giova ricordare che la norma ha introdotto “un parametro indeterminato ed elastico [...] finendo così per lasciare all'interprete il compito di individuarlo in concreto, in considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il canone costituzionale di ragionevolezza (così in termini, TAR Campania, Napoli, sez. I, 09.10.2013, n. 4529).
Tale disposizione, entrata in vigore per effetto della novella di cui alla l. n. 15 del 2005, in quanto contenuta in una norma successiva, recante la disciplina organica dell'istituto, prevale sulla disposizione speciale e più restrittiva, inserita nell'art. 1, comma 136, della legge finanziaria n. 311 del 2004.
Da ciò consegue, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, che
il decorso di tre anni di efficacia del provvedimento illegittimo non preclude alla p.a. l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
Nel caso oggi in rilievo va poi considerato che, nel momento in cui è stato avviato il procedimento di autotutela, la convenzione di concessione non era stata ancora stipulata.
Inoltre, la stessa definizione degli interventi, per effetto delle prescrizioni progettuali e dei pareri richiesti alle Soprintendenze statali, era, sostanzialmente, ancora in fieri.
Pertanto,
nessun affidamento poteva essersi realmente consolidato in capo ai vincitori, non essendosi ancora prodotti concreti effetti ampliativi della loro sfera giuridica o, comunque, tali da meritare di essere bilanciati con l’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere di autotutela (cfr., ex plurimis, Cons. St., sentenza n. 5609 del 14.11.2014).
8. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso, nella parte impugnatoria, deve essere respinto.
9. Rimane a questo punto da scrutinare la domanda di risarcimento del danno.
Tra le domande prospettate da parte ricorrente, il Collegio reputa fondata quella, subordinata, relativa al risarcimento del danno precontrattuale.
Al riguardo, valga quanto segue.
9.1. E’ noto che,
nei procedimenti ad evidenza pubblica, può configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per lesione dell’interesse legittimo derivante dalla illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità di tipo precontrattuale, per violazione di norme imperative che pongono regole di condotta, da osservarsi durante l’intero svolgimento della procedura (Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4674 del 15.09.2014).
Secondo costante giurisprudenza (cfr. Cass. SS.UU. 12.05.2008, n. 11656, richiamata da Cons. St., sez. VI, sentenza n. 633 del 01.02.2013),
la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non già sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali e, pertanto, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
In sostanza,
anche i soggetti pubblici, sia nell’ambito di trattative negoziali condotte senza procedura di evidenza pubblica, sia nell’ambito di procedure di gara, sono tenuti ad improntare la propria condotta al canone di buona fede e correttezza scolpito nell'art. 1337 c.c., omettendo di determinare nella controparte privata affidamenti ingiustificati ovvero di tradire, senza giusta causa, affidamenti legittimamente ingenerati.
Tale canone si specifica in una serie di regole di condotta, tra le quali l'obbligo di valutare diligentemente le concrete possibilità di positiva conclusione della trattativa e di informare tempestivamente la controparte dell'eventuale esistenza di cause ostative rispetto a detto esito (TAR Lazio, sez. II, sentenza n. 488 del 19.01.2011; cfr. anche, Cons. St., A.P., 05.09.2005, n. 6; Cass. S.U. 12.05.2008, n. 11656).
Nel caso di responsabilità precontrattuale, il danno risarcibile è commisurato non all’interesse positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto) ma al c.d. interesse negativo, da intendersi come interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, o, comunque, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative destinate a rivelarsi inutili a causa del comportamento scorretto della controparte.
In tale prospettiva,
non possono essere risarcite le voci di danno che fanno riferimento all’interesse positivo in quanto esse attengono, appunto, alle utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto.
L’interesse negativo include poi sia il danno emergente (per le spese sostenute ai fini della partecipazione alla gara e in previsione della stipulazione del contratto), sia il lucro cessante, dovuto alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, sfumate a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione, non sfociata nella stipulazione, o, comunque in ragione dell’affidamento nella positiva conclusione del procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, sentenza n. 6406 del 29.12.2014).
9.2. Ciò posto, nel caso di specie, deve rilevarsi la sussistenza di una fattispecie di responsabilità precontrattuale ascrivibile all’amministrazione capitolina.
E’ infatti incontestabile che la ricorrente sia stata coinvolta, per più di 4 anni, in una procedura che, sin dall’origine, era da considerarsi invalida, per fatto imputabile all’ente, e che, per tale ragione, è stata poi legittimamente annullata.
La condotta colposa dell’amministrazione si è concretizzata sia nell’indizione di una gara “contra legem” sia nell’induzione dei partecipanti a confidare nel fisiologico sviluppo della gara e dei suoi esiti finali.
Né, ad avviso del Collegio, può ipotizzarsi una sorta di concorso colposo dell’impresa ricorrente per avere partecipato ad una procedura di cui doveva conoscere l’illegittimità, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1338 c.c., secondo cui “
La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”.
Rileva infatti, al riguardo “
il fondamentale principio di legittimità degli atti amministrativi e di affidamento nella regolarità negoziale della p.a., tanto più in una materia connotata da spiccato tecnicismo quale quella dei contratti pubblici” (così, ad esempio, il TAR Campania, sez. I, sentenza n. 6461 del 10.12.2014).
Per quanto riguarda la quantificazione del danno, si è già evidenziato che
l'unico danno risarcibile attiene all'interesse negativo vantato dal soggetto a non esser coinvolto in fasi prenegoziali inutili, nel duplice aspetto del danno emergente, costituito dalla spese inutilmente sostenute per la partecipazione alla gara, e del lucro cessante, rappresentato dal valore delle occasioni di lavoro perdute in seguito alla partecipazione stessa.
Viceversa, non può essere richiesto il danno da esecuzione del contratto (che non vi è stato), né il danno cd. curriculare il quale presuppone l'aggiudicazione e l'esecuzione della prestazione contrattuale, attenendo entrambi all'interesse positivo
Nel caso di specie, in favore della società istante può essere riconosciuto soltanto il danno emergente costituito dalla spese inutilmente sostenute per la partecipazione alla gara, non essendo stato fornito alcun principio di prova in ordine al lucro cessante
Tale prova avrebbe dovuto essere data, quantomeno, attraverso l’allegazione di proposte contrattuali sfumate a causa dell’impegno richiesto dalla partecipazione alla gara successivamente annullata.
Relativamente al risarcimento del danno emergente, il Collegio reputa opportuno, in applicazione dell’art. 34, comma 4, del c.p.a., affidare alla stessa amministrazione capitolina il compito di quantificare la somma dovuta, commisurandola alle spese che parte ricorrente avrà cura di comprovare attraverso la presentazione di idonea documentazione (fatture quietanzate, bonifici bancari etc..).
A tale somma –che ha natura risarcitoria e costituisce un debito di valore– dovranno poi essere aggiunti gli importi della rivalutazione e gli interessi legali sulla somma rivalutata.
La rivalutazione dovrà essere computata a partire dal concretizzarsi dell’evento dannoso, consistente nella definitiva perdita delle somme investite per effetto del provvedimento di autoannullamento.
Le somme così quantificate dovranno essere liquidate dall’amministrazione capitolina nel temine di novanta giorni dalla comunicazione e/o notificazione, della presente sentenza.
10. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso deve essere respinto, nella parte impugnatoria, mentre merita accoglimento, nei limiti precisati, la domanda di risarcimento del danno precontrattuale.

INCARICHI PROFESSIONALI: Risarcimenti ampi per i legali. Si deve tenere conto dei redditi dello studio associato. CASSAZIONE/ Il caso del professionista assente da lavoro per un sinistro stradale.
Se l'avvocato è costretto ad abbandonare temporaneamente la professione, a causa di un sinistro stradale, l'eventuale risarcimento dovrà conteggiarsi tenendo contro anche dei redditi dello studio associato.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 31.08.2015 n. 17294.
Il thema decidendum aveva ad oggetto il seguente caso: un avvocato aveva convenuto in giudizio il signor Tizio e la Beta S.p.A., compagnia assicuratrice del convenuto, al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, cagionato dall'incapacità di svolgere l'attività professionale in termini equivalenti al periodo antecedente il sinistro, oltre che dei danni non patrimoniali.
L'avvocato sosteneva di essere stato investito da Tizio mentre stava attraversando sulle strisce pedonali e conseguentemente di aver subito gravi lesioni.
Il Tribunale con sentenza, in considerazione dell'esclusiva responsabilità di Tizio, condannò i convenuti Tizio e Beta S.p.A.), in solido tra loro, al pagamento in favore dell'avvocato della somma di euro 102.735,00 dedotto quanto già percepito, oltre interessi e rivalutazione.
La Corte d'appello con sentenza riduceva la somma.
L'avvocato si rivolgeva, quindi, ai giudici di piazza Cavour.
Secondo i giudici della Suprema corte in tema di risarcimento del danno da lucro cessante conseguente a un sinistro stradale, le dichiarazioni dei redditi hanno efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 39 del 1977, e inoltre il lucro cessante riconosciuto all'avvocato non dovrà essere determinato sulla base dei soli redditi professionali derivanti dalla attività svolta come singolo professionista, ma sarà necessario considerare quelli derivanti dall'attività svolta in forma associata che ugualmente rientrano tra i redditi cui fare riferimento (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

APPALTI SERVIZI: Discrezionalità tecnica alla stazione appaltante.
La stazione appaltante esercita una discrezionalità tecnica nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento di un appalto e più in generale nell'imposizione di specifiche tecniche, ma non può ledere il principio di concorrenza.

Ad evidenziarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Liguria con la sentenza 27.08.2015 n. 727.
È stato altresì sottolineato che tale discrezionalità tecnica incontra i limiti di cui all'art. 68, comma 2, dlgs 163/2006 costituiti dal rispetto della parità di accesso agli offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli ingiustificati alla concorrenza, infatti eventualmente imporre specifiche tecniche che possano risultare particolarmente gravose e sproporzionate rispetto all'oggetto dell'appalto potrebbe risolversi in una lesione della concorrenza.
Si afferma, inoltre, che in casi in cui si rendano particolarmente necessarie alcune decisioni volte all'imposizione di determinate specifiche tecniche, è opportuno che la pubblica amministrazione ne motivi, congruamente, le ragioni.
In conclusione, quindi, l'amministrazione non può imporre, in assenza di adeguata motivazione, l'impiego di particolari attrezzature e mezzi il cui approvvigionamento appare potenzialmente lesivo della concorrenza. I giudici amministrativi liguri hanno, poi, affrontato il tema dell'art. 134 del dlgs 163/2006 teso a disciplinare la facoltà dell'amministrazione di recedere in qualunque tempo dal contratto, previo pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere oltre al decimo delle opere non eseguite.
Si è osservata che la norma è dettata per gli appalti di lavori, e gli appalti di servizi, ed occorre rilevare come una eventuale clausola che vada, quindi, a configurare un'ipotesi di condizione risolutiva espressa, con eventuale palese richiamo all'art. 1353 c.c. contenuto nel testo della clausola stessa, non determinerebbe il venir meno del rapporto contrattuale per effetto di una nuova valutazione dell'interesse pubblico, secondo il paradigma dell'art. 134 dlgs 163/2006, ma al verificarsi di un evento futuro ed incerto preventivamente individuato.
Ciò andrebbe ad escludere la sussistenza di quelle esigenze di tutela che sono alla base della previsione di cui all'art. 134, dlgs 163/2006 (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il «doppio voto» va giustificato. Selezioni. Da indicare nel verbale le ragioni per cui il primo giudizio è stato modificato.
Il punteggio assegnato nel corso-concorso può essere modificato solo sulla base di una specifica motivazione; l’operato di una commissione composta solo da uomini porta all’annullamento del concorso se si dimostra che vi sono state discriminazioni; occorre comunicare ai candidati i punteggi ottenuti negli scritti e nella valutazione dei titoli prima degli orali, e le commissioni devono adottare i criteri per l’assegnazione dei punteggi ai titoli prima di acquisire l’elenco delle domande.
Sono queste le principali indicazioni dettate recenti sentenze del Consiglio di Stato n. 3959/2015, 2584/2015 e 3340/2015.
Con la sentenza 20.08.2015 n. 3959 della V Sez. del Consiglio di Stato si ribadisce in primo luogo la competenze dei giudici amministrativi sull’esame dei contenziosi sulle progressioni verticali, qualunque sia la loro forma, compresi i corsi-concorso di riqualificazione.
Assumono notevole importanza le indicazioni dettate sul doppio voto, cioè sulla scelta della commissione di assegnare inizialmente un punteggio e poi di variarlo. Questi comportamenti possono essere giudicati come legittimi se nei verbali risultano le ragioni a base della scelta, per cui occorre preoccuparsi in primo luogo di darne espressamente conto nel verbale; tra le motivazioni può sicuramente essere compresa la revisione a seguito del completamento dell’esame «degli altri elaborati per consentire un unico metro di valutazione».
Sulla composizione della commissione viene chiarito che, ove non vi ostino le disposizioni regolamentari, sono legittime tanto la composizione prevalentemente esterna, quanto l'affidamento della presidenza a un non dipendente, quanto la suddivisione in subcommissari. Viene stabilito inoltre che la composizione della commissione senza rispettare l’equilibrio di genere non determina di per sé la illegittimità del concorso, salvo che si rilevi «una condotta discriminatoria in danno dei concorrenti di sesso femminile». Ed inoltre, in caso di rinnovazione della composizione, si possono confermare gli stessi componenti, tranne che siano state mosse censure sull’operato della commissione o anche di suoi singoli componenti.
Infine la sentenza ha ribadito l’ampiezza della sfera dell’apprezzamento discrezionale delle valutazioni delle commissioni: esso può essere censurato solamente dimostrandone la irragionevolezza o illogicità, ma comunque senza entrare nel merito.
Con la sentenza 22.05.2015 n. 2584 della V Sez. del Consiglio di Stato è stato stabilito che si deve dare comunicazione ai candidati dei punteggi provvisori ottenuti. Alla base di questo vincolo l’esigenza di consentire agli stessi di “calibrare” la propria preparazione e di dare garanzia che i punteggi siano stati attribuiti nel rispetto della scansione prevista dal bando, dando così corso ad una forma di controllo.
La sentenza 07.07.2015 n. 3340 della V Sez. del Consiglio di Stato ha stabilito che la valutazione dei titoli deve essere effettuata dalla commissione, sulla base dei criteri fissati dal bando e delle modalità di applicazione, intesa come “facoltà discrezionale di suddividere il punteggio nell’ambito delle già prefissate categorie di titoli”, che la stessa si è data, prima di acquisire l’elenco dei partecipanti al concorso. E ciò per evitare che le loro scelte possano essere influenzate dalla conoscenza di tali nomi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Uffici trasparenti solo se c'è vero interesse.
In tema di accesso agli atti l'esibizione dei documenti è strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante, al fine di impedire che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della p.a..

Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. del TAR Campania-Salerno, con la sentenza 18.08.2015 n. 1805.
Inoltre i giudici amministrativi campani hanno osservato, in ossequio anche con un consolidato orientamento giurisprudenziale (si veda: Tar Palermo, Sicilia, sez. II, 24.03.2015, n. 725), che l'istanza di accesso deve essere riferita a documenti caratterizzati da specificità e già esistenti e non può pertanto comportare la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
Secondo il collegio salernitano, quindi, tale principio deve essere esteso anche a quel caso in cui i documenti richiesti già esistano, ma per la mole degli atti richiesti e per i criteri della richiesta, viene imposta alla pubblica amministrazione un'attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un'attività preparatoria di elaborazione di dati.
E inoltre, nei procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi, l'esercizio del relativo diritto non potrà che riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche quelli mai formati (o comunque non rinvenuti), spettando alla pubblica amministrazione destinataria della richiesta d'accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali siano gli atti inesistenti che non è in grado d'esibire (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).
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MASSIMA
RITENUTO che:
- il ricorso va respinto nella parte in cui si contesta il diniego dell’istanza di accesso n. 1, con la quale si intende accedere “alle ultime cinquanta pratiche di repressione degli abusi istruite e sottoscritte dall’arch. Ad.Ni.”, in quanto
l’ordinamento prevede che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante al fine di impedire che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.;
- depone in senso preclusivo di tale possibilità la disposizione contenuta nell'art. 24, comma 3, l. n. 241 del 1990, a mente del quale "non sono ammissibili istanze di accesso, preordinate ad un controllo generalizzato delle pubbliche amministrazioni";
- l’istanza n. 1 del 03.02.2015, per come formulata (in essa si chiede di conoscere plurime e svariate circostanze afferenti alle ultime cinquanta pratiche edilizie, quali la richiesta di protocollazione dell’atto alla Segreteria Generale, i tempi, il sopralluogo, ecc.), non consente di cogliere il suddetto profilo di interesse in termini di necessaria concretezza, essendo finalizzata a verificare il comportamento dell’arch. Ni. in un numero rilevante di pratiche edilizie,
il che si traduce in una finalità di mero controllo dell’operato della p.a. anche in considerazione dell’elevato numero di documenti richiesti;
- tale ultima circostanza assume autonomo rilievo, in quanto “
l’istanza di accesso deve riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può pertanto comportare la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta. Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i documenti richiesti già esistono, ma per la mole degli atti richiesti e per i criteri della richiesta, viene imposta all'amministrazione un'attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un'attività preparatoria di elaborazione di dati” (cfr. TAR Palermo, Sicilia, sez. II, 24.03.2015, n. 725);
- in ordine alla istanza di accesso n. 2 del 03.02.2015, assecondata dall’Amministrazione sua sponte per gli atti sub 1)-4) (ad esclusione della nota a firma dell’arch. Fo.Ma. circa la sua incompatibilità), sussistono i presupposti per l’accoglimento del ricorso, ai fini della presa visione ed estrazione copia della pratica relativa al permesso di costruire in sanatoria in favore del sig. Gi.Ma. (p.d.c. n. 3497 del 14.02.2013), avendo il ricorrente, rispetto a tale documentazione, lumeggiato il profilo di interesse, evidenziando che “attiene a caso analogo a quello dell’opificio di sua proprietà risolto mediante interramento della linea del fabbricato che fuoriusciva –rispetto al progetto assentito– dalla linea del terreno”, secondo le prospettazioni difensive rese nel corso del giudizio risarcitorio promosso dallo stesso ricorrente;
- in ordine alla su citata nota dell’arch. Fo., non rinvenuta agli atti del fascicolo, vale ad escludere la fondatezza della pretesa azionata il principio "ad impossibilia nemo tenetur", di guisa che
nei procedimenti d'accesso ai documenti amministrativi l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine d'esibizione impartito dal giudice) non può che riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, i documenti esistenti e non anche quelli mai formati (o comunque non rinvenuti), spettando alla p.a. destinataria dell'accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali siano gli atti inesistenti che non è in grado d’esibire (TAR Parma, Emilia-Romagna, sez. I 28.07.2014 n. 344);
CONSIDERATO che, per l'effetto, entro tali limiti, il Comune di Castellabate vada condannato a consentire, nel termine di quindici giorni decorrenti dalla notifica della presente sentenza, l'accesso alla richiesta documentazione, mediante estrazione di copia a spese del ricorrente.

APPALTI SERVIZI: Tar Abruzzo. L'affidamento in house non è ipotesi residuale.
L'affidamento diretto in house non si configura assolutamente come un'ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi pubblici locale.

A sottolinearlo, in ossequio anche ad un precedente giurisprudenziale, sono stati i giudici del TAR Abruzzo-Pescara con la sentenza 14.08.2015 n. 349.
Secondo i giudici amministrativi abruzzesi nel motivare la scelta della gestione in proprio, l'amministrazione non è tenuta a dimostrare che ciò corrisponda a un prezzo del servizio in assoluto il più conveniente, potendo la stessa ritenere che il controllo analogo che gli è assicurato compensi adeguatamente -in termini di qualità del servizio, poteri di controllo sulla gestione e condivisione delle problematiche in tendenziale assenza di conflitti di interesse- una eventuale maggior spesa.
Una simile valutazione ovviamente presuppone la considerazione dei vari fattori che entrano in essa, senza l'indicazione dei quali le ragioni complessive della scelta non potranno in alcun modo emergere.
Già il Consiglio di stato (Sez. V, 10.09.2014 n. 4599) aveva avuto modo di evidenziare come i servizi pubblici locali aventi rilevanza economica possono essere gestiti ugualmente mediante il mercato (ossia individuando all'esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una «gara a doppio oggetto» per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne sostituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo.
È stato altresì sottolineato che in quest'ultimo caso saranno in capo a tale soggetto diverso dall'ente «i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) “analogo” (a quello che l'ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l'ente o gli enti che la controllano (sentenza della Corte cost. n. 199 del 20.07.2012)».
È noto, inoltre, che la decisione di un ente pubblico di affidare la concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell'affidamento diretto, in house, rappresenta una scelta ampiamente discrezionale, che, però, deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano.
Tale scelta, inoltre, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non appaia manifestamente priva di istruttoria e motivazione, viziata da travisamento dei fatti, palesemente illogica o irrazionale (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).
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3 - Seguendo l’ordine dei motivi di ricorso, con il primo [Violazione e falsa applicazione dell'art. 34, comma 20, del d.l. n. 179/2012. Violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990. Eccesso di potere sotto il profilo della carenza istruttoria] la ricorrente sostiene che il Comune, violando la norma richiamata, “non ha dimostrato in alcun modo la rispondenza della società Ecolan al modello in house providing” né ha dato adeguatamente conto della economicità della scelta.
Il Collegio ritiene di richiamare taluni condivisi principi elaborati dalla giurisprudenza in modo da individuare l’estensione dell’obbligo di motivazione oggetto di tale motivo.
I servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando all'esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una 'gara a doppio oggetto' per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne sostituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest'ultimo i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) 'analogo' (a quello che l'ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l'ente o gli enti che la controllano (sentenza della Corte Cost. n. 199 del 20.07.2012).
L'affidamento diretto, in house -lungi dal configurarsi pertanto come un'ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi pubblici locale- costituisce invece una delle (tre) normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell'affidamento diretto, in house (sempre che ne ricorrano tutti i requisiti così come sopra ricordati e delineatisi per effetto della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza), costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti
” (Cons. Stato, Sez. V, 10.09.2014 n. 4599);
Venuto meno l'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 per scelta referendaria, e dunque venuto meno il criterio prioritario dell'affidamento sul mercato dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e l'assoluta eccezionalità del modello in house, la scelta dell'ente locale sulle modalità di organizzazione dei servizi pubblici locali, e in particolare la opzione tra modello in house e ricorso al mercato, deve basarsi sui consueti parametri di esercizio delle scelte discrezionali, vale a dire:
- valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti;
- individuazione del modello più efficiente ed economico;
- adeguata istruttoria e motivazione.
Trattandosi di scelta discrezionale, la stessa è sindacabile se appaia priva di istruttoria e motivazione, viziata da travisamento dei fatti, palesemente illogica o irrazionale
” (Cons. Stato, Sez. VI, 11.02.2013 n. 762).
In questo contesto (il “Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche” emerge ora dall’art. 2 direttiva “concessioni” 2014/23/UE) va letto il co. 20 dell’art. 34 cit., che richiede che la decisione sia preceduta dalla verifica della “sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo” e ne siano esposte “le ragioni”, così richiamando i consueti parametri su cui deve basarsi l’esercizio delle scelte discrezionali.
L’apposita relazione ha perciò lo scopo di rendere trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno dell’affidataria una società in house, quanto i processo di individuazione del modello più efficiente ed economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Stretta sui residui in betoniera. Il calcestruzzo in esubero è considerato tra i rifiuti. La Cassazione esclude dai sottoprodotti le forniture in eccesso respinte dal cliente.
Anche il materiale in esubero che resta nelle betoniere dopo una fornitura di calcestruzzo costituisce, al pari di quello proveniente dalle successive operazioni di lavaggio dei mezzi di trasporto, rifiuto ai sensi del Codice ambientale.

Questo il principio di diritto veicolato dalla sentenza 06.08.2015 n. 34284 della Corte di Cassazione - Sez. fer. penale, pronuncia con la quale il giudice di legittimità ha negato la qualifica di sottoprodotto al suddetto «calcestruzzo in esubero», lasciandolo nel novero dei rifiuti con i connessi oneri gestori a carico dei relativi produttori e detentori.
Alla base della sentenza le attività di gestione effettuate da un impianto di produzione di calcestruzzo sul materiale residuo riportato dalle proprie betoniere in sede all'esito della consegna del relativo carico perché ritenuto dal cliente in eccesso.
Per la Corte di cassazione le operazioni di trattamento (tra cui separazione, essicazione e frantumazione delle componenti) dei residui finalizzati al loro riutilizzo costituisce infatti attività di gestione dei rifiuti, non ricorrendo tutte le condizioni per inquadrarli nella diversa disciplina derogatoria riservata ai sottoprodotti dal dlgs 152/2006.
Il contesto normativo. In base al Codice ambientale sono infatti considerati sottoprodotti (e dunque non soggetti agli stringenti adempimenti dei rifiuti) unicamente le sostanze e gli oggetti che soddisfano (alla luce dell'ultima novella introdotta dal dlgs 205/2010) tutte le condizioni generali ex articolo 184-bis, comma 1, del dlgs 152/2006 o che rispetta i particolari criteri stabiliti (ex successivo articolo 184-bis, comma 2, dello stesso Codice sulla base delle predette condizioni) da parte del legislatore per specifiche categorie di residui (tra cui, a oggi, non figura il calcestruzzo).
In base alle suddette condizioni generali del dlgs 152/2006 (e sulle quali è fondata la ricognizione in questione della corte di Cassazione) sono sottoprodotti solo i residui: originati da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione; il cui riutilizzo è certo, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; ancora, il cui riutilizzo è diretto, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; infine, il cui utilizzo è legale, ossia ha a oggetto beni che soddisfano i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente senza comportare su di essi impatti complessivi negativi.
Le condizioni ex dlgs 152/2006: il processo produttivo. La nuova sentenza 34284/2015 rileva innanzitutto che detto «calcestruzzo in esubero» non è un output «secondario» del processo di produzione (come chiesto dall'articolo 184-bis, comma 1, del dlgs 152/2006), ma «primario», per cui a monte non è tecnicamente un «sottoprodotto», ma un prodotto.
A farlo diventare poi rifiuto, suggerisce la sentenza, può in primis essere (come nella fattispecie in esame) la condotta del cliente-destinatario che, entratone nella (seppur temporanea) materiale disponibilità all'atto della consegna della fornitura totale, lo lascia alla conclusione della stessa al trasportatore ritenendolo «in eccesso» rispetto alle proprie necessità, così manifestando la propria intenzione di non volerne più disporne, dunque di volersene disfare (integrando quindi la previsione ex articolo 183, comma 1, lettera a), del Codice ambientale, in base al quale è rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi»).
In tema si ricorda la precedente sentenza 42338/2013 della stessa Corte (richiamata dalla nuova pronuncia in analisi) con cui si è esclusa dal regime dei sottoprodotti i (successivi) residui da lavaggio delle betoniere in quanto sostanze che non sono (come richiesto invece del citato 184-bis, comma 1, del Codice ambientale) parte «integrante» del processo produttivo che vi è a monte.
La certezza del riutilizzo. In base alla nuova sentenza 34284/2015 il calcestruzzo in esubero non era nella fattispecie altresì qualificabile come sottoprodotto poiché mancava la certezza dell'effettivo riutilizzo ai sensi dello stesso articolo 184-bis dlgs 152/2006, essendo la sua destinazione decisa solo successivamente al trattamento e in base alle concrete esigenze dell'azienda o alle richieste dei clienti.
È utile altresì ricordare come pregressa e consolidata giurisprudenza della stessa Corte abbia più ampiamente affermato come tale «certezza» sia configurata solo dalla prova dell'assenza della volontà del disfarsi dei residui, unitamente a quella della destinazione al riutilizzo e della preventiva individuazione e definizione del reimpiego (sentenza 41839/2008).
Il trattamento. Con la sentenza 34284/2015 il giudice di legittimità appare escludere infine la qualifica di sottoprodotto per il calcestruzzo residuo anche sotto il profilo tecnico del citato trattamento cui è stato sottoposto, al quale evidentemente non si riconosce la valenza di «normale pratica industriale».
La Cassazione sottolinea infatti come, nella fattispecie analizzata, il calcestruzzo in esubero che rientrava nello stabilimento non sembrava mantenere la stessa natura di quello prodotto, necessitando di un trattamento specifico per il suo riutilizzo.
Anche in relazione alla circostanza del caso, merita ricordare come dalla stessa Corte siano stati con pregresse sentenze identificati come «diversi» (dalla normale pratica industriale) i trattamenti che comportano trasformazioni radicali, tali da far perdere ai residui la loro identità in funzione del successivo reimpiego (sentenza 17453/2012), così come quelli che non costituiscono parte integrante del processo di produzione (20886/2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.09.2015).

APPALTI: Niente requisiti speciali nelle gare d'appalto.
Va condannato a risarcire l'impresa il comune che revoca la gara quando scopre che l'aggiudicataria non ha la certificazione di qualità richiesta da più di tre anni. E ciò perché la norma del bando di gara che lo prevede introduce un requisito speciale che non è previsto dal codice dei contratti pubblici e in particolare è contrario al principio di tassatività sancito dal comma 1-bis dall'articolo 46. L'impresa, però, viene compensata solo dell'utile perduto e non anche del danno curriculare perché non prova la lesione patita rispetto alla sua immagine commerciale.

È quanto emerge dalla sentenza 15.06.2015 n. 2957, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
L'articolo 43 del codice dei contratti pubblici non prevede alcun requisito minimo temporale o di durata delle certificazioni di qualità ai fini della partecipazione alle gare d'appalto. E il principio di tassatività dei requisisti speciali serve a evitare proprio che i disciplinari delle procedure siano confezionati a favore o sfavore di qualcuno.
La nullità del provvedimento di revoca dell'aggiudicazione si estende allo stop dell'intera gara. Ma in questo caso il danno curriculare non può essere liquidato perché non basta la mera perdita di chance: l'impresa viene meno all'onere probatorio costituito a suo carico, che le impone di dimostrare di non aver perso anche qualche altra commessa dopo la revoca illegittima.
Il comune deve comunque formulare entro sessanta giorni all'impresa per il ristoro dell'utile perduto, interessi compresi (articolo ItaliaOggi del 29.09.2015).

SICUREZZA LAVORO: AFFIDAMENTO DELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI A SOCIETÀ ESTERNA.
Sussiste in capo al datore di lavoro , nel caso di specie, sia una culpa in eligendo, per l’affidamento dell’incarico di redazione del documento
di valutazione dei rischi ad una società dotata dì un’organizzazione inadeguata, sia una culpa in vigilando, per il mancato controllo dell’imputato sui tempi di esecuzione di tale importante e indifferibile adempimento.
Altresì,
’imputato, pur consapevole della mancanza del documento, ha comunque continuato lo svolgimento dell’attività aziendale, rispetto alla quale tale documento, che deve avere data certa ed essere custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce la valutazione dei rischi, costituisce un presupposto indefettibile (ai sensi degli artt. 28, comma 2, e 29, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008).
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Di frequente, il datore di lavoro –titolare dell’obbligo indelegabile di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il relativo documento– si affida a consulenti o società esterne, e, qualora venga poi chiamato a rispondere penalmente per carenze relative al DVR, tenti di discolparsi, chiamando in causa la società o il consulente (sul punto v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 216 ss.).
La presente sentenza considera un’ipotesi in cui un datore di lavoro fu condannato per la «contravvenzione prevista dall’art. 29, comma 1, e punita dall’art. 55, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, perché non effettuava la valutazione dei rischi e non elaborava il documento di cui all’art. 17, comma 1, lett. a), dello stesso D.Lgs., in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente, nei casi previsti dal successivo art. 41».
A sua discolpa, l’imputato deduce che «aveva commissionato a una società la redazione del documento di valutazione dei rischi; documento che era stato redatto in ritardo per cause imputabili a tale società ed era stato presentato all’ASL 48 ore dopo il sopralluogo nel quale era stato accertato il reato».
La Sez. III conferma la condanna.
Rileva che «
vi sarebbero, nel caso di specie, sia una culpa in eligendo, per l’affidamento dell’incarico di redazione del documento ad una società dotata dì un’organizzazione inadeguata, sia una culpa in vigilando, per il mancato controllo dell’imputato sui tempi di esecuzione di tale importante e indifferibile adempimento».
Aggiunge che «l
’imputato, pur consapevole della mancanza del documento, ha comunque continuato lo svolgimento dell’attività aziendale, rispetto alla quale tale documento, che deve avere data certa ed essere custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce la valutazione dei rischi, costituisce un presupposto indefettibile (ai sensi degli artt. 28, comma 2, e 29, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008)» (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.03.2015 n. 12962 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2015).

TRIBUTI: Contraddittorio anche per la Tarsu. Tributi locali. Nella verifica della superficie il Comune deve andare oltre le planimetrie catastali.
È illegittimo l’avviso di accertamento Tarsu fondato unicamente sullo scostamento tra superficie dichiarata e superficie risultante dagli atti catastali. Il Comune avrebbe dovuto accedere ai locali tassabili, al fine di verificare in loco l’effettiva superficie imponibile. L’accesso avrebbe anche consentito al contribuente di presentare le osservazioni entro 60 giorni dalla consegna del Pvc, in attuazione del principio del contraddittorio.
La conclusione è della Ctr Molise, sezione di Campobasso, nella sentenza 18.03.2015 n. 73/3/15 (presidente Liberatore, relatore D’Imperio). Si tratta di una delle prime pronunce che recepiscono il principio del contraddittorio nel contesto dei tributi locali.
La vicenda riguarda un avviso di accertamento Tarsu emesso per una utenza abitativa. Il Comune aveva rettificato la dichiarazione presentata solo sulla scorta della superficie risultante dagli atti catastali. Il contribuente aveva impugnato l’avviso, rilevando come non tutte le superfici accertate dal Comune fossero idonee alla produzione di rifiuti. La Ctp ha accolto il ricorso e il Comune ha proposto appello osservando, tra l’altro, come nel caso di una utenza abitativa sia improbabile l’esistenza di aree escluse da tassazione.
Il collegio di giudici di Campobasso ha innanzitutto ricordato gli elementi del prelievo:
- ai fini dell’applicazione del tributo sui rifiuti, è sufficiente la mera idoneità dei locali e delle aree alla formazione dei rifiuti urbani;
- la legislazione di riferimento (articolo 62, Dlgs 507/1993) pone in capo al contribuente l’onere di provare le circostanze di esclusione da prelievo, rappresentate per le utenze abitative dall’impossibilità (anche teorica) delle aree alla formazione di rifiuti;
- in base all’articolo 73, Dlgs 507/1993, in caso di mancata risposta al questionario da parte del contribuente, il Comune dispone di alcune facoltà istruttorie, compreso l’accesso diretto ai locali tassabili, previa informativa al contribuente.
L’ente, dunque, avrebbe dovuto avvalersi di tale potere, al fine di accertare, alla presenza dell’interessato, l’effettiva condizione delle aree detenute. Così operando, rileva ancora il collegio molisano, il contribuente avrebbe potuto presentare le osservazioni, entro 60 giorni dalla consegna del Pvc, rispettando il diritto al contraddittorio. La conclusione è l’annullamento della pretesa tributaria.
Il diritto al contraddittorio è salvo anche nel comparto dei tributi locali: in attesa che le Sezioni unite ne definiscano meglio il perimetro applicativo (Cassazione, ordinanza 527/2015), non vi è dubbio che si tratti di un istituto applicabile alla generalità dei tributi, derivando dalla disciplina comunitaria e costituzionale (Sezioni unite 19667/2014).
Lascia perplessi, invece, l’uso che la Ctr Molise ne ha fatto nel caso specifico. Una volta affermato che è compito del Comune determinare la superficie occupata dal contribuente, mentre spetta al contribuente dimostrare l’esistenza di cause di esclusione dal prelievo, non si vede per quale motivo l’ente locale avrebbe dovuto necessariamente eseguire un accesso presso la casa di abitazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2015).

SICUREZZA LAVORO: NON SANZIONATI GLI OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E FORMAZIONE?
Errare è umano, perseverare diabolico.
In materia di prevenzione degli infortuni ai danni dei lavoratori, la norma di cui all’art. 18, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 81/2008 –che obbliga il datore di lavoro ad adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli artt. 36 e 37 stesso decreto– non rientra tra quelle disposizione precettive la cui violazione, ai sensi del successivo art. 55, è presidiata da sanzione penale.
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Già Cass. 23.01.2014, n. 3145, Dal Sasso, in ISL, 2014, 6, 307, nell’annullare la condanna di un datore di lavoro per la violazione dell’art. 18, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 81/2008, per non aver adempiuto agli obblighi di informazione, formazione ed addestramento dei lavoratori, asserì: «La struttura del testo normativo in esame (D.Lgs. n. 81/2008) è chiarissima nel distinguere, al proprio interno, un complesso di diposizioni precettive che, poi, trovano una sanzione negli articoli che vanno dal 55 al 60. Tuttavia, nell’art. 55 –unica norma nella quale si cita l’art. 18 [comma 5, lett. c), d) ed e)]– non è richiamata la disposizione che qui si assume violata, vale a dire la lett. l) del comma 1 dell’art. 18). È, quindi, evidente, nella specie, la violazione del principio di legalità perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e, quindi, nessuna sanzione avrebbe potuto essere irrogata. L’enunciazione di cui alla citata lett. l), infatti, si risolve in una disposizione programmatica priva di sanzione penale
La Sez. III torna ora sul tema, e annulla la condanna di un datore di lavoro per violazione degli obblighi di formazione ed informazione di un suo dipendente: «
in materia di prevenzione degli infortuni ai danni dei lavoratori, la norma di cui all’art. 18, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 81/2008 –che obbliga il datore di lavoro ad adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli artt. 36 e 37 stesso decreto– non rientra tra quelle disposizione precettive la cui violazione, ai sensi del successivo art. 55, è presidiata da sanzione penale».
Il fatto è che la violazione degli obblighi di informazione e formazione è sanzionata dall’art. 55, comma 1, lett. c), con riguardo agli artt. 36 e 37, D.Lgs. n. 81/2008 (v., infatti, esattamente, della stessa Sez. III, ad es., Cass. 09.09.2014, n. 37312, inedita) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2015 n. 10023 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2015).

SICUREZZA LAVORO: I POTERI DI SOSPENSIONE DEL COORDINATORE PER L’ESECUZIONE DEI LAVORI.
Il coordinatore per la sicurezza è titolare di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi specificamente individuati dall’art. 92 D.Lgs. 09.04.2008, n. 81.
Tale posizione di garanzia gli impone, nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili contrassegnati da lavori appaltati, di assicurare il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine della migliore organizzazione del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica: in particolare sono a suo carico i compiti di adeguare il piano di sicurezza in relazione allo stato di avanzamento dei lavori, di vigilare sul rispetto dello stesso e di sospendere le singole lavorazioni in caso di pericolo grave ed imminente
.
Le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori.
La presenza in cantiere del coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli obblighi specificamente individuati dall’art. 92 del citato D.Lgs. n. 81/2008), che comprendono anche poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave ed imminente.

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Condannato in cooperazione colposa con il datore di lavoro della vittima titolare della ditta appaltatrice per un infortunio mortale in danno di un operaio precipitato da un ponteggio da una altezza di 16/18 metri nel corso di lavori di restauro della facciata di un edificio, un coordinatore per la esecuzione dei lavori sicurezza sostiene a sua discolpa che «i poteri del coordinatore per l’esecuzione debbano essere esercitati solo nei casi in cui il pericolo grave ed imminente sia direttamente riscontrato dallo stesso
La Sez. IV ribatte che «
il coordinatore per la sicurezza è titolare di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi specificamente individuati dall’art. 92 D.Lgs. 09.04.2008, n. 81», e che «tale posizione di garanzia gli impone, nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili contrassegnati da lavori appaltati, di assicurare il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine della migliore organizzazione del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica: in particolare sono a suo carico i compiti di adeguare il piano di sicurezza in relazione allo stato di avanzamento dei lavori, di vigilare sul rispetto dello stesso e di sospendere le singole lavorazioni in caso di pericolo grave ed imminente».
Rileva che «
le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
Chiarisce che «
la presenza in cantiere del coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli obblighi specificamente individuati dall’art. 92 del citato D.Lgs. n. 81/2008), che comprendono anche poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave ed imminente».
Prende atto che «le circostanze di fatto afferenti lo stato del cantiere e le condizioni in cui lavorava l’operaio (l’assenza di parapetti nel ponteggio e la presenza sullo stesso di varchi seguenti allo smontaggio di un elevatore, effettuato circa dieci giorni prima del fatto, utilizzati per il passaggio dei materiali e l’omessa adozione da parte della vittima di cinture di sicurezza), non consentono dubbi sulla palese violazione degli obblighi sopra indicati da parte dell’imputato, che, per sua stessa ammissione assicurava in cantiere una presenza a cadenza settimanale o al più quindicennale» (circa la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 659 ss., cui adde, da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 23.01.2015, n. 3272, Cardarelli e altro; Cass. pen., sez. IV, 17.11.2014, n. 47283; Bartoli, Cass. pen., sez. IV, 17.10.2014, n. 43466, Turroni e altro, tutte in ISL, n. 3/2015, 144; nonché Cass. pen., sez. fer., 01.09.2014, n. 36510, Caporale e altri, ibid., 2014, 11, 551; Cass. pen., sez. IV, 05.05.2014, n. 18515, Landi e R.C., ibid., 2014, 7, 365; Cass. pen., sez. IV, 05.05.2014, n. 18459, Brioschi e altri, ibid., 2014, 7, 363; Cass. pen., sez. IV, 05.05.2014, n. 18436, Angele, ibid., 2014, 7, 366; nonché, retro, la sentenza Bellinato) (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 02.03.2015 n. 9158 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2015).

SICUREZZA LAVORO: DATORE DI LAVORO DI FATTO E DATORE DI LAVORO DI DIRITTO.
In materia prevenzionistica, il datore di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, va individuato sia in colui che risulta parte in senso formale del contratto di lavoro sia nel soggetto che di fatto assume i poteri tipici della figura datoriale [art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008; ed inoltre l’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008].
Ne consegue che l’individuazione di un datore di lavoro “formale” non si pone in contrapposizione con l’eventualità dell’esistenza anche di un datore di lavoro di fatto.
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Nel settore della sicurezza del lavoro, alla luce degli artt. 2, comma 1, lettera b), e 299 D.Lgs. n. 81/2008, è ormai incalzante l’individuazione del datore di lavoro di fatto (v., in proposito, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 17 ss. e 859 ss., cui adde Cass. pen., Sez. Un., 18.09.2014, n. 39343, in ISL, 2014, 11, 552, in motivazione).
Nel contempo, la giurisprudenza più recente si preoccupa di mettere in guardia contro un’esenzione da responsabilità dello stesso datore di lavoro di fatto pur in presenza di un datore di lavoro di diritto (circa il garante formale v. Guariniello, op. cit., 861 ss.).
In particolare, Cass. 28.11.2014, n. …., Canigiani e altri, in ISL, … (ma v. anche, ibid., Cass. 01.10.2014, n. …., Fortino), rilevò che «
la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitale, il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda, e quindi con i vertici dell’azienda stessa, salvo il caso di espressa delega di funzioni». Ma subito chiarì che «la responsabilità dell’amministratore della società non può venir meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente e ciò in ragione della posizione di garanzia ad esso assegnata dall’ordinamento».
Spiegò che, «
ove si ritenesse esonerato da responsabilità colui che formalmente assume uno dei ruoli, in ragione della sua apparenza, si consentirebbe attraverso l’interposizione fittizia di vanificare la cogenza della tutela penale per omissione di cautele doverose correlate alla salvaguardia di soggetti ritenuti dall’ordinamento deboli e bisognevoli di protezione», e che «l’esigenza imprescindibile connessa alle norme di salvaguardia nei confronti di terzi, nella specie finalizzate a prevenire gli infortuni sul lavoro, impone, salva restando la possibilità di cumulo con le responsabilità di altri soggetti, l’attribuzione a colui che si interpone, in prima persona, dei doveri di garanzia che derivano dal ruolo rivestito».
Osservò che «
sulle garanzie connesse alle attribuzioni di ruolo fanno affidamento i garantiti, i quali devono essere esonerati dall’onere di accertare compiutamente il fondamento del potere di colui che formalmente si presenta come titolare di una posizione di garanzia nei loro confronti».
Ne ricavò che «
la funzione di garanzia non può che derivare direttamente dall’assunzione formale del ruolo, senza possibilità per colui che si presenta come garante di invocare la mera apparenza quale ragione di esonero da colpa».
La Sez. IV torna ora sul tema in termini quanto mai limpidi: «
In materia prevenzionistica, il datore di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, va individuato sia in colui che risulta parte in senso formale del contratto di lavoro sia nel soggetto che di fatto assume i poteri tipici della figura datoriale [art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008; ed inoltre l’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008]. Ne consegue che l’individuazione di un datore di lavoro “formale” non si pone in contrapposizione con l’eventualità dell’esistenza anche di un datore di lavoro di fatto» (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 16.02.2015 n. 6723 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 4/2015).

SICUREZZA LAVORO: I RAPPORTI TRA DATORE DI LAVORO E RSPP.
Non è il datore di lavoro a dover informare il RSPP delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza.
Diversamente, la previsione di una siffatta figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal momento che, postulandosi un onere informativo in capo allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso, contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie al fine di un compiuto espletamento dei doveri prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di rischi la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche).
S ne ricava che «
il RSPP può essere tenuto a rispondere –proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa dell’evento– dell’infortunio in ipotesi verificatosi proprio in ragione dell’inosservanza colposa dei compiti di prevenzione attribuitigli dalla legge», e che, «relativamente alle funzioni che la normativa di settore attribuisce al RSPP, l’assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l’eventuale inottemperanza a tali funzioni –e segnatamente la mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori– possa integrare una omissione rilevante per radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata o male considerata dal responsabile del servizio».
L’omissione colposa al potere-dovere di segnalazione in capo al RSPP, impedendo l’attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento, finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi, che, qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, ben può e deve essere chiamato a risponderne insieme a questi (ex art. 41 c.p., comma 1) dell’evento dannoso derivatone.
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La sentenza qui presentata fa spicco, in quanto non si limita a ribadire gli insegnamenti della Corte Suprema in  merito agli obblighi e alle responsabilità del RSPP (in proposito v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 453 ss.), ma ha cura di approfondire l’analisi dei rapporti tra datore di lavoro e RSPP sotto un profilo non ancora adeguatamente esplorato.
Nel caso di specie, l’RSPP, condannato al pari del datore di lavoro per un infortunio mortale occorso a un lavoratore durante il lavaggio tramite idropulitrice di pannelli in conglomerato cementizio, sostiene a propria discolpa che «il datore di lavoro aveva negligentemente omesso di indicare all’interno del documento di valutazione dei rischi la fase di lavaggio delle pareti in cemento e la relativa organizzazione della zona dell’azienda a ciò destinata, senza peraltro fornire in altri modi informazioni utili», e che «la pulitura delle pareti in cemento avveniva in una zona dello stabilimento che era destinata, nel documento di valutazione dei rischi, ad altre fasi della produzione».
La Sez. IV respinge la tesi dell’imputato secondo cui
l’obbligo dell’RSPP di individuare i fattori di rischio e suggerire le misure da adottare per la sicurezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro «presuppone l’indicazione, da parte del datore di lavoro, nel documento di valutazione dei rischi, dello specifico aspetto organizzativo interessato dalla possibile insorgenza di rischi non trova alcun appiglio nel dato positivo e ancor prima è manifestamente illogico dal momento che finisce con l’invertire il rapporto di collaborazione tra responsabile del servizio di prevenzione e protezione e datore di lavoro, quale presupposto dalla norma, e in definitiva, come detto, a privare di senso la stessa previsione della figura del RSPP».
Ritiene «evidente che
non è il datore di lavoro a dover informare il RSPP delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza».
Osserva che, «
diversamente, la previsione di una siffatta figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal momento che, postulandosi un onere informativo in capo allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso, contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie al fine di un compiuto espletamento dei doveri prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di rischi la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche)».
Ne ricava che «
il RSPP può essere tenuto a rispondere –proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa dell’evento– dell’infortunio in ipotesi verificatosi proprio in ragione dell’inosservanza colposa dei compiti di prevenzione attribuitigli dalla legge», e che, «relativamente alle funzioni che la normativa di settore attribuisce al RSPP, l’assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l’eventuale inottemperanza a tali funzioni –e segnatamente la mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori– possa integrare una omissione rilevante per radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata o male considerata dal responsabile del servizio».
E spiega che «
l’omissione colposa al potere-dovere di segnalazione in capo al RSPP, impedendo l’attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento, finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi, che, qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, ben può e deve essere chiamato a risponderne insieme a questi (ex art. 41 c.p., comma 1) dell’evento dannoso derivatone» (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.02.2015 n. 5983 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 5/2015).

SICUREZZA LAVORO: RESPONSABILITÀ DEL LIBERO PROFESSIONISTA DIRETTORE DEI LAVORI IN CASO D’INFORTUNIO.
Il direttore dei lavori è incaricato, per conto del committente, di curare l’esatta esecuzione dei lavori, e svolge normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di questi.
E' irrilevante il tema della presenza del direttore dei lavori in cantiere in quanti tale presenza non è da intendere come presenza fisica costante, durante i lavori, trattandosi di adempimento in tal caso pressoché impossibile, ma va intesa come presenza di volta in volta necessaria a seconda dell’iter dei lavori e delle emergenze.
Il direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto.
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Sempre più incalzante è l’attenzione prestata dalla giurisprudenza alla posizione di garanzia del direttore dei lavori in tema di sicurezza del lavoro (v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 704 s., cui aggiungi Cass. 19.08.2014, n. 35970, Consonni, in Dir. prat. lav., 2014, 38, 2045; Cass. 16.06.2014, n. 25815, Corona e altri, in ISL, 2014, 430; Cass. 05.05.2014, n. 18459, Brioschi e altri, ibid., 7, 363).
Nel caso affrontata da questa nuova sentenza, un professionista «incaricato della redazione del progetto e, in ogni caso, quale direttore dei lavori, tenuto per ciò a garantire sia la conformità dell’opera al progetto, sia il rispetto nell’esecuzione, delle regole della tecnica», fu condannato per omicidio colposo in danno di un lavoratore deceduto nel corso dei lavori di ristrutturazione di un immobile.
Nel confermare la condanna, la Sez. IV afferma che «
il direttore dei lavori è incaricato, per conto del committente, di curare l’esatta esecuzione dei lavori», e «svolge normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di questi».
Precisa che «questo rende irrilevante ai fini dell’addebito finanche la questione dell’essere o no l’ampliamento della cantina con opere strutturali di cemento armato ricompreso nel progetto, perché, quale che fosse la situazione, comunque, l’imputato avrebbe dovuto sorvegliare l’esecuzione dei lavori; ed anzi, la omissione sarebbe ancora più evidente laddove l’intervento che ha provocato il crollo della struttura non fosse neppure previsto in progetto, palesandosi un comportamento ancora più accentuatamente violativo dell’obbligazione assunta nei confronti del committente».
Chiarisce, altresì, che «
è irrilevante il tema della presenza del direttore dei lavori in cantiere», in quanto «tale presenza non è da intendere come presenza fisica costante, durante i lavori, trattandosi di adempimento in tal caso pressoché impossibile, ma va intesa come presenza di volta in volta necessaria a seconda dell’iter dei lavori e delle emergenze».
Prende atto che, «se l’imputato si fosse recato sul luogo di svolgimento dei lavori, avrebbe notato che gli stessi erano diversi da quelli segnalati ed eseguiti in violazione delle regole in tema di prevenzione degli infortuni», e che «l’iter dello scavo effettuato lungo la muratura del seminterrato dell’immobile teatro dell’infortunio mortale e l’impegno che questo non può non aver richiesto avrebbe dovuto imporre una sorveglianza e una presenza che non vi è stata, almeno nel momento della verificazione del crollo».
Osserva che «una presenza immediatamente precedente, laddove fosse stata attenta, avrebbe impedito l’attività che ha poi originato il crollo».
Ne desume, «così ricostruito il ruolo dell’imputato», che «correttamente è stata apprezzata l’inosservanza agli obblighi cautelari assunti in primo luogo nei confronti del committente e, conseguentemente la rilevanza di tale inosservanza ai fini della verificazione dell’evento mortale».
Con riferimento al contenuto degli obblighi del direttore dei lavori, ricorda che «
il direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto».
Rileva che, «nella fattispecie in esame, è stato addebitato all’imputato, nella qualità di direttore dei lavori nel cantiere relativo ai lavori di ristrutturazione di un immobile, non solo di avere omesso di intervenire e di segnalare le specifiche violazioni alla normativa antinfortunistica ivi realizzate ma di avere contribuito alla produzione dell’evento anche attraverso la predisposizione di una S.C.I.A. con l’indicazione di lavori diversi da quelli indicati nel capitolato, poi eseguiti» (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 23.01.2015 n. 3286 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 3/2015).

SICUREZZA LAVORO: La vigilanza impositiva del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza.
Va escluso che «la sola segnalazione all’impresa esecutrice in ordine alle inadeguatezze dei ponteggi rispetto ai pericoli di caduta dall’alto, esaurisca gli obblighi gravanti nei suoi confronti, dovendosi ricomprendere anche quello della verifica dell’effettiva e tempestiva predisposizione dei dispositivi idonei ad evitare la caduta degli oggetti dall’alto, nei tempi dallo stesso indicati, e dunque prima dell’accesso degli operai.
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Per l’infortunio occorso a un dipendente di un’impresa nell’ambito di un cantiere edile, furono imputati, oltre che il datore di lavoro dell’infortunato e il capo cantiere, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (circa la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, 659 ss., cui adde Cass. 05.05.2014, Landi e R.C., in ISL, 2014, 7, 365; Cass. 05.05.2014, Brioschi e altri, ibid., 2014, 7, 363; Cass. 05.05.2014, Angele, ibid., 2014, 7, 366).
Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, l’imputato lamenta che i magistrati di merito, «dopo aver condiviso principi di legittimità in ordine ai compiti ed ai doveri del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dei lavori, hanno tratto una conclusione del tutto contraddittoria stabilendo -in presenza delle segnalazioni delle inadeguatezze effettuate dall’imputato- che, pur non essendovi un obbligo di vigilanza quotidiana, tuttavia l’imputato doveva verificare l’effettiva e tempestiva predisposizione degli appositi dispositivi».
La Sezione feriale ribatte che «
il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza»; ed esclude che «la sola segnalazione all’impresa esecutrice in ordine alle inadeguatezze dei ponteggi rispetto ai pericoli di caduta dall’alto, esauriva gli obblighi gravanti nei suoi confronti, dovendosi ricomprendere anche quello della verifica dell’effettiva e tempestiva predisposizione dei dispositivi idonei ad evitare la caduta degli oggetti dall’alto, nei tempi dallo stesso indicati, e dunque prima dell’accesso degli operai»
(Corte di Cassazione, Sez. fer. penale, sentenza 01.09.2014 n. 36510 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2014).

SICUREZZA LAVORO: Incidente a scuola: dirigente comunale, preside, ASPP.
Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008 la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a uffici pubblici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione.
In tal caso gli obblighi previsti dal suddetto decreto, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico
.
Trattasi di un rafforzamento della prevenzione, attribuita dalla legge, su un piano paritario, a due soggetti: il datore di lavoro ed il proprietario dell’immobile, secondo il principio di ‘‘effettività della prevenzione’’.
Sul responsabile dell'UTC (ovvero del Responsabile Ufficio LL.PP.) incombe l’obbligo di verificare l’efficienza della struttura scolastica e delle sue pertinenze
», e ciò a prescindere dal fatto che sia stata, o meno, «effettuata da parte del datore di lavoro effettivo -il dirigente scolastico- richiesta di intervento per l’esecuzione di necessarie opere di manutenzione».

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Nel cortile di una scuola materna, durante il periodo di ricreazione, una minore di anni quattro, mentre giocava con altri bambini sotto la vigilanza della maestra, a seguito della caduta di un’anta del cancello, riportava un trauma cranico con esito mortale.
Per colpa consistita nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro furono dichiarati colpevoli del delitto di omicidio il responsabile dei lavori pubblici presso l’ufficio tecnico del comune, il dirigente scolastico del circolo didattico datore di lavoro, l’addetta al SPPR della scuola, e l’incaricato dalla ditta appaltatrice di lavori di sistemazione del piazzale della scuola.
La Sez. IV assolve l’addetta al SPPR, e conferma la condanna degli altri imputati.
  
A) Quanto al dirigente comunale, la Sez. IV osserva che «la dedotta mancanza di prova circa la conoscenza da parte sua della fatiscenza del cancello non rileva, poiché, in considerazione della qualità da lui ricoperta di responsabile dei lavori pubblici presso l’ufficio tecnico del comune, di rappresentante dell’ente territoriale proprietario dell’edificio scolastico, di responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro, ed, ancor prima, nel periodo di esecuzione delle opere di sistemazione del piazzale della scuola, riguardanti anche il cancello, del ruolo di direttore dei lavori, era suo dovere verificare (innanzitutto) la bontà dell’esecuzione delle saldature delle cerniere del cancello, e curarne, poi, la manutenzione, e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che le condizioni del cancello gli venissero portate a conoscenza da altri».
Considera rilevante, «
non tanto che il cancello era fatiscente, quanto che, ad ogni apertura di anno scolastico, egli effettuava dei sopralluoghi presso il plesso scolastico, per conto del comune, al fine di verificare che tutto fosse a posto, e costituiva, per la scuola, il referente in ordine alla soluzione di ogni questione attinente a lavori, anche minimi, da eseguire nell’edificio scolastico, tanto che aveva provveduto, su segnalazione della scuola, a munire il cancello di catena e lucchetto per evitare l’uso improprio che estranei alla scuola ne facevano quale scorciatoia per raggiungere un insediamento abitativo».
Precisa che, «
per un tecnico (geometra), quale è l’imputato, non ci voleva molto per verificare lo stato del cancello e rendersi conto della sua fatiscenza e, quindi, della sua pericolosità».
Nel riferirsi alla norma attualmente dettata dall’art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 («
Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare ai sensi del presente decreto la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a uffici pubblici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso gli obblighi previsti dal presente decreto, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico»), chiarisce efficacemente che «trattasi di un rafforzamento della prevenzione, attribuita dalla legge, su un piano paritario, a due soggetti: il datore di lavoro ed il proprietario dell’immobile, secondo il principio di ‘‘effettività della prevenzione’», e che «sull’imputato incombeva l’obbligo di verificare l’efficienza della struttura scolastica e delle sue pertinenze», e ciò a prescindere dal fatto che fosse stata, o no, «effettuata da parte del datore di lavoro effettivo -il dirigente scolastico- richiesta di intervento per l’esecuzione di opere di manutenzione sul cancello».
Ritiene l’ipotesi di omicidio colposo aggravata a norma dell’art. 589, comma 2, cod. pen., sul presupposto che «
il richiamo della norma attualmente dettata dall’art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, che prevede l’obbligo degli enti territoriali di provvedere alla manutenzione degli edifici di cui sono proprietari ed adibiti ad uso pubblico, tra i quali gli edifici scolastici, individua in capo ai rappresentanti di detti enti una posizione di garanzia nell’ambito della sicurezza e prevenzione sul lavoro», e sull’ulteriore presupposto che, «in tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista legame causale tra siffatta violazione e l’evento dannoso, legame che non può ritenersi escluso sol perché il soggetto colpito da tale evento non sia un dipendente (o equiparato) dell’impresa obbligata al  rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse».
  
B) Con riguardo al dirigente scolastico, la Sez. IV sostiene che, «acclarata la sua qualifica formale di dirigente scolastico dell’Istituto, prima del verificarsi dell’evento, è indubitabile la titolarità della posizione di garanzia alla stregua delle disposizioni normative già indicate, essendo pacifico che al preside è attribuita la qualità di datore di lavoro nei confronti del personale della scuola, non essendo contestabile la qualificazione di quest’ultima come ‘‘luogo di lavoro’’, il comportamento dovuto per legge era pertanto rappresentato dal dovere di richiedere all’ente territoriale, proprietario del plesso scolastico, un intervento risolutivo per la eliminazione del pericolo derivante dalla fatiscenza del cancello, e, nelle more dell’intervento del comune, dell’adozione di misure di propria pertinenza e disponibilità per eliminare il pericolo mediante un ordine di interdizione, con l’apposizione di ostacoli fisici, di accedere a chicchessia all’area ove insisteva il cancello
E ribadisce che «
gli obblighi di vigilanza e controllo del datore di lavoro, di per sé delegabili ad altro, non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio prevenzione e protezione al quale sono demandati compiti diversi intesi ad individuare i fattori a rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive, le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali
  
C) La Sez. IV annulla, invece, la condanna dell’addetta al SPPR nell’ambito scolastico.
Avverte che «
il datore di lavoro designa il responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda nonché gli addetti al servizio di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda».
Osserva che «
il soggetto cui siano stati affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione, ancorché sia privo di poteri decisionali e di spesa, può, tuttavia, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
Aggiunge che «
l’assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l’inottemperanza alle stesse -e segnatamente la mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori- possa integrare un’omissione ‘‘sensibile’’ tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del servizio».
Chiarisce che, «
considerata la particolare conformazione concepita dal legislatore per il sistema antinfortunistico, con la individuazione di un soggetto incaricato di monitorare costantemente la sicurezza degli impianti e di interloquire con il datore di lavoro, deve presumersi che, ove una situazione di rischio venga dal primo segnalata, il secondo assuma le iniziative idonee a neutralizzarla».
Rileva che «l’addetto alla prevenzione e protezione e` un collaboratore del responsabile della prevenzione e protezione ed insieme, nella esplicazione dei compiti ad essi demandati, concorrono alla attuazione ed efficienza del servizio di prevenzione e protezione
».
Con riguardo al caso di specie, prende atto che «
il datore di lavoro era bene a conoscenza della situazione di pericolo determinata dalla fatiscenza del cancello, all’esito della redazione e della spedizione al comune del documento di valutazione dei rischi», che «lo stato del cancello ed il pericolo che ne derivava era noto a tutti già da diverso tempo anche a seguito di ‘‘passaparola’’», e che
«il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che si avvaleva per l’espletamento dei suoi compiti anche della collaborazione della addetta, era a conoscenza della situazione ed era in continuo contatto con il preside
Considera contraddittorio «
ritenere che il dirigente comunale e il dirigente scolastico hanno posto in essere una condotta colpevolmente omissiva sebbene fossero pienamente e perfettamente a conoscenza della situazione di potenziale pericolo derivante dal cancello de quo», e «poi sostenere che l’addetta sia colpevole di non aver effettuato un’ulteriore segnalazione del pericolo, atteso altresì che, anche ove fosse stata effettuata, la citata comunicazione non avrebbe assolutamente evitato l’evento e/o mutato la situazione di fatto esistente, perché riguardava un pericolo già a conoscenza del datore di lavoro ed ancor prima dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i quali, pur a fronte di un proprio potere-dovere di intervento - potere di cui invece era priva l’imputata - erano rimasti consapevolmente inerti».
La conclusione è che «
la condotta omissiva contestata alla addetta al SPPR -ovvero l’ulteriore segnalazione- non avrebbe con ragionevole certezza e/o elevato grado di probabilità evitato l’evento mortale e ciò in quanto riguardava un pericolo perfettamente a conosciuto ai soggetti che erano rimasti inerti e che erano detentori del potere-dovere di intervento» (per una vicenda similare, accaduta presso il liceo Darwin di Rivoli, v. Corte App. Torino, 28.10.2013, est. Grasso, imp. Delmastro e altri, inedita. Quanto alla posizione di garanzia del SPPR v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, 453 ss., e ivi, 477, in particolare, Cass. 26.10.2007, Aimone, ove si rileva: «la totale omissione di ogni attività sia pure nei limiti della collaborazione con il datore di lavoro, e specialmente la mancanza di una formale segnalazione della situazione, dovuta ai sensi dell’art. 9, lettera a), D.Lgs. n. 626/1994 [ora art. 33, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008] che impone l’individuazione dei fattori di rischio e delle misure necessarie per la sicurezza, costituisce un antecedente causalmente ricollegabile alla verificazione dell’infortunio, della cui incidenza causale non può dubitarsi solo perché la pericolosità della situazione era comunque nota al datore di lavoro; deve infatti ritenersi, secondo il sistema di prevenzione delineato dal legislatore con il D.Lgs. n. 626/1994, che la segnalazione formale della situazione avrebbe indotto il datore di lavoro, dovendosi presumere il corretto funzionamento del sistema prevenzionale, a quegli interventi di adeguamento (sostanzialmente consistenti nell’acquisto e utilizzo di nuove stive) che invece solo a seguito dell’incidente in questione vennero adottati»)
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 01.09.2014 n. 36476 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2014).

SICUREZZA LAVORO: Le responsabilità del libero professionista direttore dei lavori.
Va riconosciuto che il direttore dei lavori nominato dal committente è responsabile dell’infortunio sul lavoro, quando allo stesso sia affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze; e ciò, sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando, per fatti concludenti, risulti che egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro.
In tema di prevenzione degli infortuni, il direttore dei lavori nominato dal committente, mentre svolge normalmente un’attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di questi, risponde invece dell’infortunio subito dal lavoratore là dove sia concretamente accertata, come nel caso di specie, una sua effettiva ingerenza nell’organizzazione del cantiere.
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Sempre più pressante è l’attenzione prestata dalla giurisprudenza alla posizione di garanzia del direttore dei lavori in tema di sicurezza del lavoro (v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, 704 ss., cui aggiungi Cass. 16.06.2014, in ISL, 2014, 430; Cass. 05.05.2014, Brioschi e altri, 7, 363).
Nel caso ora esaminato dalla Corte Suprema, un architetto libero professionista designato come direttore tecnico da una s.a.s. subappaltante fu condannato per il delitto di lesione personale colposa, in quanto «aveva consentito, o comunque non impedito, che il titolare della ditta subappaltatrice, impegnato nelle operazioni di getto del calcestruzzo per il completamento di un solaio di copertura in cemento armato prefabbricato, cadesse al suolo, provocandosi gravi lesioni personali, a causa del cedimento di detto solaio, cedimento dovuto all’inadeguatezza delle opere provvisionali di sostegno, collocate in assenza di uno specifico calcolo tale da garantire che le armature supportassero, oltre il peso delle strutture, anche quello delle persone e dei sovraccarichi eventuali, nonché le sollecitazioni dinamiche dovute all’esecuzione dei lavori».
A sua discolpa, l’imputato osserva che il proprio ruolo era limitato «a una mera collaborazione professionale per la predisposizione dell’istruttoria ai fini della partecipazione alla gara d’appalto pubblico, posizione alla quale non faceva riscontro l’attribuzione di alcuna mansione in materia di conduzione del cantiere o di sicurezza dei lavoratori, non disponendo lo stesso, né del tempo necessario, né delle specifiche competenze indispensabili a tal fine».
La Sez. IV prende atto che «dal contratto di prestazione d’opera stipulato tra l’imputato e la s.a.s. è emerso come all’imputato era stata attribuita la qualifica e le mansioni di direttore tecnico, unitamente e/o disgiuntamente al titolare della s.a.s. subappaltante, per la direzione tecnica dei lavori pubblici eseguiti, e che, con una missiva inviata dalla società subappaltante al Servizio di prevenzione degli infortuni sul lavoro della ASL (coerentemente con il contenuto del contratto di prestazione d’opera), si precisava come l’architetto, nell’organizzazione della ditta subappaltante, rivestisse la funzione di direttore tecnico, come da attestazione SOA, con competenza sui lavori di carattere edilizio per tutti i contratti di lavori pubblici di cui alla stessa attestazione SOA (e quindi ivi compreso il cantiere) sulla base della specifica professionalità acquisita dallo stesso».
Prende atto, altresì, che l’imputato «disponeva ed esercitava effettivamente e concretamente i poteri di gestione e di direzione del cantiere, anche perché spesso presente in loco impegnato ad attendervi, e ciò anche nell’immediatezza dell’infortunio, prima del quale l’imputato, che aveva partecipato all’organizzazione dei lavori, nessuna direttiva o disposizione aveva impartito ai fini del corretto e sicuro posizionamento dei puntelli di sostegno del solaio successivamente crollato».
A questo punto, la Sez. IV richiama «il consolidato insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del quale
va riconosciuto che il direttore dei lavori nominato dal committente è responsabile dell’infortunio sul lavoro, quando allo stesso sia affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze; e ciò , sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando, per fatti concludenti, risulti che egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro».
Spiega che, «
in tema di prevenzione degli infortuni, il direttore dei lavori nominato dal committente, mentre svolge normalmente un’attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di questi, risponde invece dell’infortunio subito dal lavoratore là dove sia concretamente accertata, come nel caso di specie, una sua effettiva ingerenza nell’organizzazione del cantiere»
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 19.08.2014 n. 35970 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 10/2014).

SICUREZZA LAVORO: Coordinatore non informato della ripresa del lavoro o dell’ingresso di nuova impresa.
L’eventuale sussistenza di profili di colpa gravanti su altro soggetto destinatario di obblighi prevenzionali non vale ad escludere quelli specificamente affermati e gravanti sulla componente datoriale.
Nella specie la rilevanza di eventuali manchevolezze attribuibili al coordinatore per la sicurezza è esclusa in radice, in ragione dell’accertata ripresa dei lavori dopo la sospensione dei medesimi senza preventiva comunicazione all’architetto che tale ruolo rivestiva, con conseguente carenza in concreto di una posizione di garanzia in capo alla menzionata figura prevenzionale.
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Le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori
.
La presenza in cantiere del coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli obblighi specificamente individuati ora dall’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008, che comprendono anche poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave ed imminente.
Il coordinatore per l’esecuzione «
ha anche il potere di vigilare sul rispetto del piano di sicurezza da parte dei lavoratori, senza limitarsi ad una verifica superficiale, che non tenga conto delle molteplici ed indefinite situazioni di pericolo grave derivanti nei cantieri dalla violazione sistematica della normativa antinfortunistica.

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Tra la ricca giurisprudenza in tema di obblighi e responsabilità del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (per un’ampia analisi dei precedenti in materia v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, sub art. 92; cfr., altresì la sentenza Brioschi sopra riportata), segnaliamo due sentenze che affrontano un tema rilevante quale quello relativo alla responsabilità del coordinatore per l’esecuzione dei lavori disinformato circa la ripresa della giornata lavorativa o l’ingresso di una nuova impresa.
  
A) Cominciamo dalla sentenza Angelé (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 05.05.2014 n. 18436).
Condannato per un infortunio mortale subito da un dipendente in un cantiere edile, il datore di lavoro di un’impresa esecutrice rimprovera ai magistrati di merito di non aver rilevato le anomalie della condotta tenuta dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
La Sez. IV ribatte che «
l’eventuale sussistenza di profili di colpa gravanti su altro soggetto destinatario di obblighi prevenzionali non varrebbe a escludere quelli specificamente affermati e gravanti sulla componente datoriale», e che «nella specie la rilevanza di eventuali manchevolezze attribuibili al coordinatore per la sicurezza è esclusa in radice, in ragione dell’accertata ripresa dei lavori dopo la sospensione dei medesimi senza preventiva comunicazione all’architetto che tale ruolo rivestiva, con conseguente carenza in concreto di una posizione di garanzia in capo alla menzionata figura prevenzionale».
  
B) Nel caso considerato dalla sentenza Landi (
Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 05.05.2014 n. 18515), un operaio, «mentre era impegnato al montaggio di pannelli prefabbricati, costituenti la facciata dell’erigendo prefabbricato presso una Università, raggiunta l’altezza di metri 21,60, a bordo della navetta con cui terminava il braccio telescopico della piattaforma, a causa del ribaltamento della predetta navetta, franava al suolo».
Al coordinatore per l’esecuzione dei lavori designato dall’Amministrazione committente, si addebitò di avere omesso di «verificare l’applicazione da parte delle imprese esecutrici delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e la corretta applicazione delle relative procedure e di segnalare al responsabile dei lavori l’inosservanza delle disposizioni», e, segnatamente, di «avere omesso di segnalare l’inosservanza dell’obbligo di fornire adeguata informazione al manovratore della piattaforma aerea in ordine ai rischi per la sicurezza connessi all’attività lavorativa, nonché di procurargli il corretto addestramento per la manovra della detta piattaforma», nonché «l’inosservanza dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie affinché la piattaforma aerea fosse installata in conformità alle istruzioni del fabbricante ed utilizzata correttamente».
Nell’escludere la responsabilità del coordinatore, la Sez. IV premette che «
le funzioni del coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori», e che «la presenza in cantiere del coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli obblighi specificamente individuati ora dall’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008, che comprendono anche poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave ed imminente
Precisa che il coordinatore per l’esecuzione «
ha anche il potere di vigilare sul rispetto del piano di sicurezza da parte dei lavoratori, senza limitarsi ad una verifica superficiale, che non tenga conto delle molteplici ed indefinite situazioni di pericolo grave derivanti nei cantieri dalla violazione sistematica della normativa antinfortunistica».
Prende atto, peraltro, che, nel caso di specie, «la successione degli eventi dimostrava l’interruzione dei canali informativi, a seguito della quale vi era la dimostrazione che nessuna delle ditte presenti nel cantiere aveva comunicato al coordinatore l’ingresso nel cantiere di una nuova società, risultata alla fine, l’unica ad avere la disponibilità della piattaforma aerea cingolata».
Ne desume che il coordinatore «
non era stato posto in condizione di conoscere la disponibilità di una ditta diversa da quella originariamente prevista nel piano di sicurezza».
Conclude che «
è evidente in questo caso l’insussistenza rispetto all’evento dannoso del parametro della prevedibilità»
(tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 7/2014).

SICUREZZA LAVORO: Committente, progettista-direttore dei lavori, coordinatori.
Quanto ai committenti, «la mancata nomina di un responsabile dei lavori e la mancata promozione del contatto tra impresa esecutrice e coordinatore per l’esecuzione dei lavori pongono gli stessi committenti nella posizione di diretti destinatari degli obblighi di vigilanza e verifica sull’operato della prima posti dalle norme di legge, il cui inadempimento rileva (nel caso di specie) sia sotto il profilo causale che sotto quello della colpa, senza che lo stesso possa ritenersi scriminato dalla assenza di competenze tali da consentire di rendersi conto del pericolo incombente».
Con il D.Lgs. n. 81/2008 e già prima con il D.Lgs. n. 494/1996 «
la figura del committente trova esplicito riconoscimento e definizione (‘il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata’’ e ne vengono esplicitati gli obblighi».
Sicché «
l’individuazione di tale peculiare figura di garante è coerente con la complessiva configurazione del sistema di protezione in materia di sicurezza sul lavoro, che tende a connettere la sfera di responsabilità con il ruolo esercitato da alcune figure che tipicamente intervengono nell’ambito delle varie attività lavorative»:
- «
normalmente la figura di vertice della sicurezza è costituita dal datore di lavoro che, come è noto, è individuato non solo nel titolare del rapporto di lavoro, ma anche nel soggetto che ha la responsabilità dell’impresa, ed è quindi chiamato a compiere le più importanti scelte di carattere economico, gestionale ed organizzativo e ne porta le connesse responsabilità»;
- «
è quindi razionale che, nel diverso contesto dell’attività cantieristica di cui qui si tratta, emerga anche la figura del committente, che è il soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta, finanzia l’opera»;
- «
tale ruolo giustifica l’attribuzione di una sfera di responsabilità per ciò che riguarda la sicurezza e la conseguente assegnazione del ruolo di garante»;
- «
la legge gli attribuisce alcuni obblighi sia nella fase progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre figure di garanti legali
».
La nomina di un coordinatore non può esonerare da responsabilità il committente (o il responsabile dei lavori), né per ciò che riguarda la redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi, né per ciò che attiene alla vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento dell’attività di coordinamento e controllo circa l’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento.
Una tale congerie di doveri imposti a carico del committente dalle norme ora trasposte in termini coincidenti nel Testo Unico per la sicurezza del lavoro di cui al D.Lgs. 09.04.2008, n. 81), tanto più in quanto non schermati dalla nomina di un responsabile dei lavori, configura a carico degli stessi una posizione di garanzia rilevante ai fini della imputazione oggettiva anche ad essi, secondo lo schema della causalità omissiva (del tragico evento de quo).
Nel caso di specie, «
la mancata comunicazione al coordinatore per l’esecuzione dei lavori del nominativo dell’impresa installatrice del pesante cancello non è motivo comunque di esonero da responsabilità per quest’ultimo, i cui obblighi in tema di coordinamento prescindono dall’assolvimento dei compiti di cooperazione attribuiti al committente», con la precisazione che «ciò, lungi dal rendere senza conseguenze tale mancata cooperazione, ha semmai l’effetto di rendere più pressante e attuale per il committente l’obbligo di vigilanza sulle attività del coordinatore, costituendo essa stessa motivo di preallarme per il primo sul completo ed efficace svolgimento dei compiti su questo incombenti».
In tema di prevenzione nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa», e «sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell’infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante.
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A proposito del progettista-direttore dei lavori, «
il ruolo di progettista del cancello non può di per sé considerarsi fonte di una posizione di garanzia cui riferire la condotta omissiva penalmente rilevante attribuitagli, nessuna norma imponendo infatti al progettista di un’opera di seguirne e controllarne la sua concreta esecuzione in modo conforme al progetto e in condizioni di sicurezza. Però, valorizza la qualifica di direttore dei lavori al contempo rivestita dall’imputato nell’occorso
».
Al riguardo, «
la figura del direttore dei lavori è estranea alla disciplina prevenzionistica, non comportando essa, automaticamente, la responsabilità per la sicurezza sul lavoro
Peraltro, sussiste «
in capo allo stesso l’obbligo di esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie (quale pur sempre deve considerarsi anche l’installazione del cancello in questione, tanto più in quanto compreso nell’ambito di un più ampio intervento di ristrutturazione edilizia) ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto».
Sicché «
tale obbligo trova fondamento nell’art. 29 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 che, in materia edilizia, pone a carico del direttore dei lavori una posizione di garanzia in merito alla regolare esecuzione dei lavori, che lo rende responsabile, anche nei confronti dei terzi, dei danni derivanti dall’esecuzione dell’opera in difformità delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire».
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Relativamente al coordinatore.
Ciò che fondatamente può rimproverarsi al coordinatore è, non già di aver omesso di seguire passo passo le singole fasi della installazione del cancello, né di avvedersi di una contingente e imprevedibile specifica inosservanza del piano di coordinamento e sicurezza da parte dell’impresa esecutrice, ma proprio di aver omesso di provvedere a una completa e puntuale predisposizione di tale piano e/o al suo aggiornamento in modo da comprendere anche tale specifica attività, con ciò venendo meno all’adempimento degli obblighi di vigilanza, ancorché alta, connessi al suo ruolo.
L’insorgenza in concreto di tali obblighi presupponesse la comunicazione da parte dei committenti del nominativo dell’impresa esecutrice dei lavori di installazione del cancello scorrevole.
L’omissione da parte dei committenti di tale comunicazione può certamente rilevare quale fattore causale concorrente addebitabile agli stessi committenti, ma non vale certo a esonerare il coordinatore per la sicurezza dall’obbligo predetto, ben potendo e dovendo egli autonomamente accertarsi, attraverso l’esame del progetto esecutivo dell’opera realizzanda, della natura e consistenza di tutte le opere progettate e delle conseguenti necessità operative di coordinamento, in modo da garantire la sicurezza di tutte le operazioni.
E' indubitabile la sussistenza di una efficacia causale diretta della violazione della regola cautelare inosservata rispetto al tragico evento verificatosi, essendo di tutta evidenza che la predisposizione di un piano di sicurezza esteso anche alla lavorazione in questione avrebbe del tutto verosimilmente impedito che il manufatto fosse lasciato nelle condizioni di assoluta precarietà e, al contempo, di agevole accessibilità a chiunque, nelle quali si è tragicamente trovato ad essere.
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Con questa sentenza di alto profilo, la Sez. IV esamina un caso particolarmente significativo: «una bambina, entrata nell’area non recintata e non segnalata di un cantiere edile veniva a contatto con il cancello scorrevole in metallo, del peso di 250 kg, collocato a chiusura dell’unico accesso carraio, fissato in modo precario e privo dei relativi fermi a fine corsa, che, ribaltandosi, le cadeva addosso, cagionandole lesioni mortali
Furono dichiarati colpevoli di omicidio colposo, oltre che il titolare dell’impresa individuale appaltatrice dei lavori di realizzazione e posa in opera del cancello e all’esecutore materiale dell’attività di installazione della recinzione e del cancello, i proprietari dell’immobile committenti dell’opera in assenza della nomina di un responsabile dei lavori, il direttore dei lavori nonché progettista del cancello, il coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione.
Illuminanti sono le analisi condotte dalla Corte Suprema in merito a ciascuna di tali tre figure.
   A) Quanto ai committenti, la Sez. IV osserva che, «
ricondotti gli obblighi di vigilanza in capo ai committenti, nessun rilievo può assumere la considerazione che la situazione di pericolo non fosse percepibile ad un non addetto ai lavori», e che «la mancata nomina di un responsabile dei lavori e la mancata promozione del contatto tra impresa esecutrice e coordinatore per l’esecuzione dei lavori ponevano gli stessi committenti nella posizione di diretti destinatari degli obblighi di vigilanza e verifica sull’operato della prima posti dalle norme richiamate, il cui inadempimento rileva nel caso di specie sia sotto il profilo causale che sotto quello della colpa, senza che lo stesso possa ritenersi scriminato dalla assenza di competenze tali da consentire di rendersi conto del pericolo incombente».
Rammenta che, in passato, «la giurisprudenza di legittimità escludeva, anche nel contesto dell’attività cantieristica, che il committente potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell’approntamento del cantiere e nell’esecuzione dei lavori, salvo che non si ingerisse nell’esecuzione dei lavori o privasse l’appaltatore di autonomia tecnica o operativa nell’attuazione delle misure di prevenzione degli infortuni», e che, con il D.Lgs. n. 81/2008 e già prima con il D.Lgs. n. 494/1996, «la figura del committente trova esplicito riconoscimento e definizione (‘il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata’’ e ne vengono esplicitati gli obblighi».
Ne trae che «
l’individuazione di tale peculiare figura di garante è coerente con la complessiva configurazione del sistema di protezione in materia di sicurezza sul lavoro, che tende a connettere la sfera di responsabilità con il ruolo esercitato da alcune figure che tipicamente intervengono nell’ambito delle varie attività lavorative»: «normalmente la figura di vertice della sicurezza è costituita dal datore di lavoro che, come è noto, è individuato non solo nel titolare del rapporto di lavoro, ma anche nel soggetto che ha la responsabilità dell’impresa, ed è quindi chiamato a compiere le più importanti scelte di carattere economico, gestionale ed organizzativo e ne porta le connesse responsabilità»; «è quindi razionale che, nel diverso contesto dell’attività cantieristica di cui qui si tratta, emerga anche la figura del committente, che è il soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta, finanzia l’opera»; «tale ruolo giustifica l’attribuzione di una sfera di responsabilità per ciò che riguarda la sicurezza e la conseguente assegnazione del ruolo di garante»; «la legge gli attribuisce alcuni obblighi sia nella fase progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre figure di garanti legali».
Sottolinea efficacemente che «l
a nomina di un coordinatore non può esonerare da responsabilità il committente (o il responsabile dei lavori), né per ciò che riguarda la redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi, né per ciò che attiene alla vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento dell’attività di coordinamento e controllo circa l’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento».
Ne desume che «
una tale congerie di doveri imposti a carico del committente dalle norme ora trasposte in termini coincidenti nel Testo Unico per la sicurezza del lavoro di cui al D.Lgs. 09.04.2008, n. 81), tanto più in quanto non schermati dalla nomina di un responsabile dei lavori, configuri a carico degli stessi una posizione di garanzia rilevante ai fini della imputazione oggettiva anche ad essi, secondo lo schema della causalità omissiva, del tragico evento de quo».
Nota, in particolare, che «proprio l’inosservanza dell’obbligo di mettere in contatto l’impresa esecutrice dei lavori di installazione del cancello con il coordinatore per l’esecuzione dei lavori -nell’una e nell’altra direzione- imposto al committente, da un lato, ha avuto significativa incidenza nella sequenza causale che ha condotto al tragico evento, come è possibile agevolmente cogliere, con giudizio controfattuale, ove si consideri che l’adempimento di un tale obbligo avrebbe potuto avere l’effetto di attivare e sollecitare l’uno e l’altro soggetto rispettivamente alla predisposizione di un piano operativo di sicurezza e al controllo della sua realizzazione e osservanza; dall’altro, ha indubbiamente reso particolarmente pregnante e cogente l’obbligo sussidiario di garanzia direttamente incombente sui committenti ai sensi del citato art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 494/1996 [ora 93, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008], in particolare per quel che riguarda la vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento dell’attività di coordinamento e controllo circa l’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento».
Ammette che «
la mancata comunicazione al coordinatore per l’esecuzione dei lavori del nominativo dell’impresa installatrice del pesante cancello non è motivo comunque di esonero da responsabilità per quest’ultimo, i cui obblighi in tema di coordinamento prescindono dall’assolvimento dei compiti di cooperazione attribuiti al committente», ma chiarisce che «ciò, lungi dal rendere senza conseguenze tale mancata cooperazione, ha semmai l’effetto di rendere più pressante e attuale per il committente l’obbligo di vigilanza sulle attività del coordinatore, costituendo essa stessa motivo di preallarme per il primo sul completo ed efficace svolgimento dei compiti su questo incombenti».
Considera irrilevante che «il tragico evento che si afferma essere conseguito alle omissioni dei committenti abbia riguardato terzi e non lavoratori impegnati nell’esecuzione delle opere commesse in appalto», poiché, «
in tema di prevenzione nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa», e «sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell’infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante
Afferma che, «nel caso di specie, non è certamente predicabile un siffatto carattere di eccezionalità e atipicità della presenza della bambina e dei suoi genitori sui luoghi del tragico sinistro, attesa la mancanza di recinzione e segnalazione e la prossimità di edifici destinati a civile abitazione».
   B) A proposito del progettista-direttore dei lavori, la Sez. IV concede che «
il ruolo di progettista del cancello non può di per sé considerarsi fonte di una posizione di garanzia cui riferire la condotta omissiva penalmente rilevante attribuitagli, nessuna norma imponendo infatti al progettista di un’opera di seguirne e controllarne la sua concreta esecuzione in modo conforme al progetto e in condizioni di sicurezza. Però, valorizza la qualifica di direttore dei lavori al contempo rivestita dall’imputato nell’occorso
».
Al riguardo, ammette che «
la figura del direttore dei lavori è estranea alla disciplina prevenzionistica, non comportando essa, automaticamente, la responsabilità per la sicurezza sul lavoro.» Peraltro, individua nondimeno «in capo allo stesso l’obbligo di esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie (quale pur sempre deve considerarsi anche l’installazione del cancello in questione, tanto più in quanto compreso nell’ambito di un più ampio intervento di ristrutturazione edilizia) ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto».
Ritiene che «
tale obbligo trova fondamento nell’art. 29 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 che, in materia edilizia, pone a carico del direttore dei lavori una posizione di garanzia in merito alla regolare esecuzione dei lavori, che lo rende responsabile, anche nei confronti dei terzi, dei danni derivanti dall’esecuzione dell’opera in difformità delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire».
Prende atto che, nel caso di specie, i magistrati di merito hanno, «da un lato, escluso, nei confronti del direttore dei lavori, l’applicabilità dell’aggravante della violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, dall’altro focalizzato correttamente il profilo di colpa ad esso addebitato nell’omesso accertamento della conformità delle modalità di esecuzione alle regole della tecnica e nella mancata attiva vigilanza su tutte le fasi esecutive dell’opera».
   C) Lucida è poi l’analisi relativa al coordinatore. Al riguardo, la Sez. IV rileva come «
ciò che fondatamente può rimproverarsi al coordinatore è, non già di aver omesso di seguire passo passo le singole fasi della installazione del cancello, né di avvedersi di una contingente e imprevedibile specifica inosservanza del piano di coordinamento e sicurezza da parte dell’impresa esecutrice, ma proprio di aver omesso di provvedere a una completa e puntuale predisposizione di tale piano e/o al suo aggiornamento in modo da comprendere anche tale specifica attività, con ciò venendo meno all’adempimento degli obblighi di vigilanza, ancorché alta, connessi al suo ruolo».
Esclude che «
l’insorgenza in concreto di tali obblighi presupponesse la comunicazione da parte dei committenti del nominativo dell’impresa esecutrice dei lavori di installazione del cancello scorrevole.»
Spiega che «
l’omissione da parte dei committenti di tale comunicazione può certamente rilevare quale fattore causale concorrente addebitabile agli stessi committenti, ma non vale certo a esonerare il coordinatore per la sicurezza dall’obbligo predetto, ben potendo e dovendo egli autonomamente accertarsi, attraverso l’esame del progetto esecutivo dell’opera realizzanda, della natura e consistenza di tutte le opere progettate e delle conseguenti necessità operative di coordinamento, in modo da garantire la sicurezza di tutte le operazioni».
Prende atto che, «nel caso di specie: a) il coordinatore per la sicurezza aveva, per sua stessa ammissione, consapevolezza della previsione del cancello tra le opere in progetto;
b) egli non poteva non avere contezza del fatto che alla sua installazione ormai ci si stesse di fatto avviando, considerato lo stato di avanzamento dei lavori;
c) di più, egli era presumibilmente consapevole del progetto esecutivo del cancello nonché della ditta incaricata, avuto riguardo alla accertata con titolarità al coordinatore e al progettista-direttore dei lavori del medesimo studio tecnico associato e considerato che tale circostanza e lo stretto rapporto di colleganza da essa desunto sono risultati fonte di conoscenze comuni, relative ad altri momenti dell’attività del cantiere e alle sottostanti vicende negoziali e sono stati anche confermati da alcuni testi
».
Nota, a questo punto, che «
è indubitabile la sussistenza di una efficacia causale diretta della violazione della regola cautelare inosservata rispetto al tragico evento verificatosi, essendo di tutta evidenza che la predisposizione di un piano di sicurezza esteso anche alla lavorazione in questione avrebbe del tutto verosimilmente impedito che il manufatto fosse lasciato nelle condizioni di assoluta precarietà e, al contempo, di agevole accessibilità a chiunque, nelle quali si è tragicamente trovato ad essere» (Circa le figure del committente, del progettista, del direttore dei lavori e dei coordinatori, v., oltre le sentenze Landi e Angele qui di seguito, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, sub artt. 92 e 93)
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 05.05.2014 n. 18459 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 7/2014).

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