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AGGIORNAMENTO AL 26.10.2015 |
ã |
Tecnici Comunali
(pubblici dipendenti) e quota annuale di iscrizione
all'albo/ordine professionale a carico dell'ente:
ecco una 1^
conferma (o
condivisione che dir si voglia)
della bontà della nostra tesi!! |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 14.05.2015 davamo conto (a nostro
sommesso parere) di come stessero esattamente i
termini della questione a fronte di un 1° commento "a caldo"
(invero avventato e dalle
conclusioni perentorie) a firma del Consiglio
Consiglio Nazionale
degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e
Conservatori con la
circolare 22.04.2015 n. 49 all'indomani
della
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez.
lavoro della Corte di Cassazione alla quale è stata
data eco da parte della stampa specializzata (articolo
ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it).
Successivamente, sempre il CNAPPC è intervenuto con un
2° commento "a freddo" (circolare
23.07.2015 n. 98)
laddove ha svolto considerazioni più circostanziate
(aggiustando parzialmente il tiro del 1° commento)
nel senso che:
►
ha ravvisato (non
poteva essere diversamente) che in materia di lavori
pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) "l'art.
90, comma 4, del codice degli appalti dispone che è
sufficiente per la sottoscrizione di un progetto la
sola abilitazione all'esercizio della professione";
►
ha evidenziato, tra
l'altro, che "in
numerosi punti del DPR 380/2001 viene affermato
l'obbligo di iscrizione all'albo per il compimento
di attività urbanistica ed edilizia",
pervenendo alla conclusione che "appare
logico e ragionevole, a fronte di quanto esposto,
ritenere che per i professionisti pubblici
dipendenti l'iscrizione all'albo professionale sia a
carico dell'Amministrazione di appartenenza".
Ebbene, pochi giorni fa, anche il Consiglio Nazionale degli
Ingegneri ha preso posizione sulla questione, con la
circolare 21.10.2015 n. 615,
a fronte di alcune richieste di chiarimenti riguardo
la sentenza della Cassazione civile, Sez. lavoro,
16.04.2015 n. 7776, significando quanto segue:
●
"...gli
Ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli
Uffici tecnici delle stazioni appaltanti possono
espletare (nell'ambito del Codice dei Contratti
Pubblici) attività di progettazione per conto della
PA con il requisito della (mera) abilitazione, senza
necessità di iscrizione all’albo.
In questo caso, dunque, a differenza degli Avvocati,
non si può affermare che l’iscrizione all’albo è
presupposto indispensabile per svolgere l’attività a
favore dell’Ente di appartenenza; ne deriva che
viene meno la condizione per esigere il rimborso
della quota di iscrizione eventualmente pagata
dall’interessato",
e rappresentando, in
definitiva, l’opinione non vincolante del Consiglio
Nazionale in questi termini:
a) la disposizione di cui all’art. 90, comma 4,
d.lgs. n.163/2006 -che consente ai dipendenti di
svolgere attività progettuale per conto della
propria o di altra PA, senza necessità di essere
iscritti all’albo,- deve ritenersi norma speciale di
stretta interpretazione e non può quindi trovare
applicazione al di fuori dei casi espressamente e
puntualmente previsti (ex art. 14 disp. prel. c.c.);
b) per tutte le ipotesi in cui la legge non prevede la mera
abilitazione (e quindi il superamento dell’Esame di
Stato), riprende vigore e si applica la regola
generale dettata dall’art. 1 della legge 25/04/1938
n. 897 (confermato dagli articoli 2 e 3 DPR
328/2001): “Gli Ingegneri… non possono esercitare la
professione se non sono iscritti negli albi
professionali delle rispettive categorie, a termini
delle disposizioni vigenti”;
c) nel lavoro dipendente –afferma la giurisprudenza– si riscontra
comunque l’assunzione, analoga a quella che sussiste
nel mandato, a compiere un’attività per conto e
nell’interesse altrui. E le spese sostenute dal
lavoratore nell’interesse del datore di lavoro
devono essere rimborsate al dipendente;
d) per potersi predicare il diritto al rimborso della tassa di
iscrizione all’albo da parte del dipendente occorre
dunque:
I) che l’iscrizione sia funzionale allo svolgimento
di una attività professionale e
II) vi sia un vincolo di esclusività, nell’ambito
del rapporto di lavoro tra dipendente ed Ente
pubblico datore di lavoro. Solamente al ricorrere di
queste 2 condizioni, secondo la Cassazione, il
dipendente è legittimato a richiedere alla propria
Amministrazione il rimborso della quota di
iscrizione all’albo.
e) non appare quindi automaticamente estensibile agli Ingegneri
dipendenti, senza ulteriori verifiche, il principio
espresso dalla Cassazione civile, sezione Lavoro, n.
7776/2015.
f) è evidente, in ogni caso, stante le peculiari caratteristiche
del rapporto di lavoro (e del relativo contratto)
intercorrente tra dipendente pubblico ed Ente
pubblico -e l’obbligo per la PA del perseguimento
del pubblico interesse- che la decisione finale sui
singoli casi concreti è rimessa alla competenza
delle Amministrazioni interessate, valutate tutte le
circostanze di fatto e di diritto. |
QUINDI?? |
Quindi, in materia di lavori pubblici (D.Lgs. n.
163/2006) ora non c'è più alcun dubbio (veramente,
non c'è mai stato!!): i tecnici dipendenti della
P.A., per svolgere il proprio mansionario,
NON abbisognano
dell'iscrizione all'ordine/albo professionale, né
l'ente di appartenenza è tenuto a sobbarcarsi la
quota annuale di iscrizione (a richiesta degli
stessi) poiché, altrimenti, si concretizzerebbe
danno erariale. |
Ma in materia edilizio-urbanistica, di cui al DPR n.
380/2001 (e non solo), come stanno le cose?? |
Ed è proprio questo il punto dolente, siccome
evidenziato anche dal CNAPPC nella suddetta
circolare 23.07.2015 n. 98,
laddove le conclusioni -già anticipate più sopra-
porterebbero a sostenere la necessità
dell'iscrizione all'ordine/albo professionale col
conseguente onere finanziario (quota annuale) a
carico dell'Amministrazione di appartenenza.
Detto altrimenti e tanto per esemplificare, all'interno
dell'Ufficio Tecnico:
Þ
per la redazione del Piano di Governo del Territorio
(P.G.T.) ovvero sue varianti,
Þ
per la sottoscrizione
degli elaborati progettuali di ristrutturazione
edilizia del palazzo della Regione ovvero
della Provincia da compiegare alla richiesta del
permesso di costruire da inoltrare al comune
capoluogo,
Þ
per la
progettazione/direzione/collaudo statico dei cementi
armati,
Þ
per la redazione di un
frazionamento catastale ovvero
l'accatastamento di un edificio pubblico presso
l'Agenzia delle Entrate,
Þ
per la progettazione
degli impianti tecnologici (elettrico,
riscaldamento, gas-metano, ecc.),
i tecnici progettisti sarebbero tenuti
all'iscrizione.
Ma se così fosse,
quanti comuni, province, regioni sarebbero in
regola?? Il
sentore della risposta è verosimilmente
devastante...
Comunque, se vogliamo avere certezze non ci resta che
attendere il riscontro da parte di alcuni Ministeri
all'uopo interpellati da un comune sulla specifica
questione.
26.10.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
VARI: E’
arrivato il momento di accendere i riscaldamenti. Ecco i
limiti imposti dalle norme e come risparmiare sul
riscaldamento.
Ecco il vademecum di Enea e Mise su come risparmiare sul
riscaldamento, con le regole d’oro per ridurre i consumi e
migliorare l’efficienza energetica, evitando sprechi e
sanzioni (...continua)
(22.10.2015 - link a www.acca.it). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Cassazione - Il lavoratore vanta un diritto
soggettivo ad astenersi dal lavoro in occasione delle
festività infrasetimanali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 19.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dal 15 ottobre solo mobilità d'ufficio per le
pubbliche amministrazioni
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 14.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il
part-time non perde le ferie. Parere aran.
Il dipendente pubblico in regime di part-time orizzontale ha
diritto al medesimo numero di giorni di ferie e festività
soppresse spettanti nell'ambito del rapporto di lavoro a
tempo pieno. Viceversa, in caso di part-time verticale, il
numero di giorni di assenza retribuita dovrà essere
riproporzionato in relazione alle giornate di lavoro
effettivamente previste nel contratto individuale.
Il chiarimento è contenuto in un recente orientamento
applicativo diffuso dall'Aran (parere
07.10.2015 n. RAL 1787).
Ricordiamo che nel lavoro a tempo parziale di tipo
orizzontale il dipendente lavora tutti i giorni, ma a orario
ridotto. Nel lavoro a tempo parziale di tipo verticale,
invece, il dipendente lavora a tempo pieno, ma solo in
alcuni giorni della settimana, del mese, o dell'anno.
Ebbene, nel primo caso (part-time orizzontale), i giorni di
ferie e di festività spettanti sono gli stessi di chi lavora
a tempo pieno. Ovviamente, il trattamento economico di
ciascuna giornata di ferie è comunque commisurato alla
durata della prestazione giornaliera. Nel secondo caso
(part-time verticale) occorrerà procedere al
riproporzionamento.
Per esempio, se la settimana lavorativa dei dipendenti a
tempo pieno è articolata su 5 giorni, il dipendente che
lavora 4 giorni su 5, matura, per ogni mese di servizio,
1,87 giorni di ferie [(28/12) x 4/5], e 0,27 giorni di ex
festività [(4/12) x 4/5]. Nel caso di rapporto a tempo
parziale di tipo misto, trovano applicazione entrambe le
forme di riproporzionamento previste, sia quella per il
tempo parziale verticale che quella per il tipo orizzontale.
Ai fini della quantificazione dei giorni di ferie e
festività spettanti, pertanto, in considerazione
dell'articolazione dell'orario solo su alcuni giorni della
settimana rispetto a quelli previsti per il tempo pieno,
troverà applicazione la medesima regola prevista per il
tempo parziale verticale.
Per ciò che attiene al trattamento economico delle stesse,
invece, troverà applicazione il riproporzionamento previsto
per il tempo parziale orizzontale, nel senso che esso sarà
commisurato alla durata della prestazione giornaliera
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Costi degli Ordini e dei Collegi a carico del
datore di lavoro?
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 30.07.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: DIPENDENTI PUBBLICI ISCRITTI ALL’ALBO – QUOTA
ANNUALE DI ISCRIZIONE - SENTENZA CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE
LAVORO, 16.04.2015 N. 7776 – APPLICABILITÀ AI DIPENDENTI
INGEGNERI – LIMITI - CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 21.10.2015 n. 615). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuova classificazione sismica del territorio
lombardo – Nuova legge regionale in tema di costruzioni e
vigilanza in zone sismiche
(ANCE di Bergamo,
circolare 16.10.2015 n. 206). |
EDILIZIA PRIVATA:
CHIARIMENTI IN MATERIA DI EFFICIENZA ENERGETICA IN EDILIZIA
- Decreto 26.06.2015 cosiddetto “Decreto requisiti minimi”
- Decreto 26.06.2015 cosiddetto “Decreto Linee guida APE”
(Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione generale per
il mercato elettrico, le rinnovabili e l’efficienza
energetica, il nucleare, ottobre 2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Applicazione articolo 9, comma 2-bis, del DL n.
78/2010 con riferimento alle posizioni organizzative a
carico del bilancio (art. 11 CCNL 31.03.1999)
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria
Generale dello Stato,
nota 10.08.2015 n. 63898 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Dipendenti pubblici iscritti agli albi -
Contributo annuale iscrizione a carico della P.A. -
Chiarimenti (Consiglio Nazionale degli Architetti
Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori,
circolare 23.07.2015 n. 98). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Attività di collaudo degli Ingegneri dipendenti
di pubbliche amministrazioni - art. 61, comma 9, del D.L. n.
112/2008 - ambito soggettivo di applicazione - richiesta
parere - risposta Dipartimento della Ragioneria Generale
dello Stato del 17/01/2012 - risposta Dipartimento della
Funzione Pubblica del 13/02/2012 (Consiglio Nazionale
degli Ingegneri,
circolare 20.06.2012 n. 82). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo: i criteri per applicarlo ai tributi
comunali (19.10.2015 - tratto da
www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
M. De Paolis,
Focus: diritto di accesso negli enti locali (Azienditalia
- Enti Locali n. 12/2014).
---------------
L’accesso negli enti locali, amministrazioni in prima
linea, costituisce uno degli architravi su cui si fonda la
trasparenza e la corretta erogazione dei servizi pubblici
che assorbono una rilevante porzione delle risorse di
bilancio in continua fase di restrizione a causa della
persistente crisi economia del nostro Paese. |
PATRIMONIO:
F. Caponi e A. Tavanti,
Canone per l’uso di un bene comunale troppo basso:
rispondono di danno sindaco e dirigente (Azienditalia
- Enti Locali n. 12/2014).
---------------
La gestione
poco accorta di un bene comunale concesso a terzi con un
canone d’affitto irrisorio determina per l’ente solo
diseconomie, pertanto, il danno deve essere risarcito dal
sindaco e dal dirigente responsabile.
La decisione di destinare alcuni spazi comunali a terzi deve
comportare un’utilità per l’ente. |
APPALTI:
G. Cascone e N. Sivilia,
Debiti fuori bilancio: evoluzioni normative, definitorie e
giurisprudenziali (Azienditalia - Enti Locali n.
8-9/2014).
---------------
La dottrina giuscontabile pubblica, per decenni, ci ha
insegnato ad individuare il debito fuori bilancio attraverso
la definizione delle procedure contabili delle spese e delle
relative patologie, e con essa la giurisprudenza della Corte
dei conti sempre in completa armonia: tant’è vero che
l’elencazione tassativa, via via divenuta legge e poi
trasfusa nell’art. 194 del Tuel consentiva agli operatori
locali di inquadrare, agevolmente e con ragionevole
certezza, la problematica emergente in una determinata
fattispecie.
Spesso si sentiva parlare di debiti fuori bilancio e di
passività pregresse e se ne esploravano le differenze,
mentre oggi si assiste ad un chiaro disegno volto a
cancellare queste ultime “dalla scena”; poi ad un tratto, un
po’ a causa della maggiore presenza “consultiva” della Corte
dei conti, vieppiù assidua ed incisiva, un po’ a causa di
una non meglio identificata rivisitazione definitoria del
concetto di debito fuori bilancio (che tutti davano per
scontato), tutto è stato rimesso in discussione e le
relative certezze nella materia di cui si dice sono state
pressoché smantellate.
Non è raro, infatti, assistere ad alterchi interpretativi,
anche all’interno di uno stesso ente, rispetto a “cosa è” e
a “cosa non è” un debito fuori bilancio, con la conseguenza
di un rallentamento dell’attività amministrativa. |
VARI:
Offerta al pubblico di compravendita immobiliare:
l’applicazione all’asta privata, ancora non normata, di
principi accettati (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio 20.06.2014 n. 153-2014/C).
---------------
Sommario: 1. Il ruolo sempre nuovo del notaio; 2.
L’incarico di gestione dell’asta privata; 3.1. Offerta al
pubblico di contratto preliminare di vendita immobiliare e
modalità di accettazione; 3.2. Offerta al pubblico e
fattispecie consimili; 4.1 Le tipologie di asta normate; 4.2
L'asta privata come fattispecie non ancora normata. 5.
Modulazione tecnica dell’offerta al pubblico con asta
privata; 6. Il disciplinare ed il bando d’asta; 7. Il
verbale di asta; 8. Esclusione del conflitto potenziale tra
un siffatto incarico e l’attività di mediazione e le
prerogative di imprenditorialità; 9. Maggiori vantaggi e
garanzie per venditore ed acquirente; 10. Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
E. Gamberini e M. Mordenti,
Strumenti per una gestione associata efficace e di qualità
alla luce della legge Delrio - Gli schemi di convenzione per
le funzioni obbligatorie. Gli indicatori di effettività,
efficienza e qualità (Azienditalia - Enti Locali
n. 6/2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Rossi,
Decreti ingiuntivi, riconoscibili come sentenze esecutive ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. a), del Tuel
(Azienditalia - Enti Locali n. 5/2014).
----------------
La disciplina dei debiti fuori bilancio costituisce un
aspetto peculiare dell’ordinamento contabile degli enti
locali, anche in relazione all’interpretazione
dell’elencazione tassativa contenuta nell’art. 194 del Tuel.
Particolarmente rilevante si presenta l’individuazione del
perimetro applicativo della lett. a) del comma 1 relativo
alle «sentenze esecutive», nell’ambito del quale (anche
sulla base delle interpretazioni della Corte dei conti) non
rientrano gli accordi transattivi ma nel quale devono essere
inclusi i decreti ingiuntivi.
Questi ultimi quindi dovranno essere riconosciuti ricorrendo
alla procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio,
con i conseguenti obblighi di comunicazione alla Procura
regionale della Corte dei conti competente per territorio. |
APPALTI:
P. Cosmai,
‘‘Trasparenza’’ e ‘‘Pubblicità’’ negli appalti secondo Itaca
(Azienditalia - Enti Locali n. 3/2014).
----------------
Con il susseguirsi, rapidi, dei decreti legislativi di
attuazione della legge 06.11.2012, n. 190, recante
‘‘Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica
amministrazione’’, tra i quali, da ultimo il D.Lgs.
14.03.2013, n. 33, in vigore dal successivo 20 aprile,
Itaca, l’Istituto per l’innovazione e trasparenza degli
appalti e la compatibilità ambientale, cerca di dipanare il
coacervo normativo in tema di prescrizioni sulla pubblicità
e trasparenza degli atti afferenti la contrattazione
pubblica, fissando delle pratiche linee guida, completate da
tavole operative. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
V. Giannotti,
Rimborso delle spese legali agli amministratori. I recenti
orientamenti della giurisprudenza contabile (Azienditalia
- Enti Locali n. 3/2014).
---------------
L’aleatorietà dei giudizi che dispongono la
rimborsabilità delle spese legali agli amministratori locali
ha recentemente aperto un nuovo dibattito da parte della
giurisprudenza contabile, il cui obiettivo principale è
quello di fornire agli enti locali corrette soluzioni
affinché, tali spese, gravino in misura oculata nei bilanci,
evitando in tal modo di creare potenziali futuri squilibri
nella parte corrente. |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le
assunzioni a tempo determinato-conferimento incarichi
dirigenziali, ex art. 110, 1° comma T.U.E.L., esulano dal
campo di applicazione del comma 424, art. 1, l. 190/2014
perché “estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1,
comma 424, della legge n. 190/2014” e restano assoggettate
ai divieti e limiti propri degli specifici istituti.
In particolare, i conferimenti di incarico
dirigenziale, ai sensi dell’art. 110, comma 1, T.U.E.L.,
possono avvenire in misura non superiore al 30 per cento dei
posti istituiti nella dotazione organica della medesima
qualifica e nei limiti di spesa previsti dall’art. 9, comma
28, d.l. n. 78/2010, come modificato, da ultimo, dall’art.
11, comma 4-bis, d.l. n. 90/2014, e interpretato dalla
deliberazione n. 2/2015 della Sezione delle autonomie.
Tuttavia, si ritiene utile richiamare l’ente a
valutare con attenzione e cautela il ricorso a una
forma di assunzione a tempo determinato per la copertura di
un posto vacante in dotazione organica, che, secondo le
modalità di configurazione concreta, potrebbe essere
destinato ai fini assunzionali del citato comma 424, onde
non eludere i vincoli ivi previsti.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 22645/1.13.9, del 18.09.2015,
protocollata in data 22.09.2015, una richiesta di parere
del Sindaco del Comune di Arezzo che ha formulato il
seguente quesito: se sia possibile prevedere, nell’ambito
della pianificazione delle assunzioni di personale relative
all’anno 2015, la destinazione di risorse alla copertura di
un posto di dotazione organica mediante il conferimento di
un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1,
d.lgs. 267/2000, senza vanificare le previsioni normative
sulla prioritaria ricollocazione del personale di area
vasta, di cui all’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014.
...
L’art. 1, comma 424, l. n. 190/2014 ha introdotto, come
ormai è ben noto, una disciplina particolare per le
assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali,
derogatoria per gli anni 2015/2016 di quella generale, per
consentire la completa ricollocazione delle unità
soprannumerarie degli enti di area vasta, a seguito del
processo di riforma previsto dalla l. n. 56/2014.
Il Comune istante chiede se tale normativa incida anche
sulle possibilità di assunzione di personale a tempo
determinato e in particolare sulla possibilità di conferire
incarichi dirigenziali ex art. 110, comma 1, T.U.E.L., di
cui al d.lgs. n. 267/2000.
Il medesimo quesito, insieme ad altri, sempre vertenti sulla
corretta applicazione dell’art. 1, comma 424, l. n.
190/2014, è stato posto alla Sezione delle autonomie, che,
con la deliberazione 04.06.2015, n. 19, si è espressa così:
“il comma 424 contiene solo un espresso regime
derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie
dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo
indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti
interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna
novella legislativa esorbita dalla stessa funzione
nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle
fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle
disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge
190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina
normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli
previsti dalle leggi.
Gli specifici quesiti in argomento che si ricordano: il
primo, teso a conoscere se sia possibile effettuare
assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti
previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile conferire
un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1,
del TUEL esorbitano, dunque, secondo i criteri appena
enunciati, dal tema delle difficoltà interpretative ed
applicative del comma 424; sugli stessi, quindi, non vi è
luogo a deliberare”.
La Sezione delle autonomie ha, quindi, ritenuto che
le fattispecie richiamate (assunzioni a tempo
determinato-conferimento incarichi dirigenziali ex art. 110,
1° comma T.U.E.L.) esulano dal campo di applicazione del
predetto comma 424, perché “estranee alle disposizioni
contenute nell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014”
e restano assoggettate ai divieti e limiti propri degli
specifici istituti.
In particolare, i conferimenti di incarico
dirigenziale, ai sensi dell’art. 110, comma 1, T.U.E.L.,
possono avvenire in misura non superiore al 30 per cento dei
posti istituiti nella dotazione organica della medesima
qualifica e nei limiti di spesa previsti dall’art. 9, comma
28, d.l. n. 78/2010, come modificato, da ultimo, dall’art.
11, comma 4-bis, d.l. n. 90/2014, e interpretato dalla
deliberazione n. 2/2015 della Sezione delle autonomie.
Questa Sezione, come evidenziato anche in altri pareri (Sez.
contr. Piemonte n. 113/2015, Sez. contr. Toscana n.
244/2015), ritiene, però, anche, utile richiamare l’ente a
valutare con attenzione e cautela il ricorso a una
forma di assunzione a tempo determinato per la copertura di
un posto vacante in dotazione organica, che, secondo le
modalità di configurazione concreta, potrebbe essere
destinato ai fini assunzionali del citato comma 424, onde
non eludere i vincoli ivi previsti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 20.10.2015 n. 447). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relativamente
alla posizione di dipendente di un ente locale che, in virtù
di una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 14 del CCNL
20.01.2004, presta il proprio servizio anche presso un
comune diverso, ritiene il Collegio che siano applicabili
estensivamente i medesimi principi posti a fondamento della
normativa contrattuale prevista specificamente per i
segretari comunali.
Invero, la casistica de qua potrebbe
considerarsi riconducibile alla eadem ratio di limitare,
mediante il riconoscimento di un rimborso ai dipendenti
“convenzionati”, l’entità dei maggiori oneri derivanti dalle
ulteriori e/o maggiori spese di viaggio, conseguenti alla
necessità di raggiungere più sedi di servizio.
L’eventuale previsione del rimborso delle spese di viaggio,
nonché la regolamentazione delle modalità, della tempistica
e del quantum del riconoscimento devono essere disciplinati
nell’ambito della convenzione medesima e, quindi, trovano la
propria sedes materiae nell’accordo negoziale intercorrente
tra gli enti locali interessati.
Osserva il Collegio che, ancorché lo
strumento convenzionale è principalmente volto al
miglioramento dell’organizzazione delle funzioni e dei
servizi istituzionali, nell’osservanza dei principi di
efficienza e di efficacia della pubblica amministrazione,
questo non può sottrarsi alle regole che impongono agli enti
locali il rigoroso rispetto dei principi di economicità e
sana gestione finanziaria; pertanto, il riconoscimento del
rimborso delle spese di viaggio convenzionalmente
concordate, deve soggiacere ad alcune limitazioni.
In via del tutto esemplificativa, il Collegio rammenta la
copiosa giurisprudenza del controllo in relazione
all’utilizzo del mezzo proprio, con particolare riferimento
alle connesse finalità di contenimento della spesa e degli
oneri che vengono sostenuti in ipotesi di utilizzo dei mezzi
pubblici di trasporto.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del comune
di Sammichele di Bari (BA) ha presentato una richiesta di
parere inerente alla possibilità che l’ente assuma l’onere
del rimborso delle spese di viaggio sostenute dal personale
dipendente di altro ente, ma utilizzato in convenzione
presso il comune istante.
In particolare, il Rappresentante legale del comune ha
precisato in via preliminare che:
• “…il Comune di Sammichele di Bari ha in essere duplice
accordo convenzionale, stipulato ai sensi dell’art. 14 CCNL
22/01/2004 Comparto Regioni Enti Locali, con i Comuni di
Bari e Molfetta.
• Tali accordi disciplinano l’utilizzo congiunto tra i
Comuni aderenti di duplice unità di personale,
rispettivamente n. 1 istruttore direttivo di vigilanza e n.
1 istruttore direttivo tecnico, entrambi titolari di
posizione organizzativa.
• Le convenzioni sono state strutturate in modo tale che i
due professionisti prestino la propria attività
alternativamente nei comuni datori di lavoro ovvero in
quello convenzionato. Non risulta previsto, in senso
opposto, che nell’ambito della medesima giornata lavorativa
sia necessario lo spostamento tra una sede d’ufficio e
l’altra…”.
In considerazione di quanto suesposto il Sindaco chiede
un parere affinché venga chiarito se “…sia corretto
inserire nello stipulando accordo convenzionale clausola che
consenta ai dipendenti, di cui è richiesto l’utilizzo
congiunto, di ottenere il rimborso delle spese viaggio,
necessarie per il raggiungimento di questa sede
convenzionata. Ciò fermo restando, come in precedenza
descritto, che le modalità di utilizzo del personale
convenzionato escludono la necessità, salvo eccezionali
situazioni, di mobilità tra le sedi municipali in accordo…”.
...
La questione sottoposta al vaglio consultivo della Sezione
investe la possibilità, per i comuni che si avvalgono di
personale “in convenzione” con altri enti, di
riconoscere a tale tipologia di dipendenti il rimborso spese
derivante dall’incombenza degli spostamenti fra le sedi
istituzionali ove si presta servizio.
Preliminarmente, si rende necessario precisare che la
giurisprudenza della Corte dei conti ha avuto già occasione
di pronunciarsi in merito all’individuazione della normativa
di riferimento per analoghe fattispecie.
In particolare, la deliberazione n. 9/CONTR/2011, delle
Sezioni Riunite della Corte dei conti in sede di controllo,
ha statuito la sostanziale inapplicabilità della
disciplina sui limiti di spesa connessa al trattamento di
missione (Cfr. art. 6 della legge n. 122 del 2010), al
segretario comunale titolare di segreterie convenzionate per
l’accesso alle diverse sedi, riconoscendo, di conseguenza,
l’estraneità dell’istituto giuridico del “trattamento di
missione”, rispetto al rimborso delle spese di viaggio
effettivamente sostenute e documentabili da parte del
segretario in convenzione.
Quest’ultima ipotesi è stata esplicitamente contemplata
dall’art. 45, comma 2 del CCNL 16.05.2001 dei Segretari
comunali e provinciali, con il quale si è inteso, “…sollevare
il segretario comunale o provinciale dalle spese sostenute
per gli spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove il
medesimo è chiamato ad espletare le funzioni…” (cfr.
SS.RR. n. 9/CONTR/2011).
Il successivo comma 3 del medesimo art. 45, prevede che la
spesa per i trasferimenti tra i diversi enti interessati,
sia ripartita secondo le modalità stabilite nella
convenzione, palesando, all’evidenza, come tale onere assuma
carattere negoziale e non risulti coincidente con la diversa
ipotesi del trattamento di missione tout court (cfr. Sez.
Regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n.
118/PAR/2013 e Sezione Regionale di controllo per la
Lombardia, deliberazione n. 348/PAR/2014).
Per quel che concerne la fattispecie
oggetto di richiesta di parere, ovvero la peculiare
posizione di dipendente di un ente locale che, in virtù di
una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 14 del CCNL
20.01.2004 –
Comparto Regioni Enti locali, presta il
proprio servizio anche presso un comune diverso, ritiene il
Collegio che siano applicabili estensivamente i medesimi
principi posti a fondamento della normativa contrattuale
suindicata, e prevista specificamente per i segretari
comunali.
Invero, la casistica de qua potrebbe
considerarsi riconducibile alla eadem ratio di
limitare, mediante il riconoscimento di un rimborso ai
dipendenti “convenzionati”, l’entità dei maggiori
oneri derivanti dalle ulteriori e/o maggiori spese di
viaggio, conseguenti alla necessità di raggiungere più sedi
di servizio. L’eventuale previsione del rimborso delle spese
di viaggio, nonché la regolamentazione delle modalità, della
tempistica e del quantum del riconoscimento devono
essere disciplinati nell’ambito della convenzione medesima
e, quindi, trovano la propria sedes materiae
nell’accordo negoziale intercorrente tra gli enti locali
interessati.
Osserva il Collegio che, ancorché lo
strumento convenzionale è principalmente volto al
miglioramento dell’organizzazione delle funzioni e dei
servizi istituzionali, nell’osservanza dei principi di
efficienza e di efficacia della pubblica amministrazione,
questo non può sottrarsi alle regole che impongono agli enti
locali il rigoroso rispetto dei principi di economicità e
sana gestione finanziaria; pertanto, il riconoscimento del
rimborso delle spese di viaggio convenzionalmente
concordate, deve soggiacere ad alcune limitazioni.
In via del tutto esemplificativa, il Collegio rammenta la
copiosa giurisprudenza del controllo in relazione
all’utilizzo del mezzo proprio, con particolare riferimento
alle connesse finalità di contenimento della spesa e degli
oneri che vengono sostenuti in ipotesi di utilizzo dei mezzi
pubblici di trasporto
(cfr. Sezione regionale per la Puglia, deliberazione n.
31/PAR/2012, Sezione regionale di controllo per il Piemonte
n. 118/PAR/2013).
Da ultimo, si segnala che la questione
relativa al rimborso delle spese di viaggio sostenute dal
Segretario comunale per il raggiungimento delle sedi
convenzionate, con specifico riferimento ai profili di
responsabilità erariale, è stata recentemente oggetto di
approfondimenti da parte della Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale per la regione Emilia-Romagna
(cfr.
sentenza 12.08.2015 n. 103).
La Sezione giurisdizionale ha esaminato i contenuti della
convenzione congiuntamente alla normativa contrattuale in
materia, definendo l’alveo interpretativo nel quale si
dovrebbe correttamente collocare, nella casistica in
argomento, l’istituto giuridico del rimborso spese di
viaggio
(Corte dei conti, Sez. controllo Puglia,
parere 15.10.2015 n. 211). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il quesito (avente ad oggetto la possibilità, per
un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di
iscrizione ad un albo professionale, nell’ambito di una
prestazione di lavoro dipendente caratterizzata dal vincolo
di esclusività) deve essere considerato inammissibile in
quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità
pubblica.
---------------
Il Sindaco del Comune di Gatteo (FC) ha inoltrato a
questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto
la possibilità, per un comune, di rimborsare a propri
dipendenti la tassa di iscrizione ad un albo professionale,
nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente
caratterizzata dal vincolo di esclusività.
...
Sulla base di quanto evidenziato, la
richiesta di parere dev’essere giudicata inammissibile sul
piano oggettivo, in quanto la materia de qua esula
dal concetto di contabilità pubblica
come sopra delineato.
Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non
sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine
giuridico, che più propriamente devono essere risolte in
diversa sede. Infatti, non si rinvengono i caratteri di
specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei
conti in sede consultiva e che giustificano la relativa
attribuzione da parte del legislatore.
La valutazione nel senso dell’inammissibilità della
richiesta è conforme al contenuto della
deliberazione
13.01.2011 n. 1 della
Sezione delle autonomie, nonché al recentissimo parere reso
da questa Sezione con
parere 16.09.2015 n. 129,
anch’esso avente ad oggetto la possibilità, per un comune,
di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione
agli albi professionali.
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il quesito deve essere considerato inammissibile;
pertanto, il Collegio non può esaminarlo nel merito (Corte
dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 15.10.2015 n. 136). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comune,
il responsabile tecnico deve essere interno.
L'esternalizzazione ammessa solo verso un altro ente
pubblico.
E illegittimo per un ente locale procedere all'affidamento
di funzioni tecniche con un contratto stabile ad un
professionista esterno. Va privilegiata la convenzione con
altro comune ai sensi dell' articolo 30 del testo unico
sugli enti locali.
È quanto ha affermato la Corte dei conti con il
parere 30.07.2015 n. 61
della sezione regionale del controllo della Liguria.
La vicenda riguardava un sindaco che preliminarmente aveva
chiesto alla Corte dei conti un parere inerente la
possibilità di conferire l'incarico esterno di responsabile
dell'Ufficio tecnico comunale (Utc), ai sensi dell'art. 7,
comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 «stante
la sempre più diffusa tendenza verso pratiche di
outsourcing, al fine di razionalizzare e rendere efficiente
l'uso di risorse umane ed economiche a disposizione».
Diversamente da ipotesi di convenzioni con altre
amministrazioni o di unione con altri enti locali per
gestire unitariamente le attività tecniche (che possono
anche riguardare la programmazione, la progettazione e la
direzione di lavori), l'ente locale aveva ipotizzato di
affidare a terzi la funzione di responsabile dell'ufficio
tecnico a seguito di «una rigorosa procedura comparativa».
Il caso esaminato dai magistrati può essere rapportato anche
a quanto avviene nell'ambito degli appalti pubblici dove
l'evoluzione in atto mostra chiaramente (con il ddl delega
appalti) una tendenza a rivedere i ruoli e le funzioni delle
amministrazioni, con una scelta netta verso la
programmazione e il controllo e non più verso la
progettazione, che viene anche disincentivata con
l'eliminazione del due per cento a favore dei tecnici
interni.
In questo disegno assume sempre maggiore rilievo la figura
del responsabile unico del procedimento, un tecnico che
risponde a molteplici attribuzioni che spesso ha difficoltà
a svolgere e che oggi la legge prevede che possa essere
soltanto supportato da terzi.
Ed è proprio alle fattispecie di inadeguatezza degli
organici tecnici dell'amministrazione che si ricollega la
determina della Corte dei conti, chiamata a decidere sulla
possibilità di outsourcing delle attività di responsabile
dell'ufficio tecnico a un professionista esterno.
Possibilità che anche nel ddl delega appalti viene ammessa
nei casi di impossibilità a compiere tali attività con le
risorse interne.
La sezione ligure della magistratura contabile esclude però
in radice tale possibilità premettendo che in questi casi e
cioè quando non risulti possibile, in considerazione
dell'assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse
umane disponibili all'interno della propria dotazione
organica, si deve provvedere alla esternalizzazione del
servizio ma a favore di altro ente pubblico, per esempio,
stipulando una convenzione con un altro comune per usufruire
congiuntamente del servizio dello stesso tecnico comunale.
Il vantaggio di questa soluzione, ha detto la Corte, è che
si tratta di un percorso giuridico sicuramente meno
complesso e più celere rispetto a quello comunque
esperibile, dell'esercizio stabilmente associato della
funzione dell'ufficio tecnico insieme ad un altro comune
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'individuazione
della disciplina applicabile alla spesa resa necessaria per
i trasferimenti per l’espletamento, presso diverse sedi
istituzionali, delle funzioni e attività proprie del
personale responsabile di servizi in convenzione fra più
comuni.
Le
Sezioni riunite hanno precisato che “l’art.
6 della legge n. 122 del 2010 ha limitato le spese connesse
al trattamento di missione, ossia ai trasferimenti
effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza
per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori
dalla sede.
Il rimborso previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL intende
sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese
sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi
istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le
funzioni. L’art. 45, comma 3, ripartendo la spesa per
suddetti trasferimenti tra “i diversi enti interessati
secondo le modalità stabilite nella convenzione” dimostra
come tale onere assuma carattere negoziale e non possa
ricondursi all’interno del trattamento di missione tout
court.
Deve pertanto ritenersi che le limitazioni al trattamento di
missione introdotte dall’art. 6 della legge n. 122 del 2010
non comportino l’inefficacia dell’art. 45, comma 2, del CCNL
del 16.05.2001 per i Segretari Comunale e Provinciali
inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario
titolare di sede di segreteria convenzionata”.
Gli stessi principi si ritiene debbano
trovare applicazione anche al caso di specie, venendo in
rilievo, anche in questo caso, la necessità di sollevare il
personale di servizio dalle spese sostenute per gli
spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove vengono
espletate le funzioni in convenzione.
Un onere, anche in questa fattispecie, che assume carattere
negoziale e che come tale deve trovare in ciascuna
convenzione la sua disciplina.
---------------
Tanto chiarito resta da evidenziare come detta
regolamentazione negoziale risulti in ogni caso vincolata.
In primo luogo, quanto all’autorizzazione
all’utilizzo del mezzo proprio vale quanto sopra riferito.
Per l’esercizio delle funzioni e delle attività correlate ai
servizi in convenzione, nei soli casi in cui l’utilizzo del
mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per le
amministrazioni, potranno disciplinarsi negozialmente forme
di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno
necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento
della spesa e degli oneri che in concreto si sarebbero
sostenuti per le sole spese di trasporto in ipotesi di
utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto.
Come già precisato da questa Sezione,
spetta agli Enti interessati disegnare la nuova
organizzazione delle funzioni, partendo dalle attività
sinora svolte da ciascuno di essi, adottando un modello che
non si riveli elusivo degli intenti perseguiti dal
legislatore ovvero il perseguimento di obiettivi di
efficacia, efficienza, economicità, ma anche “di riduzione
della spesa”
(come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14
del d.l. n. 78/2010). Non può pertanto
ritenersi sufficiente che il nuovo modello organizzativo non
preveda costi superiori alla fase precedente nella quale
ciascuna funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
Pertanto, nel caso di specie, occorrerà
assicurare anche che le spese in parola non siano in alcun
modo di ostacolo, avuto riguardo a tutti gli effetti
determinati dal nuovo modello organizzativo adottato, alla
necessaria riduzione della spesa complessiva.
---------------
Il Comune istante di
Isola d’Asti (AT)
ha stipulato con altri enti, ai sensi dell’art. 30 del TUEL,
convenzioni per la gestione di servizi mediante l’utilizzo
comune di dipendenti.
Chiede come debba qualificarsi la spesa resa necessaria
per i trasferimenti per l’espletamento, presso diverse sedi
istituzionali, delle funzioni e attività proprie del
personale responsabile di servizio–titolare di posizione
organizzativa, che opera in stretto contatto con gli
amministratori (e per esigenze del territorio) anche in
orari diversi. Dette funzioni sarebbero disciplinate
dalla convenzione approvata dall’organo consiliare.
Si precisa che l’Ente non dispone di autovetture proprie da
poter destinare, anche in considerazione dei limiti di spesa
previsti dalle vigenti normative e che tra alcuni dei comuni
interessati non sussistono servizi pubblici di trasporto
rendendosi necessario l’utilizzo del mezzo proprio.
Tanto rappresentato, premesso che l’Ente non ritiene
trattarsi di vere e proprie missioni, ma di spostamenti resi
necessari dall’ordinario espletamento di un lavoro svolto su
diverse sedi, chiede se –pur essendo noto che l’art.
6, comma 12, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito in legge
30.07.2010, n. 122, ha disapplicato l’articolo 15 della
legge 18.12.1973, n. 836 e l’articolo 8 della legge
26.07.1978, n. 417- sia possibile il rimborso delle spese
di viaggio effettivamente sostenute dai dipendenti, nella
misura pari a 1/5 del prezzo della benzina ove non esista il
mezzo pubblico o pari all’equivalente dell’uso del mezzo
pubblico (o di i 1/5 del prezzo della benzina se più
favorevole) negli altri casi.
In caso affermativo, si chiede inoltre se si renda
necessaria una specifica regolamentazione interna o sia
sufficiente che tale rimborso risulti disciplinato dalla
convenzione.
...
L’art. 6, comma 12, del decreto legge 31.05.2010, n. 78,
convertito con la legge 30.07.2010, n. 122, prevede che le
amministrazioni pubbliche non possono effettuare spese per
missioni, anche all'estero, con esclusione delle missioni
internazionali di pace e delle Forze armate, delle missioni
delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, del personale
di magistratura, nonché di quelle strettamente connesse ad
accordi internazionali ovvero indispensabili per assicurare
la partecipazione a riunioni presso enti e organismi
internazionali o comunitari, nonché con investitori
istituzionali necessari alla gestione del debito pubblico,
per un ammontare superiore al 50 per cento della spesa
sostenuta nell'anno 2009.
Gli atti e i contratti posti in essere in violazione della
disposizione contenuta nel primo periodo del presente comma
costituiscono illecito disciplinare e determinano
responsabilità erariale.
Si precisa che il limite di spesa stabilito può essere
superato in casi eccezionali, previa adozione di un motivato
provvedimento adottato dall'organo di vertice
dell'amministrazione, da comunicare preventivamente agli
organi di controllo ed agli organi di revisione dell'ente.
Infine si statuisce che gli articoli 15 della legge
18.12.1973, n. 836 e 8 della legge 26.07.1978, n. 417 e
relative disposizioni di attuazione, aventi ad oggetto la
possibilità di consentire l'uso di un proprio mezzo di
trasporto e la determinazione del quantum della
dovuta indennità di trasferta, non si applicano al personale
contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e cessano
di avere effetto eventuali analoghe disposizioni contenute
nei contratti collettivi.
Su queste disposizioni si sono pronunciate le Sezioni
riunite di questa Corte, ai sensi dell’art. 17, comma 31,
del decreto legge 01.07.2009, n. 78 convertito in legge
03.08.2009, n. 102, con le seguenti delibere: n. 8/2011; n.
9/2011; n. 21/2011, chiarendo i seguenti principi.
In ordine alla possibilità, da parte
dell’Amministrazione, di continuare ad autorizzare
l’utilizzo del mezzo proprio, si è chiarito
(del. 8/2011 e 21/2011) che, a seguito
dell’entrata in vigore del disposto dell’art. 6, comma 12,
del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con
modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, il dipendente può
ancora essere autorizzato all’utilizzo del mezzo proprio,
con il limitato fine di ottenere la copertura assicurativa
dovuta in base alle vigenti disposizioni, mentre non gli può
più essere riconosciuto il rimborso delle spese sostenute
nella misura antecedentemente stabilita dal disapplicato
art. 8 della legge n. 417 del 1988, anche nell’ipotesi in
cui tale mezzo costituisca lo strumento più idoneo a
garantire il più efficace ed economico perseguimento
dell’interesse pubblico
(in tal senso anche la circolare della Ragioneria Generale
dello Stato del 22.10.2010 n. 36).
Diversamente opinando, infatti, si
svuoterebbe di significato la portata dell’innovazione
introdotta dall’art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78
del 2010, considerato che anche nel sistema pregresso, l’uso
del mezzo proprio da parte del dipendente pubblico
presupponeva un’accurata valutazione dei benefici per
l’ente.
Coerentemente, viene affermata
l’impossibilità per l’Amministrazione di reintrodurre,
attraverso una regolamentazione interna, il rimborso delle
spese sostenute dal dipendente sulla base delle indicazioni
fornite dal disapplicato art. 8 della legge n. 417 del 1988.
Tale modo di operare, infatti, costituirebbe una chiara
elusione del dettato e della ratio del disposto del
richiamato art. 6, comma 12, del decreto legge n. 78 del
2010.
Tuttavia, al fine anche di evitare i rischi
del ricorso a soluzioni applicative che pur formalmente
rispettose delle norme si pongano in contrasto con la
ratio stessa della disposizione in esame (ridurre i
costi degli apparati amministrativi), in quanto idonee a
pregiudicare l’efficacia e l’efficienza dell’azione
amministrativa o a comportare un incremento dei costi
(ricorso ad autovetture di servizio, car sharing, noleggio
auto, etc.), si è ritenuto possibile il ricorso a
regolamentazioni interne volte a disciplinare, per i soli
casi in cui l’utilizzo del mezzo proprio risulti
economicamente più conveniente per l’Amministrazione, forme
di ristoro del dipendente dei costi dallo stesso sostenuti
che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle
finalità di contenimento della spesa e degli oneri che in
concreto avrebbe sostenuto l’Ente per le sole spese di
trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici di
trasporto (del.
21/2011).
Richiamati i sopra enunciati principi, ritiene tuttavia
questa Sezione che la fattispecie illustrata nella richiesta
di parere in esame, rivesta aspetti di peculiarità rilevanti
ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile.
Come sopra precisato, si tratta di
individuare la disciplina applicabile alla spesa resa
necessaria per i trasferimenti per l’espletamento, presso
diverse sedi istituzionali, delle funzioni e attività
proprie del personale responsabile di servizi in convenzione
fra più comuni.
Al riguardo, appare significativo richiamare quanto
statuito, sempre dalla Sezioni Riunite, con riferimento
all’art. 45, comma 2 del CCNL del 16.05.2001, per i
Segretari Comunali e Provinciali titolari di segreteria
convenzionata, essendosi ritenuto che detto articolo non è
stato reso inefficace dall’entrata in vigore dell’art. 6,
comma 12 della legge n. 122 del 2010, stante la diversità
della fattispecie (del. 9/2011). Tale norma contrattuale
prevede che “al
segretario titolare di segreterie convenzionate, per
l’accesso alle diverse sedi, spetta il rimborso delle spese
di viaggio effettivamente sostenute e documentabili”.
Le Sezioni riunite hanno precisato che “l’art.
6 della legge n. 122 del 2010 ha limitato le spese connesse
al trattamento di missione, ossia ai trasferimenti
effettuati per conto dell’amministrazione di appartenenza
per l’espletamento di funzioni ed attività da compiere fuori
dalla sede.
Il rimborso previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL intende
sollevare il segretario comunale o provinciale dalle spese
sostenute per gli spostamenti fra le varie sedi
istituzionali ove il medesimo è chiamato ad espletare le
funzioni. L’art. 45, comma 3, ripartendo la spesa per
suddetti trasferimenti tra “i diversi enti interessati
secondo le modalità stabilite nella convenzione” dimostra
come tale onere assuma carattere negoziale e non possa
ricondursi all’interno del trattamento di missione tout
court.
Deve pertanto ritenersi che le limitazioni al trattamento di
missione introdotte dall’art. 6 della legge n. 122 del 2010
non comportino l’inefficacia dell’art. 45, comma 2, del CCNL
del 16.05.2001 per i Segretari Comunale e Provinciali
inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario
titolare di sede di segreteria convenzionata”.
Gli stessi principi si ritiene debbano
trovare applicazione anche al caso di specie, venendo in
rilievo, anche in questo caso, la necessità di sollevare il
personale di servizio dalle spese sostenute per gli
spostamenti fra le varie sedi istituzionali ove vengono
espletate le funzioni in convenzione. Un onere, anche in
questa fattispecie, che assume carattere negoziale e che
come tale deve trovare in ciascuna convenzione la sua
disciplina.
Tanto chiarito resta da evidenziare come detta
regolamentazione negoziale risulti in ogni caso vincolata.
In primo luogo, quanto all’autorizzazione
all’utilizzo del mezzo proprio vale quanto sopra riferito.
Per l’esercizio delle funzioni e delle attività correlate ai
servizi in convenzione, nei soli casi in cui l’utilizzo del
mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per le
amministrazioni, potranno disciplinarsi negozialmente forme
di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno
necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento
della spesa e degli oneri che in concreto si sarebbero
sostenuti per le sole spese di trasporto in ipotesi di
utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto.
Del resto va ricordato che l’art. 14, comma 27 e segg., del
d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010,
n. 122, come modificato ed integrato dall’art. 19 del d.l.
06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135
(recante “Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario”), ha previsto che i Comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono tenuti, con
diverse scadenze fissate dal legislatore, ad esercitare “obbligatoriamente,
in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione,
le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad
esclusione della lettera l)” (art. 14, co. 27 e co. 28).
Lo scopo è quello di migliorare l’organizzazione degli Enti
interessati al fine di fornire servizi più adeguati sia ai
cittadini che alle imprese, nell’osservanza dei principi di
economicità, efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa.
Come già precisato da questa Sezione (del. 9/2013),
spetta agli Enti interessati disegnare la nuova
organizzazione delle funzioni, partendo dalle attività
sinora svolte da ciascuno di essi, adottando un modello che
non si riveli elusivo degli intenti perseguiti dal
legislatore ovvero il perseguimento di obiettivi di
efficacia, efficienza, economicità, ma anche “di
riduzione della spesa”
(come si evince espressamente dal co. 30 del citato art. 14
del d.l. n. 78). Non può pertanto ritenersi
sufficiente che il nuovo modello organizzativo non preveda
costi superiori alla fase precedente nella quale ciascuna
funzione era svolta singolarmente da ogni Ente.
Pertanto, nel caso di specie, occorrerà
assicurare anche che le spese in parola non siano in alcun
modo di ostacolo, avuto riguardo a tutti gli effetti
determinati dal nuovo modello organizzativo adottato, alla
necessaria riduzione della spesa complessiva
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 23.04.2013 n. 118). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Mozione di
sfiducia doc. Deve essere sottoscritta dai 2/5 dei
consiglieri.
Per iscriverla all'ordine del giorno bisogna
seguire le regole del Tuel.
Può essere rigettata, da parte del presidente del consiglio
comunale, la richiesta di iscrizione all'ordine del giorno
della mozione di sfiducia del sindaco, presentata da un
gruppo consiliare, in quanto sottoscritta da un numero di
consiglieri inferiore ai due quinti previsti dall'art. 52
del decreto legislativo n. 267/2000?
Nella fattispecie in esame viene contestata la riconduzione
di tale richiesta nell'ambito del citato art. 52,
trattandosi di «mozione di sfiducia politica» in
quanto il sindaco è stato soltanto invitato a dimettersi. Il
vigente ordinamento, però, non disciplina la sfiducia
politica nei confronti del sindaco, essendo contenuta nella
norma richiamata l'esclusiva procedura per la presentazione
della «mozione di sfiducia» al sindaco.
La sottoposizione di tale atto all'esame e all'approvazione
del consiglio, previa richiesta di iscrizione all'ordine del
giorno, non può prescindere dal formalismo richiesto dalla
legge. Pertanto, nel caso di specie, posto che il sindaco va
escluso dal computo per espressa previsione della citata
norma e il numero dei consiglieri assegnati è pari a 24, il
novero dei due quinti è pari a 9,6.
In merito al criterio da seguire, nel caso in cui il computo
dei due quinti dei consiglieri assegnati, necessario per la
sottoscrizione della mozione di sfiducia di cui al più volte
citato art. 52, assommi a una cifra decimale, in conformità
a un costante indirizzo interpretativo, e in mancanza di
apposite prescrizioni statutarie o regolamentari (lo statuto
dell'ente si limita a ribadire che la mozione deve essere
votata dalla maggioranza assoluta del consiglio senza
computare il voto del sindaco), è legittimamente applicabile
il criterio dell'arrotondamento aritmetico, in quanto
richiamato espressamente, a vario titolo, in più
disposizioni del citato decreto legislativo n. 267/00 (cfr.
artt. 47, c. 1; 71, c. 8; 73, c.1; 75, c. 8).
Tale criterio implica che in caso di cifra decimale uguale o
inferiore a 50, l'arrotondamento debba essere effettuato per
difetto, mentre nel caso in cui essa sia superiore a 50 si
procederà ad arrotondamento per eccesso. Nell'ipotesi
specificata, pertanto, occorrerà la sottoscrizione di dieci
consiglieri comunali (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Cambio di denominazione.
È legittimo il mutamento di denominazione di una lista
elettorale comunale nel corso del mandato, ovvero, in caso
contrario, si deve procedere con l'annullamento o la
rettifica di atti che hanno già formato oggetto di
deliberazioni (mozioni) nei quali la predetta lista viene
indicata con la nuova denominazione?
Il decreto legislativo n. 267/2000 utilizza il termine «lista»
solo nel Capo III - Sistema elettorale, dall'art. 71
all'art. 76, individuando con tale vocabolo il
raggruppamento di candidati che si presentano alla
competizione elettorale. I candidati risultati eletti, una
volta insediati nel consiglio comunale si organizzano, di
norma, in gruppi consiliari che talvolta non coincidono
perfettamente con l'esito del voto.
Dovendo fare riferimento, dunque, alla predetta
terminologia, occorre comunque evidenziare che l'esistenza
dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla
legge, ma si desume implicitamente proprio da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del citato decreto
legislativo n. 267/2000).
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili. Tuttavia, la materia è regolata dalle apposite
norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti
locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei
consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art.
38 citato.
Di norma, la modifica della denominazione dei gruppi
consiliari, in assenza di una specifica disposizione
statutaria o regolamentare, che assimili tale modifica alla
costituzione di un nuovo gruppo consiliare, subordinata alle
eventuali regole individuate dalle stesse norme, appare
rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche
presenti nel consiglio. Nel caso di specie, lo Statuto del
comune in questione, demanda al regolamento la disciplina
della costituzione dei gruppi consiliari.
In ordine alla disciplina di dettaglio dei predetti gruppi,
sarà demandata all'ente interessato la verifica
dell'effettiva possibilità della variazione della
denominazione del gruppo, previa verifica delle indicazioni
contenute nel regolamento.
Qualora non siano stati lesi diritti di terzi, riguardo
all'eventuale rettifica o annullamento degli atti che hanno
formato oggetto di deliberazione, l'art. 21-octies della
legge 07.08.1990, n. 241, al comma 2 ha previsto che «non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato», mentre il successivo art.
21-nonies al comma 2 ha «fatta salva la possibilità di
convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole» (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Consiglieri comunali. Approvazione bilancio. Responsabilità.
La Corte dei conti ha affermato, in
relazione al disposto dell'art. 1, comma 1-ter, della l.
20/1994, che l'esimente di responsabilità, nei confronti
degli amministratori di enti locali, può operare soltanto
quando l'atto generativo del danno ingiusto riguardi materie
di particolare difficoltà tecnica e giuridica, dovendosi
altrimenti ritenere che l'evidenza dell'erroneità dell'atto
sia tale da escludere la stessa buona fede dei titolari
dell'organo politico.
Il Comune ha chiesto di conoscere quali sarebbero le
responsabilità dei consiglieri comunali in caso di
approvazione di un bilancio corredato dei pareri favorevoli
di regolarità tecnico-contabile del funzionario competente e
del revisore dei conti. L'Ente si è inoltre posto la
questione relativa alla possibile sussistenza, nel caso di
specie, della c.d. 'esimente politica' prevista
dall'art. 1, comma 1-ter, della l. 20/1994 in capo ai
medesimi consiglieri.
In linea generale, si osserva che la responsabilità
amministrativa in senso stretto è quella nella quale
incorrono gli amministratori (e i dipendenti) degli enti
locali che, nell'esercizio delle loro funzioni, con dolo o
colpa grave, arrechino danno a contenuto patrimoniale ai
predetti enti.
Nel procedimento di responsabilità amministrativa, per
l'individuazione dei responsabili, si fa comunque
riferimento alla situazione di fatto (reale) e non alle
previsioni normative astratte. In altri termini, va
individuato colui (o coloro) che hanno effettivamente tenuto
il comportamento produttivo del danno e ciò a prescindere
dal fatto che abbiano agito entro o oltre le competenze
riconosciutegli dalla legge.
Per il riscontro concreto, in capo ad un soggetto, di
profili di responsabilità amministrativa, è pertanto
necessario verificare la sussistenza dei seguenti elementi:
a) il comportamento (fatto-condotta);
b) il dolo o la colpa grave (elemento soggettivo);
c) l'inosservanza degli obblighi di servizio (o di obblighi
attribuiti dalla legge);
d) il nesso di causalità tra il comportamento ed il danno;
e) il pregiudizio (danno) arrecato alla pubblica
amministrazione, che può essere anche diversa da quella di
appartenenza.
Per quanto concerne nello specifico il comportamento degli
amministratori degli enti locali, assume rilevanza l'aspetto
relativo all'accertamento se l'attività svolta dai politici
si sia mantenuta nei limiti generali ed astratti della
programmazione e degli indirizzi, ovvero se abbia in qualche
modo inciso sulla concreta attività di gestione.
Occorre pertanto che gli organi di governo, prima di
operare, abbiano ben presenti le sfere di competenza loro
attribuite dagli articoli 42 e seguenti del TUEL, e ciò al
duplice scopo di operare nell'ambito delle proprie
competenze e di verificare se l'attività che andranno a
svolgere possa di per sé determinare conseguenze dannose per
l'ente.
In relazione all'adozione degli atti deliberativi, potranno
quindi essere chiamati a rispondere sia coloro che li hanno
adottati, sia i funzionari responsabili di servizio che
hanno espresso il prescritto parere in ordine alla
regolarità tecnica [1].
La determinazione delle rispettive responsabilità -sempre
qualora si dovesse accertare la sussistenza di un danno- può
infatti variare in base all'apporto causale che la condotta
degli organi politici e burocratici ha recato nel produrre
il medesimo.
E' necessario quindi verificare, caso per caso:
a) il contenuto e gli effetti della deliberazione (quanto in
quest'ultima vi sia di mero indirizzo o di indirizzo
politico e quanto spazio sia riservato agli aspetti
tecnici);
b) l'influenza del parere tecnico sulla deliberazione e sui
suoi effetti;
c) l'autonomia di giudizio e di scelta dell'organo politico
nell'adottare la deliberazione rispetto ai pareri tecnici
espressi.
Soltanto nell'esame dello specifico caso concreto, al fine
dell'accertamento delle responsabilità di ciascuno, si potrà
verificare se, in considerazione degli aspetti
prevalentemente tecnici, il parere sia stato decisivo ed
abbia influenzato completamente l'organo di governo.
Ad ogni buon conto, in linea di principio, si può affermare
che quando gli organi di governo esercitano una funzione
loro propria l'apporto tecnico favorevole non ne esclude la
responsabilità.
Tuttavia, preme rilevare che, in conseguenza della
separazione tra sfera politica e sfera gestionale, l'art. 1,
comma 1-ter, della l. 20/1994 ha previsto che: 'Nel caso
di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici
tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai
titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano
approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito
l'esecuzione'.
Si è osservato in proposito che, trattandosi di atti
ricadenti nella sfera gestionale, non dovrebbero ricadere
nell'oggetto di deliberazione degli organi di governo.
Peraltro, al fine di chiarire la portata dell'esimente
politica prevista dalla citata norma, pare utile riportare
l'interpretazione elaborata dalla Corte dei conti, che ha
precisato che l'esimente di responsabilità può operare
soltanto quando l'atto generativo del danno ingiusto
riguardi 'materie di particolare difficoltà tecnica e
giuridica, dovendosi altrimenti ritenere che l'evidenza
dell'erroneità dell'atto sia tale da escludere la stessa
buona fede dei titolari dell'Organo politico'
[2].
La predetta disposizione pertanto 'ha un senso logico
solo ove venga interpretata come volta a sancire una
irresponsabilità dei titolari degli organi politici
ogniqualvolta, per la particolare difficoltà delle questioni
tecniche e giuridiche sottese alle decisioni da prendere,
non possano essere imputati agli stessi errori che avrebbero
potuto essere evitati solo con il possesso di determinate
conoscenze specialistiche.' [3].
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, il comportamento
degli amministratori è stato ritenuto inescusabile, e
connotato da colpa grave, nel caso di adozione di atti non
conformi a inequivoca normativa di riferimento, nelle
specifiche e varie materie, e non conformi a costante
giurisprudenza [4].
Le considerazioni sopra esposte valgono anche nell'ipotesi
di adozione di atti contabili quali l'approvazione del
bilancio comunale.
---------------
[1] Si veda, sulla questione in esame, la Risoluzione n.
13/2009 della Regione Piemonte - Settore Autonomie Locali.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. II giurisdizionale centrale,
sentenza n. 303 del 2003.
[3] Così, Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale,
sentenza n. 282 del 2002.
[4] Cfr. Corte dei conti, sez. giurisd. per la Regione
Lombardia, sentenza n. 142 del 2015.
In relazione al concetto di colpa grave con riferimento agli
amministratori degli enti locali, si riporta quanto
affermato da Bruno Prota, Presidente onorario della Corte
dei conti, in 'Brevi cenni sulla responsabilità degli
amministratori pubblici (degli enti locali)': 'La nozione di
colpa grave -oggi rilevante- non è delle più semplici, ma si
può così sintetizzare: una macroscopica e inescusabile
negligenza ed imprudenza (...) nell'adempimento dei propri
doveri istituzionali, cioè un atteggiamento di estrema
superficialità, trascuratezza nella cura di beni e interessi
pubblici (...)' (21.10.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni
bilanciate. Tutti i gruppi devono essere rappresentati.
Nel
silenzio del legislatore, soccorre la giurisprudenza
amministrativa.
Può ritenersi rispettato il criterio del principio di
proporzionalità tra maggioranza e opposizione nel caso in
cui la modifica del regolamento consiliare, con cui è stato
ridotto il numero dei componenti delle commissioni
permanenti del consiglio comunale di un ente, ha comportato
l'estromissione di un gruppo di minoranza da una delle
commissioni?
Nella fattispecie in esame, nel consiglio comunale dell'ente
sono presenti tre commissioni, formate ciascuna da cinque
consiglieri, a fronte di un consiglio comunale composto da
16 consiglieri.
Lo statuto comunale rinvia al regolamento la disciplina del
numero delle commissioni permanenti, le materie di
competenza e il funzionamento e le modalità di costituzione,
e si limita a disporre che tali commissioni siano composte
nel rispetto del criterio proporzionale.
Il regolamento comunale, come modificato, prevede che
ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri, di
cui almeno due assegnati ai gruppi di minoranza, in modo da
assicurare la rappresentanza proporzionale tra maggioranza e
minoranza.
Ogni consigliere ha diritto a essere nominato in almeno una
commissione.
Le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma
6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite
sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite,
posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione.
Pertanto le forze politiche presenti in consiglio debbono
essere il più possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto
il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal
citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come
lo stesso debba essere declinato in concreto. Il
regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei
poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori,
dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il
rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia, con
l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n.
516/2013, stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi
rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la
presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo
consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia
04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia Milano 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di
stato il quale, con parere n. 04323/2009 del 14.04.2010
emesso su ricorso straordinario al presidente della
repubblica, ha osservato che «come da consolidata
giurisprudenza dalla quale la sezione non intende
discostarsi, il criterio di proporzionalità di
rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla
presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il
criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il
voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996,
n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della
commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire
corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di
appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei
rappresentanti della stessa lista nella commissione
interessata»
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015). |
APPALTI SERVIZI:
Concessione di servizi ex art. 30 del d.lgs. 163/2006.
Modalità di individuazione del nuovo concessionario.
La procedura di scelta del
concessionario, come delineata dall'art. 30, comma 3, del
Codice dei contratti, è caratterizzata dal ricorso ad una
gara informale a cui sono invitati almeno cinque soggetti
(ammesso che sussistano in tale numero soggetti qualificati
in relazione all'oggetto della concessione) con
l'indicazione dei requisiti, che devono essere
predeterminati e resi noti fin dal momento in cui viene
avviata la procedura.
Devono comunque essere rispettati i principi di logicità,
trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra
i concorrenti, da garantire attraverso l'idonea pubblicità
delle procedure selettive e la valutazione comparativa di
più offerte. Per quanto attiene alle modalità di
pubblicizzazione della gara informale, si può ritenere che
il grado di pubblicità vada commisurato all'entità della
concessione, in relazione alla sua rilevanza economica e,
dunque, adeguato all'importo stimato dell'appalto.
Il Comune, nell'approssimarsi della scadenza del contratto
di concessione relativo al servizio di accertamento,
liquidazione e riscossione dell'imposta sulla pubblicità e
della tassa di occupazione di aree e spazi pubblici, si
accinge a bandire una procedura per l'individuazione del
nuovo concessionario, ai sensi dell'art. 30 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, che disciplina la
concessione di servizi. L'Ente chiede quindi un parere con
riferimento alle caratteristiche della procedura da
utilizzare per l'individuazione dei concorrenti da invitare
alla selezione e alle modalità di pubblicizzazione della
gara informale.
L'art. 30, comma 1, del d.lgs. 163/2006, stabilisce che 'Salvo
quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del
codice non si applicano alle concessioni di servizi'; il
successivo comma 3, dispone che 'La scelta del
concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi'.
La procedura di scelta del concessionario, come delineata
dall'art. 30, comma 3 del Codice, è quindi caratterizzata:
1) dal ricorso ad una gara informale;
2) dall'invito ad almeno cinque soggetti (ammesso che
sussistano in tale numero soggetti qualificati in relazione
all'oggetto della concessione);
3) dall'indicazione dei requisiti, che devono essere
predeterminati e resi noti fin dal momento in cui viene
avviata la procedura.
Come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza, la gara
informale di cui al citato art. 30, comma 3, consente ampia
discrezionalità da parte dell'amministrazione nella
fissazione delle regole selettive (con possibilità quindi di
prescindere dalle regole interne e comunitarie dell'evidenza
pubblica), fermi restando il rispetto dei principi di
logicità, trasparenza, parità di trattamento e non
discriminazione tra i concorrenti, da garantire attraverso
l'idonea pubblicità delle procedure selettive e la
valutazione comparativa di più offerte; ne derivano una
maggior speditezza e semplificazione procedimentale
[1].
Laddove decidesse di inserire nel bando di gara disposizioni
ulteriori rispetto al contenuto minimo previsto dalla legge,
l'amministrazione aggiudicatrice eserciterebbe un potere
attinente al merito amministrativo [2].
Di conseguenza, nel momento in cui l'amministrazione
individua le regole per la selezione dei partecipanti e i
criteri per l'aggiudicazione (ad esempio attraverso
l'individuazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa), si autolimita rispetto alle prescrizioni di
cui alla norma su riportata. Infatti, alle concessioni di
servizi non si applicano le disposizioni del Codice degli
appalti, salvo quelle espressamente richiamate dall'art. 30
(commi 1 e 7). Pertanto, l'applicazione di norme
codicistiche non direttamente richiamate dall'art. 30
rientra nella facoltà decisionale della stazione appaltante,
la quale può decidere autonomamente di assoggettarvisi
[3].
Con riferimento alle modalità di pubblicizzazione di un
eventuale avviso per manifestazione di interesse, premesso
che non spetta a questo ufficio esprimere valutazioni che
competono esclusivamente ai singoli enti in virtù della
propria autonomia e discrezionalità, si forniscono i
seguenti spunti di riflessione.
Come si è detto, il comma 1 dell'art. 30 dispone, per le
concessioni di servizi, la non applicazione delle
disposizioni codicistiche: ciò significa che non trovano
applicazione nemmeno gli articoli 63 e seguenti, relativi a
bandi, avvisi e inviti; tuttavia, come già rimarcato,
l'affidamento di servizi in concessione deve rispettare i
principi generali relativi ai contratti pubblici, tra i
quali l'adeguata pubblicità e la proporzionalità, al fine di
garantire il più ampio confronto concorrenziale
[4].
In linea di principio, si può ritenere che il grado di
pubblicità va commisurato all'entità della concessione, in
relazione alla sua rilevanza economica e, dunque, adeguato
all'importo stimato dell'appalto [5].
Tuttavia, con riferimento a concessioni di servizi in cui le
amministrazioni aggiudicatrici avevano deciso di avvalersi
della procedura aperta (e quindi autovincolandosi) per la
selezione del concessionario, è dato riscontrare
orientamenti giurisprudenziali divergenti.
Infatti, in alcune pronunce il Consiglio di Stato ha
affermato che per le concessioni ex art. 30 non è richiesta
la pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale
[6].
Per contro, in altre occasioni i giudici amministrativi
hanno affermato che la pubblicazione del bando all'albo
pretorio dell'amministrazione procedente è strumento
inidoneo a garantire la possibilità di conoscenza alle
imprese che operano nel settore e sono portatrici di un
interesse differenziato e qualificato all'adozione di
adeguate forme di pubblicità della gara allo scopo di
prendervi parte [7].
Dello stesso avviso l'AVCP (ora ANAC), secondo cui: 'Non
rispetta il principio di adeguata pubblicità la
pubblicazione del bando di gara per l'affidamento di una
concessione di servizi mediante procedura aperta sull'albo
pretorio comunale, sul BUR e sui siti internet di alcune
agenzie specializzate accessibili solo da parte di utenti
abbonati, in quanto inidonea a consentire l'effettività
della concorrenza.' [8]
Infine si osserva che, qualora l'amministrazione instante
procedesse alla pubblicazione di un avviso per
manifestazione di interesse a partecipare alla procedura per
l'affidamento della concessione de qua e ricevesse un numero
di richieste di operatori economici inferiore a quello
indicato dall'art. 30, comma 3 [9],
si ritiene che i principi richiamati dallo stesso articolo
siano rispettati nel momento in cui si possa verificare il
confronto fra una pluralità di offerte [10].
---------------
[1] TAR Puglia, Lecce, sez. III, Sent. 1444/2012.
[2] TAR Puglia, Bari, sez. I, Sent. 70/2009.
[3] TAR Veneto, Venezia, Sez. I, sent. 1474/2012.
[4] AVCP, deliberazione n. 47 del 01/05/2011.
[5] TAR Puglia, Lecce, cit.; TAR Liguria, sez. II, Sent.
434/2013; TAR Molise, sez. I, Sent. 677/2008.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, Sent. 2709/2011; sez. III,
Sent. 3842/2011.
[7] TAR Puglia, Bari, sez. I, Sent. 995/2005; TAR Lombardia,
Brescia, sez. II, Sent. 1521/2011.
[8] Deliberazione n. 69 del 30/07/2009. Si veda anche la
Deliberazione n. 207 del 21/06/2007, laddove si afferma, con
riferimento alla 'concessione di servizi, ai sensi dell'art.
30 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163. [che] È opportuno che le
s.a. adottino comportamenti positivi, cioè misure concrete
volte a instaurare procedure conformi ai principi
fondamentali di trasparenza e libera concorrenza sanciti dal
Trattato CE e dallo stesso d.lgs. 163/2006. È evidente che
nei casi di concessione per i quali la concorrenza sarebbe
suscettibile di esplicarsi prevalentemente a livello locale,
assume maggior interesse, tra le possibili forme di
pubblicità, l'affissione dell'avviso presso la sede della
stazione appaltante e la pubblicazione sui giornali locali.
Diversamente, nel caso di servizi economicamente rilevanti,
dovrebbero essere utilizzate forme di pubblicità più consone
alle specificità dei servizi e degli operatori interessati.'
[9] '...almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale
numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione...'
[10] Si osserva al riguardo che, nel rispetto del principio
di trasparenza, nulla vieta all'amministrazione procedente
di stabilire già nell'avviso che, qualora non venisse
raggiunto il numero minimo di richieste previsto dalla norma
più volte richiamata, è sua facoltà procedere con un numero
di soggetti inferiore a cinque ovvero procedere all'invito
di ulteriori soggetti in possesso dei requisiti richiesti
fino a raggiungere tale numero (14.10.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI
LOCALI:
Ammissibilità della concessione di contributi a soggetto
estero.
L'art. 12 della L. 241/1990 dispone che
l'attribuzione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc. da
parte delle PP.AA. è subordinata all'adozione di apposito
regolamento contenente i criteri e le modalità ai quali le
stesse amministrazioni devono attenersi ed il cui rispetto
deve risultare dai singoli provvedimenti di concessione dei
benefici.
L'ammissibilità a contributo degli interventi deve
fondamentalmente basarsi sulla valutazione dell'effettiva
utilità che essi rivestono per la popolazione amministrata:
si ritiene possa risultare a tal fine irrilevante che il
soggetto destinatario delle risorse sia residente sul
territorio nazionale o all'estero, fatta salva la facoltà
del Comune di disporre diversamente in sede regolamentare.
Il Comune chiede di conoscere se risulti ammissibile
assegnare un contributo ad un soggetto estero, volto alla
realizzazione di un lungometraggio concernente una
determinata vicenda, che ha interessato alcuni dei propri
cittadini, rappresentando, al riguardo, che:
- l'Amministrazione riconosce il significativo valore
dell'opera, quale strumento di valorizzazione della comunità
locale;
- la regolamentazione adottata dall'Ente nella materia non
prevede espressamente la fattispecie, ma nemmeno la esclude.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività di consulenza
giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo
Ufficio è finalizzata a fornire una ricostruzione degli
istituti giuridici che -attraverso l'esame della normativa,
della giurisprudenza e della dottrina- possa consentire di
desumere princìpi di carattere generale, fermo restando che
compete, invece, all'amministrazione procedente determinarsi
in ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
A tal fine, sentito il Servizio finanza locale, si esprimono
le seguenti considerazioni.
L'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che la
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati «sono
subordinate alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le
amministrazioni stesse devono attenersi» (comma 1) e che
«L'effettiva osservanza» di tali criteri e modalità «deve
risultare dai singoli provvedimenti» che concedono i
benefici (comma 2).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa osserva che:
- la norma «riveste carattere di principio generale
dell'ordinamento giuridico ed, in particolare, della materia
che governa tutti i contributi pubblici»
[1];
- ai fini dell'adozione di provvedimenti volti a concedere
sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le PP.AA. devono
attenersi ai criteri ed alle modalità stabilite dal proprio
regolamento, giacché sia la predeterminazione di detti
criteri, sia la dimostrazione del loro rispetto in sede di
concessione dei benefici, «sono rivolte ad assicurare la
trasparenza della azione amministrativa e si atteggiano a
principio generale, in forza del quale l'attività di
erogazione della pubblica Amministrazione deve in ogni caso
rispondere a elementi oggettivi» [2];
- la predeterminazione e la pubblicazione dei criteri
concernenti la destinazione di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, oltre a
costituire corollario del principio generale di trasparenza,
«rappresenta la declinazione in via amministrativa delle
finalità politico-sociali (o politico-economiche, a seconda
dei casi), che l'intervento pubblico intende perseguire.
Sotto tale profilo, la destinazione di un contributo secondo
una finalità non conforme a quella perseguita sulla base dei
criteri predeterminati dall'Ente, oltre a porsi in contrasto
con il principio di legalità, determina uno sviamento della
causa dell'intervento pubblico sotto il profilo funzionale
proprio del contributo stesso» [3].
Le predette considerazioni inducono a ritenere che l'Ente
non possa procedere all'attribuzione dei benefici
contemplati dalla norma di legge in assenza di un'adeguata
previsione regolamentare [4],
alla quale poter ricondurre, in termini oggettivi, i vari
interventi che si intendono finanziare.
Al riguardo, si osserva che nell'ambito delle previsioni
regolamentari dell'Ente concernenti i 'Contributi per
progetti ed iniziative' (v. Titolo IV - artt. 16-20),
gli artt. 16 ('Soggetti ammessi') e 18 ('Criteri e
modalità per la concessione') prevedono, in particolare,
che:
- i contributi finalizzati alla realizzazione di specifici
progetti ed iniziative riconducibili agli interessi generali
o diffusi della comunità locale e rientranti nei fini
istituzionali del Comune «possono essere concessi anche a
persone fisiche non residenti nel Comune, o a soggetti privi
di una sede nel territorio comunale» (art. 16, comma 4);
- l'Amministrazione può concedere contributi «anche per
iniziative da realizzare al di fuori dei confini del
territorio comunale», purché queste siano riferibili alle
esigenze della comunità locale o volte a riaffermare il
prestigio o il buon nome della medesima comunità (art. 18,
comma 2);
- i beneficiari sono tenuti ad inserire, in tutti i
materiali pubblicitari relativi alle iniziative ammesse a
contributo, «apposita informazione, con la quale viene
reso noto che esse si svolgono con il concorso economico del
Comune» (art. 18, comma 4).
Occorre, poi, rammentare che l'azione comunale presuppone la
competenza dell'ente, quale emerge, in via ordinaria
[5], dagli
artt. 8, comma 1, e 16, comma 1, della legge regionale
09.01.2006, n. 1, i quali prevedono, rispettivamente, che il
comune «è l'ente locale che rappresenta la propria
comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo»
[6] ed «è
titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano
i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il
governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite
espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali»
[7].
Come viene osservato in dottrina, l'ente locale territoriale
«trova nel territorio -e, quindi, nella comunità che vi
risiede- il punto di riferimento per la sua azione ed il
limite alla generalità dei suoi fini»
[8].
Quanto alla giurisprudenza [9],
essa afferma che, ai fini della legittimità di ogni
intervento dell'ente locale, è necessario che ricorrano due
condizioni:
1) che l'iniziativa si ponga in termini strumentali al
perseguimento degli interessi della collettività di
riferimento;
2) che la scelta amministrativa rappresenti l'espressione di
un potere discrezionale [10]
che possa ritenersi ragionevole e non arbitraria
esplicazione di una scelta politica.
Pertanto, se è ben vero che i comuni, in coerenza con
l'autonomia loro garantita dalla Costituzione, godono di
ampia possibilità di scelta nel perseguimento degli
interessi affidati alle loro cure, quanto a modi e priorità
di graduazione della loro attuazione appare imprescindibile
ed incomprimibile la necessità che ogni iniziativa
amministrativa sia collegata con il proprio territorio, in
termini di utilità, sia pure latamente intesa.
La scelta si deve, perciò, coniugare inscindibilmente con la
concreta ponderazione della finalità da perseguire, nel
senso che tale ponderazione è in grado di esprimere la buona
gestione in termini di razionalità obiettiva.
In base alle norme ed alle considerazioni che precedono
sembra potersi affermare che, ai fini dell'ammissibilità
dell'intervento, rileva fondamentalmente la valutazione
dell'effettiva utilità, per la propria popolazione, di
acquisire il bene che verrebbe realizzato con il contributo
comunale, a prescindere dalla circostanza
[11] che il
soggetto destinatario di tali risorse sia residente sul
territorio nazionale o all'estero.
Va, infine, segnalato che la Corte dei conti, pur
esprimendosi su fattispecie diverse da quella in esame
[12], che
ha comunque ricondotto alla più ampia problematica dei
limiti dei finanziamenti comunali a soggetti privati,
afferma che:
- i Comuni, sulla base della loro autonoma discrezionalità e
'secondo i principi della sana e corretta amministrazione',
possono deliberare contributi a favore di enti che, pur non
essendo affidatari di servizi, svolgono una attività che
viene ritenuta utile per i propri cittadini
[13];
- in ogni caso, l'attribuzione di benefici pubblici deve
risultare 'conforme al principio di congruità della spesa',
presupponente una valutazione comparativa degli interessi
complessivi dell'ente locale [14];
- la facoltà degli enti territoriali di attribuire benefici
patrimoniali a soggetti privati in ragione dell'interesse
pubblico indirettamente perseguito, ammessa in via generale,
rimane tuttavia 'subordinata ai limiti imposti da
disposizioni di legge dirette al contenimento della spesa
pubblica ed alle prescrizioni richieste dai principi
contabili per garantire la corretta gestione delle risorse
pubbliche' [15].
---------------
[1] V., più recentemente, Consiglio di Stato - Sez. V,
sentenza 17.03.2015, n. 1373 e sentenza 23.03.2015, n. 1552.
[2] V. TAR Puglia - Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n.
1842.
[3] V. TAR Lombardia - Milano, Sez. III, sentenza
05.05.2014, n. 1142.
[4] Dotata, per sua natura, dei caratteri della generalità e
dell'astrattezza.
[5] Potendo essere anche attribuita, in specifiche materie,
da disposizioni di legge ad hoc.
[6] La disposizione ribadisce quanto già disposto dall'art.
3, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[7] La previsione conferma sostanzialmente il contenuto
dell'art. 13, comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
[8] F. Staderini - A. Silveri «La responsabilità nella
pubblica amministrazione (con particolare riguardo a quella
locale)», CEDAM, 1998.
[9] Ci si riferisce, in particolare, a Corte dei conti -
Sez. I centrale, sentenza 09.03.1999, n. 54/A, il cui testo
integrale risulta irreperibile, ma il cui contenuto forma
oggetto dell'articolo di F. Longo «Fissate le premesse per
la legittimità delle iniziative comunali. La Corte dei conti
detta i principi per i contributi alle associazioni», in Il
Sole-24 Ore del lunedì, 24.05.1999, n. 140, pag. 30.
[10] Delineando i limiti di insindacabilità delle scelte
discrezionali degli enti locali, la Corte di cassazione, con
orientamento consolidato (cfr., ex multis, Sezz. unite
civili, sentenze 29.01.2001, n. 33; 29.09.2003, n. 14448 e
10.03.2014, n. 5490), afferma che la Corte dei conti può e
deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative
con i fini dell'ente pubblico giacché, pur se l'art. 1,
comma 1, della legge 14.01.1994, n. 20, prevede che
l'esercizio in concreto del potere discrezionale degli
amministratori pubblici costituisce espressione di una sfera
di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal
sindacato del giudice contabile, l'art. 1, comma 1, della L.
241/1990 stabilisce che l'esercizio dell'attività
amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di
efficacia, che costituiscono specificazione del più generale
principio di buon andamento sancito dall'art. 97 della
Costituzione e assumono rilevanza sul piano della
legittimità (non della mera opportunità) dell'azione
amministrativa, la verifica della quale impone la
valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i
costi sostenuti.
E la Corte dei conti - Sez. II centrale d'appello, sentenza
08.06.2015, n. 296, sostiene che l'attribuzione di un potere
amministrativo discrezionale da parte della legge non
implica la creazione di un'area di assoluta libertà
decisionale in capo al titolare, ma esige pur sempre che
tale potere venga esercitato nel rispetto dei fini per i
quali è stato conferito, precisando, inoltre, che è lo
stesso tenore letterale dell'art. 1, comma 1, della L.
20/1994 ad escludere dal sindacato giurisdizionale
unicamente il 'merito' amministrativo e non la scelta
discrezionale nella sua interezza che deve, in ogni caso,
rispettare i c.d. 'limiti interni' della discrezionalità -
interesse pubblico, causa del potere esercitato, osservanza
dei precetti di logicità e di imparzialità - alla cui
violazione si fa tradizionalmente risalire il vizio
dell'eccesso di potere.
[11] Fatta salva la facoltà, per il Comune, di disporre
diversamente nella propria disciplina.
[12] Nell'ambito delle quali è stata anche fornita
l'interpretazione delle disposizioni che vietano
l'assunzione di spese per sponsorizzazioni (art. 6, comma 9,
del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge
30.07.2010, n. 122) e la concessione di contributi ad enti
che prestano servizi a favore delle pubbliche
amministrazioni (art. 4, comma 6, del decreto-legge
06.07.2012, n. 95, come modificato dalla legge di
conversione 07.08.2012, n. 135).
Al riguardo, la Corte dei conti ha osservato che ciò che
assume rilievo per qualificare una contribuzione pubblica
quale spesa di sponsorizzazione, a prescindere dalla sua
forma, è la funzione: la spesa di sponsorizzazione
presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la
presenza dell'ente pubblico, così da promuoverne l'immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno
di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini
istituzionali dello stesso ente pubblico; tale profilo,
però, deve essere esplicitato dall'ente locale in modo
inequivoco nella motivazione del provvedimento.
[13] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, parere
226/2013.
[14] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, pareri
248/2014 e 79/2015.
[15] Sez. reg.le di controllo per la Lombardia, parere
121/2015 (02.10.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
VARI:
Vitalizio
in cambio della casa. Per gli ultrasessantenni prestito
garantito da ipoteca.
Dal consiglio di stato il via libera al decreto
che attua la legge n. 44 del 2015.
In dirittura il prestito vitalizio ipotecario.
Il Consiglio di Stato ha licenziato il parere favorevole
allo schema di decreto attuativo della legge 44/2015 (Schema
di decreto del Ministro dello sviluppo economico concernente
il “Regolamento recante norme in materia di disciplina
del prestito vitalizio ipotecario, ai sensi dell’art.
11-quaterdecies, comma 12-quinquies del decreto legge
30.09.2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge
02.12.2005, n. 248, come modificato dall’art. 1, comma 1
della legge 02.04.2015, n. 44”), che ha disciplinato
lo speciale finanziamento riservato agli ultrasessantenni.
Nello schema di provvedimento si prevedono garanzie per
l'utente: deve essere messo a conoscenza di tutte le
condizioni del contratto e non deve sostenere spese per
ottenere l'informativa precontrattuale, coniugi e conviventi
possono chiedere di cointestare il contratto (con
possibilità, quindi, di far durare il contratto fino al
decesso della parte più longeva).
Ma vediamo il dettaglio dello schema di decreto, che renderà
possibile per gli anziani, che hanno una casa, di avere
disponibilità liquide per le loro esigenze.
IL PRESTITO VITALIZIO
Si tratta di uno speciale finanziamento bancario e delle
finanziarie dedicato a chi ha più di 60 anni, con
possibilità di ricevere il prestito a tranche mensili e
rimborso integrale in unica soluzione alla morte del
soggetto debitore oppure anche prima del decesso se la casa
viene venduta o ipotecata o di riduzione significativa del
valore dell'immobile.
La restituzione in unica soluzione non è l'unica opzione. La
legge prevede rimborsi rateali. Le banche sono comunque
garantite da ipoteca di primo grado. Se entro un anno il
finanziamento non è restituito dagli eredi o dal debitore,
la casa viene venduta al prezzo di mercato e il ricavato
viene usato per il rimborso del credito.
La legge 44/2015 ha rinviato a un decreto ministeriale la
disciplina di dettaglio.
IL DECRETO
Lo schema di decreto prevede l'obbligo per il finanziatore
di predisporre due prospetti esemplificativi, da sottoporre
all'interessato, chiamati «simulazione del piano di
ammortamento» che illustrano il possibile andamento del
debito nel tempo.
Si stabilisce anche il divieto di esigere il pagamento delle
spese sostenute dal finanziatore qualora il finanziato
decida di non sottoscrivere il contratto.
Al finanziamento si accompagna una polizza assicurativa per
l'immobile, ma il richiedente ha la facoltà di acquistare la
polizza assicurativa anche presso un soggetto differente dal
finanziatore, che annualmente deve consegnare un resoconto
della propria posizione debitoria.
Il contratto deve prevedere la possibilità di procedere alla
«co-intestazione» del contratto in caso di coniugi o
di conviventi more uxorio.
La banca e la finanziaria hanno la possibilità, in alcuni
casi, di richiedere il rimborso integrale del finanziamento.
Il decreto prevede tra queste ipotesi il decesso del
soggetto finanziato o del soggetto finanziato più longevo in
caso di «co-intestazione».
Lo stesso vale per i seguenti casi: trasferimento, in tutto
o in parte, di diritti reali o di godimento sull'immobile
dato in garanzia; compimento da parte del soggetto
finanziato con dolo o colpa grave di atti che riducano
significativamente il valore dell'immobile; la costituzione
di «diritti reali di garanzia in favore di terzi»;
effettuazione di modifiche strutturali all'immobile rispetto
al suo stato originale, apportate senza previo accordo con
il finanziatore; revoca dell'abitabilità dell'immobile
dovuta a incuria del finanziato; ingresso nell'immobile,
quali residenti, di soggetti diversi dai familiari del
finanziato, qualora avvenuta dopo la stipula del contratto e
l'esistenza di procedimenti conservativi o esecutivi o
ipoteche giudiziali sull'immobile dato in garanzia.
IL PARERE DEL CONSIGLIO DI STATO
Il
parere 16.10.2015 n. 2791 del Consiglio di Stato,
Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, indica alcune
modifiche da apportare al decreto. Tra queste si segnala
l'inserimento di obblighi di informazione sulle conseguenze
a carico degli eredi. Si segnala anche la necessità di
limitare la possibilità di revoca del finanziamento nel caso
in cui il debitore subisca atti conservativi o esecutivi.
Il decreto non specifica una soglia minima, con la
conseguenza che azioni per crediti di piccolo importo
comporterebbero l'estinzione del prestito e l'obbligo di
restituire il finanziamento. Il consiglio di stato ritiene
necessario specificare che tale effetto deriva da
procedimento di valore pari o superiore a una percentuale
del finanziamento o del valore dell'immobile (articolo
ItaliaOggi del 24.10.2015). |
TRIBUTI:
Fisco/ Cassazione e qualifica dirigenziale di chi
firma. La carenza non si rileva d'ufficio.
La carenza della qualifica dirigenziale di chi firma l'atto
impositivo non è rilevabile d'ufficio ma nel ricorso
introduttivo. Ma non solo: l'accertamento fiscale è valido
anche quando al contribuente vengono concessi solo quindici
giorni e non sessanta per fornire chiarimenti, nonostante
l'invito sia consegnato «brevi manu» dalla Guardia di
finanza in sede di ispezione.
Sono questi, in sintesi, i principi affermati dalla Corte di
Cassazione che, con la sentenza 23.10.2015 n. 21615, ha respinto il ricorso di un avvocato.
Sul fronte del rispetto della dibattuta questione dei
cosiddetti falsi dirigenti la sezione tributaria rende una
motivazione più precisa e chiarisce che sull'eccezione di
nullità dell'accertamento sollevata dal contribuente,
avanzata, per la prima volta, in Cassazione, sono stati
invocati gli effetti invalidanti, a suo dire rilevabili
anche d'ufficio, della recente declaratoria d'illegittimità
costituzionale di taluni strumenti normativi d'inquadramento
dirigenziale del personale dell'Agenzia delle entrate.
Ma
per la Cassazione, sul piano processuale, «la pretesa
nullità dell'avviso di accertamento per l'asserita carenza
dei requisiti (soggettivi) indicati nell'art. 42 dpr
600/1973 e nell'art. 56 dpr 633/1972 non è rilevabile
d'ufficio e la relativa questione, se non prospettata nel
giudizio di primo grado, o più esattamente nel ricorso
introduttivo, non può essere introdotta successivamente».
Restano, dunque, ferme le preclusioni che derivano del
peculiare regime di carattere impugnatorio del processo
tributario (articolo ItaliaOggi del
24.10.2015). |
VARI:
Da febbraio canone Rai in bolletta.
Pagamento in unica soluzione
Per il canone Rai si pagheranno 100 euro in bolletta e in
una unica soluzione da febbraio. Mentre se il contratto
della luce è intestato a una persona diversa del detentore
della televisione il canone lo pagherà quest'ultimo ma con
il conto corrente postale.
È questo uno dei chiarimenti, per
il pagamento del canone tv nella bolletta elettrica, che
arriva dalla relazione illustrativa della legge di stabilità
trasmessa, ieri, al Quirinale e in Parlamento.
I punti fermi.
Il canone, dunque, passerà dall'attuale importo di 113,50 a
100 euro. Nella relazione illustrativa si legge che
all'assetto normativo delle regole sul canone, disciplina
risalente al 1938, si aggiunge l'indicazione che il
pagamento del canone sarà effettuato in via ordinaria nel
contesto del pagamento dei corrispettivi delle forniture
dell'energia elettrica.
Alle norme è aggiunta una
presunzione per cui «l'esistenza di una fornitura di energia
elettrica nel luogo ove è situata la residenza fa presumere
la detenzione o l'utenza di un apparecchio atto o adattabile
alla ricezione del servizio pubblico radiotelevisivo». La
presunzione può essere superata con un'autocertificazione da
presentarsi all'Agenzia delle entrate, in cui il titolare
del contratto di energia elettrica dichiari di non possedere
un televisore.
Il pagamento del canone avverrà, si legge nel testo,
mediante addebito con una distinta voce non imponibile ai
fini fiscali sulle fatture dell'elettricità.
È precisato che il canone è dovuto una volta sola in
relazione a tutti gli apparecchi detenuti dai componenti
della famiglia anagrafica, nei luoghi di residenza e dimora.
Tutta la fase attuativa è poi demandata a un decreto
congiunto del ministero dello sviluppo economica, ministero
dell'economia e delle finanze, Autorità per l'energia
elettrica, entro 45 giorni dall'entrata in vigore della
legge.
Nel decreto troveranno spazio le disposizioni sui termini e
le modalità con cui, le società che erogano i servizi di
energia, riversano il canone all'erario. Inoltre nel decreto
sarà affrontato il problema dei ritardi di pagamento e
dell'applicazione di eventuali interessi moratori da parte
degli utenti.
I controlli saranno effettuati attraverso lo scambio di
informazioni tra Anagrafe, Autorità per l'energia elettrica,
ministero dell'interno, comuni, nonché altri soggetti
pubblici e privati che hanno la disponibilità delle
informazioni relative alle famiglie anagrafiche.
Infine la norma prevede che, per gli anni dal 2016 al 2018,
le eventuali maggiori entrate, versate a titolo di canone,
saranno destinate al fondo per la riduzione della pressione
fiscale. Le sanzioni attualmente previste dalla legge del
1938 non sono modificate (articolo ItaliaOggi del 24.10.2015). |
TRIBUTI:
Congelata
anche la «super-Tasi». Aliquota dello 0,8 per mille sulle
seconde case solo se già applicata oggi.
Il blocco agli aumenti delle tasse locali si
estende anche alla «super-Tasi», l’aliquota aggiuntiva dello
0,8 per mille che potrà essere applicata l’anno prossimo
solo da chi l’aveva introdotta già quest’anno su seconde
case e altri immobili (escludendo i terreni agricoli oltre
alle abitazioni principali). Insomma: per il 2016 il
congelamento del fisco locale e regionale diventa a tutto
tondo, ed esclude solo gli aumenti automatici in caso di
extradeficit sanitario (Regioni) e pre-dissesto (Comuni) e
quelli legati al piani di restituzione da parte dei
governatori delle anticipazioni sblocca-debiti ottenute dal
ministero dell’Economia.
La novità è spuntata nell’ultimo testo della manovra,
inviato ieri al Quirinale dopo un lungo lavoro sulle bozze
che nella fase finale si è concentrato proprio sul fisco
locale e sulle ipotesi di “salva-Regioni”.
Per capire le conseguenze di queste misure è utile un
riassunto delle puntate precedenti. La manovra abolisce la
tassazione delle abitazioni principali, con l’eccezione di
quelle «di lusso» a cui viene applicata l’aliquota
fissa del 4 per mille con esenzione di 200 euro, e dei
macchinari «imbullonati» delle imprese, mentre per i
terreni agricoli riporta la distribuzione dei Comuni fra
montani e non alla situazione pre-2014 (dunque con più enti
classificati come «montani», e quindi privi di
tassazione su tutti i terreni) e applica anche in pianura
l’esenzione per quelli di proprietà di imprenditori agricoli
professionali, coltivatori diretti e società. L’Imu, infine,
scompare anche dai terreni nelle isole minori e in quelli a
proprietà collettiva indivisibile.
La seconda gamba della manovra è rappresentata dai rimborsi
ai Comuni per il mancato gettito. A questo scopo vengono
destinati 3.668,09 milioni, che si aggiungono al fondo di
solidarietà comunale e saranno distribuiti sulla base dei
gettiti Imu/Tasi di quest’anno, mentre il fondo “tradizionale”
scende a quota 2.768,8 milioni. Altri 115 milioni servono a
compensare i Comuni per la loro quota di Imu sugli «imbullonati»
(il gettito ad aliquota standard è statale), e altri 390
milioni vanno a replicare il «fondo Tasi» introdotto
dalla legge di stabilità per il 2014, e progressivamente
ridotto negli anni, per chiudere i conti.
Su questo impianto si è sviluppata l’incognita sulla «super-Tasi»,
cioè l’aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille che i sindaci
hanno finora potuto introdurre a patto di finanziare qualche
detrazione sull’abitazione principale. In questi due anni i
Comuni hanno potuto collocare questo tassello fiscale
aggiuntivo sia sulla prima casa, alzando l’aliquota fino al
3,3 per mille, sia sugli altri immobili, portando la somma
di Imu e Tasi all’11,4 per mille.
La caduta di questa opzione avrebbe determinato l’esigenza
di trovare altri 360 milioni per garantire ai sindaci il
rimborso totale promesso a più riprese dal Governo; la sua
replica, d’altra parte, avrebbe aperto la porta a qualche
manovra strumentale da parte dei Comuni che, dopo aver
chiesto la «super-Tasi» alle abitazioni principali,
avrebbero potuto spostarla il prossimo anno sugli altri
immobili, ottenendo per questa via sia il rimborso dello 0,8
per mille applicato quest’anno sia il gettito aggiuntivo
dello 0,8 per mille spostato l’anno prossimo sulla base
ancora imponibile.
Di qui l’estensione del congelamento fiscale anche alla
super-Tasi, che potrà tornare l’anno prossimo solo nei
Comuni dove già ora era applicata su seconde case e altri
immobili: l’elenco di questi Comuni non è lunghissimo, ma ha
un alto peso specifico perché si apre con Roma e Milano.
Quest’ultima mossa blinda dunque la manovra da ogni
possibilità di aumento della pressione fiscale locale, con
un meccanismo simile a quello impiegato nel 2008 quando
venne cancellata l’Ici sulla prima casa. In questo caso il
congelamento fiscale è previsto per un anno, in attesa
dell’unione di Imu e Tasi e del riordino dei tributi minori
che quest’anno il Governo non ha voluto portare avanti per
non “inquinare” l’operazione Imu-Tasi
(articolo
Il Sole 24 Ore del 23.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Commissari per le Regioni che non attuano la «Delrio».
Province. Spostamenti «automatici» di funzioni e personale.
Prima la minaccia delle sanzioni finanziarie, per
le Regioni che arriveranno al 31 ottobre senza aver attuato
la riforma delle Province. Poi il commissariamento, se la
resistenza passiva proseguirà anche dopo gennaio 2016. In
questi casi, a riorganizzare gli ordinamenti locali ci
penserà un commissario di Palazzo Chigi, che sposterà in
Regione tutte le funzioni «non fondamentali» di Province e
Città.
La manovra interviene quindi anche ad affinare le armi per
tradurre in pratica la riforma Delrio, visto che la «collaborazione
istituzionale» avviata con l’accordo del settembre 2014
non ha portato molti frutti. Ancora oggi, otto Regioni su 15
a Statuto ordinario non hanno completato le leggi che
ridisegnano le funzioni locali e che di conseguenza
dovrebbero spostare il personale dai vecchi enti di area
vasta.
Ma ora, con i decreti sulla mobilità che hanno terminato il
loro iter, per il Governo è tempo di accelerare, anche per
evitare la diffusione dei casi di dissesto fra le Province e
le Città metropolitane che hanno subito il taglio
miliardario disposto dalla manovra dell’anno scorso.
Nel tentativo di risolvere i problemi di bilancio è
intervenuto il decreto enti locali, secondo il quale le
Regioni inadempienti dovranno mettere mano al portafoglio e
pagare i costi di funzioni e personale rimasti a carico
delle Province proprio a causa del mancato riordino. La
scadenza è fra otto giorni, ma c’è da scommettere su una
forte opposizione da parte dei Governatori, già alle prese
con grossi problemi di bilancio e con le incognite sul varo
effettivo del salva-Regioni, il meccanismo per spalmare i
disavanzi creati dagli errori di contabilizzazione delle
anticipazioni di liquidità ottenute dall’Economia per pagare
i fornitori (si veda anche pagina 8). Con premesse di questo
genere, è scontata l’opposizione dei Governatori a una norma
non semplice da far dialogare con la loro autonomia
finanziaria.
La manovra gioca allora la carta del commissariamento. Dove
le riforme locali saranno latitanti anche dopo fine gennaio,
dovrà intervenire un commissario governativo, che anche
senza l’accordo con le Regioni (la norma parla di una
semplice consultazione) dovrà attuare la riforma che i
territori hanno lasciato a bagnomaria.
Naturalmente il commissario non potrà decidere da solo come
redistribuire servizi locali e dipendenti, quindi la sua “riforma”
dovrà portare in Regione tutte le funzioni «non
fondamentali» di Province e Città metropolitane: per
quel che riguarda il personale, dovrà fare i conti con le «capacità
assunzionali» dei vari enti territoriali, dal 2016
ridotte dal turn-over al 25% previsto dalla manovra per
tutta la Pubblica amministrazione (si veda anche Il Sole 24
Ore di ieri).
Ma per sfoltire l’elenco degli “esuberi” in lunga
attesa di ricollocazione la manovra arruola anche il
ministero della Giustizia, prevedendo che il personale
collocato in posizione utile nel bando lanciato nei mesi
scorsi da Via Arenula sia inquadrato entro fine gennaio
nell’organico ministeriale, cancellando l’obbligo di assenso
da parte dell’ente di provenienza. In linea con i programmi
già fissati dalla legge di stabilità 2015, poi, la Giustizia
dovrà acquisire nei prossimi due anni un contingente di
altre mille persone, sempre provenienti da Province e Città,
per «supportare il processo di digitalizzazione in corso
presso gli uffici giudiziari».
Questa accelerazione suona come un tentativo urgente di
evitare il fallimento a catena delle Province, dopo che il
taglio aggiuntivo da 750 milioni in programma per l’anno
prossimo è stato ridotto di soli 150 milioni, da destinare a
edilizia scolastica e strade (quello da 250 milioni per le
Città è stato invece azzerato). Una conferma della febbre
dei bilanci, e del rischio stipendi per il personale di
alcune Province, arriva dalla stessa manovra, che convoglia
100 milioni di euro per sostenere le buste paga dei
dipendenti in attesa di spostamento
(articolo
Il Sole 24 Ore del 23.10.2015). |
VARI:
Casa
all'asta con la garanzia. Offerta al pubblico dopo
l'incarico del bando al notaio.
Studio del Consiglio nazionale del notariato
sull'opportunità offerta dall'art. 1336 cc.
Vendere all'asta la propria abitazione, incaricando un
notaio di occuparsi della faccenda. È una possibilità con
parecchi vantaggi, tra cui la sicurezza per venditore e
acquirente che l'immobile ha tutte le carte in regola.
Questo può avvenire sfruttando l'articolo 1336 del codice
civile, sull'offerta al pubblico di vendita di immobili.
Ad approfondire le modalità pratiche dell'operazione è il
Consiglio nazionale del notariato con lo
studio 20.06.2014 n. 153-2014/C, che studia le
condizioni di legittimità di una facoltà che potrebbe anche
dare una mano a sbloccare il mercato immobiliare.
In sostanza il venditore che dà incarico al notaio di
bandire l'asta, sottoscrivendo contemporaneamente un'offerta
al pubblico in forma pubblica.
Al notaio è richiesta, a questo punto, un'attività di
verifica e controllo, prima della predisposizione del bando
d'asta, non soltanto per garantire la perfetta conformità
dell'immobile e la sua assoluta assenza di vizi, ma anche,
quando è il caso, per rendere evidenti nel bando gli
eventuali vizi urbanistici o di altra natura riscontrati e
quali siano le garanzie prestate dal venditore.
Il notaio, quindi, bandisce l'asta e redige il verbale di
aggiudicazione, individuando l'aggiudicatario e determinando
il prezzo di aggiudicazione. Seguono altri adempimenti per
perfezionare la conclusione del contratto.
Lo studio notarile elenca le possibili modalità di
svolgimento dell'asta. Ci può essere quella con offerte
segrete, senza incanto o con incanto, in cui si renderà
aggiudicatario il miglior offerente (asta inglese); in tale
ipotesi la vendita viene aggiudicata a colui che ha proposto
la migliore offerta, partendo dal prezzo minimo indicato dal
venditore; oppure un'asta con offerte segrete, cui può
seguire un incanto a determinate condizioni (ad esempio,
possono essere ammesse a partecipare all'incanto solo le
migliori offerte segrete).
L'asta potrebbe essere con offerte al ribasso (asta
olandese), da valutare con eventuale incanto, solo in
assenza di offerte pari o superiori alla base d'asta: la
vendita viene aggiudicata al miglior offerente, partendo dal
prezzo massimo indicato dal venditore; c'è poi l'asta con
riserva, in cui la vendita viene aggiudicata solo se le
offerte abbiano raggiunto o superato il prezzo minimo
stabilito e l'asta con il metodo Vickrey, nella quale
l'aggiudicazione è fatta al miglior offerente per il prezzo
di acquisto del secondo migliore offerente.
Lo studio esclude il conflitto tra l'incarico al notaio di
organizzare e gestire l'asta privata e l'attività di
mediazione, considerando vietata al professionista
l'organizzazione di vendite all'asta, su base commerciale o
qualsivoglia attività di tipo commerciale.
Secondo lo studio il sistema dell'asta privata garantisce al
venditore maggiori possibilità di vendita, la soluzione dei
problemi operativi posti dalla vendita (controlli svolti dal
notaio e dai tecnici incaricati prima della sottoscrizione
dell'offerta al pubblico); è un sistema flessibile che
consente di modulare le esatte regole del gioco nei limiti
previsti nell'offerta e sino all'accettazione, salvo che si
preveda l'irrevocabilità.
Il venditore può anche avvantaggiarsi della certezza
nell'individuazione dell'acquirente, della correttezza nel
meccanismo di selezione dell'acquirente e conseguente
determinazione del prezzo di vendita, della trascrizione del
preliminare e conseguenti garanzie, ma, soprattutto, può
contare di spuntare il prezzo più conveniente.
Anche l'acquirente non rimane a bocca asciutta, visto che
non avrà sorprese dall'immobile (vagliato da notaio e
tecnici), ha maggiori possibilità di scelta, gode di
benefici giuridici (trascrizione del contratto preliminare
all'esito dell'accettazione e più agevole di esercizio
dell'azione ex articolo 2932 codice civile) e di minori
rischi in ipotesi di revocatoria (ordinaria o fallimentare).
L'asta potrebbe svolgersi online con accessi riservati e
delegando al notaio la verifica della legittimazione,
dell'onorabilità e dell'affidabilità dei partecipanti, anche
sotto il profilo della normativa in materia di lotta
anti-riciclaggio ed alla criminalità organizzata (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
I requisiti minimi Ape legati alla richiesta.
I requisiti minimi per la redazione dell'attestato di
prestazione energetica da rispettare dipendono dalla data di
richiesta del titolo abilitativo. La procedura e la
normativa da seguire è quella in vigore a tale data. La
redazione dell'Ape a cura del direttore dei lavori avverrà
secondo le procedure e le metodologie di calcolo vigenti
alla data della richiesta del permesso a costruire.
L'attestato di prestazione energetica deve essere redatto
seguendo la legislazione e la normativa in vigore al momento
della produzione dell'attestato. Dal 01.10.2015 vale quindi
solo la nuova procedura (dm interministeriale 26.06.2015) di
redazione dell'Ape.
Questi i
chiarimenti (ottobre 2015) forniti dal Ministero
dello sviluppo economico in materia di efficienza energetica
in edilizia.
Ai fini della compilazione dell'Ape e nell'ambito del dm
interministeriale 26.06.2015, tra gli edifici di categoria
E.1, si considerano «non residenziali» le seguenti
sottocategorie: collegi, conventi, case di pena, caserme,
gli edifici adibiti ad albergo, le pensioni e attività
similari.
Si considerano «residenziali» solamente le seguenti
sotto-categorie: abitazioni adibite a residenza con
carattere continuativo, quali abitazioni civili e rurali;
abitazioni adibite a residenza con occupazione saltuaria,
quali case per vacanze, fine settimana e simili. I servizi
di illuminazione e trasporto vanno considerati per tutti gli
edifici non residenziali.
Per quanto riguarda i servizi energetici da considerare a
seconda della destinazione d'uso, si consideri che gli
alberghi, le pensioni e attività similari rientrano nel «settore
terziario», per cui i servizi energetici di
illuminazione e trasporto vanno considerati ai fini della
prestazione energetica dell'edificio (cfr. definizione di «prestazione
energetica di un edificio» contenuta nella legge n.
90/2013).
L'obbligo di determinazione dell'indice di prestazione per
l'illuminazione degli ambienti è esteso anche per collegi,
conventi, case di pena e caserme (appartenenti alla
categoria E.1) (articolo ItaliaOggi del 23.10.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI:
Enti,
bloccate aliquote e tariffe. Niente aumenti per il 2016 a
eccezione della Tari.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ In senato pronta la sanatoria delle
delibere 2015.
Blocco degli aumenti tributari e tariffari per tutto il
2016. Abbassamento del turnover al 25%. Nuovo freno alla
contrattazione decentrata.
Sono queste le principali novità per gli enti locali
inserite in questi ultimi giorni nel testo del ddl stabilità
2016 (atteso oggi in parlamento), che vanno ad aggiungersi a
quelle presenti fin dalle prime stesure, come l'ennesimo
restyling del prelievo immobiliare e il passaggio dal Patto
al pareggio di bilancio.
Su Imu e Tasi, l'ultima versione del testo (si veda
ItaliaOggi di ieri) esclude dalla detassazione le prime case
di lusso (ossia quelle accatastate in A1, A8 e A9) e
reintroduce la maggiorazione dello 0,8 per mille senza più
l'obbligo per i comuni (in molti casi eluso nella pratica)
di destinarne i proventi al finanziamento di detrazioni.
Proprio per compensare la maxi aliquota, si è deciso di
congelare per tutto il prossimo anno la possibilità di
aumentare aliquote e tariffe, che dunque potranno essere
solo ridotte o restare ai livelli attuali. Il che rende
ancora più urgente l'approvazione della sanatoria per le
delibere adottate nel 2015 oltre la scadenza per
l'approvazione del bilancio.
Restano fuori dal blocco la Tari (che in base alle regole
europee deve coprire al 100% i costi del servizio rifiuti) e
gli aumenti deliberati dagli enti in pre-dissesto. I fondi
per le compensazioni ai sindaci si riducono ulteriormente,
scendendo a circa 4,2 miliardi, di cui 3,6 per abitazioni
principali e terreni, 155 per gli imbullonati e 390 di ex
fondo Imu-Tasi.
Delibere in ritardo, la soluzione nel
decreto sulla voluntary
La soluzione per risolvere il pasticcio delle delibere
approvate fuori tempo massimo potrebbe arrivare non nella
manovra, ma dal senato che sta esaminando il dl n. 153/2015
sulla proroga della voluntary disclosure.
Il provvedimento, conclusi i lavori in commissione, arriverà
in aula martedì ed è già pronto un emendamento del Pd (a
firma dei senatori Daniele Borioli e Federico Fornaro) che
per il 2015 salva le delibere sui tributi locali adottate
dai comuni entro il 31 agosto (purché pubblicate sul Portale
del federalismo fiscale del Mef entro il 28 ottobre per Imu
e Tasi ed entro il 20 dicembre per l'addizionale comunale
Irpef).
Gli enti che non hanno deliberato entro fine agosto dovranno
invece applicare le aliquote e le tariffe applicate nel
2014. L'emendamento, accolto favorevolmente dal governo che
tuttavia, in aula, si rimetterà alla decisione
dell'assemblea, ha molte chance di essere approvato. E
questo darebbe un po' di respiro ai comuni sull'esercizio
finanziario 2015.
Le altre modifiche
Le altre new entry riguardano il personale, con la
riduzione del turnover per tutti gli enti (virtuosi e non),
che per i prossimi due anni potranno destinare a nuove
assunzioni solo il 25% della spesa dei cessati nell'anno
precedente (oltre agli eventuali resti) e il nuovo tetto al
fondo per la contrattazione decentrata, che non potrà
superare l'importo 2015 e dovrà essere automaticamente
ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale
in servizio.
Confermato l'addio al Patto, che dal prossimo anno sarà
sostituito dal pareggio di competenza in versione light: gli
enti (compresi i comuni con meno di 1.000 abitanti, finora
esclusi dai vincoli) dovranno conseguire un saldo non
negativo fra entrate e spese finali in termini di sola
competenza (accertamenti e impegni). Nessuna limitazione
sull'uso della cassa, mentre per avanzi e debito lo sblocco
è parziale e riguarda le sole spese per l'edilizia
scolastica entro un budget massimo di 500 milioni per il
2016.
Infine, da segnalare il giro di vite sull'obbligo di
comunicare mediante piattaforma elettronica le fatture
pagate e l'estensione a tutti i comuni della possibilità di
procedere ad acquisti in autonomia fino a 40.000 euro (si
veda altro approfondimento a pag. 37) (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Statali,
un ritorno al passato. Congelati i fondi decentrati,
bloccato il turn-over.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Sul personale la manovra
ripropone ricette del 2010.
Per il pubblico impiego tornano sostanzialmente in auge le
ricette del 2010, quelle del dl 78/2010 convertito in legge
122/2010, all'origine del dello stop all'operatività della
riforma Brunetta e del blocco della contrattazione.
L'ennesima «versione aggiornata» del disegno di legge
di stabilità per il 2016 pesca dal passato misure che le
amministrazioni pubbliche ormai conoscono bene e che poco
più di un anno fa il governo aveva provato a superare col dl
90/2014.
Spesa di personale decrescente.
La spesa destinata al pubblico impiego è pari a poco più di
160 miliardi, circa il 20% della spesa pubblica totale. Si
tratta praticamente dell'unico aggregato di spesa che negli
anni si riduce (ancora poco meno di dieci anni fa ammontava
a 172 miliardi), grazie alle decisioni di impedire le
assunzioni o di contenere in maniera piuttosto drastica i
costi contrattuali.
Non è, evidentemente, possibile permettersi che la dinamica
della spesa per il personale aumenti. Le scelte del ddl di
stabilità dunque ripropongono le ricette ben note.
Congelamento dei fondi decentrati.
È durato per il solo 2015 lo sblocco dei fondi destinati
alla contrattazione decentrata, che l'articolo 9, commi 1 e
2-bis, del dl 78/2010 avevano congelato al tetto di spesa
del 2010, da ridurre annualmente in proporzione al personale
cessato.
Il ddl di stabilità ripristina il meccanismo, prendendo a
riferimento, però, il 2015. L'attuale testo dispone che a
decorrere dal 01.01.2016, l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale non potrà superare
il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ai
sensi dell'articolo 9, comma 2-bis secondo periodo del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78 e successive modificazioni
aggiungendo che deve essere automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi
della normativa vigente.
Ancora una volta il legislatore non stabilisce espressamente
quale algoritmo di calcolo occorre utilizzare per assicurare
la riduzione dei fondi.
Blocco del turn-over.
Un altro «classico» delle manovre di finanza pubblica in
tempi di crisi è il contenimento delle assunzioni. Il ddl di
stabilità prevede che le amministrazioni statali negli anni
2016, 2017 e 2018, potranno assumere personale a tempo
indeterminato di qualifica non dirigenziale nel limite del
25% della spesa del personale cessato l'anno precedente. Nel
caso di qualifiche dirigenziali, il turn-over sarà del 50%
per il 2016, dell'80% nel 2017 e del 100% nel 2018.
Per gli enti locali resta salvo il 2016: il turn-over sarà
dell'80% del costo delle cessazioni dell'anno precedente.
Tuttavia, negli anni 2017 e 2018 gli enti locali potranno
effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato di
qualifica non dirigenziale nel limite del 25% della spesa
relativa al personale cessato nell'anno precedente. Il ddl
di stabilità intende disapplicare, negli anni 2017 e 2018
anche il «premio» per gli enti virtuosi, previsto
dall'articolo 3, comma 5-quater, che consente di portare al
100% la soglia della spesa per turn-over.
Province.
Ovviamente, sulle nuove regole relative alla spesa del
personale continua ad incombere l'irrisolto problema della
ricollocazione dei dipendenti in sovrannumero delle province
e delle città metropolitane. Di fatto, nel 2016 il turnover
continuerà ad essere bloccato.
Il ddl prevede di «forzare» il sistema con l'idea di
commissariare le regioni che non abbiano riordinato le
funzioni non fondamentali delle province entro 30 giorni
dalla sua entrata in vigore. Il commissario assicurerà il
completamento degli adempimenti necessari a rendere
effettivo, entro il 30.06.2016, il trasferimento delle
risorse umane, strumentali e finanziarie relative alle
funzioni non fondamentali delle province e delle città
metropolitane, in attuazione della riforma Delrio.
Perdurando l'assenza di disposizioni legislative regionali e
fatta salva la loro successiva adozione, il ddl di stabilità
attribuisce automaticamente alla regione le funzioni non
fondamentali delle province e città metropolitane. Il
commissario trasferirà il personale sovrannumerario nei
limiti della capacità di assunzione e delle relative risorse
finanziarie della regione ovvero della capacità di
assunzione e delle relative risorse finanziarie dei comuni
che insistono nel territorio della provincia o città
metropolitana interessata.
Nel frattempo, il ddl prevede di rendere indisponibili i
posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del dlgs 165/2001 vacanti alla data del 15.10.2015 e non
coperti alla data del 31.12.2015 (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
PATRIMONIO:
I solai
delle scuole ai raggi X. Stanziati 40 milioni per gli
interventi degli enti locali.
Destinatarie dei fondi Miur sono le
amministrazioni proprietarie. Domande fino al 18/11.
Ammonta a 40 milioni di euro lo stanziamento del ministero
dell'istruzione, dell'università e della ricerca a valere
sull'avviso pubblico per il finanziamento in favore di enti
locali di indagini diagnostiche dei solai degli edifici
scolastici.
I fondi potranno essere utilizzati dagli enti locali
proprietari degli edifici scolastici al fine di finanziare
indagini diagnostiche relative a elementi strutturali e non
strutturali di solai e controsoffitti con riferimento a
immobili pubblici adibiti a uso scolastico.
Potranno presentare richiesta di finanziamento tutti gli
enti locali proprietari di edifici scolastici di ogni ordine
e grado. Ogni ente locale potrà presentare la propria
candidatura con riferimento a uno o più edifici scolastici
di cui è proprietario o rispetto al quale abbia la
competenza.
La scadenza per presentare domanda è fissata al 18.11.2015.
Con questo bando il ministero punta ad avere una radiografia
delle condizioni dei solai degli istituti per prevenire i
rischi di crollo e garantire al meglio la sicurezza degli
studenti.
Contributo fino a 9 mila euro per indagine
Sono ammesse a finanziamento le indagini diagnostiche
relative a elementi strutturali ovvero a elementi non
strutturali dei solai. L'importo massimo del contributo per
le indagini relative agli elementi non strutturali è pari a
4 mila euro per le scuole del primo ciclo e a 6 mila euro
per le scuole del secondo ciclo.
L'importo massimo del contributo per le indagini relative
agli elementi strutturali è pari a 7 mila euro per le scuole
del primo ciclo e a 9 mila euro per le scuole del secondo
ciclo. Gli enti locali beneficiari del contributo dovranno
affidare le indagini, pena la revoca del contributo, entro e
non oltre il 31.12.2015. Le indagini dovranno essere
affidate a soggetti qualificati.
Domande dal 26 ottobre al 18.11.2015
Gli enti locali interessati, tramite il legale
rappresentante o suo delegato, dovranno inviare la propria
candidatura entro e non oltre le ore 23.59 del giorno
18.11.2015. L'invio deve avvenire utilizzando esclusivamente
la piattaforma informativa a tal fine realizzata, denominata
Ides collegandosi al link
http://ext.pubblica.istruzione.it/IdesCandidatura/login.
Nella domanda dovranno essere inseriti la denominazione
dell'ente (comune, provincia o città metropolitana), gli
edifici scolastici che si intende candidare al finanziamento
per indagini diagnostiche in ordine di priorità di
intervento.
Deve essere evidenziata la tipologia di indagine strutturale
o non strutturale, l'importo complessivo dell'indagine
comprensivo della quota di cofinanziamento. Dovranno essere
indicati l'anno di costruzione dell'immobile, l'eventuale
quota di cofinanziamento in relazione all'importo
complessivo dell'indagine di cui il contributo ministeriale
è parte, l'indice di rischio sismico ovvero, se non
conosciuto, la relativa zona sismica.
I richiedenti dovranno predisporre una dichiarazione di
assenza o meno di finanziamento negli ultimi cinque anni per
interventi strutturali o per indagini diagnostiche. Il
portale per l'inserimento dei dati sarà accessibile dal
26.10.2015 fino alle ore 23.59 del giorno 18.11.2015.
Concessione in base a una graduatoria
I contributi saranno concessi sulla base di una graduatoria
di merito, pertanto non saranno rilevanti la data e l'ora di
presentazione della domanda.
In particolare, saranno presi in considerazione la vetustà
degli edifici adibiti a uso scolastico, con particolare
riferimento agli edifici costruiti prima del 1970, la quota
di cofinanziamento per l'espletamento di ciascuna indagine,
l'indice dì rischio sismico e l'assenza di finanziamento
negli ultimi cinque anni per interventi strutturali o per
indagini diagnostiche.
L'erogazione del contributo avverrà nell'esercizio
finanziario 2016 direttamente da parte del ministero in
favore degli enti locali beneficiari, mediante trasferimento
sulle contabilità di tesoreria unica degli enti stessi, in
un'unica soluzione (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
APPALTI:
Acquisti
liberi fino a 40 mila. Enti locali: obbligo di gare Consip
anche per le manutenzioni.
Il ddl stabilità stabilisce per tutti i comuni
questo limite per l'affidamento di appalti in autonomia.
Tutti i comuni potranno affidare contratti di valore
inferiore a 40 mila senza ricorso alle centrali di
committenza e le gare telematiche Consip si faranno anche
per lavori di manutenzione e deroga all'obbligo di gare
Consip se i corrispettivi sono inferiori del 10% rispetto a
quelli stabiliti dalla centrale di committenza.
Sono queste alcune delle novità contenute nell'ultima bozza
di legge di stabilità approvata dal consiglio dei ministri
il 15 ottobre scorso che prevede anche l'obbligo per le
amministrazioni di elaborare il programma biennale degli
acquisiti e prezzi massimi di aggiudicazione fissati dall'Anac
in caso di mancanza di convenzioni Consip o di prezzi
standard.
Per gli enti locali la novità di maggiore rilievo e attesa
da diversi mesi (la misura fu richiesta dall'Anci in più
occasioni e in più decreti-legge) riguarda gli acquisti fino
a 40 mila euro.
Ad oggi soltanto i comuni con popolazione superiore a 10
mila abitanti possono evitare di passare attraverso centrali
di committenza, soggetti aggregatori della domanda o unioni
di comuni per potere affidare contratti di modesto importo
(inferiore a 40 mila euro).
Il disegno di legge di stabilità per il 2016 elimina il
divieto di procedere autonomamente agli acquisiti di beni,
servizi e lavori fino a 40 mila euro per i comuni con
popolazione al di sotto dei 10 mila abitanti con la
conseguenza che, fino a 40 mila euro, tutti i comuni senza
alcuna distinzione potranno procedere in autonomia e non
fare ricorso alla centrale di committenza.
Altra importante novità, se verrà confermata nel testo
definitivo che sarà trasmesso in parlamento, è quella che
consentirà di utilizzare «gli strumenti di acquisto e di
negoziazione messi a disposizione da Consip spa anche per le
attività di manutenzione qualificabili come lavori pubblici».
In sostanza, si amplia l'ambito di applicazione delle
procedure Consip anche ai contratti che prevedono
l'esecuzione di lavori di manutenzione e non soltanto alle
forniture di beni e servizi.
Il disegno di legge prevede inoltre una deroga, per tutto il
2016, all'obbligo di ricorso alle procedure Consip a
condizione che gli acquisiti conseguano ad
approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a
procedure di evidenza pubblica e prevedano corrispettivi
inferiori almeno del 10% rispetto ai migliori corrispettivi
indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a
disposizione da Consip e dalle centrali di committenza
regionali.
In questi casi, però, la norma fa salva la possibilità per
il contraente privato di tornare alla convenzione Consip, se
più favorevole.
L'articolato introduce poi l'obbligo per tutte le
amministrazioni di approvare, entro il mese di ottobre di
ciascun anno, il programma biennale e suoi aggiornamenti
annuali degli acquisti di beni e di servizi di importo
stimato superiore a un milione di euro. Il programma dovrà
essere predisposto sulla base dei fabbisogni di beni e
servizi dell'amministrazione e dovrà indicare le prestazioni
oggetto dell'acquisizione, la quantità, ove disponibile, il
numero di riferimento della nomenclatura e le relative
tempistiche.
Da notare che l'inadempimento a quest'obbligo sarà valutato
ai fini della performance della amministrazione e che le
acquisizioni non comprese nel programma e nei suoi
aggiornamenti non potranno ricevere forme di finanziamento,
eccezione fatta per le acquisizioni imposte da eventi
imprevedibili o calamitosi. Il disegno di legge prevede
anche la soppressione dell'articolo 271 del dpr 207/2010
(regolamento di attuazione del codice dei contratti
pubblici) che prevede soltanto il programma annuale degli
acquisti.
Viene poi affidato all'Anac il compito di elaborare
l'adeguamento prezzi delle vecchie convenzioni, laddove
manchino le convenzioni Consip e i prezzi standard. I valori
definiti dall'Autorità costituiranno «prezzo massimo di
aggiudicazione per il periodo temporale indicato
dall'autorità medesima» (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Consulenze, l'esperienza non può essere premiante.
Restringe la concorrenza nella redazione degli elenchi di
professionisti.
Viola i principi di concorrenza e non discriminazione un
criterio che, per la formazione di elenchi di professionisti
per l'affidamento di incarichi anche di limitato importo,
premia l'esperienza pregressa su un determinato territorio e
richiede l'iscrizione all'albo provinciale o regionale.
Questo è uno degli elementi contenuti nella
segnalazione AS1213 del 30.09.2015 (REGIONE
MARCHE-ELENCHI DI PROFESSIONISTI PER INCARICHI DI
MICROZONAZIONE SISMICA E ANALISI DELLA CONDIZIONE LIMITE PER
L'EMERGENZA) dell'Autorità garante della concorrenza e
del mercato (pubblicata sul bollettino dell'Antitrust del
12.10.2015) che ha preso in esame alcuni profili
problematici inerenti la formazione di elenchi di
professionisti costituiti al fine di affidare incarichi di
consulenza tecnica (nel caso specifico si trattava di un
albo istituito da una centrale di committente per incarichi,
tutti di valore al di sotto dei 20 mila euro, di
microzonazione sismica e di analisi della condizione limite
per l'emergenza in comuni a rischio).
L'elenco veniva costituito con un avviso pubblico nel quale
si prevedevano come requisiti premianti le esperienze
pregresse maturate sul territorio (cui si assegnavano 35
punti su 100) e l'iscrizione all'albo provinciale o
regionale.
A tale riguardo l'Antitrust evidenzia le distorsioni della
concorrenza e del corretto funzionamento del mercato dei
servizi professionali che derivano dalle disposizioni
concernenti la formazione degli elenchi di affidatari.
In particolare, il criterio della documentata «conoscenza
approfondita del territorio» in cui dovrà essere svolto
l'incarico introducono, si legge nella segnalazione, una
ingiustificata restrizione alla prestazione dei servizi a
vantaggio del professionista in grado di documentare, anche
mediante autocertificazione, sia pregressi lavori effettuati
sul territorio, sia la propria iscrizione all'albo
professionale regionale o provinciale.
L'Autorità fa presente come «ogni professionista, anche
attivo in altri ambiti territoriali ma con esperienza nei
servizi affidati, sarebbe in grado, avvalendosi della
tecnologia in uso nel settore, di acquisire la necessaria
conoscenza delle caratteristiche geologiche e strutturali
del territorio, a prescindere dall'ambito nel quale ha
svolto la propria attività pregressa».
Il tutto senza considerare che ogni aspirante affidatario
dovrebbe comunque adoperarsi per approfondire la massima
conoscenza dello stato di fatto in cui dovrà essere svolta
la prestazione.
Per l'Antitrust, quindi, il criterio di selezione premiante
la conoscenza del territorio viola il principio di non
discriminazione, che vieta di effettuare una selezione di
concorrenti, privilegiando arbitrariamente coloro che
esercitano prevalentemente la loro attività nell'ambito
territoriale in cui devono essere svolte le prestazioni,
benché l'importo complessivo dell'affidamento, per ciascun
comune, sia ampiamente inferiore a 40 mila euro e consenta
in base all'articolo 125, comma 11, del Codice dei contratti
pubblici di procedere con affidamenti diretti nelle
procedure in economia o di cottimo fiduciario.
Pur non applicandosi le norme europee, per l'Antitrust si è
in presenza di una violazione dei «principi di
liberalizzazione delle attività economiche sanciti, in
particolare, dagli articoli 10 e 12 del dlgs n. 59/2010, che
recepisce la cosiddetta Direttiva servizi» (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: Mini-enti,
manovra beffa. Vincoli per i comuni sotto i 1.000 abitanti.
LEGGE
DI STABILITÀ 2016/ Pareggio di bilancio light ma per tutti.
Dal prossimo anno, anche i comuni al di sotto dei 1.000
abitanti saranno pienamente soggetti ai vincoli di finanza
pubblica.
Lo prevede il ddl di Stabilità 2016, nel quadro del
passaggio dal Patto al nuovo meccanismo del pareggio di
bilancio.
Finora, i mini-enti sono sempre stati tenuti fuori dalla
partita, sia per non appesantirli di adempimenti troppo
gravosi, sia in considerazione del loro modesto peso
finanziario sul bilancio consolidato delle pubbliche
amministrazioni.
Una prima, parziale inversione di tendenza si è avuta col il
dl 138/2011, che aveva esteso il Patto anche agli enti
appartenenti alla fascia compresa fra 1.000 e 5.000 abitanti
(e tentato di applicarlo anche a quelli minori, attraverso
l'obbligo, poi cancellato, di costituire le cd unioni
speciali). Anche così, si è trattato di una mezza
rivoluzione, che ha complicato fortemente la vita delle
piccole amministrazioni, alle prese generalmente con bilanci
più rigidi e con una minore capacità di programmazione
rispetto a quelle medie e grandi.
Non a caso, quindi, la richiesta di ripristinare l'esenzione
piena fino alla fatidica soglia dei 5.000 residenti è stata,
in questi anni, la più gettonata dopo quella di una
cancellazione tout court del Patto.
Ora che quest'ultima sembra finalmente a portata di mano,
con l'imminente debutto della versione light del pareggio di
bilancio (in quanto limitato al solo equilibrio di
competenza fra entrate e spese finali; si veda ItaliaOggi
del 17/10/2015), ecco la doccia fredda: il nuovo obbligo
avrà un'applicazione generalizzata, senza limitazioni
demografiche.
Lo si evince dal richiamo che la norma sul pareggio opera
all'art. 9, comma 1, della legge 243/2012 (ossia la legge
rinforzata approvata dal Governo Monti in attuazione
dell'art. 81 Cost.), che a sua volta menziona espressamente,
oltre a regioni, province e città metropolitane, anche tutti
i comuni.
Dal 1° gennaio, quindi, anche i mini-enti dovranno entrare
nel sistema e rispettare tutti i numerosi adempimenti che
esso prevede, dal prospetto che deve essere allegato al
bilancio di previsione, all'accredito alla piattaforma del
Mef, fino al monitoraggio e alla certificazione finale. E
ovviamente saranno soggetti alle sanzioni (tagli, tetto alle
spese correnti, blocco dell'indebitamento e delle
assunzioni, decurtazioni delle indennità degli
amministratori) previste in caso di sforamento
dell'obiettivo.
Non si tratta di uno scherzo, se si pensa che le
amministrazioni interessate sono circa 2 mila e che finora
non hanno mai applicato il Patto e quindi non sono del tutto
preparate al cambiamento, anche perché spesso hanno non più
di un dipendente costretto a svolgere da solo tutte le
incombenze d'ufficio. Eppure, nessuno, a livello politico,
sembra essersi posto il problema, né a livello centrale, né
nelle varie associazioni degli enti locali.
Invero, il problema nasce proprio dalla 243, che di per sé
non potrebbe essere rivista da una legge ordinaria. Eppure,
il ddl stabilità di fatto ne modifica il tenore, ma finora
si è dimenticato di tutelare i piccoli comuni. Rimangono
esenti, invece, le unioni di comuni e, in generale, gli enti
locali diversi da quelli menzionati dal richiamato art. 9.
Merita segnalare, infine, la necessità di chiarire un altro
aspetto fondamentale. Finora, la dicotomia fra enti soggetti
e enti non soggetti al Patto è stata utilizzata anche per
differenziare il regime di limiti alla spesa di personale e
al turnover, nel primo caso disciplinato dal comma 557 e nel
secondo dal comma 562 della legge 296/2006. Ora, tale
distinzione pare superata, per cui si tratta di capire quale
sia il regime effettivamente applicabile: un altro elemento
di incertezza in vista della programmazione 2016-2018, che
dovrà trovare la sua sintesi nel Dup.
I piccoli comuni possono invece festeggiare per l'estensione
della deroga all'obbligo di acquisti centralizzati per
importi inferiori a 40 mila euro. La possibilità di
effettuare acquisti in autonomia, oggi riconosciuta solo ai
comuni con più di 10 mila abitanti, viene estesa a tutti i
municipi indipendentemente dalla classe demografica
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tagli. Manager, misure incoerenti.
Sulla dirigenza pubblica il disegno di legge di Stabilità
contiene una serie di incoerenze.
Il ddl aumenta a dismisura le responsabilità dei dirigenti,
connesse, ad esempio, al rispetto dei tempi di pagamento o
al nuovo obbligo di pubblicare la programmazione biennale di
servizi e forniture di importo superiore al milione di euro.
In particolare, il regime di responsabilità contempla
regolarmente la rilevanza dell'eventuale mancato rispetto
degli obiettivi fissati, ai fini dell'erogazione della
retribuzione di risultato. Tuttavia, proprio sulla
retribuzione di risultato si concentra l'idea della legge di
stabilità di finanziare l'esiguo stanziamento (200 milioni)
previsto per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego: in
sostanza, si tratta di ridurre in modo rilevante i fondi
destinati alla retribuzione di risultato dei dirigenti
pubblici, con un taglio del 10%. Le incoerenze non si
fermano certo qui.
Un intervento di simile natura sulla retribuzione di
risultato dei dirigenti finisce per scontrarsi frontalmente
sia con la riforma-Brunetta, il dlgs 150/2009, rendendo
sostanzialmente inutili i complessi sistemi di valutazione
della performance della dirigenza; sia anche con le
indicazioni della legge-Madia, la 124/2015 di delega per la
riforma della p.a., che proprio sulla valutazione della
dirigenza pubblica e sul «merito», punta per
potenziare e rendere ancora più evidenti gli effetti della
riforma Brunetta.
Ancora, l'idea di intervenire sul trattamento economico dei
dirigenti ormai è presente da anni e già nei testi
preparatori del dl 66/2014 erano emerse proposte per la
determinazione di «tetti» variabili a seconda delle
fasce dirigenziali. Tuttavia, immaginare di incidere
drasticamente sui fondi di risultato dei dirigenti, apre il
rischio di attivare un altro contenzioso, probabilmente
perdente, con la Corte costituzionale.
La Consulta, infatti, pochi anni fa ebbe modo di stroncare
un intervento simile: il contributo «di solidarietà»
richiesto ai trattamenti economici dirigenziali complessivi
anche della retribuzione di risultato, superiori ai 90 mila
euro
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti a contratto salvi dalla cura
dimagrante.
Incarichi dirigenziali a contratto salvi dalla cura
dimagrante imposta alle dotazioni organiche dei dirigenti
pubblici.
Il disegno di legge di Stabilità per il 2016 puntualmente
lascia fuori i dirigenti incaricati direttamente dalla
politica, quelli previsti dall'articolo 19, comma 6, del
dlgs 165/2001.
Dirigenti a contratto.
Nonostante la legge intenda contenere il numero e il costo
dei dirigenti in servizio, non si rinuncia allo strumento
principale col quale la politica coopta, senza concorsi,
dirigenti dall'esterno delle dotazioni organiche,
esponendosi per altro a rilievi e rischi gestionali come
quelli manifestatisi per le Agenzie fiscali, che hanno
attinto a piene mani a questo tipo di incarichi.
Sta di fatto che il ddl di stabilità prevede che «la
riduzione della dotazione organica degli uffici dirigenziali
non generali non ha effetto sul numero degli incarichi
conferibili ai sensi dell'articolo 19, commi 5-bis e 6 del
decreto legislativo n. 165 del 2001», allo scopo «di
garantire la continuità dell'azione amministrativa»,
nella inusitata visione secondo la quale la continuità
dell'azione amministrativa dipenda da incarichi a tempo
determinato.
Riduzione delle dotazioni.
La previsione appare piuttosto incoerente, se si pensa che
il ddl impone la riduzione delle dotazioni organiche
dirigenziali nella misura del 50%, tenendo conto «del
numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con
incarico di studio, del personale dirigenziale in posizione
di comando, distacco o aspettativa per altro incarico presso
una diversa amministrazione».
Il legislatore è, dunque, consapevole che molti dirigenti
stanno nel limbo senza incarichi o con incarichi privi di
rilevanza gestionale, eppure continua ad ammettere il
ricorso a soggetti esterni, che impediscono una più corretta
collocazione operativa di questi dirigenti.
Non subiranno riduzioni le dotazioni dirigenziali delle
figure non contrattualizzate di cui all'articolo 3 del dlgs
165/2001 (prefetti, diplomatici, docenti universitari,
magistrati, avvocati dello stato); niente taglio anche per i
dirigenti delle città metropolitane e delle province adibiti
all'esercizio di funzioni fondamentali, degli uffici
giudiziari, dell'area della dirigenza medica e del ruolo
sanitario. È escluso altresì il personale delle agenzie
fiscali.
Dirigenti delle province e città
metropolitane. Il
ddl fa salvi i posti destinati alla ricollocazione del
personale dirigenziale delle città metropolitane e delle
province calcolati in misura corrispondente alle cessazioni
di personale dirigenziale intervenute nell'anno 2014,
nonché, ove necessario, quelli destinati alle assunzioni
delle 150 «eccellenze».
L'intento è, dunque, permettere la ricollocazione dei
dirigenti delle «aree vaste» in sovrannumero, anche
se sin qui non risulta sia stata fatta alcuna ricognizione
dei posti ai quali sarebbero da destinare.
Ricognizioni.
Le amministrazioni dello stato dovranno effettuare una
ricognizione delle dotazioni organiche, dalle quali laddove
emergessero disomogeneità dei rapporti tra personale
dirigente e personale dell'area delle qualifiche
deriverebbero provvedimenti di riorganizzazione interna, per
riequilibrare dette percentuali. Anche regioni ed enti
locali dovranno effettuare la ricognizione.
In particolare, si intendono superare le rigidità al
conferimento degli incarichi dirigenziali nelle avvocature e
nei corpi di polizia municipali imposte da discutibili
sentenze del Consiglio di stato, consentendo di conferire
gli incarichi dirigenziali «senza alcun vincolo di
esclusività anche al dirigente dell'avvocatura civica e
della polizia municipale». La flessibilizzazione degli
incarichi giustifica, secondo il ddl, anche la sottrazione
degli enti locali di piccole dimensioni, tali da non
consentire la rotazione dei dirigenti come misura
anticorruzione prevista dall'articolo 1, comma 5, della
legge 190/2012.
Ulteriori tagli.
Dal 2016 per le amministrazioni statali saranno ridotte del
20% una serie di risorse aggiuntive destinate al salario
accessorio, per confluire nei fondi della retribuzione di
posizione e di risultato.
Sempre con la stessa decorrenza, tutte le amministrazioni,
anche regioni ed enti locali, dovranno ridurre del 10%
rispetto alla consistenza dei fondi 2014 le risorse
destinate annualmente ai fondi per il finanziamento della
retribuzione di risultato dei dirigenti.
I risparmi conseguiti costituiscono economie di bilancio per
le amministrazioni dello Stato e concorrono, per gli enti
diversi dalle amministrazioni statali, al miglioramento dei
saldi di bilancio. Pertanto, non potranno essere più
utilizzati per gli incentivi
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2015). |
TRIBUTI:
Il
baratto esclude i debiti pregressi. Tributi locali. I
chiarimenti dell’Ifel sui lavori socialmente utili in cambio
di sconti sulle tasse.
Non è possibile avere sconti sulle tasse in
cambio di lavori socialmente utili se si tratta di debiti
tributari pregressi.
Lo ha chiarito l’Ifel
(fondazione Anci) con una
nota di approfondimento
16.10.2015
sull’inquadramento del «baratto amministrativo» nei tributi
comunali.
L’Ifel aderisce a una posizione intermedia tra chi sostiene
che le agevolazioni siano limitate a specifici tributi (Tari
e Tosap) e chi invece le ritiene estensibili a tutti i
debiti tributari accertati o iscritti a ruolo: in questo
senso peraltro si sono orientati la maggior parte dei Comuni
che hanno finora scritto il regolamento sul tema.
L’Ifel fa ora chiarezza sulla portata applicativa
dell’articolo 24 del Dl 133/2014, che consente ai Comuni di
deliberare riduzioni o esenzioni di tributi a fronte di
interventi per la riqualificazione del territorio, da parte
di cittadini o associazioni. Si tratta di uno strumento che
consente ai cittadini che non riescono a far fronte al
pagamento dei tributi comunali di ottenere sconti prestando
ore di lavoro in favore della comunità.
L’Ifel ritiene possibile deliberare l’agevolazione per ogni
tributo di riferimento (Imu, Tasi, Tari, Tosap eccetera)
anche se in apparenza non direttamente ricollegabile al tipo
di attività posta in essere.
L’Ifel sottolinea che non è invece possibile prevedere
riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali
debiti tributari del contribuente, se si considera il
principio di indisponibilità e di irrinunciabilità al
credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2015). |
TRIBUTI:
Niente
baratto per pagare i tributi locali.
L'ifel circoscrive l'ambito di applicazione
dell'istituto.
Niente baratto amministrativo per estinguere i debiti
tributari verso i comuni. La possibilità per i cittadini e
le associazioni di godere di riduzioni o esenzioni di
imposta a fronte di interventi di riqualificazione del
territorio (pulizia delle strade, cura del verde, recupero
di aree dismesse ecc.) va circoscritta a pochi e limitati
casi perché così è previsto dalla legge (dl n. 133/2014).
A mettere i paletti all'istituto (finora rimasto più teorico
che reale ma rimbalzato agli onori della cronaca dopo la
decisione del comune di Milano di consentire lo scambio tra
tasse non pagate e lavori socialmente utili) è l'Ifel (con
la
nota di approfondimento
16.10.2015),
l'Istituto per la finanza locale dell'Anci che mette in
guardia: «Non appare coerente con la ratio della norma la
possibilità di prevedere riduzioni o esenzioni anche con
riferimento a eventuali debiti tributari del contribuente».
Perché questo contrasterebbe con il principio
dell'indisponibilità e irrinunciabilità del credito
tributario cui soggiacciono tutti i tributi locali.
Stop dunque alle tentazioni di estendere il baratto oltre
quanto previsto dall'art. 24 del dl 133 che invece è norma
molta circoscritta. A beneficiare del baratto dovranno
essere, in via prioritaria, le associazioni di cittadini che
presentino progetti di riqualificazione del territorio e,
solo in casi eccezionali, i singoli componenti
dell'associazione.
E ancora, gli enti locali non potranno
riconoscere le agevolazioni in relazione a qualsiasi
intervento dei cittadini, ma solo per premiare gli
interventi tassativamente elencati nella norma. L'esenzione,
inoltre, dovrà essere concessa per un periodo limitato e
definito «in ragione dell'esercizio sussidiario» di attività
da parte dei cittadini, ossia per attività «rispetto alle
quali il comune si astenga dall'intervenire».
Per godere
dell'agevolazione, infine, i tributi da cui i contribuenti
potranno risultare esenti dovranno essere «inerenti il tipo
di attività posta in essere». Questo requisito, secondo l'Ifel,
può, invece, essere interpretato estensivamente perché «la ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera
di agevolazione al tributo di riferimento (Imu, Tasi, Tari,
Cosap ecc.) anche se in apparenza non direttamente
ricollegabile al tipo di attività posta in essere».
L'importante, spiega l'Ifel, è che in sede di
predisposizione della delibera di agevolazione vi sia una
corrispondenza tra il beneficio reso e l'agevolazione
concessa.
«In quest'ottica», chiarisce l'Istituto, «non si
profilano particolari limitazioni ai tributi per i quali
potranno essere previste agevolazioni, purché siano
adeguatamente giustificate e legate a presupposti impositivi
propri di ciascun tributo»
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni, permessi standard. Operativa la superDia, con
una modulistica unificata.
Prosegue lo snellimento delle procedure per le
ristrutturazioni edilizie e urbanistiche.
Per le nuove costruzioni e le ristrutturazioni edilizie, dal
14 ottobre, si utilizza la superDia con un modello standard
utilizzabile su tutto il territorio italiano. La superDia
deve essere presentata allo sportello unico per l'edilizia o
allo sportello unico per le attività produttive per gli
interventi di ristrutturazione edilizia, di nuova
costruzione e di ristrutturazione urbanistica qualora siano
disciplinati da piani attuativi.
Col nuovo modulo standard uguale in tutti gli enti locali,
per le imprese e i professionisti diventa quindi più
semplice svolgere incarichi di progettazione in più comuni,
senza dover utilizzare modulistiche sempre diverse tra di
loro.
Il 14 ottobre, infatti, sono scattati i 90 giorni
dall'approvazione, avvenuta il 16 luglio scorso, in
conferenza unificata del modello unico per la superDia.
L'approvazione della super Dia si inserisce nel percorso di
semplificazione in materia edilizia.
L'obbligo di adeguare le normative regionali alla nuova
superDia vigerà solamente per le regioni a statuto
ordinario. Le regioni a statuto speciale invece
conserveranno una sorta di potestà legislativa per quanto
concerne le materie legate all'edilizia.
Informazioni da inserire nella modulistica superDia. Nel
nuovo modulo della superDia vanno inserite le informazioni
volte a identificare il tipo di lavoro nella sua
completezza, i dati delle persone coinvolte (committente,
progettisti, tecnici e imprese), l'area interessata con i
relativi dati catastali e i geometrici dell'area interessata
dal progetto.
Vanno allegati al modello superDia la relazione tecnica
asseverata del progettista (nella quale vanno descritti i
dettagli dell'intervento e dei lavori che vengono
effettuati, la conformità edilizia e urbanistica del
progetto, confermata che non siano presenti vincoli
paesaggistici, storici o ambientali ostativi alla
realizzazione del progetto, specificato se vengono
effettuati interventi di abbattimento delle barriere
architettoniche e di ottimizzazione dei consumi energetici),
gli elaborati grafici che consentono di descrivere il
progetto e le ricevute attestanti l'avvenuto pagamento dei
diritti di segreteria e degli oneri proporzionali in base al
tipo di intervento.
Documentazione da presentare. I documenti da presentare allo
sportello unico per l'edilizia o allo sportello unico per le
attività produttive per gli interventi di ristrutturazione
edilizia sono la richiesta di provvedere all'acquisizione
degli atti di assenso necessari per eseguire intervento
edilizio (avanzata prima della presentazione della
segnalazione certificata di inizio di attività edilizia),
il modulo superDia, compilato dal proprietario o avente
titolo e dagli eventuali contitolari e asseverata da un
tecnico abilitato, gli elaborati progettuali previsti dal
regolamento edilizio in relazione al tipo di intervento e
alla zona di Prg, a firma di un tecnico abilitato, in
triplice copia, le autocertificazioni che attestano la
presenza dei requisiti di legge necessari per la
realizzazione dell'intervento edilizio, i pareri delle
amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali (es. parere della soprintendenza
dei beni culturali, autorizzazione paesaggistica), la
ricevuta dell'avvenuto pagamento dei diritti di segreteria
di 70 euro e ogni altro documento elencato tra gli allegati
nella modulistica della Scia, ove ricorra il caso a fine
lavori è necessario presentare certificato di collaudo.
Le diverse tipologie di interventi. La superDia dal 14
ottobre può essere utilizzata in luogo del permesso di
costruire in tre diversi tipi di interventi:
ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica.
Ristrutturazione edilizia. In alternativa al permesso di
costruzione è possibile utilizzare la superDia nel caso di
interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un
immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Può
inoltre essere utilizzata nel caso in cui la
ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità
immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica. In questo caso la superDia può
essere impiegata qualora gli interventi siano disciplinati
da piani attuativi, che contengano precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la
cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal
competente organo comunale in sede di approvazione degli
stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.
Controlli da parte dello sportello unico. L'attività può
essere iniziata dalla data di presentazione della superDia.
L'amministrazione comunale tuttavia, nei 30 giorni
successivi alla data della presentazione, può effettuare le
verifiche e i controlli e, in caso di irregolarità, qualora
sia possibile, invita il privato interessato a rendere
l'intervento conforme alla normativa vigente entro un
termine prefissato.
In caso di carenza dei presupposti, o
qualora l'interessato non provveda ad adeguare l'intervento
alla normativa, l'amministrazione può vietare, con motivato
provvedimento, la prosecuzione dell'attività e disporre la
rimozione dei suoi effetti dannosi.
Trascorsi i 30 giorni,
il comune può intervenire sempre, in caso dichiarazioni
false e mendaci e solo in presenza di pericolo di danno per
il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale,
qualora non sia possibile regolarizzare l'attività.
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I casi in cui presentare la Cila.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori,
deve essere presentato quando si eseguono lavori rientranti
nella cosiddetta edilizia libera. Il modello standard per la
Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) deve essere
presentato, invece, quando si eseguono interventi di
manutenzione straordinaria non riguardanti parti
strutturali.
Ricordiamo che il 18.12.2014 sono stati
approvati dalla conferenza unificata i modelli unici per la
compilazione della comunicazione inizio lavori e
comunicazione inizio lavori asseverata. I due modelli
possono essere utilizzati dal 16 marzo. La comunicazione
inizio lavori asseverata può essere presentata dal
proprietario, comproprietario, usufruttuario dell'immobile
su cui viene eseguito l'intervento (più in generale,
chiunque sia titolare di un «diritto reale» sull'immobile),
oppure dall'inquilino che utilizza l'immobile in base a un
contratto di affitto con il consenso del proprietario
dell'immobile (in questo caso si parla di «diritto
personale» compatibile con l'intervento da realizzare).
Il
modulo unico per la presentazione della comunicazione di
inizio lavori asseverata (Cila) per interventi di edilizia
libera prevede la richiesta delle stesse informazioni su
tutto il territorio nazionale, con sezioni variabili che
tengono conto delle differenze dovute alle diverse normative
regionali. In una realtà caratterizzata da un'accentuata
differenziazione delle procedure a livello regionale e
locale, con moduli utilizzati per la presentazione delle
pratiche edilizie diversi da comune a comune, il modello
unificato rappresenta una novità assoluta perché elimina le
richieste di informazioni già in possesso delle pubbliche
amministrazioni e favorisce l'interpretazione uniforme delle
norme in materia edilizia, anche grazie alle istruzioni
predisposte per agevolare cittadini e imprese nella
compilazione e presentazione della Cila.
La Cila deve essere
presenta sempre prima dell'inizio dei lavori oggetto della
comunicazione, a meno che non si tratti di opere già
eseguite, in tal caso, la presentazione della comunicazione
(c.d. «in sanatoria») richiede il pagamento di una sanzione
di 1000 euro, da versare all'amministrazione comunale (la
ricevuta di versamento deve essere allegata alla
comunicazione). Puoi presentare la Cila anche a lavori già
iniziati (e ancora in corso); anche in questo caso, hai
l'obbligo di pagare una sanzione, anche se ridotta a 333
euro.
Se l'intervento riguarda l'edilizia non residenziale
(relativa quindi a immobili da utilizzare per lo svolgimento
di attività produttive), la Cila deve essere presentata allo
sportello unico per le attività produttive, l'unico punto di
accesso per tutte le attività commerciali, produttive e di
servizi che si rivolgono alla pubblica amministrazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.10.2015). |
ENTI LOCALI:
Opere e
ambiente, decide lo stato. Alle regioni soltanto la
competenza sull'urbanistica.
Il ddl Boschi sopprime la cosiddetta legislazione
concorrente e la legge obiettivo.
Allo stato la competenza legislativa esclusiva su
infrastrutture strategiche, grandi reti di trasporto e di
navigazione, porti e aeroporti di interesse nazionale e
internazionali, nonché in materia di tutela dei beni
paesaggistici e ambiente; l'urbanistica alle regioni.
Sono queste alcune delle principali novità in tema di
riparto della legislazione fra stato e regioni contenute nel
disegno di legge costituzionale (cosiddetto ddl Boschi -
Atto Senato n. 1429-B) approvato dall'aula del
Senato che adesso dovrà ottenere l'ultimo e scontato via
libera parlamentare.
Nel provvedimento si prevede il cosiddetto «Senato
dei 100» che sarà composto da 74 consiglieri regionali,
21 sindaci e 5 componenti di nomina del presidente della
repubblica e si mantiene il bicameralismo per le leggi di
rango costituzionale, così come per il referendum, per la
legge elettorale e per i trattati con l'Unione europea.
Tutte le altre leggi verranno esaminate e approvate dalla
camera.
Di particolare rilievo le norme che incidono sul riparto
delle competenze fra stato e regioni, già oggetto di riforma
nel 2001 quando si ritoccò l'articolo 117 della
costituzione.
In primo luogo la novità più rilevante è costituita dalla
soppressione della cosiddetta legislazione concorrente fra
stato e regioni: la competenza legislativa sarà quindi o
dello stato o delle regioni. Viene così recepita
l'indicazione più volte espressa dalla giurisprudenza
costituzionale in occasione dei conflitti di attribuzione
che hanno visto contrapporsi in tutti questi anni lo stato
alle regioni.
Quando il ddl Boschi passerà l'ultimo scoglio del referendum
confermativo, lo stato avrà la competenza esclusiva sul
coordinamento della finanza pubblica, sulle politiche attive
del lavoro, sulla promozione della concorrenza e sulla
disciplina dell'ambiente e delle infrastrutture strategiche.
In particolare, passa allo stato la materia delle «infrastrutture
strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione
d'interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e
aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale».
Va notato che il riferimento alle «infrastrutture
strategiche» non necessariamente comporta che si tratti
di opere di grandi dimensioni, ben potendo essere oggetto di
legislazione statale esclusiva anche la disciplina di opere
strategiche ma di piccolo o medio taglio. Va poi segnalato
che il riferimento a queste opere appare sganciato da ogni
riferimento anche indiretto alla cosiddetta legge obiettivo
(riferita alle «grandi» infrastrutture strategiche),
di cui peraltro nel disegno di legge delega sugli appalti si
prevede l'abrogazione.
Spetterà allo stato legiferare in via esclusiva in tema di
protezione civile e di norme generali sul governo del
territorio, mentre la pianificazione territoriale sarà
compito delle regioni.
Si attribuisce poi in via esclusiva allo stato la materia
della tutela dei beni paesaggistici e dell'ambiente. Viene
prevista, come norma di chiusura, una disposizione che
attribuisce in via residuale alle regioni la competenza
legislativa in materie non riservate alla competenza statale
esclusiva indicate a titolo esemplificativo; è questo il
caso mentre la materia urbanistica passa alle regioni in via
residuale.
A fronte di tale clausola il ddl ne introduce un'altra
cosiddetta «di supremazia» in base alla quale la
legge statale, su proposta del governo che se ne assume,
dunque, la responsabilità, può intervenire su materie o
funzioni che non siano di competenza legislativa esclusiva
dello stato, allorché lo richiedano esigenze di tutela
dell'unità giuridica o economica della repubblica, o lo
renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme
economico-sociali di interesse nazionale
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (cfr. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che
segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione,
emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e
dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”).
Segue da ciò che in questa materia non occorre il previo
invio della comunicazione di avvio del procedimento,
peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma
2, l. 07.08.1990, n. 241.
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e
in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del
potere repressivo degli abusi edilizi discende la non
necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento.
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge
11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990,
ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone
che "non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per
mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'Amministrazione dimostri che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
---------------
Ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un
ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su
area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto
sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo,
senza che necessiti l’accertamento su chi abbia
effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve
intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la
violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella
titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo
successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal
bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto
che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non
sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime
dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi,
restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di
rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si
identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito
l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore,
deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad
altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che
impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe
alla situazione paradossale per cui le opere abusive
dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della
mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”.
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione
permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di
demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine
medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a
prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso
medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione
attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa,
che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo
accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere
abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il
soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità
materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzato (cfr. Cons. Stato, IV,
12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di
demolizione di opere abusive realizzate su terreno
demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera,
indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non ai fini della
legittimità dell'ordine di demolizione….”).
La sentenza sul punto merita di essere confermata.
E difatti:
- sull’illegittimità derivata, è sufficiente rinviare alle
considerazioni sviluppate sulle censure relative al diniego
di condono (v. sopra, p. 7.1. ss.);
- sul X e il XII motivo, riproposti ed esaminabili in maniera
congiunta dato che riguardano, nella sostanza, vizi
d’insufficiente motivazione, in primo luogo occorre
precisare che l’ordine di rimozione delle opere abusive non
solo richiama in modo esplicito il diniego di condono
edilizio che ne costituisce il presupposto, ma consta di
diverse pagine, nelle quali viene ricostruito l'iter che ha
condotto l'Amministrazione a emanare il provvedimento in
contestazione, con l’indicazione delle ragioni per le quali
le opere in argomento sono state considerate illegittime,
dell'attività istruttoria svolta, delle caratteristiche del
chiosco e delle opere che compongono l'organismo edilizio da
considerarsi nel suo complesso e in modo unitario –cosa che
la sentenza non ha mancato di sottolineare (v. pag. 9)- e
delle sanzioni applicate con le disposizioni di riferimento.
E’ comunque il caso di ribadire, con la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V,
11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali aggiuntivi), che “l'ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf.
Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il
carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in
mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”);
- segue da ciò che in questa materia non occorre il previo
invio della comunicazione di avvio del procedimento,
peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma
2, l. 07.08.1990, n. 241 (cfr. motivo sub XIII, su ordine
di demolizione del battuto di cemento e asserita violazione
dei diritti partecipativi).
Su quest’ultima violazione
procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va
ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli
abusi edilizi discende la non necessità dell'invio
dell’avviso di avvio del procedimento (v., “ex multis”,
Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734, ed ivi,
indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
Va poi considerata
l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15
che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto
l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione
dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In tema di applicazione del citato art. 21-octies, secondo
comma, alle ingiunzioni di demolizione, e di “dequotazione”
dei vizi formali del procedimento, che non incidono sul
contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se
quest’ultimo ha natura vincolata, v. Cons. Stato, IV, 13.03.2014, n. 1208, cui si rinvia anche ai sensi degli
articoli 74 e 88, comma secondo, lett. d), Cod. proc. amm..
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto compiute
sopra emerge che, anche in presenza di un formale avviso di
avvio del procedimento riferito al “battuto di cemento”, il
contenuto finale dell’ordinanza emanata, stante il carattere
unitario delle opere, da considerare nel loro complesso,
come è stato puntualmente rilevato in sentenza (v. fine pag.
14), non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato
in concreto adottato, tenuto conto della “modificazione del
territorio per l’innanzi inedificato” conseguente alla
realizzazione del “battuto di cemento” (v. sent. cit.),
eseguito per poter installare le opere abusive oggetto del
diniego di condono. Inoltre l’appellante non fornisce alcuna
indicazione sul contenuto specifico delle osservazioni,
pertinenti all’oggetto del procedimento, che avrebbe potuto
presentare al Comune a questo riguardo;
- sub XI (ingiunzione di rimozione non preceduta dal parere
della Commissione locale per il paesaggio), rilevato in via
preliminare che l’art. 2, lett. e), della legge regionale
Liguria 05.06.2009, n. 22 -Attuazione degli articoli 159,
comma 1, 148 e 146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio) e successive modifiche e integrazioni, prevede
che “le Commissioni esprimono pareri obbligatori in
relazione ai procedimenti… e) di irrogazione dei
provvedimenti sanzionatori di cui all’articolo 167 del
Codice”, ai fini del rigetto del motivo è decisivo
osservare, prima di tutto, che la non conformità edilizia
dell’opera costituisce ragione che sorregge in via autonoma
la sanzione urbanistica demolitoria, e in secondo luogo che
il cenno all’art. 167 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio contenuto nelle premesse dell’ordine di rimozione
è del tutto marginale alla luce dell’“impianto motivazionale
complessivo" sul quale si basa il provvedimento medesimo, il
quale si concreta in un ordine di demolizione senza che sia
contemplata, per converso, alcuna misura rivolta alla tutela
diretta di profili di carattere paesaggistico.
Infine, come
è stato ricordato sopra, al p. 7.2., cui si rinvia, la
Commissione locale per il paesaggio si era espressa –in
modo legittimo- in sede consultiva sull’istanza di condono:
di qui la condivisibilità di argomentazioni e statuizioni
della sentenza sul punto, sembrando evidente il carattere
“pleonastico e sovrabbondante” di un parere aggiuntivo della
Commissione.
7.5. Da tutte le considerazioni su esposte e a fronte della
legittimità dei provvedimenti impugnati non residua alcun
margine per accogliere la richiesta di risarcimento dei
danni, reiterata con l’appello.
8. Come si è accennato sopra, ai punti 2. e 4., il Comune
ha proposto appello in via incidentale contestando la
sentenza nella parte in cui, in accoglimento del motivo
aggiunto, ha disposto l’annullamento dell’ordine di
rimozione delle opere per cui è causa in quanto rivolto alla
signora El.Mi. quale legale rappresentante della
Ra. s.a.s., poiché “il sistema sia del testo unico
dell’edilizia sia della legge regionale 16/2008 contempl(a)
come unico destinatario dell’ordine di demolizione
dell’abuso realizzato su aree demaniali o di enti pubblici
il responsabile dell’abuso (art. 35 d.p.r. 380/2001 e art. 51
l.r. 16/2008) (sicché, secondo il Tribunaleamministrativo,)
accertata la sostanziale estraneità della ricorrente alla
realizzazione dell’abuso l’amministrazione non poteva
ingiungere la demolizione dell’opera nell’esercizio dei suoi
poteri di vigilanza e repressione dell’abusivismo edilizio…”
(v. pag. 15 sent.).
L’appello incidentale è fondato e va accolto.
Il motivo aggiunto proposto in primo grado andava respinto.
In modo legittimo l’ordine di rimozione risulta impartito
alla signora Mi., quale legale rappresentante della
Ra., vale a dire al soggetto che ha la disponibilità
materiale del manufatto abusivo e al quale spetta di
rimuovere l’opera, quantunque sia incontroverso che il
chiosco non sia stato materialmente realizzato dalla Mi..
L’appellata in via incidentale sostiene di non essere né
proprietaria, né responsabile dell’esecuzione dell’opera da
rimuovere realizzata, come detto, su area demaniale.
Ora, il Collegio non ignora che l’art. 31, comma secondo,
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia,
prevede che il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo,
ovvero con variazioni essenziali ingiunge “al proprietario e
al responsabile dell'abuso” la rimozione o la demolizione. La
norma si riferisce alle opere realizzate su area privata. E
che l’art. 35 del t.u. n. 380 del 2001, invece, nel
disciplinare il caso specifico degli interventi abusivi
realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti
pubblici, qualora sia accertata la realizzazione di
interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità dal medesimo, dispone che il
dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non
rinnovabile, ordina “al responsabile dell'abuso” la
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone
comunicazione all'ente proprietario del suolo. In altre
parole al proprietario deve solo essere data comunicazione
dell’ordine.
Né s’ignora che la legge regionale della Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina dell'attività edilizia), all’art.
51, intitolato “interventi abusivi realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici”,
richiamato nelle premesse dell’ordine di rimozione, dispone
che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di
soggetti privati, di interventi in assenza di permesso di
costruire o di DIA obbligatoria o alternativa al permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale difformità dai
medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato
o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al
responsabile dell'abuso la demolizione o il ripristino dello
stato dei luoghi ai sensi dell'articolo 56, dandone
comunicazione all'ente proprietario del suolo”.
Il Collegio anzitutto rileva -coerentemente al costante
orientamento giurisprudenziale in tema di c.d. sanzioni
edilizie, e quale che sia il riferimento normativo tra i
testé ricordati- la natura reale delle misure ripristinatorie in questione, tese alla oggettiva
reintegrazione dell’ordine violato: dunque tali da
prescindere dall’imputazione soggettiva del comportamento di
realizzazione dell’abuso, e da seguire la titolarità del
bene anche nei passaggi successivi al momento della
realizzazione.
Ritiene coerentemente il Collegio che, ai fini della
verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di
rimozione di un immobile abusivo realizzato su area
demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia
sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo,
senza che necessiti l’accertamento su chi abbia
effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve
intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la
violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella
titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo
successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal
bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto
che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non
sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime
dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi,
restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di
rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si
identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito
l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore,
deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad
altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che
impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si
perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere
abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della
mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”
(così il Comune, in modo condivisibile).
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione
permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di
demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine
medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a
prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso
medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione
attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa,
che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo
accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere
abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il
soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità
materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzato (conf. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza
di demolizione di opere abusive realizzate su terreno
demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera,
indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non ai fini della
legittimità dell'ordine di demolizione….”).
Da ciò discende la riforma, in parte qua, della sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.10.2015 n. 4880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
In materia di cartelloni pubblicitari posti sul muro di
recinzione del campo sportivo comunale.
Ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
---------------
La realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza,
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo.
---------------
Il Comune
ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare
in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
---------------
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato.
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
---------------
Spettano alla giurisdizione del giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari.
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che costituisce una
mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui
al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica
di tributo propria di quest'ultima, mentre spettano alla
giurisdizione del giudice ordinario le controversie
relative al canone per la concessione di spazi ed aree per
l'installazione di impianti pubblicitari.
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
---------------
1.- Il Responsabile dell'Ufficio Economico Finanziario del
Comune di Ponte San Pietro, con nota prot. 8970 del 10.04.2002, ha comunicato alla s.p.a. IGPDECAUX Affissioni
che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati da
tre cartelli pubblicitari e da tre pannelli luminosi siti
nel Comune, alla via Trento e Trieste, la cui installazione
era stata autorizzata con atti prot. 5597 del 13.07.1982, prot. 6942 del
04.12.1987 e prot. 3033 del 19.04.1991, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e
1810 del c.c., alla società «la restituzione dell'area con
la contestuale rimozione degli impianti» (concedendo per
l’incombente un termine di tre mesi), dal momento che non
risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree,
assegnate in comodato (come sarebbe stato comprovato dalla
circostanza che non risultavano pagamenti a favore del
Comune per l’utilizzo dello spazio in questione).
2.- La società ha proposto il ricorso di primo grado,
chiedendo l’annullamento di tale provvedimento e per il
risarcimento del danno al TAR Lombardia, sezione di
Brescia, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha
respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata
dalla difesa del Comune ed ha accolto il ricorso, ritenendo
che il Comune, non avendo chiesto alcun corrispettivo per
l’uso del bene nel periodo dall’anno 1982 all’anno 2002,
aveva dimostrato di avere costantemente interpretato le
autorizzazioni all’affissione dei cartelli pubblicitari come
comprensive della fruizione del muro di cinta del campo
sportivo comunale.
Il TAR ha inoltre respinto la domanda riconvenzionale,
proposta dal Comune.
3.- Con il ricorso in appello in esame, il Comune di Ponte
San Pietro ha chiesto la riforma della sentenza del TAR,
deducendo i seguenti motivi: ...
...
9.1.- Osserva la Sezione che, al fine di accertare se con il
provvedimento impugnato il Comune abbia inteso esercitare
prerogative di natura privata o pubblica, va innanzi tutto
rilevato che l'art. 133, comma 1, lett. b), del c.p.a.,
nell'elencare le materie oggetto giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, sottrae alla sua cognizione
esclusivamente le controversie concernenti «indennità,
canoni ed altri corrispettivi» e quelle attribuite ai
Tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore
delle acque pubbliche; di conseguenza (posto che
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie di natura meramente patrimoniale),
ogni
qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per
oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale
indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è
devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
Ciò posto, va osservato che la realizzazione o
l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è
consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione
titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o
installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare
tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro
normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto
dell’Amministrazione –di gestione di un proprio bene
pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile– ha natura
pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
- per una indiscussa giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 04.11.1994, n. 1257),
il «campo sportivo» di cui è
titolare il Comune –comunque sia denominato e qualsiasi
consistenza abbia- ha natura di bene patrimoniale
indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della
collettività locale);
- la regola della necessità del rilascio di una concessione
–perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato
dei luoghi– si applica pure quando si tratti della
collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non
è regolata soltanto alle disposizioni del codice della
strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del
1993), per effettuare la quale non è sufficiente la
presentazione della relativa domanda, dovendosi, al
riguardo, pienamente esplicare da parte dell'Amministrazione
un'attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con
atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
- specularmente, anche l'esercizio del potere di ritiro
dell’atto di natura concessoria –e che dispone la rimozione
di cartelloni pubblicitari- attiene a posizioni di
interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 17.06.2015, n.
3066).
Non rileva invece esaminare quale sia l’ambito di
applicazione dell’art. 23, comma 11, del codice della
strada, che riguarda lo specifico caso di opposizione alla
sanzione amministrativa e alla conseguente misura della
rimozione di un impianto abusivo (e che non è suscettibile
di applicazione analogica, risultando una norma eccezionale,
di deroga al principio attualmente sancito dall’art. 7 del
codice del processo amministrativo, per il quale i
provvedimenti espressione di un potere pubblicistico sono
impugnabili innanzi al giudice amministrativo).
Nel caso di specie con l’atto impugnato il Comune ha
comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in
possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e
dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata
autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto,
ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la
restituzione dell'area con la contestuale rimozione degli
impianti», entro un fissato termine, perché non risultava
alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della
società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto
di «comodato»: un tale contratto non può essere
giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene
pubblico, rispetto al quale –al più– può esservi il
rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale,
peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la
concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e
purché –beninteso– un tale rilascio sia consentito da una
norma giuridica e sussistano i relativi presupposti,
dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui
l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per
l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area
occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la
rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi
la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di
rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa,
risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del
Comune, sicché va rilevata la sussistenza della
giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi
dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente
alla gestione del bene pubblico.
Va respinto dunque il primo motivo d’appello.
10.- Con il secondo motivo di gravame, il Comune ha
lamentato l’erroneità della sentenza appellata, nella parte
in cui essa ha argomentato nel senso che le autorizzazioni a
suo tempo rilasciate erano titoli idonei ad escludere la
natura abusiva delle affissioni, come risulterebbe anche dal
fatto che non è stato chiesto alcun corrispettivo per l’uso
del muro di cinta del campo sportivo, per il periodo
dall’anno 1982 all’anno 2002.
Ad avviso dell’appellante, il TAR avrebbe sovrapposto due
piani da tenere invece distinti (cioè il profilo delle
autorizzazioni amministrativa all’esposizione e alla
diffusione di messaggi pubblicitari e quello della fruizione
di aree e di immobili di proprietà pubblica, ma non
destinati all’utilizzazione pubblica generalizzata) e non
avrebbe tenuto conto dei principi riguardanti la necessità
della forma scritta ad substantiam, quando si tratti di
contratti con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, è dedotto che:
- l’area in questione, in quanto appartenente al patrimonio
disponibile e quindi fruttifero, non sarebbe stata soggetta
a concessione di suolo pubblico, dovendosi invece ritenere
necessaria la stipula di un contratto, la cui mancanza
evidenzierebbe la natura abusiva delle installazioni
effettuate;
- contrariamente a quanto affermato dal TAR, il Comune
non ha mai ‘autorizzato’ per facta concludentia
la installazione;
- l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità (ai
sensi del d.lgs. n. 507 del 1993) non rileva quale titolo
per l’occupazione degli spazi in questione, risultando anche
dovuta la tassa per l’occupazione di spazi e di aree
pubbliche ovvero dei canoni di locazione o di concessione
(ex art. 13, u.c., del medesimo d.lgs.), come previsto anche
dall’art. 18 del Regolamento comunale per la pubblicità;
- il Comune fondatamente ha preteso il pagamento del
corrispettivo per l’uso di fatto del bene.
10.1.- Ritiene la Sezione che il motivo è fondato, per la
parte in cui ha dedotto l’infondatezza delle censure
formulate in primo grado, avverso il provvedimento di
autotutela.
Vanno previamente respinte le deduzioni con cui il Comune ha
dedotto che per l’utilizzo del bene in questione sarebbe
stata necessaria la stipula di un contratto: come si è sopra
rilevato in sede di reiezione della deduzione per cui non
sussisterebbe la giurisdizione amministrativa,
il
provvedimento a suo tempo emesso va qualificato come
concessione (di utilizzo) di un bene pubblico.
Quanto alla deduzione sulla spettanza di un corrispettivo
per l’uso del bene, il collegio ritiene che, alle
considerazioni sopra riportate, vadano aggiunte quelle dopo
esposte in occasione dell’esame della domanda
riconvenzionale, formulata dal Comune innanzi al TAR.
Risulta invece fondata la deduzione del Comune, secondo cui
l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità dovrebbe
far considerare insussistente il presupposto (l’occupazione
senza titolo) che ha condotto all’emanazione dell’atto
impugnato in primo grado.
L'art. 3, comma 149, lettera g), della legge n. 662 del 1996
ha attribuito ai Comuni la «facoltà, con regolamento, di
escludere l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità», di
cui al d.lgs. n. 507 del 1993, e «di individuare le
iniziative pubblicitarie che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente prevedendo per le stesse un regime autorizzatorio e l'assoggettamento al pagamento di una
tariffa», nonché la «possibilità di prevedere, con lo stesso
regolamento, divieti, limitazioni e agevolazioni e di
determinare la tariffa secondo criteri di ragionevolezza e
di gradualità, tenendo conto della popolazione residente,
della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e
delle caratteristiche urbanistiche delle diverse zone del
territorio comunale».
L'art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 disciplina l'attività
regolamentare dei Comuni in materia di entrate proprie; il
seguente art. 54 abilita il Comune a fissare le tariffe e i
prezzi pubblici ai fini dell'approvazione del bilancio di
previsione e il successivo art. 62 (riproducendo in sostanza
la disposizione della l. n. 662 del 1996 sopra richiamata)
affida ai Comuni il compito di disciplinare con proprio
regolamento il nuovo regime autorizzatorio in materia di
pubblicità con il pagamento di un canone in base a tariffa,
facendo riferimento -per quel che riguarda la
«individuazione della tipologia dei mezzi di effettuazione
della pubblicità esterna che incidono sull'arredo urbano o
sull'ambiente»- alle disposizioni del codice della strada
n. 285 del 1992 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R.
n. 495 del 1992); nella stessa disposizione è previsto che
il regolamento debba disciplinare le «procedure per il
rilascio e per il rinnovo dell'autorizzazione», indicare le
«modalità di impiego dei mezzi pubblicitari», determinare la
tariffa con criteri di ragionevolezza e gradualità in
relazione agli indicati parametri, nonché che possa fissare
«con carattere di generalità divieti, limitazioni e
agevolazioni» (al comma 3); prevede infine (al comma 4) che
il Comune procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari
privi di autorizzazione o installati in difformità da essa.
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446
del 1997 per l'installazione di cartelloni e di insegne
pubblicitarie, l'art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha
previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla
superficie della minima figura piana geometrica in cui è
circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di
messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di
comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle
assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in
luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali
luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del
precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a
qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio
pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte
della società appellata non può quindi rilevare come titolo
per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui
erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la
società adempiente dei soli obblighi previsti dal d.lgs. n.
507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma
ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di
concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su
beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione,
l'applicazione dell'imposta sulla pubblicità non esclude
infatti quella della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o
di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell'art.
9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l'imposta
comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa
per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge
dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato,
che
individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel
mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione
dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità
e, quindi, all'uso generalizzato (Cassazione civile, sez.
trib., 27.07.2012, n. 13476).
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi
posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le
autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione
potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso
anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto
preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro
suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le
anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione
del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale
interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a
percepire quanto spettante).
Deve in conclusione ritenersi la legittimità dell’ordine di
restituzione dell'area con contestuale rimozione degli
impianti.
10.2. Né, comunque, un titolo concessorio si sarebbe potuto
ritenere sussistente anche nel caso di effettivo pagamento
delle somme di cui il Comune lamenta la mancata
corresponsione, poiché il pagamento di tali importi non
sarebbe stato comunque equipollente al rilascio del
necessario provvedimento espresso, abilitativo dell’uso
dell’impianto.
10.3. Considerato che non sono state ritualmente riproposti
nel giudizio di appello, entro il termine per la
costituzione in giudizio, da parte della IGPDECAUX
Affissioni s.p.a., i motivi di ricorso di primo grado
dichiarati assorbiti dal primo giudice, nei limiti sopra
esposti l’appello va accolto e va conseguentemente respinto
il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio, perché
infondato.
11.- Con il terzo motivo d’appello, il Comune ha riproposto
la domanda riconvenzionale respinta dal TAR, chiedendo,
ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, la condanna della
società ad indennizzare il Comune della diminuzione
patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del
canone per l’affitto degli spazi in questione ed ammontante,
come risulta da una certificazione del responsabile del
Settore finanziario del Comune del 03.04.2003, a circa €
1.277 per l’occupazione dello spazio con un cartello
pubblicitario di dimensioni pari a mt. 6x3.
Tenuto conto che l’area in questione è stata occupata con
sei cartelli pubblicitari di tali dimensioni, ad avviso del
Comune il canone annuo da corrispondere all’Amministrazione
ammonterebbe ad € 7.662, da moltiplicare per il numero di
anni di occupazione abusiva, “allo stato” pari a 20, per una
somma complessiva di € 153.240,00, oltre i relativi
accessori.
Con una memoria depositata il 28.05.2015, il Comune ha
quantificato l’importo dovuto dalla società in € 229.860,00,
oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni
annualità.
11.1.- Al riguardo la società appellata ha eccepito
l’inammissibilità della domanda formulata in primo grado,
tra l’altro, per difetto di giurisdizione, poiché le
controversie relative al pagamento dei canoni di concessione
di beni pubblici, come quelle inerenti alle pretese
creditorie dell’Amministrazione per occupazioni, anche senza
titolo, di beni pubblici, sono devolute alla giurisdizione
del giudice ordinario; ciò a nulla valendo la valenza
riconvenzionale della richiesta, sia perché, ex art. 36 del c.p.c., essa non comporterebbe deroga alla giurisdizione del
giudice adito e sia perché sarebbe precluso dal criterio di
riparto l’ottenimento in via riconvenzionale di una
pronuncia del giudice amministrativo preclusa in caso di
azione principale (a nulla valendo la pretesa del Comune di
qualificare il dedotto mancato pagamento in termini di
indebito arricchimento).
11.2.- Osserva in proposito il collegio che, ai sensi
dell'art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le
controversie in materia di pubblici servizi relative a
concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti
«indennità, canoni ed altri corrispettivi» (sull’ambito di
applicazione della medesima lettera c), cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 22.01.2015, n. 247).
In generale le controversie concernenti indennità, canoni o
altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di
carattere meramente patrimoniale, che derivano
dall'attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e
la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è
stato esercitato un potere autoritativo a tutela di
interessi generali; va, invece, riconosciuta la sussistenza
della giurisdizione del giudice amministrativo quando la
controversia coinvolga l'esercizio di poteri discrezionali
previsti da una norma giuridica e inerenti alla
determinazione del canone, dell'indennità o di altro
corrispettivo, ovvero investa l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che
incidono sull'economia dell'intero rapporto concessorio, e
non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali
dello stesso e la quantificazione delle somme.
Con particolare riguardo ai canoni comunali sulla
pubblicità, la Corte Costituzionale, con sentenza 21.01.2010 n. 18, ha ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma
2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come
modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n.
203 del 2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248
del 2005 (censurato, in riferimento all'art. 102, comma 2,
ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione,
nella parte in cui stabilisce che appartengono alla
giurisdizione tributaria le controversie attinenti il canone
comunale sulla pubblicità).
In tema di riparto di giurisdizione (a seguito della
sentenza n. 64 del 2008, con cui la Corte costituzionale ha
dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art.
103 Cost. e VI disp. att. Cost., dell'art. 2, comma 2, del
d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 3-bis,
comma 1, lett. b, d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l.
n. 248 del 2005) spettano alla giurisdizione del
giudice
ordinario non solo le controversie relative al canone per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche
quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che
l'Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di
spazi ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile sez. un. 16.04.2009 n. 8994).
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza
formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano
nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie
le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone
previsto per l'installazione di mezzi pubblicitari,
dall'art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che -come ritenuto
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 2009-
costituisce una mera variante dell'imposta comunale sulla
pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva,
quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima,
mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie relative al canone per la concessione di spazi
ed aree per l'installazione di impianti pubblicitari
(Cassazione civile, sez. un., 07.05.2010, n. 11090).
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione
di delibere comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla
domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad
ottenere la condanna della società di cui trattasi ad
indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale
subita, consistente nel mancato introito del canone per
l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo
competente riguardo alla pretesa in esame il giudice
ordinario.
Resta conseguentemente assorbita l’eccezione formulata dalla
costituita società di irricevibilità della domanda in
questione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto in parte
e per l’effetto, in riforma della decisione sentenza del
TAR, va respinto il ricorso introduttivo del giudizio.
La domanda riconvenzionale riproposta in questa sede dal
Comune appellante deve essere dichiarata inammissibile per
difetto di giurisdizione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4857 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti,
protocolli limitati. Non è possibile bloccare i subappalti e
le intese con altri partecipanti.
Corte Ue. Nelle gare l’uso preventivo degli «impegni» di
legalità non confligge con i principi comunitari.
Va promosso, ma con cautela, l’uso dei protocolli
di legalità negli appalti.
La Corte di giustizia Ue, con la
sentenza 22.10.2015 - C-425/14, da una parte
riconosce la correttezza dell’introduzione dell’obbligo di
accettazione come condizione di ammissione alla procedura di
aggiudicazione dell’appalto; dall’altra, però, invita a
calibrarne con attenzione i contenuti, andando oltre la
necessità per prevenire condotte collusive.
I fatti al centro della causa sottoposta alla Corte
risalgono al 2013, quando la Soprintendenza ai beni
culturali di Trapani ha affidato a due società un appalto
pubblico di lavori del valore di oltre due milioni di euro
per il restauro degli antichi templi greci in Sicilia. A
causa dell’impugnazione presentata dalla società arrivata al
secondo posto al termine della gara (aperta anche a società
straniere), l’Amministrazione ha annullato l’aggiudicazione
e ha affidato l’appalto alla società ricorrente.
L'Amministrazione ha motivato l’annullamento (e quindi
l'esclusione delle due società inizialmente aggiudicatarie)
con il mancato deposito, assieme all’offerta,
dell'accettazione del protocollo di legalità, accettazione
prevista come propedeutica alla partecipazione alla gara.
Secondo il protocollo, il partecipante alla gara si doveva
impegnare espressamente a tenere una serie di comportamenti
in caso di aggiudicazione dell’appalto: egli avrebbe dovuto,
ad esempio, impegnarsi a informare l’amministrazione sullo
stato di avanzamento dei lavori e sulle modalità di
selezione dei subappaltatori; comunicare alle Autorità
eventuali irregolarità; cooperare con la polizia; denunciare
tutti i tentativi di influenza di natura illecita.
Il candidato, inoltre, doveva dichiarare espressamente: di
non trovarsi in un rapporto di controllo o associazione (di
diritto o di fatto) con altri concorrenti; di non avere
stipulato né di stipulare in futuro alcun accordo con altri
partecipanti alla procedura di gara; di non subappaltare in
futuro qualsiasi tipo di opera o servizio ad altre imprese
partecipanti alla gara; di impegnarsi a rispettare i
principi di lealtà, integrità e trasparenza; di non avere
concluso né di concludere in futuro, con gli altri
partecipanti alla gara, accordi volti a limitare o impedire
la concorrenza. La vicenda giudiziaria si è trascinata sino
al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione
Siciliana, che ha sollevato una questione pregiudiziale
davanti alla Corte Ue.
La Corte ha chiarito che la disciplina italiana non
contrasta con i principi comunitari e che è legittima
l’esclusione delle imprese che non depositano, insieme
all’offerta, l’accettazione di un protocollo indirizzato a
evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata e le
conseguenti distorsioni della concorrenza. Quanto ai tempi,
l’obbligo di accettazione preventiva non fa che anticipare
la tutela della legalità e scoraggiare fenomeni criminali.
Tuttavia, la giustificazione viene meno se il protocollo
contiene dichiarazioni secondo cui il candidato o
l’offerente non è in rapporto di controllo o associazione
con altri candidati od offerenti; non ha concluso né
concluderà accordi con altri partecipanti alla gara; non
subappalterà prestazioni di qualunque tipo ad altre società
partecipanti alla procedura. In questi casi i mezzi
utilizzati dal legislatore vanno al di là di quanto
necessario a prevenire comportamenti collusivi
(articolo
Il Sole 24 Ore del 23.10.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
... Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione)
dichiara:
Le norme fondamentali e i principi
generali del Trattato FUE, segnatamente i principi di parità
di trattamento e di non discriminazione nonché l’obbligo di
trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel
senso che essi non ostano a una disposizione di diritto
nazionale in forza della quale un’amministrazione
aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un
offerente sia escluso automaticamente da una procedura di
gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato,
unitamente alla sua offerta, un’accettazione scritta degli
impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di
legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento
principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della
criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici.
Tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda
dichiarazioni secondo le quali il candidato o l’offerente
non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento
con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non
si accorderà con altri partecipanti alla gara e non
subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese
partecipanti alla medesima procedura, l’assenza di siffatte
dichiarazioni non può comportare l’esclusione automatica del
candidato o dell’offerente da detta procedura. |
APPALTI:
Sulla rimessione all'Adunanza Plenaria di due quesiti di
diritto in tema di DURC: il primo sulla giurisdizione e
l'altro sulla definitività dell'irregolarità contributiva.
Stante i contrasti giurisprudenziali in tema di documento
unico di regolarità contributiva (DURC) il Consiglio di
Stato ha rimesso all'esame dell'Adunanza Plenaria i seguenti
quesiti di diritto:
a) "Se rientri nella giurisdizione
del giudice amministrativo, adito per la definizione di una
controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un
appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la
regolarità del documento unico di regolarità contributiva,
quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei
requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una
gara".
b) "Se la norma di cui all'art. 31,
comma 8, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con
modificazioni, nella l. 09.08.2013, n. 98, sia limitata al
rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del
d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la
stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei
requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero
se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per
abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art.
38 e si possa ormai ritenere che la definitività della
irregolarità sussista solo al momento di scadenza del
termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente
previdenziale per la regolarizzazione della posizione
contributiva".
---------------
II.- Ritiene la Sezione che il presente giudizio sollevi
questioni di diritto che meritano di essere deferite
all’esame dell’Adunanza Plenaria.
II.1.- Anzitutto, il primo motivo dell’appello principale
solleva la questione dei limiti entro i quali sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo in materia di
legittimità del d.u.r.c..
L’art. 76, comma 4, del c.p.a. e l’art. 276, comma 2, del
c.p.c. stabiliscono che, nella decisione della causa, il
giudice procede secondo un ordine che antepone le questioni
pregiudiziali a quelle di merito, sicché, poiché la
questione di giurisdizione costituisce il necessario
presupposto processuale della domanda ed il fondamento
imprescindibile della potestas iudicandi del giudice
adito, essa deve essere esaminata in via necessariamente
prioritaria ogniqualvolta venga posta in discussione, al
fine di consentire la riproposizione della domanda
completamente impregiudicata davanti al giudice al quale
spetta la giurisdizione sulla controversia (Consiglio di
Stato, sez. V, 31.03.2015, n. 1684).
Secondo la parte appellante non sarebbe condivisibile la
sentenza appellata, che ha ritenuto sussistente la
giurisdizione del giudice amministrativo sulla questione
oggetto del giudizio, sul presupposto che la controversia
non riguarda la «gravità» della irregolarità
accertata, ma il suo carattere definitivo, costituendo la
relativa attestazione contenuta nel d.u.r.c. un requisito da
valutarsi in sede di verifica dei requisiti di
partecipazione, impugnabile unitamente al provvedimento
conclusivo della procedura.
Il d.u.r.c. negativo emesso dall’I.N.P.S. avrebbe infatti
natura di «dichiarazione di scienza avente carattere
meramente dichiarativo» di dati in possesso dell’Ente
previdenziale, assistita da pubblica fede ai sensi dell’art.
2700 del c.c. e facente prova fino a querela di falso, con
giurisdizione del giudice ordinario sulle censure relative
alle attestazioni in esso contenute.
II.1.1.- In proposito rileva il collegio che si sono formati
due orientamenti giurisprudenziali nettamente contrastanti.
II.1.2.- A favore della tesi sostenuta dal giudice di primo
grado, si sono pronunciate la sezione V del Consiglio di
Stato (con le sentenze 16.02.2015, n. 781, 14.10.2014, n.
5064, ed 11.05.2009, n. 2874), nonché la sezione VI (con la
sentenza 04.05.2015, n. 2219), rilevando che rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la
definizione di una controversia avente ad oggetto
l'aggiudicazione di un appalto pubblico, l’accertamento
della regolarità del documento di regolarità contributiva,
quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei
requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una
gara (in quanto tale impugnabile non autonomamente, ma
unitamente al provvedimento conclusivo), poiché in questo
caso tale documento inerisce al procedimento amministrativo
di aggiudicazione di un appalto.
Anche la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza
09.02.2011, n. 3169, ha affermato che la produzione della
certificazione attestante la regolarità contributiva
dell'impresa partecipante alla gara di appalto costituisce
uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini
dell'ammissione alla gara, sicché il giudice amministrativo
ben può verificare la regolarità di tale certificazione, sia
pure incidenter tantum, cioè con accertamento privo
di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale, ai
sensi dell'art. 8 del c.p.a..
In particolare, con la citata sentenza del Consiglio di
Stato, sez. V, n. 2874 del 2009, è stato rilevato che non
sussiste la violazione degli artt. 442, comma 1, e 444,
comma 3, del c.p.c., devolutivi alla giurisdizione ordinaria
delle controversie relative agli obblighi dei datori di
lavoro e all'applicazione delle sanzioni civili per
l'inadempimento di tali obblighi, poiché è diverso lo
scrutinio compiuto dal giudice ordinario sui diritti
previdenziali del lavoratore che si assumono violati,
rispetto al sindacato effettuato dal giudice amministrativo
sul loro corretto adempimento, attestato dal certificato di
regolarità contributiva che le imprese affidatarie di un
appalto pubblico devono presentare alla stazione appaltante,
a pena di esclusione.
Nell'accertare il mancato versamento di contributi dovuti
all'Ente di previdenza, lo scrutinio del giudice ha per
oggetto la sussistenza del diritto del lavoratore dipendente
alla contribuzione in relazione all'attività prestata ed al
diritto al trattamento di quiescenza, mentre, nelle
controversie relative a procedure di affidamento di lavori,
servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto
dei procedimenti di evidenza pubblica, oggetto di indagine
del giudice è la mera regolarità della certificazione
prodotta attestante la regolarità contributiva dell'impresa
partecipante alla gara di appalto, che rappresenta un
requisito della normativa di settore ai fini dell'ammissione
alla gara (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite,
11.12.2007, n. 25818).
La sussistenza di tale giurisdizione può peraltro desumersi
dalla natura che può essere attribuita al provvedimento
dell’ente previdenziale, di per sé conclusivo di un
procedimento, ma per sua natura decisamente rilevante
nell’ambito di un procedimento diverso.
Non è l’unico caso, peraltro, in cui nel nostro ordinamento
vi è il decisivo rilievo di un atto emesso in un
procedimento autonomo, poiché i provvedimenti conclusivi
delle gare d’appalto –a loro volta– non possono che prendere
in considerazione le risultanze dei provvedimenti emessi in
tema di certificazioni antimafia.
Sotto tale aspetto, negare la sussistenza della
giurisdizione amministrativa significherebbe ridurre
significativamente l’effettività della tutela, spettante
all’impresa che fondatamente lamenti l’illegittimità
dell’atto dell’ente previdenziale, in ragione del mancato
potere del giudice amministrativo di annullare l’atto
lesivo, inerente alla gara, per un vizio derivato dal vizio
di un provvedimento posto a sua base.
II.1.3.- Vi è tuttavia un opposto orientamento
giurisprudenziale che esclude la giurisdizione del giudice
amministrativo nella materia de qua, sostanzialmente
per le ragioni poste dalla società appellante a sostegno
delle sue censure.
Con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2015,
n. 1321, è stato infatti affermato che la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia deve escludersi in base ai
principi affermati dalla sentenza del Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria, 04.05.2012, n. 8.
Tale sentenza, in base all’esame dei momenti essenziali
della disciplina de qua (competenza tecnica degli enti
previdenziali in merito alla valutazione della gravità o
meno delle violazioni previdenziali; natura del d.u.r.c.
quale documento pubblico certificante ufficialmente la
sussistenza o meno della regolarità contributiva, da
ascrivere al novero delle dichiarazioni di scienza,
assistite da fede pubblica privilegiata, ai sensi dell'art.
2700 del c.c., e facenti piena prova fino a querela di
falso; impossibilità per le stazioni appaltanti di valutare
la gravità o meno delle violazioni previdenziali; rinvio del
codice degli appalti alle valutazioni di gravità degli altri
settori dell'ordinamento; vincolo per le stazioni appaltanti
alle valutazioni dei competenti enti previdenziali), ha
espresso il principio di diritto per cui «la verifica
della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a
procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la
pubblica amministrazione è demandata agli istituti di
previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono
alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il
contenuto».
La sentenza n. 1321 del 2015 ha rilevato che le precedenti
osservazioni inducono ad escludere la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia di valutazione del
d.u.r.c., perché gli eventuali errori contenuti in detto
documento involgono posizioni di diritto soggettivo
afferenti al sottostante rapporto contributivo e possono
essere corretti dal giudice ordinario, o all'esito della
proposizione di una querela di falso, o a seguito di una
ordinaria controversia in materia di previdenza e di
assistenza obbligatoria: oggetto di valutazione ai fini del
rilascio del certificato sarebbe così la regolarità dei
versamenti, ed in questo ambito ciò che viene in rilievo non
sarebbe un rapporto pubblicistico, ma un rapporto
obbligatorio previdenziale di natura privatistica sul quale
non inciderebbero direttamente o indirettamente poteri
pubblicistici (in senso conforme si è pronunciata anche la
sezione V del Consiglio di Stato, con la sentenza
17.05.2013, n. 2682).
Per la sentenza n. 1321 del 2015, non rileva il richiamo
alla natura esclusiva della giurisdizione amministrativa in
materia di affidamento di appalti pubblici, in quanto
l'ampiezza della cognizione si allargherebbe a coprire non
solo i fatti ed i diritti da conoscere incidenter tantum,
ma anche i fatti ed i diritti inerenti ad un «accertamento
fidefacente», riservati alla cognizione in via
principale del giudice ordinario.
In tali sensi si sono pure espresse la sezione V del
Consiglio di Stato, con le sentenze 26.03.2014, n. 1468, e
03.02.2011, n. 789, nonché la sezione IV, con la sentenza
12.03.2009, n. 1458, rilevando che ciò che viene in rilievo
non è un rapporto pubblicistico, ma un rapporto obbligatorio
previdenziale di natura privatistica.
II.1.3.- Alla luce delle considerazioni che precedono, deve,
quindi rimettersi all’esame dell’Adunanza Plenaria, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., la seguente questione di
diritto, fonte dei sopra evidenziati contrasti
giurisprudenziali sorti in giurisprudenza: a) "Se
rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo,
adito per la definizione di una controversia avente ad
oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al
giudice ordinario, accertare la regolarità del documento
unico di regolarità contributiva, quale atto interno della
fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione
dichiarati dal partecipante ad una gara”.
II.2.- Nell’ipotesi in cui la Adunanza Plenaria si pronunci
nel senso che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo nella materia de qua, si prospetta come
dirimente nel caso in esame, ai fini della decisione del
merito, una ulteriore problematica che pure deve rimettersi
al suo esame, a causa del contrasto giurisprudenziale che è
sorto al riguardo.
II.3.- Con la sentenza impugnata, è stato accolto il profilo
di doglianza con il quale la s.r.l. Cooperativa Sociale
Onlus Segni di Integrazione aveva dedotto l’illegittimità
del d.u.r.c. per il mancato invito della società ricorrente
a sanare la propria posizione contributiva, previa
assegnazione di un termine di quindici giorni, ai sensi del
citato art. 31, comma 8, del d. l. n. 69 del 2013,
applicabile ratione temporis alla fattispecie in
esame.
II.3.1.- Il TAR, richiamato il contrasto giurisprudenziale
formatosi al riguardo, ha ritenuto che tale mancanza
determinerebbe la violazione delle norme pubblicistiche che
regolano lo svolgimento delle gare pubbliche.
Il TAR ha aderito all’orientamento giurisprudenziale secondo
il quale è illegittima l’esclusione della concorrente dalla
gara d’appalto, se disposta prima dello spirare del termine
quindicinale fissato dal citato art. 31, comma 8, del d.l.
n. 69 del 2013, in quanto, stante il carattere vincolante
del d.u.r.c. quanto alla gravità della irregolarità rilevata
(che si impone alla s.a. senza possibilità di vagliarne il
contenuto), la irregolarità eventualmente commessa potrebbe
essere attestata e definitivamente accertata solo dopo che
la parte interessata sia stata invitata a regolarizzare la
propria posizione ai sensi del comma 8 dell’art. 31 citato.
Pertanto, il requisito della regolarità contributiva
dovrebbe essere valutato con riferimento non al momento di
presentazione della domanda di partecipazione alla procedura
di gara, ma al momento di scadenza del termine fissato dal
medesimo art. 31, comma 8.
II.3.2.- Con l’atto d’appello principale, come già
evidenziato, è stato sostenuto in proposito che l’art. 31,
comma 8, del d.l. n. 69 del 2013 non avrebbe introdotto
alcuna espressa modifica del d.lgs. n. 163 del 2006,
dovendosi anche considerare che l’art. 255 del medesimo
d.lgs. ha stabilito che ogni intervento normativo incidente
sul codice o sulle materie da esso disciplinate va attuato
mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o
sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute.
L’applicazione dell’art. 31, comma 8, non potrebbe essere
estesa sino a ritenere abrogato implicitamente l’art. 38 del
d.lgs n. 163 del 2006.
Il comma 8 potrebbe trovare applicazione solo nei casi in
cui l’Ente previdenziale si trovi ad emettere un d.u.r.c. o
un documento attestante l’attuale situazione contributiva di
un soggetto, ma non nell’ipotesi in cui sia stata richiesta
la certificazione di un dato storico.
L’interpretazione della normativa data dal TAR non
troverebbe giustificazione nella necessità di consentire la
massima partecipazione alle procedure di affidamento di
contratti pubblici (perché in tal modo verrebbe sanata la
posizione delle società che in sede di offerta abbiano
certificato la propria regolarità contributiva, in realtà
insussistente) e violerebbe sotto diversi profili il
principio di evidenza pubblica di tutela dell’interesse
pubblico alla scelta di un contraente affidabile e quello
della par condicio tra le concorrenti, nonché determinerebbe
una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti
degli operatori economici stabiliti in Stati diversi
dall’Italia.
Solo in caso di contenzioso giudiziario sulla regolarità del
d.u.r.c. l’attestazione in esso contenuta, ex art. 8, comma
2, lett. b), del d.m. 24.10.2007, sarebbe considerabile come
‘non definitiva’.
Simili considerazioni sono state effettuate con l’appello
incidentale della Provincia di Verona.
II.3.3.- Rileva il collegio che anche in proposito
coesistono due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
II.3.4.- Nel senso fatto proprio dalla sentenza appellata si
è pronunciata la sezione V del Consiglio di Stato con la
sentenza 14.10.2014, n. 5064, con la quale, premesso che con
sentenza n. 8 del 2012 l'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato ha attribuito al d.u.r.c. carattere vincolante quanto
al diverso requisito della ‘gravità’
dell'irregolarità contributiva (che si impone alle stazioni
appaltanti che non possono sindacarne il contenuto), è stato
affermato che a diverse conclusioni deve invece pervenirsi
con riguardo al requisito del carattere ‘definitivo’
di dette irregolarità, richiesto dalla normativa in materia
in aggiunta a quello della ‘gravità’ delle stesse.
Infatti, in base al comma 3 dell’art. 7 del d.m. Lavoro e
Previdenza Sociale 24.10.2007 (relativo appunto al documento
unico di regolarità contributiva), l'Ente previdenziale è
obbligato ad invitare l'impresa a regolarizzare la propria
posizione in caso di mancanza dei requisiti di cui all'art.
5. Inoltre, la necessità del previo invito alla
regolarizzazione è stato recepita, a livello di legislazione
primaria, dall'art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013,
costituente la conferma di un preciso indirizzo di politica
legislativa volto a favorire la massima partecipazione alle
procedure di affidamento di contratti pubblici; pertanto la
stazione appaltante è tenuta a procedere ad accertare in via
autonoma la sussistenza di una irregolarità definitiva del
rapporto previdenziale e non già limitarsi ad una presa
d'atto della irregolarità.
Con la successiva sentenza 16.02.2015, n. 781, la medesima
sezione V ha aggiunto che non rilevavano nella specie i
principi affermati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato con la sentenza n. 8 del 2012, in quanto il d.l. n. 69
del 2013, convertito, con modificazioni, in l. n. 98 del
2013, ha sostanzialmente modificato l'art. 38 del d.lgs. n.
163 del 2006, laddove stabilisce che il requisito della
regolarità contributiva deve sussistere alla data di
presentazione della domanda di partecipazione alla procedura
concorsuale e, in base a quanto stabilito dall'art. 31,
comma 8, del d.l. stesso, il requisito della regolarità
contributiva deve sussistere al momento di scadenza del
termine di quindici giorni assegnato dall'Ente previdenziale
per la regolarizzazione della posizione contributiva.
Per quest’ultima sentenza, in assenza della assegnazione del
termine, il d.u.r.c. negativo è da ritenersi
irrimediabilmente viziato ed inidoneo a giustificare la
esclusione della impresa cui è relativo, in quanto non si
verte in materia di sindacabilità del suo contenuto da parte
della stazione appaltante, ma di definitività
dell’accertamento della violazione.
Anche la sezione III del Consiglio di Stato, con la sentenza
01.04.2015, n. 1733, ha ritenuto che, qualora in pendenza
del termine assegnato dall'ente previdenziale per la
regolarizzazione, ai sensi dell'art. 31, comma 8, del d.l.
69 del 2013, venga presentata la domanda di partecipazione
alla gara e venga effettuato il pagamento di quanto dovuto o
comunque la situazione di irregolarità venga altrimenti
estinta, la situazione di irregolarità dell'impresa non può
dirsi ‘definitivamente accertata’; in tali casi, la
stazione appaltante deve tener conto di detta qualificazione
giuridica, che discende direttamente dalla norma, e
dell'effetto di regolarizzazione verificatosi in corso di
gara ai fini del giudizio definitivo sull'ammissione
dell'offerta e dell'eventuale aggiudicazione.
Ciò potrebbe essere effettuato integrando i modelli di
dichiarazione posti a corredo della domanda di
partecipazione, al fine di considerare l'eventuale esistenza
di una fase di regolarizzazione e, comunque (anche qualora
la circostanza emerga solo attraverso il contraddittorio con
l'impresa in sede di verifica dei requisiti), acquisendo
dall'Ente previdenziale una attestazione riferita alla data
di scadenza del termine assegnato per la regolarizzazione.
II.3.5.- In senso del tutto diverso e sostanzialmente
convergente con le tesi delle appellanti si è espressa
invece la sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza
23.02.2015, n. 874, con la quale è stato sostenuto che
l’art. 31, comma 8, del d.l. n. 69 del 2013 riguarda l'Ente
preposto al rilascio, o all'annullamento, del d.u.r.c., ma
non concerne la stazione appaltante, e non può quindi
pregiudicare la legittimità degli atti di gara.
Come chiarito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
in tema di gare ad evidenza pubblica, ai sensi e per gli
effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del
2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70
del 2011, costituiscono causa di esclusione dalle gare di
appalto le ‘gravi violazioni’ alle norme in materia
previdenziale e assistenziale) la nozione di "violazione
grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso
della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina
previdenziale e in particolare dalla disciplina del d.u.r.c.;
a tanto è stato fatto conseguire che la verifica della
regolarità contributiva delle imprese partecipanti a
procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la
P.A. è demandata agli Istituti di previdenza, le cui
certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che
non possono sindacarne il contenuto e a maggior ragione non
possono sindacare la legittimità del d.u.r.c., che deve
invece essere contestata dall'interessato in altra sede, con
le forme e i mezzi previsti dall'ordinamento.
Nello stesso senso si è espressa la sezione VI con la
sentenza 04.05.2015, n. 2219, con la quale -premesso che la
verifica della regolarità contributiva delle imprese
partecipanti alle procedure di gara per l'aggiudicazione di
appalti con la P.A. è demandata agli Istituti di previdenza,
le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti,
che non possono quindi sindacarne né il contenuto (come
rilevato dalla sentenza della Adunanza Plenaria 04.05.2012,
n. 8) né la legittimità, che deve essere contestata
dall'interessato con le forme e i mezzi previsti
dall'ordinamento- è stato affermato che l'art. 31, comma 8,
del d.l. n. 69 del 2013 –pur mirando a mitigare la rigidità
di situazioni di irregolarità- non ha inciso sulle modalità
di controllo della situazione contributiva da parte della
stazione appaltante con riferimento alle gare pubbliche, né
ha introdotto una sorta di sanatoria per l'impresa che anche
al momento della scadenza del termine per la presentazione
dell'offerta (e anche dopo) continui a non trovarsi in una
situazione di regolarità contributiva.
Per tale orientamento, può anche considerarsi definitiva la
irregolarità della posizione contributiva soltanto allo
scadere del termine previsto per la sua regolarizzazione ai
sensi del citato comma 8, ma sempre nel rispetto dei termini
per presentare l'offerta per partecipare alla gara, in
quanto l’interpretazione di favore non può far sostenere la
avvenuta regolarità anche quando sia ormai scaduto ogni
termine, pena la violazione dei principi di tutela
dell'interesse pubblico alla scelta del contraente
affidabile e della par condicio tra i concorrenti.
II.3.5.- Alla luce delle pregresse considerazioni, deve
quindi rimettersi all’esame dell’Adunanza Plenaria, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., la seguente ulteriore
questione di diritto, rilevante ai fini della decisione
della causa: a) “Se la norma di cui
all'art. 31, comma 8, del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito
con modificazioni, nella l. 09.08.2013, n. 98, sia limitata
al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del
d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la
stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei
requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero
se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per
abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art.
38 e si possa ormai ritenere che la definitività della
irregolarità sussista solo al momento di scadenza del
termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente
previdenziale per la regolarizzazione della posizione
contributiva”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 21.10.2015 n. 4799 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul giudizio di anomalia dell'offerta.
Il giudizio positivo di anomalia non richiede una specifica
motivazione, mentre incombe su chi contesti l'aggiudicazione
l'onere, nel caso di specie non assolto, di individuare gli
specifici elementi tesi a dimostrare che la valutazione
tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia stata
manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti erronei
o travisati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.10.2015 n. 4796 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla rimessione alla Corte di Giustizia Ue di
alcune questioni sul requisito dell'attività prevalente
richiesto per un legittimo affidamento in house.
Nell'attuale quadro normativo nazionale non si rinviene una
disposizione che indichi gli elementi costituivi di un ente
in house e lo stesso legislatore in molteplici
discipline settoriali (es. art. 1, comma 423, 533, 609 l.
190/2014) nel richiamare la nozione di ente in house rinvia
all'ordinamento europeo per una sua corretta delimitazione.
Quanto al diritto europeo, "l'affidamento in house" è
un istituto di origine giurisprudenziale per verificare
quando vada necessariamente indetta una gara. Le direttive
n. 2014/23/UE (art. 17), n. 2014/24/UE (art. 12), n.
2014/25/UE (art. 28) ne trattano gli elementi costitutivi,
al fine di delimitare l'ambito di applicazione delle
direttive sugli appalti e sulle concessioni. Tali direttive,
però, non sono applicabili ratione temporis nel caso
di specie, poiché -non essendo ancora scaduto il termine per
il loro recepimento- non può essere esaminato il loro
carattere self-executing. Le previsioni in questione
hanno comunque una rilevanza giuridica, pur minore rispetto
al c.d. effetto diretto ovvero alla regola della "interpretazione
giuridica conforme".
Infatti, in nome del principio di leale collaborazione, vi è
un dovere di stand still, nel senso che il
legislatore nazionale, nel periodo intercorrente tra la
pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine
assegnato per il suo recepimento, deve evitare qualsiasi
misura che possa compromettere il conseguimento del
risultato, così come il giudice deve evitare qualsiasi forma
di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale
da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di
attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla
direttiva.
Nessuna delle due ipotesi ricorre nel caso di specie,
considerato che il requisito della cd. attività prevalente
deve comunque essere definito sulla base del diritto dell'Ue
vigente al tempo dell'adozione dell'atto impugnato, non
essendo rinvenibile una normativa nazionale che chiarisca i
termini entro i quali il suddetto requisito vada apprezzato,
ma semplicemente una disciplina nazionale, l'art. 2 del
d.lgs. n. 163/2006, che impone l'obbligo di affidare il
servizio oggetto del presente contenzioso attraverso una
gara pubblica, a meno che non ricorra tra amministrazione
aggiudicatrice ed ente aggiudicatario una relazione in
house, nell'accezione operante secondo il diritto
dell'Ue.
---------------
La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul cd. requisito
della "attività prevalente" ha indicato quale
elemento necessario per la sussistenza della relazione in
house che l'ente controllato "realizzi la parte più
importante della propria attività con l'ente o con gli enti
locali che la controllano" (sentenza Teckal).
Successivamente, il requisito in questione è stato oggetto
di un ulteriore chiarimento da parte della Corte di
Giustizia nella sentenza cd. Carbotermo, che ha precisato
che "si può ritenere che l'impresa in questione svolga la
parte più importante della sua attività con l'ente locale
che la detiene, ai sensi della menzionata sentenza Teckal,
solo se l'attività di detta impresa è principalmente
destinata all'ente in questione e ogni altra attività
risulta avere solo un carattere marginale".
Non si rinvengono, invece, pronunce che chiariscano se tra
gli affidamenti da valutare, al fine di ritenere integrato
il requisito dell'"attività prevalente", debbano
anche essere computati quelli che riguardino enti pubblici
non soci, nel caso in cui l'attribuzione sia imposta da un
provvedimento autoritativo proveniente da un'amministrazione
pubblica diversa, nella specie dalla R. Abruzzo, che impone
all'ente sospettato di relazione in house di svolgere
attività di trattamento e smaltimento rifiuti a favore di
comuni non soci.
Dal momento che le questioni pregiudiziali sollevate
dall'appellante in ordine alla ricorrenza del requisito
della prevalente attività svolta dalla società in house
a favore del Comune, riguardano questioni relative
all'interpretazione dei trattati, rilevanti al fine della
decisione del giudizio, non già decise dalla Corte di
giustizia e attratte nell'ambito di giurisdizione della
medesima Corte di giustizia sussiste l'obbligo di rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia delle seguenti
questioni pregiudiziali:
a) "se, nel computare l'attività prevalente svolta
dall'ente controllato, debba farsi anche riferimento
all'attività imposta da un'amministrazione pubblica non
socia a favore di enti pubblici non soci".
b) "se, nel computare l'attività prevalente svolta
dall'ente controllato, debba farsi anche riferimento agli
affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che
divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo"
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 20.10.2015 n. 4793 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La previsioni contenute in un piano di
lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con
le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni,
danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a
favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne
vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale
si regge in quanto siano rispettati quegli equilibri
volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita
considerazione, nei limiti assentiti con il piano di
lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio
delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia
del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto
giovarsi di quello ius singulare che è stato concepito e
varato solo in relazione alla imprescindibile condizione di
reciprocità e alla accettabilità della deroga in ragione
della complessiva valutazione dell'edificazione assentita.
Non è consentito pertanto ampliare singoli
fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del
complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi
di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione
solo a condizione del rispetto delle volumetrie
preesistenti.
La variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare,
aumenti della volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi
di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina
in tema di distanze vigente al momento della medesima.
---------------
3) Con il primo
motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa
applicazione dell'art. 873 e vizi di motivazione.
Muovendo dalla premessa che il Comune aveva autorizzato la
realizzazione del complesso edilizio secondo un piano di
lottizzazione con disposizione planovolumetrica derogatoria
delle norme del regolamento edilizio, il ricorso sostiene
che le costruzioni accessorie o le modifiche delle
costruzioni iniziali dovrebbero essere assoggettate alle
disposizioni in tema di distanze previste dal codice civile,
in ossequio alla disposizione planovolumerica, che non era
stata integrata da norme specifiche comunali.
Contesta pertanto che possa essere applicato il regolamento
edilizio della zona semintensiva e sostiene che
l'ampliamento della precedente veranda non mutava la natura
accessoria dell'iniziale manufatto, da sottoporre al regime
agevolato previsto per le costruzioni accessorie.
La censura non è fondata.
La previsioni contenute in un piano di
lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati con
le quali si deroga alle distanze legali tra le costruzioni,
danno luogo alla costituzione di diritti rispettivamente a
favore e contro ciascuno dei lotti del comprensorio e ne
vincolano gli acquirenti.
La deroga approvata dall'ente locale si
regge in quanto siano rispettati quegli equilibri
volumetrici che sono oggetto di esame e di esplicita
considerazione, nei limiti assentiti con il piano di
lottizzazione, che trova giustificazione nell'equilibrio
delle varie posizioni tra loro e nella complessiva armonia
del complesso edilizio.
Una modifica individuale soggettiva non può pertanto
giovarsi di quello ius singulare che è stato
concepito e varato solo in relazione alla imprescindibile
condizione di reciprocità e alla accettabilità della deroga
in ragione della complessiva valutazione dell'edificazione
assentita (cfr
Cass. 5104/2009).
Non è consentito pertanto ampliare singoli
fabbricati, in epoca successiva alla costruzione del
complesso approvato con il piano di lottizzazione, valendosi
di regole derogatorie che trovavano fonte e legittimazione
solo a condizione del rispetto delle volumetrie
preesistenti.
La variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio, e, in particolare, aumenti della
volumetria danno luogo, infatti, all'ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima
(si veda su quest'ultimo punto Cass. 21578/2011; 74/2011).
4) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione
edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della
preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di
impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione
edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a
disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità può essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo
(SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi
(Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.
(Cass. 9869/2015), ma non può impedire
l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino
per far rispettare la normativa in tema di distanze, che
siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti
urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni
si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.10.2015 n. 21119). |
EDILIZIA PRIVATA:
È ius receptum che le controversie tra
proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di
norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto
ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice
ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo
abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità può
essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario
attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del
provvedimento amministrativo.
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi.
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.,
ma non può impedire l'esercizio della azione
civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la
normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal
codice civile o dagli strumenti urbanistici.
Per il differente ordine in cui le
azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio.
---------------
4) Il secondo
motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art.
873 sotto altro profilo.
Parte ricorrente espone che essa aveva ottenuto concessione
edilizia per la realizzazione dell'ampliamento della
preesistente veranda e che il terzo aveva l'onere di
impugnare davanti al giudice amministrativo la concessione
edilizia, senza potere altrimenti invocare tutela volta a
disapplicare l'atto concessorio.
La doglianza è manifestamente infondata.
È ius receptum che le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità può essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo
(SU 13673/2014).
Inoltre ogni concessione edilizia è
rilasciata con salvezza dei diritti dei terzi
(Cass. 19650/2013; 11404/1998).
Il ruolo del giudice amministrativo,
investito della domanda di annullamento della licenza,
concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza
dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di
legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A.
ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico
relativo al rapporto fra il privato e la P.A.
(Cass. 9869/2015), ma non può impedire
l'esercizio della azione civilistica intrapresa dal vicino
per far rispettare la normativa in tema di distanze, che
siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti
urbanistici.
Per il differente ordine in cui le azioni
si muovono, essa non è subordinata all'annullamento
dell'atto concessorio
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.10.2015 n. 21119). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sul
risarcimento dei pregiudizi derivanti dalla
lesione ai
diritti della persona quali, oltre al diritto alla difesa e
alla partecipazione procedimentale, quelli attinenti
all’onore, alla reputazione e alla serenità psichica,
compromessi dall’ingiusta condanna in sede penale in
relazione all'adottato illegittimo atto amministrativo.
Ai fini della
configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043,
c.c. della Pubblica amministrazione … devono ricorrere i
presupposti del comportamento colposo, del danno ingiusto e
del nesso di consequenzialità; quanto all'imputazione della
colpa alla Pubblica amministrazione, essa non può avvenire
sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità
dell'atto amministrativo, essendo tenuto il giudice,
malgrado l'intervenuto annullamento dell'atto, a svolgere
una più penetrante indagine estesa alla valutazione della
colpa non del funzionario agente, ma della Pubblica
amministrazione come apparato, configurabile soltanto nel
caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo sia avvenuto in
violazione delle regole d'imparzialità, correttezza e buona
amministrazione.
In particolare, “i fattori che valgono ad escludere la colpa
e, quindi, la responsabilità dell'Amministrazione per i
danni causati da un provvedimento illegittimo, sono quelli
attinenti all'esistenza di contrasti giurisprudenziali
nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme di
riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle
disposizioni che regolano l'attività amministrativa
considerata, alla complessità della situazione di fatto
oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà
istruttorie e all'illegittimità derivante dalla successiva
dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata
con l'atto lesivo; in altri termini, per la configurabilità
della colpa dell'Amministrazione, ai fini dell'accertamento
della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo
al carattere della regola di azione violata: se la stessa è
chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la
sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione;
al contrario, se il canone della condotta amministrativa
giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo
tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato
grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata
solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in
palese spregio delle regole di correttezza e di
proporzionalità. Ed infatti, a fronte di regole di condotta
inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro
e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà
essere affermata nei soli casi in cui l'azione
amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed
evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità,
restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro
dell'errore scusabile”.
---------------
Con precipuo riferimento all’evento dannoso, esso deve
essere identificato nell’essere stati i ricorrenti
indebitamente destinatari, prima, di ordinanze di riduzione
in pristino stato pur non essendo a ciò tenuti, e,
successivamente -con maggiore incisione sui valori
fondamentali quali quelli alla difesa personale, all’onore e
alla reputazione-, di un decreto penale di condanna
all’ammenda adottato sulla base di provvedimenti fondati su
erronei presupposti di fatto -in quanto traenti origine da
un’incompleta e superficiale istruttoria compiuta dagli
organi tecnici e amministrativi comunali all’uopo preposti-,
negligentemente trasmessi, prima dei necessari
approfondimenti, all’A.G..
Invero, appare indubbio, quanto al danno non patrimoniale,
che l’onorabilità degli attuali ricorrenti, -da intendersi
sia quale complesso delle condizioni dalle quali dipende il
valore sociale che come insieme delle doti fisiche, morali e
intellettuali della persona, entrambi beni fondamentali
costituzionalmente tutelati (art. 3 Cost.), sia stata,
secondo l’id quod plerumque accidit, sensibilmente
pregiudicata dall’instaurazione di un procedimento penale
attivato sulla base di un provvedimento fondato su
informativa carente quanto all’individuazione del soggetto
effettivamente obbligato al ripristino, in definitiva,
iniziato in assenza di compiuto accertamento circa la
manifesta responsabilità o titolarità dell’onere in capo
agli attuali ricorrenti.
Va altresì, tenuto conto, quanto, invece, ai profili
prettamente patrimoniali della lesione, che, gli attuali
ricorrenti, al fine di superare l’errato accertamento in
fatto degli organi comunali e sollecitare, conseguentemente,
l’esercizio del potere di annullamento in autotutela degli
atti illegittimi, si sono dovuti rivolgere a tecnico di
fiducia, incaricato di determinare, tramite apposita
relazione, l’esatta ubicazione dei luoghi, la titolarità dei
diritti ivi insistenti e la contestata allocazione dei
rifiuti da smaltire.
I danni riportati, tutti derivanti da un comportamento
contrario al diritto (contra ius) concretantesi,
nella specie, in un cattivo esercizio del potere, devono
qualificarsi come ingiusti.
---------------
Nel
comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione
comunale deve ravvisarsi il ricorrere dell’elemento
soggettivo proprio della colpa, intesa non tanto e non solo
in termini di negligenza e imperizia del singolo funzionario
preposto quanto quale imputabilità soggettiva della P.A.,
valutata come apparato, essendo stata l’adozione degli atti
illegittimi, riconosciuti come tali anche
dall’Amministrazione intimata, avvenuta in violazione delle
regole d’imparzialità, correttezza e di buona
amministrazione alle quali deve, invece, essere improntato
l’esercizio della pubblica funzione.
--------------
L'obbligazione
risarcitoria per responsabilità extracontrattuale e aquiliana costituisce “un debito non di valuta ma di
valore sicché, anche in sede di liquidazione equitativa dei
danni predetti, deve tenersi conto della svalutazione
monetaria frattanto intervenuta, senza necessità che il
creditore alleghi o dimostri il danno maggiore ai sensi
dell'art. 1224, comma 2, c.c. (danni nelle obbligazioni
pecuniarie); su tale somma, rivalutata anno per anno secondo
gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie d'operai e
impiegati calcolati dall'ISTAT su base nazionale, decorrono
gli interessi nella misura legale, atteso che la
rivalutazione e gli interessi sulla somma rivalutata
adempiono funzioni diverse: la prima mira a ripristinare la
situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima
dell'evento pregiudizievole, i secondi hanno natura
compensativa e sono, quindi, giuridicamente compatibili".
In conclusione, il ricorso va accolto, potendosi
formulare un giudizio d’imputabilità soggettiva, a titolo di
colpa, dell’apparato amministrativo procedente, derivante,
cioè, da un difettoso funzionamento riconducibile a un
comportamento negligente e in contrasto con le prescrizioni
di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all'art.
97 Cost. tale, in definitiva, da fare apprezzare la presenza
di un danno risarcibile nei termini indicati.
----------------
... per l'accertamento del diritto al risarcimento di tutti
i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti dai
ricorrenti a seguito dell’adozione dell’ordinanza n. 188 del
27.07.2004 e della diffida n. 378 del 12.04.2005, entrambe
intimanti la pulizia del fondo mediante rimozione dei
rifiuti abbandonati e la bonifica area;
...
I. I ricorrenti agiscono in riassunzione per l’accertamento
del risarcimento dei danni patiti a seguito dell’adozione di
provvedimenti illegittimi, nella specie, dell’ordinanza
sindacale contingibile e urgente e della successiva diffida
ad adempiere entrambe volte a ottenere la pulizia e il
ripristino dell’igienicità e della salubrità della parte di
fondo, erroneamente ritenuta ancora in possesso e nella
piena disponibilità dei medesimi, la cui adozione avrebbe,
in particolare, comportato, ingiustamente, l’adozione, nei
rispettivi confronti, del decreto penale di condanna alla
pena di €. 1.400, ciascuno, per i reati di cui all’art. 50,
comma 2, in relazione all’art. 14, comma 3, del d.lgs. n.
22/1997.
Chiedono, nello specifico, sia riconoscimento dei danni
patrimoniali, sostanzialmente riconducibili alle spese
sopportate nel giudizio penale (€. 3.060,00, ciascuno) e
alla parcella liquidata al tecnico di fiducia per la perizia
giurata posta alla base dell’annullamento, in via di
autotutela, dei provvedimenti citati (€. 2.371,20), sia il
risarcimento, secondo equità, dei pregiudizi derivanti dalla
lesione ai diritti della persona quali, oltre al diritto
alla difesa e alla partecipazione procedimentale, quelli
attinenti all’onore, alla reputazione e alla serenità
psichica, compromessi dall’ingiusta condanna in sede penale.
II. Si è costituita l’Amministrazione comunale intimata,
concludendo per il rigetto del ricorso.
III. All’udienza pubblica del 16.07.2015, fissata per la
discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
IV. Il ricorso è fondato nei termini di seguito esposti.
V. Occorre premettere in fatto che:
a) con decreto del Prefetto della provincia di Napoli, n. 40722 del
17.10.2001, veniva autorizzata l’occupazione d’urgenza in
favore del Consorzio IRICAV UNO di parte (per mq. 304) del
fondo agricolo, in comproprietà dei ricorrenti (mq. 4.850,
fg. 26, p.lla 37), in prospicienza della strada comunale,
per la realizzazione della linea Alta velocità Roma Napoli;
b) emessa la prima ordinanza sindacale, n. 188 del 09.07.2004, gli
istanti, accertato che i rifiuti da rimuovere insistevano
sulla porzione di terreno occupata dal Consorzio,
eccepivano, prima, in data 26.08.2004, e, poi, in data
09.11.2004, l’assenza di ogni responsabilità in ordine
all’abbandono nella parte di suolo non più in loro possesso
e, dunque, il difetto di legittimazione passiva ad essere
destinatari dell’ordinanza sindacale, invitando lo stesso
Comune a effettuare un sopralluogo onde verificare l’esatta
ubicazione dei rifiuti;
c) a seguito di ulteriore diffida, n. 378 del 12.04.2005, rimasta,
per i sovra detti motivi, inadempiuta, veniva adottato, nei
confronti dei ricorrenti, decreto penale di condanna
all’ammenda, per ciascuno, di 1.140,00 (n. 2286/2005);
d) depositata presso gli uffici dell’Amministrazione specifica
perizia giurata, dalla quale era possibile rilevare che la
zona di scarico dei rifiuti riguardava esclusivamente la
porzione di terreno oggetto di occupazione da parte del
Consorzio, i medesimi organi comunali provvedevano a
espletare uno specifico sopralluogo nel corso del quale
emergeva che, effettivamente, i rifiuti erano presenti
esclusivamente nella parte di suolo, mq. 304, interessata
dalla procedura ablativa;
e) il Comune, pertanto, con provvedimento del 26.07.2005, adottava
l’ordinanza n. 442, con la quale, contestualmente,
provvedeva, da un lato, a ordinare al Consorzio de quo la
pulizia del fondo e, dall’altro, a revocare, in via di
autotutela, le precedenti ordinanze emesse nei confronti dei
ricorrenti.
VI. Ciò posto, ritiene il Collegio che siano ravvisabili
tutti gli elementi costituitivi per poter configurare, in
capo all’Amministrazione comunale, una responsabilità di
tipo extracontrattuale, fondata sul generale principio del
neminem laedere.
A tal proposito si premette che, “ai fini della
configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043,
c.c. della Pubblica amministrazione … devono ricorrere i
presupposti del comportamento colposo, del danno ingiusto e
del nesso di consequenzialità; quanto all'imputazione della
colpa alla Pubblica amministrazione, essa non può avvenire
sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità
dell'atto amministrativo, essendo tenuto il giudice,
malgrado l'intervenuto annullamento dell'atto, a svolgere
una più penetrante indagine estesa alla valutazione della
colpa non del funzionario agente, ma della Pubblica
amministrazione come apparato, configurabile soltanto nel
caso in cui l'adozione dell'atto illegittimo sia avvenuto in
violazione delle regole d'imparzialità, correttezza e buona
amministrazione” (Cons. di St., sez. V, 28.09.2015, n.
4508).
In particolare, con riferimento al profilo maggiormente
contestato, “i fattori che valgono ad escludere la colpa
e, quindi, la responsabilità dell'Amministrazione per i
danni causati da un provvedimento illegittimo, sono quelli
attinenti all'esistenza di contrasti giurisprudenziali
nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme di
riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle
disposizioni che regolano l'attività amministrativa
considerata, alla complessità della situazione di fatto
oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà
istruttorie e all'illegittimità derivante dalla successiva
dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata
con l'atto lesivo; in altri termini, per la configurabilità
della colpa dell'Amministrazione, ai fini dell'accertamento
della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo
al carattere della regola di azione violata: se la stessa è
chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la
sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione;
al contrario, se il canone della condotta amministrativa
giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo
tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato
grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata
solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in
palese spregio delle regole di correttezza e di
proporzionalità. Ed infatti, a fronte di regole di condotta
inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro
e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà
essere affermata nei soli casi in cui l'azione
amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed
evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità,
restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro
dell'errore scusabile” (Cons. di St., sez. III,
28.07.2015, n. 3707).
VI.1. Tanto premesso, sussiste, nel caso di specie, una
lesione, correlata all’interesse legittimo al corretto
esercizio della potestà pubblica, che ha interessato una
posizione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento, ed
essa è configurabile quale conseguenza diretta e immediata
del fatto illecito - segnatamente degli atti amministrativi
riconosciuti illegittimi (TAR Friuli-Venezia Giulia,
Trieste, sez. I, 10.11.2014 n. 538).
VI.2. Con precipuo riferimento all’evento dannoso, infatti,
esso deve essere identificato nell’essere stati i ricorrenti
indebitamente destinatari, prima, di ordinanze di riduzione
in pristino stato pur non essendo a ciò tenuti, e,
successivamente -con maggiore incisione sui valori
fondamentali quali quelli alla difesa personale, all’onore e
alla reputazione-, di un decreto penale di condanna
all’ammenda adottato sulla base di provvedimenti fondati su
erronei presupposti di fatto -in quanto traenti origine da
un’incompleta e superficiale istruttoria compiuta dagli
organi tecnici e amministrativi comunali all’uopo preposti
(Comando dei VV.UU. e responsabile del settore Ambiente)-,
negligentemente trasmessi, prima dei necessari
approfondimenti, all’A.G..
Invero, appare indubbio, quanto al danno non patrimoniale,
che l’onorabilità degli attuali ricorrenti, -da intendersi
sia quale complesso delle condizioni dalle quali dipende il
valore sociale che come insieme delle doti fisiche, morali e
intellettuali della persona, entrambi beni fondamentali
costituzionalmente tutelati (art. 3 Cost.), sia stata,
secondo l’id quod plerumque accidit, sensibilmente
pregiudicata dall’instaurazione di un procedimento penale
attivato sulla base di un provvedimento fondato su
informativa carente quanto all’individuazione del soggetto
effettivamente obbligato al ripristino, in definitiva,
iniziato in assenza di compiuto accertamento circa la
manifesta responsabilità o titolarità dell’onere in capo
agli attuali ricorrenti.
Va altresì, tenuto conto, quanto, invece, ai profili
prettamente patrimoniali della lesione, che, gli attuali
ricorrenti, al fine di superare l’errato accertamento in
fatto degli organi comunali e sollecitare, conseguentemente,
l’esercizio del potere di annullamento in autotutela degli
atti illegittimi, si sono dovuti rivolgere a tecnico di
fiducia, incaricato di determinare, tramite apposita
relazione, l’esatta ubicazione dei luoghi, la titolarità dei
diritti ivi insistenti e la contestata allocazione dei
rifiuti da smaltire.
I danni riportati, tutti derivanti da un comportamento
contrario al diritto (contra ius) concretantesi,
nella specie, in un cattivo esercizio del potere, devono
qualificarsi come ingiusti.
VI.3. Emblematica, invece, ai fini dell’individuazione dei
profili di responsabilità in capo all’Amministrazione
resistente, è la dettagliata ricostruzione degli avvenimenti
che precede la nuova ingiunzione, questa volta, nei
confronti del Consorzio IRICAV UNO, General Contractor della
Treno Alta Velocità (TAV) S.p.a..
VI.3.1. Invero, emessa la prima ordinanza sindacale del
09.07.2004 intimante la rimozione de qua, veniva
trasmessa la prima comunicazione di notizia di reato per
omessa ottemperanza (nota n. 8956 del 14.10.2004 del locale
Comando VV.UU.) nonostante i ricorrenti avessero già
comunicato, in data 26.08.2004, di non essere più nella
disponibilità di parte del lotto per essere lo stesso stato
occupato con decreto prefettizio n. 40722 del 17.10.2001.
All’ulteriore nota del 09.11.2004, prot. n. 18875, con la
quale gli stessi ricorrenti chiedevano un sopralluogo atto a
verificare l’esatta ubicazione dei rifiuti in modo da
attribuirne l’onere della rimozione al legittimo possessore,
non seguivano gli opportuni accertamenti ma una seconda
diffida allo sgombero, con ordinanza sindacale n. 378/AM del
12.04.2005, e la trasmissione, per inottemperanza anche a
quest’ultima, di una nuova comunicazione di reato (nota n.
3005 del 18.05.2005 del responsabile della P.M.).
VI.3.2. Avviato ormai il procedimento penale, solamente a
seguito dell’ulteriore istanza dei ricorrenti, datata
25.05.2005, prot. n. 8199, di richiesta di revoca dei
provvedimenti citati, prodotta unitamente a una relazione
tecnica di parte tesa a individuare il confine delle
proprietà, il responsabile del settore Ambiente, a seguito
di proprio sopralluogo, constatava che effettivamente i
rifiuti erano presenti sulla parte di suolo oggetto
dell’espropriazione a favore del Consorzio (nota prot. n.
150 AM del 20.06.2005, diretta, per conoscenza, al
responsabile della P.M.). Veniva pertanto avviato il
procedimento volto al ritiro delle ordinanze riconosciute
illegittime.
VI.3.3. Ora,
nel comportamento
complessivamente tenuto dall’Amministrazione comunale deve
ravvisarsi il ricorrere dell’elemento soggettivo proprio
della colpa, intesa non tanto e non solo in termini di
negligenza e imperizia del singolo funzionario preposto
quanto quale imputabilità soggettiva della P.A., valutata
come apparato, essendo stata l’adozione degli atti
illegittimi, riconosciuti come tali anche
dall’Amministrazione intimata, avvenuta in violazione delle
regole d’imparzialità, correttezza e di buona
amministrazione alle quali deve, invece, essere improntato
l’esercizio della pubblica funzione.
VI.4. Con riferimento, infine, al nesso di causalità,
l’utilizzo del criterio della cd. causalità adeguata che,
nella serie causale, attribuisce rilievo agli eventi che non
appaiano, a una valutazione ex ante, del tutto
inverosimili nella determinazione dell’evento, consente di
affermare che la verificazione della lesione lamentata è,
secondo un giudizio di alta probabilità vicina alla
certezza, ascrivibile alle carenze istruttorie e
motivazionali riconducibili al comportamento
dell’Amministrazione comunale intimata senza le quali alcun
procedimento, sia esso amministrativo o penale, sarebbe
stato instaurato.
VII. Tanto premesso, quanto alla quantificazione del danno
il Collegio ritiene opportuno svolgere le seguenti
valutazioni.
VII.1. Non può, in primo luogo, essere riconosciuta la
rifusione delle spese processuali in cui sono incorse le
parti nella difesa in giudizio in sede di opposizione al
decreto penale di condanna, essendo tali oneri strettamente
attinenti a tale giudizio nell’ambito del quale possono
trovare, se del caso e a seguito degli approfondimenti in
fatto compiuti in tale sede, il dovuto riconoscimento.
VII.2. Quanto ai danni patrimoniali e non patrimoniali
evidenziati, si valuta, invece, equo liquidare il
risarcimento per i pregiudizi subiti in complessivi €.
3.000,00 (tremila/00), tenendo, in particolare conto, quanto
all’instaurato giudizio in sede penale, che lo stesso non
risulta, allo stato, definito.
VII.3. Ciò posto, l'obbligazione
risarcitoria per responsabilità extracontrattuale e
aquiliana costituisce “un debito non di valuta ma di
valore sicché, anche in sede di liquidazione equitativa dei
danni predetti, deve tenersi conto della svalutazione
monetaria frattanto intervenuta, senza necessità che il
creditore alleghi o dimostri il danno maggiore ai sensi
dell'art. 1224, comma 2, c.c. (danni nelle obbligazioni
pecuniarie); su tale somma, rivalutata anno per anno secondo
gli indici dei prezzi al consumo per le famiglie d'operai e
impiegati calcolati dall'ISTAT su base nazionale, decorrono
gli interessi nella misura legale, atteso che la
rivalutazione e gli interessi sulla somma rivalutata
adempiono funzioni diverse: la prima mira a ripristinare la
situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima
dell'evento pregiudizievole, i secondi hanno natura
compensativa e sono, quindi, giuridicamente compatibili”
(TAR Piemonte, Torino, sez. I, 03.12.2013, n. 1299).
Per quanto concerne la data di realizzazione del fatto
illecito, essa deve farsi risalire all’adozione del primo
atto lesivo da individuarsi nel giorno di emissione
dell’ordinanza contingibile e urgente, n. 188 del 09.07.2004
(solo notificata il 27.09.2004).
VIII. In conclusione, sulla base delle considerazioni
svolte, il ricorso va accolto, potendosi
formulare un giudizio d’imputabilità soggettiva, a titolo di
colpa, dell’apparato amministrativo procedente, derivante,
cioè, da un difettoso funzionamento riconducibile a un
comportamento negligente e in contrasto con le prescrizioni
di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all'art.
97 Cost. tale, in definitiva, da fare apprezzare la presenza
di un danno risarcibile nei termini indicati
(TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.11.2013, n. 9470)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 16.10.2015 n. 4865 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sono sanabili mediante il potere di soccorso
istruttorio le irregolarità concernenti la cauzione
provvisoria.
Sull'istituto dell'avvalimento.
In applicazione del principio di tassatività delle cause di
esclusione, sancito dall'art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n.
163 del 2006, devono ritenersi sanabili mediante il potere
di soccorso istruttorio le irregolarità concernenti la
cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti
dalla lex specialis.
---------------
La giurisprudenza, pur riconoscendo che, in ragione della
sua peculiare finalità -di garantire la massima
partecipazione alle gare pubbliche, consentendo alle imprese
non munite dei requisiti di partecipazione di giovarsi delle
capacità tecniche, economiche e finanziarie di altre
imprese- l'istituto dell'avvalimento ha carattere generale
(essendo interdetto soltanto per i requisiti di cui agli
artt. 38 e 39 del D.Lgs. n. 163/2006), ha nondimeno più
volte sottolineato che la messa a disposizione del requisito
mancante non può risolversi nel prestito di un valore
puramente cartolare e astratto, essendo invece necessari che
dal contratto risulti chiaramente l'impegno dell'impresa
ausiliaria a prestare tutti quegli elementi che giustificano
l'attribuzione del requisito partecipativo, ritenendo
insufficiente allo scopo la sola e tautologica riproduzione
nel testo del contratto di avvalimento della formula
legislativa della messa a disposizione delle "risorse
necessarie di cui è carente il concorrente" o
espressioni equivalenti.
Con riferimento proprio all'avvalimento di garanzia è stato
ulteriormente ribadito che esso "… può spiegare…la
funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner
commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai
rischi di inadempimento contrattuale, solo se rende palese
la concreta disponibilità attuale delle risorse e dotazioni
aziendali da fornire all'ausiliata" (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 15.10.2015 n. 4764 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza a
preesistenze edificate e pur in assenza di opere murarie,
comporta l’introduzione di un elemento strutturale
dell’edificio stesso che non solo modifica il prospetto ma
determina altresì una duratura modifica dello stato dei
luoghi, con trasformazione edilizia del territorio mediante
l’ampliamento del relativo manufatto all’esterno della sua
sagoma originaria, costituendo un intervento edificatorio
che richiede il previo rilascio di permesso di costruire.
La stessa, infatti, non può essere considerata un intervento
di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1,
lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non
consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un
elemento architettonico, ma nell’aggiunta di un elemento
strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto.
La sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio
di permesso di costruire e non è assentibile mediante
semplice denuncia di inizio di attività, anche attesa la
perdurante modifica dello stato dei luoghi che produce sul
tessuto urbano: la mancanza del previo assenso legittima,
quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria, che
costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale, a
prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla
realizzazione abusiva.
Il che, pacificamente, è vieppiù a predicarsi quando l’abuso
incide su un immobile sottoposto a vincolo paesaggistico:
come qui accade, ovvero quando l’ordine di ripristino,
sempre come qui accade e come innanzi riferito, è stato
impartito espressamente anche per “violazione dell’art. 167
del d.l.vo n. 42 del 2004”.
---------------
La sanzione demolitoria è stata -legittimamente, anzi
doverosamente- ingiunta (anche) espressamente ex ripetuto
art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004, il cui esercizio non
soffre di limitazioni temporali, fermo peraltro che, come
sostenuto da condivisa giurisprudenza, “ove carenti della
(presupposta) autorizzazione paesaggistica il titolo
abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può
essere intrapresa”.
13- A diversa conclusione deve invece pervenirsi rispetto ai
restanti interventi indicati nel Capo C) al vaglio.
La c. detta “baracca” (o “tettoia”), per come contestato
interessante una superficie di mq. 60, al di sotto della
quale è stato realizzato un locale definito tecnico dal
perito di parte, per ammissione dello stesso tecnico è priva
di titoli abilitativi.
Né può farsi luogo a frazionamento degli interventi (modesto
volume tecnico per alloggiarvi la caldaia in una nuova
sistemazione; tettoia/baracca di piccole dimensioni per
ricovero di attrezzi agricoli, costituente opera precaria)
e/o farsi leva su di una loro dimensione inferiore a quella
indicata dal tecnico comunale.
Ed invero, anche ove, come sostenuto nella ripetuta perizia
tecnica di parte, si fosse in presenza di una superficie
totale di mq. 33,00 e non di 60,00 (discordanze che peraltro
appaiono frutto del frazionamento operato dal perito), non
ne risulterebbe, comunque per ciò solo, comprovata la
legittimità degli interventi: questi esterni ed incidenti
sul territorio assoggettato a vincolo paesaggistico, come
indicato nella parte motiva del provvedimento assunto per
violazione sia delle “norme urbanistiche” che di quelle
“sulla tutela delle bellezze naturali e paesaggistiche”,
ovverosia in testuale applicazione (anche) “dell’art. 167
del d.l.vo n. 42 del 2004”, che obbliga l’amministrazione ad
ordinare “la remissione in pristino” in presenza di
violazioni degli obblighi recati dal Titolo I, parte terza,
dello stesso decreto (id est: in assenza dell’autorizzazione
paesaggistica).
Né, infine, ancora quanto ai profili sostanziali, la
necessitata conclusione di doversi ritenere, per questa
parte, legittimo l’intervento sanzionatorio
dell’amministrazione può esser contrastata con profitto
sostenendo la natura precaria della baracca/tettoia “aperta
su tre lati e realizzata con pali di castagno e lamiera di
copertura”.
13a- Tale prospettazione/giustificazione -al di anche del
fatto che al di sotto della stessa è stato realizzato un
locale- non si appalesa comunque utile alla bisogna, alla
stregua degli approdi cui è pervenuta la condivisa
giurisprudenza secondo cui “La realizzazione di una tettoia,
anche se in aderenza a preesistenze edificate e pur in
assenza di opere murarie, comporta l’introduzione di un
elemento strutturale dell’edificio stesso che non solo
modifica il prospetto ma determina altresì una duratura
modifica dello stato dei luoghi, con trasformazione edilizia
del territorio mediante l’ampliamento del relativo manufatto
all’esterno della sua sagoma originaria, costituendo un
intervento edificatorio che richiede il previo rilascio di
permesso di costruire. La stessa, infatti, non può essere
considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del
2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella
sostituzione di un elemento architettonico, ma nell’aggiunta
di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del
prospetto (per tutte, Cons. Stato,sez. VI, 05.08.2013, n.
4086). La sua costruzione, pertanto, necessita del previo
rilascio di permesso di costruire e non è assentibile
mediante semplice denuncia di inizio di attività, anche
attesa la perdurante modifica dello stato dei luoghi che
produce sul tessuto urbano: la mancanza del previo assenso
legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria,
che costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale,
a prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla
realizzazione abusiva” (Cons. Stato, sezione sesta, 26.01.2015, n. 319 e,
omisso medio, 02.06.2000, n.
3184; Tar Campania, questa settima sezione, 07.05.2015,
n. 2681, sezione terza, 29.04.2015, n. 2444); il che,
pacificamente, è vieppiù a predicarsi quando l’abuso incide
su un immobile sottoposto a vincolo paesaggistico: come qui
accade, ovvero quando l’ordine di ripristino, sempre come
qui accade e come innanzi riferito, è stato impartito
espressamente anche per “violazione dell’art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004”.
14- Quanto innanzi osservato, argomentato e statuito si
appalesa del tutto sufficiente a dare risposta ai primi
cinque mezzi di impugnazione (cfr. precedente punto 8), ivi
compresa quindi (per quanto ancora a valere all’esito delle
statuizioni già rese) la denuncia della sopravvenienza del
provvedimento oltre i trenta giorni previsti dall’art. 19,
comma 6-bis, della l. 241 del 1990, qui ribadendosi che la
sanzione demolitoria è stata -legittimamente, anzi
doverosamente- ingiunta (anche) espressamente ex ripetuto
art. 167 del d.l.vo n. 42 del 2004, il cui esercizio non
soffre di limitazioni temporali, fermo, peraltro, che, come
sostenuto da condivisa giurisprudenza, “ove carenti della
(presupposta) autorizzazione paesaggistica il titolo
abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può
essere intrapresa” (Tar Campania, sesta sezione, ex multis,
sentenze n. 2291 del 18.05.2012, n. 1114 del 05.03.2012 cit., n. 5805 del 14.12.2011 e n. 16995 del 27.07.2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 14.10.2015 n. 4821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La figura del responsabile tecnico di settore per
le imprese che operano nell'ambito dell'igiene ambientale e
della gestione dei rifiuti è equiparabile a quella del
direttore tecnico nelle imprese operanti nel settore dei
lavori pubblici.
Per le imprese operanti nell'ambito dell'igiene ambientale e
della gestione dei rifiuti la figura del responsabile
tecnico di settore è equiparabile a quella del direttore
tecnico nelle imprese operanti nel settore dei lavori
pubblici, in quanto investita, con riguardo al complesso dei
servizi da affidare, dei medesimi adempimenti di carattere
tecnico-organizzativo necessari per l'esecuzione dei lavori,
sicché, per tali imprese, l'obbligo dichiarativo previsto,
in via generale, per il direttore tecnico, è riferibile alla
menzionata figura, e ciò a prescindere dalla circostanza che
il soggetto, il quale rivesta la qualifica di responsabile
tecnico, compaia, o meno, nelle visure camerali o sia
titolare, o meno, di particolari poteri rappresentativi
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.10.2015 n. 4704 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il costo
del lavoro conta.
Per valutare un'offerta anomala.
Nella valutazione di anomalia di un'offerta la componente
del costo del lavoro va valutata con riferimento alle
tabelle ministeriali che non sono inderogabili, ma se il
valore indicato in offerta è molto distante da esse la
stazione appaltante può procedere all'esclusione.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 13.10.2015 n. 4699 sul tema della
valutazione delle offerte anomale in rapporto al costo del
lavoro. La vicenda riguardava una offerta con un costo
orario del lavoro largamente inferiore (più del 15%) a
quello determinato nelle tabelle ministeriali del settore di
riferimento.
I giudici preliminarmente hanno precisato che l'anomalia
dell'offerta non discende in via automatica ogni volta che
non si rispettano le tabelle ministeriali, richiamate
dall'art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti
pubblici. Infatti si tratta di costi medi del lavoro che
vengono definiti dal ministero del lavoro sulla base di
valori previsti dalla contrattazione collettiva; tali costi
«non costituiscono parametri inderogabili ma sono indici
del giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono
oggetto della valutazione dell'amministrazione».
In concreto, quindi, un'offerta deve essere dichiarata
anomala laddove si evidenzi uno scostamento «evidente dai
costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal
ministero del lavoro in base ai valori previsti dalla
contrattazione collettiva». Sono quindi legittime,
offerte che da essi si discostino, purché «lo scostamento
non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni
dei lavoratori, così come stabilito in sede di
contrattazione collettiva».
Ciò detto, la sentenza rammenta anche che la stazione
appaltante in ogni caso deve tenere conto di tutti quegli
aspetti particolari e di tutti quegli elementi particolari
dell'offerta che possono variare da azienda ad azienda (per
esempio, le possibili economie che ogni impresa potrebbe
conseguire).
Tornando al costo del lavoro i giudici hanno sottolineato il
fatto che essendo le tabelle ministeriali riferite agli
importi indicati nei contratti collettivi nazionali di
lavoro stipulati dai sindacati più rappresentativi, il fatto
che vengano utilizzati, nel settore pubblico, contratti
siglati da sindacati poco rappresentativi «costituisce
pertanto un'evidente anomalia del sistema» (articolo
ItaliaOggi del 23.10.2015).
---------------
MASSIMA
6.- Tutto ciò premesso, considerato che la principale
censura formulata dall’appellante GPI riguarda la ritenuta
anomalia dell’offerta del RTI SDS che aveva presentato
un’offerta economica molto inferiore all’importo della gara
e alle offerte delle altre concorrenti per aver calcolato il
costo del lavoro sulla base di un contratto sottoscritto da
sigle sindacali non rappresentative,
si
deve ricordare, in generale, che gli articoli 86 e 87 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici),
prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere
all’aggiudicazione definitiva, debba effettuare una
valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta
ritenuta migliore in presenza di determinati indicatori di
possibile anomalia dell’offerta, e possa procedere ad un
approfondimento sulla possibile anomalia anche in assenza di
tali indicatori.
L’offerta deve, infatti, risultare nel suo complesso
affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e
in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una
seria esecuzione del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.1.- In particolare, l’art. 86 del codice dei contratti
pubblici individua, nei commi 1 e 2, distinti indici, a
seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del
prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per
l’individuazione delle offerte che sono sospettate di essere
anomale (cd. indicatori automatici di anomalia). In presenza
di tali indicatori la Stazione appaltante è quindi tenuta ad
attivare una verifica sulla possibile anomalia dell’offerta.
L’art. 86, al comma 3, con una clausola generale valida per
entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione
appaltante possa procedere in ogni caso alla valutazione
della congruità di ogni altra offerta che in base ad
elementi specifici appaia anormalmente bassa.
6.2.- La scelta dell’Amministrazione di
attivare in tali casi il procedimento di verifica
dell’anomalia dell’offerta è, pertanto, ampiamente
discrezionale e può, per questo, essere sindacata davanti al
giudice amministrativo solo per manifesta illogicità o per
la presenza di rilevanti errori di fatto.
6.3.- L’esercizio di tale facoltà comporta,
pertanto, l’apertura di un subprocedimento in
contraddittorio con il concorrente che ha presentato
l’offerta ritenuta a rischio di anomalia, che può
concludersi con un giudizio di anomalia o di non anomalia
dell’offerta. Anche tale giudizio è ampiamente discrezionale
e può essere sindacato, in conseguenza, davanti al giudice
amministrativo solo per manifesta illogicità o per la
presenza di rilevanti errori di fatto.
7.- Tenuto conto del rilievo che in molti contratti ha il
costo del lavoro e tenuto conto delle esigenze di tutela dei
lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con
l’art. 1, comma 909, lettera a), della legge 27.12.2006, n.
296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori
verifichino «che il valore economico sia adeguato e
sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve
essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto
all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o
delle forniture».
7.1.- Il Ministero del Lavoro è, quindi, incaricato della
predisposizione di apposite tabelle che tengono conto dei
valori economici previsti dalla contrattazione collettiva
stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale e
assistenziale, delle differenti aree territoriali e dei
diversi settori merceologici.
In esito all’istruttoria disposta da questa Sezione, il
Ministero del Lavoro ha fornito ampi ragguagli sulle
modalità con le quali in concreto tale funzione è
esercitata.
8.- Per effetto di tale ultima disposizione il costo del
lavoro è ritenuto indice di anomalia dell’offerta quando non
risultino rispettati i livelli salariali che la normativa
vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori.
Una determinazione complessiva dei costi basata su un costo
del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati
normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per
i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di
inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del
principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di
pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che
abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da
erogare.
8.1.- La giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha
peraltro precisato che una anomalia
dell’offerta non può essere automaticamente desunta dal
mancato rispetto delle tabelle ministeriali, richiamate
dall’art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti
pubblici, considerato che i costi medi del lavoro, indicati
nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base
ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non
costituiscono parametri inderogabili ma sono indici del
giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono
oggetto della valutazione dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015).
8.2.- Si è quindi affermato che devono
considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino
in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle
tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro in base ai
valori previsti dalla contrattazione collettiva, con la
conseguenza che può ritenersi ammissibile un'offerta che da
essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e
vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così
come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
Mentre occorre, perché possa dubitarsi della congruità
dell’offerta, che la discordanza sia considerevole ed
ingiustificata
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 3329 del 03.07.2015).
8.3.- Si è ulteriormente chiarito che non
possono non essere considerati, in sede di valutazione delle
offerte, aspetti particolari ed elementi che possono variare
da azienda ad azienda. Ai fini di una valutazione sulla
congruità dell’offerta, la stazione appaltante deve,
pertanto, tenere conto anche delle possibili economie che le
diverse singole imprese possono conseguire (ed anche con
riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle
disposizioni di legge e dei contratti collettivi
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
...
17.- E’ vero che,
come si è prima ricordato, le tabelle
ministeriali,
secondo la giurisprudenza amministrativa,
costituiscono solo un parametro di riferimento nella
valutazione di una possibile anomalia dell’offerta. Ma una
possibile differenza del costo del lavoro determinato (in
concreto) nell’offerta dal costo indicato nelle tabelle
ministeriali può essere giustificata dalle diverse
particolari situazioni aziendali e territoriali e dalla
capacità organizzativa dell’impresa che possono rendere
possibile, in determinati contesti particolarmente virtuosi,
anche una riduzione dei costi del lavoro.
Come si è già in precedenza ricordato, questa Sezione ha
affermato in proposito che i costi indicati
nelle tabelle ministeriali sono costi medi, tipologici, e
non possono non essere considerati, in sede di valutazione
delle offerte, aspetti che riguardano le singole imprese
(diverse per natura, caratteristiche, agevolazioni e sgravi
fiscali ottenibili). In conseguenza, ai fini della
valutazione della migliore offerta, si può tenere conto
anche delle possibili economie che le singole imprese
possono conseguire (anche con riferimento al costo del
lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei
contratti collettivi
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1743 del 02.04.2015,
cit.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni orizzontali: legittimo l'accordo decentrato che
limita la partecipazione dei dipendenti con un'anzianità
minima.
E' legittimo l'accordo decentrato integrativo che
limita la partecipazione alle progressioni orizzontali ai
soli dipendenti che hanno acquisito almeno due anni di
servizio.
Tale criterio,
lungi dal sostituire alcunché (ma semmai ad aggiungere un
ulteriore requisito), si limita ad integrare quelli di cui
al C.C.N.L., posto che una effettiva valutazione degli
elementi ivi previsti, al fine della progressione economica,
presuppone e richiede lo svolgimento dell'attività
lavorativa per un congruo periodo di tempo.
---------------
2.- Con il secondo
motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa
applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. (art. 360, comma
1, n. 3, c.p.c.).
Lamentano che la sentenza impugnata ritenne che il criterio
dell'anzianità previsto dal c.c.n.i. ("il personale
dipendente sarà ammesso alla valutazione delle progressioni
di carriera orizzontale se in possesso di un'anzianità di
servizio di almeno due anni...") era solo aggiuntivo dei
criteri (di merito) previsti dal c.c.n.i., laddove esso
risultava esclusivo, come evincevasi dall'assenza di
espressioni quali "ad integrazione" o "a
completamento" e dal Protocollo di intesa n. 6/P del
31.03.2000 ove le parti convennero che "la prima
progressione economica ha come condizione l'aver
maturato..un'anzianità di servizio di almeno due anni alla
data del 31.12.1998", ed inoltre dalla delibera di
Giunta n. 1839/99 ove venne ritenuto "giustificato il
criterio selettivo basato sull'anzianità di servizio";
così come la circostanza che solo con il c.c.i. del
07.08.2000 le parti disciplinarono effettivamente un nuovo
sistema di valutazione permanente (con procedure selettive e
di merito).
Formulano il prescritto quesito di diritto.
Il motivo è infondato e per altro verso inammissibile.
Come osservato dalla Corte di merito, l'art. 4 del c.c.n.l.
31.03.1999 dispone tra l'altro che "le materia di
contrattazione decentrata... sono integrate dalle
seguenti... completamento ed integrazione dei criteri di
progressione economica all'interno della categoria di cui
all'art. 5, comma 2" (tra questi: esperienza acquisita,
risultati ottenuti, interventi formativi e di aggiornamento,
impegno e qualità della prestazione).
Il contratto decentrato n. 18/C del 30.12.1999 prevede per
l'anno 1999 (art. 2, comma 2, punto 2), che per le
progressioni orizzontali verrà interessato tutto il
personale che è in organico alla data del 07.12.1999, che
abbia almeno due anni di servizio alla data del 31.12.1999.
Tale criterio, lungi dal sostituire
alcunché (ma semmai ad aggiungere un ulteriore requisito),
si limita ad integrare quelli di cui al c.c.n.l., posto che
una effettiva valutazione degli elementi previsti dal citato
articolo 5 al fine della progressione economica presuppone e
richiede lo svolgimento dell'attività lavorativa per un
congruo periodo di tempo, "in altri termini una
valutazione della portata e della consistenza della clausola
prevista nell'accordo di comparto, secondo i criteri sopra
indicati, in tanto può utilmente essere realizzata in quanto
ci si possa riferire ad una certa anzianità di servizio da
valutare"
(così la sentenza impugnata).
In sostanza il c.c.n.i. si limita ad
integrare i requisiti di cui al c.c.n.l. con quello
dell'anzianità, stabilendo che in sede di prima applicazione
della nuova disciplina i criteri di cui al c.c.n.l.
necessitano altresì di un'anzianità di servizio minima.
Anche tale censura, a questo punto, risulta peraltro
difettare di interesse, posto che, non potendo il giudice
risolvere questioni meramente congetturali bensì accertare
l'esistenza o meno di diritti, i ricorrenti non specificano
in qual modo, escluso eventualmente il criterio
dell'anzianità, essi avrebbero dovuto beneficiare della
richiesta progressione di carriera.
Va da sé che gli ulteriori documenti invocati (Protocollo di
intesa n. 6/12 del 31.03.2000 e delibera di Giunta n.
1839/99, con cui venne ritenuto giustificato, in sede di
prima applicazione della disciplina, il riferimento
all'anzianità di servizio) non spostano i termini della
questione, non risultando, né i ricorrenti ciò deducono
almeno con sufficiente chiarezza, che il criterio
dell'anzianità dovesse essere l'unico criterio di
valutazione e che dunque tale doveva ritenersi, anche in
base al comportamento delle parti successivo, l'intenzione
delle parti firmatarie del c.c.n.i., il quale, peraltro,
all'art. 4 stabilisce infine che "il personale dipendente
sarà ammesso alla valutazione per le progressioni
orizzontali (che dunque permangono), se in possesso di
un'anzianità di servizio di almeno due anni" (Corte di
Cassazione, Sez.
civile lavoro,
sentenza 12.10.2015 n. 20421). |
EDILIZIA PRIVATA: L'attività
di reimpianto di un nuovo vigneto in sostituzione di quello
precedente ormai improduttivo in zona paesaggisticamente
vincolata, benché la notevole quantità del materiale
asportato possa giustificare dei dubbi circa la reale natura
dell’intervento, non abbisogna né di un titolo edilizio né
dell’autorizzazione paesaggistica.
Invero, l’art. 76 della legge regionale 27.06.1985, n.
61, dispone che non sono soggetti a concessione né ad
autorizzazione edilizia “i movimenti di terra strettamente
pertinenti all’esercizio dell’attività agricola, ai
miglioramenti fondiari di tipo agronomico e alla
coltivazione di cave o torbiere”, e l’art. 82, dodicesimo
comma, del DPR 24.07.1877, n. 616 (trasfuso nell’art.
152, lett. b, comma 1, del Dlgs. 29.10.1999, n. 490),
dispone che non è richiesta l’autorizzazione paesaggistica
“per l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comporti alterazione permanente dello stato dei luoghi per
costruzioni edilizie od altre opere civili, e sempre che si
tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto
idrogeologico del territorio”.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, tale
esenzione deve ritenersi giustificata in quanto “si tratta
infatti di modificazioni normali della forma del territorio,
inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da
frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e
produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino
uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano
frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente,
infatti, non sono oggetto di uno specifico valore
espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne
sono elementi identificativi (come invece vuole la legge
stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si
incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà
proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di
una disincentivazione della pratica agricola, con effetti
negativi paradossali sulla buona manutenzione del
territorio”.
Per completezza va soggiunto che anche la legislazione
successiva ha confermato la non assoggettabilità di
interventi di questo tipo al previo rilascio di un titolo
edilizio (cfr. l’art. 6, comma 1, lett. d, del DPR 06.06.2001, n. 380, che definisce attività edilizia libera “i
movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio
dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali”)
e paesaggistico (l’art. 149, comma 1, lett. b, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, afferma che non è necessaria
l’autorizzazione paesaggistica per “gli interventi inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie ed altre opere civili”).
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1265 e n. 11621
prot. del Dirigente del Settore Uffici Tecnici ed Edilizia
Privata del Comune di Negrar, resa in data 07/10/1998, a
mezzo della quale si ordina ai ricorrenti "la rimessione
in pristino della stato dei luoghi" in relazione ad
opere di spianamento di terreno eseguite in assenza della
concessione-autorizzazione edilizia.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure, di
carattere assorbente, di cui al secondo e quarto motivo.
Infatti dalla documentazione versata in atti e in
particolare dalle fotografie che rappresentano lo stato dei
luoghi prima e durante i lavori, nonché successivamente al
ripristino del vigneto, emerge che, benché la notevole
quantità del materiale asportato potesse giustificare dei
dubbi circa la reale natura dell’intervento, in epoca
immediatamente successiva l’affittuario odierno ricorrente
ha provveduto al reimpianto di un nuovo vigneto in
sostituzione di quello precedente ormai improduttivo, e che
proprio tale circostanza ha comportato la sua assoluzione in
sede penale sia sotto il profilo edilizio, che sotto quello
paesaggistico, disposte con sentenze del Tribunale di Verona
07.02.2001, n. 244, e della Cassazione penale 13.02.2002, n. 16266.
Orbene, ferma restando la fondatezza del rilievo sollevato
dal Comune nelle proprie difese circa l’insussistenza dei
presupposti per ritenere vincolante nel presente giudizio
l’accertamento compiuto in sede penale in difetto delle
condizioni di cui all’art. 654 c.p.p., nondimeno emerge che
il Comune ha erroneamente qualificato gli interventi dal
punto di vista edilizio e paesaggistico ritenendoli
eseguibili solo previa acquisizione di un titolo edilizio e
dell’autorizzazione paesaggistica, atteso che non solo il
ricorrente ha effettivamente proceduto al reimpianto del
vitigno, ma per effettuarlo si era munito
dell’autorizzazione dell’Ispettorato regionale per
l’agricoltura in concomitanza ben prima dell’adozione del
provvedimento impugnato (cfr. doc. 6 allegato al ricorso).
Ne consegue che l’intervento avrebbe dovuto essere
qualificato come movimento di terra pertinente all’attività
agricola, che non ha comportato un’alterazione permanente
allo stato dei luoghi, come tale non soggetto né al previo
rilascio di un titolo abilitativo sia sotto il profilo
edilizio, che paesaggistico.
Infatti l’art. 76 della legge regionale 27.06.1985, n.
61, dispone che non sono soggetti a concessione né ad
autorizzazione edilizia “i movimenti di terra strettamente
pertinenti all’esercizio dell’attività agricola, ai
miglioramenti fondiari di tipo agronomico e alla
coltivazione di cave o torbiere”, e l’art. 82, dodicesimo
comma, del DPR 24.07.1877, n. 616 (trasfuso nell’art.
152, lett. b, comma 1, del Dlgs. 29.10.1999, n. 490),
dispone che non è richiesta l’autorizzazione paesaggistica
“per l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comporti alterazione permanente dello stato dei luoghi per
costruzioni edilizie od altre opere civili, e sempre che si
tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto
idrogeologico del territorio”.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, tale
esenzione deve ritenersi giustificata in quanto “si tratta
infatti di modificazioni normali della forma del territorio,
inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da
frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e
produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino
uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano
frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente,
infatti, non sono oggetto di uno specifico valore
espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne
sono elementi identificativi (come invece vuole la legge
stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si
incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà
proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di
una disincentivazione della pratica agricola, con effetti
negativi paradossali sulla buona manutenzione del
territorio” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.02.2015, n. 6890; id. 27.01.2015, n. 6738).
Per completezza va soggiunto che anche la legislazione
successiva ha confermato la non assoggettabilità di
interventi di questo tipo al previo rilascio di un titolo
edilizio (cfr. l’art. 6, comma 1, lett. d, del DPR 06.06.2001, n. 380, che definisce attività edilizia libera “i
movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio
dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali”)
e paesaggistico (l’art. 149, comma 1, lett. b, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, afferma che non è necessaria
l’autorizzazione paesaggistica per “gli interventi inerenti
l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie ed altre opere civili”) (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 12.10.2015 n. 1043 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Deve infatti considerarsi frutto di una lettura
distorta delle norme sull’accesso un diniego formulato con
riferimento alla circostanza che il controinteressato ha
manifestato la propria opposizione, come se la definizione
della possibilità di accedere agli atti fosse rimessa alla
sua disponibilità, quando ormai è un principio pacifico che
il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui
all'art. 22, legge 07.08.1990, n. 241, trova applicazione in
ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione e,
essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità,
può essere escluso soltanto nei casi previsti dalla legge.
L’Amministrazione pertanto non può sottrarsi dall’accertare
essa stessa direttamente se vi sia o meno in capo a tale
soggetto la titolarità di un diritto alla riservatezza sui
dati racchiusi nello stesso documento, dato che in materia
di accesso la veste di controinteressato è una proiezione
del valore della riservatezza, e non già della mera
oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo
soggetto.
---------------
L’assunto contenuto negli atti di opposizione dei
controinteressati circa la mancanza di un interesse
specifico, concreto ed attuale e di una situazione
giuridicamente rilevante collegata ai documenti richiesti,
non può essere condiviso.
Infatti la domanda di accesso risulta sufficientemente
motivata da parte del ricorrente che sul modulo fornito dal
Comune ha sbarrato la casella “controversia”, specificando
altresì che, nonostante l’istanza di condono avesse ad
oggetto parti comuni del condominio, è stata accolta senza
acquisire il consenso di tutti i condomini.
In base a tali elementi è possibile affermare che la domanda
di accesso è adeguatamente motivata con riferimento alla
necessità di difendere gli interessi giuridici dell’istante,
e pertanto non può essere legittimamente respinta, dato che,
come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il
diritto di accesso prevale anche sull'esigenza di
riservatezza di terzi quando sia esercitato per consentire
la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente
protetti e concerna documenti amministrativi indispensabile
a tali fini.
... per l'annullamento del provvedimento prot. 6229 del
30.03.2015 del Comune di Cavallino-Treporti con il quale è
stata respinta l'istanza di accesso ai documenti presentata
dal ricorrente con riferimento alle pratiche di condono
edilizio presentate nel 1986 dai controinteressati Za.Li. e
La.Ma.Ga., e contestuale richiesta di ordinare
all’Amministrazione di provvedere all’esibizione e
successiva estrazione di copia del documento.
...
Il ricorrente è usufruttario di un appartamento ricompreso
in un edificio condominale sito nel Comune di Cavallino
Treporti per il quale, in data 28.04.2008, ha chiesto il
rilascio di un permesso di costruire per ristrutturare
l’appartamento realizzando una terrazza a vasca sul tetto
del fabbricato ed altre opere interne.
Il Comune di Cavallino Treporti, dopo aver concesso una
variante in corso d’opera e una proroga per l’ultimazione
dei lavori, previa comunicazione di avvio del procedimento
ha disposto la revoca del permesso di costruire ordinando
contestualmente la rimessione in pristino.
L’Amministrazione ha contestato difformità tra il progetto
originario, assentito nel 1962, e quanto effettivamente
costruito, ritenendo che sia stato realizzato un immobile di
dimensioni maggiori.
Tale provvedimento è stato impugnato avanti al Tar Veneto
con ricorso r.g. n. 1775 del 2014, tutt’ora pendente.
Il ricorrente, che dopo aver svolto approfondite ricerche
negli archivi del Comune di Venezia di cui la frazione di
Cavallino Treporti faceva parte prima di divenire un Comune
autonomo, non ha acquisito elementi utili a chiarire tutti
gli aspetti della vicenda, ed ha quindi presentato una
domanda di accesso avente ad oggetto due istanze di
sanatoria edilizia presentate nel 1986 da due dei condomini,
al fine di acquisire ulteriori elementi circa lo stato di
fatto dell’immobile e l’effettiva consistenza di quanto
legittimamente assentito.
Con provvedimento del 30.03.2015, il Comune ha respinto la
domanda di accesso motivando il diniego con riferimento
all’opposizione espressa dai controinteressati.
L’opposizione, allegata al diniego, è motivata con
riferimento alla mancanza di un interesse specifico,
concreto ed attuale e di una situazione giuridicamente
rilevante collegata ai documenti richiesti.
Con il ricorso in epigrafe il diniego di accesso è impugnato
per le censure di violazione dell’art. 24 della legge
07.08.1990, n. 241, difetto di motivazione, violazione dei
principi di trasparenza, ragionevolezza ed imparzialità.
Il Comune e i controinteressati non si sono costituiti in
giudizio.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Deve infatti considerarsi frutto di una lettura distorta
delle norme sull’accesso un diniego formulato con
riferimento alla circostanza che il controinteressato ha
manifestato la propria opposizione, come se la definizione
della possibilità di accedere agli atti fosse rimessa alla
sua disponibilità, quando ormai è un principio pacifico che
il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui
all'art. 22, legge 07.08.1990, n. 241, trova applicazione in
ogni tipologia di attività della pubblica amministrazione e,
essendo posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità,
può essere escluso soltanto nei casi previsti dalla legge.
L’Amministrazione pertanto non può sottrarsi dall’accertare
essa stessa direttamente se vi sia o meno in capo a tale
soggetto la titolarità di un diritto alla riservatezza sui
dati racchiusi nello stesso documento, dato che in materia
di accesso la veste di controinteressato è una proiezione
del valore della riservatezza, e non già della mera
oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo
soggetto (cfr. Tar Puglia, Lecce, Sez. II, 29.04.2015, n.
1419; Tar Veneto, Sez. III, 18.03.2013, n. 390; Tar Trentino
Alto Adige, Bolzano, sez. I, 08.02.2012, n. 47; Consiglio di
Stato, Sez. V, 27.05.2011, n. 3190).
Inoltre l’assunto contenuto negli atti di opposizione dei
controinteressati circa la mancanza di un interesse
specifico, concreto ed attuale e di una situazione
giuridicamente rilevante collegata ai documenti richiesti,
non può essere condiviso.
Infatti la domanda di accesso risulta sufficientemente
motivata da parte del ricorrente che sul modulo fornito dal
Comune ha sbarrato la casella “controversia”,
specificando altresì che, nonostante l’istanza di condono
avesse ad oggetto parti comuni del condominio, è stata
accolta senza acquisire il consenso di tutti i condomini.
In base a tali elementi è possibile affermare che la domanda
di accesso è adeguatamente motivata con riferimento alla
necessità di difendere gli interessi giuridici dell’istante,
e pertanto non può essere legittimamente respinta, dato che,
come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il
diritto di accesso prevale anche sull'esigenza di
riservatezza di terzi quando sia esercitato per consentire
la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente
protetti e concerna documenti amministrativi indispensabile
a tali fini (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.09.2012,
n. 5047; Consiglio di Stato, Sez. V, 07.04.2004 n. 1969;
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 07.02.1997 n. 5).
In definitiva il ricorso deve essere accolto e va
conseguentemente ordinato al Comune di Cavallino Treporti di
consentire l’accesso agli atti oggetto dell’istanza mediante
estrazione di copia degli stessi entro 30 giorni dalla
comunicazione, ovvero notificazione se anteriore, della
presente sentenza
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 12.10.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
vero che il sistema delineato
dall'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel rafforzare
la tutela di affidamento del privato che abbia presentato
una dia o una scia, ha previsto la tassatività dei casi in
cui alla Amministrazione é consentito di intervenire dopo la
scadenza dei termini di cui al comma 3 e comma 6-bis, nel
senso che fuori dalle situazioni individuate al comma 3
(falsità nelle dichiarazioni) ed al comma 4 (pericolo di
danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente e la salute, per la sicurezza pubblica e la
difesa nazionale), le Amministrazioni non possono
intervenire; tuttavia il comma 6-ter, nel porre un obbligo
all’amministrazione di provvedere su istanza del privato, ha
previsto una fattispecie autonoma e diversa dal potere
ufficioso previsto dai menzionati commi 3 e 4.
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo
una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla
luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della
Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile,
rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità
ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe
imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività
intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti
taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi
interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della
propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica
risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa
riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e
qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o
l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i
limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.
Sicché, il provvedimento comunale di archiviazione del
procedimento di verifica (di terzi) deve essere annullato,
ed a tale annullamento consegue l’obbligo in capo
all’Amministrazione di completare sollecitamente il
procedimento di verifica accertando analiticamente la
fondatezza o meno dei singoli rilievi proposti ed adottando
i conseguenti provvedimenti che, in caso di riscontro delle
illegittimità segnalate hanno carattere doveroso e non
soggiacciono ai limiti previsti per le attività di verifica
attivate d’ufficio dall’Amministrazione quando, come nel
caso di specie, siano avviati su segnalazione del terzo leso
nella propria posizione qualificata e differenziata.
Il secondo motivo, con il quale il ricorrente lamenta
l’illegittimità del provvedimento di archiviazione, è invece
fondato e deve essere accolto.
Il Comune di Cortina d’Ampezzo ha disposto l’archiviazione
del procedimento di verifica della legittimità delle denunce
di inizio attività ritenendo di per sé ostativa, e quindi
senza svolgere un approfondimento istruttorio sui singoli
rilievi sollevati nelle richieste di verifica, la norma di
cui all’art. 19, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241,
nel testo allora vigente.
Secondo il Comune anche a seguito della richiesta di
verifica da parte di un terzo non è possibile procedere al
divieto di prosecuzione dell’attività se non vi siano
lesioni agli specifici interessi sensibili menzionati
dall’art. 19, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241.
Tale norma ammette il divieto di prosecuzione dell’attività
“solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio
artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o la difesa nazionale”, che nel caso di
specie non ricorrono.
La tesi non è condivisibile.
La giurisprudenza, alla quale il Collegio aderisce (cfr. Tar
Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; Tar Campania,
Napoli, Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 21.11.2014, n. 4799), ha infatti
chiarito che è vero che il sistema delineato dal citato art.
19 della legge 07.08.1990, n. 241, nel rafforzare la
tutela di affidamento del privato che abbia presentato una
dia o una scia, ha previsto la tassatività dei casi in cui
alla Amministrazione é consentito di intervenire dopo la
scadenza dei termini di cui al comma 3 e comma 6-bis, nel
senso che fuori dalle situazioni individuate al comma 3
(falsità nelle dichiarazioni) ed al comma 4 (pericolo di
danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente e la salute, per la sicurezza pubblica e la
difesa nazionale), le Amministrazioni non possono
intervenire; tuttavia il comma 6-ter, nel porre un obbligo
all’amministrazione di provvedere su istanza del privato, ha
previsto una fattispecie autonoma e diversa dal potere
ufficioso previsto dai menzionati commi 3 e 4.
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo
una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla
luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della
Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile,
rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità
ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe
imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività
intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti
taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi
interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della
propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica
risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa
riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e
qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o
l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i
limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.
In definitiva, in accoglimento delle censure del secondo
motivo, il provvedimento di archiviazione del procedimento
di verifica deve essere annullato, ed a tale annullamento
consegue l’obbligo in capo all’Amministrazione di completare
sollecitamente il procedimento di verifica accertando
analiticamente la fondatezza o meno dei singoli rilievi
proposti ed adottando i conseguenti provvedimenti che, in
caso di riscontro delle illegittimità segnalate, come sopra
precisato, hanno carattere doveroso e non soggiacciono ai
limiti previsti per le attività di verifica attivate
d’ufficio dall’Amministrazione quando, come nel caso di
specie, siano avviati su segnalazione del terzo leso nella
propria posizione qualificata e differenziata
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 12.10.2015 n. 1039 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Superstrade, enti esautorati.
Tar: sui controlli decide la Polstrada.
Sulle superstrade spetta solo alla Polstrada posizionare i
controllori automatici della velocità in sede fissa e al
prefetto sovrintendere a questo tipo di attività. Il comune
infatti deve limitarsi al controllo dei centri abitati e non
può prescindere dal confronto con il rappresentante
governativo per iniziative di questo tipo.
Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la
sentenza 12.10.2015 n. 873.
La vicenda degli autovelox posizionati sulla superstrada E45
Terni-Ravenna dai comuni confinanti con l'importante e
malandata arteria di traffico è salita spesso agli onori
della cronaca a causa dell'eccessiva pressione
sanzionatoria.
Nel caso sottoposto all'esame del collegio il comune di
Sant'Agata Feltria, dopo aver ottenuto dall'Anas la
concessione per l'installazione di un autovelox fisso sulla
superstrada E45, lamenta la successiva revoca dell'atto a
seguito dell'intervento del compartimento di polizia
stradale di Bagno di Romagna.
A parere dei giudici amministrativi anche se si tratta di
una strada extraurbana principale (esentata dal dl 121/2002
dall'obbligo di preventivo decreto del prefetto per
l'attivazione dei controlli automatici della velocità), il
prefetto resta il coordinatore delle attività sanzionatorie
dei vigili urbani.
In pratica non è di competenza del sindaco disporre
controlli automatici su una strada statale senza un
preventivo confronto con il rappresentante governativo.
Anche se il tratto di strada in questione non richiede
espressamente un provvedimento ad hoc della
prefettura. Nel caso sottoposto all'esame del collegio poi è
evidente che la superstrada interessa solo marginalmente il
piccolo comune romagnolo e che l'installazione di una
postazione autovelox in questo caso ha mere finalità di
cassa più che evidenti fini di prevenzione e sicurezza.
Nonostante la classificazione formale del manufatto stradale
consenta, apparentemente, di definire la strada come
extraurbana principale di fatto, conclude la sentenza, la
superstrada Terni-Ravenna è assimilabile ad una classica
strada locale di tipo C dove l'installazione dei misuratori
di velocità automatici è sempre subordinata ad un decreto
del prefetto
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015). |
APPALTI:
Gara,
prevale il bando.
Se in contrasto con disciplinare e capitolato.
In un appalto pubblico, in caso di contrasto fra bando,
disciplinare di gara e capitolato speciale, prevale il
contenuto del bando di gara.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 09.10.2015 n. 4684 che si pronuncia in
merito ad una non infrequente fattispecie relativa ai
contrasti fra le clausole del bando, disciplinare di gara e
capitolato speciale di un appalto pubblico.
Nel caso specifico, la sentenza premette che il bando, il
disciplinare di gara e il capitolato speciale d'appalto
hanno ciascuno una propria autonomia ed una propria
peculiare funzione nell'economia della procedura. Infatti:
il primo fissa le regole della gara, il secondo disciplina
in particolare il procedimento di gara e il terzo integra
eventualmente le disposizioni del bando, con particolare
riferimento agli aspetti tecnici e anche in funzione del
vincolo contrattuale derivante dalla stipula del contratto.
Ciò detto, la sentenza afferma che nella loro diversità «tutti
questi elementi insieme costituiscono la lex specialis della
gara» e rivestono, con le loro disposizioni, carattere
vincolante non solo nei confronti dei concorrenti ma anche
dell'amministrazione appaltante, in attuazione del principio
costituzionale di buon andamento dell'azione amministrativa.
Per quel che riguarda il problema della difformità e dei
contrasti fra bando, disciplinare e capitolato speciale la
sentenza chiarisce che, per quanto attiene agli eventuali
contrasti interni tra le singole disposizioni della lex
specialis, una possibile soluzione di tali contrasti va
affrontata tenendo conto che fra i tre diversi atti sussiste
«una
gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del
bando di gara»; le
disposizioni del capitolato speciale (e del disciplinare di
gara) possono quindi soltanto integrare, ma non modificare
le clausole del bando di gara.
A integrazione di quanto afferma la sentenza, va anche
richiamato il parere Avcp, oggi Anac, n. 14 del 28.01.2010
in cui si precisò che in ogni caso «la difformità fra il
bando e il disciplinare di gara impone comunque una lettura
che tuteli la massima partecipazione dei concorrenti»
(articolo ItaliaOggi del 16.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
5.1.2. Sotto altro profilo deve rammentarsi che,
benché il bando, il disciplinare di gara e il
capitolato speciale d’appalto, abbiano ciascuno una propria
autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia
della procedura, il primo fissando le regole della
gara, il secondo disciplinando in particolare il
procedimento di gara ed il terzo integrando
eventualmente le disposizioni del bando
(con particolare riferimento –di norma– agli aspetti tecnici
anche in funzione dell’assumendo vincolo contrattuale, Cons.
Stato, sez. V, 10.11.2005, n. 6286), tutti
insieme costituiscono la lex specialis della gara
(Cons. Stato, sez. VI, 15.12.2014, n. 6154; sez. V,
05.09.2011, n. 4981; 25.05.2010, n. 3311; 12.12.2009, n.
7792), in tal modo sottolineandosi il
carattere vincolante che quelle disposizioni assumono non
solo nei confronti dei concorrenti, ma anche
dell’amministrazione appaltante, in attuazione dei principi
costituzionali fissati dall’art. 97.
Quanto agli eventuali contrasti (interni)
tra le singole disposizioni della lex specialis ed
alla loro risoluzione, è stato osservato che tra i ricordati
atti sussiste nondimeno una gerarchia differenziata con
prevalenza del contenuto del bando di gara
(Cons. Stato, sez. V, 17.10.2012, n. 5297; 23.06.2010, n.
3963), laddove le disposizioni del
capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non
modificare le prime
(Cons. Stato, sez. III, 29.04.2015, n. 2186; 11.07.2013, n.
3735; sez. V, 24.01.2013, n. 439).
5.1.3. L’interpretazione della lex
specialis soggiace, come per tutti gli atti
amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti
dagli articoli 1362 e ss., tra le quali assume carattere
preminente quella collegata all’interpretazione letterale,
in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo,
fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni
caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione
ed il potere concretamente esercitato sulla base del
contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione
sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del
provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di
buona fede, ex 1366 c.c., devono essere individuati solo in
base di ciò che il destinatario può ragionevolmente
intendere (Cons.
Stato, sez. III, 02.09.2013, n. 4364; sez. V, 27.03.2013, n.
1769). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso
avverso l’ordinanza di demolizione proposto successivamente
alla presentazione dell’istanza di permesso a costruire in
sanatoria.
In materia edilizia, la presentazione
dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985
n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380),
anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza
di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle
altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di
rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa,
per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la
perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame
dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne
la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
---------------
In pendenza del procedimento volto alla verifica della
sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può
adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti
sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente
pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante
accertamento di conformità urbanistica).
Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta
all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in
pendenza del predetto procedimento amministrativo (di
accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata
inammissibile.
--------------
È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un
procedimento di diniego, avendo esso carattere
endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di
recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente.
---------------
- Rilevato che
nell’atto introduttivo del giudizio, notificato
all’Amministrazione resistente in data 10.07.2015, i
ricorrenti impugnavano l’ordinanza di demolizione
specificata in epigrafe, avverso la quale articolavano
censure di violazione di legge (art. 97 Cost. e 7 l.
47/1985, d.l.vo 42/2004, 20 d.P.R. 380/2001, 3 l. 241/1990),
nonché d’eccesso di potere, sotto plurime figure
sintomatiche, facendo altresì presente che, in data
07.07.2015, prot. 21845, la ricorrente Di Do.Cl., anche
nell’epigrafata qualità, aveva richiesto al Comune di
Pontecagnano Faiano permesso di costruire in sanatoria,
corredato della già rilasciata autorizzazione paesaggistica,
n. 112/2012 del 12.07.2012; nonché impugnavano –nei sensi di
cui in epigrafe– il verbale di sequestro preventivo,
dell’11.05.2015;
- Rilevato che si costituiva in giudizio il Comune di
Pontecagnano Faiano, concludendo per il rigetto del gravame,
perché infondato, nonché rappresentando che –quanto alla
sanatoria richiesta in data 07.07.2015– erano stati
comunicati ai ricorrenti, con atto prot. 29169
dell’11.09.2015, i motivi ostativi all’accoglimento della
medesima;
- Rilevato che, all’udienza in camera di consiglio del
23.09.2015, il ricorso era trattenuto in decisione;
- Rilevato che lo stesso può essere deciso con sentenza
breve, perché è chiaramente inammissibile, per carenza
originaria d’interesse ad agire, quanto all’impugnativa
dell’ordinanza di demolizione di cui sopra, laddove –quanto
all’impugnativa, per quanto tuzioristica, del verbale di
sequestro preventivo, redatto dal Comando di Polizia
Municipale di Pontecagnano Faiano, in data 11.05.2015–
inammissibile, per difetto di giurisdizione;
- Rilevato, in particolare, che tale conclusione, quanto
all’ordinanza di demolizione, discende dall’applicazione del
consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa,
espresso, da ultimo, nella massima seguente: “In materia
edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria
edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R.
06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del
provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi
edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile
l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto
dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale
ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure
al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell’impugnativa” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II,
02/02/2015, n. 325);
- Rilevato che tale conclusione non può essere revocata in
dubbio, sol perché il Comune di Pontecagnano Faiano ha
comunicato ai ricorrenti, ex art. 10-bis della l. 241/1990,
le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza di p. di
c. in sanatoria, atteso che trattasi d’atto
endoprocedimentale non lesivo, inidoneo, come tale, a far
cessare la pendenza della domanda in questione (cfr. le
ulteriori massime che seguono: “In pendenza del
procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera
abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque
porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori,
dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità
dell’opera (mediante accertamento di conformità
urbanistica). Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta
all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in
pendenza del predetto procedimento amministrativo (di
accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata
inammissibile” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II,
06/03/2015, n. 632); “È inammissibile l’impugnazione di
un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso
carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto
insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al
ricorrente” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 07/07/2006,
n. 1735);
- Rilevato altresì –quanto al verbale di sequestro
preventivo di cui sopra– che la relativa impugnazione, sia
pur dichiaratamente tuzioristica (“per quanto possa
occorrere”) è, in ogni caso, inammissibile per difetto
di giurisdizione del G.A. (“La cognizione del verbale di
sequestro preventivo non rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo, essendo la stessa demandata a quella
del giudice penale, per cui, limitatamente, al medesimo, il
ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo” – TAR Lazio–Roma, Sez. I,
11/01/2013, n. 253), spettando la giurisdizione in materia
al G.O. penale, innanzi al quale la causa potrà essere
riassunta nel termine di cui all’art. 11 c.p.a.
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.10.2015 n. 2188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
L'esclusione dall'applicazione della disciplina
sui rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla
prova positiva, gravante sull'imputato, della loro
riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente
compatibile, mentre compete al pubblico ministero fornire la
prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero
dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore
ai massimi consentiti.
---------------
1. I sigg.ri Ma.Cu. e Ca.Sg. ricorrono, con separati atti,
per l'annullamento della sentenza del 27/03/2014 della Corte
di appello di Genova che ha confermato la condanna alla pena
di sei mesi di arresto ed € 5.000,00 di ammenda loro
inflitta il 18/03/2013 dal Tribunale di Sanremo per il reato
di cui all'art. 259, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152,
perché, quale amministratore unico e legale rappresentante
della società «SP. CO. S.r.l.» lo Sg., di dipendente della
società il Cu., avevano introdotto nel territorio dello
Stato, un carico di rifiuti speciali pericolosi (terre e
rocce da scavo contenenti arsenico oltre i limiti
consentiti) trasportati a bordo di un autocarro di proprietà
della società, condotto dal Cu., e destinati a smaltimento
in assenza di formulario di identificazione, della
prescritta autorizzazione e notifica alle autorità
competenti, dell'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori
ambientali.
In tal modo effettuavano una spedizione transfrontaliera di
rifiuti costituenti traffico illecito. Fatto indicato come
commesso in Ventimiglia il 12/03/2010.
2. Con unico motivo di ricorso il Cu. eccepisce, ai sensi
dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., l'omessa
motivazione circa il primo motivo di appello con il quale
aveva contestato la natura di rifiuto del materiale
rinvenuto sull'autocarro da lui condotto che, deduce, era
destinato a dei lavori di ristrutturazione in corso presso
l'abitazione dello Sg. e comunque l'assenza di
consapevolezza di tale natura, essendo convinto, appunto,
che il materiale avesse tale destinazione.
...
4. E' fondato il solo primo motivo di ricorso dello Sg..;
sono palesemente infondati l'altro motivo e il ricorso del
Cu..
5. Come già ampiamente spiegato dai Giudici della fase di
merito, all'epoca del fatto il riutilizzo,
quali sottoprodotti, delle terre e rocce da scavo doveva
avvenire esclusivamente in base alle condizioni e secondo le
procedure descritte dall'art. 186, d.lgs. n. 152 del 2006,
in assenza delle quali esse erano (e ancor oggi sono,
ancorché in base a diversa disciplina) senz'altro sottoposte
alle disposizioni in materia di rifiuti.
Fermo restando che la presenza di arsenico in misura
superiore ai limiti consentiti esclude il riutilizzo come
sottoprodotti delle rocce e terre da scavo (il che già di
per sé costituisce profilo assorbente che rende superfluo
l'esame del ricorso), va in ogni caso ribadito -per restare
nell'alveo dell'eccezione sollevata dal Cu.- che, secondo
quanto costantemente insegnato da questa Corte Suprema,
l'esclusione dall'applicazione della disciplina sui
rifiuti per le terre e rocce da scavo è subordinata alla
prova positiva, gravante sull'imputato, della loro
riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente
compatibile, mentre compete al pubblico ministero fornire la
prova della circostanza d'esclusione della deroga, ovvero
dell'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore
ai massimi consentiti
(Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087;
cfr. anche Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv.
241504; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone, Rv.
244784).
Non è perciò sufficiente la generica
deduzione difensiva della destinazione delle rocce alla
realizzazione di un'opera privata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.10.2015 n. 40252). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico
dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché
quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al
provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua
esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente
concorso alla perpetrazione dell’illecito.
Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi
edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la
piena ed esclusiva disponibilità, non implica
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi
confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo
a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste
il bene.
2. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua
della motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo è stata dedotta la violazione
dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, posto che il ricorrente
non sarebbe il “soggetto giuridicamente responsabile”
dei pretesi abusi edilizi, in quanto tale responsabilità
andrebbe ricondotta alla società Mu.Ri. S.r.l., intestataria
del permesso di costruire n. 146/2008, per effetto di
voltura disposta dal Comune resistente in data 03.07.2009.
2.2. La doglianza è infondata.
Invero, dagli atti di causa risulta che il ricorrente è
proprietario della superficie su cui insiste la parte
dell’immobile ritenuta abusiva, mentre la Mu.Ri. s.r.l. è
meramente comodataria di tale area. Orbene, l’ordine di
demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico
dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché
quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al
provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua
esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente
concorso alla perpetrazione dell’illecito. Ne consegue che
l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi
sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva
disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei
luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del
provvedimento repressivo a costituire titolo per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di
sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR Campania, sez.
VIII, 26.04.2013, n. 2180; TAR Lazio, Latina, 01.09.2008, n.
1026; TAR Campania, sez. II, 19.10.2006, n. 8673)
(TAR Basilicata,
sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Determinate zone del territorio comunale possono
essere assoggettate a vincolo di “rispetto”, in relazione a
quanto previsto per altre aree limitrofe.
In altri termini, mediante tali vincoli viene disciplinato
l’uso di quella parte del territorio comunale che si colloca
nella prossimità di altra parte del territorio che deve
essere “rispettata” per le sue caratteristiche naturali o
per la destinazione che ad essa è stata data in sede di
pianificazione.
---------------
La destinazione di un fondo a “sede stradale”, come già
affermato in giurisprudenza, è da qualificare come vincolo a
carattere espropriativo, soggetto pertanto al termine di
decadenza quinquennale previsto dalla legge.
Ebbene, un condivisibile orientamento, dal quale il Collegio
non ravvisa ragioni per discostarsi, ha affermato che la
scadenza del vincolo principale di destinazione a strada
pubblica, per l’inutile decorso del termine quinquennale
previsto dall’art. 2 della L. n. 1187/1968, comporta
l’automatica perdita di efficacia del connesso ed accessorio
vincolo di rispetto infrastrutturale, atteso che il regime
di inedificabilità imposto da quest’ultimo, allo scopo di
garantire la sicurezza della circolazione stradale, è
funzionalmente servente in rapporto al primo.
3. Col secondo articolato motivo, il ricorrente ha, tra
l’altro, sostenuto che la collocazione di parte
dell’immobile “a distanza dalla strada di p.r.g.
inferiore ai prescritti mt. 5.00” non avrebbe “alcun
rilievo giuridico”, non potendo così determinare
l’abusività della contestata porzione del fabbricato. In
particolare, la strada in relazione alla quale il Comune
assumerebbe la violazione della c.d. fascia di rispetto,
ancorché prevista dallo strumento urbanistico del Comune di
Melfi, non sarebbe mai stata realizzata, sicché
sussisterebbe la violazione dell’art. 2 della legge n.
1187/1968 e dell’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001.
3.1. La censura coglie nel segno.
Occorre considerare che, ai sensi del quadro normativo di
riferimento, determinate zone del territorio comunale
possono essere assoggettate a vincolo di “rispetto”,
in relazione a quanto previsto per altre aree limitrofe. In
altri termini, mediante tali vincoli viene disciplinato
l’uso di quella parte del territorio comunale che si colloca
nella prossimità di altra parte del territorio che deve
essere “rispettata” per le sue caratteristiche
naturali o per la destinazione che ad essa è stata data in
sede di pianificazione.
Nel caso di specie, lo strumento urbanistico comunale ha
appunto previsto una fascia di rispetto per la realizzazione
di una nuova strada, di estensione pari ad almeno 5 metri
dal ciglio di quest’ultima.
3.2. In proposito, risulta dagli atti della produzione del
ricorrente, e tale fatto non è stato in alcun modo
contestato dalla difesa del Comune intimato, che la strada
in questione, benché prevista dal predetto p.r.g., non è mai
stata effettivamente realizzata.
Ora, la destinazione di un fondo a “sede stradale”,
come già affermato in giurisprudenza, è da qualificare come
vincolo a carattere espropriativo, soggetto pertanto al
termine di decadenza quinquennale previsto dalla legge (cfr.
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 08.09.2011, n. 2184; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 29.03.2012, n. 570; TAR Campania,
sez. II, 25.09.2007, n. 8352).
Nel caso di specie, il ricorrente ha sostenuto che “lo
strumento urbanistico generale del Comune di Melfi a cui fa
riferimento il provvedimento impugnato, e precisamente la
variante generale al p.r.g., è stato approvato dalla Regione
Basilicata con delibere G.R. n. 630 del 10.02.1992 e n. 3600
del 1.6.1992 e con D.P.G.R. n. 113 del 11.02.1992, integrato
con D.P.G.R. n. 469 del 24.05.1993”.
Tali fatti non sono stati contestati, neppure genericamente,
dal Comune intimato, derivandone così gli effetti probatori
di cui all’art. 64, n. 2, cod. proc. amm.. Da ciò consegue
che il vincolo di cui trattasi è decaduto al più tardi
nell’anno 1998, quindi anteriormente al rilascio dei
richiamati titoli edilizi.
Ebbene, un condivisibile orientamento, dal quale il Collegio
non ravvisa ragioni per discostarsi, ha affermato che la
scadenza del vincolo principale di destinazione a strada
pubblica, per l’inutile decorso del termine quinquennale
previsto dall’art. 2 della L. n. 1187/1968, comporta
l’automatica perdita di efficacia del connesso ed accessorio
vincolo di rispetto infrastrutturale, atteso che il regime
di inedificabilità imposto da quest’ultimo, allo scopo di
garantire la sicurezza della circolazione stradale, è
funzionalmente servente in rapporto al primo (cfr., in
termini, TAR Campania, sez. II, 25.09.2007, n. 8352; nello
stesso senso, TAR Campania, sez. II, 16.03.2012, n. 1316;
id. sez. II, 23.06.2009, n. 3448; C.d.S., sezione V,
09.12.1996, n. 1486)
(TAR Basilicata,
sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Urbanistica. "Esistenza" delle opere di urbanizzazione.
In virtù del combinato disposto degli
artt. 31 e 41-quinquies, ultimo comma, della L. n. 1150 del
1942, l'espressione "esistenza" delle opere di
urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della
necessità o meno della previa redazione di un piano di
lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo
prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere
intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni
collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità
del grado di urbanizzazione di un'area non può che essere
effettuata alla stregua della normativa sugli "standards"
urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444
del 1968 e dell'art. 17 della L. n. 765 del 1967.
Ne discende che l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e
stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si
riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria almeno nelle quantità minime prescritte.
A ciò si aggiunga quanto disposto dall'art. 12 del T.U.
Edilizia, in forza del quale il permesso di costruire è
comunque subordinato alla esistenza delle opere di
urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del
Comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio,
ovvero all'impegno degli interessati di procedere
all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla
realizzazione dell' intervento oggetto del permesso.
---------------
4.2. Osserva il Collegio,
in relazione a tale profilo di doglianza, come non possa
ritenersi sussistere il denunciato vizio di violazione di
legge.
Ed invero, le argomentazioni del tribunale sono complete,
logiche e coerenti; il tribunale procede analiticamente a
confutare le doglianze difensive, illustrando gli elementi
posti a base del giudizio di illegittimità dell'operato
dell'Amministrazione comunale nella decisione di rilasciare
il permesso di costruire; il parametro di valutazione, sul
punto, è quello fornito dalle Sezioni Unite Borgia che,
com'è noto, hanno escluso che, sussistendo difformità
dell'opera edilizia rispetto agli strumenti normativi
urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del
piano regolatore generale, il giudice penale dovrebbe
comunque concludere per la mancanza di illiceità penale nel
caso in cui sia stata rilasciata la concessione edilizia,
osservando che la concessione non è idonea a definire
esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio
dell'opera realizzanda senza rinviare al quadro delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle
rappresentazioni grafiche del progetto approvato, di tal che
nella specie non si configura una non consentita "disapplicazione"
da parte del giudice penale dell'atto amministrativo
concessorio: Sez. U, n. 11635 del 12/11/1993 - dep.
21/12/1993, P.M. in proc. Borgia ed altri, Rv. 195359).
Quanto, poi, al disposto dell'art.
41-quinquies, comma sesto, della legge urbanistica (legge n.
1150 del 1942), indubbiamente il medesimo è oggi in vigore,
ma è pacifico che l'applicabilità della relativa disciplina
presuppone un accertamento di fatto
(v. pag. 10 del ricorso) che non è
chiaramente compatibile con la funzione e l'ambito cognitivo
della Suprema Corte quale giudice di legittimità; in ogni
caso, andrebbe poi tenuto conto del combinato disposto degli
artt. 31 e 41-quinquies, penultimo ed ultimo comma della
predetta legge n. 1150 del 1942, per come interpretato dalla
giurisprudenza amministrativa.
Sul punto, è utile richiamare quanto affermato, ad esempio,
dal Tar Venezia nella sentenza 04.02.2012, n. 234, con
riferimento alla nozione di "esistenza" delle opere
di urbanizzazione.
In particolare, hanno chiarito i giudici amministrativi,
in virtù del combinato disposto degli artt.
31 e 41-quinquies, ultimo comma, della L. n. 1150 del 1942,
l'espressione "esistenza" delle opere di
urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della
necessità o meno della previa redazione di un piano di
lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo
prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere
intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni
collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità
del grado di urbanizzazione di un'area non può che essere
effettuata alla stregua della normativa sugli "standards"
urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444
del 1968 e dell' art. 17 della L. n. 765 del 1967.
Ne discende che l'equivalenza tra
pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione
è configurabile quando si riscontri l'esistenza di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità
minime prescritte
(cfr. Cons. St., sez. V, 29.4.2000, n. 2562). A ciò si
aggiunga quanto disposto dall'art. 12 del T.U. Edilizia, in
forza del quale il permesso di costruire è
comunque subordinato alla esistenza delle opere di
urbanizzazione primaria, o alla previsione da parte del
Comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio,
ovvero all'impegno degli interessati di procedere
all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla
realizzazione dell' intervento oggetto del permesso.
Orbene, osserva il Collegio come, proprio in relazione a
tale ultimo aspetto, i riferimenti svolti in ricorso circa
l'esistenza e/o la sufficienza delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, oltre che contrastare con quanto
affermato dal tribunale del riesame (v. pagg. 7/8
dell'ordinanza impugnata), si fondano su argomenti di tipo
fattuale, valutabili evidentemente solo in sede di merito e
non certo suscettibili di essere fatti oggetto del sindacato
di questa Suprema Corte.
Diversamente, per converso, è sindacabile il modus
procedendi del ricorrente che pretende di sostenere in
punti la propria tesi sia attraverso la tecnica del "rinvio"
ad atti contenuti in documenti prodotti davanti al tribunale
del riesame (v., a titolo esemplificativo, quanto dedotto a
pag. 9 del ricorso in cui "integralmente" il
ricorrente si riporta ad una memoria depositata davanti al
tribunale del riesame all'ud. 03/02/2015, così sfuggendo al
ricorrente che non è deducibile quale travisamento la scelta
che sotto l'aspetto dell'apprezzamento e
dell'interpretazione del fatto viene espressa dal giudice di
merito in ordine a specifiche situazioni che emergono dal
processo e che appaiono tra di loro in tutto o in parte di
segno diverso, essendo tale attività di scelta la
manifestazione più tipica della "discrezionalità
vincolata" propria del giudizio di merito, con la
conseguenza che, correlativamente, su questo presupposto
appare inammissibile riproporre in sede di legittimità,
sotto il profilo del travisamento, l'esame in fatto di
circostanze che è sottratto come tale al sindacato della
Corte di Cassazione, in quanto introdurrebbe
surrettiziamente nella sua attuazione un terzo giudizio di
merito).
Quanto, poi, ai limiti di sindacabilità in relazione alla
c.t. dell'arch. Ta. prodotta in sede di legittimità, in
sostanza si chiede a questa Corte di valutare "in fatto"
la correttezza delle conclusioni del c.t. del P.M. sulla
base di un atto non sottoposto preventivamente alla
cognizione dell'unico giudice legittimato a valutarlo, ossia
il giudice del procedimento e non certo il giudice di
legittimità (v. in particolare pag. 9).
Ne discende, conclusivamente, l'infondatezza complessiva del
primo motivo
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2015 n. 38795 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Secondo
un consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio
tempus regit actum, applicabile anche nelle materie
dell’urbanistica e dell’edilizia, impone che
l’amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al
momento di approvazione del provvedimento e non quelle
vigenti al momento di proposizione dell’istanza.
A conclusioni opposte si può probabilmente pervenire
esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione non abbia
rispettato i termini di conclusione del procedimento.
Questa regola sembra essere stata infatti cristallizzata dal
legislatore nell’art. 10-bis, ultimo periodo, della legge n.
241 del 1990, introdotto dall’art. 9, terzo comma, del
decreto legislativo 11.11.2011, n. 180, in base al quale
<<Non possono essere addotti tra i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda (…) ritardi attribuibili
all’amministrazione>>.
37. Come anticipato, la proposta presentata dai ricorrenti è
stata respinta in quanto poco dopo la presentazione della
stessa è intervenuta la scadenza del documento di piano.
38. Questa circostanza appare in effetti decisiva, atteso
che il piano attuativo ha la finalità di attuare (appunto)
le previsioni contenute nello strumento urbanistico generale
e che non è logicamente possibile dare attuazione a
disposizioni non più in vigore.
39. La decisione assunta dall’Amministrazione, che negli
atti impugnati ha dato conto di questa decisiva circostanza,
è dunque adeguatamente motivata.
40. Come visto i ricorrenti sostengono che l’intervenuta
decadenza del documento di piano non sarebbe invece decisiva
in quanto la loro proposta avrebbe dovuto valutarsi con
riferimento alla normativa vigente al momento della sua
presentazione.
41. Questa argomentazione non è condivisibile.
42. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,
il principio tempus regit actum, applicabile anche
nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia, impone che
l’amministrazione debba applicare le disposizioni vigenti al
momento di approvazione del provvedimento e non quelle
vigenti al momento di proposizione dell’istanza (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 11.11.2014, n. 5525; id.,
11.04.2014, n. 1763).
43. A conclusioni opposte si può probabilmente pervenire
esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione non abbia
rispettato i termini di conclusione del procedimento. Questa
regola sembra essere stata infatti cristallizzata dal
legislatore nell’art. 10-bis, ultimo periodo, della legge n.
241 del 1990, introdotto dall’art. 9, terzo comma, del
decreto legislativo 11.11.2011, n. 180, in base al quale <<Non
possono essere addotti tra i motivi che ostano
all’accoglimento della domanda (…) ritardi attribuibili
all’amministrazione>>.
44. Nel caso concreto, però, il Comune di Carate Brianza non
ha violato il termine di conclusione del procedimento di
adozione del piano attuativo, fissato in novanta giorni
dall’art. 14, primo comma, della legge regionale n. 12 del
2005. Ne consegue che correttamente lo stesso Comune ha
applicato il regime giuridico sopravvenuto alla
presentazione della proposta di piano attuativo considerando
decisiva l’intervenuta decadenza del documento di piano
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.09.2015 n. 1987 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato,
in materia di efficacia del piano di attuazione (o
di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di
lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e
popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua
esecuzione, da una corretta interpretazione dell'art. 17
della L. n. 1150 del 1942 debbono ritenersi discendere i
seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo
comportano la concreta e dettagliata conformazione della
proprietà privata (con specificazione delle regole di
conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai
sensi dell'art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime
previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel
senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano
attuativo);
c) col decorso del termine, diventano
inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che
non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno
più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione
delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione
residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni
coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore
generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da
attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica
-secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai
quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni
convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano
essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-,
la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine
suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla
realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale
che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di
legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità
competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo
assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in
ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne
segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito
nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza
dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a
questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi.
---------------
Costituisce principio pacifico ed acquisito nella
giurisprudenza amministrativa
che la necessità di presentazione di un previo piano
attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la
prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno
o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che
obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Si è, in particolare, affermato che in questo caso non può
prescindersi dalla previa predisposizione di un piano
esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato)
quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia
al fine di garantire una pianificazione razionale e ordinata
del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista
urbanistico ed edilizio.
La esigenza sottesa a tale
orientamento è quella di garantire lo sviluppo ordinato del
territorio, evitando che vengano realizzate nuove
costruzioni in assenza della contestuale previsione della
realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione.
----------------
8.3. Passando, quindi, ad esaminare il motivo di ricorso con
cui viene evocato un vizio di violazione di legge
sostanziale in relazione all'art. 44, lett. b) e c), d.P.R.
n. 380 del 2001 (motivo sub d) del ricorso), il P.M.
ricorrente censura l'affermazione del tribunale secondo cui
il reato di costruzione abusiva sussisterebbe solo se manca
il titolo edilizio e non anche se questo è palesemente
illegittimo, e quello di lottizzazione abusiva sussisterebbe
solo se manca la convenzione del piano di lottizzazione, ma
non se questo è scaduto prima del rilascio della concessione
edilizia.
Nella prospettazione del P.M. detta affermazione sarebbe
erronea, in quanto non solo il giudice penale può
disapplicare il provvedimento amministrativo, ma deve
valutare il rispetto sostanziale delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici vigenti (analogamente, con riferimento
alla lottizzazione abusiva, il reato sussisterebbe anche
quando la convenzione di lottizzazione è palesemente
illegittima o è scaduta, con conseguente illegittimità della
concessione edilizia rilasciata successivamente).
8.3.1. La censura del P.M. pur in astratto corretta, non è
nella fattispecie in esame meritevole di accoglimento.
Ed infatti, il ricorso del P.M. insiste sulla
configurabilità di ipotesi di reato che non tengono conto
della peculiarità del caso sottoposto ad esame, difettando,
segnatamente, la pretesa illegittimità dei titoli
abilitativi con cui è stata assentita l'attività edilizia in
questione.
Sul punto, i giudici del riesame evidenziano come gli
ordinari termini di efficacia dei cosiddetti piani
attuativi, categoria all'interno della quale si collocano i
piani di lottizzazione, non risultano applicabili giacché
nel Comune di Arzachena lo strumento urbanistico tuttora
vigente (il regolamento edilizio con programma di
fabbricazione approvato nel 1983 con Decreto RAS n. 1761/u)
aveva inserito l'ambito territoriali di cui si discute (vale
a dire il Piano di lottizzazione in questione), nella
disciplina delle zone F3 - aree turistiche oggetto di
lottizzazioni approvate, come da certificato urbanistico e
regolamento edilizio.
Orbene, il regolamento edilizio di cui al vigente Piano di
Fabbricazione, all'art. 64 relativamente alle zone F3, così
prevede: "...la disciplina urbanistica edilizia di dette
zone è quella stabilita dalle convenzioni e dallo strumento
attuativo esistente..."; ne consegue, quindi, che le
previsione del Piano di lottizzazione "Liscia di Vacca
centro", da cui origina il p.d.c. n. 321/2006 e le
varianti successive, sono state espressamente recepite nello
strumento generale di pianificazione, rappresentato nel
Programma di fabbricazione (che, com'è noto -in virtù
dell'assimilabilità al piano regolatore generale operata
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 23 del
20.03.1978- avendo natura di atto normativo regolatore a
carattere generale e, quindi, cogente, anche nei confronti
della P.A., è integrativo del regolamento edilizio: Cass.
civ., Sez. 2, Sentenza n. 6058 del 17/03/2006, Rv. 587800).
Le previsioni contenute nel predetto Piano di lottizzazione
assurgono al rango di normativa primaria, la cui efficacia
non si presta a limitazioni o scadenze temporali
etero-imposte; il concetto di "scadenza", dunque,
come correttamente evidenziato dalle difese degli indagati,
è divenuto quindi irrilevante in quanto anacronisticamente
riferito ad uno strumento attuativo che non ne è più
soggetto nel momento stesso in cui è entrato "in pianta
stabile" a far parte integrante dello strumento generale
di pianificazione.
Ciò spiega, dunque, l'affermazione, corretta, del tribunale
del riesame secondo cui diventa impossibile configurare il
reato di lottizzazione abusiva su un comprensorio la cui
regola è quella del Programma di fabbricazione, atteso che
il Piano di lottizzazione è stato sottratto al termine di
efficacia decennale previsto per gli strumenti attuativi
dall'art. 16 della legge n. 1150 del 1942, atteso che le
previsioni contenute nel PRG e non riguardanti vincoli o
limiti non sono soggette a termini di efficacia in quanto
disposizioni aventi contenuto generale ed astratto.
Secondi i giudici del riesame, dunque, il Piano di
lottizzazione originario non era soggetto a termini di
scadenza, poiché il Programma di fabbricazione vigente,
approvato nel 2003, ha elevato al rango di disciplina
urbanistica generale le convenzioni e i piani attuativi
compresi nella zona F/3, conseguendone pertanto che il Piano
di lottizzazione "Liscia di Vacca centro" deve, per
il tribunale, considerarsi tuttora in vigore con conseguente
efficacia della Convenzione.
Ne discende, conclusivamente, che non si è al cospetto di
una convenzione illegittima o scaduta, come sostiene il P.M.
ricorrente, ma di un assetto particolare ed attuativo
(quello del Piano di lottizzazione), elevato per espressa
intenzione del competente pianificatore comunale, a parte
integrante del regime generale.
8.3.2. Che questa sia la conclusione corretta, del resto, è
confermato dalla stessa giurisprudenza amministrativa, sulla
cui base è possibile affermare la pacifica compatibilità
dell'intervento con il Programma di fabbricazione, per
effetto dell'assorbimento nel primo del Piano di
lottizzazione, essendo giunta la più recente giurisprudenza
amministrativa a differenti conclusioni rispetto a quanto
sostenuto in precedenza (così restando superato ed isolato
il principio, richiamato dal P.M. ricorrente, di cui alla
sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 06/04/2012, n. 2045, secondo
cui il P.d.L. ha una durata decennale per cui, decorso il
relativo termine, esso perde di efficacia e non può più
costituire valido presupposto per il rilascio di
qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di
manufatti).
In particolare, secondo la giurisprudenza
più recente del Consiglio di Stato
(cfr. sez. V, 30.04. 2009, n. 2768; Id., sez. IV,
27.10.2009, n. 6572), in materia di
efficacia del piano di attuazione (o di strumenti
urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un
piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la
scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da una
corretta interpretazione dell'art. 17 della L. n. 1150 del
1942 debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo
comportano la concreta e dettagliata conformazione della
proprietà privata (con specificazione delle regole di
conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai
sensi dell'art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime
previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel
senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano
attuativo);
c) col decorso del termine, diventano
inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che
non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno
più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione
delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione
residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni
coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore
generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da
attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica
-secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai
quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni
convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano
essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-,
la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine
suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla
realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale
che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di
legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità
competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo
assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in
ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne
segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene
esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito
nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza
dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a
questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi
(cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28).
Alla stregua di quanto sopra (v., sul punto, da ultimo:
Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 26/08/2014, n. 4278),
pertanto, non potendo ritenersi scaduta né tantomeno
illegittima la convenzione di lottizzazione, del tutto
legittimamente le attività edilizie risultano essere state
assentite dal p.d.c. originaria e successive varianti.
8.4. Quanto, ancora, al successivo motivo con cui il P.M.
ricorrente svolge censure di violazione di legge sostanziale
in relazione all'art. 16, legge n. 1150 del 1942 (motivo sub
e), si sostiene che il tribunale avrebbe violato la norma
citata innanzitutto perché il regolamento comunale cui è
allegato il piano di fabbricazione non conterrebbe alcuna
deroga espressa alla temporanea efficacia voluta dalla legge
per la convenzione di lottizzazione e che, in ogni caso, il
richiamo alle convenzioni esistenti sarebbe un richiamo
integrale al testo della convenzione, e sarebbe come tale
comprensivo della clausola del termine massimo di
utilizzazione decennale ribadito espressamente dagli artt.
16 e 17 della convenzione relativa al piano di lottizzazione
"Liscia di Vacca centro" del 18/06/1981 (il P.M.,
peraltro, in ricorso esprime anche la preoccupazione che il
principio diversamente affermato dal tribunale potrebbe
avere effetti indiretti su altre convenzioni di
lottizzazione di Porto Cervo ormai scadute ed abbandonate,
che in forza di tale decisione potrebbero resuscitare con
gravi ripercussioni sul territorio già duramente sfruttato
dagli investitori nazionali ed internazionali, insistendo,
ancora, sul fatto che lo stesso C.d.S. con la richiamata
sentenza n. 2045 del 06/04/2012 aveva confermato una
sentenza del Tar Sardegna n. 118 del 31/01/2009 che ha
annullato una concessione edilizia per decorso del termine
decennale di efficacia della convenzione di lottizzazione
per l'invalidità delle concessioni edilizie rilasciate dopo
la scadenza del termine massimo di utilizzazione fissato dal
piano di lottizzazione).
8.4.1. Tale motivo è infondato, al pari dei precedenti.
Ed infatti, richiamato quanto in precedenza esposto a
proposito del "superamento" del principio di cui alla
richiamata sentenza del Cons. St. n. 2045/2012, deve
ritenersi che la tesi del P.M. ricorrente, prescindendo
dalle peculiarità del caso concreto e dai principi generali
vigenti, si fonda sulla predetta decisione del Giudice
amministrativo, approdando a conclusioni errate.
Diversamente, in base a quanto sopra esposto, deve ritenersi
che l'intervento edilizio in parola, valutato sulla scorta
dello specifico Statuto urbanistico ed edilizio che lo
regola, a sua volta applicato al lume dei principi generali
per effetto dei quali, da un lato, il Piano di lottizzazione
aveva una pacifica ultrattività quanto alle volumetrie da
realizzarsi determinata dal suo recepimento in senso al
Programma di Fabbricazione, dall'altro, in ogni caso,
quand'anche si volesse ritenere scaduto detto Piano, ciò non
avrebbe ostato al valido rilascio di un titolo abilitativo
edilizio a fronte dell'intenso grado di urbanizzazione della
zona.
Ed infatti, costituisce principio pacifico
ed acquisito nella giurisprudenza amministrativa
(v., da ultimo: TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza
07/11/2014, n. 2754) che la necessità di
presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora
si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione,
mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non
ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il
loro armonico raccordo con il preesistente aggregato
abitativo, la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Si è, in particolare, affermato che in questo caso non può
prescindersi dalla previa predisposizione di un piano
esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato)
quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia
al fine di garantire una pianificazione razionale e ordinata
del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista
urbanistico ed edilizio
(in tal senso TAR Campania Napoli, VIII, 07.11.2013, n.
4954, ma anche ex plurimis Consiglio di Stato, IV,
27.04.2012, n. 2470).
La esigenza sottesa a tale orientamento è
quella di garantire lo sviluppo ordinato del territorio,
evitando che vengano realizzate nuove costruzioni in assenza
della contestuale previsione della realizzazione delle
necessarie opere di urbanizzazione.
Ne consegue, dunque, così condividendosi le argomentazioni
espresse dagli indagati, che correttamente il tribunale del
riesame ha ritenuto superflua per il rilascio del p.d.c.
l'approvazione preventiva di un ulteriore Piano di
lottizzazione, atteso che erano state ormai effettuate -si
legge nella motivazione dell'impugnata ordinanza- le
cessioni gratuite al Comune di tutti i terreni per le opere
di urbanizzazione anche secondarie (chiesa e scuola), nonché
realizzate ed anche collaudate in data 10.07.2006 le altre
opere di urbanizzazione previste dalla convenzione nonché
realizzato anche il 61% del volume privato convenzionato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.09.2015 n. 38555). |
APPALTI: Gare d’appalto, sì al bando più restrittivo della legge.
Devono esserci esigenze ragionevoli e fondate.
Consiglio di Stato. Sentenza su una gara comunale per i
servizi di controllo del traffico.
Se serve a garantire l’interesse pubblico, le stazioni
appaltanti possono fissare un bando di gara anche con
requisiti più restrittivi di quelli previsti dalla normativa
di riferimento.
L’ha stabilito il
Consiglio di Stato nella
sentenza
23.09.2015 n. 4440, depositata
dalla V Sez., bocciando il ricorso
di una società di sistemi per il controllo del traffico
contro le clausole di una gara comunale per la gestione
delle sanzioni amministrative a veicoli con targa estera o a
soggetti con residenza non italiana.
Secondo la ricorrente, il bando violava i princìpi
comunitari di concorrenza e proporzionalità e le norme del
Codice degli appalti sulla capacità economico-finanziaria e
tecnico-professionale di fornitori e prestatori di servizi
(articoli 41 e 42, Dlgs 163/2006) poiché ammetteva con
«irragionevolezza» solo chi aveva già svolto il servizio per
un numero determinato di committenti (tre Comuni, contro gli
11 della ricorrente), con una quota minima di attività in
ogni città (più di 13mila verbali notificati, contro gli
oltre 40mila registrati dall’interessata ma in un solo
centro) e, in via autonoma, anche un servizio diverso
(recupero crediti in un triennio, non effettuato dalla
ricorrente).
Bocciando il ricorso, i giudici hanno chiarito che «le
stazioni appaltanti possono comunque discrezionalmente
fissare requisiti di partecipazione più rigorosi e
restrittivi rispetto a quelli previsti dalla normativa in
materia con riguardo alla peculiarità dell’appalto,
nell’esercizio del potere-dovere di adottare le misure più
adeguate, opportune e congrue per il perseguimento
dell’interesse pubblico (…)».
Nel caso di specie, per il collegio, «il requisito di cui
trattasi appare preordinato ad assicurare l'idoneità delle
concorrenti allo svolgimento del peculiare servizio oggetto
di gara, al fine di ottenere la necessaria garanzia
qualitativa di esecuzione dell’instaurando rapporto
contrattuale, e non sproporzionato» perché «ciò che era
richiesto dal bando di gara non era la dimostrazione della
capacità di gestione relativa solo al numero complessivo di
atti trattati, ma la dimostrazione della capacità di
gestione di un rilevante numero di essi per più Comuni, che
richiede una ben più complessa organizzazione, considerato
che nei vari Comuni si verificano flussi turistici diversi
per luogo di provenienza, con relative diverse e speciali
problematiche di notifica».
La sentenza ha così precisato che l’illegittimità di tali
requisiti «più rigorosi e restrittivi» si ha solo dinanzi a
«(…) adempimenti illogici e sproporzionati e non rispondenti
a finalità di interesse pubblico, il che nel caso che
occupa, tenuto conto della particolarità del servizio posto
a gara, non è rilevabile».
Accertato che sul requisito
“estraneo” alla gara la ditta non ha provato «lesione
concreta ed attuale», su quello di Pa committenti e quote di
attività si è spiegato che «(…) era relativo ad un periodo
triennale di svolgimento delle notifiche (…), mentre
l’appalto (…) era relativo ad un servizio di durata
quadriennale, sicché esso requisito era di tipo minimale e
non manifestamente sproporzionato per eccesso (…), quindi
non potenzialmente lesivo del principio del favor partecipationis e non idoneo a comportare una restrizione
della concorrenza» (articolo Il Sole 24 Ore del
22.10.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’«urgenza» del sindaco va motivata. Tar. Occorrono
situazioni di pericolo per l’incolumità e la salute
pubblica.
L’ordinanza comunale «contingibile ed urgente»
non può interferire nei rapporti di natura privatistica. I
Tar hanno così annullato alcune ordinanze contingibili e
urgenti emesse dal sindaco. Alla base dei provvedimenti non
erano poste ragioni di pericolo per l’incolumità pubblica
ossia la necessità di proteggere l’igiene e la salute
pubblica, tale da rendere indispensabile l’intervento
immediato e indilazionabile dell’amministrazione (articolo
50, comma 5, del Dlgs 267/2000).
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. II, con la
sentenza
16.03.2015 n. 893
ha annullato un’ordinanza contingibile e urgente emessa dal
sindaco con la quale ordinava al ricorrente di provvedere a
un intervento di potatura di un albero posto nella sua
proprietà per evitare allergie e disturbi alla salute di una
vicina.
L’ordinanza era stata adottata non già per
fronteggiare situazioni di emergenza ma per dirimere
questioni attinenti a rapporti di vicinato tra proprietà
limitrofe e senza fornire la dovuta dimostrazione della
ricorrenza effettiva di un pericolo per l’interesse
pubblico.
È stata ritenuta illegittima anche un’ordinanza che era
stata utilizzata come strumento eccezionale per
indebitamente interferire in una controversia condominiale,
emessa nell’ambito di questioni condominiali in merito
all’apposizione interna od esterna della canna fumaria (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 28.12.2012 n. 10816).
Bocciata anche l’ordinanza emessa per ottenere lo
spostamento di cani che abbaiavano quando si avvicinavano
estranei e che disturbavano i vicini (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 10.09.2015 n. 2684) (articolo Il Sole 24 Ore del
20.10.2015). |
URBANISTICA:
Urbanistica trasparente.
In un mese atti e documenti sul web.
Comune condannato alla trasparenza. Entro un mese
l'amministrazione deve pubblicare sul suo sito web atti e
documenti che giustificano la modifica delle previsioni
degli strumenti urbanistici se dalle tavole grafiche messe
in rete finora risulta che lo stato dei luoghi di una strada
non corrisponde al piano regolatore generale e alla
successiva variante approvata dal Consiglio comunale.
E ciò grazie al decreto «trasparenza» invocato dall'azienda,
cui evidentemente sta a cuore il tracciato di quella strada.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.09.2015 n. 1253, pubblicata dalla III
Sez. TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della società che invoca il decreto legge
33/2013 contro l'illegittimità del silenzio serbato
dall'amministrazione locale. La prima istanza chiede la
pubblicazione degli atti e delle informazioni necessari per
rendere trasparenti e coerenti fra loro le previsioni
normative e grafiche dei strumenti urbanistici comunali
vigenti.
La seconda scende nel particolare dello stato dei luoghi
della strada «incriminata». Ma l'amministrazione non
dà seguito all'una né all'altra. I documenti richiesti,
però, rientrano nel novero degli atti dei quali il privato
può chiedere l'ostensione.
Pesa in proposito l'articolo 5 del dl 33/2013, che dispone:
«Se il documento, l'informazione o il dato richiesti
risultano già pubblicati nel rispetto della normativa
vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo
collegamento ipertestuale». Il Comune deve dunque
mettere sul suo sito internet gli atti indicando il link al
privato
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
La ricorrente agisce per la condanna del Comune di
Barletta alla pubblicazione degli atti e delle informazioni
richiesti con istanze di accesso civico (ai sensi degli
articoli 5 e 39 d.lg 14.03.2014 n. 33) del 20.10 2014 e del
27.10.2014.
Con la prima istanza chiedeva integrarsi la pubblicazione
degli atti e delle informazioni necessari per rendere
trasparenti e coerenti fra loro le previsioni normative e
grafiche dei vigenti strumenti urbanistici comunali, avendo
rilevato che la maglia D2-06, prevista nelle NTA, non
trovava corrispondente previsione nelle tavole grafiche
della zona D sottozona D2 del PRG .
Con la seconda istanza chiedeva la pubblicazione degli atti
e informazioni in base ai quali il Comune avrebbe consentito
la realizzazione di modifiche al tracciato della Via dei
muratori come riportato nella tavola grafica n. 3 della
Variante “79” al PRG.
A seguito dell’inerzia del Comune, la ricorrente invocava
l’esercizio dei poteri sostitutivi e il Segretario generale
del Comune riscontrava la prima istanza, assegnando al
Dirigente dell’Ufficio competente trenta giorni per la
pubblicazione delle planimetrie relative al piano regolatore
generale in vigore.
Ciononostante l’Ufficio comunale designato non provvedeva
alla pubblicazione dei dati richiesti, né dava seguito
altrimenti le predette istanze.
Il ricorso è fondato.
1. Preliminarmente occorre osservare che
gli atti e documenti oggetto delle istanze della ricorrente
rientrano nel novero degli atti e documenti indicati
dall’art. 39 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2014 che chiunque
può chiedere siano pubblicati, secondo le modalità dettate
dall’art. 8 dello citato decreto.
2. Quanto alla prima istanza, ritenuta ammissibile
dal titolare dei poteri sostitutivi che ha disposto la
pubblicazione di quanto richiesto, deve presumersi che essa
non abbia avuto seguito.
Infatti se il Comune avesse provveduto alla pubblicazione
avrebbe dovuto darne avviso, come prescritto dall’art. 5
d.lgs. n. 33/2014 che dispone: “Se il documento,
l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati
nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione
indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale”.
3. La seconda istanza, cui è sopravvenuto il silenzio
dell’amministrazione, deve ritenersi parimenti ammissibile,
sebbene non presa in considerazione dal Segretario generale.
Detta istanza infatti, sulla base di elementi attinti dal
sito web del Comune, premette che lo stato di fatto della
via dei Muratori è diverso da quello risultante dalle tavole
grafiche del PRG e dalla variante approvata con delibera del
C.C. n. 908/1979 e chiede pertanto la pubblicazione degli
atti e documenti che avrebbero modificato le previsioni di
piano, che, se esistenti, sono parimenti soggetti a
pubblicazione ai sensi del citato art. 39.
4. Tanto premesso deve essere ordinato
all’amministrazione di pubblicare, con le modalità descritte
dall’art. 39 del d.lgs. n. 33/2014, le planimetrie relative
al piano regolatore generale in vigore, nonché gli atti e
documenti dai quali poter evincere i dati e le informazioni
richiesti con le istanze del 20.10.2014 e del 27.10.2014. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità di odori molesti
ben può basarsi sulle dichiarazioni rese da testimoni a
condizione che le testimonianze si limitino a riferire
quanto oggettivamente percepito.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza, e qui
ribadito, che la contravvenzione di cui all'art. 674 Cod.
pen. (Getto pericoloso di cose - Chiunque getta
o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo
privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere
o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non
consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori
o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con
l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a duecentosei
euro) è reato di pericolo, configurabile
in presenza anche di "molestie olfattive" promananti da
impianto munito di autorizzazione, in quanto non esiste una
normativa statale che prevede disposizioni specifiche e
valori limite in materia di odori, con conseguente
individuazione del criterio della "stretta tollerabilità"
quale parametro di legalità dell'emissione, attesa
l'inidoneità ad approntare una protezione adeguata
all'ambiente ed alla salute umana di quello della "normale
tollerabilità", previsto dall'art. 844 Cod. civ.
(Immissioni - Il proprietario di un fondo non può
impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i
rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal
fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità,
avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi).
Il criterio della normale tollerabilità previsto
dall’art. 844 Cod. civ. va, infatti, riferito esclusivamente
al contenuto del diritto di proprietà e non può essere
utilizzato per giudicare della liceità di immissioni che
rechino pregiudizio anche alla salute umana o all'integrità
dell'ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto, in via
immediata, tutto un altro ordine di norme di natura
repressiva e preventiva, come il T.U. delle leggi sanitarie
di cui al R.D. 27/07/1934, n. 1265, la L. 31/12/1962, n.
1860 sull'impiego pacifico della energia nucleare, nonché,
con particolare riferimento agli inquinamenti atmosferici,
la L. 13/07/1966, n. 615.
La natura del reato (di pericolo concreto) e il diverso
criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni
olfattive comporta che sia sufficiente l'apprezzamento
diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di
alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può
logicamente trarre elementi per ritenere l'oggettiva
sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte le
persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno
o che alcune non l'abbiano percepito affatto; né è
necessario un accertamento tecnico.
La Corte rileva dunque che «laddove manchi
la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati
strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni
stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni dei testi,
soprattutto se si tratta di persone a diretta conoscenza dei
fatti, come i vicini, o particolarmente
qualificate, come gli agenti di polizia e gli
organi di controllo della USL. Ove risulti
l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere
l'elemento soggettivo del reato, l'eventuale adozione di
tecnologie dirette a limitare le emissioni, essendo
evidente che non sono state idonee o sufficienti ad
eliminare l'evento che la normativa intende evitare e
sanziona. Quel che conta è che le testimonianze non
si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a
riferire quanto oggettivamente percepito da
dichiaranti medesimi».
Nel caso di specie si trattava delle emissioni maleodoranti
prodotte dall’attività all’aria aperta di un impianto
autorizzato di compostaggio di qualità posta in essere a
distanza di poco più di un chilometro dall’abitato e atte a
molestare gli abitanti delle zone limitrofe; a nulla era
valsa la successiva realizzazione di un capannone di
copertura (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).
---------------
3. I primi tre motivi possono essere esaminati
congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde del reato di cui all'art. 674, cod.
pen., in relazione alle molestie olfattive provenienti
dall'impianto di compostaggio.
3.2. Trattandosi di molestie olfattive e non delle emissioni
di cui alla seconda parte della norma, non rileva il fatto
che l'impianto fosse autorizzato, né il dedotto rispetto dei
limiti di emissione, né il criterio discretivo della "normale
tollerabilità" di cui all'art. 844, cod. civ..
3.3. Costituisce, infatti, principio consolidato di questa
Suprema Corte (che va qui ribadito) che la
contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. è reato di
pericolo, configurabile in presenza anche di "molestie
olfattive" promananti da impianto munito di
autorizzazione, in quanto non esiste una normativa statale
che prevede disposizioni specifiche e valori limite in
materia di odori, con conseguente individuazione del
criterio della "stretta tollerabilità" quale
parametro di legalità dell'emissione, attesa l'inidoneità ad
approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla
salute umana di quello della "normale tollerabilità",
previsto dall'art. 844 cod. civ.
(Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, Alghisi, Rv. 238447, alla
cui ampia e articolata motivazione si rimanda; nello stesso
senso cfr. anche Sez. 3, n. 11556 del 21/02/2006, Davito, Rv.
233565; Sez. 3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini, Rv.
231651).
3.4. Come ricordato dalla Corte Costituzionale,
l'art. 844, cod. civ.
(cui l'imputato fa ampio riferimento nel fondare le proprie
censure) è norma <<destinata a risolvere
il conflitto tra proprietari di fondi vicini per le
influenze negative derivanti da attività svolte nei
rispettivi fondi. Si comprende quindi che il criterio della
normale tollerabilità in essa accolto vada riferito
esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non
possa essere utilizzato per giudicare della liceità di
immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o
all'integrità dell'ambiente naturale, alla cui tutela è
rivolto in via immediata tutto un altro ordine di norme di
natura repressiva e preventiva: basti menzionare il t.u.
delle leggi sanitarie di cui al r.d. 27.07.1934, n. 1265, e
la legge 31.12.1962, n. 1860, sull'impiego pacifico della
energia nucleare nonché, con particolare riferimento agli
inquinamenti atmosferici, la legge 13.07.1966, n. 615. Resta
salva in ogni caso l'applicabilità del principio generale di
cui all'art. 2043 del codice civile>>
(Sent. n. 247 del 10.07.1974, citata anche da Sez. 3, n.
2475 del 2007, cit.).
3.5. La natura del reato (di pericolo
concreto) e il diverso criterio di valutazione della
tollerabilità delle emissioni olfattive, comporta che sia
sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze
moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui
testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per
ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere
dal fatto che tutte le persone siano state interessate o
meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano
percepito affatto. Né è necessario un accertamento tecnico.
3.6. Questa Corte ha già spiegato che
laddove trattandosi di odori manchi la possibilità di
accertare obiettivamente, con adeguati strumenti,
l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e
sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può
basarsi sulle dichiarazioni dei testi, soprattutto se si
tratta di persone a diretta conoscenza dei fatti, come i
vicini, o particolarmente qualificate, come gli agenti di
polizia e gli organi di controllo della USL. Ove risulti
l'intollerabilità, non rileva, al fine di escludere
l'elemento soggettivo del reato, l'eventuale adozione di
tecnologie dirette a limitare le emissioni, essendo evidente
che non sono state idonee o sufficienti ad eliminare
l'evento che la normativa intende evitare e sanziona
(così, Sez. 1, n. 407 del 14/12/1999, Rv. 215147; nello
stesso senso anche Sez. 1, n. 13083 del 19/02/2003, Attisano,
Rv. 223801; Sez. 1, n. 26782 del 01/04/2003, Tornati, Rv.
225000).
Quel che conta è che le testimonianze non
si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a
riferire quanto oggettivamente percepito da dichiaranti
medesimi (Sez. 1,
n. 5215 del 07/04/1995, Silvestro, Rv. 201195; Sez. 1, n.
7042 del 27/05/1996, Fontana, Rv. 205324; Sez. 1, n. 739 del
04/12/1997, Tilli, Rv. 209451; Sez. 3, n. 6141 del
30/01/1998, Labita, Rv. 210959; Sez. 3, n. 12019 del
10/02/2015, Pippi, Rv. 262711).
3.7. Nel caso di specie, lo svolgimento
all'aria aperta dell'attività di compostaggio, posta in
essere a distanza di poco più di un chilometro dall'abitato,
fornisce di ragionevole sostrato oggettivo la percezione
degli odori molesti da parte di chi ha testimoniato in tal
senso.
3.8. La successiva realizzazione del
capannone di copertura, cui ha fatto seguito l'incontestata
attenuazione del fenomeno, concorre a rendere non
manifestamente illogiche le conclusioni cui è pervenuto il
Tribunale.
3.9. La sentenza dà conto della testimonianza di varie
persone (compreso il Commissario Aggiunto della Polizia
Provinciale, pubblico ufficiale la cui terzietà il
ricorrente non contesta) che hanno riferito in modo chiaro e
preciso circa la natura degli odori molesti, la loro
persistenza e insopportabilità, la loro chiara riferibilità
all'impianto di che trattasi, le numerose denunce dei
cittadini. Il Tribunale dà altresì conto delle dichiarazioni
rese dai testimoni addotti dalla difesa e della CT da
quest'ultima prodotta circa l'inesistenza del concreto
pericolo di diffusione degli odori verso l'abitato del
Comune di Martinengo in considerazione dei venti che spirano
in senso contrario.
3.10. Il Giudice qualifica come conniventi o compiacenti le
testimonianze difensive ma dà atto che anche il Commissario
Aggiunto della Polizia Municipale di Ghisalba (testimone
della difesa) aveva riferito che dopo la realizzazione del
capannone non aveva più ricevuto nemmeno denunce informali
(tema che si salda con l'attenuazione del fenomeno percepita
anche dai testimoni dell'accusa). Gli altri testimoni della
difesa avevano riferito di odori provenienti
dall'insediamento, definendoli come "normali".
Questo continuo richiamo alla "normalità" degli odori
(che sottende un giudizio esso sì di natura soggettiva)
cozza con quanto già affermato circa il diverso criterio di
giudizio che deve presiedere alla valutazione di sussistenza
del reato per il quale si procede, né si pone in logico
contrasto con il fatto che un elevato numero di altre
persone fosse concretamente esposta a esalazioni
nauseabonde, tanto più che per farle cessare l'imputato ha
ammesso di aver investito una somma considerevole.
3.11. Il Giudice peraltro ha escluso, sulla base di un
giudizio di fatto non contestato, che i risultati della CT
della difesa potessero applicarsi al caso in esame sulla
decisiva considerazione che le rilevazioni anemologiche non
erano state effettuate nella zona ma in base a modelli non
applicabili alla concreta realtà. Né possono avere
rilevanza, per escludere la positiva sussistenza del reato e
la responsabilità dell'imputato, elementi fattuali estranei
al testo della sentenza impugnata, direttamente quanto
inammissibilmente sottoposti alla diretta valutazione del
Collegio, quali fatti negativi, mancate denunzie, ecc. ecc..
3.12. Dunque tutte le censure che riguardano la materiale
sussistenza del reato e la colpevolezza dell'imputato sono
infondate.
4. E' fondato, per quanto di ragione, l'ultimo motivo di
ricorso.
4.1. Il Collegio non entra nel merito delle scelte in base
alle quali il Tribunale ha ritenuto di escludere la
sussistenza di circostanze attenuanti.
4.2. Il Tribunale dà atto della persistenza della condotta
(protrattasi dal giugno 2011 all'aprile 2013) e del
precedente specifico dell'imputato (che questi contesta), ma
anche dell'assenza di elementi positivi valutabili a tal
fine.
4.3. Non ha rilevanza l'omessa contestazione della recidiva,
giuridicamente possibile solo tra delitti (art. 99, cod. pen.);
conta l'apprezzamento posto in essere dal Tribunale per la
cui insindacabilità è esaustiva la considerazione anche solo
della gravità oggettiva della condotta, parametrata alla
durata temporale, all'intensità del fenomeno e alla sua
dimensione.
4.4. Né, per l'assoluta autonomia che la distingue, la
coerenza della decisione del Tribunale in materia
sanzionatoria può essere valutata alla stregua del diverso
trattamento riservato con il decreto penale di condanna
emesso da altro Giudice.
4.5. E' fondata invece l'eccezione relativa al trattamento
sanzionatorio.
4.6. Il reato di cui all'art. 674, cod. pen.,
ha di regola carattere istantaneo, e solo eventualmente
permanente. La permanenza va ravvisata quando le illegittime
emissioni siano connesse, come nel caso di specie,
all'esercizio di attività economiche e legate al ciclo
produttivo (Sez.
1, n. 9356 del 05/06/1985, Ferrofino, Rv. 170759; Sez. 1, n.
3162 del 10/11/1988, Mazzoni, Rv. 180652; Sez. 1, n. 2598
del 13/11/1997, Garbo, Rv. 209960).
4.7. Ancor più chiaramente Sez. 1, n. 9293 del 10/08/1995,
Zanforlini, Rv. 202403, ha affermato che la
contravvenzione prevista e punita dall'art. 674 cod. pen.,
quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas, di
vapori, di fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare
le persone, connessa all'esercizio di attività economiche e
legata al ciclo produttivo, assume il carattere della
permanenza, non potendosi ravvisare la consumazione di
definiti episodi in ogni singola emissione di durata
temporale non sempre individuabile
(nello stesso senso anche Sez. 5, n. 41137 del 15710/2001,
Piscitelli, Rv. 220054; cfr. altresì Sez. 3, n. 19637 del
27/01/2012, Ghidini, Rv. 252890, secondo cui il carattere
continuativo del reato di getto pericoloso di cose, che ha
natura permanente, non si identifica con la ripetitività
giornaliera delle emissioni moleste, essendo sufficiente che
esse si protraggano, senza interruzioni di rilevante entità,
per un apprezzabile lasso di tempo a cagione della duratura
condotta colpevole del soggetto agente).
4.8. Correttamente, pertanto, il Pubblico Ministero ha
contestato la consumazione del reato in forma aperta,
altrettanto correttamente il Giudice all'esito del
dibattimento ha individuato il termine finale della condotta
(aprile 2013) senza con ciò violare l'obbligo di
correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in
sentenza.
4.9. In disparte l'abnorme aumento della pena base, quel che
il Tribunale non avrebbe potuto fare era ritenere la
pluralità delle condotte (e quindi la continuazione) sol
perché le emissioni non erano state continue in quanto
condizionate dalle fasi di produzione e dal variare della
situazione atmosferica (pressione, venti, pioggia) «pur
essendo state ricorrenti e nell'ampio arco di tempo anche
costanti».
4.10. Questo concetto di "continuità" non è in linea
con l'insegnamento di questa Corte perché non equivale, come
detto, a "costanza" delle emissioni, ma all'unica
causa che le produce che rende unica la condotta ed il
relativo atteggiamento psicologico.
4.11. Ne consegue che, ferma restando l'irrevocabile
accertamento della responsabilità penale dell'imputato, la
sentenza deve essere annullata limitatamente al trattamento
sanzionatorio, con rinvio al Tribunale di Bergamo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.09.2015 n. 36905). |
ENTI LOCALI - VARI:
Telecamere con l'avviso. Videosorveglianza anche senza
registrazione.
La Cassazione cambia idea. Volti ripresi sono
sempre dato personale.
La ripresa di immagini è sempre videosorveglianza anche se
non si fa registrazione. E i volti ripresi sono sempre un
dato personale, anche se la persona non viene identificato.
La Corte di Cassazione (Sez. II civile,
sentenza 02.09.2015 n. 17440)
cambia la sua giurisprudenza e fa chiarezza sulle regole
generali della videosorveglianza e conferma la sanzione
comminata dal garante della privacy a una torrefazione
calabrese, che non aveva esposto il cartello informativo
previsto per la videosorveglianza.
Nel caso specifico si è trattato di una telecamera presente
all'interno di un negozio, collegata a un monitor sistemato
nel soppalco dell'esercizio commerciale, utilizzata dal
titolare per sorvegliare l'accesso degli avventori.
La vicenda è stata sanzionata dal Garante della privacy per
violazione dell'obbligo di informativa ai sensi
dell'articolo 13 del codice della privacy (Ddlgs 196/2003).
Il commerciante ha presentato opposizione in cui ha
sostenuto che non aveva trattato dati personali e questo
perché non c'era la registrazione delle immagini e perché
riprendeva le immagini senza poter identificare le persone.
In effetto un orientamento giurisprudenziale risalente al
2009 (sentenza n. 12997 della Cassazione) sosteneva che
l'immagine non fosse di per sé un dato personale, senza una
didascalia o un sonoro che individuasse la persona.
Questo orientamento è stato accolto dal giudice di primo
grado, che ha annullato la sanzione, ritenendo che
l'immagine di una persona non potesse essere definita dato
personale in assenza di elementi oggettivi che ne consentano
una potenziale identificazione. In particolare, il Tribunale
ha valorizzato le modalità e la funzione della videoripresa,
finalizzata unicamente a consentire al titolare
dell'esercizio di controllare l'accesso di persone sospette
nel proprio locale al piano terreno per il tempo in cui lo
stesso si trovava nel laboratorio collocato su un soppalco,
in assenza di ogni potenziale identificabilità delle persone
riprese, peraltro da un apparecchio di non elevata
definizione, senza alcuna possibilità di registrazione delle
immagini stesse.
Con la sentenza in commento la Cassazione cambia idea,
riforma la sentenza di primo grado e sostiene che l'immagine
è un dato immediatamente idoneo a identificare la persona, a
prescindere dalla sua notorietà.
In particolare, con riferimento all'attività di
videosorveglianza senza registrazione, la Cassazione ricorda
che il trattamento è legittimo e riporta quanto prescritto
dal garante e cioè che «nei casi in cui le immagini sono
unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo
per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv),
possono essere tutelati legittimi interessi rispetto a
concrete ed effettive situazioni di pericolo per la
sicurezza di persone e beni, anche quando si tratta di
esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali
in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni
(ad esempio gioiellerie, supermercati, filiali di banche,
uffici postali)».
Il trattamento è legittimo, ma proprio per questo è soggetto
all'obbligo dell'informativa. E in caso di violazione di
questo obbligo scatta la sanzione amministrativa pecuniaria
prevista dall'articolo 161 del codice della privacy
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fattispecie di demolizione e ricostruzione di
un fabbricato, che costituisce uno delle tre tipologie della
ristrutturazione edilizia, può rientrare in tale ambito nei
soli casi in cui ricostruzione è sostanzialmente conforme
alla precedente struttura oggetto di demolizione.
A tal fine, la giurisprudenza di questo Consiglio ha
pacificamente affermato che l'elemento che, in linea
generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova
edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta
trasformazione del territorio, mediante una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.)
ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se
non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo
unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque
rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione
preesistente.
Ancora più in dettaglio, si è notato che ai sensi della
lettera d), comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono
inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia",
gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità
di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio
preesistente; la successiva lettera e) classifica come
interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle
categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un
intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti
la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima
come la conformazione planivolumetrica della costruzione e
il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e
non di ristrutturazione edilizia.
4. - La questione in scrutinio si fonda sull’originario
ricorso in prime cure, accompagnato da motivi aggiunti, con
cui As.Pe., proprietaria di un’unità immobiliare sita nel
Comune di Grumo Nevano, confinante con una porzione di
terreno in via Gilioli, n. 25 rientrante nella medesima
“zona B Satura” - Sottozona B2, ha impugnato il
provvedimento con il quale il Comune ha rilasciato, in
favore della controinteressata Pa.Im. s.r.l., il permesso di
costruire n. 123/2008 per lavori di ristrutturazione
edilizia comportante la demolizione e ricostruzione di un
preesistente fabbricato.
Trattandosi di questione inerente la legittimità del
rilascio di un titolo abilitativo, il giudizio si è
articolato fondamentalmente intorno ai due temi della
qualificazione dell’intervento da realizzare e della sua
compatibilità con l’assetto urbanistico dell’area. Pertanto,
anche in grado di appello, la trattazione potrà essere
organizzata intorno di detti due poli concettuali, da
valutare prioritariamente.
4.1. - In merito alla tipologia di intervento da realizzare,
la parte appellata ha evidenziato in prime cure come l’area
fosse interessata da un intervento di totale demolizione e
successiva ricostruzione dove, al posto del preesistente
fabbricato, originariamente composto da un piano terra e due
piani rialzati, sarebbe stato realizzato un immobile
costituito da quattro piani fuori terra (piano terra e tre
piani rialzati) ed un sottotetto abitabile, oltre ad un
vasto piano interrato. Si sarebbe trattato pertanto di un
edificio del tutto diverso rispetto al preesistente e quindi
incompatibile con il concetto di ristrutturazione edilizia
per demolizione e ricostruzione e con le previsioni valevoli
nell’area.
Si tratta quindi di valutare se effettivamente l’edificio da
realizzare sia compatibile con il concetto di
ristrutturazione edilizia.
A tal fine, va evidenziato come la fattispecie di
demolizione e ricostruzione di un fabbricato, che
costituisce uno delle tre tipologie della ristrutturazione
edilizia, può rientrare in tale ambito nei soli casi in cui
ricostruzione è sostanzialmente conforme alla precedente
struttura oggetto di demolizione (sui limiti del concetto,
sempre fondamentale il rinvio a Corte Costituzionale,
23.11.2011 n. 309).
A tal fine, la giurisprudenza di questo Consiglio ha
pacificamente affermato che l'elemento che, in linea
generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova
edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta
trasformazione del territorio, mediante una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d),
t.u.) ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se
non "fedele" (per effetto della modifica apportata al
testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301),
comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente (da ultimo, Consiglio di Stato,
sez. IV, 12.05.2014 n. 2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n.
2972).
Ancora più in dettaglio, si è notato (Consiglio di Stato,
sez. IV, 06.12.2013 n. 5822) che ai sensi della lettera d),
comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono inclusi nella
definizione di "ristrutturazione edilizia", gli
interventi di demolizione e ricostruzione con identità di
volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente;
la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova
costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un
intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti
la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima
come la conformazione planivolumetrica della costruzione e
il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e
non di ristrutturazione edilizia.
Pertanto, e contrariamente a quanto sostenuto dalle parti
appellanti, l'intervento edilizio oggetto di contenzioso,
dimensionalmente caratterizzato come sopra evidenziato, non
rientra nel canone della ristrutturazione ma in quella della
nuova edificazione.
Per altro verso, il primo giudice ha convincentemente
dimostrato come indicazioni in senso opposto non possano
trarsi neppure dalla disciplina regionale (anche perché,
qualora ciò fosse possibile, la legge regionale dovrebbe
essere posta al vaglio del giudice delle leggi, come già
avvenuto per la legge regionale Lombardia, oggetto della
pronuncia della Corte costituzionale già sopra citata).
Infatti, in Campania, la legge regionale 28.11.2001, n. 19,
all'art. 2, nel prevedere che le ristrutturazioni possono
essere realizzate in base a semplice denuncia di inizio di
attività (D.I.A.), fa riferimento a “le ristrutturazioni
edilizie, comprensive della demolizione e della
ricostruzione con lo stesso ingombro volumetrico”. La
detta disposizione, foriera di ambiguità interpretatative, è
stata poi rimodulata dall'art. 49, comma 5, della successiva
legge regionale Campania 22.12.2004, n. 16 che si è adeguata
alla disciplina del T.U. dell’edilizia.
Il primo aspetto della questione va poi concluso vagliando
il tema del massimo quantum volumetrico che il Comune
avrebbe potuto autorizzare, qualora l’opera fosse rimasta
nell’ambito della ristrutturazione per demolizione e
ricostruzione.
Anche in questo caso, deve essere condivisa la valutazione
del primo giudice, atteso che parte dell’immobile
preesistente era stato costruito in difformità rispetto al
precedente titolo autorizzativo n. 125/1992 e non era stato
mai sanato, per cui, autorizzando una ricostruzione
volumetrica che andava ad assorbire la parte abusiva, il
Comune di fatto ha dato vita ad una sanatoria implicita, del
tutto non conforme a legge.
Al contrario, in assenza di condono edilizio, atteso che non
poteva dirsi formato su di esso il silenzio-assenso, stante
la mancanza dei presupposti di legge (ed effettivamente si
trattava di un manufatto privo di tompagnature), la
volumetria illegittimamente realizzata non può essere
considerata ai fini del rilascio di un titolo abilitativo.
Tale elemento incide anche su un ulteriore profilo
dimensionale del progetto autorizzato, oggetto di espressa
valutazione da parte del TAR e inerente l’altezza dell’opera
realizzanda. Papa Immobiliare s.r.l. ha infatti conseguito
un titolo per realizzare il nuovo immobile ad un’altezza
superiore (13,50 m) rispetto a quella preesistente (10,50
m), laddove secondo i parametri tecnici dettati dall'art. 8
del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, “l'altezza
massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli
edifici preesistenti e circostanti”. E correttamente il
primo giudice ha richiamato il tema dell’inderogabilità (ora
possibile ma solo previa legge regionale) del d.m.
02.04.1968, n. 1444 che, integrando con efficacia precettiva
il regime delle altezze nelle costruzioni, rendono ancora
più palese la non conformità del progetto alle prescrizioni
normative.
Conclusivamente, nel caso in esame, si è di fronte al
rilascio di un permesso di costruire per un’opera di nuova
edificazione, e non di mera ristrutturazione edilizia, nel
cui computo dimensionale, si è erroneamente tenuto conto
anche di volumetrie illegittimamente realizzate, finendo per
autorizzare esiti che violano la disciplina cogente di cui
al D.M. 1444 del 1968 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.09.2015 n. 4077 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
regola, che la giurisprudenza e la pratica hanno derivato
dal succedersi della disciplina urbanistica nel tempo (l.
1150/1942 e legge-ponte n. 765/1967), è che soltanto a
decorrere dal primo settembre 1967, in seguito all’entrata
in vigore della cosiddetta legge-ponte n. 765 del 1967,
sussiste l’obbligo generalizzato di preventivo titolo
edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in
qualsiasi parte del territorio comunale; prima di quella
data, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150/1942,
sussisteva l’obbligo di previa licenza solo per edificare
nei centri abitati o nelle zone di espansione previste dal
piano regolatore generale.
Pertanto, se si sono realizzati senza titolo interventi
edilizi in area posta al di fuori del centro abitato, in un
momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la
necessità del titolo abilitativo fuori del centro abitato,
non è configurabile alcun abuso edilizio e quindi tali opere
devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la
sanzione della demolizione.
---------------
Il Collegio osserva che, nella detta materia, a fronte di
opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice
svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti
edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale
portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia,
ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della
demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del
titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro
abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia
previsto dai regolamenti edilizi comunali. Di tale regola
hanno fatto applicazione il Comune e il primo giudice.
Ad opinione del Collegio, tuttavia, tale articolato regime
normativo, che impone l’obbligo di munirsi del titolo
abilitativo (da intendersi come licenza edilizia o simile),
dovendosi intendere tale dovere in senso ristretto -e cioè
laddove espressamente tipizzato e obiettivamente
riconoscibile dalla disciplina ratione temporis vigente-,
non può rinvenirsi in norma regolamentare quale quella presa
in esame dal giudice di primo grado: ed infatti, in disparte
la questione della titolarità dell’asserito potere
permissivo (perché esercitato dalla Giunta Provinciale,
valevole per i Comuni della Provincia di Savona, ma non
certo di livello comunale), nei suoi contenuti, prevedeva
soltanto un “obbligo di denuncia” al Podestà, sicché pare
del tutto irragionevole desumerne la violazione dell’obbligo
(operante solo in quanto, appunto, normativamente tipizzato
anteriormente alla legge urbanistica del 1942) di munirsi di
titolo abilitativo edilizio e sostenere la conseguente
afflittiva abusività dei manufatti allora realizzati.
---------------
L’appello è fondato nei sensi che seguono.
L’appellante ha sostenuto e dimostrato, con la produzione in
giudizio nel fascicolo di primo grado, che il “Regolamento
Edilizio Tipo” approvato dalla Giunta provinciale
nell’anno 1929, ritenuto dal primo giudice non abrogato
dalla entrata in vigore della legge n. 1150 del 1942 ai
sensi dell’art. 31 della suddetta legge, in realtà non
prevedeva un obbligo di autorizzazione o licenza, ma
soltanto un obbligo di denuncia al Podestà (art. 1 del
regolamento) per ogni intervento edilizio da realizzare nei
Comuni della Provincia di Savona.
La regola, che la giurisprudenza e la pratica hanno derivato
dal succedersi della disciplina urbanistica nel tempo (la
legge n. 1150 del 1942 e la legge-ponte n. 765 del 1967), è
che soltanto a decorrere dal primo settembre 1967, in
seguito alla entrata in vigore della cosiddetta legge-ponte
n. 765 del 1967, sussiste l’obbligo generalizzato di
preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la
realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio
comunale; prima di quella data, ai sensi dell’art. 31 della
legge n. 1150 del 17.08.1942, sussisteva l’obbligo di previa
licenza solo per edificare nei centri abitati o nelle zone
di espansione previste dal piano regolatore generale.
Pertanto, se si sono realizzati senza titolo interventi
edilizi in area posta al di fuori del centro abitato, in un
momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la
necessità del titolo abilitativo fuori del centro abitato,
non è configurabile alcun abuso edilizio e quindi tali opere
devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la
sanzione della demolizione.
Il primo giudice ha ritenuto sussistere, ratione temporis,
l’obbligo di munirsi di licenza edilizia sulla base della
previdenza del regolamento edilizio comunale, risalente al
1929.
L’appello, al contrario, rimarca che, in primo luogo, non si
tratterebbe di regolamento edilizio comunale, ma di tipo
provinciale e, soprattutto, che in esso non sarebbe previsto
l’obbligo di dotarsi della licenza edilizia o di
autorizzazione.
Il Collegio osserva che, nella detta materia, a fronte di
opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice
svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti
edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale
portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia,
ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della
demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del
titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro
abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia
previsto dai regolamenti edilizi comunali (tra varie, Cons.
Stato, 5141 del 21.10.2008; n. 287 del 14 marzo 1980). Di
tale regola hanno fatto applicazione il Comune e il primo
giudice.
Ad opinione del Collegio, tuttavia, tale articolato regime
normativo, che impone l’obbligo di munirsi del titolo
abilitativo (da intendersi come licenza edilizia o simile),
dovendosi intendere tale dovere in senso ristretto -e cioè
laddove espressamente tipizzato e obiettivamente
riconoscibile dalla disciplina ratione temporis
vigente-, non può rinvenirsi in norma regolamentare quale
quella presa in esame dal giudice di primo grado: ed
infatti, in disparte la questione della titolarità
dell’asserito potere permissivo (perché esercitato dalla
Giunta Provinciale, valevole per i Comuni della Provincia di
Savona, ma non certo di livello comunale), nei suoi
contenuti, prevedeva soltanto un “obbligo di denuncia”
al Podestà, sicché pare del tutto irragionevole desumerne la
violazione dell’obbligo (operante solo in quanto, appunto,
normativamente tipizzato anteriormente alla legge
urbanistica del 1942) di munirsi di titolo abilitativo
edilizio e sostenere la conseguente afflittiva abusività dei
manufatti allora realizzati.
E’ vero che, in caso di manufatto realizzato al di fuori del
centro abitato, colui che contesta l’ordine di demolizione
deve fornire almeno un principio di prova in ordine al tempo
di realizzazione e ultimazione dello stesso, se si asserisce
la precedenza rispetto alla entrata in vigore della
legge-ponte n. 765 del 1967, e cioè per quando per tali tipi
di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia
(in tal senso, tra varie, Cons. Stato, V, 13.02.1998, n.
157); nella specie, la collocazione temporale della
realizzazione dei manufatti all’inizio degli anni sessanta
non è in sé contestata dal Comune, che ha appuntato la sua
attenzione sulla previgenza del su richiamato regolamento.
L’accoglimento del motivo di appello relativo alla assenza
di regolamenti edilizi propriamente recanti l’obbligo
preesistente di munirsi di licenza, o altro titolo
abilitativo edilizio, per manufatti realizzati negli anni
sessanta (prima della legge-ponte n. 765 del 1967) al di
fuori del centro abitato, per la regola dell’assorbimento
sulla base del principio dell’economia di giudizio (in tal
senso, Ad. Plenaria, n. 5 del 27.04.2015), rende superfluo
l’esame degli altri motivi di appello.
Soltanto per completezza, il Collegio osserva che le
richiamate diverse oscillanti opinioni sull’assenza di
affidamento per decorso del tempo in caso di realizzazione
di abusi edilizi (ritenuta continuamente da questo Consesso,
tra varie, Cons. Stato, V, 15.07.2013, n. 3847) e sulla
eventuale attenuazione di tale principio, affermatasi in
taluni casi soprattutto dal giudice di primo grado, non
possono che valutarsi compiutamente soltanto in relazione
alle varie circostanze dei casi concreti, e non già in
astratto e secondo una incondizionata ed inderogabile regola
generale.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va
accolto e, conseguentemente, in riforma dell’appellata
sentenza, va accolto il ricorso originario, con conseguente
annullamento degli atti impugnati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.08.2015 n. 3899 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Cinema, la locandina paga l'imposta.
Per il cinema ubicato all'interno di un centro commerciale,
i mezzi pubblicitari che riportano le locandine dei film in
programmazione scontano comunque l'imposta comunale sulla
pubblicità, qualora i manifesti siano apposti in luoghi
comuni a tutti gli esercizi commerciali, quali il parcheggio
esterno o i corridoi del centro commerciale. Non opera, in
tali casi, l'esenzione stabilita dall'articolo 17, comma 1,
lettera c), del dlgs n. 507/93, applicabile solamente
laddove le locandine siano esposte all'interno, sulle
facciate esterne o sulle recinzioni del cinema stesso.
È quanto si legge nella sentenza 07.08.2015 n. 313/02/15
della Ctp di Como.
Il collegio si pronuncia sul ricorso proposto da un cinema d
Cantù, la cui struttura è ubicata all'interno di un centro
commerciale, contro un avviso di accertamento recante una
maggior imposta comunale di pubblicità.
Oggetto della
diatriba erano delle insegne luminose riportanti le
locandine dei film in programmazione. Il ricorrente
richiamava l'agevolazione prevista dall'articolo 17, comma
1, lettera c), del dlgs n. 507/1993, secondo cui è esente
dall'imposta «la pubblicità comunque effettuata all'interno,
sulle facciate esterne o sulle recinzioni dei locali di
pubblico spettacolo qualora si riferisca alle
rappresentazioni in programmazione».
La Commissione, dopo
aver analizzato attentamente l'ubicazione delle locandine in
parola, supportata dalla documentazione fotografica allegata
agli atti del procedimento, ha rigettato il ricorso. La
norma richiamata, infatti, è una disposizione di carattere
eccezionale e va interpretata in maniera rigida. Per cui,
nel caso in questione, riveste un ruolo fondamentale il
fatto che le locandine fossero posizionate all'interno del
parcheggio del centro commerciale (su di un pannello
luminoso) e nella galleria dello stesso; quindi, in luoghi
comuni ai diversi esercizi commerciali ospitati dalla
struttura.
«Entrambi i luoghi dove sono ubicati i predetti
mezzi pubblicitari», si legge nella sentenza, «non
soddisfano i requisiti della norma invocata perché non si
trovano all'interno ai locali del cinema, né possono dirsi
esposti sulle facciate esterne dello stesso o sulle
recinzioni».
Non può invocarsi, in tal caso, l'esenzione
prevista dal citato articolo 17 che, in quanto norma
eccezionale, va applicata solamente ai casi di stretta
aderenza alle fattispecie previste. Niente esenzione,
dunque, per le locandine esposte all'interno del centro
commerciale, in luoghi comuni ai diversi esercizi.
--------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis]
Il ricorso è stato presentato con esclusivo riferimento a
due di mezzi pubblicitari contemplati nell'avviso di
accertamento oggetto di impugnazione ed in particolare al
«pannello con manifesti dei film» e «all'espositore presso
ingresso», entrambi ubicati presso le sale cinematografiche
di ?..
Dei due mezzi succitati sono state allegate rappresentazioni
fotografiche nelle controdeduzioni della? SPA come da
documenti 4 e 5 (foto contrassegnate anche nelle lettere N
ed H dell'avviso di accertamento).
La norma invocata da parte ricorrente recita che l'esenzione
opera per «la pubblicità, comunque effettuata all'interno,
sulle facciate esterne o sulle recinzioni dei locali di
pubblico spettacolo qualora si riferisca alle
rappresentazioni in programmazione».
I mezzi pubblicitari oggetto di contestazione, ancorché
riportino le locandine dei film in programmazione, non
risultano ubicati in nessuno dei luoghi previsti dalla norma
invocata e ciò appare sufficiente a ritenere
l'inapplicabilità giacché trattasi di norme eccezionali di
stretta interpretazione.
In particolare, il pannello con manifesti del film di cui
all'allegato 4) delle controdeduzioni della parte convenuta
è collocato all'esterno dei locali di pubblico spettacolo,
su una montagnola che sovrasta l'area di parcheggio del ?
dove, tra i vari esercizi commerciali, si trova il cinema .
L'allegato 5, ossia quello relativo all'espositore con i
film in programmazione, si trova nella galleria interna del
Centro Commerciale? all'imbocco delle scale che conducono al
piano superiore dove, tra i vari esercizi commerciali, si
trovano anche le sale cinematografiche.
Pertanto, entrambi i luoghi dove sono ubicati i predetti
mezzi pubblicitari non soddisfano i requisiti della norma
invocata perché si non si trovano all'interno dei locali del
cinema, né possono dirsi esposti sulle facciate esterne
dello stesso, né possono dirsi presenti sulle recinzioni dei
locali di pubblico spettacolo (peraltro neppure presenti nel
caso di specie).
In definitiva, non sussistono nella fattispecie all'esame
della C.T.P. i presupposti per l'esenzione invocata e il
ricorso deve essere respinto perché infondato
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
compatibilità paesaggistica circa la mera sostituzione di
tre silos preesistenti (due dei quali posizionati in
verticale anziché in orizzontale) al mero e dichiarato fine
di adeguare l’impianto esistente alle migliori tecnologie.
Dalla documentazione prodotta emerge che i serbatoi sono
stati sostituiti e ricollocati in posizione verticale
anziché in orizzontale (come in origine) e costituiscono una
mera parte integrante e servente di un più complesso e
strutturato macchinario volto alla produzione di asfalto,
già esistente da circa 60 anni.
L’intervento in questione, dunque, non avendo determinato la
formazione di alcun nuovo volume, è quindi pacificamente
sussumibile entro la fattispecie di cui agli artt. 167, co.
4, lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del D.lgs. n.
42/2004, come tale possibile oggetto di autorizzazione in
sanatoria.
La stessa Circolare Ministeriale n. 33/2009 (richiamata
dalla Soprintendenza a sostegno del proprio parere negativo)
espressamente afferma che i “volumi tecnici non rilevano ai
fini del rilascio dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi del combinato disposto degli artt.
167 e 181, D.lgs. n. 42/2004”.
---------------
Tanto l’art. 167, co. 4, lett. c), quanto l’art. 181, co. 1-ter, lett. c), D.lgs. n. 42/2004 dispongono che è sempre
possibile rilasciare l’accertamento di compatibilità
paesaggistica “per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b), del DPR n. 380/2001,
per manutenzione straordinaria si intendono “le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire anche parti
strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare
i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
L’intervento realizzato dalla società ricorrente è
riconducibile alla fattispecie della manutenzione
straordinaria, dal momento che si è sostanziato nella mera
sostituzione di tre silos preesistenti (due dei quali
posizionati in verticale anziché in orizzontale) al mero e
dichiarato fine di adeguare l’impianto esistente alle
migliori tecnologie, rendendo lo stesso più sicuro e
abbattendo financo le emissioni (con ogni positivo risvolto
in termini ambientali da ciò derivante).
Non si è trattato di un ampliamento dell’impianto esistente
ovvero di una sua modifica sostanziale, bensì di un mero
adeguamento funzionale dello stesso mediante sostituzione di
componenti tecnologici ormai superati e non più adeguati e
funzionali al relativo utilizzo.
L’intervento, non avendo determinato formazione di nuovo
volume è pacificamente sussumibile nella fattispecie
disciplinata dagli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1
ter, lett. a) D.lgs. n. 42/2004, quindi passibile di
sanatoria.
...
per l’annullamento:
- dell’ordinanza n. 3 del 07.01.2014, notificata in data
10.01.2014, a firma del Responsabile del Servizio Arch.
Ma.Be., con la quale è stata ordinata alla
ricorrente la rimozione di quanto realizzato pretesamente in
assenza di titoli abilitativi nonché di tutti i
provvedimenti ad essa preordinati, conseguenti e/o connessi,
ancorché sconosciuti, ivi comprese -per quanto occorrer
possa- le note della Soprintendenza in data 22.08.2013, prot. n. 10790 e in data 02.09.2013 prot. n. 11169
-
e per il risarcimento
in forma specifica, e/o per equivalente, dei danni patiti e
patiendi a causa degli atti impugnati e dei comportamenti
censurati,
e, con i motivi aggiunti depositati in data 31.07.2014,
per l’annullamento:
- dell’ordinanza n. 24 del 21.05.2014, notificata alla
ricorrente a firma del Responsabile del Servizio Arch.
Be. con la quale è stata ordinata la rimozione di
quanto realizzato in pretesa assenza di titoli abilitativi;
- della nota della Soprintendenza in data 08.05.2014, prot.
n. 5763, nonché di tutti i provvedimenti preordinati,
conseguenti e/o connessi, ancorché sconosciuti;
-
e per il risarcimento
in forma specifica, e/o per equivalente, di ogni danno
presente o futuro derivato dagli atti impugnati e dai
comportamenti oggetto di giudizio.
...
Il ricorso ed i motivi aggiunti sono fondati.
Va premesso che la società ricorrente è proprietaria di un
impianto di produzione di asfalto in Comune di Orta San
Giulio (NO) -attivo sin dal 1955- catastalmente
individuato ai mapp. nn. 110 sub 1 e 73 sub 3, fg. n. 8.
L’impianto insiste in zona destinata dal vigente strumento
urbanistico comunale in area artigianale-industriale
esistente e di completamento come previsto dall’art. 72
delle NTA.
Sotto il profilo paesaggistico-ambientale l’area è soggetta
a vincolo ex art. 157, co. 1, lett. e), D.Lgs. n. 42/2004
(ex D.M. 01.08.1985, c.d. “Galassino”).
Con istanza 31.08.2012 la ricorrente ha chiesto autorizzarsi
l’installazione di un nuovo deposito di oli minerali ad uso
industriale.
L’intervento non ha determinato la realizzazione di alcuna
nuova opera edilizia perché sono stati utilizzati
esclusivamente gli impianti già esistenti, come da allegate
due fotografie (doc. 4 della produzione della parte
ricorrente) ma si è comunque resa necessaria anche la
presentazione della succitata istanza d’accertamento di
compatibilità paesaggistica.
Detta richiesta riguardava la
realizzazione di lavori di mera modifica mediante
sostituzione della disposizione di due serbatoi facenti
parte del più complesso impianto per la produzione di
asfalto stradale, portati in posizione verticale (in luogo
di quella orizzontale originaria) al fine di ridurre le
emissioni dell’impianto e rendere lo stesso più sicuro ed
eco-energetico nel proprio funzionamento, in conformità alle
moderne tecnologie.
Era altresì prevista la sostituzione di un terzo silos già
esistente (esso pure riposizionato in orizzontale).
Assume rilievo la circostanza che l’impianto è presente in
loco dagli anni ‘50 e l’intervento non ne ha mutato le
caratteristiche, le dimensioni né ha comportato la creazione
di nuovi volumi o superfici, essendosi limitato ad apportare
mere migliorie tecniche di adeguamento ai moderni standard
qualitativi, ambientali e di sicurezza.
Per queste ragioni la richiesta di accertamento di
conformità è stata positivamente vagliata
dall’Amministrazione comunale.
Di contro, la Soprintendenza, con nota in data 22.08.2013,
prot. n. 10790, ha rilevato che l’intervento “non risulta
compreso tra quelli descritti dall’art. 181, comma 1-ter
(...)” e, pertanto, “l’istanza non risulta procedibile”.
Con nota in data 23.08.2013, prot. n. 7431 il Comune di Orta
contestava recisamente alla Soprintendenza il contenuto
della succitata nota rilevando come -a differenza di quanto
ivi asserito dalla stessa- l’intervento realizzato dalla
ricorrente non avesse determinato incremento di volume e
che, in ogni caso, tale istanza non potesse ritenersi “improcedibile”,
presupponendo pur sempre una pronuncia di merito (ancorché
negativa).
Sulla scorta di tali rilievi critici, con nota prot. 8125,
il Comune di Orta richiese alla Regione Piemonte un parere
in merito alla vicenda oggetto del giudizio.
Con successiva nota in data 02.09.2013, prot. n. 11169, la
Soprintendenza ribadiva che “la demolizione e nuova
realizzazione di silos per il contenimento di materiali
inerti bituminosi non può che configurare un caso di
creazione di nuovo volume” e ciò invocando il contenuto
della Circolare Ministeriale 26.06.2009 n. 33 per concludere
che l’opera non poteva rientrare nell’accezione di volume
tecnico.
Il Comune di Orta San Giulio -preso atto della nota della
Soprintendenza del 17.01.2014, prot. n. 801, con cui era
ritenuto “meritevole di approfondimento” il contributo
partecipativo depositato dalla ricorrente dopo il preavviso
di diniego sulla domanda di accertamento paesaggistico-
con ordinanza n. 29 il 03.03.2014, assunta ex art. 21-quater,
co. 2, L. n. 241/1990 ha sospeso per 90 giorni l’esecutività
dell’ordinanza di ripristino n. 3/2014 (impugnata con il
ricorso introduttivo) in attesa d’una complessiva
rivalutazione della fattispecie da parte della
Soprintendenza.
Aderendo all’invito della Soprintendenza con la nota del
17.01.2014, prot. n. 801 la ricorrente -tramite il proprio
tecnico in data 31.03.2014, prot. n. 3544- ha depositato
un’articolata relazione (con documentazione fotografica e
schemi grafici) illustrativa di come l’intervento in
questione -lungi dal creare nuovi volumi- fosse
sussumibile nell’ambito di manutenzione straordinaria,
sanabile anche ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004.
La relazione rappresenta in modo puntuale come le opere
consistano nella sostituzione di componenti tecnologiche
senza ampliamento o modifica sostanziale dell’impianto
(presente da oltre 50 anni) per renderlo conforme alle
sopravvenute norme produttive.
Con nota in data 08.05.2014, prot. n. 5763, la
Soprintendenza -muovendo dal presupposto che l’intervento
abbia alterato lo stato dei luoghi comportando “la creazione
di nuovo volume”- ha nuovamente espresso parere negativo.
Il Comune di Orta San Giulio emetteva in data 21.05.2014 una
nuova ordinanza di riduzione in pristino per le opere
realizzate con l’intervento edilizio.
Merita accoglimento il primo motivo di censura del ricorso,
dedotto anche in via derivata con i motivi aggiunti, con il
quale si lamenta violazione di legge (artt. 167, co. 4,
lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del d.lgs. n. 42 del
2004 e della circolare ministeriale n. 33/2009) - eccesso di
potere per travisamento, arbitrarietà, carenza di
motivazione e di istruttoria.
L’ordinanza impugnata si fonda -motivando per relationem-
sul contenuto delle note della Soprintendenza
rispettivamente in data 22.08.2013 e 02.09.2013.
Con esse la Soprintendenza ha ritenuto non meritevole di
accoglimento l’istanza di sanatoria poiché sarebbe stato
creato “nuovo volume”.
Dalla documentazione prodotta emerge che i serbatoi sono
stati sostituiti e ricollocati in posizione verticale
anziché in orizzontale (come in origine) e costituiscono una
mera parte integrante e servente di un più complesso e
strutturato macchinario volto alla produzione di asfalto,
già esistente da circa 60 anni.
L’intervento in questione, dunque, non avendo determinato la
formazione di alcun nuovo volume, è quindi pacificamente
sussumibile entro la fattispecie di cui agli artt. 167, co.
4, lett. a) e 181, co. 1-ter, lett. a), del D.lgs. n.
42/2004, come tale possibile oggetto di autorizzazione in
sanatoria.
La stessa Circolare Ministeriale n. 33/2009 (richiamata
dalla Soprintendenza a sostegno del proprio parere negativo)
espressamente afferma che i “volumi tecnici non rilevano ai
fini del rilascio dell’accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi del combinato disposto degli artt.
167 e 181, D.lgs. n. 42/2004”.
Con nota 11.10.2014, prot. n. 26629, la Regione ha rilevato
come “vi siano ragionevoli ed univoche motivazioni per
ritenere che l’impianto in esame sia da ammettere tra casi
di volume tecnico (...); tali elementi vanno determinati
proprio per le caratteristiche evidenziate dell’opera in
progetto e per la sua funzionalità obiettiva nell’ambito
della produzione del complesso edilizio”.
Fondato è anche il secondo motivo di censura (fatto valere
in via derivata con i motivi aggiunti) con il quale si
lamenta la violazione di legge (artt. 167 co. 4, lett. c) e
181, co. 1 ter, lett. c) del d.lgs. n. 42/2004; art. 3 d.m.
n. 380/2001) - eccesso di potere per travisamento,
arbitrarietà, carenza di motivazione e di istruttoria,
contraddittorietà.
Tanto l’art. 167, co. 4, lett. c), quanto l’art. 181, co. 1-ter, lett. c), D.lgs. n. 42/2004 dispongono che è sempre
possibile rilasciare l’accertamento di compatibilità
paesaggistica “per i lavori comunque configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai
sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b), del DPR n. 380/2001,
per manutenzione straordinaria si intendono “le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire anche parti
strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare
i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
L’intervento realizzato dalla società ricorrente è
riconducibile alla fattispecie della manutenzione
straordinaria, dal momento che si è sostanziato nella mera
sostituzione di tre silos preesistenti (due dei quali
posizionati in verticale anziché in orizzontale) al mero e
dichiarato fine di adeguare l’impianto esistente alle
migliori tecnologie, rendendo lo stesso più sicuro e
abbattendo financo le emissioni (con ogni positivo risvolto
in termini ambientali da ciò derivante).
Non si è trattato di un ampliamento dell’impianto esistente
ovvero di una sua modifica sostanziale, bensì di un mero
adeguamento funzionale dello stesso mediante sostituzione di
componenti tecnologici ormai superati e non più adeguati e
funzionali al relativo utilizzo.
L’intervento, non avendo determinato formazione di nuovo
volume è pacificamente sussumibile nella fattispecie
disciplinata dagli artt. 167, co. 4, lett. a) e 181, co. 1
ter, lett. a) D.lgs. n. 42/2004, quindi passibile di
sanatoria.
Il ricorso ed i motivi aggiunti vanno, pertanto, accolti e
gli atti impugnati vanno conseguentemente annullati, facendo
salva l’ulteriore attività provvedimentale della Pubblica
Amministrazione nel rispetto dei principi sopra delineati
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.05.2015 n. 867 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il permesso
di costruire in "deroga" agli
strumenti urbanistici consentendo la realizzazione di
un impianto sportivo in zona classificata come agricola e,
dunque, al di là dei limiti autorizzabili di deroga che
delinea l'art. 14 dpr 380/2001 per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, ove al terzo comma sono
identificati esclusivamente -fermo il rispetto delle
norme igieniche, sanitarie e di sicurezza- nei limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza tra fabbricati.
---------------
3. Il ricorso è infondato.
Premesso che la censura sul contenuto effettivo della
delibera consiliare si colloca su un piano fattuale, cui non
si estende il controllo del giudice di legittimità, deve
darsi atto che l'ordinanza impugnata esplica in modo
adeguato proprio la valutazione della sussistenza degli
elementi giustificativi della cautela disposta dal gip. Per
quanto riguarda, in particolare, la questione del contrasto
tra la delibera del consiglio comunale del 10.06.2013 e gli
strumenti urbanistici vigenti, il Tribunale
espressamente condivide quanto ritenuto dal gip, e cioè che
il permesso conseguentemente rilasciato è
illegittimo -concernendo un'area classificata agricola e
dunque non edificabile- in quanto sussiste violazione
dell'articolo 14 d.p.r. 380/2001.
Infatti -rileva il Tribunale- il permesso
di costruire pone una illegittima deroga appunto agli
strumenti urbanistici laddove consente la realizzazione di
un impianto sportivo in zona classificata come agricola, e
dunque al di là dei limiti autorizzabili di deroga che
delinea il citato articolo 14 per edifici ed impianti
pubblici o di interesse pubblico, al terzo comma li
identifica esclusivamente -fermo il rispetto delle
norme igieniche, sanitarie e di sicurezza- nei limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza tra fabbricati
(cfr. motivazione, pagina 3).
Peraltro, rimarcando che l'imputazione non include il reato
edilizio di cui all'articolo 44 d.p.r. 380/2001,
circoscrivendosi al delitto di abuso di ufficio, il
Tribunale, ai fini dell'integrazione appunto del reato di
cui all'articolo 323 c.p., osserva che il contrasto con il
citato articolo 14 era già ravvisabile nel regolamento
edilizio del Comune approvato con delibera del consiglio
comunale n. 35 del 29.11.2011 -regolamento che prevede
all'articolo 108 la possibilità di rilasciare permessi di
costruire in deroga anche in zona agricola per interventi di
tipo turistico-sportivo-, desumendone la carenza del
fumus commissi delicti quanto al dolo intenzionale di
favorire i ricorrenti nella condotta degli amministratori,
ed avendo d'altronde gli attuali proprietari acquistato il
terreno solo quando l'iter prodromico al rilascio del
permesso era ormai completo.
In conclusione, deve ritenersi che il Tribunale abbia
adempiuto il suo obbligo di riesame vagliando -come si è
visto, con esito negativo sul piano dell'elemento
soggettivo- il presupposto del fumus commissi delicti,
tra l'altro non attribuendo alla delibera consiliare che il
03.05.2013 ha approvato a maggioranza la proposta
dell'assessore ai lavori pubblici di rilasciare il permesso
in deroga di destinazione d'uso un contenuto di "modifica
generale del piano regolatore" (come censura il PM), al
contrario ravvisando tale generalità contenutistica nella
delibera consiliare del 29.11.2011 che aveva approvato il
-illegittimo come il permesso di costruire quanto
all'articolo 108- regolamento edilizio comunale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
24.09.2014 n. 46625 - udienza). |
EDILIZIA PRIVATA: La sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001
(riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l.
28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva
che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di
danno urbanistico mediante la verifica della doppia
conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento
del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento
della realizzazione dell'opera, da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il
rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga
agli strumenti urbanistici e che
comunque il permesso non può essere subordinato
all'esecuzione di opere, che contrastano con quella
conformità agli strumenti urbanistici che deve già
sussistere.
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme
agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale
conformità consentendo di "correggere" il concreto
contenuto di un permesso di costruire
(da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui
nei reati edilizi "sussistono i presupposti per
attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al
permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380
del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto
difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con
gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione della
domanda").
---------------
L'articolo 1, commi 37, 38 e 39,
l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono
ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative
pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del
reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n.
42, in tale articolo sono stati inseriti i commi 1-ter e 1-quater che
lo disciplinano, non configurando il condono neppure come
automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica.
L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi
espressamente, in caso di accertamento della compatibilità
paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa
competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la
non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie
contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui
al comma 1-bis.
---------------
3. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo adduce che la corte territoriale
avrebbe errato nel ritenere non sussistente la c.d. doppia
conformità e sarebbe incorsa in un vizio di
contraddittorietà motivazionale per non aver adeguatamente
valutato la testimonianza del tecnico comunale Le..
Il motivo non trova riscontro nell'effettivo contenuto della
motivazione della sentenza impugnata, che esclude la doppia
conformità sulla base di elementi specifici, rilevando che
il permesso in sanatoria, pur essendovi attestata la doppia
conformità, non è conforme alla pianificazione adottata al
momento della realizzazione dell'opera.
In particolare nel permesso di costruire 96/2002, rispetto
al quale le opere abusive sono state costruite in variazione
essenziale secondo il capo di imputazione sub A, rileva il
giudice d'appello che il magazzino, per quel che emerge
dalla relazione 14.03.2007, doveva essere interrato, per
evitare una cubatura esterna, non prevista in quella zona
dagli strumenti urbanistici, laddove -evidenzia sempre il
giudice d'appello- la documentazione fotografica attinente
al manufatto dimostra che ciò non è avvenuto.
D'altronde è stata vagliata la deposizione del Le.,
evincendone una natura insufficiente a superare l'elemento
oggettivo sopra richiamato (osserva tra l'altro il giudice
d'appello che il teste "si è limitato a sostenere che, in
occasione del sopralluogo che ha dato origine al processo,
sarebbe incorso in un errore di computo ma non ha spiegato
il percorso dell'asserito errore") tenuto conto del
contrasto, in particolare, con le fotografie, con la
relazione 14.03.2007 e con la planimetria di raffronto tra
quanto assentito e quanto realizzato (motivazione, pagine
2-3).
Nessun vizio motivazionale risulta pertanto sussistere nella
esposizione che la corte territoriale offre della sua
valutazione che ha negato l'esistenza della doppia
conformità. Non può non ricordarsi, d'altronde, che
giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che
la sanatoria edilizia ex articolo 36 d.p.r. 380/2001
(riproposizione, del resto, del previgente articolo 13 l.
28.02.1985 n. 47) integra una fattispecie penale estintiva
che si basa proprio sull'accertamento dell'inesistenza di
danno urbanistico mediante la verifica della doppia
conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento
del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento
della realizzazione dell'opera
(Cass., sez. III, 21.10.2008 n. 42526; Cass., sez. III,
18.12.2003 n. 48499; Cass., sez. III, 18.03.2002 n. 11149),
da ciò conseguendo che non ha effetto estintivo il
rilascio in sanatoria del permesso di costruire in deroga
agli strumenti urbanistici
(Cass. sez. III, 31.03.2011 n. 16591) e che
comunque il permesso non può essere subordinato
all'esecuzione di opere, che contrastano con quella
conformità agli strumenti urbanistici che deve già
sussistere (Cass.
sez. III, 27.04.2011 n. 19587; Cass. sez. III,
26.11.2003-09.01.2004 n. 291 e Cass., sez. III, 18.12.2003
n. 48499, cit.).
Ciò perché è sanabile solo l'opera conforme
agli strumenti urbanistici vigenti, logicamente tale
conformità consentendo di "correggere" il concreto
contenuto di un permesso di costruire
(da ultimo v. Cass. sez. III, 28.05.2013 n. 39895, per cui
nei reati edilizi "sussistono i presupposti per
attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al
permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380
del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto
difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con
gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione della
domanda").
Risulta pertanto normativamente esatta la valutazione
effettuata dalla corte territoriale, per cui, in
conclusione, il motivo rimane infondato.
Il secondo motivo, a ben guardare, si incentra sulla
fattispecie dell'autorizzazione paesaggistica, che, essendo
stata concessa dal Comune di Pieve Ligure nel caso di specie
in data 27.02.2009 (sulla base di un parere della
Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici
della Liguria nel senso che l'intervento non comprometteva
gli equilibri ambientali della zona), avrebbe dovuto, ad
avviso del ricorrente, togliere ogni rilievo penale al reato
di cui al capo B ai sensi dell'articolo 181, comma 1-ter,
d.lgs. 42/2004. La corte territoriale avrebbe dunque violato
tale normativa e fornito una motivazione illogica perché di
contenuto diverso rispetto ai pareri delle autorità
amministrative.
Rilevato che comunque una motivazione di per sé non può
definirsi illogica meramente perché non coincide, come
contenuto, con un parere della P.A., si osserva che la corte
territoriale ha esattamente affermato la non incidenza delle
valutazioni della competente autorità amministrativa in
ordine alla sussistenza del reato, laddove trattasi di
fattispecie di cui all'articolo 181, comma 1-bis, d.lgs.
42/2004, in forza di "vincolo specifico istituito con
D.M. 14.12.1959".
E invero, l'articolo 1, commi 37, 38 e 39,
l. 15.12.2004 n. 308 ha introdotto il c.d. condono
ambientale che è (pur permanendo le sanzioni amministrative
pecuniarie previste dall'art. 167) causa di estinzione del
reato di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. 22.01.2004 n.
42, in tale articolo inserendo i commi 1-ter e 1-quater che
lo disciplinano, non configurando il condono neppure come
automatica conseguenza dell'autorizzazione paesaggistica
(Cass. sez. III, 19.09.2013 n. 44189; Cass. Sez. III,
07.12.2007-09.01.2008 n. 583; Cass. sez. III, 10.05.2006 n.
15946; Cass. sez. III, 26.10.2005-03.02.2006 n. 4429).
L'articolo 181, comma 1-ter, prevede quindi
espressamente, in caso di accertamento della compatibilità
paesaggistica da parte dell'autorità amministrativa
competente secondo le procedure di cui al comma 1-quater, la
non applicabilità del comma 1, che concerne una fattispecie
contravvenzionale, non investendo invece il delitto di cui
al comma 1-bis.
Deve pertanto concludersi per l'infondatezza anche del
secondo motivo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.06.2014 n. 27491 - udienza). |
AGGIORNAMENTO AL 16.10.2015 |
ã |
In questi ultimi giorni assistiamo a quanto sia
grave, oramai, il degrado etico e morale della nostra
società, tant'é che qualcuno vorrebbe convincerci
che ciò -in questi tempi moderni- sia una cosa
ordinaria, di cui farsene una ragione.
E se allunghiamo lo sguardo nelle Istituzioni e nella
Pubblica Amministrazione, in genere, la situazione è
ancor peggio...
Sicché, da parte di tutti gli "onesti" è
arrivato il momento di reagire all'indifferenza e di gridare ad alta
voce: |
NO, io
non ci sto!! |
Invero, capita a fagiolo un
pronunciamento appena "sfornato" della Corte di Cassazione che,
in primis,
si interroga in questi termini: |
Qual'è il
modello
astratto di "pubblica
amministrazione"
e di "pubblico
impiegato"??
E la risposta è
presto data e cioè |
una pubblica amministrazione che:
(a)
rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b)
agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i
cittadini
(art. 1, commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c)
non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta
(art. 97 cost.);
(d)
è composta di funzionari preparati, efficienti,
prudenti e zelanti
(art. 98 cost.). |
Ed ancora, è stato affermato che
«Qualsiasi
pubblica amministrazione "efficiente", ai
sensi dell'art. 97 cost. e per i fini di cui
all'art. 1176, comma 2, c.c.,
non può non conoscere
la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte
degli
amministrati,
a fortiori sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un
amministratore». |
Nello specifico, la
Cassazione ha così statuito: |
L'art. 2043 c.c. stabilisce che ciascuno è responsabile del
danno causato ad
altri con una condotta colposa o dolosa.
La colpa
civile di cui all'art. 2043 c.c., consiste nella deviazione
da una
regola di condotta.
"Regola di condotta" è non soltanto la norma giuridica, ma
anche qualsiasi
doverosa cautela concretamente esigibile dal danneggiante.
Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o
di comune
prudenza è accertamento che va compiuto alla stregua
dell'art. 1176 c.c.,
pacificamente applicabile anche alle ipotesi di
responsabilità
extracontrattuale.
L'art. 1176 c.c. impone al debitore di adempiere la
propria
obbligazione con diligenza.
La diligenza di cui all'art. 1176 c.c. è nozione che
rappresenta l'inverso
logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato
diligente, là dove chi
tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in
colpa.
L'autore d'un illecito non è dunque per ciò solo in colpa:
quest'ultima
sussisterà soltanto nel caso in cui il preteso responsabile
non solo abbia
causato un danno, ma l'abbia fatto violando norme giuridiche
o di comune
prudenza.
Le norme di comune prudenza dalla cui violazione può
scaturire una colpa
civile non sono uguali per tutti.
Nel caso di inadempimento di obbligazioni comuni, ovvero di
danni causati
nello svolgimento di attività non professionali, il primo
comma dell'art. 1176
c.c. impone di assumere a parametro di valutazione della
condotta del
responsabile il comportamento che avrebbe tenuto, nelle
medesime
circostanze, il "cittadino medio", ovvero il bonus paterfamilias: vale a dire la
persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità.
Nel caso, invece, di inadempimento di obbligazioni
professionali, ovvero di
danni causati nell'esercizio d'una attività "professionale"
in senso ampio, il
secondo comma dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più
rigoroso di
accertamento della colpa.
Il "professionista", infatti, è in colpa non solo quando
tenga una condotta
difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle
medesime circostanze il bonus paterfamilias; ma anche quando
abbia tenuto una
condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo
posto, un ideale
professionista "medio" (il c.d. homo eiusdem generis et
condicionis).
L'ideale "professionista medio" di cui all'art. 1176, comma
2, c.c., nella
giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista
"mediocre", ma è un
professionista "bravo": ovvero serio, preparato, zelante,
efficiente.
---------------
La regola di valutazione della colpa dettata
dall'art. 1176, comma 2,
c.c., si applica anche alla pubblica amministrazione.
Essa infatti è norma generale dell'intero sistema delle
obbligazioni, e detta
un criterio suscettibile di applicazione in qualsiasi
ipotesi di inadempimento
o di responsabilità aquiliana.
Per stabilire, dunque,
se una pubblica amministrazione abbia
o meno tenuto
una condotta colposa, occorre confrontare la condotta da
questa
concretamente tenuta con la condotta che, nelle medesime
circostanze,
avrebbe tenuto l'homo eiusdem generis et condicionis: vale a
dire una
pubblica amministrazione che:
(a) rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b) agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i
cittadini (art. 1,
commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c) non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta
(art. 97 cost.);
(d) è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti
e zelanti (art. 98
cost.).
Questo, dunque, è il modello astratto di "pubblica
amministrazione" e di
"pubblico impiegato".
---------------
Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi
dell'art. 97 cost. e
per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non
conoscere la legge.
Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori
sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un
amministratore.
---------------
La diligenza esigibile dalla pubblica amministrazione nel
compimento dei propri atti, ivi compresa l'adozione di
provvedimenti amministrativi, va valutata col criterio
dettato dagli
artt. 1176, comma 2, c.c., e 97 cost.: ovvero comparando la
condotta tenuta nel caso concreto, con quella che -idealmente-
avrebbe tenuto nelle medesime circostanze una
amministrazione
"media", per tale intendendosi non già una pubblica
amministrazione "mediocre", ma una pubblica amministrazione
efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la
legge. |
Di seguito un relativo articolo di stampa e la
sentenza per esteso: |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Benchmark di efficienza per la Pa.
Per valutare la colpa del «pubblico» i giudici tracciano
l’identikit ideale.
Cassazione. Intollerabile l’ignoranza del diritto e delle
proprie determinazioni da parte degli uffici.
Per capire se la pubblica amministrazione è in colpa
basta confrontare il suo operato con quello che, nella
stessa situazione, avrebbe tenuto un’amministrazione
virtuosa.
La Corte di
Cassazione - Sez. III civile, con la
sentenza 06.10.2015 n. 19883, detta un chiaro
principio da usare come indice rivelatore di efficienza e
traccia l’identikit del perfetto amministratore.
Nel mirino
dei giudici era finito un Comune che, dopo aver rilasciato
una concessione per costruire un immobile metà opificio metà
abitazione, aveva messo in atto una serie di stop and go. In
prima battuta il via libera era stato revocato perché
contrario al piano regolatore approvato in un secondo
momento, poi ne era stata sospesa l’efficacia perché i
lavori eseguiti erano diversi da quelli autorizzati.
Nell’altalena di semafori verdi e rossi si erano inserite
anche altre due ordinanze: prima per stabilire la decadenza
del diritto a costruire perché il tempo era scaduto, infine
per sospendere l’efficacia della concessione, ancora una
volta per difformità delle opere.
Il “beneficiario” della concessione aveva così ultimato nel
’94 i lavori iniziati nell’81 e per questo aveva chiesto i
danni. La Corte d’appello, pur riconoscendo che i
provvedimenti adottati erano illegittimi, aveva escluso il
dolo o la colpa. La sentenza, impugnata dai diretti
interessati, offre l’occasione per elencare il decalogo del
buon amministratore.
Per la Cassazione non è ragionevole
pensare che la Pa non sappia se il piano che disciplina
l’uso del suo territorio sia vigente o meno e se questo sia
in linea con le autorizzazioni che lei stessa rilascia: né
può accorgersi dello “scostamento” due anni e quattro mesi
dopo aver dato l’ok per la costruzione. Lo stesso vale anche
per il provvedimento sulla decadenza della concessione per
lo sforamento del termine di ultimazione dei lavori, emesso
senza porsi il dubbio che sui tempi dilatati c’era almeno
una corresponsabilità degli amministratori così “indecisi”
sul da farsi.
Per la Cassazione la Corte d’appello sbaglia a ritenere
scusabile e non colposa la condotta della Pa. Perché se
l’ignoranza della legge non è ammissibile da parte del
cittadino è intollerabile nell’amministratore. I giudici
sottolineano che l’articolo 1176 del Codice civile, che
detta la nozione di diligenza ai fini dell’accertamento
della colpa, è certamente più stringente per il
professionista medio che per il cittadino.
Il criterio,
precisa la Cassazione vale anche per la Pa e, a scanso di
equivoci, chiarisce che per «medio» non si intende mediocre
ma bravo, preparato e zelante. Per stabilire se la Pa ha
tenuto una condotta colposa è necessario valutare come si
sarebbe comportata, in una situazione speculare,
un’amministrazione efficiente.
E i giudici
identificano la Pa virtuosa in quella che:
rispetta la legge; agisce in modo efficiente senza aggravi
per i cittadini; non perde tempo, non si balocca e agisce a
ragion veduta; è composta da funzionari preparati, prudenti
e zelanti.
Questo è il modello astratto di Pa e di pubblico
impiegato, con il quale la Corte d’appello avrebbe dovuto
confrontare il comportamento reale tenuto dal Comune finito
sotto accusa. Che siamo lontani è evidente. Anche se l’onere
di provare il danno spetta al privato, perché la colpa non
basta per dimostrare il pregiudizio subito
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
---------------
MASSIMA
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono
che la sentenza
impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai
sensi all'art. 360, n.
3, c.p.c..
Si assumono violati gli artt. 2043 c.c.; l'art. 31 della l.
17.08.1942 n. 1150;
l'art. 11 della l. 28.01.1977 n. 10.
Anche questo motivo, pur formalmente unitario, si articola
nella sostanza in tre censure.
2.1.1. Con la prima censura (pp. 24-28 del ricorso) i
ricorrenti allegano che
la Corte d'appello avrebbe errato nel qualificare come
"interesse legittimo"
la pretesa da loro fatta valere.
Da ciò sarebbe derivato l'errore di pretendere dagli attori,
secondo la regola
dettata dall'art. 2043 c.c., la prova della colpa della p.a..
Per contro, avendo
i ricorrenti fatto valere un diritto soggettivo, la prova
del danno doveva
ritenersi in re ipsa, e la domanda doveva essere accolta
sulla base della sola
dimostrazione dell'illegittimità dei provvedimenti adottati
dal Comune di
Polaveno.
2.1.2. Con la seconda censura (pp. 28-29 e 30-31 del
ricorso) i ricorrenti
lamentano che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere
esclusa la
colpa della pubblica amministrazione per il solo fatto che i
vari
provvedimenti amministrativi fonte di danno fossero atti
dovuti ed emessi
sulla base di circostanze di fatto tra loro differenti. Tale
circostanza, infatti,
non era di per sé sufficiente ad escludere la colpa della
p.a..
2.1.3. Con la terza censura (pp. 29-30 del ricorso), infine,
i ricorrenti lamentano che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere
che la
domanda di risarcimento del danno causato dalla pubblica
amministrazione,
per mezzo d'un provvedimento illegittimo, presupponga
necessariamente
l'accertamento dell'illegittimità di quest'ultimo da parte
del giudice
amministrativo.
2.2. La prima censura del secondo motivo di ricorso ("la
Corte d'appello ha
errato nel qualificare come 'interesse legittimo' la pretesa
azionata dal
ricorrenti") è manifestamente infondata.
La Corte d'appello ha rigettato la domanda risarcitoria sul
presupposto che:
(a) difettasse la prova della colpa della pubblica
amministrazione;
(b) l'onere di provare la colpa della pubblica
amministrazione grava sulla
persona che si dichiara danneggiata dal provvedimento
amministrativo.
Queste affermazioni sono corrette in diritto, in quanto:
(a) la responsabilità della pubblica amministrazione
conseguente
all'adozione d'un provvedimento amministrativo illegittimo è
una
responsabilità per colpa, non una responsabilità oggettiva;
(b) la responsabilità della pubblica amministrazione è una
responsabilità
aquiliana, e l'onere di provare la colpa grava dunque sul
danneggiato, ai
sensi dell'art. 2043 c.c.;
(c) la colpa della pubblica amministrazione non può
ritenersi provata per il
solo fatto che abbia emesso un provvedimento amministrativo
illegittimo;
spetta invece al giudice di merito valutare caso per caso se
le ragioni
dell'illegittimità del provvedimento dannoso siano tali da
palesare di per sé
una grave negligenza dell'amministrazione
(per tutti questi
argomenti si
vedano già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 23170 del
31/10/2014, Rv.
633377; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 4172 del 15/03/2012, Rv.
621327; Sez.
3, Sentenza n. 4326 del 23/02/2010, Rv. 611907; Sez. 3,
Sentenza n.
12282 del 27/05/2009, Rv. 608431).
V'è solo da aggiungere come le regole appena ricordate non
mutino quando
il danno causato dalla pubblica amministrazione sia
consistito nella lesione
d'un diritto soggettivo, piuttosto che in quella d'un
interesse legittimo.
Nell'uno come nell'altro caso, infatti, non basta provare la
lesione della
situazione giuridica soggettiva protetta, per invocare il
risarcimento del
danno, ma è necessario dimostrare -anche in via presuntiva
o facendo
ricorso al notorio- che dalla lesione del diritto sia
derivata una perdita,
patrimoniale o non patrimoniale.
2.3. La seconda censura del secondo motivo di ricorso ("la
Corte d'appello
ha errato nell'escludere la colpa della p.a. per il solo
fatto che gli atti
illegittimi si fondavano su presupposti di fatto tra loro
diversi") è
inammissibile.
Stabilire se la pubblica amministrazione, nell'emanare un
provvedimento
risultato illegittimo, abbia o meno agito con imperizia,
imprudenza o
negligenza è un accertamento di fatto, non una valutazione
in diritto. La
relativa statuizione pertanto può essere impugnata per
cassazione solo
sotto il profilo del vizio di motivazione.
Nel caso di specie, invece, col motivo in esame i ricorrenti
sostengono che
la Corte d'appello, nell'escludere la colpa della p.a.,
avrebbe violato l'art.
2043 c.c. e le leggi urbanistiche: ed incorrono cosa in un
evidente vizio di
sussunzione, consistito nel censurare ai sensi dell'art. 360,
n. 3, c.p.c. un
errore che si sarebbe dovuto censurare, se mai, ai sensi
dell'art. 360, n. 5,
c.p.c..
Né l'errore in cui sono incorsi i ricorrenti può essere
sanato da questa Corte,
nemmeno in virtù del principio jura novit curia: l'errore
del ricorrente nella
sussunzione delle proprie censure in uno dei vizi di cui
all'art. 360 c.p.c.,
infatti, può essere emendato dalla Corte di cassazione
soltanto quando la
motivazione del ricorso contenga comunque un "inequivoco
riferimento" al
vizio di cui la parte intende effettivamente dolersi (come
stabilito da Sez. U,
Sentenza n. 17931 del 24/07/2013), circostanza che nel caso
di specie non
ricorre.
2.4. La terza censura del secondo motivo di ricorso ("la
Corte ha errato nel
ritenere che presupposto della responsabilità della pubblica
amministrazione
sia l'accertamento, da parte del giudice amministrativo,
dell'illegittimità dei
provvedimenti da essa adottati") è fondata.
2.4.1. La Corte d'appello di Brescia era chiamata a
stabilire se fosse in colpa
un Comune che, con quattro diversi provvedimenti
amministrativi adottati
tra il 1982 ed il 1986, e poi rivelatisi illegittimi od
inefficaci, aveva
ripetutamente sospeso o annullato l'efficacia della
concessione edilizia
rilasciata ad Al. e Gi.Br..
Per decidere tale questione, la Corte d'appello di Brescia
ha rilevato che:
(-) i due provvedimenti di annullamento (16.10.1982) e di
decadenza
(24.09.1985) della concessione edilizia, sebbene dichiarati
illegittimi dal giudice amministrativo, erano stati adottati
senza colpa da parte
dell'amministrazione comunale, e dunque la loro emanazione
non costituiva
fonte di responsabilità per il Comune di Polaveno;
(-) i due provvedimenti di sospensione dei lavori (05.03.1983
e 04.07.1986) non
erano mai stati dichiarati illegittimi dal giudice
amministrativo: questi infatti,
rilevato che l'amministrazione comunale, dopo aver sospeso i
lavori, non
aveva adottato entro trenta giorni alcun provvedimento
definitivo
sanzionatorio, aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione
delle due
ordinanze sospensive, per sopravvenuto difetto di interesse
dei ricorrenti.
Ciò posto in facto, la Corte d'appello ne ha ricavato
in
iure la conseguenza
che, con riferimento alle due ordinanze sospensive dei
lavori (05.03.1983 e 04.07.1986) fosse mancato il "presupposto necessario ed
essenziale" della
responsabilità della pubblica amministrazione, e cioè una
"pronuncia del
giudice amministrativo che [accerti] la illegittimità
dell'atto amministrativo"
(così la sentenza impugnata, p. 17, secondo e terzo
capoverso).
2.4.2. L'affermazione da ultimo trascritta costituisce una
violazione dell'art.
2043 c.c..
L'annullamento dell'atto amministrativo non è infatti
presupposto né
necessario, né essenziale, della responsabilità provvedimentale della
pubblica amministrazione. Tanto meno è necessario che
quell'illegittimità sia
previamente accertata e dichiarata dal giudice
amministrativo, come da
quindici anni questa Corte viene ripetendo
(a partire dalla
nota sentenza
pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 500 del 22/07/1999, Rv.
530555;
nello stesso senso si vedano, tra le tante, Sez. 3, Sentenza
n. 13619 del
22/07/2004, Rv. 575434; Sez. L, Sentenza n. 7043 del
13/04/2004, Rv.
572035; Sez. 1, Ordinanza n. 7193 del 16/05/2002, Rv.
558140).
2.5. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con
rinvio alla
Corte d'appello di Brescia, la quale nel tornare ad
esaminare il problema
della sussistenza di colpa in capo al Comune di Polaveno si
atterrà al
seguente principio di diritto: "L'accertamento della responsabilità aquilana della pubblica
amministrazione, derivante dall'adozione di provvedimenti
amministrativi illegittimi, non esige che l'illegittimità di
questi sia
stata previamente dichiarata dal giudice amministrativo".
3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso.
3.1. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso possono essere
esaminati
congiuntamente, perché sollevano questioni analoghe.
Con essi i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata
sarebbe affetta
sia da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360, n. 3, c.p.c. (si assume
violato l'art. 2043 c.c.); sia da un vizio di motivazione,
ai sensi dell'art. 360,
n. 5, c.p.c..
3.2. L'illustrazione dei due motivi può essere riassunta
come segue.
Sostengono i ricorrenti che la Corte d'appello di Brescia ha
escluso la
sussistenza della colpa in capo al Comune di Polaveno. Per
giungere a
questa conclusione, il giudice d'appello:
(-) ha ritenuto non assolto dagli attori l'onere della prova
a loro carico,
senza tener conto che l'illegittimità degli atti
amministrativi dichiarata dal
Consiglio di stato costituiva un "indice presuntivo" della
negligenza della
pubblica amministrazione;
(-) ha ritenuto che il Comune di Polaveno, pur emanando atti
illegittimi, non
potesse avvedersi, con l'uso dell'ordinaria diligenza, della
loro illegittimità, a
causa della complessità della fattispecie, della opinabilità
delle questioni, e
dell'affidamento da esso riposto nei pareri dell'ufficio
tecnico, posti a
fondamento dei provvedimenti rivelatisi dannosi.
Così decidendo, osservano nella sostanza i ricorrenti, la
Corte d'appello
avrebbe da un lato violato l'art. 2043 c.c., perché ha
escluso la condotta
colposa della p.a. nonostante questa avesse tenuto una
condotta non
diligente; e dall'altro avrebbe adottato una motivazione
illogica, perché incoerente rispetto agli elementi di fatto emersi
dall'istruttoria.
I due motivi sono fondati, con riferimento ad ambedue i vizi
da essi
denunciati.
3.4. Come
accennato, la Corte d'appello di Brescia doveva stabilire se
fosse
colposa o meno la condotta del Comune di Polaveno.
Il Comune di Polaveno aveva per quattro volte impedito ad
Al. e
Gi.Br. di proseguire i lavori di costruzione di
un immobile: due
volte annullando la concessione edilizia o dichiarandola
decaduta (ordinanze
del 16.10.1982 e del 24.09.1985), e due volte sospendendone
l'efficacia
(ordinanze del 02.03.1983 e del 04.07.1986).
La Corte d'appello ha escluso la natura colposa della
condotta
dell'amministrazione comunale con riferimento a ciascuno dei
quattro
provvedimenti suddetti.
3.4.1. L'ordinanza di annullamento della concessione
edilizia del
16.10.1982, emessa sul presupposto che la concessione
edilizia fosse stata
rilasciata in contrasto con le prescrizioni del Piano
Regolatore, venne
annullata dal giudice amministrativo (con sentenza divenuta
definitiva nel
1992), sul presupposto che all'epoca del rilascio della
concessione edilizia il
Piano Regolatore non fosse in vigore.
La Corte d'appello ha ritenuto non colposa l'adozione di
quel provvedimento
da parte del Comune, perché emesso "in buona fede", sulla
base di un
parere dell'Ufficio Tecnico comunale, e su questione
controversa.
3.4.2. Le due ordinanze di sospensione dell'efficacia della
concessione
(05.03.1983 e 04.07.1986) vennero adottate dal Comune sul
presupposto che i
lavori eseguiti dagli odierni ricorrenti fossero difformi da
quelli concessi.
Risulta dalla sentenza impugnata che il Tribunale
Amministrativo Regionale
annullò (nel 1987) ambedue quei provvedimenti sul
presupposto che le
opere eseguite non fossero illegittime (così la sentenza
impugnata, p. 14,
secondo capoverso; e p. 16, terzo capoverso); e che il
Consiglio di Stato,
rilevato come il Comune non avesse adottato alcun
provvedimento
sanzionatorio entro 30 giorni dall'emissione del
provvedimenti sospensivi,
ne rilevò la sopravvenuta inefficacia e dichiarò cessato
l'interesse dei
ricorrenti al loro annullamento giurisdizionale.
La Corte
d'appello ha ritenuto che l'adozione di quei due
provvedimenti non
potesse dirsi colposa, perché mancava di tale accertamento
il "presupposto
necessario", ovvero l'accertamento dell'illegittimità dei
provvedimenti da
parte del giudice amministrativo.
3.4.3. L'ordinanza di decadenza dalla concessione edilizia
(ordinanza del
24.09.1985), infine, emessa sul presupposto che i Br.
non avessero
ultimato i lavori nel triennio, venne annullata dal giudice
amministrativo
(con sentenza divenuta definitiva nel 1992), sul presupposto
che la mancata
ultimazione dei lavori nel termine stabilito dalla
concessione edilizia non
fosse imputabile a negligenza dei beneficiari, ma agli
stessi provvedimenti di
sospensione dei lavori adottati dal Comune.
La Corte d'appello ha ritenuto che l'adozione di quel
provvedimento di
decadenza da parte del Comune non fu colposa, per tre
ragioni:
(a) perché non sarebbe stato agevole stabilire se il ritardo
nell'esecuzione delle opere fosse dovuto a inerzia colpevole
dei Br. od
a forza maggiore;
(b) perché il provvedimento di decadenza era un atto dovuto
e
necessitato, il cui presupposto era il solo decorso del
tempo senza che
l'opera fosse stata ultimata;
(c) perché la concessione edilizia rilasciata ai Br.
era stata
annullata dal giudice amministrativo su ricorso di alcuni
privati: e sebbene
tale decisione fu poi riformata dal Consiglio di stato,
nondimeno tale
circostanza confermerebbe "la evidente controvertibilità
della materia" e, di
conseguenza, l'incolpevolezza della p.a. nell'avere emanato
il
provvedimento di decadenza.
3.5. (A) La violazione di legge.
La motivazione riassunta nei §§ 3.4.1. e ss. è, in primo
luogo, viziata da
violazione degli artt. 2043 e 1176 c.c..
L'art. 2043 c.c. stabilisce che ciascuno è responsabile del
danno causato ad
altri con una condotta colposa o dolosa.
La colpa
civile di cui all'art. 2043 c.c., consiste nella deviazione
da una
regola di condotta.
"Regola di condotta" è non soltanto la norma giuridica, ma
anche qualsiasi
doverosa cautela concretamente esigibile dal danneggiante.
Stabilire se questi abbia o meno violato norme giuridiche o
di comune
prudenza è accertamento che va compiuto alla stregua
dell'art. 1176 c.c.,
pacificamente applicabile anche alle ipotesi di
responsabilità
extracontrattuale
(ex multis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza
n. 17397 del
08/08/2007, Rv. 598610).
3.5.1.
L'art. 1176 c.c. impone al debitore di adempiere la
propria
obbligazione con diligenza.
La diligenza di cui all'art. 1176 c.c. è nozione che
rappresenta l'inverso
logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato
diligente, là dove chi
tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in
colpa.
L'autore d'un illecito non è dunque per ciò solo in colpa:
quest'ultima
sussisterà soltanto nel caso in cui il preteso responsabile
non solo abbia
causato un danno, ma l'abbia fatto violando norme giuridiche
o di comune
prudenza.
Le norme di comune prudenza dalla cui violazione può
scaturire una colpa
civile non sono uguali per tutti.
Nel caso di inadempimento di obbligazioni comuni, ovvero di
danni causati
nello svolgimento di attività non professionali, il primo
comma dell'art. 1176
c.c. impone di assumere a parametro di valutazione della
condotta del
responsabile il comportamento che avrebbe tenuto, nelle
medesime
circostanze, il "cittadino medio", ovvero il
bonus paterfamilias: vale a dire la
persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità.
Nel caso, invece, di inadempimento di obbligazioni
professionali, ovvero di
danni causati nell'esercizio d'una attività "professionale"
in senso ampio, il
secondo comma dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più
rigoroso di
accertamento della colpa.
Il "professionista", infatti, è in colpa non solo quando
tenga una condotta
difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle
medesime circostanze il bonus paterfamilias; ma anche quando
abbia tenuto una
condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo
posto, un ideale
professionista "medio" (il c.d. homo eiusdem generis et
condicionis).
L'ideale "professionista medio" di cui all'art. 1176, comma
2, c.c., nella
giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista
"mediocre", ma è un
professionista "bravo": ovvero serio, preparato, zelante,
efficiente.
3.5.2.
La regola di valutazione della colpa dettata
dall'art. 1176, comma 2,
c.c., si applica anche alla pubblica amministrazione.
Essa infatti è norma generale dell'intero sistema delle
obbligazioni, e detta
un criterio suscettibile di applicazione in qualsiasi
ipotesi di inadempimento
o di responsabilità aquiliana.
Per stabilire, dunque,
se una pubblica amministrazione abbia
o meno tenuto
una condotta colposa, occorre confrontare la condotta da
questa
concretamente tenuta con la condotta che, nelle medesime
circostanze,
avrebbe tenuto l'homo eiusdem generis et condicionis: vale a
dire una
pubblica amministrazione che:
(a) rispetta la legge (art. 1, comma 1, l. 07.08.1990 n. 241);
(b) agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i
cittadini (art. 1,
commi 1 e 2, l. 07.08.1990 n. 241);
(c) non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta
(art. 97 cost.);
(d) è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti
e zelanti (art. 98
cost.).
Questo, dunque, è il modello astratto di "pubblica
amministrazione" e di
"pubblico impiegato"
cui, ai sensi dell'art. 1176, comma 2,
c.c., la Corte
d'appello avrebbe dovuto comparare la condotta concretamente
tenuta dal
Comune di Polaveno.
3.5.3. Nel caso di specie, la Corte d'appello ha accertato
in fatto che il
Comune di Polaveno con provvedimento del 16.10.1982 annullò
la
concessione edilizia rilasciata a Al. e Gi.Br. due anni prima,
perché difforme dalle prescrizioni del Piano Regolatore.
In seguito il
giudice amministrativo accertò che all'epoca dell'adozione
del
provvedimento di annullamento della concessione edilizia,
il Piano
Regolatore non era ancora divenuto efficace, non essendosi
esaurito il
relativo procedimento di approvazione.
Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi
dell'art. 97 cost. e
per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non
conoscere la legge.
Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati,
a fortiori
sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un
amministratore.
Ora,
appare a questa Corte sorprendente che una
amministrazione
comunale possa non sapere se il Piano Regolatore che
disciplina l'uso del
suo territorio sia vigente o meno, sia approvato o meno, sia
conforme o
meno alle concessioni edilizie che essa stessa rilascia;
così come appare
sorprendente che una pubblica amministrazione, dopo avere
rilasciato una
concessione, attenda due anni e quattro mesi prima di
avvedersi che essa
non è conforme al Piano Regolatore.
Pertanto, una volta accertato in facto che il Comune di Polaveno aveva
annullato la concessione edilizia per contrarietà ad un
Piano Regolatore mai
entrato in vigore, ne sarebbe dovuto seguire in iure un
giudizio di difformità
della condotta del Comune di Polaveno da quello che avrebbe
tenuto, nelle
medesime circostanze, l'amministratore "medio" di cui
all'art. 1176, comma
2, c.c..
Dunque la Corte d'appello, ritenendo "scusabile" che un
Comune ignori
l'esistenza e l'efficacia del Piano Regolatore del suo
stesso territorio, ha
effettivamente violato l'art. 1176 c.c. e, di conseguenza,
l'art. 2043 c.c.: perché adottato un criterio di valutazione della colpa
difforme da quello
prescritto dalla legge.
3.5.4. Considerazioni analoghe debbono essere svolte
rispetto a quella parte
della sentenza impugnata che ha ritenuto "non colposa", da
parte del
Comune, l'adozione d'un provvedimento di decadenza dalla
concessione
edilizia (ordinanza 24.09.1985), motivato con l'inutile
decorso del termine ivi
previsto per l'ultimazione dei lavori.
Quel
provvedimento fu ritenuto illegittimo dal giudice
amministrativo, in base al rilievo che il protrarsi dei lavori fu dovuto
proprio ai provvedimenti
di annullamento e sospensione adottati nei due anni
precedenti dal Comune
di Polaveno.
Cionondimeno, la Corte d'appello ha ritenuto scusabile la
sua adozione da
parte della p.a., in base al rilievo in diritto che il
provvedimento di
decadenza dalla concessione doveva essere emesso per il solo
fatto dello
spirare del termine concesso per l'ultimazione dei lavori.
3.5.5. Anche questa affermazione è erronea in diritto.
Il provvedimento di decadenza previsto dall'art. 4 l.
28.1.1977 n. 10 non
prevedeva affatto che, decorso il termine per l'ultimazione
dei lavori edili
previsto nella concessione, il titolare di essa ne decadesse
ipso facto.
Quella norma infatti era stata sempre interpretata sia da
questa Corte, sia
dal Consiglio di stato, nel senso che
la decadenza è
subordinata a due
presupposti: (a) il mancato completamento dei lavori; (b)
l'inerzia colpevole
del titolare della concessione. Inerzia che per definizione
non sussiste
quando sia stata proprio l'amministrazione ad inibire la
prosecuzione delle
opere
(tra le tante, in tal senso, C. Stato, sez. V,
12.03.1996, n. 256; C.
Stato, sez. V, 12.07.1996, n. 864; C. Stato, sez. V,
23.11.1996, n. 1414; C.
Stato, sez. V, 06.10.1999, n. 1338; C. Stato, sez. V,
03.02.2000, n. 597).
Nel caso di specie risulta essere stato lo stesso Comune di
Polaveno ad
annullare la concessione prima (nel 1982), ed a sospenderla
poi (nel 1983).
Esso dunque non poteva ignorare che il ritardo
nell'ultimazione dell'opera
fosse stato concausato, quanto meno, dalla propria condotta.
Anche in questo caso, pertanto, la Corte d'appello ha
compiuto una falsa
applicazione dell'art. 1176 c.c., ritenendo scusabile una
condotta della
pubblica amministrazione che era invece difforme dal modello
di
amministrazione "diligente" prescritto dalla norma appena
ricordata.
3.5.6. Anche su questo punto la sentenza andrà dunque
cassata con rinvio
alla Corte d'appello di Brescia, la quale nel riesaminare la
vicenda applicherà
il seguente principio di diritto: "La diligenza esigibile dalla pubblica amministrazione nel
compimento dei propri atti, ivi compresa l'adozione di
provvedimenti amministrativi, va valutata col criterio
dettato dagli
artt. 1176, comma 2, c.c., e 97 cost.: ovvero comparando la
condotta tenuta nel caso concreto, con quella che -idealmente-
avrebbe tenuto nelle medesime circostanze una
amministrazione
"media", per tale intendendosi non già una pubblica
amministrazione "mediocre", ma una pubblica amministrazione
efficiente, zelante, solerte e che conosca ed applichi la
legge".
3.6. (B) Il vizio di motivazione.
3.6.1. Oltre che erronea in iure, la motivazione adottata
dalla Corte
d'appello per escludere la colpa del Comune di Polaveno è
altresì illogica.
L'illogicità riguarda la parte della motivazione con cui è
stata esclusa la
colpa del Comune di Polaveno per avere adottato una
illegittima ordinanza
di decadenza dalla concessione edilizia, a causa
dell'inutile decorso del
termine per l'ultimazione dei lavori (supra, § 3.4.3).
3.6.2. La Corte d'appello di Brescia, per escludere la colpa
dei Comune di
Polaveno nell'adozione dell'ordinanza di decadenza dalla
concessione edilizia
per mancata ultimazione dei lavori nel termini ivi
stabilito, ha motivato la
propria decisione affermando che:
(a) stabilire se l'inerzia del titolare della concessione
fosse stata colpevole o
meno era "questione di non agevole comprensibile lettura",
perché lo stesso
giudice amministrativo "ha in via interpretativa distinto
tra inerzia
dell'interessato e impossibilità di portare a termine
l'opera" (così la sentenza
impugnata, p. 17);
(b) la questione che il Comune di Polaveno dovette
affrontare era
"complessa", perché la concessione edilizia rilasciati ai sigg.ri Br. era
stata annullata dallo stesso TAR su ricorso di alcuni
privati, con sentenza
tuttavia riformata in appello dal Consiglio di Stato. Questa
circostanza
rendeva evidente la "controvertibilità della materia"
(ibidem, p. 17, ultimo
capoverso).
Ciascuna di
queste due affermazioni è illogica.
3.6.3. La prima affermazione è illogica per aconsequenzialità.
La Corte d'appello ha infatti nella sostanza affermato che
il Comune di
Polaveno non poteva con l'ordinaria diligenza avvedersi di
avere adottato un
provvedimento illegittimo, perché il giudice amministrativo
aveva distinto
tra mancata ultimazione dei lavori dovuta ad inerzia del
titolare (che
comportava la decadenza dalla concessione) e mancata
ultimazione dei
lavori dovuta a forza maggiore (che non comportava la
decadenza dalla
concessione).
Tra queste due affermazioni non vi è alcun nesso di
derivazione logica.
La distinzione tra ritardo colpevole e ritardo incolpevole
nell'esecuzione dei
lavori è prevista dalla legge stessa, e non c'era bisogno
certo d'una
sentenza per conoscerla.
Pertanto dal fatto che il TAR, nell'annullare il
provvedimento di decadenza
adottato dal Comune, ritenne incolpevole il ritardo dei
Br. nel
completare il loro fabbricato, non deriva affatto come
conseguenza
ineludibile l'impossibilità per il Comune di accorgersi
dell'illegittimità del
proprio provvedimento.
3.6.4. La seconda affermazione è illogica per inconferenza.
La Corte d'appello doveva stabilire se fosse stata colposa o
meno l'adozione
d'un provvedimento illegittimo di decadenza dalla
concessione edilizia, per
mancata ultimazione dell'opera in terminis.
La Corte d'appello ha escluso la natura colposa dell'operato
della p.a.
ritenendo "controvertibile e complessa" la materia oggetto
dell'ordinanza di
decadenza, e l'ha ritenuta complessa perché la concessione
edilizia "era
stata annullata dal TAR su ricorso di privati, per
violazione delle norme
urbanistiche".
Ora, che la concessione edilizia fosse stata annullata dal
TAR non è
circostanza che giustificava l'adozione d'un provvedimento
di decadenza.
Delle due, infatti, l'una: se il Comune avesse ritenuto
condivisibile la
sentenza del TAR, avrebbe dovuto ritenere non più esistente
la concessione a suo tempo rilasciata, ed adottare i
provvedimenti consequenziali; se,
invece, avesse ritenuto che la decisione del TAR non avesse
solide basi, e vi
fosse rischio di riforma in appello, proprio per questa
ragione avrebbe
dovuto considerare vigente ed efficacia la concessione
edilizia, ed astenersi
dall'adottare provvedimenti di decadenza senza valutare
correttamente se il
mancato compimento dell'opera fosse ascrivibile a colpa del
titolare della
concessione.
La Corte d'appello, insomma, ha escluso la colpa
nell'adozione
dell'ordinanza di decadenza (del 24.09.1985) con una
motivazione che
poteva al più escludere la colpa della diversa ordinanza di
annullamento (del
16.10.1982). |
QUINDI?? |
Quindi, gli amministratori locali ed i segretari
comunali "compiacenti" che si "lamentano"
(e continueranno a farlo) dei propri dipendenti tecnici
(soprattutto) che sono "particolarmente"
preparati, efficienti, prudenti e zelanti
nonché i dipendenti dell'U.T. di altri comuni che, con il loro
quotidiano modus operandi assai "disinvolto"
(...e basta verificarlo consultando gli atti
pubblicati all'albo pretorio qua e là),
di fatto "sputtanano"
professionalmente ed indirettamente (e seguiteranno
imperterriti con tale "agere" disdicevole) quelli
preparati, efficienti, prudenti e zelanti
sono avvisati: la querela (se non altro...) è bella che pronta nel
cassetto, basta solo sottoscriverla ed inviarla alla
competente Procura della Repubblica. |
16.10.2015
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione abusiva di una piscina in area
paesaggisticamente vincolata non rientra fra le ristrette
ipotesi sanabili ex art. 167 dlgs 42/2004.
In caso di vincolo paesaggistico, com’è
noto, è precluso il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, stante il divieto di
autorizzazione paesaggistica postuma espressamente previsto
dall’art. 146 del D.Lgs. 42/2004. A tale principio fanno
eccezione solo i limitatissimi casi previsti dal comma 4,
dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, e la realizzazione di una
piscina non rientra tra tali ipotesi.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica
di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude
dalla compatibilità paesaggistica interventi già realizzati,
che abbiano comportato “creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come da giurisprudenza di questo stesso TAR, la posa in
opera di una piscina non rientra tra gli interventi per i
quali vige l’eccezione al divieto di autorizzazione postuma
di cui al citato art. 167, in quanto comportante la
realizzazione di volumi interrati o seminterrati rientranti
soggetti anch’essi al regime di insanabilità dettato
dall’indicato art. 146.
Il Collegio osserva in proposito che pur se, in ipotesi, non
si volesse concordare con l’assunto che la costruzione di
una piscina realizza nuovi volumi interrati o seminterrati,
tale intervento comporta in ogni caso la realizzazione di
superfici utili rientrando quindi, in ogni caso, nel divieto
di autorizzazione paesaggistica postuma.
---------------
Qualora la Soprintendenza esprima il proprio parere
"negativo" (ex art. 167 dlgs 42/2004) oltre il temine di 90
gg. dalla richiesta da parte del Comune ciò non rende
illegittimi né il parere, né il provvedimento di diniego
della compatibilità paesaggistica.
L’inosservanza dei termini prescritti dalla legge per
l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non
priva la Soprintendenza del potere di provvedere, e il
relativo parere continua a sussistere e mantiene la sua
efficacia vincolante.
Ma anche a voler ipotizzare che la mancata osservanza, da
parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto
ex lege per il rilascio del parere di compatibilità
paesaggistica comporti che il parere tardivo perda il
carattere vincolante impressogli dalla legge, questo non lo
qualifica in termini di illegittimità. Il parere costituirà
sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione
ben può valutare e recepire, potendosene, se del caso,
motivatamente discostare.
... per l'annullamento:
- della nota dell’Ufficio Tecnico del Comune di Tora e
Piccilli, prot. 308/2013, avente a oggetto il diniego
dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria;
- della nota del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Soprintendenza per i Beni Architettonici,
Paesaggistici, Storici. Artistici e Etnoantropologici per le
Province di Caserta e Benevento prot. 22635 del 23.10.2012,
mediante la quale la prefata autorità notificava al solo
Comune di aver dato parere non favorevole alla sopra citata
istanza;
- per quanto di interesse, della nota prot. n. 3432 del
10.11.2012 con cui il Comune di Tora e Piccilli comunicava i
motivi del rilascio del permesso di costruire in sanatoria
relativamente alla piscina;
- della nota del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Soprintendenza per i Beni Architettonici.
Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici per le
Province di Caserta e Benevento prot. n. 1603 del
21.01.2013, pure notificata in data 24.07.2013, mediante la
quale la Soprintendenza ribadiva il parere non favorevole
già espresso con la nota della soprintendenza prot. 22635
del 23.10.2012;
- dell'ordinanza di rimozione e ripristino dello stato dei
luoghi prot. n. 320 del 30.01.2013, notificata in data
24.07.2013, con il quale il Comune di Tora e Piccilli
ordinava la riduzione in pristino della piscina.
...
FATTO
Il Comune di Tora e Piccilli, con ordinanza n. 12 del
16.08.2011, ordinava la rimozione e il ripristino dello
stato dei luoghi per l’abusiva realizzazione di una piscina
in zona paesaggisticamente vincolata.
Gli odierni ricorrenti facevano, quindi, richiesta di
compatibilità paesaggistica e presentavano istanza di
permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del
d.p.r. 380/2001.
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con nota
della Soprintendenza prot. 22635 del 23.10.2012, esprimeva
però parere sfavorevole alla sopra citata istanza, in
quanto, con la realizzazione di una piscina, si sarebbe
andata a realizzare una "modifica dell'orografia
dell'area pertinenziale".
Con nota prot. n. 3432 dei 10.11.2012, il Comune di Tora e
Piccini comunicava i motivi ostativi al rilascio
dell’autorizzazione in sanatoria facendo riferimento al
parere negativo della Soprintendenza.
I ricorrenti depositavano osservazioni in proposito, ma la
Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici,
Storici, Artistici e Etnoantropologici per le Province di
Caserta e Benevento ribadiva, con nota prot. n. 1603 del
21.01.2013, il parere non favorevole già espresso con la
precedente nota prot. 22635 del 23.10.2012.
Facevano seguito il provvedimento di diniego dell’istanza di
permesso di costruire in sanatoria, n. 308 del 30.1.2013, e
l’ordinanza di rimozione e ripristino dello stato dei luoghi
prot. n. 320 del 30.01.2013, che ordinava nuovamente la
riduzione in pristino del manufatto.
Le parti ricorrenti, con il presente ricorso, notificato il
07.11.2013, impugnavano il parere negativo della
soprintendenza e i provvedimenti di diniego del permesso di
costruire in sanatoria e dell’ordine di demolizione,
chiedendone l’annullamento.
Si costituivano in giudizio il Comune e il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali.
DIRITTO
1) Il ricorso si rivela infondato.
L’area su cui è stata realizzata la piscina risulta essere
paesaggisticamente vincolata.
In caso di vincolo paesaggistico, com’è noto, è precluso il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
D.P.R. 380/2001, stante il divieto di autorizzazione
paesaggistica postuma espressamente previsto dall’art. 146
del D.Lgs. 42/2004. A tale principio fanno eccezione solo i
limitatissimi casi previsti dal comma 4, dell’art. 167 del
D.lgs. 42/2004, e la realizzazione di una piscina non
rientra tra tali ipotesi.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica
di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude
dalla compatibilità paesaggistica interventi già realizzati,
che abbiano comportato “creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Come da giurisprudenza di questo stesso TAR, la posa in
opera di una piscina non rientra tra gli interventi per i
quali vige l’eccezione al divieto di autorizzazione postuma
di cui al citato art. 167, in quanto comportante la
realizzazione di volumi interrati o seminterrati rientranti
soggetti anch’essi al regime di insanabilità dettato
dall’indicato art. 146 (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII,
07/01/2014, n. 1, che richiama sul principio
dell’insanabilità anche nel caso di volumi interrati o
seminterrati, Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4503).
Il Collegio osserva in proposito che pur se, in ipotesi, non
si volesse concordare con l’assunto che la costruzione di
una piscina realizza nuovi volumi interrati o seminterrati,
tale intervento comporta in ogni caso la realizzazione di
superfici utili rientrando quindi, in ogni caso, nel divieto
di autorizzazione paesaggistica postuma.
2) Alla luce di quanto indicato, le argomentazioni svolte in
ricorso si rivelano prive di pregio.
In particolare, è privo di pregio il primo motivo di ricorso
basato sulla circostanza che la Soprintendenza avrebbe reso
il suo parere negativo oltre il temine di 90 dalla richiesta
da parte del Comune. Ciò non rende, difatti, illegittimi né
il parere, né il provvedimento di diniego
dell’autorizzazione paesaggistica.
L’inosservanza dei termini prescritti dalla legge per
l’emissione del parere di compatibilità paesaggistica non
priva la Soprintendenza del potere di provvedere, e il
relativo parere continua a sussistere e mantiene la sua
efficacia vincolante (TAR Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez.
I, 09.02.2015, n. 53).
Ma anche a voler ipotizzare che la mancata osservanza, da
parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto
ex lege per il rilascio del parere di compatibilità
paesaggistica comporti che il parere tardivo perda il
carattere vincolante impressogli dalla legge, questo non lo
qualifica in termini di illegittimità. Il parere costituirà
sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione
ben può valutare e recepire, potendosene, se del caso,
motivatamente discostare (TAR Lazio Roma Sez. II-bis,
12.02.2014, n. 1733).
Infondato, per quanto anzidetto, è anche il secondo motivo
di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 167 del
DLgs 42/2004 che, a detta di parte ricorrente, avrebbe
consentito il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
postuma e, conseguentemente, il rilascio del permesso di
costruire per l’opera in questione.
L’opera, infatti, non poteva essere oggetto di
autorizzazione paesaggistica postuma, né di conseguenza di
accertamento di conformità, per le ragioni in precedenza
indicate nel punto 1.
3) Il ricorso deve quindi essere rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.10.2015 n. 4720 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è passibile di accertamento compatibilità paesaggistica
l'abusiva piscina interrata di forma irregolare, la
pavimentazione di camminamento di area esterna in pietra
arenaria ed il locale bagno in muratura ricavato al di sotto
di una rampa di scala esterna con copertura a falda
inclinata.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica
di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude
dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che
abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie non è dubitabile che la piscina
costituisca, al pari del ricavato servizio igienico, un
aumento volumetrico e pertanto si ponga fuori dalla
previsione invocata.
... per l'annullamento:
–dell'ordinanza di sospensione lavori n. 35977 del
29.09.2005 emessa dal Comune di Sorrento;
–del provvedimento prot. nr. 20152/2009 del 12.08.2009 con
il quale la Soprintendenza dei BB.AA. di Napoli ha espresso
parere negativo sulla istanza di compatibilità paesaggistica
ex art. 167 DLgs. 42/2004;
...
FATTO
1.- La parte ricorrente impugna il provvedimento di
sospensione lavori ed il successivo parere negativo della
Soprintendenza ai Beni culturali di Napoli in ordine alla
compatibilità paesaggistica di una piscina e di un servizio
igienico realizzato sine titulo in Sorrento via ...
nr. 21/A.
Dopo il deposito di motivi aggiunti e di memoria ha concluso
per l’accoglimento.
2.- Resiste l’amministrazione statale concludendo per la
reiezione.
3.- All’udienza indicata la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
4.- Il ricorso è in parte improcedibile ed in parte da
respingere.
4.1.- L’impugnazione avverso il provvedimento di sospensione
lavori è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse
sia perché trattasi di atto per sua natura dagli effetti
interinali sia perché superato dalla successiva
determinazione impeditiva della Soprintendenza ai Beni
culturali ed ambientali.
4.2.- Le doglianze avverso il parere negativo di
quest’ultima (immediatamente impugnabile stante la sua
evidente potenzialità lesiva) sono infondate e, nelle forme
sintetiche imposte dal CPA, da rigettare.
Con i motivi articolati che possono congiuntamente
esaminarsi stante il loro carattere unitario, si contesta la
predetta determinazione della Soprintendenza che così si è
espressa:
a seguito di accertamento ..della Polizia Municipale del
Comune di Sorrento è stata contestata la realizzazione di
opere abusive consistenti in una piscina interrata di forma
irregolare; pavimentazione di camminamento e di area esterna
in pietra arenaria; locale bagno in muratura ricavato al di
sotto di una rampa di scala esterna con copertura a falda
inclinata;
.. tali opere ricadono in zona territoriale 1B (tutela
dell’ambiente naturale di 2° grado) del PUT e in zona E 1- 1
(tutela agricola) del PRG adeguato al PUT;
..tali opere si configurano quale nuova edificazione anche
con incremento DIO volumi e di superfici utili.
Secondo la ricorrente, che si sofferma su tali concetti
anche nella memoria finale, per la piccola piscina ed il
bagno attiguo ricavato, non si configurerebbe un nuovo
volume sia per le ridotte dimensioni che per il loro
carattere pertinenziale.
Entrambi gli asserti sono però da respingere.
La previsione dell’art. 167 del DLgs 42/2004, in un’ottica
di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude
dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che
abbiano comportato “creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie, ad avviso del Tribunale, non è
dubitabile che la piscina costituisca, al pari del ricavato
servizio igienico, un aumento volumetrico e pertanto si
ponga fuori dalla previsione invocata.
Basta qui richiamare il seguente principio di portata
generalizzante in materia (CdS sez. VI – sent. nr. 4503
dell’11.09.2013): “…la Sezione richiama e ribadisce in
questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la
quale -come si desume dall’articolo 167, comma 4, del
medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi
interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile
il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo
(perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria
paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di
qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza
paesaggistica per le opere da realizzare.”
Parimenti inconferente risulta il richiamo al concetto di
pertinenza.
Come già enunciato da questo Tribunale (Tar Campania/Napoli
- sez. VII - nr. 2088 del 21.04.2009) tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo della volumetria del
manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve
intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non
qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in
ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere
rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Stante la infondatezza nel merito delle censure proposte, si
dequotano i rilievi procedimentali con riferimento alla
violazione dell'art. 10-bis L. 241/1990: il provvedimento
impugnato, infatti, non avrebbe potuto avere in nessun caso,
diverso contenuto.
Per giurisprudenza costante, anche di questo Tribunale, la
violazione dell'art. 10-bis L. 07.08.1990 n. 241 non produce
ex se l'illegittimità del provvedimento finale,
dovendosi interpretare la disposizione sul cosiddetto
preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies
della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto
un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare
il contenuto sostanziale del provvedimento e,
conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in
cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla
legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati (Tar
Lazio/Roma – Sez. II-ter nr. 5503 - 15.06.2007)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 07.01.2014 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Il
nuovo Ape. Guida all'attestato di prestazione energetica (articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
edilizi e titoli abilitativi , differenze tra CIL, CILA,
SCIA, Super-DIA e Permesso di costruire.
Interventi edilizi e titoli abilitativi, in questo articolo
analizziamo le definizioni di CIL, CILA, SCIA, Super-DIA,
Permesso di costruire e illustriamo quando sono necessari e
quali sono le differenze (...continua)
(08.10.2015 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: APE
2015, controlli a campione e obbligo di sopralluogo.
APE 2015, controlli a campione e obbligo di sopralluogo. Le
nuove regole in vigore forniscono maggiori garanzie a tutela
della qualità e della professionalità (...continua) (08.10.2015
- link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Valutazione
rischio rumore, la nuova guida Inail.
Valutazione rischio rumore, ecco la nuova guida Inail con
tutte le indicazioni e gli aspetti relativi alla sua
prevenzione e riduzione (...continua) (08.10.2015
- link a www.acca.it). |
APPALTI:
PARTECIPAZIONE DELLE RETI D’IMPRESA ALLE PROCEDURE PER
L’AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI - Guida pratica per le
stazioni appaltanti e gli operatori economici (24.09.2015
- tratto da www.itaca.org). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 42 del 16.10.2015,
"Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e
relativa vigilanza in zone sismiche" (L.R.
12.10.2015 n. 33). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 42 del 16.10.2015, "Disposizioni
per la valorizzazione del ruolo istituzionale della Città
metropolitana di Milano e modifiche alla legge regionale
08.07.2015, n. 19 (Riforma del sistema delle autonomie della
Regione e disposizioni per il riconoscimento della
specificità dei Territori montani in attuazione della legge
07.04.2014, n. 56 ‘Disposizioni sulle Città metropolitane,
sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni’)" (L.R.
12.10.2015 n. 32). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 16.10.2015, "Piano
cave provinciale di Bergamo – Sentenze n. 1927/2012 e n.
611/2013 del TAR di Brescia" (deliberazione
C.R. 29.09.2015 n. 848). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 13.10.2015,
"Ulteriore differimento del termine di entrata in vigore
della nuova classificazione sismica del territorio approvata
con d.g.r. 11.07.2014, n. 2129 «Aggiornamento delle zone
sismiche in Regione Lombardia (l.r. 1/2000, art. 3, comma
108, lett. d)»" (deliberazione
G.R. 08.10.2015 n. 4144). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 12.10.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla regione Lombardia
alla data del 30.09.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 05.10.2015 n. 148). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 41 del 09.10.2015, "Misure di
efficientamento dei sistemi di illuminazione esterna con
finalità di risparmio energetico e di riduzione
dell’inquinamento luminoso" (L.R.
05.10.2015 n. 31). |
TRIBUTI:
G.U. 07.10.2015 n. 233, suppl. ord. n. 55/L:
►
Misure per la revisione della disciplina degli interpelli
e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli
6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge
11.03.2014, n. 23 (D.Lgs.
24.09.2015 n. 156);
►
Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione
dell’articolo 8, comma 1, della legge 11.03.2014, n. 23
(D.Lgs.
24.09.2015 n. 158);
►
Misure per la semplificazione e razionalizzazione delle
norme in materia di riscossione, in attuazione dell’articolo
3, comma 1, lettera a), della legge 11.03.2014, n. 23 (D.Lgs.
24.09.2015 n. 159). |
APPALTI:
G.U. 07.10.2015 n. 233 "Determinazione degli
indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione
delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento
del terrorismo da parte degli uffici della pubblica
amministrazione" (Ministero dell'Interno,
decreto 25.09.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Ulteriori modifiche al Decreto Legislativo
09.04.2008, n. 81 (ANCE di Bergamo,
circolare 09.10.2015 n. 200). |
SICUREZZA LAVORO:
LE NUOVE "SEMPLIFICAZIONI" IN MATERIA DEL LAVORO
DIMISSIONI-DISABILI-SICUREZZA-REGIME SANZIONI.
Analisi del decreto legislativo 14.09.2015 n. 151 recante
disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle
procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e
imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di
lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge
10.12.2014, n. 183
Indice:
●
Razionalizzazione e semplificazione in materia di
inserimento mirato delle persone con disabilità
●
Razionalizzazione e semplificazione in materia di salute e
sicurezza sul lavoro
●
Revisione del regime delle sanzioni
●
Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale (Fondazione
Studi Consulenti del Lavoro,
circolare n. 19/2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
F. Molinaro,
Il procedimento di contrattazione in tema di vendita
immobiliare - NOTA A CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE,
SENTENZA 06.03.2015 N. 4628 (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2015).
---------------
SOMMARIO: 1. Il caso - 2. L’origine del contratto
preliminare e lo sviluppo di figure contrattuali ad esso
connesse - 3. La prima pronuncia della Suprema Corte sul
“preliminare di preliminare” - 4. Il preliminare di
preliminare alla luce della sentenza delle Sezioni Unite. |
APPALTI SERVIZI:
C. Guccione,
La finanza di progetto nell’affidamento della concessione di
servizi
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2015).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La programmazione nei
servizi - 3. I requisiti del promotore e del concessionario
- 4. La presentazione della proposta - 5. La valutazione
della proposta e la nomina del promotore - 6. La procedura
di gara - 7. Conclusioni. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I Tortelli e R. Di Renzo,
Una pausa di riflessione sull’art. 51 T.U.E.L.: interruzione
della continuità del mandato di sindaco in caso di gestione
commissariale (Rassegna Avvocatura dello Stato
n. 2/2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Solo con riguardo al budget di spesa del biennio
2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute
nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai
vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge
190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Orsogna (CH) premette che nel
corso dell’anno 2012 è venuto a cessare un dipendente, a
tempo indeterminato ma parziale (40%), che rivestiva il
ruolo di funzionario addetto all’Ufficio tributi. In sede di
programmazione finanziaria per l’anno 2013 è stata
programmata la riferita assunzione che successivamente è
stata in effetti bandita.
Con deliberazione di questa Sezione in data 02.04.2015, n.
50, il Comune istante aveva, in particolare, richiesto
delucidazioni sull’applicabilità alle procedure già avviate
delle disposizioni in materia di contenimento del turn-over,
ricevendone risposta positiva.
Ricostruendo la vicenda oggetto del precedente deliberato,
si ricorda che:
i) nell’anno 2012 il comune istante ha presentato una
cessazione di personale, da poter reintegrare l’anno
successivo;
ii) nel 2013 lo stesso comune aveva, in effetti, programmato
sotto il profilo finanziario la nuova assunzione nei limiti
di spesa pro tempore vigenti;
iii) nel 2014 aveva luogo l’avvio della procedura
concorsuale: in pendenza della suddetta sono intervenute
norme finanziarie che verranno di presso scrutinate.
Tanto premesso, nell’istanza si chiede di specificare se,
alla stregua del sopraggiunto (al bando) D.L. 24.06.2014, n.
90, convertito nella l. 11.08.2014, n. 114, l’ente possa
concludere la procedura concorsuale descritta, allegando
a proprio favore il parere della Sezione di controllo della
Regione Sardegna, 21.04.2015, n. 32, che ha ristretto
l’applicazione dell’art. 1, comma 424, della l. 23.12.2014,
n. 190, alle sole assunzioni programmate con budget 2015 e
2016.
...
L’art. 3, comma 5, del decreto citato dal comune istante ha
previsto che “Negli anni 2014 e 2015 le regioni e gli
enti locali sottoposti al patto di stabilità interno
procedono ad assunzioni di personale a tempo indeterminato
nel limite di un contingente di personale complessivamente
corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente.
Resta fermo quanto disposto dall'articolo 16, comma 9, del
decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con
modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135. La predetta
facoltà ad assumere è fissata nella misura dell'80 per cento
negli anni 2016 e 2017 e del 100 per cento a decorrere
dall'anno 2018. Restano ferme le disposizioni previste
dall'articolo 1, commi 557, 557-bis e 557-ter, della legge
27.12.2006, n. 296. A decorrere dall'anno 2014 è consentito
il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un
arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della
programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e
contabile”.
La Sezione delle Autonomie della Corte (deliberazione 21.11.2014 n. 27)
ha precisato come, lungi da consentire una indiscriminata
applicazione del c.d. “cumulo dei resti”, “la
disposizione (…) sembra preordinata a risolvere un problema
diverso, pur presente negli enti che debbono ridurre la
spesa: la possibilità di tenere conto delle cessazioni
future ma già definite. Infatti, il riferimento alla
programmazione sembra lasciare intendere che il triennio
possa essere quello successivo al 2014, così come la
dicitura riferita alle risorse “destinate” alle assunzioni”.
La disposizione in questione è stata tuttavia novellata dal
recente d.l. 19.06.2015, n. 78, che ha aggiunto l’inciso “è
altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili
delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite
al triennio precedente”.
Si deve ricordare in ogni caso, che a norma dell’art. 1,
comma 424, della l. 190/2014, “le regioni e gli enti
locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per
le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali
stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico (tra cui evidentemente
non rientrano i vincitori all’esito di procedura non ancora
conclusa, ndr) collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Tuttavia, anche tale disposizione non risulta preclusiva
all’assunzione programmata, atteso che, secondo quanto
indicato dalla Sezione Autonomie, con
deliberazione 28.07.2015 n. 26,
solo con riguardo al budget di spesa del biennio
2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute
nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai
vincoli posti dall’articolo 1, comma 424 della legge
190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 07.10.2015 n. 247). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella
sostituzione dei pensionandi
ragioniere generale e responsabile del servizio
del personale
il Comune non può superare l’obbligo di
avvalersi, in via prioritaria, del personale soprannumerario
delle Province.
---------------
Il comune di Poggio a Caiano (PO), per mezzo del
Consiglio delle autonomie locali, sottopone il seguente
quesito:
- in occasione del pensionamento del Ragioniere generale e
del responsabile del servizio del personale si chiede di
sapere se all’eventuale assunzione siano applicabili le
previsioni dell’art. 4 del d.l. 78/2015 (convertito con
legge 125/2015) procedendo preliminarmente la ricollocazione
del personale delle Province soprannumerario.
...
Nel merito, si ritiene utile richiamare la
deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Sezione
delle Autonomie che specificamente si riferisce al comma
oggetto del quesito. Tuttavia, il comma stesso (comma 424
della legge di stabilità 2015) è stato modificato, qualche
giorno dopo la delibera della Sezione, dal decreto 78/2015
in sede di conversione.
La Sezione delle Autonomie rinveniva una
possibilità di deroga alle disposizioni sulle assunzioni in
casi di “specifica e legalmente qualificata
professionalità, eventualmente attestata da titoli di studio
precisamente individuati” mentre la legge prevede la
deroga per quel personale “in possesso di titoli di
studio specifici abilitanti”.
Perciò, allo stato attuale della normativa, in presenza di
esigenze di assumere personale “in possesso di titoli di
studio specifici abilitanti” si può derogare all’obbligo
di assumere personale soprannumerario delle Province.
Occorre quindi determinare se il caso specifico rientri
nella previsione derogatoria.
La richiesta verte sull’assunzione del Ragioniere generale
del comune e il responsabile del servizio del personale. In
entrambi i casi non appare necessaria la sussistenza di uno
specifico titolo di studio abilitante; infatti, anche da un
punto di vista concreto, le due posizioni vengono ricoperte
in genere da laureati in economia o giurisprudenza, ma anche
da diplomati e personale in possesso di requisiti di
specifica esperienza, in assenza di una abilitazione
professionale.
Pertanto, non si ritiene che il Comune
richiedente possa superare l’obbligo di avvalersi, in via
prioritaria, del personale soprannumerario delle Province
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 06.10.2015 n. 400). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mentre
i budget assunzionali 2015/2016
(derivanti anche dalle cessazioni dei trienni precedenti il
2014 e 2015) sono integralmente
destinati alle finalità di cui all’art. 1, comma 424, della
l. n. 190/2014, può essere utilizzata per effettuare nuove
assunzioni di personale a tempo indeterminato la capacità
assunzionale del 2014 derivante dai “resti” relativi al
triennio 2011/2013, sempre che sia assicurato il rispetto
dei vincoli di finanza pubblica
(rispetto del patto di stabilità, dell’art. 1, commi 557 e
seguenti, della l. n. 296/2006, delle percentuali di
turn-over, quantificate in base alla spesa di personale
cessato nell’anno precedente, secondo le previsioni
dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014)
e siano stati osservati, a suo tempo, gli obblighi previsti
dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 90/2014
(programmazione finanziaria e contabile del fabbisogno di
personale).
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 17442/1.13.9, del 16.07.2015,
pervenuta il 20.07.2015, una richiesta di parere del
Sindaco del Comune di Montevarchi (AR) sulla corretta
interpretazione dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 78/2015,
che consente “l’utilizzo dei residui ancora disponibili
delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite
al triennio precedente”.
In particolare si chiede:
1. se il triennio di riferimento sia il 2011/2013 ovvero
il 2012/2014;
2. se l’utilizzo dei resti può riguardare nuove
assunzioni o solo il personale degli enti di area vasta
secondo le previsioni dell’art. 1, comma 424, della l. n.
190/2014;
3. se la previsione di utilizzo dei resti assunzionali
debba essere stata già prevista nel piano assunzionale 2014
oppure possa esserlo in quello del 2015.
...
L’art. 4, comma 3, d.l. n. 78/2015, convertito in l. n.
125/2015, intervenendo sull'art. 3, comma 5, del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito in l. 11.08.2014, n. 114, in
tema di limiti alle assunzioni di personale, introduce la
disposizione che recita “è altresì
consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle
quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al
triennio precedente”.
Con tale disposizione, al “cumulo delle
risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non
superiore a tre anni”,
che la
deliberazione 21.11.2014 n. 27 della sezione
delle autonomie della Corte dei Conti aveva interpretato
come programmabili solo a decorrere dal 2014, si aggiunge la
possibilità di utilizzo dei cosiddetti “resti”
assunzionali, provenienti dal triennio precedente.
La novella introdotta, con il d.l. n. 78/2015, deve essere
coordinata con le previsioni contenute nell’art. 1, comma
424, della l. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015) che
impone, pena la nullità dei contratti,
alle regioni e agli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
di destinare “le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale cessato negli anni 2014 e 2015, salva
completa ricollocazione del personale soprannumerario”.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, con la
deliberazione 28.07.2015 n. 26, resa in funzione
nomofilattica, interviene sulla questione interpretativa
posta per la corretta applicazione dell’art. 1, comma 424,
l. n. 190/2014, in relazione ai budget assuntivi residui,
precedenti gli anni 2015/2016, ed esprime, sul punto, il
seguente principio di diritto: “gli enti
locali possono effettuare assunzioni di personale a tempo
indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del 2014
derivante dalle cessazioni di personale nel triennio
2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del
biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale
intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è
soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della
legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale”.
La Sezione delle autonomie della Corte dei Conti, con
deliberazione 22.09.2015 n. 28, ha integrato la
precedente deliberazione n. 26/2015, affermando, tra
l’altro, il seguente principio di diritto: “il
riferimento “al triennio precedente” inserito nell’art. 4,
comma 3, del d.l. n. 78/2015, che ha integrato l’art. 3,
comma 5, del d.l. n. 90/2014, è da intendersi in senso
dinamico, con scorrimento e calcolo dei resti, a ritroso,
rispetto all’anno in cui si intende effettuare le assunzioni”.
Pertanto, mentre i budget 2015/2016
(derivanti anche dalle cessazioni dei trienni precedenti il
2014 e 2015) sono integralmente destinati
alle finalità di cui all’art. 1, comma 424, della l. n.
190/2014, può essere utilizzata per effettuare nuove
assunzioni di personale a tempo indeterminato la capacità
assunzionale del 2014 derivante dai “resti” relativi
al triennio 2011/2013, sempre che sia assicurato il rispetto
dei vincoli di finanza pubblica
(rispetto del patto di stabilità, dell’art. 1, commi 557 e
seguenti, della l. n. 296/2006, delle percentuali di
turn-over, quantificate in base alla spesa di personale
cessato nell’anno precedente, secondo le previsioni
dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014)
e siano stati osservati, a suo tempo, gli obblighi previsti
dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 90/2014
(programmazione finanziaria e contabile del fabbisogno di
personale) (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 06.10.2015 n. 396). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
requisito da considerare ai fini della mobilità disciplinata
dal co. 424 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2015 al
fine di verificare le esigenze dell’Ente locale è quello
della professionalità risultante dalle declaratorie
contenute nella descrizione dei profili delle varie
categorie contrattuali, a meno che l’Ente locale abbia
l’esigenza di ricoprire un particolare posto in organico con
un profilo professionale in relazione al quale sia
necessaria un’abilitazione o un requisito professionale
specifico, indicato dalla legge o dalla contrattazione
collettiva.
Negli altri casi, i dipendenti che rientrano in una
determinata categoria contrattuale, se non formati in
relazione ad una particolare mansione (ad esempio addetto
ufficio tributi) dovranno essere riqualificati, così come
previsto dal co. 1-bis, dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165 del
2001.
--------------
Il Sindaco del Comune di Lonate Ceppino (VA) ha
inoltrato alla Sezione un quesito con il quale ha
domandato se sia possibile procedere all’assunzione di un
addetto all’Ufficio Tributi, cat. C1 ricorrendo alla
mobilità volontaria tra Enti e non alla mobilità di
personale dalle Province (Enti di area vasta), così come
previsto dall’art. 1, co. 424, della legge n. 190 del 2014,
considerato che la specifica figura professionale non
sarebbe prevista nelle province dato che le stesse non
sarebbero competenti nella gestione dei tributi locali.
Al fine di chiarire la finalità del quesito ha messo in luce
che la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19
aveva confermato che la disciplina normativa vigente nel
2015 prevedeva unicamente la possibilità di effettuare
avvisi di mobilità riservati ai soli dipendenti delle
Province, salvo che si dovessero effettuare assunzioni di
figure professionali infungibili e non presenti nella
Provincia, con onere di verifica a carico dell’ente
procedente.
...
Il quesito posto dal Sindaco di Lonate Ceppino riguarda la
possibilità di procedere all’assunzione di un dipendente
utilizzando la procedura della mobilità in relazione ai
vincoli e ai limiti alla spesa di personale imposti dalle
leggi statali di coordinamento della finanza pubblica e, in
particolare dall’art. 1, co. 424, della legge 23.12.2014, n.
190 (legge di stabilità per il 2015) che ha previsto una
speciale procedura di mobilità diretta a ricollocare il
personale soprannumerario delle province, interessate dal
processo di riordino istituzionale, ancora in atto.
Anche a seguito di alcune incertezze interpretative, la
Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, come noto
allo stesso richiedente, ha chiarito l’ambito di
applicazione della disposizione speciale introdotta dalla
legge di stabilità osservando, in linea generale, che “per
il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire
bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al
personale soprannumerario degli enti di area vasta; a
conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria” (deliberazione 16.06.2015 n. 19).
La Sezione delle Autonomie ha affrontato anche la questione
posta dal Sindaco di Lonate Ceppino in relazione alla
possibilità di non ricorrere alla speciale procedura di
mobilità indicata sopra ma a quella ordinaria qualora nei
ruoli della Provincia non risultassero reperibili soggetti
con una professionalità specifica e necessaria per le
esigenze dell’ente locale.
Al fine di evitare comportamenti elusivi della norma
speciale introdotta con la legge di stabilità per il 2015,
la Sezione delle Autonomie ha precisato che “se l’ente
deve coprire un posto di organico per il quale è prevista
una specifica e legalmente qualificata professionalità,
eventualmente attestata da titoli di studio precisamente
individuati –in quanto tale assunzione è necessaria per
garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui
prestazioni la predetta professionalità è strettamente e
direttamente funzionale- non potrà ricollocare in quella
posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale
requisiti. E se questa dovesse essere l’unica esigenza di
organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato
dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali
professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare,
l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale
ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di
appartenenza, ma a tutto il personale delle Province
interessate alla ricollocazione come individuato ai sensi
del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
Con l’intento di chiarire l’estensione del principio, nella
stessa delibera, la Sezione delle Autonomie ha osservato che
“Sull’argomento oggetto del quesito vengono in evidenza
due disposizioni della disciplina legislativa concernente la
mobilità: la prima, l'art. 30, comma 1, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale le amministrazioni possono
ricoprire i posti vacanti in organico mediante passaggio
diretto di dipendenti appartenenti a una qualifica
corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni;
la seconda, il comma 1-bis, dello stesso art. 30, in base al
quale, “l’amministrazione di destinazione provvede alla
riqualificazione dei dipendenti….eventualmente avvalendosi,
ove sia necessario predisporre percorsi specifici o
settoriali di formazione, della Scuola nazionale
dell’amministrazione”.
In sostanza in base alla legge deve esserci una
corrispondenza tra qualifica professionale acquisita
nell’ente cedente e professionalità necessaria ai compiti da
assolvere nell’ente di entrata. Se non c’è corrispondenza o
equivalenza di professionalità, resta la possibilità di
riqualificazione. In base a questi presupposti, l’unico
ostacolo all’immissione negli organici dell’ente ricevente è
la totale carenza dei requisiti soggettivi di
professionalità richiesti in base alla legge e alla
contrattazione collettiva nazionale per ricoprire il posto
in organico disponibile.
D’altra parte, va anche considerato che la ricollocazione
non può operare se non garantendo alle unità ricollocate la
posizione giuridica ed economica in godimento, almeno con
riferimento al trattamento fondamentale e accessorio, come
stabilito dall’art. 1, comma 96, lett. a), della legge n.
56/2014 per il personale trasferito a seguito di
trasferimento delle funzioni”.
Le indicazioni contenute sopra sono idonee a fornire
risposta al quesito posto dal Sindaco del Comune di Lonate
Ceppino.
Infatti, il requisito da considerare ai
fini della mobilità disciplinata dal co. 424 dell’art. 1
della legge di stabilità del 2015 al fine di verificare le
esigenze dell’Ente locale è quello della professionalità
risultante dalle declaratorie contenute nella descrizione
dei profili delle varie categorie contrattuali, a meno che
l’Ente locale abbia l’esigenza di ricoprire un particolare
posto in organico con un profilo professionale in relazione
al quale sia necessaria un’abilitazione o un requisito
professionale specifico, indicato dalla legge o dalla
contrattazione collettiva.
Negli altri casi, i dipendenti che rientrano in una
determinata categoria contrattuale, se non formati in
relazione ad una particolare mansione (ad esempio addetto
ufficio tributi) dovranno essere riqualificati, così come
previsto dal co. 1-bis, dell’art. 30 del D.Lgs. n. 165 del
2001
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.10.2015 n. 317). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Qualora le cessazioni siano intervenute nel 2013,
la capacità assunzionale del 2014, eventualmente rinviata
nel 2015, non soggiace alle descritte limitazioni introdotte
dalla L. n. 190/2014.
---------------
Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Borgaro
Torinese (TO) chiede un parere in merito alla possibilità di
procedere nel 2015 all'assunzione di un'unità di personale,
per effetto di una cessazione intervenuta nel 2013, a
conclusione di una procedura concorsuale che, seppure
avviata nel 2014, si è conclusa a febbraio 2015.
E ciò alla luce della Legge finanziaria statale per il 2015
(L. n. 190/2014) che all'art. 1, commi 424 e 425, ha fissato
specifici limiti alle assunzioni da parte degli Enti Locali
al fine di favorire la ricollocazione del personale delle
Province destinatario di procedure di mobilità.
...
Nella richiesta di parere sono richiamati i contenuti del
parere 21.04.2015 n. 32
della Sezione del controllo per la Regione Sardegna, reso su
analogo quesito, che di seguito si ripercorre.
Sugli attuali limiti alla capacità assunzionale degli Enti
Locali soggetti al patto di stabilità interno, sia in merito
al tetto di spesa, sia agli spazi consentiti per il
turn-over del personale cessato, previsti dalla vigente
normativa (in particolare, dall’art. 3, commi 5, 5-bis e
5-quater del D.L. n. 90/2014, conv. in L. n. 114/2014) è
intervenuto l’art. 1, comma 424, della L. n. 190/2014 (Legge
finanziaria per il 2015).
La disposizione legislativa da ultimo richiamata ha previsto
che gli Enti Locali, per gli anni 2015 e 2016, destinino le
risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità.
In merito all’interpretazione tale norma è intervenuta la
Circolare n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari
regionali chiarendo, tra l’altro, che:
• le risorse da destinare alle finalità di
cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli
anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni
intervenute nel 2014 e nel 2015;
• la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in
via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie
vigenti o approvate al 01.12.2015;
• le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi
di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area
vasta;
• rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget
degli anni precedenti.
Con
deliberazione 16.06.2015 n. 19
la Sezione delle autonomie ha affrontato diverse questioni,
poste dalle Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e
per la Lombardia, tutte vertenti sulla corretta
interpretazione ed applicazione di quanto dispone l’art. 1,
comma 424 della legge 23.12.2014, n. 190, legge di stabilità
per il 2015.
Con successiva
deliberazione 28.07.2015 n. 26 la Sezione
medesima ha inoltre chiarito che “gli
enti locali possono effettuare assunzioni di personale a
tempo indeterminato utilizzando la capacità assunzionale del
2014 derivante dalle cessazioni di personale nel triennio
2011-2013, sempre nel rispetto dei vincoli di finanza
pubblica; mentre, con riguardo al budget di spesa del
biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale
intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è
soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della
legge 190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale”.
Peraltro, l’art. 4, comma 3, del D.L. 19.06.2015, n. 78
(Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali), conv.
in legge 06.08.2015, n. 125, è intervenuto in materia,
novellando l’art. 3, comma 5, del D.L. 24.06.2014, n. 90,
conv. in legge 11.08.2014, n. 114.
Tale norma ora dispone che “Le
amministrazioni di cui al presente comma coordinano le
politiche assunzionali dei soggetti di cui all'articolo 18,
comma 2-bis, del citato decreto-legge n. 112 del 2008 al
fine di garantire anche per i medesimi soggetti una graduale
riduzione della percentuale tra spese di personale e spese
correnti; è altresì consentito l'utilizzo dei residui ancora
disponibili delle quote percentuali delle facoltà
assunzionali riferite al triennio precedente”.
Può dirsi pertanto superata la questione interpretativa in
esame nel senso che qualora le cessazioni
siano intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del
2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle
descritte limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 30.09.2015 n. 148). |
ENTI
LOCALI:
Stipendi,
tagli ai revisori. La riduzione del 10% non risparmia gli
enti.
La sezione autonomie conferma la tesi già
consolidata in giurisprudenza.
Non ci sono dubbi. Il taglio del 10% dei compensi
corrisposti agli organi di indirizzo, direzione, controllo,
cda e collegiali della pubblica amministrazione, introdotto
nel 2010, si applica anche agli enti locali, e in
particolare ai revisori.
Il principio, consolidato nella giurisprudenza delle sezioni
regionali della Corte conti, è stato sancito una volta per
tutte dalla Sez. autonomie della magistratura contabile
con la
deliberazione
29.09.2015 n. 29.
A sollevare il caso era stata la Corte conti Campania che
chiedeva la corretta interpretazione da dare all'art. 6, comma
3, del decreto legge n. 78/2010, dopo che la stessa sezione
autonomie, con delibera n. 4/2014, aveva affermato che «le
disposizioni dettate dall'art. 6, commi da 1 a 3, non si
riferiscono agli enti territoriali».
Un inciso che aveva gettato nel panico i giudici campani
convinti che sul punto si fosse nel tempo formata una
giurisprudenza concorde nell'affermare, invece,
l'applicabilità del predetto taglio agli enti locali e in
particolare ai collegi dei revisori dei conti.
In realtà, ha chiarito la sezione autonomie, si è trattato
solo di un equivoco perché la delibera «incriminata» (la
n. 4/2014) «si è pronunciata sulla gratuità, o meno,
dell'incarico di componente del consiglio di amministrazione
dei consorzi».
L'applicabilità dei tagli agli enti locali non è quindi mai
stata messa in discussione. «In quella sede», precisa la
delibera depositata in segreteria il 29 settembre scorso,
«non si affrontava la questione di carattere generale ora
posta e cioè se l'articolo 6, comma 3, del dl 78/2010 si
applichi o meno agli emolumenti corrisposti ai componenti
degli organi collegiali degli apparati amministrativi degli
enti locali».
Al quesito non può che darsi risposta affermativa e sul
punto non ci sono mai stati dubbi o tentennamenti nei
giudici contabili.
L'art. 6 del dl 78, ha ricordato la Corte, è infatti una
norma «ritenuta vincolante dalla giurisprudenza
costituzionale», rivolta al coordinamento della finanza
pubblica e al contenimento della spesa. Ragion per cui è
impensabile affermare che gli enti territoriali possano
restarne immuni.
«Non essendoci, dunque, un contrasto giurisprudenziale,
non sussistono neppure i presupposti per una pronuncia di
orientamento», ha sentenziato la sezione autonomie.
Tanto più che la norma in esame, entrata in vigore il
31.05.2010, ha cristallizzato fino al 31 dicembre di
quest'anno la misura degli emolumenti che saranno quelli
corrisposti al 30.04.2010 decurtati del 10%.
«Salvo ulteriori novità normative in materia», ha
concluso la Corte confermando l'insussistenza dei
presupposti per pronunciare una delibera di orientamento, «non
si ravvisano elementi di rilevanza» e per questo «resta
ferma la giurisprudenza delle sezioni regionali di controllo»
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
legislatore, per gli esercizi 2015 e 2016, ha ritenuto
prevalente l’obiettivo della riallocazione del personale
sovrannumerario degli enti di area vasta. A tal fine ha
previsto una specifica procedura di mobilità
che, tuttavia, non può essere considerata neutra ai
fini assunzionali
(secondo la regola generale posta dall’art. 1, comma 47,
della legge n. 311 del 2014), in quanto
l’ente da cui dipende il personale in uscita (la provincia o
la città metropolitana) deve conseguire un predeterminato
obiettivo di riduzione della propria dotazione organica
(cfr. art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014).
Proprio in relazione a questo profilo, la
disciplina legislativa delle assunzioni posta dall’ultima
legge di stabilità, sia degli enti locali
(comma 424) che delle altre pubbliche
amministrazioni
(comma 425), ha specificamente destinato i
contingenti assunzionali (oltre che ai soli vincitori di
concorsi già espletati) al riassorbimento del personale
delle province.
Pertanto, al fine di assumere, anche mediante mobilità
volontaria, personale dipendente da province o città
metropolitane, è necessario che l’ente locale disponga di
adeguata capacità
(come definita e conteggiata dall’art. 3, comma 5, del
decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con legge n. 114
del 2014).
Sotto quest’ultimo profilo è opportuno precisare che
il risparmio utile per procedere ad una nuova
assunzione nel caso di cessazione di un dipendente con
contratto di lavoro a tempo parziale è quello derivante
dall’effettivo risparmio che l’ente consegue dalla predetta
estinzione del rapporto di lavoro, non quello teorico
rapportato ad un contratto di lavoro a tempo pieno.
---------------
Il Sindaco del Comune di Portalbera (PV), con nota
del 13.07.2015, ha formulato una richiesta di parere
avente ad oggetto la speciale disciplina limitativa alle
assunzioni di personale, vigente, per gli enti locali, negli
esercizi 2015 e 2016.
Premette che il Comune, nell'anno 2014, ha registrato una
cessazione di personale, con decorrenza 1° dicembre, in
seguito a dimissioni. Tale cessazione ha riguardato un
dipendente a tempo indeterminato, con contratto di lavoro a
tempo parziale a 18 ore settimanali. Inoltre, l’istanza
precisa che l’ente è soggetto al patto di stabilità interno.
Ai sensi dell'art. 3 del decreto-legge n. 90 del 2014,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014,
per gli anni 2014 e 2015, gli enti soggetti al patto di
stabilità possono procedere ad assunzioni a tempo
indeterminato nel limite di un contingente complessivamente
corrispondente ad una spesa pari al 60% di quella relativa
al personale di ruolo cessato nell'anno precedente (comma 5,
primo periodo). Inoltre, fermi restando i vincoli generali
sulla spesa di personale, gli enti nei quali l'incidenza
della spesa di personale sulla spesa corrente è pari o
inferiore al 25% possono procedere ad assunzioni a tempo
indeterminato, a decorrere dal 2015, nel limite del 100% del
risparmio di spesa relativo al personale di ruolo cessato
nell'anno precedente (comma 5-quater).
Il Comune di Portalbera, ente soggetto a patto di stabilità
interno, riferisce di rispettare i vincoli in materia di
spesa per il personale (comma 557 dell'art. 1 della legge n.
296 del 2006), avendo registrato una spesa media nel
triennio 2011-2013 pari ad euro 176.705,37 e, per l'anno in
corso pari ad euro 175.421,18 (compresa la previsione della
somma derivante da un’eventuale assunzione). Inoltre, ha
un'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente
inferiore al 25% (precisamente, pari al 22,84%).
Possiede, pertanto, per il 2015, una capacità assunzionale
pari al 100% del risparmio derivante dal personale di ruolo
cessato nell’anno precedente, ovvero pari ad euro 10.951.00
(quota di spesa relativa al posto di istruttore
amministrativo a tempo indeterminato, categoria C, posizione
economica C5, con contratto a tempo parziale a 18 ore
settimanali).
L'art. 1, comma 424, della legge n. 90 del 2014 prevede che
"Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di
stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di
bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero
delle unità di personale ricollocato o ricollocabile e'
comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le
assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle".
L’istanza precisa che il Comune di Portalbera non vanta la
possibilità di procedere all'immissione nei ruoli dei
vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie.
Richiama, altresì, la Circolare n. 1 del 30.01.2015 del
Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le
autonomie che, per quanto interessa in questa sede,
testualmente recita: "in sostanza il legislatore vincola
gli enti a destinare il 100% del turn-over alla mobilità del
personale degli enti di area vasta, salvaguardando
l'assunzione dei vincitori esclusivamente a valere sulle
facoltà ordinarie di assunzione. Sono altresì salvaguardale
le esigenze di incremento di part-time nel rispetto di
quanto previsto dall'art. 3, comma 101, L. 244/2007... Le
spese per il personale assorbito in mobilità secondo il
comma in argomento non sì calcolano al fine del rispetto del
tetto di spesa di cui al comma 557 dell'art. 1 della Legge
27.12.2006 n. 296".
Sul punto il Comune ricorda anche la
deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei
Conti, Sezione delle Autonomie.
Tutto ciò premesso, il Sindaco chiede se, ferma
restando la normativa applicabile in materia di assunzione
del personale e la sostenibilità finanziaria e di bilancio,
avendo il Comune di Portalbera registrato nel 2014 una
cessazione di personale con contratto di lavoro a tempo
parziale (18 ore), ed essendo pacifica la non computabilità
nelle spese del personale ricollocato nel tetto di spesa
posto dal comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006
(in applicazione di quanto esplicitato nella Circolare n.
1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione) sia possibile sforare la propria
capacità assunzionale (pari al 100% della spesa relativa al
personale di ruolo cessato nell'anno precedente) destinando
le risorse per un'assunzione a tempo pieno ed indeterminato
di un dipendente di ente di area vasta (eventualmente previa
mobilità volontaria, ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001,
nelle more della pubblicazione degli elenchi del personale
in esubero).
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa
l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di
contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente
locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità
dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà
orientare la sua decisione in base alle conclusioni
contenute nel presente parere.
Le questioni poste vertono sulla corretta interpretazione ed
applicazione di quanto dispone l’art. 1, commi 421-424,
della legge 23.12.2014, n. 190, legge di stabilità per il
2015, dei quali appare opportuno riportare il testo
normativo: “421. La dotazione organica delle città
metropolitane e delle province delle regioni a statuto
ordinario è stabilita, a decorrere dalla data di entrata in
vigore della presente legge, in misura pari alla spesa del
personale di ruolo alla data di entrata in vigore della
legge 07.04.2014, n. 56, ridotta rispettivamente, tenuto
conto delle funzioni attribuite ai predetti enti dalla
medesima legge 07.04.2014, n. 56, in misura pari al 30 e al
50 per cento e in misura pari al 30 per cento per le
province, con territorio interamente montano e confinanti
con Paesi stranieri, di cui all'articolo 1, comma 3, secondo
periodo, della legge 07.04.2014, n. 56. Entro trenta giorni
dalla data di entrata in vigore della presente legge, i
predetti enti possono deliberare una riduzione superiore.
Restano fermi i divieti di cui al comma 420 del presente
articolo. Per le unità soprannumerarie si applica la
disciplina dei commi da 422 a 428 del presente articolo.
422. Tenuto conto del riordino delle funzioni di cui alla
legge 07.04.2014, n. 56, secondo modalità e criteri definiti
nell'ambito delle procedure e degli osservatori di cui
all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge
7 aprile 2014, n. 56, è individuato, entro novanta giorni
dalla data di entrata in vigore della presente legge, il
personale che rimane assegnato agli enti di cui al comma 421
del presente articolo e quello da destinare alle procedure
di mobilità, nel rispetto delle forme di partecipazione
sindacale previste dalla normativa vigente.
423. Nel contesto delle procedure e degli osservatori di cui
all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge
07.04.2014, n. 56, sono determinati, con il supporto delle
società in house delle amministrazioni centrali competenti,
piani di riassetto organizzativo, economico, finanziario e
patrimoniale degli enti di cui al comma 421. In tale
contesto sono, altresì, definite le procedure di mobilità
del personale interessato, i cui criteri sono fissati con il
decreto di cui al comma 2 dell'articolo 30 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, da adottare entro sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Per accelerare i tempi di attuazione e la ricollocazione
ottimale del personale, in relazione al riordino delle
funzioni previsto dalla citata legge n. 56 del 2014 e delle
esigenze funzionali delle amministrazioni di destinazione,
si fa ricorso a strumenti informatici. Il personale
destinatario delle procedure di mobilità è prioritariamente
ricollocato secondo le previsioni di cui al comma 424 e in
via subordinata con le modalità di cui al comma 425. Si
applica l'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge
07.04.2014, n. 56. A tal fine è autorizzata la spesa di 2
milioni di euro per l'anno 2015 e di 3 milioni di euro per
l'anno 2016.
424. Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di
stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di
bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero
delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è
comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le
assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle.”
Sul piano generale va ricordato che, con l’art. 1, comma
424, della legge n. 190 del 2014 è stata introdotta una
disciplina speciale delle assunzioni a tempo indeterminato
degli enti locali, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016, di
quella generale. Il valore precettivo della temporanea
disciplina limitativa si apprezza, in particolare, nella
sanzione comminata per le eventuali assunzioni effettuate in
difformità dalle ridette disposizioni, che vengono colpite
da nullità.
Nel comma 424 la finalità derogatoria, concretamente
riferibile alla priorità della ricollocazione, discende
dalla specifica e temporanea esigenza di riassorbimento del
personale soprannumerario dei c.d. enti di area vasta.
Soddisfatta tale esigenza, è la stessa norma che contempla,
esplicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria.
Circa lo specifico quesito posto dal Comune istante, va
richiamato quanto recentemente precisato dalla scrivente
Sezione regionale di controllo nella deliberazione n.
287/2015/PAR.
Nell’occasione è stato evidenziato, sulla base di un
percorso motivazionale a cui si fa rinvio, che
il legislatore, per gli esercizi 2015 e 2016, ha
ritenuto prevalente l’obiettivo della riallocazione del
personale sovrannumerario degli enti di area vasta. A tal
fine ha previsto una specifica procedura di mobilità
(a cui la deliberazione della Sezione delle Autonomie della
Corte dei conti e la Circolare del Ministro per la funzione
pubblica hanno associato quella ordinaria, sempre
riservata), che, tuttavia, non può essere
considerata neutra ai fini assunzionali
(secondo la regola generale posta dall’art. 1, comma 47,
della legge n. 311 del 2014), in quanto
l’ente da cui dipende il personale in uscita (la provincia o
la città metropolitana) deve conseguire un predeterminato
obiettivo di riduzione della propria dotazione organica
(cfr. art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014).
Proprio in relazione a questo profilo, la
disciplina legislativa delle assunzioni posta dall’ultima
legge di stabilità, sia degli enti locali
(comma 424) che delle altre pubbliche
amministrazioni
(comma 425), ha specificamente destinato i
contingenti assunzionali (oltre che ai soli vincitori di
concorsi già espletati) al riassorbimento del personale
delle province.
Pertanto, al fine di assumere, anche mediante mobilità
volontaria, personale dipendente da province o città
metropolitane, è necessario che l’ente locale disponga di
adeguata capacità
(come definita e conteggiata dall’art. 3, comma 5, del
decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con legge n. 114
del 2014).
Sotto quest’ultimo profilo è opportuno precisare
(presupposto che, peraltro, il Comune mostra di conoscere)
che il risparmio utile per procedere ad una
nuova assunzione nel caso di cessazione di un dipendente con
contratto di lavoro a tempo parziale è quello derivante
dall’effettivo risparmio che l’ente consegue dalla predetta
estinzione del rapporto di lavoro, non quello teorico
rapportato ad un contratto di lavoro a tempo pieno
(in aderenza all’interpretazione già adottata dalla Sezione
nelle precedenti deliberazioni n. 53/2012/PAR e n.
347/2014/PAR)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.09.2015 n. 309). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In caso
di trasformazione di rapporto originario part-time in
full-time, essendo fattispecie assimilata ad un’assunzione
ai sensi dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, trovano
applicazione i limiti alle capacità assunzionali dettati
dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
---------------
Il Sindaco del
Comune di Grottaglie (TA) chiede alla Sezione un
parere in merito “alla disciplina in materia di
assunzioni di personale alla luce delle novità introdotte
dalla legge 23.12.2014 n. 190 (legge finanziaria 2015) ed in
particolare in merito alla trasformazione di rapporti di
lavoro da tempo parziale a tempo pieno”.
In particolare, il Sindaco, dopo aver richiamato il
disposto dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, formula i
seguenti quesiti:
1) “se sia possibile effettuare dette trasformazioni
in deroga a quanto stabilito dall’art. 1, comma 424, della
Legge n. 190/2014 in tema di ricollocazione delle unità
soprannumerarie del personale degli enti di area vasta”;
2) “nel caso di trasformazioni a tempo pieno di
rapporti di lavoro originariamente stipulati a tempo
parziale per un certo numero di ore settimanali e
successivamente al 2007 ulteriormente incrementate, se le
stesse debbono trovare capienza nella capacità assunzionale
dell’Ente per la differenza tra l’attuale oppure
l’originaria entità del part-time rispetto al limite del
tempo pieno”.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito n. 1
formulato dall’Ente inerisce alla compatibilità della
trasformazione di rapporti di lavoro da tempo parziale a
tempo pieno con quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l.
190/2014 in tema di ricollocazione del personale
eccedentario delle province.
La disposizione da ultimo richiamata (da ultimo modificata
dalla l. 125/2015 di conversione del d.l. 78/2015) limita le
facoltà assunzionali degli enti territoriali allo scopo di
favorire il riassorbimento del personale provinciale,
prevedendo che “Le regioni e gli enti locali, per gli
anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a
tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla
normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie
vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della
presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle
unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
È fatta salva la possibilità di indire, nel rispetto delle
limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti, le procedure
concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di
personale in possesso di titoli di studio specifici
abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali
necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali
relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi
e scolastici, con esclusione del personale amministrativo,
in caso di esaurimento delle graduatorie vigenti e di
dimostrata assenza, tra le unità soprannumerarie di cui al
precedente periodo, di figure professionali in grado di
assolvere alle predette funzioni. Esclusivamente per le
finalità di ricollocazione del personale in mobilità le
regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante
percentuale della spesa relativa al personale di ruolo
cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa
ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando
i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità
finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il
personale ricollocato secondo il presente comma non si
calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al
comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296
(…..)Le assunzioni effettuate in violazione del presente
comma sono nulle”.
A delimitare il perimetro applicativo del precetto appena
richiamato è intervenuta la Sezione delle Autonomie che, da
un lato, ha incluso nell’area del divieto le procedure di
mobilità volontaria per il 2015 ed il 2016 (deliberazione 16.06.2015 n. 19)
e, dall’altro lato, ha individuato, quale limite esterno
(sancendone, di conseguenza, l’estraneità al raggio
operativo della norma), le assunzioni di personale a tempo
indeterminato, effettuate utilizzando la capacità
assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013 (deliberazione 28.07.2015 n. 26).
La medesima Sezione delle Autonomie (deliberazione 28.07.2015 n. 26),
con riferimento alla specifica questione della compatibilità
della trasformazione di lavoro da part-time in full-time con
quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014-
questione sollevata dalla Sezione controllo Lombardia con
deliberazione n. 135/2015/QMIG- ha statuito il non luogo a
deliberare in quanto “la disciplina della trasformazione
dei rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non
presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla
disciplina di cui al citato comma 424”.
La problematica in esame, infatti, trova la propria base
normativa di riferimento nel disposto dell’art. 3, comma
101, l. 244/2007, a mente del quale: “Per
il personale assunto con contratto di lavoro a tempo
parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può
avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti
dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”.
Le Sezioni regionali di controllo si sono soffermate più
volte sull’ambito di operatività della disposizione,
giungendo alla conclusione che, delle tre fattispecie di
trasformazione astrattamente ipotizzabili (trasformazione
a tempo pieno di contratti originariamente a tempo parziale,
trasformazione a tempo pieno di contratti originariamente
a tempo pieno, maggiorazione percentuale di
prestazione lavorativa per contratti a tempo parziale),
solo la trasformazione a tempo pieno di un rapporto
di lavoro originariamente sorto come a tempo parziale sia da
ricondurre “nell’alveo della totale ed assorbente
novazione oggettiva del rapporto stesso, sì da considerarla
nuova assunzione”
(Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 356/PAR/2013,
Sezione controllo Campania, deliberazioni n. 225/PAR/2013 e
n. 20/PAR/2014, Sezione controllo Marche, deliberazione n.
61/PAR/2014, Sezione regionale di controllo per la Lombardia
n. 462/2012/PAR, n. 184/PAR/2014, Sezione regionale di
controllo per la Toscana n. 198/2011/PAR).
Dal quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato
consegue che la trasformazione di rapporti
di lavoro originariamente part-time in full-time
soggiacciono ai “limiti previsti dalle disposizioni
vigenti in materia di assunzioni”, tra cui rilevano, per
gli enti soggetti al patto di stabilità, oltre all’obbligo
di riduzione della spesa di personale di cui all’art. 1,
commi 557 e ss. della legge n. 296/2006, anche i vincoli del
turn-over di cui all’art. 3, comma 5, d.l. 90/2014 conv.
dalla l. 114/2014 e, per il biennio 2015-2016, i limiti
previsti dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
A tali conclusioni conduce lo stesso tenore letterale
dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007 che, nell’assimilare ad
un’assunzione la trasformazione del rapporto di lavoro a
tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, richiama
tutti i limiti imposti dalla normativa in materia, tra i
quali rientrano senza dubbio quelli contemplati dall’art. 1,
comma 424, l. 190/2014.
Siffatta opzione ermeneutica, inoltre, è quella più
rispondente, oltre che al dato letterale e sistematico (in
forza del rinvio “mobile” contenuto nell’art. 3 comma
101 l. 244), anche alla ratio dell’intera disciplina
dettata per il riassorbimento del personale provinciale. “La
trasformazione dei ridetti rapporti, infatti, impegna quota
dei contingenti assunzionali di cui l’ente locale dispone in
virtù dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014. Questi
ultimi, se impegnati per la finalità prospettata dal comune
istante, non possono essere destinati (obiettivo del comma
424) all’assunzione del personale in sovrannumero delle
province (e/o a coloro che sono vincitori di concorso,
inseriti in graduatorie vigenti). L’utilizzo del contingente
messo a disposizione dall’art. 3, comma 5, del d.l. n.
90/2014, per la trasformazione di un rapporto a tempo
parziale potrebbe impedire all’ente locale di raggiungere la
percentuale di risparmio necessaria, invece, ad assumere
un’unità di personale in sovrannumero”
(Sezione controllo Lombardia,
deliberazione n. 135/2015/QMIG).
L’interpretazione preferita conduce inevitabilmente alla
conclusione che ”in attesa che si
concludano le procedure, previste dal comma 424 della legge
di stabilità per il 2015, gli enti locali non possano
procedere alla trasformazione di un rapporto di lavoro da
tempo parziale a tempo pieno in quanto fattispecie
equiparata, dalla pregressa esaminata normativa, alla
disciplina prescritta per le assunzioni a tempo
indeterminato”
(Sezione Lombardia, deliberazione n.
135 cit.).
Quanto alle altre due ipotesi di trasformazione sopra
enucleate (trasformazione a tempo pieno di contratti
originariamente a tempo pieno e maggiorazione percentuale di
prestazione lavorativa per contratti a tempo parziale), la
Sezione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza
contabile, dai quali non ritiene di discostarsi, secondo cui
le stesse non devono essere valutate come nuova
assunzione, ferma l’osservanza del disposto dell’art. 1,
comma 557, l. 296/2006 e salvo il limite- per le ipotesi di
mero incremento orario- delle finalità elusive della
disciplina di legge
(Sezione controllo Campania, deliberazione n.
Campania/20/2014/PAR, Sezione controllo Marche,
deliberazione n. 61/PAR/2014).
Per le ragioni sopra esposte, il quesito n. 1 deve
essere risolto nel senso che, in caso di
trasformazione di rapporto originario part-time in
full-time, essendo fattispecie assimilata ad un’assunzione
ai sensi dell’art. 3, comma 101, l. 244/2007, trovano
applicazione i limiti alle capacità assunzionali dettati
dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014.
Passando al quesito n. 2, l’esame del medesimo
risulta logicamente condizionato dalla risposta positiva al
quesito precedente, sicché l’impossibilità di procedere alla
trasformazione in rapporti a tempo pieno di rapporti
originariamente a tempo parziale rende sostanzialmente priva
di concreta rilevanza qualunque soluzione interpretativa
espressa sul punto (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 24.09.2015 n. 202). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli
enti locali possono effettuare assunzioni di personale a
tempo indeterminato non vincolate dalla disposizione del
comma 424, art. 1. l. 190/2014, utilizzando la capacità
assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei
vincoli di finanza pubblica.
Mentre, con riguardo al budget di spesa del biennio
2015-2016 (riferito alle cessazioni di personale intervenute
nel 2014 e nel 2015), la capacità assunzionale è soggetta ai
vincoli posti dall’articolo 1, comma 424, della legge
190/2014 finalizzati a garantire il riassorbimento del
personale provinciale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Palagiano (TA) chiede alla
Sezione un parere in merito alla possibilità di procedere
“all’assunzione, a tempo indeterminato, del Responsabile
del Settore Economico Finanziario nella persona collocata
immediatamente dopo il vincitore del concorso che si è
dimesso, utilizzando il budget assunzionale riferito alla
cessazione verificatasi nel 2013 senza incorrere nella
sanzione prevista dal citato comma 424 art. 1 legge 190/2014”.
In particolare, il Sindaco espone che:
1) si è reso vacante il posto di Responsabile del Settore
Economico Finanziario, a seguito della mobilità volontaria,
presso altro ente locale, del vincitore di concorso a tempo
indeterminato, sicché l’Ente vorrebbe coprire il posto
rimasto vacante attraverso l’assunzione del secondo
candidato presente in graduatoria, ancora valida ed
efficace;
2) il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente, per
l’anno 2014, è pari al 19%;
3) l’Ente ha sempre rispettato il patto di stabilità
interno;
4) nell’anno 2013 si sono verificate cessazioni di lavoro a
tempo determinato pari ad € 38.276,74;
5) dalla cessazione di cui al punto precedente non sono
state effettuate assunzioni a tempo indeterminato;
6) il costo per l’assunzione a tempo indeterminato di un
Responsabile del Settore Economico Finanziario è inferiore
all’importo di cui al punto 4 e comunque manterrebbe la
spesa annua del personale inferiore a quella media del
triennio 2011/2013.
Premesso quanto sopra, il Sindaco, dopo aver
richiamato la
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Dipartimento della Funzione
Pubblica a mente della quale il budget vincolato
dall’art. 1, comma 424, l. 190/2014 è quello riferito alle
cessazioni degli anni 2015 e 2016, chiede alla Sezione un
parere in merito alla possibilità di utilizzo del budget
assunzionale riferito alla cessazione verificatasi nel 2013
per l’assunzione di idoneo di graduatoria senza incorrere
nella nullità prevista dal comma 424 del citato art. 1 l.
190/2014.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito formulato
dall’Ente inerisce alla compatibilità dell’utilizzo del
budget assunzionale riferito ad una cessazione verificatasi
nel 2013 per l’assunzione di un idoneo di graduatoria
(persona collocata immediatamente dopo il vincitore che si è
dimesso) con quanto previsto dall’art. 1, comma 424, l.
190/2014 (legge stabilità 2015).
La disposizione da ultimo richiamata ha introdotto un regime
particolare ed inderogabile per il biennio 2015 e 2016
finalizzato all’assunzione dei vincitori di procedure
concorsuali vigenti o approvate alla data di entrata in
vigore della disposizione (01.01.2015) ed al riassorbimento
del personale delle Province dichiarato eccedentario in
applicazione delle disposizioni dei commi 420 e ss. del
medesimo articolo 1.
Il regime previsto dal comma 424 si connota, pertanto, per
una duplice caratteristica: la particolarità (nel
senso di deroga alla disciplina generale, nell’accezione
indicata dalle Sezione delle Autonomie
deliberazione 16.06.2015 n. 19)
e l’inderogabilità.
Quanto alla particolarità della disciplina, essa di
sostanzia nella creazione “di una sorta di “binario
preferenziale” per quel personale provinciale che, posto in
situazione di esubero istituzionale a seguito del riordino
delle relative amministrazioni, rischierebbe, ove non
riassorbito presso altri enti, di essere collocato in
posizione di disponibilità prima, avviandosi poi, fallita la
procedura di salvaguardia dei livelli occupazionali di cui
art. 34 e 34-bis del d.lgs 165/2001, verso il licenziamento”
(Sezione controllo Veneto deliberazione n. 304/PAR/2015).
Sul piano letterale, infatti, la disposizione in esame
prevede che, per il biennio 2015 e 2016, le regioni e gli
enti locali “destinano le risorse per le assunzioni a
tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla
normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie
vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della
presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle
unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità”.
Con esclusivo riferimento alla ricollocazione del personale
soprannumerario viene, inoltre, previsto che “le regioni
e gli enti locali destinano, altresì, la restante
percentuale della spesa relativa al personale di ruolo
cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa
ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando
i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità
finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il
personale ricollocato secondo il presente comma non si
calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al
comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296”.
L’inderogabilità della regolamentazione viene
garantita attraverso l’espressa comminatoria della
nullità
delle assunzioni effettuate in violazione di quanto sancito
dal comma in esame, sicché l’eventuale contratto stipulato
contra legem è ab origine invalido ed
inefficace (con eventuali conseguenti responsabilità in capo
a chi ha disposto l’assunzione illegittima).
I due aspetti che connotano l’art. 1, comma 424 (di deroga
alla disciplina generale e di inderogabilità- a propria
volta- della disciplina in esso contenuta, l’uno
intrinsecamente e logicamente legato all’altro) sono stati
posti in evidenza dalla Sezione delle Autonomie che, con
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
ha osservato come “con l’art. 1, comma 424, della legge
190/2014 (legge di stabilità 2015) è stata introdotta una
disciplina particolare delle assunzioni a tempo
indeterminato, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016 di
quella generale; eventuali assunzioni effettuate in
difformità da dette disposizioni, sono colpite da nullità di
diritto" (“le assunzioni effettuate
in violazioni del presente comma sono nulle”
comma 424, ultimo periodo).
Peraltro tale particolarità della disciplina non va intesa
alla stessa stregua del carattere della specialità tipico
della configurazione delle antinomie giuridiche; per queste,
infatti, il fondamento derogatorio risiede in una diversa,
sostanziale e strutturale esigenza di eccezione alla norma
generale: nel comma 424 la finalità derogatoria
concretamente riferibile alla priorità della ricollocazione,
discende dalla specifica e temporanea esigenza di
riassorbimento del personale soprannumerario. Soddisfatta
tale esigenza è la stessa norma che contempla,
implicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria:
“salva la completa ricollocazione del
personale soprannumerario”.
Con specifico riferimento alle risorse destinate alle
assunzioni a tempo indeterminato, la Sezione delle Autonomie
ha chiarito come il legislatore abbia individuato due
plafond: uno, utilizzabile indistintamente per le
assunzioni da graduatorie già approvate e per la
ricollocazione delle unità soprannumerarie, l’altro,
destinato esclusivamente ad essere utilizzato per la
ricollocazione del personale soprannumerario. Il primo
plafond è quello quantificato in termini percentuali di
risparmio di spesa destinabile a nuove assunzioni negli
esercizi 2015 e 2016 secondo le disposizioni di cui all’art.
3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90; il
secondo corrisponde al complemento a 100 delle medesime
percentuali previste per gli anni 2014 e 2015.
Alla luce di quanto sopra, si è posto il problema
dell’ampiezza del primo plafond, se cioè tra i risparmi
vincolati per gli anni 2015 e 2016 rientrino anche le
cessazioni cumulate nel triennio (“bugdet cumulato”:
cfr. Sezione controllo Campania deliberazione n. 200/QMIG/2015)
alla stregua del comma 5 dell’art. 3 del d.l. n. 90/2014
(Sezione controllo Lombardia deliberazione n. 120/2015/QMIG,
Sezione controllo Marche, deliberazione n. 163/2015, Sezione
controllo Veneto, deliberazione n. 304/PAR/2015).
La disposizione da ultimo citata prevede che “a
decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle
risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non
superiore a tre anni nel rispetto della programmazione del
fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”.
Sul punto è intervenuto recentemente il legislatore, il
quale con l’art. 4 d.l. 78/2015, conv. con modificazioni,
dalla legge 06.08.2015 n. 125, ha introdotto un nuovo
periodo all’art. 3, comma 5, d.l. 90/2014 sopra citato,
stabilendo che “è altresì consentito
l’utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote
percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio
precedente“.
La disposizione da ultimo citata introduce un tassello nuovo
ed aggiuntivo (come è evidenziato dall’utilizzo
dell’avverbio “altresì”:
cfr. Sezione controllo Campania deliberazione n. 200/QMIG/2015,
cit.) al quadro di disciplina tracciato dal citato art. 3,
comma 5, d.l. 90/2014, i cui contorni sono stati definiti
dalla Sezione Autonomie con la
deliberazione 21.11.2014 n. 27
(proiettata, per gli enti soggetti al patto di stabilità, in
prospettiva futura: “dal 2014 in poi, in
sede di programmazione di fabbisogno e finanziaria, si potrà
tenere conto delle cessazioni prevedibili nell’arco di un
triennio”).
Il raccordo tra la nuova disciplina dei resti assunzionali
come scaturente dall’addenda del d.l. 78/2015 (c.d. d.l.
enti locali) e l’assetto delineato dall’art. 1, comma 424,
l. 190/2014 (peraltro, parimenti inciso dal medesimo art 4
d.l. 78/2015 che, al comma 2-bis, ha aggiunto un nuovo
periodo al comma 424) è stato realizzato dalla Sezione delle
Autonomie con
deliberazione 28.07.2015 n. 26.
In quella sede, la Sezione delle Autonomie, ribadendo e
richiamando i principi già espressi nella
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
ha osservato che la novella legislativa introdotta con
l’art. 4 d.l. 78/2015, nel completare il quadro
interpretativo già delineato dalla Circolare del Ministro
per la semplificazione e la pubblica amministrazione n.
1/2015 (citata dal Comune istante: “nelle
more del completamento del procedimento di cui ai commi 424
e 425 alle amministrazioni sopra individuate è fatto divieto
di effettuare assunzioni a tempo indeterminato a valere sui
budget 2015 e 2016 ……Rimangono consentite le assunzioni, a
valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle
previste da norme speciali”),
autorizza i Comuni ad impiegare nel 2015 l’eventuale
budget residuo del triennio 2011-2013 per assunzioni non
vincolate ai sensi del comma 424.
Da quanto sopra consegue che “per le
cessazioni intervenute nel 2013, la capacità assunzionale
del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle
limitazioni introdotte dal citato comma 424, restando
regolata da quanto previsto, per gli enti soggetti al patto
di stabilità interno, dall’art. 3, comma 5, del D.L. n.
90/2014, convertito con legge n. 114/2014, che indica le
quote percentuali di turn-over consentite per le assunzioni
di personale a tempo indeterminato”.
A completare il quadro è, inoltre, intervenuta la recente
deliberazione 22.09.2015 n. 28
la quale ha sancito che “Il riferimento
al “triennio precedente” inserito nell’art. 4, comma 3, del
d.l n. 78/2015, che ha integrato l’art 3, comma 5, del d.l.
90/2014, è da intendersi in senso dinamico, con scorrimento
e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si
intende effettuare le assunzioni”.
In conclusione, conformemente a quanto statuito dalla
Sezione delle Autonomie
deliberazione 28.07.2015 n. 26,
al cui orientamento questa Sezione si conforma ai sensi
dell’art 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, si osserva che
“gli enti locali possono effettuare
assunzioni di personale a tempo indeterminato non vincolate
dalla disposizione del comma 424 utilizzando la capacità
assunzionale del 2014 derivante dalle cessazioni di
personale nel triennio 2011-2013, sempre nel rispetto dei
vincoli di finanza pubblica; mentre, con riguardo al budget
di spesa del biennio 2015-2016 (riferito alle cessazioni di
personale intervenute nel 2014 e nel 2015), la capacità
assunzionale è soggetta ai vincoli posti dall’articolo 1,
comma 424, della legge 190/2014 finalizzati a garantire il
riassorbimento del personale provinciale”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 24.09.2015 n. 198). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è
consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate
esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di
area vasta.
A conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Edolo (BS), richiamata la Legge di Stabilità per l'anno
2015 che riserva gli spazi assunzionali degli enti pubblici
per gli anni 2015 e 2016 a favore dei dipendenti in esubero
degli enti provinciali in fase di riorganizzazione e la
deliberazione 16.06.2015 n. 19 della Corte dei
Conti sulla corretta interpretazione della norma, chiede
alla Sezione un parere “in merito alla legittimità o meno
di un'assunzione di personale mediante mobilità volontaria
esterna utilizzando parte degli spazi finanziari dedicati
fino alla fine dello scorso anno al Segretario comunale
titolare a tempo pieno presso codesto Comune”.
L'Amministrazione Comunale precisa che vi è l'urgente
necessità di sostituire la responsabile dell'area
economico-finanziaria, svolgente funzioni dirigenziali, che
è cessata dal servizio per quiescenza il 01.05.2015. Lo
spazio finanziario liberato da tale dipendente, categoria
giuridica D1, posizione economica D3, con indennità di
posizione al massimo consentito dai CCNL, sarà spazio
assunzionale per l'anno 2016.
Il Comune inoltre ha avuto un'altra cessazione nell'anno
2014, il cui spazio finanziario in termini assunzionali non
è stato utilizzato, riguardante la figura della
bibliotecaria comunale, categoria giuridica C, posizione
economica C5.
Nel settembre dello scorso anno il Segretario comunale
(fascia professionale B) titolare a tempo pieno della sede
di Segreteria unica ha cessato dal proprio incarico
lasciando vacante la sede di Segreteria attualmente retta a
scavalco da un Segretario comunale (fascia professionale C)
titolare di uno dei comuni della medesima zona e facente
parte dell'Unione dei Comuni alla quale partecipa anche il
Comune di Edolo. Tale fatto ha portato ad avere un notevole
risparmio in termini di spesa del personale e conseguenti
spazi finanziari utilizzabili.
Ad avviso dell’Ente, il riutilizzo di tali spazi finanziari,
dedicati alla retribuzione del precedente Segretario
comunale titolare cessato dal proprio incarico e quindi
resisi liberi, per l'assunzione mediante mobilità volontaria
di un nuovo responsabile dell'area economico-finanziaria,
svolgente finzioni dirigenziali, al fine della sostituzione
del precedente responsabile in quiescenza dal 01.05.2015,
non si porrebbe in contrasto con la finalità della Legge di
Stabilità 2015 tesa a salvaguardare il riassorbimento del
personale in esubero degli enti di area vasta.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione se
procedere o meno ad effettuare nuova assunzione mediante
mobilità volontaria attiene al merito dell’azione
amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed
esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente che
potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni
contenute nel parere della Sezione.
Il quesito che il Sindaco di Edolo (BS) rivolge alla Sezione
riguarda la legittimità o meno di un'assunzione di personale
mediante mobilità volontaria esterna utilizzando parte degli
spazi finanziari dedicati fino alla fine dello scorso anno
al Segretario comunale titolare a tempo pieno presso l’Ente.
Nell’istanza di parere si aggiunge che nell’ente ci sono
state due cessazioni, rispettivamente nell’anno 2014 e 2015.
In linea generale, si ricorda all’ente che
i limiti assunzionali specifici per gli enti locali vanno
individuati nell’art. 3 D.L. n. 90/2014
(convertito con legge 114/2014); la norma da ultimo
richiamata introduce criteri maggiormente flessibili in
ordine alla disciplina del c.d. turn-over; la ratio
va ravvisata nel fatto che alcuni interventi legislativi
passati avevano ‹‹irrigidito la disciplina in maniera
eccessiva, rendendo difficoltosa l’assunzione di personale
anche da parte di enti che rispettavano i parametri di spesa
e di consistenza delle risorse umane presenti. Perciò con
gli interventi più recenti il legislatore ha ritenuto di
rendere più flessibile e favorire proprio gli enti
definibili “virtuosi”›› (Sez. Autonomie
deliberazione 18.09.2015 n. 27).
La norma stabilisce che è possibile assumere personale nei
limiti del 60% della spesa relativa al personale cessato
nell’anno precedente, limite portato all’80% nel caso di
enti con spesa del personale pari o inferiore al 25% della
spesa corrente. Inoltre, fermo restando il limite dell’art.
1, comma 557, della l. n. 296/2006 nel 2014, è possibile
cumulare le risorse destinate alle assunzioni nel limite
temporale dei tre anni.
A parte detta precisazione sulla necessità che i risparmi di
spesa per procedere al c.d. turn-over derivino dalla
cessazioni avvenute nel triennio precedente, questa Sezione
osserva che, nonostante l’ente istante dichiari di essere a
conoscenza della deliberazione assunta dalla Sezione
Autonomie (deliberazione
16.06.2015 n. 19),
non prospetta questioni ermeneutiche astratte e generali che
non siano già state risolte dalla richiamata pronuncia.
Pertanto, in questa sede, ci si limita a richiamare il
principio espresso dalla
deliberazione 16.06.2015 n. 19
della Sezione Autonomie: “per il 2015 ed
il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di
procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale
soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del
processo di ricollocazione del personale soprannumerario
destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire
le ordinarie procedure di mobilità volontaria”
(Corte dei Conti, sez. controllo Lombardia,
parere 23.09.2015 n. 305). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sindaci,
lo staff va retribuito.
Corte conti: niente lavoro gratuito.
È da escludere che i rapporti di lavoro nello staff del
sindaco, ex articolo 90 del Tuel, possano essere svolti a
titolo gratuito. La collaborazione agli organi di vertice
politico, infatti, deve essere costituita in forma
subordinata prevedendo la corresponsione di un emolumento.
È quanto precisa la sezione regionale di controllo della
Corte dei conti per la regione Campania, nel testo del
parere
23.09.2015 n. 213 con cui fa luce sulla natura delle
collaborazioni che si attivano nelle strutture di vertice
degli enti locali.
Rispondendo ad un quesito posto dal
comune di Cesa (Ce), sulla possibilità di costituire uno
staff di collaborazione al sindaco senza che i soggetti
scelti a farne parte possano percepire emolumenti e «al di
fuori di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato o
autonomo», la magistratura contabile ha risposto
negativamente. Infatti, si ribadisce il carattere
necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti
investiti di funzioni di staff, organo che, è bene
ribadirlo, «è eventuale e non necessario per il
funzionamento dell'ente».
La norma richiamata, pertanto, nel
prevedere che ai contratti di staff si applichi la
disciplina del personale degli enti locali, non ammette
altre forme di collaborazione al di fuori del lavoro
subordinato oneroso, cosi da tutelare altri principi, come
quello costituzionale della dignità del lavoro.
Peraltro,
anche se si volesse sostenere la tesi della gratuità della
prestazione, la Corte sottolinea come tale scelta potrebbe
esporre l'ente a rischi legali e a probabili soccombenze in
caso di contenzioso. Le eccezioni alla necessaria onerosità
del rapporto di lavoro, pertanto, sono quelle espressamente
previste dalla legge come, ad esempio, la disciplina ex
articolo 7 della legge n. 266/1991 che prevede la gratuità del
lavoro prestato nelle organizzazioni di volontariato, in
convenzione con gli enti locali.
In definitiva, ammette la
Corte, il rapporto dei soggetti ex articolo 90 Tuel, non può
che essere di tipo oneroso in ragione del fatto che
l'inserimento del soggetto nell'organizzazione pubblica,
anche in staff, non può non comportare la soggezione al
potere di controllo, necessario alla realizzazione delle
finalità istituzionali
(articolo ItaliaOggi del 06.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei Comuni assunzioni solo flessibili.
Poche alternative al blocco sostanziale fino alla
ricollocazione degli ex provinciali.
Personale. Entro il 10 ottobre va acquisito il consenso dei
«distaccati» ed entro il 15 vanno completate le mobilità
volontarie.
Con la
pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto sui
criteri per la mobilità dei dipendenti provinciali prendono
l'avvio le procedure attraverso il portale di incontro e
domanda e offerta predisposto dalla Funzione pubblica. I
tempi non saranno brevi e, pertanto, le amministrazioni
locali sono alle prese con un dubbio: cosa fare nel
frattempo? Come è possibile gestire le funzioni e i servizi,
in questa situazione di sostanziale blocco delle assunzioni
che si protrae ormai da dieci mesi?
Le assunzioni a tempo indeterminato sulla capacità
assunzionale degli anni 2015 e 2016 (calcolata sulle
cessazioni del 2014 e del 2015) sono congelate fino al
totale riassorbimento dei dipendenti di Province e Città
metropolitane.
Lo hanno confermato la Funzione Pubblica nella
circolare 30.01.2015 n. 1/2015
e la Corte dei Conti Sezione Autonomie, nella deliberazione
16.06.2015 n. 19,
deliberazione 28.07.2015 n. 26
e
deliberazione 22.09.2015 n. 28. Rimane
qualche dubbio sulla possibilità dei Comuni di procedere
autonomamente con assunzioni a valere sui budget residui
degli anni precedenti.
Nella deliberazione 28/2015, infatti,
i magistrati contabili, oltre ad affermare che il triennio
di riferimento per utilizzare i resti è «dinamico», sembrano
affermare che tali resti siano “liberi” per assunzioni, ma
solo se erano già stati inseriti nella programmazione del
fabbisogno di personale. L'altra classica modalità per
assunzioni a tempo indeterminato risiede nella mobilità
volontaria, vietata dall'entrata in vigore della legge di
stabilità 2015.
Entro 15 giorni dalla pubblicazione del
decreto in Gazzetta Ufficiale, è però consentito agli enti
locali di concludere le procedure di mobilità avviate prima
del 01.01.2015 e quelle riservate in via prioritaria al
personale degli enti di area vasta. L'articolo 11, precisa
che queste assunzioni non incidono sul regime delle
assunzioni per gli anni 2015 e 2016.
Rimane un'altra corsia preferenziale per le assunzioni
stabili nei Comuni, ovvero il trasferimento dei dipendenti
ex provinciali che al 20.06.2015 erano in comando o
distacco o altri istituti comunque denominati. Infatti,
entro soli 10 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale del decreto è necessario acquisire il consenso del
lavoratore e procedere con il passaggio dalla Provincia al
Comune.
Per il resto, si tratta di sopravvivenza. Basti ricordare
che l'articolo 36, comma 1, del Dlgs 165/2001 chiede alle
amministrazioni di assumere a tempo indeterminato sui
fabbisogni ordinari, per rendersi conto dell'impasse a cui
si è costretti per tentare di garantire le funzioni
fondamentali. L'attenzione, quindi, è tutta spostata sul
lavoro flessibile. Via libera, quindi, ad assunzioni a tempo
determinato, lavoro accessorio, somministrazione, ma anche
comando, distacco, assegnazioni temporanee, convenzioni. Nel
rispetto, va detto, del limite di quanto speso nel 2009,
come stabilito dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010.
Rimangono poi consentite le assunzioni in base agli articoli
90 e 110 del Tuel.
Discorso separato per la Polizia locale. In questo caso, il
legislatore ha previsto un esodo ancora più immediato: il
trasferimento dei dipendenti nei ruoli della Polizia
municipale, anche in deroga -sostiene il decreto- alle
proprie facoltà di assumere. Anche gli enti che non hanno
capacità assunzionale 2015 e 2016, potranno quindi ricevere
questi dipendenti, purché siano previsti nella
programmazione del fabbisogno e siano in grado di garantire
la sostenibilità di bilancio.
Il prezzo da pagare, però, è
più caro. Nelle funzioni della Polizia locale scatta
infatti, il divieto di qualsiasi assunzione a qualsiasi
titolo, fino alla totale ricollocazione, tranne che per i
contratti a termine per esigenze stagionali non superiori a
cinque mesi per anno solare.
---------------
Incognita calcoli sui tetti di spesa.
Vincoli. Le conseguenze di ridurre l’incidenza del personale
sulle uscite correnti.
Con la
deliberazione 18.09.2015 n. 27 la sezione delle Autonomie della Corte dei
conti ha «resuscitato» l’obbligo di ridurre l’incidenza
della spesa di personale sulla spesa corrente (si veda Il
Sole 24 Ore del 22 settembre).
Gli enti sottoposti al Patto devono assicurare la riduzione
della spesa di personale con azioni da modulare nell’ambito
della propria autonomia e rivolte, in termini di principio,
alla riduzione di questo indicatore, alla razionalizzazione
delle strutture e al contenimento della dinamica della
contrattazione integrativa.
Il Dl 90/2014, nel confermare i vincoli alla spesa pubblica
disciplinati dai commi 557, 557-bis e 557-ter della legge
296/2006, abroga l’articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008 che
stabiliva il divieto di assunzioni negli enti in cui
l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al
50% delle spese correnti.
Secondo i magistrati le disposizioni che impongono la
riduzione dell’incidenza della spesa di personale rispetto
al complesso delle spese correnti sarebbero immediatamente
cogenti come il parametro fissato dal comma 557-quater.
L’espresso richiamo al comma 557-quater operato dalla Corte
lascerebbe intendere che il parametro di riferimento per la
verifica dell’indicatore debba essere individuato nel
triennio 2011-2013 anziché nell’anno precedente. L’incidenza
della spesa di personale sulla corrente dovrebbe, in altre
parole, essere confrontata con l’indicatore medio del
triennio in questione.
L’interpretazione giunge tuttavia a sorpresa. Con
l’abrogazione dell’articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008
sembrava infatti esser venuto meno l’obbligo di verifica di
questo rapporto, anche in considerazione di quanto disposto
al comma 557, in base quale le azioni finalizzate al
contenimento della spesa di personale sono liberamente
modulabili nell’ambito dell’autonomia decisionale degli
enti.
L’applicazione ai bilanci dei principi di competenza
finanziaria potenziata, che impone la registrazione di
impegni di spesa solo in presenza di obbligazioni
giuridicamente perfezionale e la loro imputazione agli
esercizi di esigibilità, rende di fatto poco comparabili gli
indicatori riferiti a esercizi precedenti all’entrata in
vigore della riforma.
Occorre inoltre valutare, per la quantificazione dei valori
da inserire al denominatore del rapporto e dunque allo scopo
di comparare valori omogenei, le diverse modalità di
contabilizzazione delle entrate e delle spese. Si pensi, a
solo titolo di esempio, alle disposizioni introdotte
dall’articolo 6 del Dl 16/2014, che disciplina la
contabilizzazione dell’Imu al netto dell’importo versato
all’entrata del bilancio dello Stato.
L’indicatore in questione risulta poi fortemente
condizionato dalle dinamiche di contenimento della spesa
pubblica, e dunque dagli obblighi di riduzione della spesa
corrente.
Gli effetti di un eventuale sforamento di questo indicatore
sono rilevanti. La violazione di questo vincolo produrrebbe
infatti il blocco delle assunzioni e l’impossibilità di
finanziare le risorse aggiuntive variabili del fondo per il
salario accessorio (articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti
ha affermato come il comma 424 della legge di
stabilità per il 2015 detti una disciplina temporaneamente
derogatoria, con valore “conformativo di tutte le necessità
esegetiche che riguardano l’attuazione di quella
disposizione”.
Di conseguenza,
ha ritenuto che, per il 2015 ed il 2016, agli enti
locali sia consentito indire bandi per procedure di mobilità
riservate esclusivamente al personale soprannumerario di
provincie e città metropolitane.
A conclusione del processo di ricollocazione dell’indicato
personale (come
delineato dai commi 421 e seguenti della legge n. 190 del
2014), invece, sarà possibile, per gli enti
locali, tornare ad indire ordinarie procedure di mobilità
volontaria, e considerare neutre le conseguenti assunzioni
ai fini delle limitazioni poste dalla legge al reclutamento
di personale a tempo indeterminato
(in aderenza alla regola generale posta dall’art. 1, comma
47, della legge n. 311 del 2004).
---------------
Il Sindaco del Comune di Finale Ligure (SV) ha formulato
una richiesta di parere avente ad oggetto i limiti
all’assunzione di personale posti dalla legge di stabilità
23.12.2014, n. 190.
In particolare, premette che, ai sensi dell'art. 30 del
decreto-legislativo 30.03.2001, n. 165, ha previsto, in sede
di programmazione triennale del fabbisogno di personale
2015-2017 e di piano delle assunzioni 2015 (deliberazione di
Giunta comunale n. 199 del 30.12.2014, prodotta in
allegato), la copertura di posti vacanti mediante mobilità
volontaria, previo esperimento delle procedure previste
dall'art. 34-bis del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001.
Riferisce di aver conseguito, nel 2014, gli obiettivi
finanziari posti dal patto di stabilità interno e rispettato
la riduzione della spesa storica per il personale, nei
termini definiti dall'art. 1, comma 557, della legge
27.12.2006, n. 296.
In particolare, l'art. 1, comma 47, della legge 30.12.2004,
n. 311, stabilisce che "in vigenza di disposizioni che
stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di
personale a tempo indeterminato, sono consentiti
trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra
amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel
rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per
gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di
stabilità interno per l'anno precedente".
La suddetta norma, prosegue il Sindaco, è stata oggetto di
ripetute pronunce delle Sezioni regionali di controllo della
Corte dei conti, chiamate a chiarirne la portata applicativa
in rapporto ai vincoli posti dalla legge alle assunzioni di
personale (richiama, quale recente precedente, il parere
della Sezione per la Lombardia n. 378/2014).
La magistratura contabile ha ritenuto che la cessione del
contratto di personale dipendente (c.d. “mobilità”),
fra enti soggetti entrambi dalla legge a limitazioni alle
assunzioni, non interferisce con il rispetto dei contingenti
limitativi alle assunzioni, in quanto la mobilità, anche
intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte a
disciplina limitativa, non produce variazione della spesa
complessiva e, di conseguenza, risulta neutra per la finanza
pubblica.
Quanto esposto ha portato a ritenere, quale corollario, che
la cessione del contratto di lavoro non costituisca, per
l'ente cedente, una “cessazione” legittimante
assunzioni dall’esterno del perimetro della pubblica
amministrazione. Correlativamente, l'ingresso di personale
in mobilità, per l'ente destinatario, non costituisce “assunzione”,
e, pertanto, non intacca eventuali contingenti, numerici o
finanziari, destinati a queste ultime (l’istanza richiama il
parere della Sezione regionale di controllo per la Lombardia
n. 373/2012).
Il dubbio oggetto dell’istanza di parere sorge per effetto
dell’entrata in vigore dell'art. 1, comma 424, della citata
legge di stabilità per il 2015, in cui viene stabilito che:
"gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le
risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle
percentuali stabilite dalla normativa vigente,
all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le
finalità di ricollocazione del personale in mobilità le
regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante
percentuale della spesa relativa al personale di ruolo
cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa
ricollocazione del personale soprannumerario. Il numero
delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è
comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le
assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle".
Alla luce di quanto sopra, il Sindaco ritiene che il
ricorso alla mobilità volontaria tra enti sottoposti al
patto di stabilità non interferisca con la disciplina tesa
al ricollocamento del personale delle province, in quanto
non incide sulla disponibilità di spesa da destinare alle
nuove assunzioni di personale, chiedendo un parere in merito
alla conformità alla normativa vigente dell’acquisizione di
un’unità di personale, nel corso del 2015, a mezzo di
cessione del contratto di lavoro.
...
La richiesta di parere avanzata dal Comune di Finale Ligure
verte su uno dei profili interpretativi che investono il
comma 424 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2015,
n. 190 del 2014, al cui tenore letterale, esposto in
premessa, si fa rinvio.
Come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie della Corte
dei conti nella citata
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
con tale norma è stata introdotta una specifica disciplina
per le assunzioni a tempo indeterminato degli enti locali,
derogatoria, per gli anni 2015 e 2016, a quella generale,
con comminazione di un’esplicita sanzione di nullità per
quelle effettuate in difformità.
In particolare, la citata pronuncia ha avuto modo di
affermare un principio di orientamento generale anche in
relazione al dubbio interpretativo posto dal comune di
Finale Ligure, a cui la Sezione regionale di controllo deve
conformarsi, in aderenza al disposto dell’art. 6, comma 4,
del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n.
213 del 2012.
Infatti, in riferimento alla possibilità per un ente locale,
in presenza della disciplina posta dalla legge di stabilità
per il 2015, di effettuare assunzioni a tempo indeterminato
mediante l’attivazione delle procedura per la mobilità
volontaria, prevista dall’art. 30 del d.lgs. n. 165 del
2001, la Sezione regionale per la Lombardia, nel
parere 24.02.2015 n. 85, ha ritenuto, in virtù
delle motivazioni a cui si fa rinvio, che il vincolo di
attingere dal personale soprannumerario delle provincie sia
limitato alle sole assunzioni a tempo indeterminato e non ai
trasferimenti diretti di personale mediante cessione del
contratto (c.d. “mobilità”), considerati neutri, in
costanza di un regime limitativo alle assunzioni, dall’art.
1, comma 47, della legge n. 311 del 2004.
Tale tesi non è stata condivisa dalla
Sezione delle Autonomie,
che ha affermato che il comma 424 della
legge di stabilità per il 2015 detti una disciplina
temporaneamente derogatoria, con valore “conformativo di
tutte le necessità esegetiche che riguardano l’attuazione di
quella disposizione”.
Di conseguenza,
sulla base del percorso motivazionale a cui si fa rinvio,
ha ritenuto che, per il 2015 ed il 2016, agli enti
locali sia consentito indire bandi per procedure di mobilità
riservate esclusivamente al personale soprannumerario di
provincie e città metropolitane. A conclusione del processo
di ricollocazione dell’indicato personale
(come delineato dai commi 421 e seguenti della legge n. 190
del 2014), invece, sarà possibile, per gli
enti locali, tornare ad indire ordinarie procedure di
mobilità volontaria, e considerare neutre le conseguenti
assunzioni ai fini delle limitazioni poste dalla legge al
reclutamento di personale a tempo indeterminato
(in aderenza alla regola generale posta dall’art. 1, comma
47, della legge n. 311 del 2004) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Liguria,
parere 30.07.2015 n. 58). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’obbligo
normativo di riservare, per il 2015 e 2016, le procedure di
mobilità al personale soprannumerario provinciale esclude la
possibilità di assorbire, mediante mobilità volontaria,
unità provenienti da altre amministrazioni, incluse le
Comunità montane.
---------------
Con nota del 02.07.2015,
pervenuta a questa Sezione il 20.07.2015, il Sindaco del
Comune di Pescasseroli (AQ) ha trasmesso una
richiesta di parere concernente il comportamento da tenere
in merito alla possibilità di attivare, alla luce
dell’attuale quadro normativo in materia di capacità
assunzionali degli enti locali e di riassorbimento del
personale soprannumerario provinciale, procedure di
mobilità da Comunità montane in fase di soppressione.
...
La richiesta di parere concerne la possibilità per gli enti
locali di attivare procedure di mobilità volontaria ex art.
30 del D.Lgs. 165/2001 per il personale proveniente dalle
Comunità montane in fase di soppressione, alla luce dei
vincoli assunzionali gravanti sugli enti locali per effetto
del processo di ricollocazione del personale soprannumerario
delle Province.
In altre parole, il dubbio interpretativo sollevato dal
Comune di Pescasseroli attiene alla circostanza “se la
mobilità del personale delle comunità montane in via di
soppressione soggiaccia ai […] limiti stabiliti dal
legislatore statale, ovvero, essendo personale proveniente
da processi di riordino delle Comunità montane, che al pari
di quanto previsto con la riforma delle Province dalla legge
finanziaria 2015 sono tesi al raggiungimento di obiettivi di
contenimento della spesa pubblica, sia da considerarsi
esente”.
La questione posta attiene al coordinamento delle discipline
concernenti il personale delle Comunità montane in fase di
soppressione e quello delle Province. Appare quindi
necessario, in via preliminare, richiamare le disposizioni
rilevanti in materia.
Con riferimento alle Comunità montane, l’art. 2, comma 17,
della legge 244/2007 delegava alle regioni, al fine di
concorrere agli obiettivi di contenimento della spesa
pubblica, il riordino della disciplina delle Comunità
montane, in modo da ridurne a regime la spesa corrente di
funzionamento. Le leggi regionali dovevano tenere in
considerazione i principi generali di riduzione del numero
delle Comunità, del numero di componenti degli organi
rappresentativi e delle relative indennità, fissati nel
successivo comma 18 del medesimo articolo 2.
Nel caso della Regione Abruzzo, la legge regionale n. 1/2013
recante “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale
17.12.1997, n. 143, (Norme in materia di riordino
territoriale dei Comuni. Mutamenti delle circoscrizioni,
delle denominazioni e delle sedi comunali. Istituzione di
nuovi Comuni, Unioni, Fusioni), disposizioni in materia di
riassetto degli enti del territorio montano e norme in
materia di politiche di sviluppo della montagna abruzzese”
ha proceduto, all’art. 3, per finalità di contenimento delle
spese degli enti territoriali e di migliore svolgimento
delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici, al
complessivo riassetto degli enti operanti nel territorio
montano, contestualmente promuovendo la costituzione di
unioni tra i Comuni montani.
Al fine di favorire il passaggio alle nuove Unioni montane
viene aggiunto l’art. 15-septies della legge 143/1997 il
quale contiene disposizioni di agevolazione per gli enti
locali e le Unioni che assumono nei propri organici
personale delle Comunità Montane soppresse per effetto del
riordino; tali agevolazioni consistono nell’attribuzione
prioritaria di spazi finanziari nell’ambito del patto
regionale verticale.
Dalla lettura delle citate norme appare
evidente che le stesse non introducono obblighi di
assunzione in capo agli enti locali, ma operano secondo una
logica di incentivazione, garantendo benefici finanziari
alle amministrazioni che si impegnano nel riassorbimento del
personale delle soppresse Comunità montane.
In un’ottica profondamente diversa si muove il legislatore
statale con riferimento alle Province.
Al riguardo,
l’articolo 1, comma 424 della legge 190/2014 dispone che: “Le
regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di
stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di
bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero
delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è
comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56.
Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle.”
La disposizione si colloca nell’ambito di un articolato
normativo (commi da 421 a 427 dell’art. 1 della legge
23.12.2014 n. 190) volto alla rimodulazione organizzativa
delle province e delle città metropolitane (i c.d. enti di
area vasta interessati dal processo riordino delle funzioni
di cui alla legge 07.04.2014 n. 56) attraverso una
rideterminazione delle dotazioni organiche e la
ricollocazione, mediante mobilità, del personale risultato
in soprannumero.
Al riassorbimento del personale in mobilità sono destinate
le previsioni dei commi 424 e 425 dell’art. 1, la cui
attuazione concreta deve conformarsi al criterio di priorità
espressamente sancito nel comma 423, a mente del quale “il
personale destinatario delle procedure di mobilità è
prioritariamente ricollocato secondo le previsioni di cui al
comma 424 e in via subordinata con le modalità di cui al
comma 425”.
Dalle disposizioni precedenti emerge un
quadro normativo vincolante per gli enti locali che si
giustifica alla luce della temporaneità dello stesso
(esercizi 2015 e 2016) e della specifica finalità di
garantire il transito del personale provinciale
parallelamente alla riduzione delle funzioni istituzionali
assegnate agli enti di area vasta. Le esigenze peculiari cui
tali vincoli assunzionali rispondono prevalgono rispetto a
quelle invece previste in materia di personale delle
Comunità montane in soppressione, le quali si limitano ad
incentivare gli enti locali senza vincolarli nelle scelte di
reclutamento.
Nel senso di escludere, in via generale, la
possibilità di ricorrere alle procedure di mobilità
volontaria sino al riassorbimento del personale provinciale
si esprime anche la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 19 del 2015,
secondo la quale, sebbene l’art. 1, comma 424 della legge di
stabilità non innova nella disciplina della mobilità
volontaria per cui, sempre in linea teorica, non
sembrerebbero sussistere ostacoli alla sua operatività, la
priorità della ricollocazione del personale “destinatario
delle procedure di mobilità” secondo le previsioni del
comma 424, non è compatibile con la operatività, per il
limitato arco temporale dei due esercizi 2015 e 2016, delle
disposizioni di mobilità volontaria, salvo la completa
ricollocazione del personale soprannumerario.
La stessa Sezione delle Autonomie conclude affermando che “per
dette ragioni deve ritenersi che per
il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire
bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al
personale soprannumerario degli enti di area vasta. A
conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria”.
In linea con quanto sopra si pone anche la
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, laddove, nell’evidenziare i “divieti e gli
effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le amministrazioni
pubbliche”, si precisa che non sono
consentite procedure di mobilità.
Alla luce delle precedenti considerazioni, questa Sezione
ritiene che l’obbligo di riservare, per il
2015 e 2016, le procedure di mobilità al personale
soprannumerario provinciale escluda la possibilità di
assorbire, mediante mobilità volontaria, unità provenienti
da altre amministrazioni, incluse le Comunità montane
(Corte
dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 28.07.2015 n. 199). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con il primo quesito si chiede: “il comma 424
esclude la facoltà di attingere dalle graduatorie di
concorsi pubblici in vigore presso altri enti locali ai
sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n. 101/2013
convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa “deroga
restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti locali, il
divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici
approvate da altri enti locali vale per tutto il biennio
2015/2016 oppure è limitato solo alla permanenza di
personale soprannumerario della provincia di appartenenza?”
La Sezione delle Autonomie ha ritenuto, al riguardo, che “per gli anni 2015 e
2016 la facoltà̀ di attingere alle graduatorie di concorsi
pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente
riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013,
n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del
personale soprannumerario senza alcuna limitazione
geografica”.
---------------
Con il secondo quesito
ci si chiede
se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità,
a cui evidentemente non è possibile impedire la
partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il
processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a
priori la validità di graduatorie di merito nelle quali
siano collocati personale non soprannumerario della
provincia.
In sostanza il
comune che abbia esperito un procedimento selettivo per
l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale
proveniente da enti diversi da quello inserito tra i
soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria
di merito?”
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie ha formulato il seguente principio di diritto:
“per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire
bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al
personale soprannumerario degli enti di area vasta. A
conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve,
dunque, a monte il quesito interpretativo posto dal Comune
istante, in quanto esclude la possibilità che si possa
proceder all’esperimento di procedure di mobilità non
riservate ai dipendenti soprannumerari degli enti di area
vasta.
---------------
Con il terzo quesito si chiede se “l’ente locale sia
svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in
esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della
provincia non siano presenti profili professionali adeguati
alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa
umana”.
La Sezione delle
Autonomie sul punto ha così statuito: “se l’Ente che
deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad
assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di
organico per il quale è prevista una specifica e legalmente
qualificata professionalità̀ attestata, ove contemplato
dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e
che tale assunzione è necessaria per garantire
l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui
prestazioni la predetta professionalità̀ è strettamente e
direttamente funzionale, non potrà̀ ricollocare in quella
posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale
requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata
l’inesistenza di tali professionalità̀ tra le unità
soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad
assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al
solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto
il personale delle Province interessate alla ricollocazione,
individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge
190/2014”.
--------------
Con il successivo quesito
ci si chiede a quale contingente fanno riferimento
i primi due capoversi del comma 424. legge 23.12.2014 n.
190, essendo accomunate nella
medesima disposizioni fattispecie diverse?”.
Il legislatore ha indicato le
risorse da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato
per il 2015 ed il 2016 per le regioni e gli enti locali,
individuando due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile
per le assunzioni da graduatorie approvate e per la
ricollocazione delle unita soprannumerarie, l’altro, solo
per la predetta ricollocazione.
Il primo, è quello
quantificato in termini percentuali dei risparmi di spesa
destinabili a nuove assunzioni negli esercizi 2015 (60%
della spesa del personale di ruolo cessato nell’anno
precedente) e 2016 (80% dello stesso parametro) secondo le
disposizioni di cui all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il
secondo corrispondente al complemento a 100 delle medesime
percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa
ancora il legislatore che le sole spese per le assunzioni a
tempo indeterminato finalizzate alla ricollocazione non
rilevano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al
comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296,
fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e
la sostenibilità̀ finanziaria e di bilancio dell’ente.
Conclusivamente va precisato che «la
capacita di assunzioni
a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico
collocato nelle graduatorie dell’ente» si esaurisce con
l’utilizzazione delle risorse corrispondenti «ad una spesa
pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell’anno
precedente»; le ulteriori risorse corrispondenti al
complemento a cento delle ricordate percentuali sono
destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime
risorse destinandone parte alle predette assunzioni da
graduatorie”.
---------------
Con l’ultimo quesito si pone la seguente questione: “il
vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al personale
soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se il Comune
debba far riferimento esclusivamente al personale della
provincia di appartenenza oppure al personale delle
Provincie che la funzione pubblica provvederà ad indicare e
quindi di altre provincie”.
La Sezione delle Autonomie ha avuto modo di
precisare che “nell’applicazione delle disposizioni che
vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo
indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del
personale sovrannumerario delle province vanno considerate
tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della
provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve fare le assunzioni”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Comune di Botticino (BS), con nota prot. n. 353 del giorno 13.01.2015, premesso che:
- l’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 23/12/2014
dispone testualmente “le regioni e gli enti locali, per gli
anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a
tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla
normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie
vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della
presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle
unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità, le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di
stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di
bilancio dell’ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il
numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile
è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56.
Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle;
- la disposizione sembrerebbe prescrivere che per il
reperimento delle risorse umane a tempo indeterminato, gli
enti locali possono attingere esclusivamente dalle proprie
graduatorie in vigore al 31/12/2014 oppure dal ruolo del
personale soprannumerario della Provincia;
- la corretta interpretazione della disposizione ha una
immediata rilevanza sulla finanza locale in ragione della
sanzione contemplata dall’ultimo capoverso del comma in
esame che sancisce la nullità delle assunzioni effettuate in
violazione di queste regole”;
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
1. “il comma 424 esclude la facoltà di attingere dalle
graduatorie di concorsi pubblici in vigore presso altri enti
locali ai sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n.
101/2013 convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa
“deroga restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti
locali, il divieto di attingere dalle graduatorie di
concorsi pubblici approvate da altri enti locali vale per
tutto il biennio 2015/2016 oppure è limitato solo alla
permanenza di personale soprannumerario della provincia di
appartenenza?
2. La disposizione in esame sembra escludere per il biennio
2014/2015 [da intendersi 2015/2016 alla luce dell’oggetto
della richiesta] la possibilità di reperire risorse umane
attraverso l’istituto della mobilità se non attingendo dalle
graduatorie dei soprannumerari della provincia. Ci si chiede
se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità,
a cui evidentemente non è possibile impedire la
partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il
processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a
priori la validità di graduatorie di merito nelle quali
siano collocati personale non soprannumerario della
provincia.
In tal caso si potrebbe configurare l’assurdo di
una legittima causa di esclusione dalla partecipazione alla
procedura di mobilità oppure una riserva nell’ambito della
graduatoria, che rimarrebbe difficilmente applicabile nel
caso sia una sola la risorsa da assumere. In sostanza il
comune che abbia esperito un procedimento selettivo per
l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale
proveniente da enti diversi da quello inserito tra i
soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria
di merito?
3. Allo stesso modo si chiede se l’ente locale sia
svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in
esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della
provincia non siano presenti profili professionali adeguati
alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa
umana;
4. Il primo capoverso del comma 424 in esame sembra
prefigurare la possibilità di esaurire la propria capacità
di assunzioni a tempo indeterminato attingendo dalle proprie
graduatorie ovvero da quelle dalle “unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità’’ delle Provincie. Il
secondo capoverso del comma 424 dispone poi che
“Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità, le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario".
La capacità di assunzione a tempo
indeterminato è soggetto ad una diversa disciplina a seconda
che si attinga da graduatorie di concorso, in tal caso si
configura una nuova assunzione, rispetto all’ipotesi di
mobilità da altro ente. Nel primo caso la recente novella
introdotta dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014,
convertito con modificazioni dalla legge n. 114/2014, ha
fissato come regola generale un contingente pari al 60%
delle cessazioni dell’anno precedente, fatto salvo il 2014
dal quale è possibile operare il cumulo delle cessazioni per
un arco temporale di tre anni. Viceversa le assunzioni
attraverso mobilità da altri enti non sono soggette a tali
contingenti, rimanendo quale unico limite il tetto della
spesa del personale, anch’esso novellato dal dl. n. 90/2014.
Detto ciò ci si chiede a quale contingente fanno riferimento
i primi due capoversi del comma 424 essendo accomunate nella
medesima disposizioni fattispecie diverse?
5. Il vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al
personale soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se
il Comune debba far riferimento esclusivamente al personale
della provincia di appartenenza oppure al personale delle
Provincie che la finizione pubblica provvederà ad indicare e
quindi di altre provincie”.
...
1. L’articolata richiesta di parere avanzata dal Comune di
Botticino verte su diversi profili interpretativi che
investono il disposto del comma 424, dell’art. 1, della legge
n. 190 del 23/12/2014, che così statuisce: “Le regioni e gli
enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse
per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali
stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in
vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri
ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi
di mobilità. Esclusivamente per le finalità di
ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli
enti locali destinano, altresì, la restante percentuale
della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli
anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del
personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del
patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e
di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il
numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile
è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, a Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma
sono nulle”.
Come sopra ricordato, la Sezione, valutata la particolare
rilevanza delle questioni sottese ai quesiti, sopra
riportati, proposti dal Comune istante, con il
parere 24.02.2015 n. 85, ha ritenuto di trasmetterle al Presidente
della Corte dei conti per le valutazioni di competenza,
affinché potesse considerare la possibilità di deferire la
questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art.
6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174,
convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n.
213, secondo il quale in presenza, in particolare, di
questioni di massima di particolare rilevanza, la citata
Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni
regionali di controllo si conformano.
La Sezione delle Autonomie, con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
ha risolto le richiamate questioni interpretative fornendo i
principi, a cui questa Sezione si conforma.
2. Rinviando al
parere 24.02.2015 n. 85 per la
disamina della posizione precedentemente assunta da questa
Sezione sulle singole questione prospettate dal Comune
istante, con il primo quesito si chiede: “il comma 424
esclude la facoltà di attingere dalle graduatorie di
concorsi pubblici in vigore presso altri enti locali ai
sensi dell’art. 4, comma 3-ter, del d.l. n. 101/2013
convertito dalla legge 125/2013. Se sussiste questa “deroga
restrittiva” alle facoltà riconosciute agli enti locali, il
divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici
approvate da altri enti locali vale per tutto il biennio
2015/2016 oppure è limitato solo alla permanenza di
personale soprannumerario della provincia di appartenenza?”
La Sezione delle Autonomie, condividendo l’assunto di questa
Sezione, ha ritenuto, al riguardo, che “per gli anni 2015 e
2016 la facoltà̀ di attingere alle graduatorie di concorsi
pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente
riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013,
n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del
personale soprannumerario senza alcuna limitazione
geografica”.
3. Con il secondo quesito si pongono le seguenti questioni:
la disposizione in esame sembra escludere per il biennio
2015/2016 “la possibilità di reperire risorse umane
attraverso l’istituto della mobilità se non attingendo dalle
graduatorie dei soprannumerari della provincia. Ci si chiede
se a seguito dell’esperimento di una procedura di mobilità,
a cui evidentemente non è possibile impedire la
partecipazione di candidati provenienti da altri enti, il
processo selettivo propedeutico alla mobilità, escluda a
priori la validità di graduatorie di merito nelle quali
siano collocati personale non soprannumerario della
provincia.
In tal caso si potrebbe configurare l’assurdo di
una legittima causa di esclusione dalla partecipazione alla
procedura di mobilità oppure una riserva nell’ambito della
graduatoria, che rimarrebbe difficilmente applicabile nel
caso sia una sola la risorsa da assumere.
In sostanza il
comune che abbia esperito un procedimento selettivo per
l’assunzione attraverso mobilità, può assumere personale
proveniente da enti diversi da quello inserito tra i
soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria
di merito?”
Il quesito, così come formulato dall’Ente, appare
sovrapporre due profili tematici che, invece, vanno tenuti
distinti: il primo, relativo ai vincoli imposti dal comma
424 alle facoltà̀ di assunzioni a tempo indeterminato a
valere sulle risorse a ciò̀ destinate per gli anni 2015 e
2016; il secondo, concernente la possibilità̀ di continuare
a fare ricorso, anche per detto biennio, all’istituto della mobilità esterna fra enti che risulta finanziariamente
neutra.
Al riguardo, la Sezione delle Autonomie, con la pronuncia
sopra richiamata, non condividendo la tesi sostenuta da
questa Sezione –sintetizzabile nel ritenere il vincolo alle
assunzioni ex comma 424 non applicabile ai trasferimenti
diretti di personale a seguito delle procedure di mobilità
volontaria– ha formulato il seguente principio di diritto:
“per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire
bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al
personale soprannumerario degli enti di area vasta. A
conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve,
dunque, a monte il quesito interpretativo posto dal Comune
istante, in quanto esclude la possibilità che si possa
proceder all’esperimento di procedure di mobilità non
riservate ai dipendenti soprannumerari degli enti di area
vasta.
4. Con il terzo quesito si chiede se “l’ente locale sia
svincolato dagli obblighi contenuti nella disposizione in
esame, se nell’ambito del personale soprannumerario della
provincia non siano presenti profili professionali adeguati
alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa
umana”.
La risposta negativa al quesito, cui era pervenuta questa
Sezione, non è stata condivisa dalla Sezione delle
Autonomie, che sul punto ha così statuito: “se l’Ente che
deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad
assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di
organico per il quale è prevista una specifica e legalmente
qualificata professionalità̀ attestata, ove contemplato
dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e
che tale assunzione è necessaria per garantire
l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui
prestazioni la predetta professionalità̀ è strettamente e
direttamente funzionale, non potrà̀ ricollocare in quella
posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale
requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata
l’inesistenza di tali professionalità̀ tra le unità
soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad
assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al
solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto
il personale delle Province interessate alla ricollocazione,
individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge
190/2014”.
5. Con il successivo quesito l’Ente istante rappresenta che:
“il primo capoverso del comma 424 in esame sembra
prefigurare la possibilità di esaurire la propria capacità
di assunzioni a tempo indeterminato attingendo dalle proprie
graduatorie ovvero da quelle dalle “unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità’’ delle Provincie. Il
secondo capoverso del comma 424 dispone poi che
“Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità, le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario".
La capacità di assunzione a tempo
indeterminato è soggetta ad una diversa disciplina a seconda
che si attinga da graduatorie di concorso, in tal caso si
configura una nuova assunzione, rispetto all’ipotesi di
mobilità da altro ente. Nel primo caso la recente novella
introdotta dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014,
convertito con modificazioni dalla legge n. 114/2014, ha
fissato come regola generale un contingente pari al 60%
delle cessazioni dell’anno precedente, fatto salvo il 2014
dal quale è possibile operare il cumulo delle cessazioni per
un arco temporale di tre anni. Viceversa le assunzioni
attraverso mobilità da altri enti non sono soggette a tali
contingenti, rimanendo quale unico limite il tetto della
spesa del personale, anch’esso novellato dal d.l. n. 90/2014.
Detto ciò
ci si chiede a quale contingente fanno riferimento
i primi due capoversi del comma 424 essendo accomunate nella
medesima disposizioni fattispecie diverse?”.
Tale quesito, come rileva la Sezione delle Autonomie,
prospetta “difficoltà interpretative relative alla precisa
individuazione dell’ammontare delle disponibilità̀
finanziarie destinabili alle assunzioni a tempo
indeterminato a seconda che si proceda ad un’assunzione dei
vincitori collocati in graduatoria o ad una ricollocazione.
Al riguardo va precisato che il legislatore ha indicato le
risorse da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato
per il 2015 ed il 2016 per le regioni e gli enti locali,
individuando due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile
per le assunzioni da graduatorie approvate e per la
ricollocazione delle unità soprannumerarie, l’altro, solo
per la predetta ricollocazione.
Il primo, è quello
quantificato in termini percentuali dei risparmi di spesa
destinabili a nuove assunzioni negli esercizi 2015 (60%
della spesa del personale di ruolo cessato nell’anno
precedente) e 2016 (80% dello stesso parametro) secondo le
disposizioni di cui all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il
secondo corrispondente al complemento a 100 delle medesime
percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa
ancora il legislatore che le sole spese per le assunzioni a
tempo indeterminato finalizzate alla ricollocazione non
rilevano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al
comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296,
fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e
la sostenibilità̀ finanziaria e di bilancio dell’ente.
Conclusivamente va precisato che «la capacità di assunzioni
a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico
collocato nelle graduatorie dell’ente» si esaurisce con
l’utilizzazione delle risorse corrispondenti «ad una spesa
pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell’anno
precedente»; le ulteriori risorse corrispondenti al
complemento a cento delle ricordate percentuali sono
destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime
risorse destinandone parte alle predette assunzioni da
graduatorie”.
6. Con l’ultimo quesito si pone la seguente questione: “il
vincolo introdotto dal comma 424 fa riferimento al personale
soprannumerario della Provincia. Ci si chiede se il Comune
debba far riferimento esclusivamente al personale della
provincia di appartenenza oppure al personale delle
Provincie che la funzione pubblica provvederà ad indicare e
quindi di altre provincie”.
A quest’ultimo quesito, concordemente alla tesi di questa
Sezione, la Sezione delle Autonomie ha avuto modo di
precisare che “nell’applicazione delle disposizioni che
vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo
indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del
personale sovrannumerario delle province vanno considerate
tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della
provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve fare le assunzioni”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 20.07.2015 n. 243). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Qualora
le cessazioni siano intervenute nel 2013, la capacità
assunzionale del 2014, eventualmente rinviata nel 2015, non
soggiace alle descritte limitazioni introdotte dalla L. n.
190/2014.
---------------
Il Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Autonoma
della Sardegna ha trasmesso a questa Sezione, ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della Legge del 05.06.2003 n. 131, la
richiesta di parere inoltrata dal Sindaco del Comune di
Nurri ritenendola ammissibile.
Con il predetto quesito si chiede se il Comune possa
procedere nel 2015 all’assunzione di un’unità di personale,
per effetto di una cessazione intervenuta nel 2013, a
conclusione di una procedura concorsuale che, seppure
avviata nel 2014, si concluderà nel corso del 2015.
E ciò alla luce della Legge finanziaria statale per il 2015
(L. n. 190/2014) che all’art. 1, commi 424 e 425, ha fissato
specifici limiti alle assunzioni da parte degli Enti Locali
al fine di favorire la ricollocazione del personale delle
Province destinatario di procedure di mobilità.
...
Il Collegio ritiene opportuno, innanzitutto, illustrare
sinteticamente gli attuali limiti alla capacità assunzionale
degli Enti Locali soggetti al patto di stabilità interno.
A tale proposito deve essere evidenziato che la vigente
disciplina vincolistica impone, da un lato, di contenere la
spesa per il personale entro un certo tetto e, dall’altro,
di limitare le nuove assunzioni alla parziale reintegrazione
dei cessati (turn-over).
In particolare, l’art. 3, comma 5-bis, del D.L. n. 90/2014,
convertito con la L. n. 114/2014, ha introdotto, all’art. 1,
della L. n. 296/2006, il comma 557-quater che ha previsto
quale limite di spesa per il personale il “valore medio
del triennio precedente alla data di entrata in vigore della
presente disposizione” ovvero la media di quanto speso
per il personale negli anni 2011, 2012 e 2013 (si veda sul
punto la
deliberazione 06.10.2014 n. 25/2014).
Per potere assumere, però, non basta rispettare tale
parametro. Infatti, sono previsti specifici vincoli di
turn-over che si basano sul principio della parziale
reintegrazione dei cessati. In particolare, per gli enti
soggetti al patto di stabilità interno, l’art. 3, comma 5,
del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha
previsto la possibilità di assumere negli anni 2014 e 2015
un contingente di personale a tempo indeterminato nei limiti
di una spesa pari al 60% di quella relativa al personale di
ruolo cessato nell’anno precedente.
Tale percentuale, ai sensi dell’art. 3, comma 5-quater, del
D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, è
destinata ad aumentare se l’incidenza della spesa per il
personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25%.
Così, nel 2014 si potrà assumere nei limiti dell’80% e dal
2015 nella misura del 100% della spesa sostenuta per il
personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno
precedente.
Si deve, inoltre, ricordare che il citato art. 3, comma 5,
del D.L. n. 90/2014, convertito con la L. n. 114/2014, ha
anche previsto che “a decorrere dall’anno 2014 è
consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni
per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto
della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria
e contabile”.
Ciò significa che qualora la cessazione sia
intervenuta nel 2013, l’Ente Locale soggetto al patto di
stabilità avrà nel 2014 una capacità assunzionale pari al
60% della spesa sostenuta per il personale cessato nel 2013
ed eventualmente dell’80% di tale spesa se il rapporto tra
spesa per il personale e spesa corrente è pari o inferiore
al 25%. Se l’assunzione non viene effettuata nel 2014 ma
programmata per il 2015, si potrà cumulare la capacità
assunzionale del 2014 (60% o 80% della spesa per il
personale cessato nel 2013) con quella del 2015 (60% o 100%
della spesa per il personale cessato nel 2014), sempre che
nel 2014 siano intervenute nuove cessazioni in quanto la
capacità assunzionale di ogni anno si calcola sulle
cessazioni intervenute nell’anno precedente
(si veda sul punto la
deliberazione 21.11.2014 n. 27).
Su tale assetto normativo è intervenuta la L. n. 190/2014
(Legge finanziaria statale per il 2015) che all’art. 1,
comma 424, ha previsto che gli Enti Locali, per gli anni
2015 e 2016, destinino le risorse disponibili per le
assunzioni a tempo indeterminato all’immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in
vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri
ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi
di mobilità.
Per fare chiarezza sulla portata applicativa di tale norma
sono intervenuti il Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione e il Ministro per gli affari
regionali che, con la Circolare n. 1/2015, hanno chiarito,
tra l’altro, che:
• le risorse da destinare alle finalità di
cui al citato comma 424, sono quelle disponibili per gli
anni 2015 e 2016 riferite, quindi, alle cessazioni
intervenute nel 2014 e nel 2015;
• la predetta capacità assunzionale deve essere destinata in
via prioritaria all’immissione nei ruoli dei vincitori di
concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie
vigenti o approvate al 01.01.2015;
• le risorse rimanenti devono essere destinate ai processi
di mobilità del personale soprannumerario degli enti di area
vasta;
• rimangono consentite le assunzioni a valere sui budget
degli anni precedenti.
Pertanto, qualora le cessazioni siano
intervenute nel 2013, la capacità assunzionale del 2014,
eventualmente rinviata nel 2015, non soggiace alle descritte
limitazioni introdotte dalla L. n. 190/2014
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna,
parere 21.04.2015 n. 32). |
APPALTI:
Sulla fattispecie dei "debiti fuori bilancio".
Il debito fuori bilancio è
un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una
determinata somma di denaro, assunta in violazione delle
norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario
della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è
disciplinato dall'art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000, che
prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada posto in
essere in occasione della ricognizione dello stato di
attuazione dei programmi e dell'accertamento degli equilibri
generali di bilancio (art. 193, comma 2, del TUEL), nonché
nelle altre cadenze periodiche previste dal regolamento di
contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di
ipotesi, tassative in quanto derogatorie rispetto
all'ordinario procedimento di spesa, in cui è possibile
procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma
1, lett. e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi,
in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata
all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene
acquisito in relazione alle funzioni ed ai servizi di
competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che
corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza
giusta causa dal privato contraente ai sensi dell'art. 2041
cc.).
L'accertamento della sussistenza di entrambi questi
presupposti
è obbligatorio e non può essere automaticamente ed
implicitamente ricondotto alla semplice adozione della
deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una
parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191,
comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
In questo contesto, la delibera
consiliare ha dunque il compito di:
- riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una
delle fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
- accertare e documentare puntualmente se ed in che misura
sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
- accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del
debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque
non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'art. 191,
comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio intercorre tra
il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o
dipendente che hanno consentito la prestazione in favore
dell'ente);
- ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e
del sistema di bilancio dell'ente;
- individuare le risorse per il finanziamento;
- accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al
fine di evidenziare eventuali responsabilità.
---------------
La situazione debitoria fuori bilancio e l’incidenza delle
passività potenziali possono richiedere scelte di
programmazione e, conseguentemente, di gestione volte a
reperire le risorse necessarie per fare fronte ai debiti
insorti.
A tal fine può essere utile prevedere un apposito fondo
rischi per passività potenziali vincolando l’avanzo libero,
se disponibile, o reperendo risorse a carico del bilancio
annuale.
La presenza di tale tipologia di debiti può assumere una
particolare rilevanza nel contesto degli equilibri della
gestione anno corrente e degli anni futuri e ciò deve essere
valutato in sede di controllo a salvaguardia degli stessi,
tutte le volte in cui emergono sopravvenienze passive per le
quali non si sia fatto validamente fronte con le modalità
previste dall'art. 193 del TUEL.
---------------
La tempestività della segnalazione
dell'insorgenza di tali debiti e del loro riconoscimento
consente di evitare l'insorgere di ulteriori passività a
carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali interessi o
spese di giustizia.
La Sezione ricorda, infine, l'obbligo di
trasmissione della delibera anzidetta alla Procura della
Corte dei conti, in virtù di quanto stabilito dall’art. 23
L. 289/2002.
---------------
7. Riconoscimento di debiti fuori bilancio
Dall’esame della relazione emerge una cospicua consistenza
dei debiti fuori bilancio formatisi nel corso
dell’esercizio, pari allo 0,81% dei valori di accertamento
delle entrate correnti.
In un'ottica collaborativa, il Collegio ricorda,
innanzitutto, che il debito fuori bilancio
è un'obbligazione verso terzi per il pagamento di una
determinata somma di denaro, assunta in violazione delle
norme giuscontabili che regolano il procedimento finanziario
della spesa degli enti locali.
L'istituto, che ha carattere eccezionale, è
disciplinato dall'art. 194 del D.Lgs. n. 267/2000, che
prevede, tra l'altro, che tale adempimento vada posto in
essere in occasione della ricognizione dello stato di
attuazione dei programmi e dell'accertamento degli equilibri
generali di bilancio (art. 193, comma 2, del TUEL), nonché
nelle altre cadenze periodiche previste dal regolamento di
contabilità.
L'elencazione prevista dalla norma contempla una serie di
ipotesi, tassative in quanto derogatorie rispetto
all'ordinario procedimento di spesa, in cui è possibile
procedere al riconoscimento, e tra queste (art. 194, comma
1, lett. e) rientra anche l'acquisizione di beni e servizi,
in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3
dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati
utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza.
L'operatività di quest'ultima norma è dunque subordinata
all'accertamento sia dell'utilità pubblica del bene
acquisito in relazione alle funzioni ed ai servizi di
competenza dell'ente, sia dell'arricchimento dell'ente (che
corrisponde al depauperamento patrimoniale sofferto senza
giusta causa dal privato contraente ai sensi dell'art. 2041
cc.). L'accertamento della sussistenza di entrambi questi
presupposti, come
già più volte ricordato da questa Sezione (cfr. delibere
156/2009/PRSP e 107/2009/PRSP), è
obbligatorio e non può essere automaticamente ed
implicitamente ricondotto alla semplice adozione della
deliberazione di riconoscimento, in quanto vi può essere una
parte del debito non riconoscibile ai sensi dell'art. 191,
comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
In questo contesto, la delibera consiliare
ha dunque il compito di:
- riscontrare e dimostrare che il debito rientra in una
delle fattispecie tipizzate dall'art. 194 del TUEL;
- accertare e documentare puntualmente se ed in che misura
sussistano i presupposti dell'utilità e dell'arricchimento;
- accertare, conseguentemente, se vi sia una parte del
debito non sorretta da entrambi questi presupposti, e dunque
non riconoscibile (per la quale, ai sensi dell'art. 191,
comma 4, del TUEL, il rapporto obbligatorio intercorre tra
il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o
dipendente che hanno consentito la prestazione in favore
dell'ente);
- ricondurre l'obbligazione all'interno della contabilità e
del sistema di bilancio dell'ente;
- individuare le risorse per il finanziamento;
- accertare le cause che hanno originato l'obbligo, anche al
fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Va ricordato, inoltre, che il riferimento ad opera dell'art.
194, comma 1, del TUEL ad adempimenti periodici e
temporalmente cadenzati testimonia come l'adempimento in
questione, in presenza dei presupposti di legge, costituisca
un atto dovuto e vincolato per l'ente, in quanto consente di
far emergere eventuali passività insorte nel corso
dell'esercizio, in applicazione dei principi di veridicità,
trasparenza e pareggio di bilancio, nonché di adottare le
misure necessarie al ripristino dell'equilibrio della
gestione finanziaria.
Si rammenta che la Sezione delle Autonomie nella propria
deliberazione di indirizzo 23/SEZAUT/2013/INPR recante “Indicazioni
per la sana gestione delle risorse nel caso del protrarsi
dell’esercizio provvisorio e primi indirizzi, ex art. 1,
commi 166 e seguenti, della legge 23.12.2005, n. 266,
relativi al Bilancio di Previsione 2013”, al punto H) ha
sottolineato come “….la situazione
debitoria fuori bilancio e l’incidenza delle passività
potenziali possono richiedere scelte di programmazione e,
conseguentemente, di gestione volte a reperire le risorse
necessarie per fare fronte ai debiti insorti. A tal fine può
essere utile prevedere un apposito fondo rischi per
passività potenziali vincolando l’avanzo libero, se
disponibile, o reperendo risorse a carico del bilancio
annuale. La presenza di tale tipologia di debiti può
assumere una particolare rilevanza nel contesto degli
equilibri della gestione 2013 e degli anni futuri e ciò deve
essere valutato in sede di controllo a salvaguardia degli
stessi, tutte le volte in cui emergono sopravvenienze
passive per le quali non si sia fatto validamente fronte con
le modalità previste dall'art. 193 del TUEL”.
Rammenta il Collegio che la tempestività
della segnalazione dell'insorgenza di tali debiti e del loro
riconoscimento consente di evitare l'insorgere di ulteriori
passività a carico dell'ente, quali, ad esempio, eventuali
interessi o spese di giustizia.
La Sezione ricorda, infine, l'obbligo di
trasmissione della delibera anzidetta alla Procura della
Corte dei conti, in virtù di quanto stabilito dall’art. 23
L. 289/2002
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
deliberazione 19.03.2015 n. 182). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Se, in presenza di apposito stanziamento nel bilancio, nelle
more del perfezionamento del riconoscimento dei debiti fuori
bilancio ex art. 194, comma 1, lett. a), sia possibile
procedere al pagamento delle spese legali di soccombenza e
delle spese di parte capitale con apposite determinazioni da
sottoporre all’Organo collegiale in un momento successivo al
pagamento.
Sussiste la necessità, per tutte le
ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, della preventiva
e tempestiva deliberazione consiliare finalizzata a
ricondurre l’obbligazione all’interno della contabilità
dell’ente, ad individuare le risorse per farvi fronte, ad
accertare la sussumibilità del debito all’interno di una
delle fattispecie tipizzate dalla norma, ed, infine, ad
individuare le cause che hanno originato l’obbligo, anche al
fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Si rinvia pertanto alle motivazioni già ampiamente esposte
in altri pareri a sostegno della linea
interpretativa tesa ad escludere qualsiasi attività
gestionale (impegno di spesa e/o pagamento) dell’Ente prima
della deliberazione di riconoscimento del debito, al fine di
evitare un’inversione procedimentale lesiva delle
attribuzioni dell’Organo consiliare.
Il preventivo riconoscimento del debito da
parte dell’Organo consiliare risulta dunque necessario anche
nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per
loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per
via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il
diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione
al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza
finanziaria maturato all’esterno di esso.
Anche in questi
casi, infatti,
l’avvio del procedimento di
spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul
piano logico, una positiva valutazione dell’Organo
consiliare sulla sussistenza dei presupposti di
riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità
connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il
reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del
Consiglio comunale o provinciale non sono infatti
circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si
estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di
natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto,
transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto
programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è
appunto il bilancio di previsione.
Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai
dirigenti, rappresenta espressione di un momento
necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente
conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è
intestata la responsabilità politica dell’azione
amministrativa.
La fase gestionale, di natura
prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente
allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto
all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti
sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di
indirizzo politico ed attività gestionale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno
specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e
quant’altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio
deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti
formatisi al di fuori delle norme giuscontabili.
In conclusione, anche in tale fattispecie,
l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura
consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista
dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico
amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della
Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5,
della legge n. 289/2002.
---------------
Con la nota in epigrafe, il Commissario straordinario della
Provincia regionale di Catania formula una richiesta di
parere in materia di debiti fuori bilancio.
L’Ente chiede di conoscere se, in presenza di apposito
stanziamento nel bilancio, nelle more del perfezionamento
del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194,
comma 1, lett. a), sia possibile procedere al pagamento
delle spese legali di soccombenza e delle spese di parte
capitale con apposite determinazioni da sottoporre
all’Organo collegiale in un momento successivo al pagamento,
fase in cui, secondo la prospettazione dell’Ente
richiedente, potrebbe utilmente collocarsi l’esercizio delle
funzioni di controllo e di indagine di specifica competenza
del Consiglio.
Quanto sopra sia in considerazione della peculiarità
dell’ipotesi contemplata dalla lettera a) dell’art. 194 del
TUEL che, a differenza delle altre fattispecie, escluderebbe
qualsiasi valutazione, da parte del Consiglio, dei fatti o
rapporti giuridici produttivi dell’obbligazione di
pagamento, sia in ragione dell’opportunità di evitare un
aumento delle spese per l’Ente -con effetti pregiudizievoli
sulle finanze dello stesso- ove il creditore procedesse
all’esecuzione forzata del titolo in proprio possesso prima
dell’intervento della delibera consiliare di riconoscimento.
A tale ipotesi viene assimilata quella contemplata nella
lettera e) dell’art. 194 del Tuel, con specifico riferimento
alle sentenze di condanna nei giudizi di opposizione alla
stima o di risarcimento danni per occupazioni illegittime.
La rilevata disomogeneità delle varie ipotesi contemplate
dal richiamato art. 194 del Tuel, sotto il profilo della
sussistenza o meno di un’attività valutativa del Consiglio
circa la validità e riconducibilità all’Ente della fonte
giuridica dell’obbligazione -da escludersi nelle ipotesi di
ottemperanza alle sentenze ed ai provvedimenti esecutivi di
condanna– potrebbe, sempre secondo la prospettazione
dell’Ente richiedente, sorreggere l’opzione ermeneutica
della legittimità dei pagamenti effettuati prima della
delibera consiliare di riconoscimento del debito.
Tale approdo interpretativo, riferito alle peculiari ipotesi
sopra citate, consentirebbe peraltro il superamento
dell’orientamento già espresso dalla Sezione nei più recenti
pareri sul tema (55/2014/PAR e 189/2014/PAR), ove, per tutte
le ipotesi contemplate dall’art. 194 del Tuel, si è esclusa
qualsiasi possibilità di interposizione, sia pure in via
d’urgenza, da parte di altri Organi, rispetto
all’imprescindibile attività valutativa dell’Organo
consiliare.
...
Nel merito, la Sezione ritiene di dover richiamare
integralmente le argomentazioni già esposte nei succitati
pareri n. 55/2014/PAR e n. 189/2014/PAR, ove si è affermata
la necessità, per tutte le ipotesi contemplate
dall’art. 194 del Tuel, della preventiva e tempestiva
deliberazione consiliare finalizzata a ricondurre
l’obbligazione all’interno della contabilità dell’ente, ad
individuare le risorse per farvi fronte, ad accertare la
sussumibilità del debito all’interno di una delle
fattispecie tipizzate dalla norma, ed, infine, ad
individuare le cause che hanno originato l’obbligo, anche al
fine di evidenziare eventuali responsabilità.
Si rinvia pertanto alle motivazioni già ampiamente esposte
nei succitati pareri a sostegno della linea
interpretativa tesa ad escludere qualsiasi attività
gestionale (impegno di spesa e/o pagamento) dell’Ente prima
della deliberazione di riconoscimento del debito, al fine di
evitare un’inversione procedimentale lesiva delle
attribuzioni dell’Organo consiliare.
Il preventivo riconoscimento del debito da
parte dell’Organo consiliare risulta dunque necessario anche
nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per
loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per
via del provvedimento giudiziario a monte che, accertando il
diritto di credito del terzo, rende agevole la riconduzione
al sistema di bilancio di un fenomeno di rilevanza
finanziaria maturato all’esterno di esso
(pr. cont. 2.101).
Anche in questi
casi, infatti,
l’avvio del procedimento di
spesa ex art. 183 e ss. del Tuel postula comunque, già sul
piano logico, una positiva valutazione dell’Organo
consiliare sulla sussistenza dei presupposti di
riconoscibilità, sulle cause ed eventuali responsabilità
connesse, nonché sulle misure correttive tese ad evitare il
reiterarsi delle anomalie oggetto di soccombenza giudiziale.
Le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del
Consiglio comunale o provinciale non sono infatti
circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si
estendono anche ad attività e procedimenti di spesa di
natura vincolante ed obbligatoria, atti che, come noto,
transitano necessariamente anch’essi attraverso l’atto
programmatorio generale e di natura autorizzatoria, che è
appunto il bilancio di previsione.
Rispetto a tale complesso di autorizzazioni di spesa,
l’attività gestionale, affidata dalla legge ai
dirigenti, rappresenta espressione di un momento
necessariamente successivo e, quindi, inevitabilmente
conseguenziale rispetto alla decisione dell’Organo cui è
intestata la responsabilità politica dell’azione
amministrativa.
La fase gestionale, di natura
prevalentemente esecutiva, non potrebbe dunque validamente
allocarsi in un segmento temporale anteriore rispetto
all’attività decisionale del Consiglio, senza che ne risulti
sovvertita la fondamentale distinzione tra attività di
indirizzo politico ed attività gestionale.
L’eventuale previsione in bilancio di uno
specifico stanziamento per liti, arbitraggi, transazioni e
quant’altro non elimina perciò la necessità che il Consiglio
deliberi anche sulla riconoscibilità dei singoli debiti
formatisi al di fuori delle norme giuscontabili
(pr. cont. 1-105; Sezione controllo per la Basilicata,
delibera n. 6/2007/PAR).
In conclusione, anche in tale fattispecie,
l’eventuale pretermissione o postergazione della procedura
consiliare vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista
dall’ordinamento e la correlata fase di controllo politico
amministrativo, nonché la correlata verifica da parte della
Procura regionale della Corte dei conti ex art. 23, comma 5,
della legge n. 289/2002.
La soluzione prospettata risulta infine coerente anche con i
nuovi parametri di deficitarietà strutturale (DM Interno
18.02.2013), che, non prendendo più a riferimento la
consistenza dei debiti “formatisi” nel corso
dell’esercizio di riferimento, bensì quella dei debiti “riconosciuti”
(cfr. parametro n. 8), valorizzano al massimo livello
l’importanza del momento formale di riconduzione della
passività al sistema di bilancio, nonché del rispetto della
scansione procedimentale delineata dal legislatore.
In merito al rischio di azioni esecutive, la Sezione rileva,
come già nel ricordato parere n. 189/2014/PAR, come il
termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo
previsto (art. 14, del D.L. 31.12.1996, n. 669 convertito in
L. n. 30/1997 e s.m.i.) per l’avvio di procedure esecutive
nei confronti della P.A. sia “sufficientemente ampio per
provvedere agli adempimenti di cui all'art. 194 del TUEL”,
alla luce del principio di buon andamento di cui all’art. 97
Cost. (cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo
per la Puglia, par. 9/2012, Sezione regionale di controllo
per la Campania, delibera n. 213/2013/PAR)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 03.02.2015 n. 80). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per
quanto riguarda la spesa del personale si ribadisce che deve
essere considerato principio cardine quello di contenimento
della spesa complessiva, con riferimento a quella media
sostenuta nel triennio precedente, ai sensi dell’art. 1,
comma 557 e seguenti della legge n. 296/2006.
Il limite di spesa per procedere alle assunzioni nel 2014 e
2015 deve essere calcolato sulla base del 60% della spesa
relativa a quella del personale di ruolo cessato nell’anno
precedente, mentre per gli anni successivi i limiti vengono
ampliati fino al 100%.
Dal 2014 le assunzioni possono essere programmate destinando
alle stesse, in sede di programmazione del fabbisogno e
finanziaria, risorse che tengano conto delle cessazioni del
triennio.
---------------
... la Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima richiamata in
premessa, posta dalla Sezione regionale di controllo per la
Basilicata con deliberazione n. 97/2014, enuncia il seguente
principio di indirizzo:
“Per quanto riguarda la spesa del
personale si ribadisce che deve essere considerato principio
cardine quello di contenimento della spesa complessiva, con
riferimento a quella media sostenuta nel triennio
precedente, ai sensi dell’art. 1, comma 557 e seguenti della
legge n. 296/2006.
Il limite di spesa per procedere alle assunzioni nel 2014 e
2015 deve essere calcolato sulla base del 60% della spesa
relativa a quella del personale di ruolo cessato nell’anno
precedente, mentre per gli anni successivi i limiti vengono
ampliati fino al 100%.
Dal 2014 le assunzioni possono essere programmate destinando
alle stesse, in sede di programmazione del fabbisogno e
finanziaria, risorse che tengano conto delle cessazioni del
triennio”
(Corte dei Conti. Sez. autonomie,
deliberazione 21.11.2014 n. 27). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito all'accertamento di conformità ex art.
36 D.P.R. 380/2001 in area paesaggisticamente vincolata -
Comune di Riano (Regione Lazio,
parere 13.10.2015 n. 400993 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Sedute
insindacabili. Al presidente poteri limitati sulle
convocazioni.
Rifiuto ammesso solo per carenza del numero di
consiglieri e per illiceità.
Può il presidente del consiglio comunale riscontrare
negativamente la richiesta di convocazione, formulata ai
sensi dell'art. 39 comma 2, del Tuel n. 267/2000, recante
all'ordine del giorno «comportamenti del sindaco» in
relazione ad un'offerta di acquisto di immobili fatta
dall'amministratore in qualità di privato cittadino ad una
scuola materna ubicata nel territorio comunale?
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa
affermando che, in caso di richiesta di convocazione del
consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al
presidente del consiglio comunale spetta soltanto la
verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto
numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne
l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua
totalità la verifica circa la legalità della convocazione e
l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non
si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o
per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale,
pertanto, le uniche ipotesi per le quali l'organo che
presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione
dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di
consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del
Consiglio, ipotesi nelle quali non sembrerebbe essere
ricompreso il tema proposto all'o.d.g dell'assemblea
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Atti
di sindacato ispettivo.
In assenza di specifica disciplina regolamentare, può
trovare diretta applicazione un articolo dello statuto
comunale ai sensi del quale è previsto che le
interrogazioni, le interpellanze e le mozioni sono discusse
all'inizio di ciascuna seduta consiliare o, secondo le norme
del regolamento, in sessioni distinte da quelle destinate
alla trattazione degli argomenti di natura amministrativa?
Nella fattispecie in esame il dubbio appare originare dalla
posizione assunta dal segretario comunale che ha ritenuto di
demandare al sindaco l'onere di stabilire l'ordine di
precedenza degli argomenti iscritti all'ordine del giorno,
allorché gli atti di sindacato ispettivo fossero stati
indirizzati al protocollo dell'ente e non al sindaco,
considerato che non vi sarebbero norme regolamentari
riferibili alle interpellanze o alle integrazioni presentate
con la suddetta modalità.
La disciplina applicabile deve essere rinvenuta nelle
disposizioni statutarie e regolamentari che l'ente locale si
è dato in materia di atti di sindacato ispettivo, anche
nell'ipotesi in cui tali atti siano presentati al protocollo
del comune e non al sindaco come previsto dal regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale.
Dall'esame del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale si evince che «il sindaco, all'inizio di seduta,
nel dare lettura al consiglio delle interrogazioni
presentate, comunica se alle stesse darà subito risposta
oppure in altro giorno che dovrà essere precisato».
La fonte regolamentare dispone che la discussione
concernente l'interpellanza dovrà essere preceduta soltanto
dalle interrogazioni.
Pertanto, dalle disposizioni citate, si evince che la
normativa recata nello statuto comunale in ordine alla
trattazione degli atti di sindacato ispettivo ad inizio di
seduta risulta essere stata confermata dalla fonte
regolamentare.
Inoltre, nell'ipotesi di silenzio del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale, la normativa
statutaria avrebbe dovuto trovare comunque applicazione, in
quanto sufficientemente dettagliata e, pertanto,
suscettibile di immediata attuazione
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità tra la carica di consigliere comunale e
quella di revisore dei conti in altro Comune, qualora le due
amministrazioni comunali facciano parte della medesima UTI.
Insussistenza.
Non paiono individuarsi disposizioni che
facciano emergere una qualche causa di incompatibilità per
il consigliere comunale di un Comune che riveste, altresì,
l'incarico di revisore dei conti presso un altro Comune,
appartenente alla medesima Unione territoriale comunale (UTI).
Il Consigliere chiede di conoscere un parere in merito
all'esistenza di una causa di incompatibilità per un
consigliere comunale che riveste, altresì, l'incarico di
revisore dei conti presso altro Comune, atteso che le due
amministrazioni comunali fanno parte della medesima Unione
territoriale comunale (UTI).
Sentito il Servizio finanza locale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Al quesito posto si ritiene di fornire risposta negativa.
Infatti, da un'analisi della normativa vigente non paiono
individuarsi disposizioni che facciano emergere una qualche
causa di incompatibilità relativamente alla fattispecie
prospettata.
In via generale, si ricorda come un esame delle eventuali
cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono
investire gli amministratori locali deve essere effettuato
in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da
qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo
incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo,
alla luce della riserva di legge in materia posta
dall'articolo 51 della Costituzione.
L'articolo 24 della legge regionale 17.07.2015, n. 18
prevede che: 'In materia di revisione
economico-finanziaria degli enti locali si applica la
normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge
regionale'. In tema di incompatibilità la norma di
riferimento è l'articolo 236 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, rubricato 'Incompatibilità ed
ineleggibilità dei revisori', il quale recita: '1.
Valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui
al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile,
[1]
intendendosi per amministratori i componenti dell'organo
esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può
essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente
locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel
biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai
dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato
l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti
delle regioni, delle province, delle città metropolitane,
delle comunità montane e delle unioni di comuni
relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione
territoriale di competenza.
3. I componenti degli organi di revisione contabile non
possono assumere incarichi o consulenze presso l'ente locale
o presso organismi o istituzioni dipendenti o comunque
sottoposti al controllo o vigilanza dello stesso'.
Il caso prospettato pare non rientrare in alcuna delle
ipotesi contemplate dalla norma in riferimento. In
particolare, non può farsi applicazione del disposto di cui
al comma 2 primo periodo dell'articolo 236 TUEL, nella parte
in cui sancisce che l'incarico di revisione
economico-finanziaria non possa essere esercitato dai
componenti degli organi dell'ente locale atteso che essa
introduce una causa di incompatibilità per il consigliere
comunale che sia revisore contabile nel medesimo comune nel
quale esercita il proprio mandato elettivo.
La fattispecie in esame non risulta riconducibile neppure
nell'alveo dell'articolo 78, comma 5, TUEL il quale prevede
che ai consiglieri comunali è vietato ricoprire incarichi e
assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o
comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del
relativo comune, atteso che il fatto che il Comune presso
cui l'amministratore esercita il proprio mandato e quello
presso cui è revisore dei conti siano appartenenti alla
medesima Unione territoriale intercomunale non realizza i
presupposti per l'insorgenza del divieto di cui alla norma
in commento. [2]
---------------
[1] Recita l'articolo 2399, primo comma, del codice
civile: 'Non possono essere eletti alla carica di sindaco e,
se eletti, decadono dall'ufficio:
a) coloro che si trovano nelle condizioni previste
dall'articolo 2382;
b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado
degli amministratori della società, gli amministratori, il
coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli
amministratori delle società da questa controllate, delle
società che la controllano e di quelle sottoposte a comune
controllo;
c) coloro che sono legati alla società o alle società da
questa controllate o alle società che la controllano o a
quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di
lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di
prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di
natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza.'.
[2] Per completezza si evidenzia che la giurisprudenza ha
affermato che l'articolo 78, comma 5, non determina una
causa di incompatibilità a carico del consigliere, ma si
configura come divieto di ricoprire l'incarico presso l'ente
controllato o vigilato. Così Cassazione civile, sez. I,
sentenza del 24.05.1994, n. 5076 (in relazione al
corrispondente art. 26 della L. 81/1993) (08.10.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Accesso agli atti illimitato. Diritto ad ampio raggio per i
consiglieri.
Ma non sono applicabili le norme in materia di
potere sostitutivo.
Nel caso in cui un consigliere comunale, a fronte
dell'inutile decorso del termine di 30 giorni dalla
presentazione di una richiesta di accesso agli atti del
comune, ha prodotto un'istanza di intervento sostitutivo, è
applicabile l'art. 2, commi 9-bis e seguenti della legge n.
241/1990, come modificato dall'art. 1 del dl n. 5/2012,
convertito con modificazioni dalla legge n. 35/2012?
Il diritto d'accesso dei consiglieri comunali e provinciali
agli atti amministrativi dell'ente locale è disciplinato
espressamente dall'art. 43, comma 2, del Tuel del 18.08.2000, n. 267, il quale prevede, in capo agli stessi, il
diritto di ottenere dagli uffici comunali, tutte le notizie
e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento
del loro mandato.
Dal contenuto di tale norma emerge chiaramente che i
consiglieri comunali hanno diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d'utilità all'espletamento del
proprio mandato, senza alcuna limitazione, essendo estraneo
all'ampiezza di tale diritto qualunque divieto di «ottenere
notizie e informazioni» su atti o documenti che possano
essere qualificati «segreti» e come tali sottratti alla
visione o estrazione di copia (cfr. commissione di accesso
ai documenti amministrativi - determinazione del Plenum in
data 06.04.2011).
Nella fattispecie, lo Statuto del comune prevede che i
consiglieri comunali, ai fini dell'esercizio delle funzioni
consiliari, hanno diritto di accesso, con le modalità
previste dal regolamento, ai documenti ed agli atti dei
procedimenti del comune utili all'espletamento del proprio
mandato, ivi compresi quelli riservati.
Il regolamento comunale disciplina la materia prevedendo, in
particolare, che il diritto di informazione e di accesso
agli atti amministrativi si esercita mediante richiesta al
segretario comunale o ad altro dipendente da questi
designato.
La libera consultazione degli atti è fissata per due giorni
alla settimana come individuati direttamente dal segretario,
mentre per il rilascio di copie da parte del responsabile
del servizio competente in materia, il regolamento prevede
il termine massimo di trenta giorni successivi a quello
della richiesta.
Entro lo stesso termine, il segretario comunale, qualora
rilevi la sussistenza di divieti od impedimenti al rilascio
della copia richiesta, informa il consigliere interessato,
con comunicazione scritta nella quale sono illustrati i
motivi che non ne consentano la consegna.
Le norme interne all'ente, dunque, non prevedono l'istituto
del silenzio diniego, stabilito, invece, dall'art. 25, comma
4, della legge n. 241/1990 esclusivamente nei confronti dei
cittadini che intendono accedere agli atti della pubblica
amministrazione, i quali possono poi utilizzare i rimedi
giurisdizionali e paragiurisdizionali previsti dalla stessa
disposizione, al fine di fare valere il diritto negato.
Ferma restando la possibilità di utilizzare i predetti
rimedi giurisdizionali, il diritto di accesso dei
consiglieri è diversamente qualificato dal nostro
ordinamento, in quanto è strettamente connesso all'esercizio
del mandato elettorale, attenendo a finalità diverse
rispetto a quelle che trovano specifica disciplina nel capo
V (artt. 22-28) della legge n. 241/1990.
Considerato che l'art. 2 della citata legge disciplina le
procedure da adottare per la «conclusione del procedimento»,
il comma 9-bis, non è applicabile alle ipotesi di accesso
del consigliere, previste, invece, dall'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000. Tale assunto trova conferma dalla
lettura del successivo comma 9-ter dell'art. 2, laddove è
prevista la facoltà, al «privato» che ha titolo alla
conclusione del procedimento, di rivolgersi al responsabile
di cui al comma 9-bis.
Tuttavia, la non applicabilità delle richiamate
disposizioni, non può condurre alla conclusione di una
minore tutela del diritto di accesso del consigliere, il
quale, invero, gode delle più vaste garanzie connesse al
proprio status, così come stabilito dall'articolo 43 del
Tuel
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO - TRIBUTI:
Regolamento per la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio per
l'applicazione dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale nella
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
In caso di riconoscimento degli incentivi fiscali alle
associazioni, la riduzione fiscale sembra poter essere
sostituita da contributi monetari qualora questi siano
corrispondenti all'importo delle riduzioni spettanti agli
associati partecipanti all'intervento, per il tributo
specifico individuato, in relazione alla tipologia delle
attività svolte.
L'Amministratore locale chiede un parere in ordine alla
legittimità di una norma contenuta nel Regolamento comunale
concernente la partecipazione della comunità locale in
attività per la tutela e valorizzazione del territorio
(cosiddetto servizio di volontariato civico), per
l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014. Nello
specifico, il quesito posto riguarda la legittimità o meno
della previsione nel Regolamento di un contributo economico
alle Associazioni di volontariato in una misura percentuale
dei tributi comunali pagati dagli associati che partecipano
al servizio.
In via preliminare, si precisa che non compete a questo
Servizio la valutazione di legittimità dei contenuti degli
atti normativi emanati dai Comuni, in base alla loro
autonomia costituzionalmente riconosciuta. Il fine della
consulenza è di fornire un supporto giuridico agli enti
locali sulle questioni prospettate, affinché gli stessi
possano assumere le determinazioni più opportune nei casi
concreti, in relazione alle peculiarità che presentano.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale.
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
consente ai Comuni di deliberare riduzioni o esenzioni di
tributi inerenti al tipo di attività posta in essere,
prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute.
Al fine di chiarire le modalità applicative dell'art. 24, si
ritiene utile riportare quanto affermato dal Comitato per lo
sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare,
secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi
affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre
la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso
rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e
tributo interessato» [2].
Ciò comporta che, in caso di riconoscimento degli incentivi
fiscali alle associazioni (come nel caso di specie), la
riduzione fiscale sembra poter essere sostituita da
contributi monetari qualora questi siano corrispondenti
all'importo delle riduzioni spettanti agli associati
partecipanti all'intervento, per il tributo specifico
individuato, in relazione alla tipologia delle attività. In
tal modo, infatti, appare realizzata l'agevolazione fiscale
prevista dall'art. 24 in commento, come riduzione (o
esenzione) di tributi 'inerenti al tipo di attività posta
in essere'.
Si ritiene pertanto che il riconoscimento di contributi alle
Associazioni in misura percentuale dell'importo di un
determinato tributo versato complessivamente dai
partecipanti al progetto, richieda, ai sensi dell'art. 24,
D.L. n. 133/2014, una connessione tra detto tributo e la
tipologia di attività svolta dall'Associazione
[3].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Cfr. Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare, Comitato per lo sviluppo del verde
pubblico, Deliberazione n. 5 del 23.02.2015.
[3] Specificamente, in via esemplificativa, sembra potersi
ravvisare una connessione tra la TARI e gli interventi di
pulizia e manutenzione di aree ed edifici pubblici (01.10.2015
-
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INCARICHI PROGETTUALI:
Intervento sostitutivo della stazione appaltante a favore di
INARCASSA, ai sensi dell'art. 4, D.P.R. n. 207/2010.
La normativa vigente definisce il
documento unico di regolarità contributiva (DURC) quale
certificato che attesta la regolarità di un operatore
economico per quanto concerne gli adempimenti,
specificamente, INPS, INAIL, nonché cassa edile per i
lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di
riferimento (art. 6, D.P.R. n. 207/2010) e statuisce
l'intervento sostitutivo della stazione appaltante
espressamente nei confronti di detti istituti previdenziali
in caso di inadempienza contributiva dell'esecutore e del
subappaltatore accertata con il DURC (art. 4, comma 2,
D.P.R. n. 207/2010).
Per quanto concerne la possibilità per le stazioni
appaltanti di applicare l'intervento sostitutivo anche nei
confronti di INARCASSA, nell'ipotesi di irregolarità
contributiva accertata verso quest'ultima, l'AVCP ha
ritenuto che non si possa procedere ad un'applicazione
analogica dell'art. 4, D.P.R. n. 407/2010, argomentando
sulla base del tenore letterale dell'art. 6, D.P.R. n.
207/2010, che parla di accertamento della regolarità di un
operatore economico per quanto concerne 'gli adempimenti
INPS, INAIL, nonché Cassa edile per i lavori', e del fatto
che le norme in tema di DURC sono contenute nel titolo II
della parte I del D.P.R. n. 207/2010, contenente norme in
materia 'di tutela dei diritti dei lavoratori'.
L'Ente chiede un parere in merito alla possibilità di
liquidare gli importi dovuti ad un libero professionista,
per l'incarico di RUP svolto, a prescindere dalla
Certificazione di regolarità contributiva.
Un tanto anche alla luce dei pareri ANAC, secondo cui non
sarebbe possibile per la stazione appaltante attivare la
procedura sostitutiva, in caso di certificazione negativa di
regolarità contributiva, stante la natura privata della
Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli
Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti (INARCASSA).
Sentito il Servizio lavori pubblici della Direzione centrale
infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale,
lavori pubblici, edilizia, si esprime quanto segue.
La questione posta dall'Ente è stata già affrontata da
questo Servizio nel parere prot. n. 16037, del 07.05.2012
[1], le
cui conclusioni si ritiene di confermare, non essendo nel
frattempo sopravvenuti novelle normative, chiarimenti
interpretativi o pronunce giurisprudenziali di diverso
avviso.
In quella sede, nel richiamare la normativa in materia di
DURC, in particolare gli artt. 6 e 4 del D.P.R. n. 207/2010
[2],
nonché l'art. 90, comma 7, D.Lgs. n. 163/2006, in materia di
appalti di servizi attinenti all'ingegneria ed
all'architettura [3],
si è affermato che, in considerazione della specificità
della previsione di cui all'art. 4, comma 2, D.P.R. n.
207/2010, statuente l'intervento sostitutivo
dell'amministrazione aggiudicatrice espressamente nel caso
di irregolarità contributiva verso INP S, INAIL e cassa
edile per il lavori, ed in assenza, altresì, di indicazioni
da parte delle autorità competenti che in qualche modo
estendano l'ambito di detto intervento sostitutivo, non
sembra potersi sostenere una sua applicazione, per analogia,
all'ipotesi di irregolarità contributiva verso INARCASSA.
Alle medesime conclusioni è pervenuta l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture ( AVCP) [4],
argomentando dall'interpretazione letterale dell'art. 6,
D.P.R. n. 207/2010, il quale in modo esplicito parla della
funzione del DURC di accertamento della regolarità di un
operatore economico per quanto concerne 'gli adempimenti
INPS, INAIL, nonché cassa edile per i lavori, verificati
sulla base della rispettiva normativa di riferimento'.
Per l'AVCP non solo sono indicati espressamente due istituti
che erogano prestazioni contributive e assicurative, ma è
anche prevista una (ed una sola) eccezione, la cassa edile.
Inoltre, osserva l'AVCP, le norme in tema di DURC sono
dettate nel titolo II della parte I del D.P.R. n. 207/2010,
contenente nome in materia 'di tutela dei diritti dei
lavoratori' [5].
Le considerazioni esposte consentono di ritenere, venendo al
caso di specie, la possibilità per l'Ente di liquidare
quanto dovuto al professionista incaricato del ruolo di RUP,
con la precisazione, peraltro, che l'irregolarità
contributiva verso INARCASSA può avere delle conseguenze per
i pagamenti di importo superiore ad € 10.000 da effettuare
da parte delle pubbliche amministrazioni, qualora INARCASSA
si sia attivata per la riscossione dei contributi insoluti.
L'art. 48-bis, D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall'art. 2,
comma 9, D.L. n. 262/2006, convertito con modificazioni,
dalla L. n. 286/2006, stabilisce, infatti, che 'le
amministrazioni pubbliche e le società a prevalente
partecipazione pubblica, prima di effettuare a, qualunque
titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila
euro, verificano, anche in via telematica, se il
beneficiario è inadempiente all'obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento
per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e,
in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano
la circostanza all'agente della riscossione competente per
territorio, ai fini dell'esercizio dell'attività di
riscossione delle somme iscritte a ruolo'.
---------------
[1] Il parere è consultabile sul sito della Regione
Friuli Venezia Giulia, all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[2] L'art. 6 in parola definisce il documento unico di
regolarità contributiva , a tutela dei lavoratori, in
particolare il regime del Documento unico di regolarità
contributiva (DURC). Detta norma definisce, inoltre, ai
commi 3 e 4, le fasi in cui le amministrazioni
aggiudicatrici acquisiscono d'ufficio il documento unico di
regolarità contributiva in corso di validità.
L'art. 4, comma 2, in commento, prevede che nelle ipotesi in
cui il DURC acquisito riveli un'inadempienza contributiva
relativa a uno o più soggetti impiegati nell'esecuzione del
contratto, le amministrazioni aggiudicatrici trattengono dal
certificato di pagamento l'importo corrispondente
all'inadempienza e dispongono il pagamento di quanto dovuto
direttamente agli enti previdenziali e assicurativi.
[3] L'art. 90, comma 7, in commento, impone la verifica
della regolarità contributiva in relazione alla fase di
affidamento dell'incarico, senza recare ulteriori
disposizioni per l'intervento sostitutivo della stazione
appaltante in caso di inadempienza contributiva.
[4] Cfr. AVCP, ora ANAC, parere n. 26 del 06.10.2011. Sempre
nel senso della non sostenibilità di un'applicazione
analogica delle disposizioni in tema di intervento
sostitutivo della stazione appaltante anche per
l'irregolarità contributiva accertata verso INARCASSA, si è
espressa anche l'ANCI, parere del 28.01.2015.
[5] Per completezza di esposizione, si segnala che INARCASSA,
chiamata ad esprimersi sull'intervento sostitutivo in suo
favore da parte della stazione appaltante, nel rilevare che
detto istituto è previsto dalla legge in caso di
irregolarità contributiva accertata verso INPS, INAIL e
Casse Edili, si è dichiarata disponibile a ricevere le somme
a copertura dei crediti contributivi da essa vantati,
qualora la stazione appaltante ritenga di procedere in tal
senso, previo accordo del professionista interessato (v.
nota n. 96 del 12.03.2014) (23.09.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Dall’Anac stop ai bandi di gara che condizionano i pagamenti.
Controlli. Illegittimo subordinare i versamenti all’arrivo
di un finanziamento.
Gli appalti
che condizionano i pagamenti delle prestazioni
all’erogazione effettiva di un finanziamento sono
illegittimi, e violano praticamente tutte le fonti del
diritto, dalla Costituzione alle norme Ue, dalla legge
ordinaria alle regole di concorrenza.
A sottolinearlo è il presidente dell’Anac Raffaele Cantone,
che nel
comunicato
del Presidente 06.10.2015 (Oggetto: clausole
relative alle modalità di pagamento dei lavori pubblici
finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni) interviene sul tema per rispondere alle
sollecitazioni arrivate dalle imprese.
All’Authority è stato infatti segnalato che «diversi bandi
di gara relativi all’affidamento di lavori pubblici»
contengono la clausola che subordina il pagamento all’arrivo
di finanziamenti da terzi, che possono essere l’Europa
oppure per esempio le Regioni nel caso di gare bandite da un
Comune. In questo modo, l’impresa che vince esegue il
lavoro, ma per essere pagata deve sperare che alla Pa arrivi
in fretta il finanziamento.
Il meccanismo è contrario alle logiche di mercato, e
soprattutto illegittimo. Per sostenere questo secondo
aspetto, Cantone richiama prima di tutto la Costituzione,
che impone di assumere un provvedimento di spesa solo quando
la copertura finanziaria è certa (articolo 81) anche per
assicurare il «buon andamento» della Pa (articolo 97); di
qui l’articolo 191 del Testo unico degli enti locali, che
consente di impegnare spese quando la copertura è
“certificata”.
Sul punto, l’obiezione potrebbe essere legata per esempio al
fatto che il finanziamento è stato ottenuto, ma se ne
attende l’erogazione effettiva. L’osservazione, però, cade
di fronte a un’altra regola, cioè al Dlgs 231/2002,
modificato tre anni fa per adeguarsi alla disciplina Ue sui
tempi certi di pagamento. In questo quadro, non è possibile
per esempio invocare i vincoli del Patto di stabilità per
giustificare un pagamento che ritarda: il programma dei
pagamenti deve tener conto di tutti i fattori in gioco, e il
bando funziona solo se si può chiudere la partita in modo
puntuale.
In realtà, questa rimane un’utopia, come dimostrano le tante
norme che hanno provato a realizzarla senza successo, a
partire dal decreto anti-crisi del 2009 (articolo 9, comma 2,
del Dl 78/2009) che ha previsto tagli di stipendio al
funzionario che non accerta l’assenza di ostacoli ai
pagamenti prima di firmare impegni di spesa. La norma, che
sulla carta è durissima, è in vigore da più di sei anni, ma
non ha impedito la crescita dei debiti commerciali della Pa.
L’ultima tranche dello sblocca-debiti è stata attivata dal
decreto enti locali approvato prima dell’estate (Dl
78/2015), e vale due miliardi per le Regioni e 850 milioni
per i Comuni. Nel capitolo enti locali, l’Economia ha
pubblicato il decreto attuativo il tasso d’interesse, ma per
far partire davvero il meccanismo, però, bisogna aggiornare
l’Addendum che regola i rapporti con Cdp: ieri il presidente
dell’Anci Piero Fassino ha scritto al Governo chiedendo di
accelerare (articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori,
il Patto non è una scusa.
Anac: vietato subordinare i pagamenti.
Vietato subordinare i pagamenti dei lavori adducendo i
vincoli del patto di stabilità o il mancato finanziamento.
Il rispetto dei termini di pagamento è elemento essenziale
per garantire le condizioni di concorrenza sul mercato.
È quanto afferma l'Anac con il
comunicato
del Presidente 06.10.2015 (Oggetto: clausole
relative alle modalità di pagamento dei lavori pubblici
finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni)
concernente le modalità di pagamento dei lavori pubblici
finanziati in tutto o in parte da soggetti esterni.
La
questione sulla quale si esprime l'Autorità con il
comunicato siglato dal presidente Raffaele Cantone riguarda
alcuni bandi di gara di lavori pubblici, oggetto di
segnalazione, che subordinano i pagamenti dovuti all'impresa
all'ottenimento di finanziamenti da parte di soggetti terzi
(per esempio, finanziamenti derivanti da fondi europei)
ovvero a risorse non ancora a disposizione.
Il comunicato
delinea quanto la stazione appaltante può fare in questi
casi. In primo luogo l'Anac precisa che la stazione
appaltante «ha l'onere di verificare ex ante la
sostenibilità finanziaria degli interventi che intende
realizzare, anche in considerazione dei limiti posti dal
patto di stabilità, garantendone la permanenza anche in fase
di esecuzione».
È infatti l'articolo 64 del codice dei
contratti pubblici a rinviare all'allegato IX A dello stesso
codice che prevede l'indicazione delle modalità essenziali
di finanziamento e di pagamento e/o i riferimenti alle
disposizioni in materia da inserire nei bandi di gara.
Si deve trattare sempre di una disciplina dei pagamenti
conforme alla normativa vigente, sembrerebbe ovvio, ma
evidentemente non lo è, e a tale riguardo il comunicato cita
anche la determinazione n. 4 del 07.07.2010. In questa
determina si precisa innanzitutto che i termini di pagamento
non possono essere derogati soltanto con un «generico
richiamo alla necessità del rispetto del patto di stabilità
interno».
«In via del tutto eccezionale, il bando potrà indicare
quelle condizioni oggettive, specificamente individuate, che
impediscono alla stazione appaltante di rispettare le
condizioni di pagamento imposte dalle norme, purché le
stesse non siano imputabili alla violazione del dovere
generale che grava sulle p.a. di verificare la compatibilità
del programma dei pagamenti con i relativi stanziamenti di
bilancio e con le regole di finanza pubblica»
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2015). |
ENTI LOCALI: Partecipate, dal 20 ottobre le verifiche anticorruzione.
Anac. Da pubblicare i dati su incarichi dirigenziali e
consulenti.
Le
società partecipate dagli enti locali devono dare piena
attuazione alla normativa in materia di trasparenza e di
prevenzione della corruzione, rischiando in caso di
inadempimento pesanti sanzioni pecuniarie e limitazioni
operative.
Con il
comunicato
del Presidente 01.10.2015 (Oggetto: Attività
di vigilanza sulla pubblicazione dei dati dei componenti
degli organi di indirizzo e dei soggetti titolari di
incarichi dirigenziali e di consulenza da parte delle
società e degli enti di diritto privato controllati e
partecipati da pubbliche amministrazioni), l'ANAC ha richiamato le società e gli altri
enti di diritto privato controllati dalle amministrazioni
pubbliche ad adempiere all’obbligo di pubblicazione dei dati
relativi agli incarichi dirigenziali e di consulenza, a
rischio, in caso di inadempienza, di non poter trasferire
agli organismi alcuna somma, compresi i corrispettivi
previsti dai contratti di servizio.
La mancata pubblicazione dei dati degli incarichi di
consulenza è peraltro autonomamente sanzionata nello stesso
articolo 15 del Dlgs 33/2013, poiché impedisce
l’acquisizione dell’efficacia dell’atto di affidamento e la
liquidazione dei relativi compensi al consulente.
Il comunicato firmato da Raffaele Cantone precisa che
l’Autorità svolgerà dal 20 ottobre una specifica attività di
verifica, con applicazione, in caso di rilevazione di
violazioni, delle pesanti sanzioni pecuniarie previste dal
decreto trasparenza.
Il richiamo dell’Anac è l’ultimo di una serie di atti
rivolti agli enti di diritto privato in controllo pubblico,
per i quali la determinazione n. 8 del 17.06.2015 ha
definito in modo puntuale le condizioni di applicazione
delle norme in materia di trasparenza e del sistema
anticorruzione, eliminando i dubbi residui dopo la
riformulazione dell’articolo 11 del Dlgs 33/2013, divenuta
norma di riferimento ineludibile.
L’effettività degli obblighi è stata rimarcata con il
comunicato del presidente del 13.07.2015, nel quale è
stato ribadito che tutti i soggetti tenuti (quindi le
società e gli altri organismi partecipati in situazione di
controllo da parte delle amministrazioni) devono adottare il
Piano anticorruzione, rischiando, in caso contrario, come
minimo l’applicazione di una pesante sanzione pecuniaria
(sino a 10mila euro).
Il quadro che ne deriva comporta da un lato la vigilanza
degli enti soci o comunque controllanti gli enti di diritto
privato, dall’altro la necessaria compliance per la verifica
del rispetto degli obblighi: in caso di non conformità, le
società e gli altri organismi partecipati devono
immediatamente adottare le misure volte a soddisfare
l’adempimento.
In questa prospettiva le società, in particolare, devono
correlare il piano anticorruzione al modello
organizzativo-gestionale previsto dal Dlgs 231/2001; quindi
risulta necessaria la revisione della mappatura dei processi
e delle condizioni di rischio, accanto al potenziamento
delle attività di audit.
La compliance dovrebbe consentire la rilevazione di
criticità rilevanti, sulle quali intervenire
tempestivamente: rientrano in questo novero problematico la
limitata applicazione del Dlgs 163/2006 alle procedure di
selezione dei contraenti, la mancanza di regole per il
reclutamento del personale o la mancanza di criteri per
l’affidamento di incarichi e consulenze.
L’applicazione integrale della normativa in materia di
trasparenza e di prevenzione della corruzione vale anche per
molte tipologie di enti con forte connotazione pubblicistica
(come le aziende speciali), e sono compresi tra questi anche
gli ordini professionali, secondo quanto ha sancito il Tar
Lazio–Roma, sezione III, con la sentenza n. 11391 del 24.09.2015.
Nella pronuncia viene sviluppata una disamina dettagliata
degli adempimenti, a partire dalla nomina del responsabile
per la prevenzione della corruzione, che deve essere
effettuata anche negli ordini con struttura organizzativa
più limitata, anche se privi di dirigenti.
In questi casi, il Tar evidenzia come all’eventuale assenza
di professionalità in gradi di redigere il piano
anticorruzione si possa far fronte con accordi con altre
amministrazioni (in base all’articolo 15 della legge
241/1990)
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it. |
APPALTI: Centrali di committenza senza deroga ai «piccoli». Nessuna
deroga per la costituzione delle centrali di committenza da
parte dei comuni non capoluogo, salvo quelle previste dalla
legge, ma il modello non si applica agli appalti di servizi
socio assistenziali e alle concessioni.
Comuni. I chiarimenti Anac sui modelli aggregativi.
Questi gli ulteriori
chiarimenti, sull’applicazione del comma 3-bis dell’articolo
33 del Codice dei contratti, forniti dall’Autorità nazionale
anticorruzione con la
determinazione
23.09.2015 n. 11 (Ulteriori indirizzi
interpretativi sugli adempimenti ex art. 33, comma 3-bis,
decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 e ss.mm.ii.), specificando
anzitutto una serie di elementi su modelli aggregativi
individuati dalla norma.
Il riferimento all’Unione di comuni «ove esistenti» non può
intendersi come volto a stabilire un primato di tale
organismo rispetto alle altre modalità di aggregazione, però
le amministrazioni interessate devono evitare un dispendioso
utilizzo di «moduli aggregativi di scopo» ma al tempo stesso
devono favorire la specializzazione del buyer pubblico, con
conseguente efficientamento del sistema.
Il ricorso ai soggetti aggregatori specificato nella
disposizione impone che i comuni non capoluogo si debbano
avvalere di quelli compresi nell’elenco formato dall’Anac in
base all’articolo 9 della legge 89/2014, non potendo fare
ricorso ad altre centrali di committenza.
Tuttavia le amministrazioni o le Unioni di comuni possono
costituire, esclusivamente ai fini dell’articolo 33, comma
3-bis, anche società interamente pubbliche quali soggetti
operativi di associazioni di comuni o di accordi consortili
tra i medesimi in rapporto di stretta strumentalità, con il
solo compito di svolgere le funzioni di relativo ufficio
competente per l’espletamento delle procedure di affidamento
dei contratti pubblici.
L’Anac, facendo riferimento alla logica di razionalizzazione
che è alla base della disposizione del codice, chiarisce che
anche i comuni capoluogo di provincia possono procedere ad
acquisti tramite i moduli organizzativi e operativi
individuati dal comma 3-bis, esercitando la facoltà di
unirsi agli altri enti.
In relazione alle eccezioni applicative dell’obbligo
aggregativo, la determinazione 11/2015 precisa che il
ricorso agli strumenti elettronici gestiti da Consip (Mepa)
o dai soggetti aggregatori regionali (piattaforme
telematiche, altri mepa), non definisce una disciplina
speciale per tali modalità di acquisto (semmai
rappresentando la norma una sollecitazione ad un utilizzo
più frequente), che sono comunque obbligatorie per gli
acquisti di beni e servizi di valore inferiore alla soglia
comunitaria (in base all’articolo 1, comma 450, della legge
296/2006).
Inoltre, le disposizioni dell’articolo 125 del
Codice, relativo agli acquisti in economia, non possono
ritenersi norme speciali che continuano ad applicarsi ai
comuni non capoluogo di provincia: solo i comuni con
popolazione superiore a 10mila abitanti possono procedere ad
acquisti autonomi, secondo le regole dettate per la soglia
inferiore all’importo di 40mila euro.
Intanto il presidente dell’Anac annuncia che partirà una
verifica a tutto campo sul rispetto degli obblighi di
trasparenza (redditi e patrimoni) degli amministratori nelle
partecipate
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:
Concessioni, regole per le amministrazioni.
Determinazione dell'autorità anticorruzione del 02.10.2015.
Studi di fattibilità da sottoporre a débat public,
applicazione immediata delle regole Ue sul calcolo
dell'importo della concessione, attenta valutazione dei
benefici attesi da un project finance, necessità del
trasferimento al concessionario del rischio di domanda.
Sono questi alcuni dei punti della corposa
determinazione
23.09.2015 n. 10 (Linee guida per
l'affidamento delle concessioni di lavori pubblici e di
servizi ai sensi dell’articolo 153 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163)
emessa il 2 ottobre dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) sulle linee guida per
l'affidamento delle concessioni di lavori pubblici e di
servizi.
Detta alle amministrazioni tutte le indicazioni
necessarie per avviare e portare a compimento operazioni di
finanza di partenariato pubblico-privato che prevedono
l'affidamento di concessioni.
La determina, che costituisce un tipico esempio di quella
soft law che il ddl delega sugli appalti pubblici prevede in
capo all'Anac, di intesa con il ministero delle
infrastrutture, contiene molti richiami alla nuova direttiva
sulle concessioni (la 23/2014) che dovrà essere recepita nei
prossimi mesi, primo fra tutti quello riferito al calcolo
dell'importo della concessione, che l'Autorità ha rilevato
essere spesso lo strumento per eludere l'obbligo di gara
europea.
Per l'Anac le disposizioni Ue della nuova direttiva (che
richiamano sette elementi per il calcolo dell'importo)
devono essere attuate immediatamente, anche in assenza del
recepimento, sottintendendo il carattere self executing di
questa parte e soprattutto la necessità di garantire piena
trasparenza e concorrenza. «Si tratta di una norma che
esplica principi di concorrenza, ai quali l'Autorità si è
sempre ispirata nei propri provvedimenti».
In particolare, la determina specifica come «nel calcolo di
tale valore debbano essere ricompresi tutti i proventi di
qualsiasi natura a favore del concessionario». Il
riferimento è anche a elementi diversi alla riscossione
delle tariffe, come, per esempio, altre utilità derivante
dalla cessione di diritti o beni.
Dal punto di vista procedurale, ai fini della gestione del
consenso con le popolazioni locali, le linee guida vanno
oltre, superando il modello della conferenza preliminare per
accertare criticità progettuali e suggeriscono alle stazioni
appaltanti di applicare il cosiddetto débat public:
«considerato che attualmente non esiste alcuna norma
ostativa allo svolgimento di una consultazione preventiva in
un momento che precede la definizione dello studio di
fattibilità e, quindi, la predisposizione dei documenti di
programmazione, il dialogo competitivo è già utilizzabile
per l'affidamento della concessione di lavori».
A monte però l'amministrazione deve valutare attentamente se
risulti «conveniente effettuare un determinato progetto
mediante uno schema di partenariato pubblico-privato (Ppp) e
non tramite un tradizionale schema di appalto solo quando il
rendimento atteso per l'intera società è positivo».
Si richiama inoltre la necessità che nella concessione
avvenga una reale traslazione del rischio di domanda sul
concessionario perché, «in assenza di un effettivo
trasferimento del rischio in capo al concessionario, le
procedure di aggiudicazione dovranno essere quelle tipiche
dell'appalto e i relativi costi dovranno essere
integralmente contabilizzati nei bilanci della stazione
appaltante» rientrando quindi nei vincoli del patto di
stabilità (articolo ItaliaOggi del 09.10.2015). |
APPALTI:
Offerte,
no a commistioni coi requisiti dei concorrenti.
Parere Anac su precontenzioso relativo a un appalto di
servizi.
Nella valutazione delle offerte di un appalto è illegittimo
valutare requisiti soggettivi del concorrente. È possibile
derogare a tale principio soltanto se l'esperienza pregressa
rileva in relazione all'oggetto del contratto.
L'ha stabilito l'Autorità nazionale anticorruzione con il
parere di precontenzioso 09.09.2015 n. 148 - rif. PREC
54/15/S
riguardante un appalto di servizi, rispetto al quale si è
pronunciato sulla possibilità di considerare in sede di
valutazione delle offerte determinati requisiti del
concorrente.
In particolare, il bando di gara prevedeva, alla voce
«offerta progettuale», l'attribuzione di punteggio per «le
caratteristiche dell'affidatario: descrizione dell'azienda,
organizzazione, organico, sede operativa nel territorio».
Il parere riconosce che la clausola era tale da determinare
una commistione tra criteri di valutazione dell'offerta e
requisiti soggettivi in quanto gli elementi di valutazione
dell'offerta riguardavano caratteristiche organizzative e
soggettive del concorrente, ad esempio l'esperienza
pregressa maturata dal medesimo o il suo livello di capacità
tecnica e specializzazione professionale, le quali, in linea
di principio, possono legittimamente rilevare solo in sede
di ammissione alla gara.
In realtà l'Anac chiarisce anche che, rispetto a questo
principio generale (divieto di commistione fra requisiti
soggettivi e elementi di valutazione dell'offerta), vi sono
casi in cui l'inserimento nella valutazione dell'offerta di
criteri che normalmente rientrano nella selezione
dell'offerente è stato ritenuto legittimo, ad esempio per
appalti di servizi di ingegneria e architettura in cui si
valuta qualitativamente l'esperienza pregressa su tre
progetti analoghi, se rispondente a due vincoli: devono
essere connessi all'oggetto della prestazione e non devono
risultare decisivi o preponderanti nella valutazione
dell'offerta.
In sostanza, ha detto l'Autorità nel parere, fermo restando
il divieto di commistione tra requisiti soggettivi ed
elementi oggettivi, occorre sempre effettuare una
valutazione specifica del caso concreto, con l'effetto che
determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in
quanto afferenti all'oggetto del contratto, possono essere
valutate per la selezione dell'offerta. In tale senso si era
espressa l'Anac nei pareri 21.05.2014, n. 106, e 20.11.2013, n. 192 e la determina 4/2015 lo ha confermato
con riguardo anche alla direttiva 2014/24 che ammette
elementi di valutazione qualitativa dell'offerta fondati
sull'esperienza pregressa.
A parte questi casi, la regola è che «l'offerta tecnica non
si sostanzia in un progetto o in un prodotto, ma nella
descrizione di un facere che può essere valutato unicamente
sulla base di criteri quali-quantitativi». Le
prescrizioni del caso di specie, invece, per il parere «indubbiamente
attengono a requisiti soggettivi dell'offerente piuttosto
che a caratteristiche dell'offerta e non sono direttamente
afferenti all'oggetto del contratto (organico, sede nel
territorio, organizzazione dell'azienda)» e hanno anche
il risultato di restringere la concorrenza (sede nel
territorio del comune). E quindi non possono essere ritenuti
legittimi
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Cablaggio
con meno formalità. Ma le disposizioni per il «lancio»
definitivo non sono ancora al traguardo.
Banda larga. Per costruzioni nuove e ristrutturazioni dal 1°
luglio la tecnologia è comunque obbligatoria.
La possibilità
di avvalersi di tecnologie sempre più avanzate ha portato il
legislatore a occuparsi anche della trasmissione dati
attraverso la fibra ottica che consente di connettersi,
scaricando immagini e video wireless, a una velocità che
fino a pochi anni fa era impensabile.
L’installazione della fibra ottica all’interno delle parti
comuni condominiali è sempre stata oggetto non solo di
contestazione, ma di vera opposizione da parte dei condòmini,
che sentivano minata la parte estetica del loro edificio,
così come il pari uso delle parti comuni, nel timore di
vedersi anche mutata o modificata la loro originaria
destinazione.
Le semplificazioni
Per tutti questi motivi l’Italia risulta essere uno dei
Paesi meno cablati. Il legislatore, quindi, al fine di
ridurre questo divario digitale ha posto in essere una serie
di interventi normativi atti a semplificare e alleggerire le
autorizzazioni e gli adempimenti al fine di favorire
all’interno degli edifici la diffusione della banda
ultralarga.
In particolare l’intervento più incisivo è stato apportato
dalla legge 164/2014 di conversione del Dl 133/2014, il
cosiddetto Decreto Sblocca Italia, che ha introdotto il
nuovo articolo 135-bis del Testo unico edilizia (Dpr
380/2001), che stabilisce che tutte le nuove costruzioni,
per le quali le domande di autorizzazione edilizia siano
presentate dopo il 01.07.2015, dovranno essere equipaggiate
con una infrastruttura fisica multiservizio passiva, interna
all’edificio, costruita da adeguati spazi installativi e da
impianti di comunicazione ad alta velocità in fibra ottica
fino ai punti terminali di rete.
Lo stesso obbligo viene applicato nel caso di opere che
richiedono il permesso di costruire (articolo 10, comma 1,
lettera c, del Dpr 380/2001), cioè gli interventi in un
edificio che comportano una ristrutturazione profonda atta a
modificare la volumetria complessiva dell’edificio o dei
prospetti ovvero, per gli immobili compresi nelle zone
omogenee A, che comportano un mutamento della destinazione
d’uso o delle modificazioni della sagoma degli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del Dl 42/2004 e successive
modificazioni.
Nuove costruzioni
Sempre dal 01.07.2015, le nuove costruzioni e quelle
sottoposte a interventi di ristrutturazione edilizia che
richiedono il permesso a costruire dovranno essere
equipaggiate di un punto di accesso, ovvero di un punto
fisico situato all’interno o all’esterno dell’edificio e
accessibile alle imprese autorizzate a fornire reti
pubbliche di comunicazione, che consente la connessione con
l’infrastruttura interna all’edificio predisposta per i
servizi di accesso in fibra ottica e banda ultralarga.
Questi edifici potranno esporre la targa “predisposto
alla banda larga”, come segno distintivo anche per chi
affitta e vende gli appartamenti siti in quell’edificio.
Per la progettazione e il rilascio dell’etichetta è
necessario un tecnico abilitato (punto 3 dell’articolo
135-bis). In Italia le figure professionali idonee a questo
tipo di attività sono gli ingegneri del settore
dell’informazione.
Il nuovo decreto
La legge di riforma del condominio, nell’articolo 1120 del
Codice civile, comma 3, prevede che l’assemblea disponga
questo tipo di innovazione con la maggioranza di cui al
secondo comma dell’articolo 1136 (maggioranza degli
intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio)
oppure con la maggioranza del terzo comma del medesimo
articolo (almeno un terzo del valore e un terzo dei
partecipanti) se questi impianti non comportano modifiche in
grado di alterare la destinazione della cosa comune e non ne
impediscono il pari uso.
In tutto questo, anche e soprattutto al fine di contemperare
questi contrasti, è ancora in corso la discussione sul Piano
nazionale strategico per la banda larga, contenuto nel
decreto Telecomunicazioni che il governo avrebbe dovuto
approvare successivamente al decreto Sblocca Italia e che
invece è stato, per ora, rinviato .
In particolare, il decreto stabilisce (almeno così si può
leggere nella bozza) che gli operatori che intendono posare
le proprie reti in fibra ottica in adiacenza di aree di
proprietà privata e condominiale possono farlo comunicandolo
con raccomandata al proprietario o all’amministratore di
condominio. Se entro 30 giorni questi ultimi non esprimono
il loro dissenso, l’operatore procederà con i lavori.
Questi lavori, infatti, nella bozza di decreto non sono più
considerati una innovazione ai sensi dell’articolo 1120 del
Codice civile e, quindi, non sono soggetti al vaglio
assembleare (articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Termini
e tutela dei terzi: le insidie della nuova Scia. Pesa
l’incertezza nel computo dei 18 mesi per l’autotutela.
Abilitazioni. I vicini che vogliono contestare l’intervento
devono prima diffidare il Comune.
L’ultimo ritocco
all’istituto della segnalazione certificata di inizio
attività (Scia) risale a questa estate. Con la legge
124/2015 (la riforma della Pa), il legislatore ha modificato
i poteri di intervento attribuiti all’amministrazione in
caso di Scia.
Ma nonostante le numerose modifiche introdotte da quando nel
2010 con la legge 122 è stato varato il nuovo modello
autorizzatorio, la Scia continua a presentare alcune
criticità. Vediamole con ordine partendo dall’ultima
riforma.
I termini per l’autotutela.
In via ordinaria, il Comune -se accerta la carenza dei
requisiti previsti per la Scia- può adottare provvedimenti
inibitori entro 30 giorni dal ricevimento della segnalazione
(in materia edilizia).
Tuttavia, se sussistono le condizioni per l’esercizio del
potere di annullamento in autotutela, cioè se
l’amministrazione comunale verifica a posteriori che
l’attività edilizia segnalata è illegittima, i provvedimenti
inibitori possono essere adottati anche una volta decorso
questo termine di 30 giorni.
La modifica, però, lascia spazio a qualche difficoltà
interpretativa. La riforma infatti ha modificato anche
l’articolo 20-nonies della legge 241/1990, precisando in
generale che l’annullamento in autotutela può essere
esercitato entro 18 mesi dal momento dell’adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici.
Come si declina questa norma in relazione alla Scia?
Trattandosi di una segnalazione del privato, non si ha
l’adozione di un provvedimento e, nondimeno,
l’individuazione del momento in cui la Scia porta
all’attribuzione di vantaggi economici appare coincidere col
momento in cui la particolare procedura edilizia in esame
abilita l’avvio dei lavori.
Di conseguenza, si può ritenere che il termine di 18 mesi
decorra dal giorno stesso in cui la Scia è depositata,
perché è in quel momento che l’interessato matura il
vantaggio economico di poter avviare legittimamente i
lavori.
Le ragioni dei terzi.
La Scia presenta peraltro qualche ulteriore criticità. La
segnalazione non costituisce un provvedimento tacito
direttamente impugnabile.
I terzi interessati che intendano contestare la legittimità
di opere edilizie oggetto di Scia, pertanto:
- in primis, devono sollecitare l’amministrazione a
effettuare le verifiche di competenza;
- solo in caso di inerzia, possono esperire azione contro il
silenzio.
Questo percorso impone quindi un onere di preventiva diffida
all’amministrazione che può limitare la tempestività della
tutela, ciò anche tenuto conto che le lavorazioni oggetto di
Scia possono essere avviate dal giorno della relativa
presentazione, mentre al Comune va concesso un congruo
termine per rispondere (quello generale fissato dalla legge
241/1990 corrisponde a 30 giorni).
L’avvio dei lavori.
Un ulteriore, delicato, profilo dell’istituto è proprio
quello inerente all’opportunità di avviare immediatamente le
lavorazioni. Come detto, la legge consente
all’amministrazione di inibire le lavorazioni oggetto di
Scia, in via ordinaria, entro 30 giorni dalla presentazione
della segnalazione.
Idealmente, al momento della presentazione, la parte
dovrebbe aver verificato la piena correttezza e legittimità
della pratica e dovrebbe quindi poter procedere serenamente
all’avvio della lavorazioni dalla data di presentazione
della segnalazione.
La complessità tecnica e la disomogeneità della materia,
tuttavia, spesso non permettono una simile “spensieratezza”
dell’interessato, con l’effetto che a volte si preferisce
attendere il decorso del termine ordinario di 30 giorni,
piuttosto che esporsi al rischio di dover sospendere lavori
già in corso, con ogni conseguenza riguardo ai contratti con
gli appaltatori, agli investimenti e alla necessità di
modificare il progetto. ---------------
Per i tecnici decisiva la
pre-istruttoria. Le sanzioni. I rischi connessi alle prassi
locali.
Con la segnalazione
certificata di inizio attività (Scia), il ruolo dei tecnici
abilitati è divenuto ancor più rilevante rispetto al
passato. Agli onori si accompagnano, però, gli oneri e le
responsabilità. Infatti, l’articolo 19 della legge 241/1990
nell’attuale formulazione, prevede che ogni autorizzazione
il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di
requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale è sostituito da una
segnalazione dell’interessato (la Scia, appunto).
La segnalazione deve essere corredata dalle dichiarazioni
sostitutive di certificazioni e dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati eventualmente occorrenti,
corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire
le verifiche di competenza dell’amministrazione.
In materia edilizia, il tecnico ha quindi il compito di
asseverare la conformità delle opere progettate alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente.
L’articolo 19 della legge 241/1990, al comma 6, prevede ora
una specifica responsabilità in merito a queste
attestazioni, chiarendo che, ove il fatto non costituisca
più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o
attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione
di inizio attività, dichiara o attesta falsamente
l’esistenza dei requisiti o dei presupposti previsti ai fini
della presentazione della segnalazione è punito con la
reclusione da uno a tre anni.
Ora, concettualmente, la sanzione introdotta dalla norma non
dovrebbe spaventare, in quanto un tecnico abilitato dovrebbe
poter agevolmente verificare la piena conformità degli
interventi in progetto a tutte le previsioni di legge e di
regolamento applicabili.
Nella realtà, tuttavia, la complessità della normativa
tecnica, la notevole disomogeneità e frammentarietà della
stessa tra le varie Regioni e, ancor più, tra i diversi
Comuni e le differenti possibili interpretazioni applicabili
alla medesima norma complicano, non poco, questo quadro
concettuale.
Nella pratica, ai fini della presentazione di una Scia
edilizia può rendersi necessaria una pre-istruttoria tecnica
in contraddittorio con i responsabili dei competenti uffici
comunali (non disciplinata, né tantomeno richiesta dalla
legge) e, nondimeno, la presentazione di una Scia può
comunque lasciare un margine di incertezza circa la
possibilità che il Comune intervenga con un provvedimento
inibitorio, con ogni conseguenza riguardo alle possibili
responsabilità dei tecnici.
Questi profili di criticità che ancora oggi
contraddistinguono la materia edilizia rischiano di svilire
la stessa ratio dell’istituto della Scia, che difatti
è stata introdotta per snellire e semplificare le procedure
richieste ai fini dell’esecuzione di determinate opere
edilizie.
In quest’ottica, appare quanto mai opportuna l’adozione
dello schema di regolamento edilizio-tipo, unico per
l’intero territorio nazionale, già previsto, proprio al fine
di uniformare la materia, dal decreto Sblocca Italia (Dl
133/2014). L’auspicio è dunque che la conferenza unificata,
alla quale è affidato il compito di redigere lo schema del
regolamento unico, assuma un testo chiaro e che tratti tutti
i principali aspetti della materia (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici, piano al via con il calendario della spesa.
I contenuti confluiscono nel «documento unico».
Scadenze. Niente armonizzazione per le regole sul programma
da adottare entro giovedì.
Entro il 15
ottobre la Giunta deve “adottare” lo schema di programma
triennale e l'elenco annuale dei lavori pubblici (articolo
13, comma 3, del Dpr 207/2010) -redatti dagli uffici entro
il 30 settembre– per la nuova programmazione.
Non è
arrivata in tempo l'attesa semplificazione, quindi gli enti
sono ancora tenuti a rispettare le regole scritte senza
tener conto dell'armonizzazione contabile. Con il nuovo
principio di programmazione da quest'anno (per gli
sperimentatori anche prima) entra in vigore l'obbligo di
inserire nel Dup (parte 2 della sezione operativa) –anche
nella versione semplificata- la programmazione in materia
di lavori pubblici, oltre che di personale e patrimonio.
Gli
enti dovranno quindi far confluire il programma triennale
dei lavori pubblici adottato dall'organo esecutivo, nel Dup
2016-2018 che la Giunta deve approvare entro il 31 ottobre
per la successiva deliberazione in Consiglio. I contenuti
del programma dei lavori pubblici entrano subito a far parte
delle previsioni di bilancio 2016-2018, il cui schema deve
poi essere approvato in Giunta entro il 15 novembre.
Lo schema di programma triennale e i suoi aggiornamenti
annuali sono redatti, in collaborazione fra i responsabili
degli interventi e il responsabile del servizio
finanziario, seguendo i modelli approvati con Dm
Infrastrutture 24.10.2014, che da quest'anno ha
sostituito il Dm 11.11.2011. Il programma e gli
aggiornamenti devono essere resi pubblici, prima della loro
approvazione, con affissione nella sede delle
amministrazioni per almeno 60 giorni consecutivi (articolo
128, comma 2, del Dlgs 163/2006). L'elenco annuale deve
essere approvato (in via definitiva) con il bilancio di
previsione, e deve contenere l'indicazione dei mezzi
finanziari stanziati o disponibili (articolo 128, comma 9,
del Dlgs 163/2006).
La coerenza nella programmazione impone la verifica della
corrispondenza fra le previsioni di bilancio e quelle di
realizzazione delle opere pubbliche, da verificare già nel
Dup.
Pur non essendo ancora aggiornata con le regole
dell'armonizzazione contabile, la programmazione dei lavori
pubblici dovrebbe comunque produrre per ogni intervento
programmato il cronoprogramma, per individuare l'esigibilità
della spesa per ogni esercizio. Per le opere per le quali
non è possibile predisporre il cronoprogramma, andrebbe
fornita adeguata motivazione. Il principio della competenza
finanziaria potenziata richiede infatti che le spese di
investimento siano impegnate negli esercizi in cui scadono
le singole obbligazioni passive sulla base del
cronoprogramma.
La parte 2 della sezione operativa accoglie anche la
programmazione del fabbisogno del personale, per la cui
adozione la competenza finora è stata della Giunta
(Consiglio di Stato, sentenza 1208/2010). Nel Dup dovranno
essere inseriti, infine, tutti quegli ulteriori strumenti di
programmazione, come il piano delle alienazioni, i piani
triennali di razionalizzazione della spesa (articolo 16,
comma 4, del Dl 98/2011) e l'eventuale programma degli
incarichi.
Superato il primo appuntamento con il Dup 2016-18, resta
però urgente un intervento di «armonizzazione» delle
norme di settore sulla programmazione dei lavori pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti,
classificazione assistita. Chiarimenti su nuove voci di
pericolo e codici Cer.
Le istruzioni del Minambiente per raccordare le
norme nazionali alla disciplina Ue.
Novità sostanziali per la codificazione «Cer» dei rifiuti,
disallineamenti linguistici nella traduzione in lingua
italiana dei provvedimenti comunitari di riferimento,
rapporti tra le stesse norme Ue e quelle nazionali.
Questi i punti nodali della nuova disciplina europea su
classificazione dei rifiuti e attribuzione agli stessi delle
caratteristiche di pericolo, in vigore dallo scorso 1°
giugno, oggetto dei primi chiarimenti del Minambiente con
nota 28.09.2015 n. 11845
di prot..
Le istruzioni Minambiente.
Il dicastero sottolinea la piena e integrale applicazione
sul piano nazionale a partire dal 1° giugno delle norme
contenute nella decisione 2014/995/Ue (che contiene il nuovo
Elenco europeo dei rifiuti) e nel regolamento Ue n.
1357/2014 (che ha introdotto le nuove indicazioni per
l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di
pericolo).
Annunciando la revisione della normativa
nazionale al fine di allinearla alle nuove norme Ue, il Minambiente effettua una ricognizione delle regole nazionali
che, essendo invece compatibili con i citati provvedimenti
Ue, mantengono la loro applicabilità fornendo al contempo
chiarimenti su alcuni punti critici della neonata disciplina
comunitaria.
Sulla nuova classificazione dei rifiuti.
L'attuale allegato D alla Parte IV del dlgs 152/2006 reca
l'Elenco dei rifiuti tradotto dalla previgente decisione
2000/532/Ce, senza dunque dare atto della riformulazione
dello stesso effettuata dalla nuova decisione 2014/995/Ue.
Il Minambiente ritiene che conservino tuttavia efficacia i
punti 6 e 7 del paragrafo «Introduzione» del suddetto
allegato D al Codice ambientale, poiché costituenti
attuazione di norme comunitarie recate dai paragrafi 2 e 3,
articolo 7, della direttiva 2008/98/Ce ancora vigenti nel
quadro normativo comunitario, non modificate dalle ultime
disposizioni europee e dunque con esse compatibili. Tali
punti sanciscono la possibilità per gli Stati membri di
proporre all'Ue modifiche sulla classificazione di alcuni
rifiuti, chiedendone in via motivata la transizione dal
novero dei non pericolosi a pericolosi e viceversa.
Definizioni e istruzioni da utilizzare nell'ambito della
classificazione dei rifiuti sono invece ora quelle previste
dalla nuova decisione 2014/995/Ue (che prevalgono, dunque,
integralmente sulle disposizioni del citato allegato D al dlgs 152/2006), in relazione alle quali Minambiente
chiarisce la portata lessicale di due disposizioni. Ossia:
quella relativa ai residui di leghe, precisando come essi
siano da classificarsi in via assoluta come rifiuti
pericolosi solo nelle loro declinazioni specificamente
indicate nell'Elenco con l'asterisco «*»; quella relativa ai
rifiuti che contengono quantitativi di una determinata
sostanza inferiore al valore soglia per essa indicata,
sottolineando come in tal caso essa sostanza non debba
essere presa in considerazione per il calcolo del valore
limite di concentrazione.
Parte della dottrina ritiene che
conservino tuttavia efficacia anche i punti 1 e 7 introdotti
nell'apertura del suddetto allegato D dal dl 91/2014 (come
convertito in legge 116/2014), rilevandone la non
incompatibilità con norme recate dalla neo decisione
2014/995/Ue. Tali punti dispongono che la classificazione
dei rifiuti debba essere effettuata dal produttore degli
stessi assegnandogli il competente Codice Cer e, in ogni
caso, prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di
produzione.
Con la nota il dicastero si pronuncia sulla
nuova elencazione dei codici identificativi («Cer»)
contenuti nel nuovo «Elenco dei rifiuti», confermando la
portata limitata delle novità in relazione al vecchio Elenco
(recato dalla versione della decisione 2000/532/Ce
precedente alle modifiche ex decisione 2014/995/Ue, ancora
presente nell'allegato D al dlgs 152/2006 divenuto per tal
motivo obsoleto).
Le novità sostanziali coincidono con:
l'introduzione di due nuovi codici («010310», identificativo
dei «fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina
contenenti sostanze pericolose, diversi da quelli di cui
alla voce 010307» e «190308», relativo al «mercurio
parzialmente stabilizzato»); la modifica della descrizione
del codice «010309» (che in base alla nuova decisione Ue è
relativo ai «fanghi rossi derivanti dalla produzione di
allumina, diversi da quelli di cui alla voce 010310»).
Eventuali altri disallineamenti tra altri vecchi e nuovi
codici, sottolinea il dicastero, sono invece da imputarsi
alla traduzione in lingua italiana del testo originario
della decisione 2014/995/Ue ma nella sostanza non
comportanti una modifica.
Sulle caratteristiche di pericolo dei
rifiuti. L'attuale
allegato I alla Parte IV del dlgs 152/2006 indica i criteri
per l'attribuzione ai rifiuti delle caratteristiche di
pericolo tradotti dalla versione della direttiva 2008/98/Ce
precedente alle modifiche introdotte dal regolamento Ue n.
1357/2014.
Con la nota il Minambiente precisa come detto
allegato I al dlgs 152/2006 debba ritenersi dal 01.06.2015
interamente disapplicato (a favore, dunque, delle citate
nuove norme Ue). Le novità introdotte dal regolamento Ue del
2014, lo ricordiamo, coincidono con una riformulazione delle
classi generali di pericolo (mediante la sostituzione delle
precedenti caratteristiche da «H 1» ad «H 15» con quelle da
«HP 1» ad «HP 15»), il rimodellamento di alcune categorie e
valori limite, la rivisitazione degli specifici criteri per
l'attribuzione delle caratteristiche di rischio.
Le
precisazioni del dicastero vertono sulle nuove
caratteristiche di pericolo «HP», e in particolare: in
relazione alla «HP 6» (tossicità acuta), laddove per il Minambiente il richiamo ai valori limite da prendere in
considerazione debba in realtà intendersi più propriamente
effettuato ai «valori soglia»; in relazione alla «HP 9»
(infettivo), laddove la nota precisa come la normativa
nazionale sottesa da prendere a riferimento sia costituita
dal Dpr 254/2003 (che elenca i rifiuti sanitari pericolosi).
In relazione alla nuova voce «HP 14» (eco tossico) la nota Minambiente 28.09.2015 (intervenendo a correzione di
un proprio analogo atto del precedente 25 settembre) prende
invece atto delle novità introdotte dalla legge 125/2015 in
sede di conversione dl 78/2015, novità in base alle quali
(lo ricordiamo) detta caratteristica di pericolo deve essere
attribuita, in attesa dell'adozione da parte dell'Ue di
specifici criteri, secondo le modalità sancite dalla
disciplina «Adr» (Accordo europeo sul trasporto
internazionale delle merci su strada) per le classi «9 - M6
e M7».
Sul punto, appare opportuno rilevarlo, a più voci la
dottrina ha tuttavia individuato un possibile
disallineamento tra il dettato della citata legge nazionale
e le prescrizioni del nuovo regolamento Ue 1357/2014 (che
sull'attribuzione dell'«HP 14» richiama criteri previsti da
altre norme comunitarie); disallineamento sul quale,
evidentemente, solo una pronuncia interpretativa della
competente Corte europea di giustizia potrebbe offrire un
chiarimento definitivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Per le Pa obbligo di conservazione del «protocollo».
Pubbliche amministrazioni. Da domani registro digitale.
Da domani
scatta l’obbligo di invio in conservazione a norma del
registro giornaliero di protocollo: termina infatti il
periodo di 18 mesi concesso alle pubbliche amministrazioni
per adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei
documenti alle regole tecniche per il protocollo informatico
dettate dal Dpcm del 03.12.2013.
Tale decreto, in attuazione del Codice dell’amministrazione
digitale, si è occupato innanzitutto di disciplinare la
gestione dei flussi documentali sia ricevuti che prodotti
dalle amministrazioni. Con tale finalità le pubbliche
amministrazioni sono state chiamate a individuare le aree
organizzative omogenee e i relativi uffici di riferimento, a
nominare il responsabile della gestione documentale (e un
suo vicario in caso di assenza o impedimento), nonché il
coordinatore della gestione documentale in presenza di più
aree organizzative nell’ambito della medesima
amministrazione. Deve essere inoltre adottato il manuale di
gestione.
Altro adempimento richiesto è la definizione dei tempi e
delle modalità per l’eliminazione dei protocolli di settore
e di reparto, di quelli multipli e di quelli telefax.
L’unico protocollo da utilizzare è infatti quello
informatico,da caselle di posta elettronica e da quelle di
posta certificata, nonché le istanze e le dichiarazioni
presentate alle amministrazioni per via telematica.
Entro la giornata lavorativa successiva a quella di
produzione, il registro va inviato al sistema di
conservazione garantendone l’immodificabilità del contenuto.
Quanto alla prima fase, e cioè quella di formazione, il
registro giornaliero deve essere alimentato con numero di
protocollo del documento generato automaticamente dal
sistema, data di registrazione del protocollo assegnata
anch’essa in via automatica, mittente per i documenti
ricevuti e destinatario per quelli spediti, oggetto, data e
protocollo del documento ricevuto nonché impronta del
documento informatico se trasmesso in via telematica e
l’indicazione del registro nel cui ambito deve essere
effettuata la registrazione.
A tale proposito l’Agid (Agenzia per l’Italia digitale) ha
pubblicato sul proprio sito internet le linee guida per la
produzione e conservazione del registro giornaliero,
sottolineando come in fase di formazione deve essere
assicurata la staticità, l’immodificabilità e l’integrità
nel tempo del documento informatico, contenente le
registrazioni effettuate nell’arco dello stesso giorno,
attraverso la produzione di un’estrazione statica dei dati,
secondo una struttura predeterminata, e il loro
trasferimento nel sistema di conservazione.
Agid ha definito a tal fine anche i metadati da associare al
registro giornaliero, chiarendo altresì come la modalità di
formazione del registro non rende necessaria la sua
sottoscrizione con firma digitale o qualificata, la cui
apposizione resta comunque facoltativa.
Entro il giorno successivo alla formazione, il registro va
inviato al sistema di conservazione, il quale può essere
interno alla struttura organizzativa del soggetto produttore
o essere affidato a un conservatore accreditato. La
produzione del pacchetto di versamento e del suo formato,
come concordati con il responsabile della conservazione,
resta a carico del responsabile della gestione documentale o
del servizio per la tenuta del protocollo informatico (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2015). |
APPALTI:
Appalti
sempre più trasparenti. Al ministero dei lavori pubblici le
scelte sulla pubblicità.
Un emendamento al nuovo codice del presidente
della commissione ambiente, Realacci.
Da lunedì rush finale per il nuovo codice degli appalti
(Atto
Camera n. 3194), che
andrà in aula alla camera per gli ultimi aggiustamenti,
quindi tornerà blindato al senato per l'approvazione
definitiva a stretto giro.
La struttura del nuovo codice,
quindi, è ormai definita e il presidente della commissione
ambiente e lavori pubblici, Ermete Realacci, ne è
decisamente soddisfatto. «Mi pare che sia stato fatto un
buon lavoro.
Abbiamo ora una normativa più snella ed efficace e sono
stati dati all'Autorità Anticorruzione poteri tali da farla
diventare davvero la nuova Authority sui lavori pubblici,
poteri che non aveva nemmeno il vecchio organismo di
vigilanza. È un nuovo modello, che si basa su decreti madre
ma marcia poi con formule legislative più leggere che
consentono la necessaria flessibilità. Negli anni passati
l'ipertrofia legislativa è stata una delle principali cause
di corruzione. Già Tacito diceva che moltissime sono le
leggi quando lo stato è corrotto».
Domanda. Il vecchio codice era già corposo, ma poi ogni anno
venivano aggiunte altre norme. Sarà ancora così?
Risposta. No, è proprio quello che abbiamo voluto impedire.
Come Banca d'Italia ci ha ricordato, gli aggiustamenti, le
modifiche e le aggiunte degli anni scorsi sono state più di
600. In quel modo non c'era mai certezza della norme. Nelle
imprese lavoravano più avvocati che ingegneri. Non sarà più
così.
D. Con la delega, però, trasferite le decisioni al governo.
R. Il ruolo del Parlamento, se vogliamo, è stato addirittura
rafforzato. Abbiamo previsto una doppia lettura del codice,
per dar modo alla commissione di segnalare tutto ciò che
riterrà giusto e di chiedere modifiche, quello che abbiamo
eliminato è il vecchio working in progress continuo.
D. Avete anche cancellato la vecchia legge obiettivo.
R. Sì, e anche questa è una novità importante. Quella legge
è stata un fallimento. In 14 anni ha raggiunto solo l'8%
degli obiettivi previsti e ha creato disfunzioni enormi,
svilendo non solo il ruolo della progettazione (il general
contractor lavorava essenzialmente sulla base di progetti
preliminari), ma anche quello del controllo pubblico, visto
che i direttori dei lavori erano dipendenti del general
contractor stesso.
D. E poi c'è l'eliminazione del criterio del massimo ribasso
nell'assegnazione degli appalti.
R. Anche quello era un sistema sbagliato, che non
privilegiava la qualità degli appalti e non serviva nemmeno
a frenare i costi, visto che al massimo ribasso seguivano
praticamente sempre la varianti in corso d'opera. Ma non
vorrei che si dimenticasse l'altra grande novità che abbiamo
introdotto: il meccanismo del débat public, che coinvolge la
popolazione interessata all'opera, garantendo però i giusti
tempi di realizzazione.
D. Il presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele
Cantone ha insistito molto sulla necessità di garantire la
massima trasparenza, ma in commissione è passato un
emendamento che ha abolito l'obbligo di pubblicazione dei
bandi sui quotidiani. Non è un controsenso?
R. C'è un dibattito se basti mettere i bandi sui siti
internet o ci sia ancora bisogno di pubblicarli sui
giornali, ma siccome nessuno vuole ridurre la trasparenza,
io credo che sia giusto che tempi e modi li decida il
governo nel corso dell'applicazione della delega, per questo
presenterò un emendamento chiedendo che sia il ministero dei
lavori pubblici a indicare i criteri per garantire il
massimo della trasparenza possibile. Il massimo.
D. Intanto oggi ha annunciato i risultati dell'Ecobonus e
degli incentivi alle ristrutturazioni edilizie.
R. Sì, un successo: nel 2014 hanno prodotto 28,5 miliardi di
investimenti e 425mila posti di lavoro fra diretti e
indotto, ormai il 70% del mercato edilizio gira intorno alle
ristrutturazioni. Bisogna insistere e semmai allargare gli
incentivi. L'edilizia è un grande volano per la ripresa
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità,
due pesi e due misure. Quelle già attivate si finanziano
solo con resti assunzionali.
Il dpcm contiene una sorpresa che potrebbe
inficiare molte procedure non ancora concluse.
Mobilità extra piattaforma gestita dalla funzione pubblica
da concludere entro il 15 ottobre ma a condizione che siano
finanziate dai resti assunzionali.
L'articolo 11, comma 1,
del dpcm 14.09.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
227 del 30.09.2015) contiene una sorpresa che potrebbe
inficiare molte delle mobilità, attivate dalle
amministrazioni pubbliche avvalendosi di quanto indicato
dalla circolare interministeriale 1/2015, secondo la quale,
nelle more del funzionamento della piattaforma prevista
proprio dal dpcm, era possibile realizzare bandi di mobilità
interamente riservati al personale delle province. Senza
alcun riferimento alla fonte di finanziamento.
Invece, il dpcm subordina la salvezza delle mobilità «interamente
riservate» (anche se il testo del decreto parla di riserva
«prioritaria») alla circostanza che esse non solo debbono
concludersi entro il 15 ottobre, ma «non devono incidere
sulle risorse previste dal regime delle assunzioni per gli
anni 2015 e 2016».
Dunque, il dpcm non fa salve le procedure
di mobilità rette dalla circolare 1/2015 in quanto tali,
consentendo loro di concludersi entro il 15 ottobre: il
regime transitorio immaginato consente di conservare
validità solo per le mobilità che abbiano reperito il
finanziamento dal budget assunzionale diverso da quello
vigente negli anni 2015 e 2016.
In termini molto semplici,
poiché in questo biennio il 60 e l'80% del costo del
personale cessato gli anni precedenti (rispettivamente 2014
e 2015) sono da riservare ai vincitori di concorsi
appartenenti a graduatorie vigenti o approvate all'01.01.2015
o ai dipendenti in sovrannumero delle province, mentre la
restante percentuale rispettivamente del 40 e del 20% è da
riservare esclusivamente ai dipendenti delle province,
l'unico legittimo finanziamento delle mobilità del periodo
transitorio previsto dal dpcm potrebbe provenire dai «resti assunzionali» del triennio 2011-2013, nel 2015 e del
triennio 2012-2014, nel 2016.
Letta al contrario la disposizione dell'articolo 11, comma
1, del dpcm significa che dal 30.09.2015 non è più
possibile portare avanti mobilità extra piattaforma, che non
siano espressamente finanziate dai resti assunzionali.
Forse, si tratta di una cautela, volta a lasciare ai
dipendenti provinciali in sovrannumero il più elevato
possibile livello di risorse assunzionali a disposizioni,
per assicurare il successo della ricollocazione.
Sta di
fatto che le amministrazioni pubbliche riuscite ad attivare
le procedure di mobilità si trovano solo a ottobre con
l'imprevisto di poterle portare a termine solo laddove
dimostrino di finanziarle con i resti. Nulla, invece, viene
detto in merito alle mobilità concluse prima ancora della
pubblicazione del dpcm in Gazzetta. Segno che quelle
assunzioni vanno bene anche se non finanziate con i resti
assunzionali.
Tuttavia, è evidente la disparità di
condizioni e la confusione che si continua a generare
nell'attuazione estremamente sofferta della riforma delle
province. Confusione che coinvolge anche l'utilizzo delle
risorse assunzionali, soggetto ad un reticolo di vincoli
ormai difficile da districare e sintetizzato in tabella.
---------------
Solo dal 30 ottobre le p.a. comunicheranno i posti
disponibili.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta lo
scorso 30 settembre, del dpcm 14.09.2015, che fissa i
criteri per la mobilità dei dipendenti provinciali in
sovrannumero, scatta l'operazione che dovrebbe portare 20
mila dipendenti degli enti di area vasta ad accasarsi presso
altre pubbliche amministrazioni.
Anche se sussistono ancora non poche incertezze.
Il conto alla rovescia per l'operazione di trasferimento di
migliaia di lavoratori pubblici è, dunque scattato. I tempi
previsti, però, appaiono fin troppo ottimistici: ci sono
voluti 10 mesi dall'entrata in vigore della legge 190/2014
per mettere a punto l'elemento fondamentale della
ricollocazione dei soprannumerari, appunto il dpcm e la
piattaforma informatica per la mobilità. Immaginare che il
tutto possa realmente concludersi come prevede la tabella di
marcia al massimo entro marzo 2016 è auspicabile, ma poco
credibile.
Intanto, occorre chiarire quale sarà l'entità dei dipendenti
interessati dal processo di mobilità. Teoricamente sarebbero
20 mila i soprannumerari di province e città metropolitane.
Ma 4.000 circa sono quelli destinati (o andati già) ad
andare in pensione con i requisiti pre-Fornero. Vi sono,
poi, i 7.500 dipendenti addetti ai servizi per il lavoro. A
questa massa di 11.500 dipendenti circa il dpcm, firmato dal
ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, come
prevede l'articolo 1, comma 3, non si applica: essi, dunque,
non dovranno essere trasferiti verso altre amministrazioni,
sebbene i loro nominativi dovranno essere caricati.
Pertanto, potranno transitare verso le altre p.a. i restanti
9.500 dipendenti soprannumerari. C'è, però, la situazione
peculiare degli addetti ai corpi di polizia provinciale: ai
sensi dell'articolo 5 del dl 78/2015, convertito in legge
125/2015, le province dovrebbero adottare provvedimenti per
determinare quali dei circa 2 mila addetti saranno da
considerare adibiti ad attività accessorie alle funzioni
fondamentali e, dunque, da sottrarre alla mobilità.
Ancora, non dovrebbero prendere parte alla procedura
disciplinata dal dpcm i circa 500-600 dipendenti provinciali
parte della procedura di mobilità per 1.031 posti indetta
dal ministero della giustizia.
Per le pubbliche amministrazioni non è dunque chiaro quale
possa essere l'effettivo plafond dei dipendenti da assumere,
il che tinge ancora in modo fosco il processo.
Tanto più che partirà solo da 30 ottobre l'elemento
essenziale del meccanismo: l'inserimento dei posti
disponibili nelle amministrazioni. Se i posti,
quantitivamente o qualitativamente (c'è il problema
dell'assorbimento delle qualifiche dirigenziali e dei
funzionari di categoria D), non saranno sufficienti,
l'intero sistema rischia di restare impantanato.
Occorrerà poi capire cosa succede ai dipendenti delle
province, adibiti a funzioni non fondamentali che le regioni
decidano restino alle province stesse: il Veneto, ad
esempio, sta approvando una legge di riordino che lascia
integralmente alle province le funzioni non fondamentali.
Tecnicamente, allora, il personale provinciale non potrebbe
considerarsi in sovrannumero e non dovrebbe essere nemmeno
caricato sulla piattaforma di incontro domanda/offerta
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015). |
APPALTI:
Codice
appalti, una rivoluzione. Sparisce il regolamento,
sostituito da linee guida Anac-Mit.
Nuove funzioni per le stazioni appaltanti,
apertura al mercato con affidamenti in house al 20%.
Nuove funzioni per le stazioni appaltanti, predisposizione
di soft law di intesa Anac-ministero infrastrutture al posto
del regolamento attuativo, valorizzazione e centralità del
progetto.
Sono queste le linee fondamentali sulle quali si
muove il testo del ddl delega sugli appalti pubblici
(Atto
Camera n. 3194) approvato la scorsa settimana dalla commissione ambiente
della camera che a breve sarà esaminato dall'aula.
Fra le diverse novità apportate vi è in primo luogo il
cambio di impostazione dell'intera operazione normativa, con
il recepimento delle direttive europee su appalti e
concessioni da realizzare entro la scadenza del 18.04.2016, con la successiva messa a punto del nuovo codice entro
il 31.07.2016.
Viene poi prevista l'eliminazione del regolamento di
attuazione del codice dei contratti pubblici che verrà
sostituito da linee guida predisposte di intesa fra Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) e ministero delle
infrastrutture (Mit) (e su questo aspetto occorrerà
approfondire bene la forma giuridica di questa «soft law» e
il grado di vincolatività delle stesse).
Molto profondo è l'intervento che il testo varato in
commissione compie sul ruolo delle stazioni appaltanti,
visto che il testo chiarisce che il nuovo codice dovrà
prevedere che le amministrazioni siano indirizzate verso le
attività di programmazione e controllo. Conseguentemente nel
testo varato in commissione si prevede che l'incentivo non
possa essere concesso per la progettazione.
Ma è sul fronte della disciplina della progettazione che vi
sono i maggiori contenuti innovativi del testo che già al
senato aveva visto una particolare attenzione a questa fase
procedurale. Importante è l'accenno previsto nel testo
varato in commissione alla piena accessibilità, visibilità e
trasparenza, anche in via telematica, degli atti
progettuali, «al fine di consentire un'adeguata ponderazione
dell'offerta da parte dei concorrenti».
Ma è sul piano della
qualità, a partire dal richiamo ai concorsi di
progettazione, per arrivare all'eliminazione del criterio
del massimo ribasso per le gare di progettazione, già
inserito oggi nel dpr 207/2010 ma spesso eluso soprattutto
per gli affidamenti di direzione lavori, che si dà un
segnale importante alle stazioni appaltanti e agli operatori
del settore.
Non da poco è poi la fortissima limitazione degli appalti
integrati che saranno possibili soltanto ponendo a base di
gara il progetto definitivo (non più quindi il preliminare
con il definitivo presentato in gara da tutti i concorrenti)
e l'affermazione della regola generale per cui i lavori
devono essere appaltati sulla base del progetto esecutivo
(l'eccezione è la presenza di componenti innovative e
tecnologiche per più del 70% e l'appalto di opere puntuali;
in questi casi è possibile l'appalto integrato).
A questa
limitazione dell'appalto integrato, che creerà certamente un
maggiore mercato per i progettisti, vanno aggiunti gli
interventi finalizzati a favorire l'uso del cosiddetto «débat
pubblic», strumento di democratizzazione del percorso di
realizzazione delle opere pubbliche, e si ha così un'idea
del netto rafforzamento della fase progettuale che mira
anche a ridare dignità al progetto e al progettista.
C'è poi la nuova disciplina degli affidamenti in house
dove si è trovato un primo punto di equilibrio sull'obbligo
di terziarizzazione che passa dal 100% delle attività,
all'80% (l'in house sarà possibile per il 20%). Per i
lavori si tratta di un incremento del ricorso al mercato del
20% in più rispetto al regime attuale, per servizi e
forniture, invece, si tratta di una vera e propria
rivoluzione visto che ad oggi non esiste alcun obbligo di
affidare a terzi
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
P.a.
sentinelle antiriciclaggio. Le amministrazioni invieranno le
segnalazioni all'Uif.
Pubblicato in G.U. il decreto con gli indici di
anomalia per le operazioni sospette.
Segnalazioni antiriciclaggio al debutto nelle pubbliche
amministrazioni. Arrivano, con il decreto dell'Interno del
25 settembre, in Gazzetta Ufficiale n. 233 di ieri, gli
indicatori di anomalia per individuare le operazioni
sospette da parte degli uffici della pubblica
amministrazione e inoltrarle all'Uif (unità di informazione
finanziaria).
Gli enti (già tenuti per legge alle segnalazioni ma finora
largamente inoperosi) dovranno individuare al loro interno
la figura del gestore che riceverà le informazioni rilevanti
ai fini delle operazioni sospette.
In particolare, per gli enti locali con popolazione
inferiore a 15 mila abitanti sarà possibile individuare un
gestore in comune ai fini dell'adempimento dell'obbligo di
segnalazione delle operazioni sospette.
La finalità degli indicatori di anomalia, si legge nel
decreto, è quella di «ridurre i margini di incertezza
connessi con le valutazioni soggettive e hanno lo scopo di
contribuire al contenimento degli oneri e al corretto e
omogeneo adempimento di segnalazione».
Nel provvedimento si spiega che la mera ricorrenza di un
comportamento non è motivo di per sé per far scattare la
segnalazione per la quale è comunque necessaria una
valutazione effettiva.
Gli operatori trasmettono la segnalazione all'Uif quando
sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per individuare
la presenza di operazioni di riciclaggio. Le valutazione
potranno prendere spunto ad esempio, dall'uso elevato del
contante, dai settori interessati all'erogazione di fondi
pubblici come quelli relativi ad appalti e sanità, rifiuti o
fonti rinnovabili. Non dovranno essere segnalate le
violazioni della normativa sulla circolazione del contante.
Una specifica indicazione è fornita per quanto riguarda le
operazioni e i comportamenti svolti nei settori dei
controlli fiscali, degli appalti e dei finanziamenti
pubblici. Dovranno «essere valutati sulla base degli
elementi di anomalia indicati per ciascun settore e dei
seguenti criteri (...): incoerenza con l'attività o il
profilo economico patrimoniale del soggetto cui è riferita
l'operazione; assenza di giustificazione economica; inusualità, illogicità, elevata complessità o significativo
ammontare dell'operazione».
La strada della segnalazione dell'operazione sospetta è
autonoma e parallela all'eventuale segnalazione in procura,
qualora siano riscontrati profili di reato.
Gli indicatori di anomalia non rappresentano un quadro
statico ma, come spiega lo stesso decreto, il provvedimento
sarà aggiornato periodicamente per l'integrazione degli
indicatori di anomalia per l'individuazione delle operazioni
sospette
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Anagrafi
collegate. Certificati, rilascio in ogni ente.
Circolare del Viminale sulle novità del dpr 126/2015.
Novità in arrivo per l'anagrafe della popolazione residente.
I certificati anagrafici potranno essere rilasciati anche in
comuni diversi da quello di residenza; vi sarà l'obbligo di
identificazione del cittadino richiedente ed, inoltre,
l'accesso ai dati contenuti nelle anagrafi di tutti i comuni
sarà disciplinato con i principi stabiliti dal codice sulla
protezione dei dati personali.
È quanto precisa la
circolare
02.10.2015 n. 12/2015 emanata dalla
Direzione centrale per i servizi demografici del Mininterno,
con cui si forniscono alcune puntuali indicazioni alle
novità introdotte dal dpr n. 126 del 17/07/2015 pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 14 agosto scorso. Novità che si
sostanziano nell'istituzione, presso il Viminale,
dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr)
che subentra all'Indice nazionale delle anagrafi, all'Aire
e, con gradualità, alle anagrafi della popolazione residente
e dei cittadini italiani residenti all'estero, tenute dai
comuni.
L'ottica è quella del superamento della dimensione locale
delle anagrafi e la circolare sintetizza alcune delle
modifiche apportate.
Tra queste, il superamento del concetto di comune di
iscrizione anagrafica che viene sostituito da quello di
comune di residenza, eliminando, al contempo, i riferimenti
al comune di iscrizione Aire. Si introduce, poi, la
cosiddetta mutazione anagrafica, ovvero quando si
concretizza il trasferimento da altro comune o dall'estero
del cittadino.
Inoltre, la circolare sottolinea come adesso il regolamento
preveda che i certificati anagrafici siano rilasciati anche
dagli ufficiali di anagrafe diversi da quello in cui risiede
il cittadino richiedente. In aggiunta, viene previsto
l'obbligo di identificazione del soggetto richiedente e la
disciplina dell'accesso dell'interessato ai propri dati
contenuti nell'Anpr, effettuabile presso gli uffici
anagrafici di tutti i comuni, secondo i dettami del dlgs n.
196/2003.
In conclusione, la circolare del Viminale, nel sottolineare
la enorme portata delle modifiche apportate dal regolamento
e stante la gradualità del passaggio dalle anagrafi comunali
a quella unitaria, invita tutti i comuni a procedere al
citato subentro, senza arrecare disagio ai cittadini.
Infatti, i comuni ancora «fermi» devono osservare tutti gli
adempimenti anagrafici relativi alla vecchia
regolamentazione, così come quelli che riguardano
congiuntamente un comune transitato in Anpr che uno non
ancora transitato
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza, più severe le sanzioni.
Sul lavoro.
Costerà più caro non rispettare le norme sulla sicurezza sul
lavoro. Il dlgs n. 151/2015 (disposizioni di
razionalizzazione e di semplificazione di procedure e
adempimenti a carico di cittadini e di imprese e altre
disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari
opportunità), in attuazione della legge n. 183/2014 (Jobs
act), infatti, arricchisce di nuove previsioni l'impianto
sanzionatorio del T.U sicurezza.
A spiegarlo, tra l'altro, la
circolare n. 19/2015 della
Fondazione studi dei consulenti del lavoro.
Più
precisamente, vengono individuate una serie di disposizioni
la cui violazione determina il raddoppio dell'importo della
sanzione, qualora la violazione riguardi più di cinque
lavoratori o addirittura una triplicazione dell'importo,
qualora la violazione si riferisca a più di dieci
lavoratori.
La nuova previsione si riferisce alle seguenti
violazioni:
a) mancato invio dei lavoratori alla visita medica periodica
e mancata richiesta al medico competente dell'osservanza
degli obblighi previsti a suo carico. La sanzione prevista è
solo quella dell'ammenda da 2.000 a 4.000 euro;
b) mancata o inadeguata formazione del lavoratore in materia
di salute e sicurezza lavoro. La sanzione prevista è
l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200
euro;
c) mancata o inadeguata formazione di dirigenti e preposti
in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. La sanzione
prevista è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da
1.200 a 5.200 euro;
d) mancata o inadeguata formazione dei lavoratori incaricati
dell'attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di
evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e
immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di
gestione dell'emergenza. La sanzione prevista è l'arresto da
due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro;
e) mancata o insufficiente formazione del rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza sul lavoro. La sanzione prevista
è l'arresto da due a quattro mesi o l'ammenda da 1.200 a
5.200 euro
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2015). |
CONDOMINIO: Il calore disperso va nelle spese.
Il «consumo involontario» va computato con la tabella
millesimale.
Contabilizzazione. Oltre a quanto risulta dai radiatori ci
sono i costi per manutenzione e tecnici.
Con i nuovi contabilizzatori di calore, chi paga per i costi non
direttamente riconducibili al consumo volontario? Di questo
dubbio si è discusso al convegno organizzato da Ambasciata
di Danimarca, Unicasa e Anap lo scorso mercoledì a Milano.
La questione nasce con il Dlgs 102/2014, che all’articolo 9,
comma 5, recependo la direttiva 2012/27/Ue, ha reso
obbligatoria, per i condomìni riforniti da una fonte di
riscaldamento o raffreddamento centralizzata,
l’installazione, entro il 31.12.2016, di sistemi di
controllo e di contabilizzazione del calore, per misurare il
consumo individuale di ogni singola unità immobiliare.
Il decreto ha poi imposto l’ulteriore obbligo di suddividere
tra i condòmini le spese connesse al consumo del calore in
relazione: 1) agli effettivi prelievi volontari di energia
termica, 2) ai costi generali di manutenzione dell’impianto
secondo quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200. Dato
che si tratta di materia soggetta alla legislazione
concorrente fra Stato e Regioni, la normativa è stata
accompagnata da norme regionali.
Va ricordato che queste norme, essendo dettate a tutela di
un interesse pubblico nazionale, e anche sovranazionale,
sono imperative, assolutamente inderogabili, e ogni negozio
giuridico in violazione delle stesse è radicalmente nullo.
Ciò posto, l’amministratore, per adempiere agli obblighi di
legge entro il 31.12.2016, dovrà sottoporre alla
delibera dell’assemblea l’affidamento dell’incarico al
progettista per la redazione del progetto e della relazione
tecnica, nonché l’esecuzione dell’intervento medesimo.
Trattandosi di interventi per l’adozione di sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione del calore, ai sensi
dell’articolo 28 della legge 10/1991, essi possono essere
deliberati con la maggioranza prevista dall’articolo 1120
del Codice civile o con la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell’edificio. Se, però,
l’assemblea non raggiungesse il quorum deliberativo, e
tenuto conto del carattere imperativo delle norme, qualunque condòmino sarebbe legittimato a ricorrere alla magistratura
per ottenere l’esecuzione d’ufficio dei lavori previsti
dalla legge.
La norma ha effetti di grande rilievo anche sulle modalità
di riparto delle spese, che dovranno essere addebitate, per
una parte, in base agli effettivi prelievi volontari di ogni
condomino, rilevati dai contabilizzatori; per un’altra
parte, in base ai costi generali di manutenzione determinati
secondo la norma Uni 10200 e, quindi, addebitati sulla base
dei millesimi di riscaldamento, calcolati sempre, secondo la
stessa norma Uni; il tutto sulla base di un’ulteriore
relazione predisposta da un tecnico abilitato.
Nel concetto di spese di manutenzione sono da comprendersi
le manutenzioni ordinarie, le piccole riparazioni, i costi
del tecnico abilitato alla conduzione e del terzo
responsabile. In tale ambito dovrebbero, però, essere
ricompresi anche i costi collegati ai cosiddetti consumi
involontari, ovvero le dispersioni, che la norma Uni 10200
prevede ma che, apparentemente, non troverebbero
collocazione nelle modalità di riparto previste
dall’articolo 9, comma 5, del decreto in esame.
Anche la norma Uni 10200 è divenuta, per effetto del suo
recepimento nella legge dello Stato, norma imperativa non
derogabile. Ogni delibera assunta in violazione della
disciplina è nulla, con la possibilità di impugnazione senza
limiti di tempo. I nuovi criteri di ripartizione quindi
prevarranno sui regolamenti condominiali, anche se
contrattuali, e sulle relative tabelle millesimali.
Sono
nulle anche le deliberazioni fondate su ripartizioni dei
costi che abbiano introdotto “criteri correttivi” (connessi
all’impatto delle dispersioni) nella individuazione dei
consumi addebitabili ai singoli utenti, dato che tale
meccanismo non è previsto dalla norma Uni 10200. E quelle
che abbiano individuato quote fisse “forfettarie” una da
addebitare secondo i consumi, l’altra secondo le tabelle
millesimali (articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Caldaie, calendario mobile per il controllo dei fumi. Ogni
Regione può dettare le tempistiche per le verifiche.
Efficienza energetica. Percorsi diversificati rispetto a
quelli per la sicurezza impianti.
Il meccanismo
ricorda quello delle automobili. Come per una vettura scatta
l’obbligo di un tagliando, così per la caldaia a gas che
molti hanno in casa (condominiale o a servizio di un solo
appartamento) è necessario effettuare una manutenzione
periodica, secondo le modalità e le tempistiche indicate dal
produttore. Questo per non trascurare la sicurezza e per non
disattendere quanto previsto dalle regole di garanzia
dell’apparecchio.
C’è però una seconda verifica da effettuare, a carico di chi
abita l’immobile. Per gli impianti termici occorre, infatti,
effettuare periodicamente il “controllo dei fumi” (cioè
dell’efficienza energetica del sistema) ed è necessario
pagare un onere (il cosiddetto «bollino blu») e inviare, per
tramite di un tecnico abilitato, un rapporto all’ente locale
di riferimento che certifichi l’avvenuta verifica.
A dettare
i tempi, in questo caso, non sono i produttori come per la
sicurezza, ma è la legge: statale o regionale o, in alcuni
casi, con indicazioni a livello locale.
Gli obblighi
Il controllo di efficienza energetica delle caldaie è stato
introdotto la prima volta con la legge 10/1991. Riguarda –dopo le modifiche apportate due anni fa con il Dpr 74/2013-
tutti gli impianti termici alimentati non da fonte
rinnovabile e con una potenza sopra i 10 kW e serve a
verificare che l’efficienza energetica del sistema sia
ancora quella dichiarata in fase di collaudo. Il controllo
deve essere effettuato da tecnici abilitati, ma spetta
all’iniziativa di chi vive in casa, proprietario o
inquilino.
Per i condomìni, responsabile è l’amministratore
o la persona da questi delegata. Agli stessi soggetti spetta
anche l’aggiornamento del libretto della caldaia, cioè quel
documento che contiene tutte le informazioni del sistema
dalla sua prima accensione.
A livello nazionale, per le caldaie fra i 10 e i 100 kW, il
controllo deve scattare ogni quattro anni, come scritto nel
Dpr 74/2013 e si conclude con l’invio in autocertificazione
(questo passaggio lo esegue il tecnico) del rapporto di
controllo. Ma attenzione: perché in moltissimi territori,
nonostante la nuova legge statale, si seguono ancora le
vecchie periodicità fissate dal Dpr 551/1999, che
prescriveva controlli biennali per gli impianti domestici, o
sotto i 35 kW, e annuali per gli altri.
Inoltre, anche le
Regioni che hanno recepito negli ultimi mesi il Dpr 74,
l’hanno fatto spesso in modo non lineare (si veda la tabella
a fianco). In Toscana, ad esempio, il rapporto ha una
scadenza quadriennale per i sistemi fino a 100kW, ma solo se
la caldaia è posta in locali non abitati e ha meno di otto
anni di vita. Altrimenti l’obbligo scatta ogni due anni.
I costi
Il compito di stabilire importi e modalità di erogazione di
bollini (e degli oneri di ispezione) è lasciato agli enti
locali. Il risultato è una situazione tariffaria eterogenea.
Non solo fra una Regione e l’altra, ma anche all'interno di
uno stesso territorio.
Si va dalla completa gratuità del Piemonte (unico caso in
Italia) ai 25 euro stabiliti in talune aree della Puglia per
le caldaie sotto i 35 kW mentre per impianti di taglia
superiore si superano anche i 300 euro, sempre in Puglia.
Fino ai paradossi più estremi: a Roma vigono dieci tariffe
diverse per il bollino a seconda di dieci fasce di potenza
degli impianti predeterminate.
Anche dal punto di vista
fiscale la situazione non è omogenea. Alcuni enti
sottopongono ad Iva il bollino pur essendo stato ampiamente
chiarito dall’agenzia delle Entrate che questa somma non è
soggetta a questa imposta(Risoluzione 186/E del 06.12.2000).
La sostituzione
Dal 26 settembre è scattata anche in Italia la direttiva
europea Ecodesign n. 2009/125/Ce. La norma mette fuori
produzione le caldaie convenzionali a camera stagna,
imponendo quelle a condensazione. Ma le vecchie caldaie
potranno ancora essere vendute: sconti troppo marcati
potrebbero pertanto nascondere, nei prossimi mesi, lo
smercio (peraltro legittimo) di prodotti di vecchia
generazione.
Per effetto del regolamento n. 66/2010 («Ecolabel»),
chi installa un nuovo impianto o integra una caldaia a
condensazione esistente con nuovi sistemi ad efficienza
energetica dovrà inoltre verificare il rilascio, da parte
del tecnico che esegue i lavori, dell’etichettatura (anche
di sistema) prevista.
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Ispezioni a campione con sanzioni elevate. Costi. Le tariffe variano molto a livello locale.
Manutenere la
caldaia o mettersi in regola e inviare l’autocertificazione
all’ente che raccoglie a livello locale i dati sugli
impianti presenti nel territorio è un obbligo di legge: chi
trasgredisce rischia sanzioni, anche salate.
Le verifiche scattano a campione: le prime caldaie a finire
sotto la lente di ingrandimento sono quelle per cui risulta
assente (nel cervellone delle banche dati locali) il
pagamento periodico del bollino blu e l’invio del rapporto
di controllo.
Per chi viene trovato non in regola, scatta
innanzitutto un onere di ispezione, con importi variabili a
seconda della località in cui è ubicata l’unità immobiliare.
A questo, se il sistema risulta anche fuori norma, occorre
aggiungere il costo di un tecnico abilitato, che ripristini
una situazione di regolarità.
La responsabilità di raccogliere i rapporti di controllo
(creando un catasto, che solo in quattro Regioni tuttavia è
attivo, anche se esistono altre banche dati a livello
provinciale e comunale) e di disporre le verifiche a
campione, ricade in genere sulle Province e sui Comuni sopra
i 40mila abitanti. A loro volta, questi enti sono supportati
da agenzie per l’energia o società in house. Non mancano
eccezioni.
La Provincia e il Comune di Isernia hanno, ad
esempio, affidato l’attività direttamente a una società
misto pubblico-privata che vede all’interno della compagine
sociale anche tecnici manutentori (cioè coloro il cui
operato dovrebbe essere oggetto di verifica). Il Comune di
Fasano –che non arriva a 40mila abitanti- ha affidato i
controlli ad una società privata, dimenticandosi che il
compito spetterebbe alla Provincia di Brindisi.
Quest’ultima, a sua volta, ha provveduto a dare l’incarico a
un proprio ente. Risultato: in due operano su uno stesso
bacino.
Come per il bollino blu, il compito di stabilire importi e
oneri di ispezione è stato lasciato, agli enti locali. Il
risultato è una babele di cifre: la forbice va dai 42 a 200
euro per gli impianti domestici e dai 50 ad oltre mille euro
per gli impianti più grandi. In alcune Regioni, la
situazione è stata però semplificata, con una tariffa unica
a livello regionale. Che in Liguria va dai 150 euro per gli
impianti domestici ai 250 per quelli condominiali, fino a
350/400 euro per i grandi condomini. Decisamente meno salato
l’onere imposto nelle Marche: dove si va da 80 a 110 fino a
180/250 euro.
Il cittadino che non fa fare la manutenzione nei tempi
stabiliti (dall’installatore ovvero dal manutentore, perché
la legge affida a loro questo compito) è passibile di
sanzione come (articolo 15 del Dlgs 192/2015) fissata fra i
500 e i 3mila euro. Nel caso d’ispezione su impianto non
autocertificato (che per forza di cose dovrebbe risultare
anche non manutenuto) l’utente rischia dunque anche questa
ammenda. Tuttavia, solo molto di rado, è stata applicata
questa disposizione. Al contrario, a carico dell’utente
resta il costo del tecnico abilitato che deve essere
chiamato per rimettere in regola la caldaia.
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Per i costi dell’impianto si segue il criterio dei millesimi.
Valvole termostatiche, il riparto tiene conto di consumi e
quota fissa.
Nel nostro
condominio abbiamo una vecchia caldaia che, ormai, ha fatto
il suo tempo. Dovremmo procedere alla sua sostituzione e,
contestualmente, installare le valvole termostatiche e la
contabilizzazione. Sono sorte perplessità in assemblea circa
i criteri di riparto, in quanto alcuni ritengono che debbano
essere utilizzati i millesimi del riscaldamento e non quelli
di proprietà.
Non siamo d'accordo nemmeno sulla ripartizione
delle spese per la termoregolazione in quanto ad alcuni di
noi non sembra giusto dividere per millesimi. Come dobbiamo
fare?
L’impianto di
riscaldamento non è costituito solamente da quanto vi è in
centrale termica. Esso è composto da 4 sottoinsiemi: 1)
produzione (caldaia eccetera); 2) distribuzione (pompa di
distribuzione e tubazioni); 3) regolazione (valvole
termostatiche); 4) emissione (caloriferi).
Il primo e buona
parte del secondo punto riguardano beni comuni ai sensi
dell'articolo 1117, comma 1, n. 3 del Codice civile. La
parte terminale della distribuzione, ovvero dal punto di
diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli
condomini, la regolazione del calore e l'emissione dello
stesso sono, invece, di proprietà individuale. L'impianto
deve essere considerato sotto due aspetti: esso è sia bene
(gli impianti) sia servizio (il calore erogato).
Ciò
significa che per ripartire le spese ad esso inerenti
occorre fare riferimento a due tabelle millesimali: quella
generale e quella del riscaldamento (rispettivamente ai
sensi dell'articolo 1123, commi 1 e 2, Codice civile). Le
citate tabelle, se contenute in un regolamento avente natura
assembleare, devono consistere nella mera applicazione dei
criteri legali di spesa. È nulla (impugnabile in ogni tempo,
anche da chi ha votato a favore) la delibera che vi deroga
istituendo diversi criteri di ripartizione.
È, invece,
annullabile (impugnazione entro trenta giorni solo da
assenti, contrari ed astenuti) la delibera che, in ciascun
rendiconto, dà concreta attuazione ai diversi criteri.
La deroga
Solo il regolamento avente natura contrattuale (firmato da
tutti i condomini dopo il venire in essere del condomino
oppure allegato al primo atto di vendita e richiamato in
tutti i successivi per accettazione) può derogare ai criteri
legali di spesa prevedendone altri, per la modifica dei
quali occorre il consenso unanime di tutti i condomini.
Solamente nel caso della contabilizzazione del calore, ai
sensi del Dlgs 04.07.2014 n. 102 (per quanto attiene al
servizio) la modifica dei criteri contenuti nel regolamento
contrattuale (in quanto contrari a norma imperativa) può
avvenire con la maggioranza dei presenti e almeno la metà
dei millesimi.
I costi dell’impianto
In assenza di diversa pattuizione, tutto ciò che è riferito
al bene (inteso quale impianto) deve essere ripartito in
base alla tabella generale. Ci si riferisce a tutto ciò che
è in centrale termica e alle tubazioni che portano l'acqua
calda all'interno delle singole unità immobiliari (sino al
punto di diramazione) o nei singoli edifici (in caso di
supercondominio).
Occorre tenere presente il cosiddetto
“condominio parziale” di cui all'articolo 1123, comma 3, del
Codice civile. In tal caso, se un bene (o parte di esso)
serve solamente alcuni condomini, solo questi devono essere
convocati, deliberano e pagano. Ne consegue che sono esclusi
dal pagamento tutti coloro che non sono mai stati serviti
dall'impianto.
Per quanto attiene alle tubazioni per la
distribuzione del calore, pagheranno solo quei condomini che
da quella tubazione sono serviti. Con la stessa tabella
vanno ripartiti il compenso del professionista e tutte le
spese di manutenzione straordinaria. Ciascun condomino,
invece, dovrà pagare le opere eseguite all'interno della sua
unità immobiliare (sostituzione o manutenzione dei
caloriferi, le valvole termostatiche e i ripartitori).
Le spese per il calore
Diverso è, invece, il caso della ripartizione delle spese
afferenti il servizio (erogazione del calore). In assenza di
contabilizzazione del calore e di diversa indicazione
contenuta nel regolamento contrattuale, la spesa deve essere
ripartita sulla base della superficie radiante deputata al
riscaldamento di ciascuna unità immobiliare (Cassazione, 26.01.1995, n. 946).
In presenza, invece, di
contabilizzazione, ai sensi del Dlgs 04.07.2014 n. 102,
articolo 9, comma 5, lettera d), la spesa per il
riscaldamento va ripartita sulla base dei consumi effettivi.
Tale voce va divisa in due sottovoci. Vi è anzitutto la
quota a consumo, che va calcolata sulla base degli effettivi
prelievi volontari di energia termica utile (quindi il solo
calore prelevato da ciascun termosifone senza calcolare le
dispersioni verso l'esterno o gli ambienti confinanti).
L'altra sottovoce è composta dalla spesa per potenza termica
impegnata (la cosiddetta quota fissa). Essa comprende il
costo che deve necessariamente essere sopportato per portare
l'acqua calda all'ingresso di ciascuna unità immobiliare.
Tale quota è composta dalle dispersioni di calore nelle
tubazioni, dalla manutenzione ordinaria, dal compenso per
l'eventuale terzo responsabile, dal costo dell'energia
elettrica necessaria per il funzionamento dell'impianto.
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Caldaie, un’eccezione lo scarico a parete.
Gas combusti. La regola è l’eliminazione dal tetto.
Nel
condominio in cui abito è sorta una discussione piuttosto
animata sulla possibilità di installare una caldaietta
autonoma senza realizzare lo scarico sul tetto, ma
limitandosi a far uscire i fumi dalla parete.
A sostenere
questa possibilità, lamentando non meglio precisati «motivi
tecnici» avanzati dalla ditta che eseguirà l’installazione,
è un condomino che ha acquistato un appartamento
nell’edificio e sta procedendo con una ristrutturazione
integrale con contestuale sostituzione dell’impianto
termoautonomo.
L’argomento in
effetti è controverso. L’espulsione dei gas combusti può
generare controversie e discussioni, anche perché non è
sempre chiaro cosa possano (o non possano) fare i
proprietari dei singoli appartamenti in condominio. Va detto
subito che, normalmente, i gas devono essere convogliati
oltre la sommità del tetto, salvo casi particolari.
Il punto di partenza è il decreto legislativo 04.07.2014,
n. 102, che ha ridisegnato le regole per lo scarico a parete
dei generatori di calore a gas. Regole che, a loro volta,
erano state già recentemente modificate dalla legge 03.08.2013, n. 90. In sostanza, dal 31.08.2013 -termine
fissato dalla legge 90 appena citata- qualsiasi tipologia
di installazione ha il vincolo di dover condurre al tetto i
fumi della combustione, mediante camini, canne fumarie,
condotti di scarico. Questo vale sia per le nuove
installazioni che per le «mere sostituzioni» di impianti
esistenti.
Ci sono però alcune deroghe che consentono lo scarico dei
fumi all’esterno di una parete. Ed è proprio su queste
deroghe che in ambito condominiale spesso si concentrano le
discussioni maggiori. Può essere utile, allora, ripercorrere
passo a passo l’elenco delle deroghe contenuto nella
normativa, come ha fatto il Centro studi Anaci Padova -
Settore impianti, per i propri associati.
Caldaie:
-
sostituzione di una caldaia, di qualsiasi tipo, che già
scaricava a parete, con una nuova caldaia a condensazione;
-
sostituzione di una caldaia a camera aperta, a tiraggio
naturale, che scaricava in una canna fumaria collettiva
ramificata condominiale, con una nuova caldaia a
condensazione;
-
installazione in edifici storici o sottoposti a norme di
tutela;
-
impossibilità tecnica di andare a tetto con lo scarico fumi,
asseverata da un professionista abilitato.
Scaldabagni:
-
sostituzione di uno scaldabagno, di qualsiasi tipo, che già
scaricava a parete, con un nuovo scaldabagno a
condensazione;
-
sostituzione di uno scaldabagno a camera aperta, a tiraggio
naturale, che scaricava in una canna fumaria collettiva
ramificata condominiale, con un nuovo scaldabagno a
condensazione;
-
installazione in edifici storici o sottoposti a norme di
tutela;
-
impossibilità tecnica di andare a tetto con lo scarico fumi,
asseverata da un professionista abilitato.
Inoltre, dal 19.07.2014, a queste eccezioni si
aggiungono altri due casi in cui è consentito lo scarico a
parete.
Caldaie:
-
installazione di apparecchi a condensazione, nell’ambito di
ristrutturazioni di impianti termici individuali già
esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella
versione iniziale non dispongano già di camini, canne
fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della
combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio,
funzionali e idonei o comunque adeguabili alla applicazione
dei generatori;
-
installazione di uno o più generatori ibridi compatti,
composti almeno da una caldaia a condensazione a gas e da
una pompa di calore, dotati di specifica certificazione di
prodotto.
Scaldabagni:
-
installazione di apparecchi a condensazione, nell’ambito di
ristrutturazioni di impianti termici individuali già
esistenti, siti in stabili plurifamiliari, qualora nella
versione iniziale non dispongano già di camini, canne
fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della
combustione con sbocco sopra il tetto dell’edificio,
funzionali e idonei o comunque adeguabili all’applicazione
dei generatori.
Va ricordato, comunque, che lo scarico a parete, fermo
restando il rispetto della casistica appena elencata, deve
in ogni caso rispettare le distanze minime da aperture,
finestre, terrazze e così via indicate nella norma Uni
7129:2008.
Inoltre, si devono sempre verificare i regolamenti comunali,
che possono essere più restrittivi delle norme nazionali. In
questo caso, oltre alla norma, è utile riscontrare
l’interpretazione dello sportello comunale per l’edilizia e
la prassi applicativa locale
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Privacy sul lavoro viva e vegeta. Datori di lavoro tenuti a
una molteplicità di adempimenti.
Dal badge alla denuncia contributiva: strumenti che
impongono attenzione e formalità.
Privacy a 360 gradi sugli adempimenti del lavoro. Dal badge
aziendale alla denuncia contributiva, infatti, è un continuo
tuttofare di pratiche e informative al fine di evitare di
violare le regole sulla comunicazione di dati personali.
Per
principio generale, infatti, il datore di lavoro può sapere
dei lavoratori solamente i dati strettamente indispensabili
al rapporto di lavoro (nome, cognome e residenza): nulla di
più.
E altrettanto devo stare attento a comunicare all'esterno.
Le regole generali.
Il trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro,
ovviamente, segue i principi e le regole generali in materia
di privacy e dettate dal c.d. Codice privacy, il dlgs n.
196/2003. Pertanto, i dati personali oggetto di trattamento
vanno:
• trattati in modo lecito e secondo correttezza;
• raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e
legittimi, e utilizzati in altre operazioni del trattamento
in termini compatibili con tali scopi;
• esatti e, se necessario, aggiornati;
• pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle
finalità per le quali sono raccolti o successivamente
trattati;
• conservati in una forma che consenta l'identificazione
dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a
quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati
raccolti o successivamente trattati.
I dati personali trattati in violazione di tali regole e
principi non possono essere utilizzati.
Le regole sul lavoro.
Declinando i principi generali nello specifico ambito dei
rapporti di lavoro ne derivano le regole specifiche. Prima
regola generale: il datore di lavoro può trattare le
informazioni personali dei lavoratori solamente se ciò sia
strettamente indispensabile all'esecuzione del rapporto di
lavoro. Pertanto, «informarsi» speculativamente sulla
personalità dei propri collaboratori (preferenze, tendenze,
usi, costumi ecc.) è vietato.
Perché (anche) sul luogo di
lavoro va assicurata la tutela dei diritti, delle libertà
fondamentali e della dignità delle persone (a partire dai
lavoratori), garantendo la sfera della riservatezza nelle
relazioni personali e professionali.
Le informazioni
personali che vengono trattate possono riguardare, oltre a
quelle strettamente legate all'attività lavorativa, la sfera
personale e la vita privata dei lavoratori (ad esempio, i
dati sulla residenza e i recapiti telefonici) e terzi (ad
esempio, i dati relativi al nucleo familiare per garantire
determinate provvidenze, come l'assegno per il nucleo
familiare).
In tal caso è rispettato un altro principio che
vuole che il trattamento di dati personali, anche sensibili,
riferibili a singoli lavoratori è lecito se è finalizzato ad
assolvere obblighi derivanti dalla legge, dal regolamento o
dal contratto individuale (ad esempio, per verificare il
corretto adempimento della prestazione o commisurare
l'importo della retribuzione).
I trattamenti di dati
personali devono poi rispettare il principio di necessità,
secondo cui i sistemi informativi e i programmi informatici
devono essere configurati riducendo al minimo l'utilizzo
delle informazioni personali e identificative. Inoltre, va
rispettato il principio di correttezza, secondo il quale le
caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere
rese note ai lavoratori. Ancora i trattamenti devono essere
effettuati per finalità determinate, esplicite e legittime
in base ai principi di pertinenza e non eccedenza.
Il
trattamento di dati personali può avvenire per mano diretta
del datore di lavoro o per mezzo di suoi dipendenti. Nel
secondo caso, quando cioè i dati vengono trattati dal
personale incaricato, vanno assicurate idonee misure di
sicurezza per proteggerli da intrusioni o divulgazioni
illecite. Ovviamente, il trattamento può avvenire
esclusivamente dal personale debitamente incarico dal datore
di lavoro.
I badge di riconoscimento.
A chi è capitato di entrare in un ufficio postale avrà
notato, appeso sulla giacca dell'impiegato/a, un'etichetta
su cui è indicato un nome e un numero: è il badge personale
del lavoratore, cioè un cartellino che lo identifica
nell'ambito dell'organizzazione aziendale.
È lecito il badge
ai fini della privacy? Sì, è lecito. Tuttavia, ha avvertito
il Garante, può essere eccessivo riportare per esteso tutti
i dati anagrafici o le generalità complete del dipendente: a
seconda dei casi, allora, ci si può accontentare di un
codice identificativo (in genere è la matricola aziendale) o
del solo nome o del solo il ruolo professionale.
Le comunicazioni ai sindacati.
Non è lecito, invece, il comportamento del datore di lavoro
che, senza avvertirli, dia informazioni dei lavoratori ai
sindacati. In ambito di lavoro privato, infatti, al fine di
comunicare informazioni sui lavoratori alle associazioni di
datori di lavoro, ex dipendenti o conoscenti, familiari,
parenti occorre il consenso dell'interessato. In ambito di
lavoro pubblico, addirittura, è richiesto che vi sia una
norma di legge o di regolamento.
Bacheche aziendali.
Stesso discorso vale per le informazioni, sindacali e non,
pubblicate nelle bacheche aziendali, sui cui generalmente
vengono affissi gli ordini di servizio, i turni lavorativi o
feriali e molte altri dati e informazioni relativi
all'organizzazione aziendale.
Infatti, non si possono
affiggere i documenti strettamente inerenti ai lavoratori
quali, ad esempio, quelli contenenti gli emolumenti
percepiti, le sanzioni disciplinari applicate, le
motivazioni delle assenze (malattie, permessi, congedi
ecc.), l'eventuale adesione a sindacati o altre
associazioni.
Pubblicazioni sui siti web e reti interne.
Occorre il consenso dell'interessato anche per pubblicare
informazioni personali (foto, curricula) nella intranet
aziendale e, a maggior ragione sulla rete internet,
nell'ambito di lavoro privato. In ambito di lavoro pubblico,
le pubbliche amministrazioni possono mettere a disposizione
sui siti web istituzionali atti e documenti amministrativi
(in forma integrale o per estratto, ivi compresi gli
allegati) contenenti dati personali, solo se la normativa di
settore preveda espressamente tale obbligo.
Anche in tal
caso, tuttavia, il datore di lavoro pubblico deve comunque
selezionare i dati personali da inserire negli atti e
documenti da pubblicare, evitando di divulgare dati
eccedenti o non pertinenti, verificando caso per caso che
qualora ricorrano determinate informazioni esse siano
oscurate dagli atti e documenti destinati alla
pubblicazione.
Ciò perché i soggetti pubblici devono ridurre
al minimo l'utilizzo di dati identificativi e di tutti gli
altri dati personali ed evitare il relativo trattamento
quando le finalità perseguite nei singoli casi possono
essere realizzate mediante dati anonimi o altre modalità che
permettano di identificare l'interessato solo in caso di
necessità.
Invece non è assolutamente possibile la
pubblicazione (è vietata!) di qualsiasi dato e informazione
da cui si possa desumere lo stato di malattia o l'esistenza
di patologie di soggetti, compreso qualsiasi riferimento
alle condizioni d'invalidità, disabilità o handicap fisici o
psichici
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015). |
VARI:
Imprese
virtuose ecocertificate. Premiata l'attenzione ai prodotti e
alle aspettative green.
Dal 15 settembre è in vigore il nuovo sistema di
gestione ambientale Iso 14001:2015
Attenzione alle prestazioni ecologiche dei prodotti
nell'intero loro ciclo di vita, risposta alle aspettative
green di clienti e contesto esterno, valutazione delle macro
problematiche ambientali come cambiamenti climatici,
scarsità delle risorse e declino del capitale naturale.
Questi i requisiti che, oltre al rispetto delle prescrizioni
di Legge, le aziende che vorranno fregiarsi della nuova
certificazione ambientale volontaria Iso 14001:2015 dovranno
dimostrare agli organismi competenti.
Le strutture già certificate in base all'edizione 2004 dello
standard di gestione ambientale dovranno invece adeguarsi ai
nuovi parametri pubblicati dall'International Organization
for Standardization lo scorso 15 settembre entro i prossimi
tre anni.
Le principali novità dell'edizione 2015. Al centro del
rinnovato sistema di gestione ambientale, il concetto di
sostenibilità, principio e valore che dovrà informare non
solo lo svolgimento dell'attività interna
dell'organizzazione, ma soprattutto quella esterna,
coincidente con i prodotti forniti. Ciò anche in linea con
il trend, affermatosi in questi ultimi anni, di considerare
la tutela ambientale come un'opportunità per le imprese di
migliorare il business.
L'Iso 14001:2015 chiede innanzitutto
alle aziende di considerare l'intero ciclo di vita dei
propri beni e servizi, dunque di determinarne gli aspetti
ambientali di ogni fase: dall'acquisto delle materie prime
alla loro gestione a fine vita, passando per progettazione,
produzione, trasporto, consegna e utilizzo.
Questo secondo una rinforzata logica di transizione
concettuale dalla gestione in senso verde dell'attività
produttiva interna al miglioramento delle proprie
prestazioni ambientali oltre i confini del sito aziendale.
Ancora, le imprese dovranno dimostrare maggior interazione
con clienti, comunità locali, autorità di regolamentazione,
organizzazioni non governative al fine di comprenderne
esigenze ed aspettative (come ad esempio, la riduzione del
quantitativo dei rifiuti) ed integrarle, per quanto
possibile, nel proprio sistema di gestione ambientale con
valenza di «obblighi di conformità» (come, ad esempio,
l'obiettivo di aumentare il novero dei beni a fine vita
ritirati direttamente).
Al centro della nuova gestione
ambientale dovrà altresì esservi un'ampia visione del
contesto in cui si opera, comprensiva, oltre agli effetti
dell'organizzazione sull'ambiente, anche dell'impatto
generato dall'ambiente sull'organizzazione. Ampio
coinvolgimento, domanda la nuova Iso, anche in relazione al
«top management» dell'azienda, che dovrà essere in grado di
integrare la visione ambientale in tutti i processi
dell'organizzazione, partecipando attivamente sia alla
prevenzione dell'inquinamento che alla protezione
dell'ecosistema.
Il sistema di gestione ambientale. L'Iso 14001 coincide con
l'insieme di requisiti cui deve rispondere il sistema di
gestione ambientale (c.d. «sga») di una organizzazione
collettiva (pubblica o privata), quale parte del più
generale sistema che regola il funzionamento della struttura
e finalizzata a garantirne l'attività in modo da attenuare
gli effetti negativi sull'ecosistema.
Le novità dell'esordiente standard 2015 si innestano,
conservandone l'impianto, sul modello di miglioramento
continuo previsto dell'edizione 2004 (noto come «Ciclo di Deming» e) costituito da quattro fasi: pianificazione (nella
quale si identificano le problematiche ambientali legate
all'attività e si individuano strumenti e mezzi per
risolverli o attenuarne la portata, compreso il rispetto
delle norme cogenti in materia); attuazione (della politica
ambientale così definita, mediante risorse e procedure
necessarie); verifica (coincidente con valutazione degli
obiettivi raggiunti ed eventuali punti di non conformità);
azione (correttiva, al fine di raggiungere gli obiettivi
pianificati e di migliorarli continuamente).
Il rispetto da
parte dell'organizzazione di tali «requisiti di sistema» è
verificato e certificato tramite analisi ambientali condotte
da organismi esterni accreditati da Enti nazionali di
riferimento.
Il regime di transizione. Il passaggio dal vecchio al nuovo
sistema di certificazione ruota intorno ad un preciso regime
transitorio, in base al quale: per i 3 anni successivi alla
data di pubblicazione della nuova Iso 14001 (avvenuta nella
citata data del 15.09.2015) saranno valide nuove
certificazioni e rinnovi emessi sulla base di entrambe le
edizioni della norma (2004 e 2015); dopo tre anni dalla
pubblicazione dell'edizione 2015 le certificazioni fondate
sulla versione 2004 saranno revocate.
La data di scadenza
delle certificazioni Iso 2004 emesse durante il periodo
transitorio corrisponderà alla cessazione di questo e le
nuove certificazioni Iso 2015 potranno essere rilasciate
solo da organismi di certificazione in merito accreditati
dall'Ente nazionale di riferimento.
I vantaggi per i soggetti certificati. Oltre al ritorno in
termini d'immagine e alle connesse prospettive di entrata in
nuovi mercati, la certificazione Iso permette anche positivi
riflessi sul piano degli adempimenti di legge.
In relazione
alla gestione dei rifiuti, il Codice ambientale (dlgs
152/2006) prevede infatti agevolazioni in sede di rinnovo
delle necessarie autorizzazioni: le attività di esercizio
impianti così come quelle di raccolta e trasporto rifiuti
possono infatti essere condotte nelle more della procedura
di rinnovo dei titoli (fino a 180 giorni dalla loro
richiesta) dietro semplice autocertificazione da parte dei
soggetti certificati in base alla 14001 (articolo 209).
Ancora, alle imprese parimenti certificate è riconosciuta
una riduzione del 40% sull'importo dovuto a titolo di
garanzia finanziaria all'atto dell'iscrizione all'Albo
gestori ambientali per la conduzione di determinate attività
(articolo 212).
La presenza di un sistema di gestione della qualità figura
inoltre tra i requisiti dei processi di trattamento dei
residui, laddove se ne voglia invocare l'idoneità a
trasformarli in nuovi beni ai sensi della disciplina Ue
sull'«End of waste» (ossia, sulla «cessazione della
qualifica di rifiuto», richiamata dall'articolo 184-ter, dlgs 152/2006).
Negli appalti pubblici verdi (c.d. «green public procurement»)
per l'acquisto da parte della p.a. di determinati beni e
servizi, la presenza di certificazioni ambientali d'impresa
come l'Iso 14001 è dalle norme in materia (dm Ambiente 11.04.2008) contemplato tra gli strumenti per valutare i
potenziali fornitori.
È infine utile ricordare che i sistemi di gestione
ambientale, tra cui la stessa Iso 14001, costituiscono una
buona base di partenza per la costruzione del «Modello di
organizzazione e gestione» da applicare nell'azienda al fine
di arginare la responsabilità dell'Ente ex dlgs 231/2001 in
caso di reati ambientali ad essa riconducibili.
L'identificazione delle problematiche ambientali più
significative dell'impresa evidenziate da tali sistemi
agevolano infatti la corretta costruzione del citato modello
esimente secondo i requisiti imposti dall'articolo 6, comma
2 del citato decreto
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015). |
TRIBUTI:
Coltivazioni, la Tari è illegittima.
Minambiente.
La tariffa rifiuti urbani è illegittima sui terreni agricoli
produttivi di rifiuti speciali o che, in considerazione
delle particolari attività svolte, non siano suscettibili di
produrre rifiuti. Nella determinazione della superficie
assoggettabile alla Tari non si tiene conto di quella parte
di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente,
rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a
provvedere a proprie spese i relativi produttori.
Questo è quanto sostiene il Ministero dell'ambiente, con il
parere 25.09.2015 n. 11722 di prot. reso a Coldiretti, con
il quale viene chiarita la questione relativa
all'applicazione della Tari ai terreni agricoli.
Il caso che
ha dato origine al quesito formulato da Coldiretti al
ministero dell'ambiente riguardava la delibera del comune di
Laives (Bz) circa l'estensione dell'applicazione della
tariffa per i rifiuti urbani, indistintamente, a tutti i
terreni agricoli, commisurandone l'ammontare all'estensione
degli stessi.
In particolare, nell'ambito della delibera di modifica del
regolamento comunale in materia di tariffa rifiuti, il
comune statuiva di prendere in considerazione, ai fini
dell'applicazione della tariffa rifiuti per il settore
agricolo, tutte le aziende operanti sul territorio
amministrato dal comune di Laives e iscritte nell'anagrafe
provinciale delle imprese agricole. Il ministero
dell'ambiente ha precisato che, ai sensi della legge
27.12.2013, n. 147 (legge di Stabilità 2014), «il
presupposto della Tari è il possesso o la detenzione a
qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi
uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani».
I tecnici dell'ambiente hanno chiarito, quindi, come i
rifiuti eventualmente derivanti dalle attività svolte su
terreni agricoli sono classificati, per legge, come rifiuti
speciali e che, quand'anche il comune stabilisca di
procedere all'assimilazione di tali tipologie di rifiuti a
quelli urbani, è necessario, comunque, assicurare il
rispetto delle norme di riferimento che impongono che «l'assimilazione
sia limitata a rifiuti speciali non pericolosi ed avvenga
per determinate qualità e quantità»
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da www.fiscooggi.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ai
revisori tutti i controlli in p.a., enti locali e scuola.
Revisori news.
Saranno i revisori legali al centro del monitoraggio
contabile e della valutazione sulle performance della p.a. e
degli enti locali. Nel dettaglio saranno gli Oiv (Organismo
indipendenti di valutazione), istituiti dalla legge Brunetta
al centro della misurazione della qualità dell'attività
amministrativa, ma dovranno essere composti solo da membri
scelti da un elenco ad hoc tenuto dal dipartimento della
funzione pubblica. I requisiti per essere iscritti
nell'elenco saranno definiti con decreto del ministro
delegato per la semplificazione e la p.a. che sarà emanato
nelle prossime settimane.
Lo prevede il regolamento che disciplina le nuove funzioni
in materia di valutazione delle performance, approvato ieri
in via preliminare dal consiglio dei ministri.
Il dpr che
rivede la normativa sulla valutazione dei risultati da parte
delle p.a., contenuta nella «riforma Brunetta». Nello
specifico, i nuovi Oiv potranno essere in forma monocratica
o collegiale (tre componenti) ed entreranno a regime a
partire dai rinnovi degli organismi attualmente in vigore
che resteranno in carico fino alla naturale scadenza del
loro mandato.
Anche nella scuola è previsto un ruolo per i revisori
legali: a loro spetterà l'analisi della rendicontazione
relativa in particolare alle spese sostenute dai docenti per
l'aggiornamento professionale, così come la gestione delle
carte elettroniche.
Tutta questa documentazione contabile sarà fatta oggetto di
controlli da parte dei revisori dei conti delle istituzioni
scolastiche dove prestano servizio i docenti interessati
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Contratti
p.a., si apre il tavolo.
Madia all'Aran: ridurre i comparti.
Primo passo del governo nella riapertura della trattativa
sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Il ministro
della pubblica amministrazione, Marianna Madia, ha dato
infatti mandato all'Aran per arrivare a un accordo con i
sindacati sulla riduzione dei comparti da 11 a 4, in
attuazione della riforma Brunetta.
Ora la palla passa all'Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle p.a. che dovrà convocare i sindacati per
ragionare attorno al delicato tema della riduzione dei
comparti senza cui però non si può passare a parlare
dell'aggiornamento dei livelli salariali.
Com'è noto la riduzione dei comparti, prevista dalla legge
Brunetta del 2009, è rimasta fino ad ora congelata anche
perché da allora la contrattazione nel pubblico impiego è
rimasta ferma. Il tema è tornato d'attualità dopo la
sentenza della Corte costituzionale che ha sentenziato
l'illegittimità «sopravvenuta» del blocco dei contratti
pubblici. E con la mossa di ieri il governo ha compiuto il
primo passo formale verso la riapertura del tavolo
contrattuale anche in vista della sessione di bilancio ormai
prossima.
«Siamo pronti a sfidare il governo sull'innovazione
contrattuale e organizzativa che meritano i cittadini e che
le lavoratrici e i lavoratori pubblici aspettano da troppo
tempo», ha commentato Giovanni Faverin, segretario generale
della Cisl Fp.
«Sei anni di blocco contrattuale non hanno congelato solo
i salari dei dipendenti e professionisti pubblici, ma il
cambiamento nel modo di organizzare e gestire i servizi alle
comunità. Serve una stagione di vera innovazione pubblica. E
per questo bisogna far ripartire la contrattazione nazionale
e integrativa. Puntando sulle competenze e le
professionalità e costruendo servizi più avanzati, veloci,
sostenibili e di qualità»
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI
LOCALI:
Protezione civile senza deroghe. Limitato il potere di
ordinanza in caso di emergenza.
La riforma contenuta nel ddl delega approvato
alla camera. Nuovi obblighi per i comuni.
Limiti alle ordinanze di protezione civile, che dovranno
rispettare anche i vincoli della norme Ue; confermata
l'organizzazione articolata sul territorio; coordinamento
della pianificazione in materia di protezione civile con
quella ambientale.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo contenuti
nel testo del disegno di legge delega sul riordino e
l'integrazione della normativa in materia di protezione
civile, che il governo ha approvato il 23.09.2015
alla camera e che fra poco passerà all'esame del senato (Atto
Senato n. 2068).
Si tratta di un Testo unificato di tre proposte di legge
composto da un solo articolo che delega il governo
all'adozione, entro nove mesi dalla data di entrata in
vigore della legge, di uno o più decreti legislativi di
ricognizione, riordino, coordinamento, modifica e
integrazione delle norme vigenti che disciplinano il
servizio nazionale della protezione civile e le relative
funzioni.
Dal punto di vista organizzativo si imposta la delega su di
un sistema policentrico a livello centrale, regionale e
locale e attribuzione delle funzioni di protezione civile
allo stato, alle regioni, ai comuni, alle unioni dei comuni,
alle città metropolitane, agli enti di area vasta e alle
diverse componenti e strutture operative del servizio
nazionale della protezione civile.
Particolare risalto si dà all'esigenza di raccordo delle
attività di pianificazione in materia di protezione civile,
svolte ai diversi livelli, con quelle di valutazione
ambientale e di pianificazione territoriale nei diversi
ambiti e di pianificazione strategica, nonché alla necessità
di integrazione del servizio nazionale della protezione
civile con la disciplina in materia di protezione civile
dell'Unione europea.
Altrettanto rilevante è anche l'indicazione di prevedere
meccanismi e procedure di revisione e valutazione periodica
dei piani di emergenza comunali.
Il punto centrale attiene alla disciplina dello stato di
emergenza e alla previsione del potere di ordinanza in
deroga alle norme vigenti, nel rispetto dei principi
generali dell'ordinamento e della normativa europea. È noto,
infatti, come il potere di ordinanza sia stato negli anni
scorsi esercitato con grande disinvoltura sia dal punto di
vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo.
Nel primo caso numerose ordinanze sono andate ben al di là
del periodo emergenziale determinato dalla calamità naturale
e così hanno dimostrato che l'esigenza cui rispondevano le
ordinanze era principalmente quella di eludere il rispetto
delle regole ad evidenza pubblica.
Nel secondo caso, l'applicazione del potere di ordinanza
anche ai cosiddetti «grandi eventi» ha rappresentato una
ulteriore distorsione delle regole di trasparenza e
concorrenza che hanno determinato le conseguenze rese note
dalle inchieste giudiziarie degli anni scorsi.
Lo stesso presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele
Cantone, evidenziava mesi fa, in audizione al senato sulla
delega appalti, che «non c'è grande opera che non preveda
una deroga e il nuovo codice le dovrà impedire, oppure dovrà
prevedere un regolamento a monte».
Analogo discorso per le ordinanze della protezione civile:
«l'idea che attraverso le ordinanze del presidente del
consiglio dei ministri si può derogare perfino alla legge fa
rabbrividire».
Anche da queste considerazioni, al senato, il testo del ddl
delega appalti è stato corretto prevedendo che possano
essere emanate ordinanze derogatorie «connesse ad urgenze
determinate da calamità naturali, per le quali devono essere
previsti adeguati meccanismi di controllo e di pubblicità
successiva»
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, mobilità con corsie preferenziali.
Pubblico impiego. Precedenze in base a vicinanza e presenza
di handicap - Per i sindacati «rischio caos».
Mobilità sì,
ma con giudizio. Per non mettere a rischio il limite dei 50
chilometri fissato lo scorso anno (articolo 4, comma 2, del
Dl 90/2014), il decreto sui «criteri generali» per la
mobilità, pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale, apre una
fitta rete di “corsie preferenziali”, destinate a tutelare
le categorie deboli e, più in generale, la vicinanza
territoriale fra il vecchio e il nuovo posto.
Prima di
tutto, ovviamente, la questione riguarda gli "esuberi” delle
Province, perché il provvedimento rappresenta l’ultimo (e
più importante) tassello per provare ad attuare la riforma.
Più scoperto è il versante regionale, perché 9 Regioni su 15
a Statuto ordinario non hanno ancora approvato il riordino
delle funzioni.
In ogni caso, il decreto della Funzione pubblica fissa una
doppia griglia di “priorità”, individuali e generali. Prima
di tutto, chi oggi lavora nelle Città metropolitane
capoluogo di Regione hanno la preferenza nei posti collocati
nella stessa città. Un’altra precedenza è riconosciuta ai
portatori di handicap grave (lo impone del resto l’articolo
21 della legge 104/1992) e ai lavoratori che assistono
parenti portatori di handicap, mentre una quarta riguarda
chi ha figli con meno di tre anni. Il Portale nazionale
della mobilità tratterà queste precedenze in ordine di
priorità (la più importante, quindi, è quella territoriale),
e a parità di condizioni saranno determinanti il numero di
famigliari a carico e l’età anagrafica.
Tra i criteri generali, invece, il primo parametro è quello
del personale in distacco o in comando, chiamato a dire «sì»
al trasferimento definitivo, e due corsie ad hoc sono
previste per la Polizia provinciale (destinata in parte a
essere assorbita negli organici comunali, previa espressione
della preferenza per il mantenimento della funzione) e per i
dipendenti impegnati nella gestione dell’Albo degli
autotrasportatori, che dovrebbero essere indirizzati al
ministero delle Infrastrutture (sul passaggio dei centri per
l’impiego, invece, si farà il punto oggi in Stato-Regioni).
Per il resto del personale si guarderà all’inquadramento,
alla categoria e, «possibilmente», alle funzioni svolte.
Funzionerà tutto l’impianto? Forti dubbi sono stati espressi
ieri dai sindacati, che parlano di «rischio caos». Forte
preoccupazione si respira anche negli stessi enti di area
vasta, alle prese con bilanci all’osso e una spesa di
personale che, se tutto andasse per il meglio, comincerebbe
a ridursi solo dalla prossima primavera (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI: MIUR.
Per agronomi, geometri e periti basta il diploma.
I nuovi diplomi, quelli post riforma Gelmini, sono validi
per l’iscrizione agli albi professionali.
Con questo parere
espresso dall’ufficio legislativo del Miur (nota
28.09.2015 n. 27133 di prot.) sull’accesso agli
esami di abilitazione alle professioni di periti
industriali, geometri, periti agrari e agrotecnici.
Due le tesi sul tavolo, la “tesi A” -sostenuta dai periti
industriali- che ritiene i nuovi diplomi non equipollenti
ai vecchi e di conseguenze necessaria la laurea triennale
per l’accesso all’albo e la “tesi B” -portata avanti dai
geometri e dagli agrotecnici- che, invece, ritiene i nuovi
diplomi equipollenti a quelli del vecchio ordinamento e
quindi validi per la partecipazione agli esami di
abilitazione.
Secondo il parere del Miur la “tesi B” è quella «maggiormente
aderente al piano normativo»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Accesso con laurea triennale.
Nota dei periti.
L'accesso all'albo resta subordinato alla laurea triennale.
Lo sostengono i periti industriali considerando «non
condivisibile nella forma e nella sostanza» il parere
con il quale il ministero dell'istruzione ha aperto le porte
ai neodiplomati tecnici Gelmini.
Per il Consiglio nazionale dei periti industriali e dei
periti industriali laureati il presunto chiarimento non
contiene elementi giuridicamente risolutivi, tanto che la
questione è stata rinviata al ministero della giustizia
(peraltro non competente in materia di istruzione tecnica).
I periti contestano anche che il chiarimento sia stato
diramato alla conclusione di un incontro allo stesso
ministero in cui «casualmente» gli unici assenti sono
stati proprio i periti industriali
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Dal 5 ottobre per l'auto solo certificati digitali.
Dal 5 ottobre il tradizionale certificato di proprietà
cartaceo farà posto al nuovo documento digitale che sarà
conservato negli archivi magnetici del Pra. L'utente potrà
consultare il Cdpd da remoto e non dovrà più preoccuparsi
della sua conservazione.
Lo ha chiarito l'Aci con la
lettera-circolare 28.09.2015 n. 7641 di prot..
Il progetto semplific@uto intende recepire le disposizioni del codice
dell'amministrazione digitale anche nel mondo della
burocrazia stradale. Per questo motivo l'Aci sta
progressivamente innovando tutte le procedure che porteranno
gradualmente alla scomparsa della documentazione cartacea
anche dagli archivi. Una innovazione particolarmente
significativa è rappresentata dall'introduzione del
certificato di proprietà digitale.
In pratica dal 5 ottobre
l'ex foglio complementare non sarà più stampato in modalità
tradizionale ma verrà prodotto digitalmente e conservato
dall'Aci nei propri archivi magnetici. All'interessato verrà
consegnata una semplice ricevuta contenente un codice (anche QR-code) per l'accesso informatico alla visura del documento
e ai suoi aggiornamenti successivi in tempo reale.
I
vantaggi per gli utenti stradali e gli operatori a parere
dell'Aci sono innumerevoli. Innanzitutto il documento
digitale non potrà più essere smarrito o sottratto
all'interessato e la contraffazione dell'importante
documento sarà resa molto più difficoltosa per i
malintenzionati. Le economie di gestione e conservazione
digitale del supporto però non avranno ricadute dirette
sugli automobilisti e le tariffe del Pra non diminuiranno.
Solo l'intestatario del veicolo o un suo delegato potranno
disporre del certificato digitale per le formalità di rito,
specifica la circolare.
La completa digitalizzazione del certificato di proprietà
digitale avverrà gradualmente. Fino al prossimo mese di
febbraio ci sarà infatti un regime transitorio che vedrà
ancora la parziale presenza della carta nella gestione delle
pratiche.
In questa fase, per esempio, in attesa delle successive
implementazioni procedurali gli atti predisposti dai notai e
dai comuni continueranno a essere effettuati in modalità
tradizionale
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2015). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Strutture abusive sequestrate a prescindere dal
danno.
La Cassazione ha ritenuto legittimo il
sequestro preventivo della struttura abusiva, realizzata in
area sottoposta a vincolo paesaggistico, a prescindere
dall'effettività del danno all'ambiente
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2015 n. 40370).
I giudici hanno, dichiarato che il presupposto
dell'attualità e concretezza del pericolo di danno al
territorio e all'equilibrio ambientale, necessario per
l'emissione di questa misura cautelare, è integrato
dall'esistenza stessa dell'opera abusiva, indipendentemente
dalla circostanza che questa sia o meno ultimata.
L'indirizzo giurisprudenziale anticipa la tutela dei beni
giuridici ambientali. La maggiore sensibilità nei confronti
di tali beni ha azionato un percorso di riforme normative
teso a proseguire con l'inserimento nell'ambito dei delitti
delle ipotesi più gravi di abuso edilizio doloso, mantenendo
nell'ambito contravvenzionale soltanto le ipotesi meno gravi
e quelle colpose. La sentenza ha preso in considerazione i
requisiti che legittimano il sequestro preventivo nei reati
edilizi e urbanistici per evidenziare le differenze di
disciplina rispetto all'analogo provvedimento adottato nei
reati paesaggistici.
Secondo quanto già stabilito dalle Sezioni unite della
Cassazione, nei reati edilizi è ammissibile il sequestro
preventivo di un immobile realizzato abusivamente anche
quando i lavori non siano stati ultimati purché la
disponibilità dell'opera, da parte dell'indagato o di terzi,
comporti il rischio effettivo di un'ulteriore pregiudizio
per il territorio e, quindi, il pericolo concreto di una
ulteriore lesione del bene giuridico protetto rispetto al
momento della consumazione del reato. Tale accertamento deve
essere condotto dal giudice di merito che deve valutare la
reale offensività della condotta.
La Cassazione nella sentenza citata, tenuto conto della
natura permanente dei reati paesaggistici, ha, invece, in
questo tipo di reati, considerato l'esistenza e
l'utilizzazione della costruzione abusiva determinante per
il protrarsi nel tempo del rischio di pregiudizio
all'ambiente. L'adozione del sequestro preventivo,
determinando il venir meno della disponibilità della
costruzione in capo all'autore del reato, fa cessare tale
pericolo
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2015).
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In materia di sequestro preventivo per reati
paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva
integra il requisito dell’attualità e concretezza del
pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione
ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al
territorio ed all’equilibrio ambientale, a prescindere
dall’effettivo danno al paesaggio e dall’incremento del
carico urbanistico, perdura in stretta connessione con
l’utilizzazione della costruzione ultimata.
Il periculum in mora è in re ipsa per il solo fatto che è
stata costruita un’opera abusiva senza autorizzazione in
area protetta dal vincolo paesaggistico in quanto il danno
all’ambiente è dato alla sola presenza e utilizzazione
dell’opera, diversamente da quanto accade per il sequestro
preventivo operato in relazione a reati edilizi per i quali,
ai fini della valutazione del periculum in mora, occorre
avere riguardo alla incidenza che l’opera ultimata ha
sull’assetto del territorio.
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Come più volte affermato da
questa stessa Corte, in materia di
sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola
esistenza di una struttura abusiva integra il requisito
dell’attualità e concretezza del pericolo indipendentemente
dall’essere l’edificazione ultimata o meno, in quanto il
rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio
ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio
e dall’incremento del carico urbanistico, perdura in stretta
connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata.
Il periculum in mora è in re ipsa per il solo
fatto che è stata costruita un’opera abusiva senza
autorizzazione in area protetta dal vincolo paesaggistico in
quanto il danno all’ambiente è dato alla sola presenza e
utilizzazione dell’opera, diversamente da quanto accade per
il sequestro preventivo operato in relazione a reati edilizi
per i quali, ai fini della valutazione del periculum in
mora, occorre avere riguardo alla incidenza che l’opera
ultimata ha sull’assetto del territorio
(ex pluris Cass. Sez. III n. 42363/2013; Cass. Sez.
III n. 24539/2013).
In proposito, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte
Suprema in relazione ai reati edilizi ed urbanistici, hanno
ritenuto ammissibile il sequestro preventivo di una
costruzione abusiva già ultimata, affermando che
il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato
è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già
perfezionatasi, purché il pericolo della libera
disponibilità della cosa stessa
–che va accertato e adeguatamente motivato dal giudice–
presenti i requisiti della concretezza e
dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori
rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di
antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o
protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto
di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e
possano essere definitivamente rimosse con l’accertamento
irrevocabile del reato. Dunque spetta al giudice di merito,
con adeguata motivazione, compiere una attenta valutazione
del pericolo derivante dal libero uso della cosa pertinente
all’illecito penale
(Cass. Sez. Un. n. 12878/2003).
In particolare, vanno approfonditi la reale
compromissione degli interessi attinenti al territorio ed
ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento
e la disponibilità attuale della cosa, da parte
dell’indagato o di terzi, possa implicare una effettiva
ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se
l’attuale disponibilità del manufatto costituisca un
elemento neutro sotto il profilo della offensività
(Cass. Sez. III n. 24539/2013).
In altri termini, il giudice deve
determinare in concreto, il livello di pericolosità che
l’impiego della cosa appare in grado di raggiungere in
ordine all’oggetto della tutela penale, in correlazione al
potere processuale di intervenire con la misura preventiva
cautelare.
Per esempio, nel caso di ipotizzato aggravamento del c.d.
carico urbanistico, va accertata in concreto tale evenienza
sotto il profilo della consistenza reale e dell’intensità
del pregiudizio paventato, tenendo conto della situazione
esistente al momento dell’adozione del provvedimento
coercitivo.
Diversa è invece la situazione con
riferimento ai reati paesaggistici, poiché per tali reati,
al fine della legittimità del provvedimento di sequestro
preventivo, la sola esistenza di una struttura abusiva,
realizzata senza autorizzazione in area sottoposta a vincolo
paesaggistico integra il requisito dell’attualità del
pericolo, indipendentemente dal fatto che l’edificazione sia
stata o meno ultimata, in quanto il rischio di offesa al
territorio ed all’equilibrio ambientale -a prescindere
dall’effettivo danno al paesaggio- perdura in stretta
connessione all’utilizzazione della costruzione ultimata
(Cass. Sez. III n. 32247/2003; Cass. Sez. III n. 43880/2004;
Cass. Sez. II n. 23681/2008; Cass. Sez. III n. 30932/2009)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.10.2015 n. 40370). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sull'accesso in materia ambientale ex art. 3 del
d.lgs. n. 195/2005: differenze con la disciplina ex art. 22
del D.Lgs. n. 241/1990.
L'art. 3 del d.lgs. n. 195/2005, con il quale è stata data
attuazione alla direttiva n. 2003/4/Ce sull'accesso del
pubblico all'informazione ambientale, ha introdotto una
fattispecie speciale di accesso in materia ambientale, che
si connota, rispetto a quella generale prevista nella l. n.
241/1990, per due particolarità: l'estensione del novero dei
soggetti legittimati all'accesso ed il contenuto delle
cognizioni accessibili.
Sotto il primo profilo, l'art. 3 del d.lgs. n.
195/2003 chiarisce che le informazioni ambientali spettano a
chiunque le richieda, senza necessità, in deroga alla
disciplina generale sull'accesso ai documenti
amministrativi, di dimostrare un suo particolare e
qualificato interesse. Sotto il secondo, la medesima
disposizione estende il contenuto delle notizie accessibili
alle "informazioni ambientali" (che implicano anche
un'attività elaborativa da parte dell'amministrazione
debitrice delle comunicazioni richieste), assicurando, così,
al richiedente una tutela più ampia di quella garantita
dall'art. 22, l. n. 241/1990, oggettivamente circoscritta ai
soli documenti amministrativi già formati e nella
disponibilità dell'amministrazione.
Peraltro le informazioni cui fa riferimento la succitata
normativa concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente
(aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che
possono incidere sull'ambiente (sostanze, energie, rumore,
radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza
umana, con esclusione quindi di tutti i fatti ed i documenti
che non abbiano un rilievo ambientale.
Pertanto, l'accesso alle informazioni ambientali è del tutto
svincolato da motivazioni precise e dalla dimostrazione
dell'interesse del singolo, in quanto l'informazione
ambientale consente, a chiunque ne faccia richiesta, di
accedere ad atti o provvedimenti che possano incidere
sull'ambiente quale bene giuridico protetto
dall'ordinamento, con l'unico limite delle richieste "estremamente
generiche", posto che esse devono essere specificamente
individuate con riferimento alle matrici ambientali ovvero
ai fattori o alle misure di cui all'art. 2, p.3, del d.lgs.
n. 195/2005 (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 08.10.2015 n. 678 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing diventa abuso d’ufficio.
Lavoro. Per il primario è reato anche la sola violazione del
dovere di imparzialità della Pa.
Il mobbing del
primario nei confronti del suo aiuto fa scattare i reati di
maltrattamenti in famiglia e abuso d’ufficio.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale (sentenza 07.10.2015
n. 40320) accoglie il ricorso di un dirigente medico,
progressivamente emarginato dal direttore dell’unità
chirurgica presso la quale lavorava. I giudici di merito
avevano deciso per il non luogo a procedere nei confronti
del “capo” affermando anche l’insussistenza dell’abuso
d’ufficio e dei maltrattamenti nei confronti di familiari e
conviventi (articolo 572 del Cp), reato ormai esteso, a
certe condizioni, ai rapporti di lavoro.
Condizioni che per la Cassazione ci sono. La Suprema corte
esclude che tra «professionisti di elevata qualificazione»
sia assente la dinamica relazionale supremazia-soggezione
psicologica. Anche professionisti di alto livello hanno una
forte soggezione nei confronti del superiore che, con le sue
scelte, può determinare il loro destino lavorativo. Né il
rapporto para-familiare può essere escluso in virtù della
grande dimensione dell’ospedale, essendo questo è diviso in
reparti e unità operative all’interno dei quali è possibile
che esistano relazioni di sudditanza fra direttore e aiuto.
Per finire, il mobbing in famiglia non è escluso neppure
della possibilità di mettere in atto, dopo avere a lungo
subìto, le tutela previste dalla legge.
Per il primario-padrone c’è anche l’abuso d’ufficio
(articolo 323 del Cp). La Cassazione ricorda che il Dpr
3/1957 (articolo 13) impone al pubblico dipendente un dovere
di collaborazione con tutti i colleghi. Da questa norma,
nonostante le riforme e la contrattazione collettiva per la
dirigenza medica, la categoria non si è mai “sfilata” non
avendo regolato la materia. Nel suo raggio d’azione
rientrano quindi le vessazioni del primario.
La Cassazione, discostandosi da un precedente orientamento,
ritiene che l’abuso d’ufficio si concretizzi anche con la
sola violazione dell’articolo 97 della Costituzione
sull’imparzialità della Pa, per la parte in cui vieta al
pubblico ufficiale di mettere in atto ingiustificate
preferenze o favoritismi. Un dettato costituzionale ritenuto
in genere inutilizzabile, per la sua natura programmatica,
in un campo come quello penale che impone una tassativa
descrizione della norma incriminatrice
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015). |
APPALTI:
Il procedimento di verifica dell'anomalia mira ad
accertare in concreto che l'offerta, nel suo complesso, sia
attendibile ed affidabile in relazione alla corretta
esecuzione dell'appalto.
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Principi sul giudizio di anomalia dell'offerta. Il nuovo
gestore deve impegnarsi ad assumere i dipendenti del gestore
uscente, precedentemente addetti al servizio di
distribuzione del gas, ma non anche obbligarsi ad assegnarli
allo specifico servizio oggetto di gara.
Il procedimento di verifica dell'anomalia non ha carattere
sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare in concreto che l'offerta, nel suo
complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla
corretta esecuzione dell'appalto.
Detto procedimento, dunque, risulta di per sé avulso da ogni
formalismo, essendo improntato alla massima collaborazione
tra Amministrazione appaltante e offerente, ponendosi quale
mezzo indispensabile per l'effettiva instaurazione del
contraddittorio ed il concreto apprezzamento
dell'adeguatezza dell'offerta, in modo da garantire e
tutelare l'interesse pubblico concretamente perseguito
dall'amministrazione, attraverso la procedura di gara, e
consistente nell'effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell'esecuzione dell'appalto.
La legittimità del procedimento di verifica postula, dunque,
quale suo elemento costitutivo e caratterizzante,
l'effettività del contraddittorio (tra Amministrazione
appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari
corollari, l'assenza di preclusioni alla presentazione di
giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del
termine di presentazione delle offerte e l'immodificabilità
dell'offerta.
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici
l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto che è
tenuto a dimostrare la non anomalia dell'offerta è vicenda
che rientra nella discrezionalità tecnica
dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di
macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di
valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi
o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità
può intervenire, restando per il resto la capacità di
giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico
proprio di tale tipo di discrezionalità.
La giurisprudenza è altresì saldamente orientata nel senso
che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di
anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il
g.a. possa sindacare le valutazioni compiute
dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e
ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, mentre
non possa invece operare autonomamente la verifica della
congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci,
sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio -non
erroneo né illogico- formulato dall'organo amministrativo
cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico
nell'apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo,
il Giudice invaderebbe una sfera propria della P.A..
Inoltre, il giudizio di anomalia postula una motivazione
rigorosa ed analitica ove si concluda in senso sfavorevole
all'offerente, mentre non si richiede, di contro, una
motivazione analitica nell'ipotesi di esito positivo della
verifica di anomalia, nel qual caso è sufficiente motivare
per relationem con riferimento alle giustificazioni
presentate dal concorrente (sempre che a loro volta
adeguate).
Di conseguenza, in questa seconda evenienza incombe su chi
contesti l'aggiudicazione l'onere di individuare gli
specifici elementi da cui il g.a. possa evincere che la
valutazione tecnico-discrezionale dell'Amministrazione sia
stata manifestamente irragionevole, ovvero basata su fatti
erronei o travisati. Infine, il giudizio di verifica della
congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura
globale e sintetica, vertendo sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme.
L'attendibilità della offerta va cioè valutata nel suo
complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo
ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero
avere sull'offerta economica nel suo insieme: questo ferma
restando la possibile rilevanza del giudizio di
inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro
importanza ed incidenza complessiva, rendano l'intera
operazione economica implausibile e, per l'effetto,
insuscettibile di accettazione da parte
dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici
strutturali di carente affidabilità.
---------------
La clausola sociale va interpretata nel senso che
l'appaltatore subentrante deve prioritariamente assumere gli
stessi addetti che operavano alle dipendenze
dell'appaltatore uscente, a condizione che il loro numero e
la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione
d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante.
I lavoratori che non trovano spazio nell'organigramma
dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente
impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono
destinatari delle misure legislative in materia di
ammortizzatori sociali. Nel caso in cui la c.d. "clausola
sociale" sia stata richiamata espressamente dal bando,
essa assume portata cogente, sia per gli offerenti che per
l'Amministrazione.
Ciò implica che l'offerente non può obliarne la portata
riducendo ad libitum il numero di unità impiegate
nell'appalto cui rapportare il servizio; ovvero, a tutto
concedere, potrebbe così operare, chiarendo però il formale
rispetto della detta prescrizione, richiamando la "flessibilità"
affermata dal diritto vivente, e disponendo che le unità
assunte vadano adibite ad altre mansioni e servizi".
Dunque, il nuovo gestore ha certamente l'obbligo prioritario
di rispettare le mansioni proprie del "personale
assorbito" e, solo nel caso in cui ciò non sia
possibile, impiegarlo in altri settori, ovvero, quale
extrema ratio, fare ricorso alle misure legislative in
materia di ammortizzatori sociali (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 06.10.2015 n. 2106 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Ticket fisso sui ricorsi negli appalti.
Non vi è l’obbligo di pagare altri tributi se i motivi
aggiunti non ampliano la controversia.
Corte Ue/1. I giudici europei ritengono legittimo il
contributo da 2mila a 6mila euro modulati in base all’entità
dei lavori o dei servizi in gara.
La Corte di
giustizia dell’Unione europea si pronuncia sui contributi
che vanno pagati quando si impugna una gara di appalto.
La
sentenza
06.10.2015 (C-61/14) ritiene legittimi
gli importi (da 2mila a 6mila euro) dovuti contestualmente
al deposito di ricorsi in primo e in secondo grado. La
sentenza stessa, tuttavia, consentirà agli operatori
notevoli risparmi lungo il procedimento giurisdizionale, con
riferimento ai motivi aggiunti e ai ricorsi incidentali.
Questa seconda affermazione della Corte di giustizia
interessa, in quanto principio generale, tutti i tipi di
contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi, cioè anche
quelli che non riguardano appalti di lavori, servizi o
forniture.
Per ciò che riguarda il primo tema, cioè la fase iniziale
della lite, i giudici europei ritengono che la soglia di
peso eccessivo del contributo iniziale sia individuabile nel
2% del valore dell’appalto: solo un contributo che superi
tale percentuale limiterebbe l’esercizio del diritto alla
giustizia. Non ha quindi rilievo il vantaggio che l’impresa
può attendersi dall’aggiudicazione dell’appalto (il
cosiddetto utile d’impresa, che può anche essere modesto),
con la conseguenza che è corretto pretendere il pagamento di
importi fissi (2, 4 e 6mila euro) a seconda del valore
dell’appalto (inferiore a 200mila euro, tra 200mila e 1
milione, superiore al milione di euro).
Rimane quindi il
rilevante peso economico del contributo iniziale, che in
materia di appalti aggiunge ad altri ostacoli quali i tempi
ridotti per agire in giudizio (30 giorni per le gare), i
limiti alla lunghezza degli atti giudiziari (25 pagine) e
infine le difficoltà, per chi risulta vincitore in giudizio,
di ottenere l’effettiva assegnazione dei lavori nel
frattempo iniziati da un altro, scorretto concorrente.
Ogni problema sull'entità del contributo, sottolinea la
Corte, deve poi tenere presente che, in caso di vittoria in
giudizio, vi è il diritto a ottenere il rimborso del
contributo pagato. Il secondo principio espresso dalla
Corte, può giovare a tutti coloro i quali hanno liti
giudiziarie, ed è quello che dà rilievo al «bene della vita»
cui la lite tende. Quando infatti in un unico procedimento
giurisdizionale la parte interessata presenti poche
richieste successive, quali motivi aggiunti o ricorsi
incidentali, tutti convergenti verso un unico risultato,
dovrà accertarsi se vi sia un «ampliamento considerevole»
dell’oggetto della controversia già pendente: mancando tale
ampliamento, non vi è nemmeno l’obbligo di pagare ulteriori
tributi giudiziari.
Ciò consentirà risparmi consistenti, in
quanto ogni ricorso si arricchisce, in attesa della
sentenza, di fasi successive quali i motivi aggiunti o le
domande incidentali man mano che si chiarisce l’operato
dell’amministrazione. Se i vari segmenti della lite
convergono verso un unico oggetto (l’annullamento del
provvedimento lesivo), il contributo sarà unico. Spetta al
giudice amministrativo l’accertamento su tali elementi: fino
a oggi si è applicata una circolare del Segretariato della
giustizia amministrativa (18.10.2011) che esigeva un
contributo ogni volta che si ampliasse l’oggetto del
giudizio, impugnando provvedimenti diversi o connessi.
Di
fatto, ogni volta che si depositava un ulteriore atto
notificato alle controparti, scattava l’onere di pagare un
nuovo contributo, perché in ogni atto si leggeva un
ampliamento del giudizio. Oggi invece, sulla base del chiaro
indirizzo della Corte di giustizia si potrà adottare il
criterio del «bene nella vita» (Consiglio di Stato, adunanza
plenaria 15/2011) tenendo cioè presente il risultato cui
tende la parte ricorrente.
Se tale risultato è unico (la
vittoria di una gara, un titolo edilizio, un posto messo a
concorso), non conta il numero degli atti giudiziari se
questi servono solamente a circostanziare la pretesa (articolo Il Sole 24 Ore del 07.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
...
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
1) L’articolo 1 della direttiva 89/665/CEE
del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, nonché
i principi di equivalenza e di effettività devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa
nazionale che impone il versamento di tributi giudiziari,
come il contributo unificato oggetto del procedimento
principale, all’atto di proposizione di un ricorso in
materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici
amministrativi.
2) L’articolo 1 della direttiva 89/665, come modificata
dalla direttiva 2007/66, nonché i principi di equivalenza e
di effettività non ostano né alla riscossione di tributi
giudiziari multipli nei confronti di un amministrato che
introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla
medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale
amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziari
aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla
medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di
un procedimento giurisdizionale in corso.
Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte
interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli
oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei
motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso
procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali
oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono
un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia
già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato
dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi.
|
APPALTI:
Liti,
contributo legittimo. Nei ricorsi al Tar in materia di
appalti pubblici.
Corte di giustizia Ue: ok chiedere più versamenti
per lo stesso giudizio.
È legittimo e non esoso il contributo unificato previsto per
i ricorsi al Tar in materia di contratti pubblici; corretta
anche la richiesta di più contributi nello stesso giudizio,
ma soltanto se sia giustificato da un'effettiva estensione
dell'oggetto del processo e dei motivi di ricorso e ciò è
rimesso alla valutazione del giudice nazionale.
Sono questi i principi affermati dalla Corte di giustizia
europea nella
sentenza
06.10.2015 (C-61/14)
pronunciata nelle cause
riunite C-61/14 (Orizzonte salute), emessa su richiesta
pregiudiziale del Tar Trento a seguito della ordinanza di
rinvio del 29.01.2014 n. 23.
La vicenda nasce da un ricorso presentato da uno studio
infermieristico associato che aveva partecipato a un appalto
e aveva impugnato l'aggiudicazione ad altro studio.
Dopo un primo pagamento del contributo unificato per 650
euro, il Tar Trento aveva chiesto di effettuare un pagamento
supplementare per raggiungere la cifra di 2.000 euro
prevista dalla normativa vigente.
Da qui il ricorso in merito alla legittimità della richiesta
dei 1.350 euro di differenza; nel gennaio 2014, il Tar
Trento ha valutato opportuno rimettere al giudice europeo la
questione pregiudiziale di legittimità per violazione di
alcune norme della direttive 89/665/Ce sui ricorsi in
materia di contratti pubblici.
Dopo aver premesso che il tributo giudiziario è necessario
in quanto contribuisce al buon funzionamento della giustizia
perché è fonte di finanziamento dell'attività
giurisdizionale degli stati membri e, dall'altro, svolge
anche un'efficacia dissuasiva rispetto a domande pretestuose
o manifestamente infondate, la sentenza entra nel merito
affermando la legittimità dei contributi unificati.
In particolare la sentenza afferma che il diritto
dell'Unione permette al legislatore nazionale di stabilire
un tariffario di contributi unificati, anche cumulativi,
applicabile specificamente ai procedimenti amministrativi in
materia di appalti.
La condizione è che l'importo del tributo giudiziario non
sia di ostacolo l'accesso alla giustizia (principio di
effettività) e che da ciò non derivi una violazione del
principio di equivalenza per cui le modalità di tutela dei
diritti previste nell'ordinamento italiano siano equivalenti
a quelle approntate per la protezione di diritti sanciti
dall'ordinamento dell'Unione europea.
Il limite del 2% previsto in Italia per i contributi
processuali per la sentenza «non lede il predetto principio
di effettività, sia perché tale percentuale in sé è assai
contenuta sia perché, secondo le direttive dell'Unione, la
partecipazione di un'impresa a un appalto pubblico ne
presuppone un'appropriata capacità economica e finanziaria
sia perché, infine, il soggetto soccombente nel giudizio è
normalmente tenuto a rimborsare alla parte vittoriosa le
spese di giustizia».
Per quel che concerne il cumulo di più contributi unificati
nell'ambito dello stesso processo relativo al medesimo
appalto, la sentenza lo ammette «se giustificato da
un'effettiva estensione dell'oggetto del processo e dei
motivi di ricorso», ma su questo rimette la valutazione
al giudice nazionale
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2015). |
APPALTI:
Conta la
solidità finanziaria.
Dell'impresa ausiliaria nell'avvalimento.
In un appalto pubblico per il contratto di avvalimento
relativo al fatturato non è necessaria la specifica messa a
disposizione dei mezzi e delle risorse da parte dell'impresa
ausiliaria. È sufficiente l'impegno a garantire con la
propria solidità finanziaria l'esecuzione del contratto. La
capacità economica è anche elemento di prova dell'esperienza
nel settore.
È quanto ha stabilito il Consiglio di
Stato, III Sez.,
con la
sentenza
02.10.2015 n. 4617 in merito a un
contratto di avvalimento concernente il requisito di
capacità economico-finanziaria.
Nello specifico, la stazione appaltante aveva richiesto di
dimostrare l'esistenza di un fatturato globale triennale di
almeno 3 mln di euro e la società ausiliaria aveva previsto
nel contratto di avvalimento a favore del concorrente di
prestare «la sua capacità economico-finanziaria, nonché
tutte le risorse per consentire l'esecuzione del servizio» e
«il fatturato globale di impresa conseguito nel triennio per
oltre 13 mln».
Riguardo l'oggetto della prestazione inerente l'avvalimento,
i giudici hanno chiarito che quando un'impresa intenda
avvalersi dei requisiti finanziari di un'altra impresa, la
prestazione (oggetto specifico dell'obbligazione) è
costituita «non già dalla messa a disposizione da parte
dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi
materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie
complessive risorse economiche». Così facendo l'impresa
ausiliaria mette a disposizione del concorrente quello che
la sentenza definisce come «suo valore aggiunto in termini
di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di
settore, dei quali il fatturato costituisce indice
significativo».
In questo caso, quindi, non è necessario, per ritenere
legittimo il contratto di avvalimento, il riferimento a
specifici beni patrimoniali o a indici materiali atti a
esprimere una determinata consistenza patrimoniale.
Viceversa, diversamente da quanto accade per l'avvalimento
di mezzi e attrezzature, per esempio, è sufficiente che dal
contratto emerga l'impegno della società ausiliaria a «prestare»
la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio
esperienziale, e garantire con essi una determinata
affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità
(articolo ItaliaOggi del 09.10.2015.).
---------------
MASSIMA
1.1.1. Quanto al primo profilo (sub a), non può non
concordarsi con quanto ritenuto dal Giudice di primo grado;
e cioè che il ‘contratto di avvalimento’ sottoscritto
dalla società controinteressata (aggiudicataria), non è
affatto generico.
La Stazione appaltante aveva richiesto di dimostrare la
esistenza di un fatturato globale, relativo al triennio
corrente dal 2008 al 2010, pari (o superiore) a €.
3.000.000,00.
Nel contratto di avvalimento stipulato dalla società DO.TR.
con la società AU.GR. & GA. è chiaramente stabilito che
quest’ultima ‘presta’ alla (rectius: mette a
disposizione della) prima “la sua capacità
economico-finanziaria, nonché tutte le risorse, nessuna
esclusa, per consentire l’esecuzione del servizio”.
Il contratto in questione precisa altresì che le risorse
messe a disposizione sono costituite:
- dal “fatturato globale di impresa conseguito nel
triennio 2008-2010 di importo economico pari ad
€.13.493.060,00 (i.v.a. esclusa)”;
- nonché dalle “risorse, mancanti all’avvalente, di
qualsiasi genere o tipo nella disponibilità dell’impresa
ausiliaria ivi comprese eventuali consulenze”.
Non appare revocabile in dubbio, pertanto, che il contenuto
del contratto e della obbligazione è chiaro e
sufficientemente specifico; e che la dichiarazione negoziale
è idonea ad impegnare tutte le risorse della società
ausiliaria (precisamente e letteralmente: la sua “intera
capacità economico-finanziaria, nonché tutte le risorse,
nessuna esclusa, per consentire l’esecuzione del servizio”);
ed a garantire in pieno la c.d. società “ausiliata”.
D’altra parte la Sezione ha già chiarito -in un analogo
precedente- che
allorquando un’impresa
intenda avvalersi (mediante stipula di un c.d. ‘contratto
di avvalimento’) dei requisiti finanziari di un’altra,
la prestazione (oggetto specifico dell’obbligazione) è
costituita non già dalla messa a disposizione da parte
dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi ‘materiali’,
ma dal suo impegno a “garantire” con le proprie
complessive risorse economiche -il cui indice è costituito
dal fatturato- l’impresa ‘ausiliata’ (munendola,
così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e
consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle
condizioni poste dal Bando)
(C.S., III, 06.02.2014 n. 584)
In altri termini ciò che la impresa
ausiliaria ‘presta’ alla (rectius: mette a
disposizione della) ‘impresa ausiliata’ è il suo
valore aggiunto in termini di “solidità finanziaria”
e di acclarata “esperienza di settore”, dei quali il
fatturato costituisce indice significativo.
Ne consegue che non occorre che la
dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno
contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad
indici materiali atti ad esprimere una determinata
consistenza patrimoniale (dunque alla messa a disposizione
di beni da descrivere ed individuare), essendo sufficiente
che da essa (dichiarazione) emerga l’impegno (contrattuale)
della società ausiliaria a ‘prestare’ (ed a mettere a
disposizione della c.d. società ausiliata) la sua
complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio
esperienziale, e garantire con essi una determinata
affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità.
E poiché dal contratto di avvalimento esaminato emerge che
la volontà negoziale dei contraenti è orientata nel senso
sopra descritto, il provvedimento impugnato resiste, sotto
il profilo in esame, alla censura.
1.1.2. Del pari infondata si appalesa il secondo profilo
(sub b) del motivo in esame, con cui l’appellante lamenta
che il Presidente della società aggiudicataria non aveva i
necessari poteri (cc.dd. “poteri di rappresentanza”)
per sottoscrivere il contratto di avvalimento, non essendo
stato espressamente autorizzato dall’Assemblea dei soci.
La giurisprudenza afferma, al riguardo, che
gli Amministratori (ed il Presidente del Consiglio
di Amministrazione) delle società di capitali possono
compiere tutti gli atti che rientrano nell’”oggetto
sociale” della società amministrata
(Cass., I, 03.03.2010 n. 5152).
Ne consegue che tutti gli atti di tal
genere (rientranti, cioè, nell’oggetto sociale in quanto
fisiologicamente orientati al raggiungimento degli obiettivi
statutari), vanno considerati “ordinari”.
E proprio perché compiuti nell’esercizio
dell’”ordinaria” gestione dell’impresa,
costituiscono, per essa, “atti di ordinaria
amministrazione”, che -perciò stesso- ben possono essere
compiuti dai soggetti che esercitano poteri di
amministrazione e che hanno la rappresentanza del soggetto
giuridico che esercita l’attività d’impresa.
Sicché, essendo evidente che l’atto di
sottoscrizione di un contratto di avvalimento per la
partecipazione ad una gara costituisce un atto di ordinaria
amministrazione nel senso testé indicato -in quanto
fisiologicamente volto a realizzare, quale “fatto di
ordinaria gestione”, gli obiettivi statutari- non appare
revocabile in dubbio che il Presidente del CdA ben potesse
sottoscriverlo nell’ordinario esercizio dei suoi poteri di
rappresentanza e senza alcuna specifica autorizzazione al
riguardo da parte dell’Assemblea dei soci.
Se a ciò si aggiunge che nella fattispecie non risulta che
fossero operanti espresse limitazioni statutarie agli
ordinari poteri di amministrazione e che in pendenza di
giudizio (in data 25.11.2014) è stata prodotta la delibera
del CdA che autorizzava il Presidente della società a
sottoscrivere il contratto di avvalimento, non resta che
concludere che la condotta della Stazione appaltante resiste
sotto ogni profilo alla doglianza in esame. |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001,
se l’autorità amministrativa non si pronuncia sull’istanza
di accertamento di conformità nel termine di 60 giorni, la
richiesta è da considerare come respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza che il silenzio serbato
dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del
citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto
dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore
provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto” e
non come silenzio “inadempimento”.
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto
dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva
impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo
da escludere che l’amministrazione, una volta formato il
silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere
suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui
all’art. 117 c.p.a..
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio
del potere amministrativo previo accertamento
dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella
violazione dell’obbligo di concludere un procedimento
mediante un provvedimento espresso, purché la legge non
assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di
diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato.
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di
silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del
silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione
in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova
soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del
comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque
previsto un termine decadenziale per la proposizione del
ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla
scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in
quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del
Comune sull’istanza in questione.
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune
abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo
procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione
dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per
cui l’amministrazione non perde il relativo potere di
provvedere in merito, fermo restando che tale potere ha
carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di
provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di
quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela.
1. Preliminarmente è da osservare che, in base all’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, se l’autorità amministrativa non
si pronuncia sull’istanza di accertamento di conformità nel
termine di 60 giorni, la richiesta è da considerare come
respinta.
E’ stato chiarito in giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV,
14/02/2006, n. 598) che il silenzio serbato
dall'amministrazione sulla domanda di sanatoria ai sensi del
citato art. 36, al pari di quanto precedentemente previsto
dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, ha valore
provvedimentale ed è qualificabile come silenzio “rigetto”
e non come silenzio “inadempimento” (inerzia a fronte
di attività vincolata, ovvero “rifiuto”, inerzia a fronte di
attività discrezionale: cfr. TAR Sicilia, sez. I Catania,
02/11/2010, n. 4309).
Ne consegue che l’interessato, di fronte al silenzio-rigetto
dell’amministrazione, ha l’onere di proporre una tempestiva
impugnativa nel termine previsto dall’art. 29 c.p.a. essendo
da escludere che l’amministrazione, una volta formato il
silenzio-rigetto, abbia un obbligo di provvedere
suscettibile di contestazione mediante l’azione di cui
all’art. 117 c.p.a. (cfr. TAR Campania, sez. III,
31/03/2015, n. 1874).
Infatti tale rimedio ha lo scopo di provocare l’esercizio
del potere amministrativo previo accertamento
dell’illegittimità dell’inerzia, consistente nella
violazione dell’obbligo di concludere un procedimento
mediante un provvedimento espresso, purché la legge non
assegni al silenzio un significato tipico, di assenso o di
diniego, rispetto all’istanza presentata dall’interessato
(cfr. Cons. St., sez. III, 03/03/2015, n. 1050).
Pertanto, quando l’inerzia ha valore significativo di
silenzio-rigetto, non è ammissibile un’impugnazione del
silenzio-rifiuto che sarebbe equivalente ad una rimessione
in termini per la contestazione del diniego. Peraltro giova
soggiungere che, anche nel caso di impugnazione del
comportamento omissivo dell’amministrazione, è comunque
previsto un termine decadenziale per la proposizione del
ricorso, fissato dall’art. 31 c.p.a. in un anno dalla
scadenza del termine di conclusione del procedimento.
In conclusione, nella specie il ricorso va respinto in
quanto non sussiste obbligo di provvedere da parte del
Comune sull’istanza in questione (cfr. Cons. St., sez. IV,
13/01/2010, n. 100).
Né ha rilevanza a tale fine il fatto che lo stesso Comune
abbia dato notizia della persistente pendenza del relativo
procedimento. Infatti il termine previsto per la formazione
dell’atto tacito di rigetto non ha natura decadenziale, per
cui l’amministrazione non perde il relativo potere di
provvedere in merito (cfr. TAR Campania, sez. III,
13/07/2010, n. 16689), fermo restando che tale potere ha
carattere discrezionale, per cui non sussiste un obbligo di
provvedere alla conclusione del procedimento, al pari di
quanto si verifica per l’esercizio del potere di autotutela
(cfr. Cons. St., sez. V, 25/07/2014, n. 3964)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 01.10.2015 n. 4673 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, non
partecipa chi ha carichi pendenti.
Cds: anche senza sentenza definitiva.
Non occorre attendere la sentenza definitiva per escludere
un concorrente da una gara per grave negligenza o malafede.
È quanto afferma il Consiglio di
Stato, Sez. V, con
la
sentenza 28.09.2015 n. 4502 rispetto a una
procedura di gara nella quale a carico di un concorrente era
risultata la pendenza di indagini penali con richiesta di
rinvio a giudizio e fissazione dell'udienza preliminare
relativamente ad attività inerenti l'appalto da affidare,
svolte negli anni precedenti. Profilo che avrebbe a sua
volta configurato una grave negligenza o malafede e quindi
una esclusione dalla gara.
I giudici hanno precisato che il requisito della grave
negligenza e malafede non presuppone il definitivo
accertamento di tale comportamento.
In sostanza, prima ancora della sentenza definitiva la
stazione appaltante può valutare l'inidoneità del
concorrente sotto il profilo dell'affidabilità e procedere
alla sua esclusione. In tema di contenzioso per l'esclusione
da gara di appalto ai sensi dell'articolo 38, comma 1,
lettera f), del dlgs n. 163 del 2006 per inadempimenti in
precedenti contratti, la decisione di esclusione per deficit
di fiducia è quindi frutto di una valutazione discrezionale
della stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva
l'individuazione del «punto di rottura dell'affidamento» nel
pregresso o futuro contraente.
La sentenza chiarisce anche i limiti dell'intervento del
giudice amministrativo che, nell'esame degli atti, non può
rivalutare nel merito i fatti già vagliati
dall'amministrazione nel provvedimento impugnato dovendosi
limitare a un controllo teso soltanto ad accertare la mera
pretestuosità del giudizio di inaffidabilità dell'impresa.
Pertanto, il controllo del giudice amministrativo su tale
valutazione discrezionale deve essere svolto ab extrinseco,
ed è diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di
simulazione (dissimulante una odiosa esclusione), ma non è
mai sostitutivo.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve essere
rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non
pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto
esibiti dall'appaltante come ragione di rifiuto e non può
avvalersi di criteri che portano a evidenziare la mera non
condivisibilità della valutazione stessa
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
7.- L’appello è fondato e va accolto.
8.- Deve premettersi che, alla stregua della consolidata
giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato,
l’elemento che caratterizza la misura interdittiva
di cui all’articolo 38, comma 1, lettera f), del codice dei
contratti pubblici è il pregiudizio arrecato, a causa della
negligenza o dell’inadempimento a specifiche obbligazioni
contrattuali, alla fiducia che la stazione appaltante deve
poter riporre ex ante nell’impresa alla quale affidare un
servizio di interesse pubblico ed include di conseguenza
presupposti squisitamente soggettivi, incidenti
sull’immagine della stessa agli occhi della stazione
appaltante.
Ne consegue che, esclusa la natura sanzionatoria di detta
misura, l’ambito operativo prescinde dalla rilevanza penale
dei comportamenti ascritti e degli inadempimenti
contrattuali e dalla necessità di una sentenza penale di
condanna per i fatti contestati, venendo in rilievo
solamente la loro incidenza sull’elemento fiduciario che
connota i rapporti contrattuali con la pubblica
amministrazione.
In questa prospettiva il requisito della grave negligenza e
malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale
comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta
dalla stessa amministrazione, ed il giudice amministrativo
nell’esame degli atti non può rivalutare nel merito i fatti
già vagliati dall’amministrazione nel provvedimento
impugnato (Cons.
Stato, V, 16.08.2010, n. 5725), dovendosi
limitare ad un controllo ex externo onde accertare la
mera pretestuosità del giudizio di inaffidabilità
dell’impresa.
Come ha precisato la Cassazione (cfr. Cass. sez. un.,
17.02.2012, nn. 2312 e 2313; 14.01.1997, n. 313; 22.12.2003,
n. 19664), in tema di contenzioso per
l’esclusione da gara di appalto ai sensi dell’articolo 38,
comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163 del 2006 per
inadempimenti in precedenti contratti, la decisione di
esclusione per deficit di fiducia è frutto di una
valutazione discrezionale della stazione appaltante, alla
quale il legislatore riserva la individuazione del “punto
di rottura dell’affidamento” nel pregresso o futuro
contraente.
Pertanto il controllo del giudice
amministrativo su tale valutazione discrezionale deve essere
svolto ab extrinseco, ed è diretto ad accertare il
ricorrere di seri indici di simulazione (dissimulante una
odiosa esclusione), ma non è mai sostitutivo.
Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve, pertanto,
essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica
della non pretestuosità della valutazione degli elementi di
fatto esibiti dall’appaltante come ragione di rifiuto e non
può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera
non condivisibilità della valutazione stessa
La sostituzione da parte del giudice amministrativo della
propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità
dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento
vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera
riservata all’amministrazione, quand’anche l’eccesso in
questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto
dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento
dell’atto.
9.- Ciò posto in via di principio, è indubbio che la
sentenza impugnata ha disatteso i limiti al potere
giurisdizionale del giudice di legittimità, avendo ritenuto
che la valutazione dell’amministrazione comunale di
considerare gravi le infrazioni accertate in capo alla
Sa.Vi. alla luce delle previsioni del capitolato speciale e
per ciò solo incidenti sull’affidabilità dell’appaltatore,
sarebbe manifestamente sproporzionata e irragionevole a
fronte delle infrazioni accertate in capo alla Sa.Vi..
Il Comune -si assume nella sentenza– non avrebbe confutato
in punto di fatto le argomentazioni dell’impresa,
concludendo nel senso della loro gravità e incidenza
sull’affidabilità.
Così argomentando il TAR ha invaso non solo l’ambito di
giurisdizione spettante al giudice ordinario nella materia
della esecuzione del contratto ma la stessa sfera di potere
riconosciuta in materia alla pubblica amministrazione,
atteso che nell’indagine demandata al
giudice amministrativo, il requisito della grave negligenza
e malafede non presuppone il definitivo accertamento di tale
comportamento, essendo sufficiente la valutazione fatta
dalla stessa amministrazione e non può rivalutare nel merito
i fatti già vagliati dall’amministrazione nel provvedimento
impugnato (Cons.
Stato, V, 16.08.2010, n. 5725).
Orbene è incontestabile che il TAR nell’accertare la
sussistenza degli elementi di cui all’articolo 38, comma 1,
lettera f) del codice dei contratti pubblici ha
sostanzialmente compiuto un accertamento palesemente rivolto
non tanto alla verifica dell’eventuale figura sintomatica
dell’eccesso di potere, quanto alla valutazione operata
dalla stazione appaltante ai fini del riconoscimento della
causa ostativa di cui all’articolo 38, comma 1, lettera f),
ovvero della sussistenza delle gravi negligenze e della
malafede idonee a compromettere il rapporto fiduciario.
Il TAR non ha confutato i fatti valutati
dall’amministrazione, ma la valutazione che ne ha fatto
l’amministrazione ai fini dell’affidabilità, ingerendosi in
valutazioni rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione.
Così operando è incorso nella figura sintomatica
dell’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi
dell’articolo 111, comma 8, della Costituzione sotto il
profilo dello sconfinamento nella sfera del merito,
essendosi spinto alla valutazione dell’opportunità e
convenienza dell’atto, così che la volontà dell’organo
giudicante si è sostituita a quella dell’amministrazione.
In sostanza, la sentenza dietro la rilevata
contraddittorietà del comportamento del Comune che non
avrebbe contestato tempestivamente gli inadempimenti
relativi alla gestione del servizio 2006–2007 e avrebbe
concesso proroghe alla ditta, è entrato nel merito
dell’azione amministrativa e delle sue valutazioni,
sostituendosi all’amministrazione nella valutazione delle
gravi negligenze e dei relativi effetti ai fini del giudizio
prognostico sulla sua affidabilità nella gestione del
servizio.
Ne consegue la fondatezza del vizio di eccesso di potere
giurisdizionale della sentenza dedotto con il terzo motivo
di appello dal Comune di Bari. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Difficile
lasciare i clienti. Addio al mandato appena c'è un altro
legale.
Corte di cassazione sulla decorrenza dei termini
per gli avvocati.
Il legale che, manente processo, rinuncia al proprio
mandato, abbandonando la difesa del proprio assistito, deve
comunque aspettare non solo che quest'ultimo abbia un nuovo
difensore, ma che sia anche decorso il termine per la difesa
espressamente previsto all'art. 108 c.p.p. (a norma del
quale, nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità o
abbandono, il nuovo difensore ovvero quello designato
d'ufficio ha diritto ad un «termine congruo, non inferiore a
sette giorni», al fine di prendere cognizione del processo e
visionarne gli atti).
È quanto emerge nella
sentenza
24.09.2015 n. 38944, nella quale i
giudici della V Sez. penale della Corte di Cassazione
hanno respinto il ricorso di un consulente aziendale
accusato di bancarotta fraudolenta, condannandolo al
pagamento delle spese processuali.
In particolare, in sede
di censura, l'uomo, gestore di fatto di una società, aveva
lamentato l'esistenza di una «nullità assoluta e insanabile»
per omessa presenza del suo difensore (prontamente nominato
subito dopo la rinuncia del primo) all'udienza
dibattimentale.
A parere del collegio giudicante tuttavia non si era
verificata alcuna «costrizione contra legem», dal momento
che «la rinunzia del difensore (al pari della revoca) non ha
effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo
difensore (di fiducia o di ufficio)» e non sia decorso il
termine eventualmente concesso a norma dell'art. 108 c.p.p..
Non va dimenticato –spiegano, all'uopo, gli ermellini– che
la concessione di un simile termine per la difesa non
comporta alcuna necessità di rinvio dell'atto processuale da
compiere, né tanto meno pone alcun ostacolo al regolare
corso del processo. Ecco perché il Tribunale aveva deciso
«del tutto legittimamente» di procedere alla istruttoria
dibattimentale in presenza del precedente difensore.
Alla
luce di queste considerazioni, hanno quindi affermato il
seguente principio di diritto: «il difensore di fiducia, cui
sia stato revocato il mandato, dovrà comunque presenziare
all'udienza poiché la revoca del difensore non ha effetto
fintanto che la parte non sia assistita da nuovo difensore e
non sia decorso il termine a difesa di cui all'art. 180 c.p.p.»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015). |
VARI:
L'anticorruzione si estende anche agli studi
legali.
Obblighi e adempimenti tesi a prevenire la corruzione
applicabili anche agli Ordini e ai collegi professionali
degli avvocati.
Questo è quanto ha sancito il TAR Lazio–Roma, Sez. III, con
la
sentenza 24.09.2015 n. 11391.
Con tale decisione sono state ritenute legittime le
deliberazioni n. 144/14 e n. 145/14 con le quali l'Autorità
nazionale anticorruzione ha ritenuto adottabili la legge n.
190 del 2012 e i decreti delegati che prevedono adempimenti
finalizzati alla prevenzione della corruzione agli Ordini e
ai Collegi professionali degli Avvocati, ritenendo che essi
si collocano, ai sensi dell'art. 1 comma 2 del decreto
legislativo n. 165 del 2001, nel novero degli Enti pubblici
non economici e che tra di essi ed i loro dipendenti
intercorre un rapporto di pubblico impiego.
La sentenza in rassegna ha rilevato che la natura pubblica
degli Ordini forensi risponde appieno alla finalità che la
medesima riforma attribuisce agli stessi e che attiene
all'attuazione dell'art. 24 della Costituzione e del diritto
di difesa.
Anche l'art. 1 della legge n. 247 del 2012 attesta questa
natura giuridica «quando richiama la regolamentazione della
professione di avvocato nell'interesse pubblico,
l'indipendenza e l'autonomia degli avvocati come
indispensabili condizioni dell'effettività della difesa e
della tutela dei diritti, l'affidamento della collettività e
della clientela mediante l'obbligo della correttezza dei
comportamenti e la cura della qualità ed efficacia della
prestazione professionale, il merito come chiave di ingresso
alla professione di avvocato».
Da queste considerazioni ne discende che anche gli ordini
professionali dovranno provvedere alla predisposizione del
Piano triennale di prevenzione della corruzione e del Piano
triennale della trasparenza, nonché alla nomina del
responsabile della prevenzione della corruzione. Essi
dovranno poi curare l'adempimento agli obblighi di
trasparenza di cui al decreto legislativo n. 33 del 2013 e
osservare i divieti in materia di inconferibilità ed
incompatibilità degli incarichi di cui al decreto
legislativo n. 39 del 2013
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: No
al barbecue fatto con la Scia.
Questa casa non è un ristorante. Stop al forno-barbecue del
confinante che è stato realizzato senza permesso di
costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il vicino
ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio
mettendo fine ai fumi molesti che invadono casa sua, specie
nel weekend. E ciò perché in ambito urbanistico il concetto
di pertinenza del cespite risulta più restrittivo che in
campo civile e non si può invocare quando manca un rapporto
di stretta consequenzialità con l'immobile principale.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
Oggetto e soggetto
Il manufatto «incriminato» è una grossa fornace con
struttura portante in mattoni e cemento, chiusa da due lati:
dal tetto spiovente in tegole, di ben venti metri quadrati,
spuntano due vistosi comignoli.
La segnalazione di inizio attività non basta perché,
diversamente che in ambito civile, in materia edilizia la
pertinenza non può avvenire ex articolo 817, secondo comma
c.c., per destinazione per destinazione del proprietario
dell'immobile o da chi un diritto reale sul bene: per
l'urbanistica conta l'oggetto e non il soggetto e dunque il
rapporto di pertinenzialità deve nascere dalla struttura
stessa dell'opera destinata a servizio di quella principale.
Quando i servizi dell'abitazione sono completi, allora, non
può ritenersi che il forno-barbecue sia necessario:
costituisce invece una costruzione autonoma che ha bisogno
della concessione.
Il Comune e i vicini pagano le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2015).
---------------
MASSIMA
3) Parte ricorrente reputa che l’intervento in questione
costituisca attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia, subordinata non ad una S.c.i.a. (in sanatoria),
quale quella presentata dai contro-interessati, bensì a
permesso di costruire.
I contro-interessati sostengono, invece, che si tratti di un
intervento pertinenziale ai sensi dell’art. 3, I comma,
lett. e. 6) del T.U.Ed. e, come tale, soggetto a S.c.i.a.
Il motivo è fondato.
Precedente, numerosa e consolidata giurisprudenza ha messo
in rilievo che la nozione di pertinenza
urbanistica è meno ampia di quella civilistica e non può
consentire la costruzione di opere consistenti, in quanto
l’impatto volumetrico incide in modo permanente e non
precario sull’assetto edilizio e, conseguentemente, si rende
necessario il rilascio di permesso di costruire
La nozione di pertinenza urbanistica, in altre parole,
richiede che si tratti di opera collegata all’edificio
principale in un rapporto di stretta e necessaria
consequenzialità funzionale
(ex multis, da ultimo, TAR Calabria, Catanzaro, Sez.
II, 07.05.2015, n. 789).
Il rapporto di strumentalità, pertanto, non
può essere frutto sic et simpliciter della
destinazione “effettuata dal proprietario della cosa
principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima”,
come previsto dall’art. 817, II comma, c.c., bensì deve,
altresì, ontologicamente emergere dalla struttura stessa
dell’opera destinata a servizio di quella principale, sì da
rivelare un carattere oggettivo e non meramente soggettivo.
In un caso del tutto analogo a quello che qui ci occupa
(corpo separato adibito a forno con dimensioni raggiungenti
un’altezza di mt. 2,20 con copertura sporgente in mattoni),
è stata già negata la “individuabilità di un obiettivo
rapporto pertinenziale, connaturale alla struttura del
fabbricato principale … il quale appare invece come una
realizzazione autonoma ed a sé stante” (TAR Lazio, Roma,
Sezione II-ter, n. 7292/2002) in ragione della completezza
dei servizi situati nella costruzione principale, adibita ad
uso residenziale e della mancanza di ogni collegamento,
anche funzionale, con l’edificio abitativo.
In applicazione di tali principi, anche il Giudice penale ha
affermato che “non costituisce
pertinenza, ed abbisogna di concessione, un forno costruito
come corpo separato dal fabbricato, sul confine del fondo”
(Cass. pen., 09.02.1990, in Riv. pen., 1991, 201).
Ne consegue la necessità del rilascio del
permesso di costruire e la non realizzabilità
dell’intervento in questione tramite S.C.I.A.
L’art. 37, IV comma, T.U.Ed., pertanto, non
è applicabile al caso di specie
dal che deriva l’illegittimità della nota prot. n. 10977 del
23.08.2013 con cui il Comune resistente ha ritenuto di
definire positivamente il procedimento di sanatoria ivi
previsto.
...
5) Quanto alla
domanda di annullamento dell’autorizzazione in deroga ex
art. 60 del D.P.R. n. 753/1980 prot. n. 1736, rilasciata da
R.F.I. in data primo luglio 2013 si osserva quanto segue.
L’art. 60 del D.P.R. n. 753/1980 prevede che quando la
sicurezza pubblica, la conservazione delle ferrovie, la
natura dei terreni e le particolari circostanze lo
consentano, possono essere autorizzate riduzioni alle
distanze prescritte dagli articoli dal 49 al 56.
L'art. 49 prevede il divieto lungo i tracciati delle linee
ferroviarie di costruire, ricostruire o ampliare edifici o
manufatti di qualsiasi specie ad una distanza minore di
trenta metri dal limite della zona di occupazione della più
vicina rotaia.
In base all’art. 64, II comma, c.p.a., il manufatto adibito
a forno deve ritenersi posizionato a 5 metri dalla prima
rotaia della linea ferroviaria. Tale circostanza, a
prescindere dalle varie planimetrie di parte allegate, è
affermata dal ricorrente e non è stata contestata, neanche
genericamente, dalle parti costituite.
Per quanto riguarda R.F.I., non costituita, non v’è dubbio
che comunque la distanza sia inferiore a metri 30.
Parte ricorrente, in considerazione delle dimensioni e della
particolare vicinanza del manufatto alla linea ferroviaria,
contesta nel merito (e, dunque inammissibilmente) la scelta
effettuata dall’Autorità ferroviaria, denunciando la
pericolosità per la sicurezza pubblica dell’opera assentita
in deroga, ed eccepisce il difetto di istruttoria e di
motivazione.
La censura relativa al difetto di motivazione è meritevole
di accoglimento.
Deve rilevarsi che la normativa di settore,
definendo soltanto le eventuali ragioni di sicurezza
ferroviaria, conservazione delle ferrovie, natura dei
terreni e altro, poste a base dell'autorizzazione alla
deroga alle distanze e non anche i presupposti, le
condizioni o i parametri per esprimere un eventuale diniego,
attribuisce all’Amministrazione una ferroviaria un’ampia
discrezionalità.
E’ evidente, inoltre, come il Legislatore
abbia configurato la deroga alle distanze come ipotesi del
tutto eccezionale: come chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa, “il disposto dell' art. 60, D.P.R.
11.07.1980, n. 753 va interpretato nel senso che, in
mancanza delle cause ostative ivi previste (sicurezza
pubblica, conservazione delle ferrovie, natura dei terreni e
particolari circostanze locali), l'amministrazione sia non
già obbligata a rilasciare l'autorizzazione in deroga, bensì
semplicemente facultata a valutare discrezionalmente
l'opportunità di rilasciare o meno l'autorizzazione stessa;
nel senso, cioè, che la mancanza di dette cause costituisca
un presupposto necessario ma non sufficiente per il rilascio
dell'autorizzazione”
(in tal senso, da ultimo, TAR Piemonte, Sez. II, 23.01.2015,
n. 151).
Dall’ampiezza della discrezionalità e dalla
eccezionalità della deroga non può che derivare in capo
all’Amministrazione un onere motivazionale rafforzato.
La motivazione dell’autorizzazione in deroga prot. n. 1736
del primo luglio reca i seguenti passaggi:
a) (all’ottava riga) “Visto il parere sulla sicurezza
pubblica e sull’esercizio ferroviario del 19.06.2013”;
b) (alla decima riga) “Vista l’avvenuta eliminazione
della canaletta di raccolta acque piovane e la definitiva
chiusura del cancello con blocchi di cemento per comunicato
dalla Ditta richiedente in data 24.05.2013”;
c) (all’undicesima riga) “considerato che viene garantita
la sicurezza pubblica e dell’esercizio delle ferrovie,
nonché delle opere, della sede e degli impianti ferroviari”;
d) (alla dodicesima riga) “considerato che la zona dove
ricade l’opera da mantenere, allo stato attuale, non è
interessata da potenziamenti o ampliamenti, né da varianti
alla linea F.S.:
e) (alla tredicesima riga) “considerato che il patrimonio è
garantito per il rispetto delle norme vigenti”.
Appare evidente che, in disparte il non chiaro contenuto
motivazionale del solo indicato parere del 19.06.2013,
l’autorizzazione è stata rilasciata senza
dare conto della comparazione tra l’interesse del
richiedente al mantenimento del manufatto e l’interesse
pubblico alla sicurezza dell’esercizio delle ferrovie,
comparazione da effettuare alla luce della caratteristiche
dimensionali (per
stessa ammissione dei contro interessati, il manufatto ha
una dimensione di 17,66 mq ed è alto almeno tre metri,
sempre in considerazione della mancata contestazione di
quanto affermato dal ricorrente) e
funzionali dell’opera abusiva, adibita a forno e barbecue,
nonché della ravvicinata distanza alla linea ferroviaria. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Niente rimborso spese legali ai lavoratori
pubblici assolti.
Assolti sì, rimborsati no. Contro i dipendenti del comune
cade definitivamente l'accusa di truffa per essersi
allontanati dal servizio dopo aver fatto scattare il badge
che segnala l'inizio della giornata di lavoro.
L'unico nesso
fra il processo penale, i due lavoratori e
l'amministrazione, dunque, è costituito dal cartellino
timbrato all'ingresso. Ma non basta per far condannare
l'ente datore a rifondere le spese legali sostenute dai due
lavoratori: strisciare il badge al momento dell'accesso in
ufficio è un atto dovuto che non risulta connesso ad alcuna
attività di servizio.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.09.2015 n. 4448, pubblicata dalla
V Sez. del Consiglio di stato.
Gli operai del comune incriminati ex articolo 640 cp si
pagheranno da soli l'avvocato che li ha fatti assolvere:
l'imputazione era di aver realizzato durante l'orario di
servizio alcuni lavori a casa di un geometra, pure lui
dipendente dell'amministrazione. Il punto è che i due
lavoratori non hanno una sede fissa e dunque ben possono
trovarsi all'esterno durante l'orario di servizio. E in ogni
caso la loro condotta è stata giudicata non rilevante dal
punto di vista penale.
I due operai, però, non possono pretendere il rimborso dal
comune perché il processo penale in cui sono stati imputati
non è stato aperto per motivi connessi al servizio. Timbrare
il cartellino, osservano infatti i giudici di Palazzo Spada,
costituisce l'adempimento di un dovere del dipendente legato
al rapporto di lavoro esistente con la pubblica
amministrazione, senza alcun riguardo al compimento di atti
connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio.
Il proscioglimento in sede penale è stato deciso proprio
perché il giudice penale ha ritenuto che l'attività svolta
in favore di soggetti privati, durante l'orario di servizio,
non era riconducibile all'espletamento del servizio o
all'adempimento di compiti d'ufficio.
Manca dunque il nesso di strumentalità tra l'adempimento del
dovere e il compimento dell'atto per far scattare l'obbligo
a carico dell'amministrazione di rifondere le spese di
giudizio pagate dai due dipendenti del comune
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2015).
----------------
MASSIMA
3. - Nel merito, l'appello è infondato.
Con il secondo motivo di censura, gli appellanti lamentano
la violazione dell'art. 16 del D.P.R. n. 191/1979 e degli
artt. 22 del D.P.R. n. 347/1983 e 67 del D.P.R. n. 268/1987.
Gli appellanti sostengono che nel caso in esame vi sarebbero
tutti i presupposti per la concessione dell'assistenza
legale (e per la spettanza del rimborso delle spese
sostenute), a carico dell’amministrazione, dal momento che
la timbratura del cartellino non costituirebbe «una mera
esplicazione del dovere di ufficio, ma è l'atto attraverso
il quale è certificata la presenza del dipendente sul posto
di lavoro ed al servizio dell'ente stesso».
Gli appellanti sostengono, poi, che il rimborso andrebbe
effettuato per entrambe le parcelle, atteso che l'art. 7,
richiamato dal Comune nella relazione istruttoria, sarebbe
applicabile solo alle cause civili, amministrative e
tributarie, e non anche a quelle penali.
3b.- Orbene, l'invocato art. 67 del D.P.R. 13.05.1987, n.
268, il cui testo è stato recepito anche nel più recente
C.C.N.L. del comparto del personale degli enti locali
prevede che «l'ente, anche a
tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi
l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o
penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti
direttamente connessi all'espletamento del servizio e
all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio
carico, a condizione che non sussista conflitto di
interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del
procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di
comune gradimento».
Si tratta di una forma di tutela che trova giustificazione
nel fatto che il dipendente pubblico, che viene convenuto in
giudizio in tale sua veste, è portatore di un interesse non
soltanto suo proprio, poiché vi è un coesistente interesse
della pubblica amministrazione per la quale ha agito.
La spettanza del rimborso delle spese
legalo postula una serie di condizioni, ossia che:
a) il giudizio penale sia promosso nei confronti del
dipendente pubblico;
b) il soggetto abbia la qualifica di dipendente pubblico;
c) vi sia una connessione dei fatti contestati con
l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi
istituzionali;
d) una sentenza o un provvedimento ne abbia escluso la
responsabilità.
Il giudizio di responsabilità si considera promosso in
conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del
servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali,
solo nei casi in cui l'imputazione riguardi un'attività
svolta in diretta connessione con i fini dell'ente e, come
tale, ad esso imputabile.
La finalità della normativa di settore è
l'esigenza di sollevare i funzionari pubblici dal timore di
eventuali conseguenze giudiziarie connesse all'espletamento
del servizio (e dunque di consentire lo svolgimento sereno
delle funzioni e dei servizi pubblici) e tenere indenni i
soggetti delle spese legali affrontate per i procedimenti
giudiziari strettamente connessi all'espletamento dei propri
compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito
essenziale in questione può considerarsi sussistente solo
quando risulti possibile imputare gli effetti dell'agire del
pubblico dipendente direttamente all'amministrazione di
appartenenza (cfr.
Cons. Stato, sez. III, 25.11.2003, parere n. 332/2003).
In sostanza, il fatto oggetto del giudizio deve essere
compiuto nell'esercizio delle attribuzioni o delle mansioni
affidate al dipendente e deve esservi un nesso di
strumentalità tra l'adempimento del dovere ed il compimento
dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto
ai suoi compiti se non ponendo in essere quella determinata
condotta.
Nel caso di specie, gli appellanti sono stati incolpati del
reato di truffa aggravata nei confronti della propria
amministrazione, «(operando) con artifici e raggiri,
consistiti nel timbrare il cartellino marca-tempo,
attestando le proprie presenze in ufficio, allontanandosene
poi arbitrariamente, ponendo in essere atti idonei e diretti
in modo non equivoco a procurarsi un ingiusto vantaggio».
Orbene, non può che osservarsi che la
timbratura del cartellino marca-tempo, al momento di
accedere in ufficio, è l'adempimento di un dovere del
dipendente legato al rapporto di lavoro esistente con la
pubblica amministrazione, senza alcun riguardo al compimento
di atti connessi all'espletamento dei compiti d'ufficio o di
servizio riferibili all'ente.
Del resto, nella specie, il proscioglimento in sede penale
vi è stato proprio perché il giudice penale ha ritenuto che
l’attività svolta in favore di soggetti privati -durante
l’orario di servizio- non era riconducibile all’espletamento
del servizio o all’adempimento di compiti d’ufficio. |
TRIBUTI:
Il cambio
di classamento deve essere motivato.
Catasto. Va precisato se la variazione di inquadramento
dipende da trasformazioni edilizie o miglioramenti del
contesto urbano.
È nullo per difetto di motivazione l’atto con cui
l'agenzia del Territorio (oggi agenzia delle Entrate)
modifica il classamento di un immobile senza indicare in
maniera specifica le ragioni della rettifica.
Lo ricorda la Ctp
Cosenza (presidente Gaetani, relatore Lento) nella
sentenza 22.09.2015 n. 4850/2/2015.
La controversia scaturisce da un avviso di accertamento, con
cui l’allora agenzia del Territorio variava il classamento
di un immobile. Secondo il ricorrente, la modifica era
inammissibile per “ne bis in idem”, giacché sulla
questione la Ctp si era già pronunciata nel 1998; l’avviso
si doveva comunque ritenere nullo perché carente di
motivazione.
Dal canto suo, l’Agenzia ha dedotto che l’obbligo di
specificare le ragioni del provvedimento era stato assolto
con l’indicazione di categoria e classe dell’immobile.
Inoltre ha precisato che l’appartamento del contribuente era
inserito in un fabbricato di 29 unità abitative, uguali per
tipologia e anno di costruzione; sicché anche al bene del
ricorrente, registrato in A/3, si doveva assegnare la
categoria A/2 attribuita alle altre unità.
Nell’accogliere il ricorso, la Ctp osserva, innanzitutto,
che un precedente giudicato non impedisce
all’amministrazione di effettuare un nuovo classamento in
caso di trasformazione del bene. Nel merito, i giudici
affermano che l’Agenzia, quando modifica d’ufficio il
classamento di un immobile, deve specificare («a pena di
nullità del provvedimento per difetto di motivazione») se il
mutamento è dovuto a:
trasformazioni specifiche dell’unità;
una risistemazione dei parametri della microzona in cui si
trova il bene.
Nel primo caso si devono specificare -prosegue la Ctp,
richiamando l’ordinanza 16643/2013 della Cassazione- «le
trasformazioni edilizie intervenute». Nella seconda
ipotesi va indicato «l’atto con cui si è provveduto alla
revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito
di significativi e concreti miglioramenti del contesto
urbano».
Ciò per consentire al contribuente di valutare se fare
ricorso o prestare acquiescenza al provvedimento, ma anche
per impedire all’amministrazione di addurre, in un eventuale
successivo contenzioso, «ragioni diverse rispetto a
quelle enunciate». In ogni caso, la motivazione del
provvedimento -si legge ancora nella sentenza- non si può
limitare «a contenere l’indicazione della consistenza,
della categoria e della classe attribuita dall’agenzia del
Territorio».
Nel caso in esame, l’atto non solo non richiama le norme di
legge su cui l’amministrazione ha fondato la modifica, ma
soprattutto è «privo di approfondita motivazione»,
giacché è stata omessa la descrizione «delle specifiche e
concrete differenze riscontrate».
La Ctp, inoltre, osserva che l’Agenzia, nel costituirsi in
giudizio, aveva sostenuto di aver disposto il nuovo
classamento per ragioni di uniformità con gli altri immobili
dello stabile e con i fabbricati esistenti nel raggio di 200
metri. Tuttavia, questi chiarimenti non sono presi in
considerazione, dal momento che -sostiene ancora la
Commissione, citando la sentenza 23248/2014 della Corte
suprema- l’amministrazione non può «sopperire con
integrazioni in sede processuale alle lacune dell’atto di
classamento impugnato».
L'avviso è quindi annullato, con condanna dell’Agenzia al
pagamento delle spese processuali (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica dei prospetti.
Appartengono
al novero delle ristrutturazioni (e non delle semplici
manutenzioni) le opere anche solamente interne che alterano,
anche sotto il semplice profilo della diversa distribuzione
dei vani, l'originaria consistenza fisica di un immobile e
comportano l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi.
E tali opere, per costante
giurisprudenza anche amministrativa, non si configurano né
come manutenzione straordinaria, né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano -a pieno titolo e
come da contestazione- nell'ambito della ristrutturazione
edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del genere, è
sufficiente che siano modificati la distribuzione della
superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui
risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per
il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso
esistente.
---------------
L'esecuzione di interventi comportanti la modifica dei
prospetti non rientra nelle tipologie delle ristrutturazioni
edilizie "minori" e come tale richiede il preventivo
rilascio di permesso a costruire.
----------------
In
tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione
d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire,
integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art.
17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014)
all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la
categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al
frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie
o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano
immutate la volumetria complessiva e la originaria
destinazione d'uso.
---------------
Le cosiddette opere interne, di cui al previgente art. 26 L.
47/1985, non sono più previste nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici
esistenti di talché esse rientrano negli interventi di
ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità
immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso.
---------------
Deve escludersi che, entrato in
vigore il D.P.R. 06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus,
di ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in
forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità
all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure
ottenuta.
Tale disposizione, infatti, realizza solo una
semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di
cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi
alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come
dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da
asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici approvati e la loro non
contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti.
---------------
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche se
soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art.
22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non
possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi.
---------------
Gli interventi di ristrutturazione
edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di
inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e
secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in
base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo
della citata disposizione, laddove insistenti in area
paesaggisticamente vincolata, necessitano del preventivo
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
---------------
7. Chiave di volta
della decisione è, infatti, la qualità dei lavori eseguiti
sull'immobile del Sarno con la direzione dei lavori
dell'ing. Ca.: se lavori di manutenzione per lo più
ordinaria e solo in parte straordinaria ovvero se lavori di
ristrutturazione interna, come si legge nell'imputazione.
La conclusione del giudice di prime cure, a cui dire le
opere edilizie de quibus, in quanto assentibili con
semplice DIA e da qualificare di manutenzione straordinaria,
piuttosto che di ristrutturazione interna, come nel capo,
non costituirebbero illecito penale, ma solo amministrativo,
sanzionabile a mente dell'art. 37 piuttosto che dell'art. 44
del D.P.R. 380/2001 non può essere condivisa secondo la
Corte territoriale in quanto non considera né la tipologia
di intervento praticato, né il fatto che il principio
invocato è valido esclusivamente in caso di loro conformità
agli strumenti urbanistici vigenti nel comune di San Giorgio
a Cremano.
Così si evince, fuori da ogni dubbio, secondo i giudici del
gravame del merito, dalla piana lettura dell'art. 22 del
precitato testo normativo il cui I comma recita testualmente
"Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività
gli interventi non riconducibili all'elenco di cui
all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente",
risulta integrata la fattispecie penalmente sanzionata.
In primo luogo, secondo quanto si legge nella motivazione
del provvedimento impugnato, vanno qualificati gli
interventi edilizi in parola, atteso che, ancorché senza
aumento volumetrico, appartengono al novero
delle ristrutturazioni (e non delle semplici manutenzioni)
le opere anche solamente interne che alterano, anche sotto
il semplice profilo della diversa distribuzione dei vani,
l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportano
l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi.
Corretta è l'affermazione secondo cui
queste ultime, per costante giurisprudenza anche
amministrativa, non si configurano né come manutenzione
straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo,
ma rientrano -a pieno titolo e come da contestazione-
nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
Perché sia ravvisabile un intervento del genere, è
sufficiente che siano modificati la distribuzione della
superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui
risultavano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per
il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso
esistente.
Ebbene, proprio dalla lettura della DIA -rileva la Corte
territoriale- si acquisisce la certezza che si versi in tale
ipotesi, essendo stati gli interventi giustificati dalla
necessità di una diversa distribuzione degli spazi interni
alfine di adeguare gli impianti igienici alle regole
comunitarie, a nulla rilevando il fatto che non sia stata
interessata la struttura portante del fabbricato e che il
volume e le superfici dello stesso siano rimaste immutate.
La modifica delle aperture sui muri di tompagno, invero,
viene ricordato nella sentenza impugnata, ha comunque
modificato i prospetti, alterando la sagoma. E sul punto non
va dimenticato che questa Corte di legittimità ha precisato
che l'esecuzione di interventi comportanti
la modifica dei prospetti non rientra nelle tipologie delle
ristrutturazioni edilizie "minori" e come tale
richiede il preventivo rilascio di permesso a costruire
(sez. 3, n. 38338 del 21.05.2013, Cataldo, rv. 256381,
fattispecie in cui è stato ritenuto integrato il reato dì
cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001; conf. sez. 3, n.
48478 del 07.11.2013, Cottone, rv. 258352).
Questa Corte di legittimità ha anche precisato che,
in tema di reati urbanistici, il mutamento di
destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere
edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate
dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164
del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere
la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria
al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie
o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano
immutate la volumetria complessiva e la originaria
destinazione d'uso
(sez. 3, n. 3953 del 16.10.2014 dep. il 28.1.2015, Statuto,
rv. 262018, fattispecie relativa a trasformazione,
attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da
deposito ad uso residenziale).
8. Né giova, secondo il condivisibile opinare dei giudici di
appello, il riferimento alla conservazione del procedimento
amministrativo per le cosiddette opere interne di cui al
previgente art. 26 L. 47/1985 le quali non sono più previste
nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 come categoria autonoma di
intervento edilizio sugli edifici esistenti di talché
esse rientrano negli interventi di
ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità
immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti
-com'è nel caso di specie- e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso
(corretto è il richiamo al dictum di questa Corte
Suprema di cui a sez. 3 n. 47438 del 24/11/2011 , Truppi, rv.
251637; vedasi anche in senso conf. sez. 3, n. 27713 del
20.5.2010, Olivieri ed altro, rv. 247919; sez. 3, n. 35177
del 12.7.2001 dep. 21.10.2002, Cinquegrani, rv. 222740).
Come ricorda in sentenza la Corte napoletana
deve escludersi che, entrato in vigore il D.P.R.
06.06.2001 n. 380, gli interventi de quibus, di
ristrutturazione edilizia, siano senz'altro eseguibili in
forza di dichiarazione di inizio di attività, in conformità
all'art. 22, comma 3, lett. a), D.P.R. n. 380, cit., pure
ottenuta. Tale disposizione, infatti, realizza solo una
semplificazione procedurale nel senso che gli interventi di
cui trattasi sono eseguibili a mezzo di DIA, purché conformi
alle disposizioni dello strumento urbanistico generale, come
dimostra la circostanza che essa dev'essere accompagnata da
asseverazione circa la conformità delle opere da realizzare
agli strumenti urbanistici approvati e la loro non
contrarietà con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti.
...
9. La Corte territoriale analizza in maniera approfondita e
corretta i risvolti normativi che giustificavano la
necessità del permesso di costruire per l'opera realizzata.
E fa buon governo della giurisprudenza di questa Corte di
cui alla richiamata sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010:
gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche
se soggetti a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art.
22, commi primo e secondo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non
possono essere eseguiti su immobili originariamente abusivi
(sez. 3, n. 8739 del 21.01.2010, Perna, rv. 246217, relativa
ad un caso di un intervento di demolizione e ricostruzione,
eseguito in base a D.I.A., di un preesistente manufatto
abusivamente realizzato).
Nella stessa sentenza 8739/2014 si precisa, peraltro, che
gli interventi di ristrutturazione
edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice"
denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi
primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se
eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal
comma terzo della citata disposizione, necessitano del
preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da
parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
(in motivazione la Corte ha precisato che solo per gli
interventi di restauro e risanamento conservativo e per
quelli di manutenzione straordinaria non comportanti
alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore
degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta
dall'autorizzazione paesaggistica)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2015 n. 38139 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio della valutazione paesaggistica ed estinzione
reato.
La punibilità del reato di pericolo previsto
dall'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, non è subordinata alla
sussistenza di un effettivo pregiudizio per l'ambiente, ma
discende dalla realizzazione ex se di una qualsivoglia opera
abusiva in area vincolata, potendo essere escluso l'illecito
soltanto nell'ipotesi di interventi di "minima entità", e
cioè di quelli inidonei, già in astratto, a porre in
pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale.
---------------
la natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e
superfici va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero
nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non
funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e
provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di
carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori
dei casi ivi espressamente previsti.
---------------
Il rilascio della valutazione paesaggistica non determina
automaticamente la non punibilità in ordine al reato
contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti la "sanatoria".
---------------
3. Il ricorso è
manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, osserva la Corte che, per
costante indirizzo di legittimità, la
punibilità del reato di pericolo previsto dall'art. 181,
d.lgs. n. 42 del 2004, non è subordinata alla sussistenza di
un effettivo pregiudizio per l'ambiente, ma discende dalla
realizzazione ex se di una qualsivoglia opera abusiva
in area vincolata, potendo essere escluso l'illecito
soltanto nell'ipotesi di interventi di "minima entità",
e cioè di quelli inidonei, già in astratto, a porre in
pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale
(Sez. 3, n. 37337 del 16/04/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez.
3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv. 245908).
Orbene, la Corte di appello ha fatto buon governo di questo
principio, come emerge dal complessivo tenore della
pronuncia che evidenzia la natura non irrilevante degli
interventi eseguiti; a fronte della quale, peraltro, la
doglianza in oggetto -secondo cui, nella vicenda in esame,
non si sarebbe realizzata alcuna lesione del paesaggio-
contiene l'esplicita richiesta di una valutazione in punto
di fatto (in specie, circa il carattere "interno"
degli interventi), che questa Corte non è legittimata a
compiere, potendo valutare soltanto la coerenza strutturale
della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il
profilo logico-argornentativo, e restando preclusa la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri
di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez.
3, n. 12110 del 19/03/2009, Campanella, n. 12110, Rv.
243247).
4. Con riguardo, poi, al secondo, terzo e quarto motivo, da
esaminare congiuntamente, ritiene la Corte che gli stessi
siano parimenti del tutto infondati.
La sentenza di appello ha dato conto dell'avvenuto rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte della
Soprintendenza competente, ma -con motivazione adeguata e
fondata su riscontri istruttori- ha altresì individuato gli
errati presupposti di fatto in forza dei quali il
provvedimento medesimo era stato emanato; in particolare,
quello, «tratto dalla documentazione prodotta a corredo
dell'istanza, che trattasi di "interventi di piccola entità
che riguardano opere pertinenziali con struttura precaria" e
senza valutare che "i pilastrini sono all'interno annegati
nella struttura", come chiarito davanti a questa Corte dal
funzionario della Sovrintendenza responsabile del
procedimento».
Questa considerazione, poi, si lega strettamente alle
precedenti, con le quali il Collegio di merito ha escluso la
natura precaria e pertinenziale degli interventi; ciò, in
particolare, alla luce della difficile amovibilità delle
strutture (evidenziata anche dal perito d'ufficio), «dal
momento che sono stati utilizzati profilati in acciaio
scatolare saldati tra loro e collegati alle strutture
murarie senza piastre o altri idonei sistemi di fissaggio
poiché "direttamente annegate alle murature"».
Quel che ha condotto la Corte -con solido argomento
logico-giuridico, peraltro nient'affatto confutato dal
presente ricorso- ad affermare che la Ma. aveva realizzato
un vero e proprio ampliamento della superficie utile
abitabile, in ottica tutt'altro che precaria (ampliamento
del vano lavanderia, trasformazione del vano cucina in
locale bagno, realizzazione di una struttura scatolare a
copertura del vano scale); sì da aderire al costante
indirizzo di legittimità in forza del quale
la natura precaria delle opere di chiusura e di
copertura di spazi e superfici,
per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del
2003 (applicata dal primo Giudice quanto al reato
urbanistico) non richiede concessione e/o autorizzazione,
va intesa secondo un criterio strutturale,
ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non
funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e
provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di
carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori
dei casi ivi espressamente previsti
(Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv. 261156; Sez.
3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi, Rv. 246771).
Facile rimovibilità esclusa dalla Corte, in ragione delle
pacifiche conclusioni del perito di ufficio.
Dal che l'affermazione -logica ma priva di effetti- per cui
il Tribunale non avrebbe dovuto assolvere la Ma.
dall'imputazione di cui all'art. 44, lett. c), d.P.R.
06.06.2001, n. 380, attesa la configurazione del reato.
Orbene, in forza di queste diffuse e congrue considerazioni,
la Corte di merito ha quindi affermato la sussistenza del
delitto pur a fronte del rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica; rilascio avvenuto su un presupposto -la già
richiamata natura precaria degli interventi- poi
verificatosi inesistente. Quel che ha condotto lo stesso
Collegio a confermare l'indirizzo per cui
il rilascio della valutazione paesaggistica all'esito della
menzionata procedura non determina automaticamente la non
punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere
sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti
di fatto e di diritto legittimanti la "sanatoria"
(per tutte, Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011, Falconi+2, non
massimata)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.09.2015 n. 38134 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Chiusura per chi occupa abusivamente suoli
pubblici.
È lecita la chiusura dell'esercizio commerciale che occupa
abusivamente il suolo pubblico.
A disporlo è il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, che con la
sentenza
18.09.2015 n.
11297 e
sentenza 18.09.2015 n. 11300, legittima l'operato
di un comune, il quale, al fine di contenere il crescente
fenomeno di occupazione abusiva di suolo pubblico da parte
di titolari di esercizi commerciali, ha rispolverato una
norma del 2009 che per troppo tempo era rimasta nel
dimenticatoio.
Si tratta, infatti, dell'art. 3, comma 16,
della legge n. 94 del 2009 il quale dispone che nei casi di
indebita occupazione di suolo pubblico il sindaco può
ordinare l'immediato ripristino dello stato dei luoghi a
spese degli occupanti e, se si tratta di occupazione a fine
di commercio, la chiusura dell'esercizio fino al pieno
adempimento dell'ordine e del pagamento delle spese o della
prestazione di idonea garanzia e, comunque, per un periodo
non inferiore a cinque giorni.
L'amministrazione comunale,
nei confronti di un esercizio commerciale che aveva
effettuato un'occupazione senza essere in possesso della
relativa concessione, ha reagito disponendo la rimozione
dell'occupazione abusiva del suolo pubblico antistante
l'esercizio per l'immediato ripristino dello stato dei
luoghi a cura e spese dell'interessato, nonché la chiusura
dell'esercizio per un periodo pari a cinque giorni e,
comunque, fino al completo ripristino dello stato dei
luoghi.
Immediata è stata la reazione dell'interessato, il
quale ha subito eccepito che la questione relativa
all'occupazione di suolo pubblico doveva essere ricondotta
nel vasto novero delle attività commerciali per le quali
vige, per conforme normativa nazionale ed europea, il
principio della libertà di attività commerciale e la
possibilità per il cittadino di accedere liberamente alla
medesima senza alcuna limitazione.
Pertanto
l'amministrazione comunale non potrebbe negare o differire
nel tempo il rilascio della concessione. Tale prospettazione
non è stata però condivisa dai giudici di palazzo Spada i
quali hanno precisato che la tutela costituzionale
dell'iniziativa economica incontra il limite dell'utilità
sociale (art. 41 Cost.).
Nella specie il legislatore, nell'esercizio non
irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che lo
svolgimento di tali attività commerciali in maniera non
conforme alle regole di disciplina della materia e in
particolare di uso del territorio cittadino giustifica
l'applicazione della sanzione della chiusura, per un periodo
di tempo limitato, del relativo esercizio commerciale
(articolo ItaliaOggi del 10.10.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La riduzione dei compensi dell'avvocato in presenza di nota
spese, se non motivata, dovrà ritenersi illegittima.
Riduzione dei compensi, ok solo se motivata.
A sottolinearlo sono stati i giudici della I Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
17.09.2015 n. 18238.
I giudici di piazza Cavour hanno, altresì, evidenziato come
la determinazione degli onorari di avvocato e degli
(onorari) e diritti di procuratore rappresenta, secondo
quanto anche affermato già nel 1993 dalla medesima
Cassazione (si veda: Cass., 19/10/1993, n. 10350),
«esercizio di un potere discrezionale del giudice che,
qualora sia contenuto tra il minimo e il massimo della
tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può
formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non
quando sia stato l'interessato stesso a specificare le
singole voci della tariffa che assume essere state violate».
Inoltre, qualora ci si trovi in presenza di una nota
specifica prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice non
potrà limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di
procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore
a quelli esposti, ma avrà l'onere di dare adeguata
motivazione dell'eliminazione e della riduzione di voci da
lui operata, al fine evidente di consentire, attraverso il
sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità
della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle
tariffe, in relazione all'inderogabilità dei relativi
minimi, a norma della legge n. 794 del 1942, art. 24 (si
vedano: Cass., 30/03/2011, n. 7293; Cass., 30/10/2009, n.
23059; Cass., 24/02/2009, n. 4404).
Sarà, quindi, dovere del giudice quello di indicare
dettagliatamente le singole voci che riduce, perché chieste
in misura eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in
modo da consentire l'accertamento della conformità della
liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe in
relazione all'inderogabilità dei minimi (si veda anche:
Cass., 08/02/2007, n. 2748).
La Corte di cassazione, nel caso specifico, era stata
chiamata ad esprimersi sul seguente thema decidendum: un
soggetto adiva la Corte di cassazione asserendo che la Corte
d'appello, quale giudice di rinvio in una causa avente ad
oggetto la determinazione di indennità di espropriazione e
di occupazione legittima, aveva liquidato le spese e
competenze delle tre fasi processuali d'ufficio in misura
ridotta rispetto a quanto richiesto, con indicazioni e voci
di spesa dettagliate
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli edilizi. Impugnazione Vicinitas
sufficiente.
Ai fini del riconoscimento della sussistenza delle
condizioni che legittimano all'impugnazione di singoli
titoli edilizi, vale il principio della sufficienza della
sola vicinitas, con esclusione di qualunque indagine volta
ad accertare, in concreto, l'esistenza di un obiettivo
pregiudizio per il soggetto che agisce in giudizio.
È quanto hanno ribadito i giudici della I Sez. del
TAR Liguria con la
sentenza
17.09.2015 n. 746.
Circa, poi, l'eccezione di inammissibilità della
domanda di annullamento della Dia i giudici amministrativi
genovesi hanno richiamato il comma 6-ter dell'art.19 della
legge n. 241/1990, aggiunto dall'art. 6, comma 1, lett. c),
del dl n. 138/2001, che espressamente prevede che la Dia non
costituisce un provvedimento tacito direttamente
impugnabile.
È inoltre previsto, al secondo periodo del
comma citato, che «gli interessati possono sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui
all' art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104». Pertanto la tutela del terzo che si
ritiene leso dalla Dia, atto dichiaratamente non provvedimentale, potrebbe essere affidata esclusivamente a
meccanismi sollecitatori della pubblica amministrazione e,
in sede giurisdizionale, all'attivazione dello speciale rito
del silenzio.
Se si prende, inoltre, in considerazione l'esclusività del
rimedio giurisdizionale approntato dal legislatore, va
altresì esclusa, secondo i giudici liguri, «l'ammissibilità
dell'azione intesa a sindacare il mancato esercizio dei
poteri inibitori che competono all'amministrazione».
Non è, infine, possibile ipotizzare nel caso sottoposto
all'attenzione del tribunale amministrativo ligure, neppure,
d'altronde, la sua convertibilità in azione avverso il
silenzio, poiché non risulta che fosse stata presentata
alcuna istanza diretta a sollecitare l'esercizio dei poteri
inibitori suddetti e conseguentemente non è possibile
ipotizzare nella fattispecie un'ipotesi di silenzio
inadempimento censurabile con il ricorso ex art. 31 cod.
proc. amm.
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015).
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MASSIMA
1) La ricorrente, proprietaria di una porzione di un
fabbricato in Pieve Ligure e residente in altro immobile
sito nello stesso Comune, agisce per conseguire
l’annullamento della denuncia di inizio attività (d.i.a.) e
degli atti presupposti aventi ad oggetto un intervento di
demolizione e ricostruzione, con ampliamento volumetrico,
della porzione dello stesso fabbricato di proprietà del
controinteressato.
Come già precisato in premessa, l’intervento in questione
comporta la sopraelevazione di un piano della parte di
immobile del controinteressato che, in conseguenza, si
eleverà per due piani fuori terra, sovrastando la porzione
di cui è proprietaria la ricorrente.
In alternativa all’azione di annullamento, l’esponente
chiede che sia accertata l’illegittimità del comportamento
del Comune che non ha esercitato i poteri inibitori nei
confronti della d.i.a. asseritamente illegittima.
2) In via preliminare, la difesa del controinteressato
eccepisce l’inammissibilità del ricorso per mancanza di
interesse ad agire.
Infatti, la proprietà immobiliare della ricorrente,
destinata a box auto, non sarebbe in alcun modo
pregiudicata, né in termini di funzionalità né di valore
commerciale, dal contestato intervento edificatorio.
L’interesse all’impugnazione, peraltro, non potrebbe
fondarsi sulla circostanza di essere residente nello stesso
Comune, stante la notevole distanza che separa l’abitazione
della ricorrente dall’immobile del controinteressato.
L’eccezione contrasta con l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui,
nel caso di impugnazione di
singoli titoli edilizi, vale il principio della sufficienza,
ai fini del riconoscimento della sussistenza delle
condizioni che legittimano all’impugnazione, della sola
vicinitas, con esclusione di qualunque indagine volta ad
accertare, in concreto, l’esistenza di un obiettivo
pregiudizio per il soggetto che agisce in giudizio
(cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2014, n.
1217; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.09.2014, n. 752).
Non ravvisando ragioni per discostarsi da tale consolidato
orientamento, il Collegio ritiene che l’eccezione in parola
debba essere disattesa, poiché l’interesse
all’impugnazione della ricorrente deriva dall’evidente
vicinitas tra l’immobile di proprietà e quello che forma
oggetto del contestato intervento edificatorio
(si tratta, anzi, di due porzioni di un fabbricato unico).
3) E’ fondata, invece, l’eccezione di inammissibilità della
domanda di annullamento della d.i.a.
Il comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241/1990,
aggiunto dall’art. 6, comma 1, lett. c), del d.l. n.
138/2001, prevede espressamente, infatti, che la d.i.a. non
costituisce un provvedimento tacito direttamente
impugnabile.
E’ inoltre previsto, al secondo periodo del comma citato,
che “gli interessati possono sollecitare l’esercizio
delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di
inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all'art.
31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n.
104”.
In forza di tali previsioni, pacificamente applicabili
ratione temporis nella vicenda che forma oggetto della
controversia, la tutela del terzo che si
ritiene leso dalla d.i.a., atto dichiaratamente non
provvedimentale, è affidata esclusivamente a meccanismi
sollecitatori della pubblica amministrazione e, in sede
giurisdizionale, all’attivazione dello speciale rito del
silenzio.
Nel caso in esame, pertanto, la possibilità di esperire
l’azione di annullamento della d.i.a. deve essere esclusa
direttamente in forza della previsione legislativa.
Considerando l’esclusività del rimedio
giurisdizionale approntato dal legislatore, va altresì
esclusa l’ammissibilità dell’azione intesa a sindacare il
mancato esercizio dei poteri inibitori che competono
all’amministrazione.
Non si può neppure ipotizzare, d’altronde, la sua
convertibilità in azione avverso il silenzio, poiché non
risulta che fosse stata presentata alcuna istanza diretta a
sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori suddetti e non
può, in conseguenza, configurarsi nella fattispecie
un’ipotesi di silenzio inadempimento censurabile con il
ricorso ex art. 31 cod. proc. amm.
Per tali ragioni, deve essere dichiarata inammissibile
l’azione proposta avverso la d.i.a.. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Consiglio
di stato in Cassazione. Decisione impugnabile se viola i
confini tra le funzioni.
Il Supremo consesso precisa le coordinate entro
le quali le sentenze sono contestabili.
Precisate le coordinate entro le quali è impugnabile in
Cassazione una sentenza del Consiglio di stato: con la
sentenza 15.09.2015 n. 18079 il Supremo consesso
-Sezz. Unite civili- ha avuto modo di definire le linee di
confine tra le due diverse giurisdizioni, affermando che «in
linea generale, si può impugnare una decisione del Consiglio
di stato per aver violato o i confini che distinguono le
funzioni dello Stato (legislativa, amministrativa,
giurisdizionale) o, all'interno della funzione
giurisdizionale, i confini che distinguono tra giudice
ordinario, giudice amministrativo e altri giudici speciali».
In dettaglio, era accaduto che dopo aver partecipato
all'esame per l'abilitazione all'esercizio della professione
forense, un dottore in legge aveva impugnato le valutazioni
negative relative ai suoi elaborati contestando il metodo di
giudizio della commissione esaminatrice; mentre il Tar
competente accoglieva l'istanza cautelare, ritenendo
immotivati e irragionevoli i giudizi espressi, il Cds
(davanti al quale il ministero della giustizia aveva
proposto appello) si esprimeva in senso opposto, annullando
la sentenza e compensando le spese. A questo punto,
l'aspirante avvocato si rivolgeva direttamente alle sezioni
unite della cassazione con un unico motivo di ricorso.
Nel ricordare che non hanno il compito (ed il conseguente
potere) di valutare nel merito il giudizio del Cds, le S.u.
spiegano che il ricorrente aveva scambiato per «rifiuto
od omissione» di giurisdizione quello che invece era
stato un esercizio della giurisdizione: il Cds si era
infatti espresso in maniera articolata, richiamando i
principi giuridici che regolano la materia, valutando i
giudizi della commissione d'esame e le argomentazioni
critiche del Tar e spiegando i motivi per i quali aveva
ritenuto, in difformità dal giudizio del Tar, che la
commissione, nel valutare gli elaborati, non avesse
travisato i fatti né tanto meno avesse formulato un giudizio
qualificabile come manifestamente illogico.
Per questi motivi lo hanno dichiarato inammissibile, proprio
«perché si colloca al di fuori dell'ambito entro il quale
una decisione del Consiglio di Stato può essere oggetto di
ricorso per Cassazione» (articolo ItaliaOggi Sette
del 05.10.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso per motivi aggiunti, paletti anti-abusi.
Tar Lombardia: non si può considerare come memoria
notificata.
l ricorso per motivi aggiunti non può essere neppure
considerato come «memoria notificata», perché, in quanto
tale, dovrebbe essere depositata (previa sua notificazione)
entro i termini di cui all'art. 73 c.p.a. tenuto conto della
fissazione dell'udienza di merito e comunque la
dichiarazione circa la sua proposizione non potrebbe in
alcun modo giustificare un rinvio della trattazione di
merito.
È quanto hanno affermato i giudici della III Sez. del
TAR Lombardia-Milano, con la
sentenza
14.09.2015 n. 1974.
I giudici amministrativi milanesi ribadiscono poi, nella
sentenza in commento, che ai sensi dell'art. 43 c.p.a.,
possono essere introdotti con motivi aggiunti «nuove
ragioni» a sostegno delle domande già proposte, oltre che
domande nuove purché connesse a quelle già proposte.
Si tratta, quanto ai primi, dei motivi aggiunti c.d.
«propri», volti a integrare la causa petendi, e, quanto ai
secondi, dei motivi aggiunti c.d. «impropri», volti
all'ampliamento del petitum, oltre che delle causa petendi.
Ebbene: «Secondo una definizione ormai comune in dottrina e
in giurisprudenza, i motivi aggiunti propri contengono
censure nuove, proposte contro il provvedimento già
impugnato con l'atto introduttivo del giudizio con lo scopo
di evidenziare ulteriori vizi conosciuti solo
successivamente, mentre sono motivi aggiunti cd. impropri,
quelli che, seppur contenenti una domanda nuova, sono
materialmente inseriti nello stesso processo, per ragioni di
connessione oggettiva e di concentrazione della decisione
(Consiglio di stato, sez. IV, 03.09.2014, n. 4480)».
Non bisogna, quindi, incorrere, secondo il tribunale
amministrativo lombardo nell'ipotesi di abuso del processo
che si potrebbe facilmente riscontrare in caso di esercizio
improprio, sul piano funzionale e modale, del potere
discrezionale della parte di scegliere le più convenienti
strategie di difesa (si veda: Consiglio di stato, sezione IV,
02.03.2012, n. 1209; Ad. Plen. 23.03.2011 n. 3).
Vige
infatti nel nostro sistema (si vedano: Cass. Sez. I 12.05.2011, n. 10488; idem
03.05.2010, n. 10634; Ss.uu. 15.11.2007, n. 23726) un
generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, il
quale, ai sensi dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c.,
permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti
processuali di esercizio del diritto, e che quindi si
applica anche in chiave processuale
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Da soffitta ad alloggio: non basta la Dia.
Tar Lazio.
L’ordinanza di demolizione è legittima se per lavori che
prevedono un cambio di destinazione d’uso tra due categorie
edilizie diverse manca il «permesso di costruire» rilasciato
dalla Pa.
L’ha chiarito il TAR
Lazio-Roma nella
sentenza 11.09.2015
n. 11216, depositata dalla Sez. I-quater, bocciando
il ricorso di un privato che chiedeva di annullare l’ordine
di demolizione disposto da un Comune per i lavori di
ristrutturazione e «risanamento conservativo» di una
soffitta di inizio 900 ormai pericolante.
Secondo il
ricorrente, tali interventi erano realizzabili con la
denuncia di inizio attività (Dia) presentata in base alle
norme del Testo unico dell’edilizia (articolo 22, Dpr
380/2001) e l’ordinanza era nulla poiché «il bene preesiste
agli interventi di mero risanamento», non essendo cioè
un’opera di nuova costruzione per cui è richiesto il
permesso di costruire (lettera c, comma 1, articolo 10,
Testo unico).
I lavori avevano portato al «cambio di destinazione d’uso da
soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche
singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica
della sagoma dell’edificio». I giudici hanno spiegato che
«in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento
conservativo, necessitano del preventivo rilascio del
permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento
di destinazione d’uso tra due categorie funzionalmente
autonome (mutamento d’uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno
spazio destinato a soffitta)».
Il Tar, in pratica, ha
precisato come «solo il cambio di destinazione d’uso fra
categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
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MASSIMA
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia
la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha
ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza
permesso di costruire su immobile di proprietà della
ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta
(sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a
forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo,
con contestuale apertura di una nuova porta all’interno
della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di
impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire
meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del
manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il
provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita
considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo,
l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di
accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a
seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di
lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel
corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi
di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote
d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso
alla soffitta e di diversa distribuzione interna,
sono state
eseguite una serie di opere sistematicamente volte a
determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad
abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente
considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma
dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte,
depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a
seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un
incremento volumetrico, con la conseguenza che non può
essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella
parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla
DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di
costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e
maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di
volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle
suddette opere di ristrutturazione la realizzazione
dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in
quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide
sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia
della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è
subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone
l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in
corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono
idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della
soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate
sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica,
come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro
e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo
rilascio del permesso di costruire ogni qual volta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si
deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile
uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra
categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di
costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico),
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente
dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame
sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con
cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n.
380/200, è stata ordinata la demolizione delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1,
lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di
costruire, ed il ricorso deve essere respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
Nella concreta gestione la parola al dirigente.
Nel caso in cui l'oggetto del provvedimento amministrativo
riguardi la concreta gestione e organizzazione di un
servizio pubblico, disciplinato da atti normativi di vario
livello, la competenza spetta agli organi dirigenziali e non
al Sindaco.
È quanto hanno stabilito i giudici della II Sez. del
TAR Sardegna con la
sentenza
11.09.2015 n. 1018.
Si pensi, a mo' di esempio, al caso in cui il provvedimento
riguarda la regolazione delle modalità di conferimento dei
rifiuti solidi urbani, in una specifica e circoscritta zona
del territorio comunale.
Infatti, la materia oggetto degli atti impugnati posti
all'attenzione dei giudici amministrativi sardi, riguardava
proprio un particolare profilo di organizzazione e gestione
del servizio di ritiro e conferimento dei rifiuti solidi
urbani comunali.
I giudici cagliaritani, nel caso specifico,
hanno osservato come l'art. 107 del Tuel riservi alla
competenza dei dirigenti l'intera gestione amministrativa
dei comuni, con un'ampia formula secondo la quale «spettano
ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti
e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi
di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del
segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente
agli articoli 97 e 108».
E', poi, la medesima norma a individuare una sorta di limite
nelle disposizioni di legge o di statuto che individuano le
competenze degli organi di indirizzo politico; limite, che
costituisce la traduzione in termini più specifici del
principio di distinzione tra gestione, da un lato, e
indirizzo e controllo dall'altro.
Si osserva, inoltre, che l'art. 54 del Testo unico degli
enti locali, subordina il potere di ordinanza del sindaco a
diversi presupposti, tra i quali (tipicamente) la necessità
e l'urgenza «di prevenire e di eliminare gravi pericoli
che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, l'abusivo può avere l'esposto.
Qualcuno ha fatto la «spia» ai vigili. A un vicino i lavori
edilizi nella casa attigua proprio non sono andati giù e si
è rivolto alla Municipale. Ecco allora che il proprietario
dell'immobile chiede di vedere l'esposto contro di lui ma il
comando della polizia locale risponde che l'accesso è
precluso dall'articolo 329 Cpp in quanto è stata comunicata
una notizia di reato.
In realtà, invece, il responsabile dei lavori ha diritto a
leggere l'esposto anche se rischia l'incriminazione penale:
in questo caso la comunicazione dei vigili in procura non
rientra fra le attività di polizia giudiziaria, mentre chi è
soggetto a un controllo o a un'ispezione ha l'interesse
qualificato a conoscere tutti i documenti dai quali
scaturisce l'iniziativa.
È quanto emerge dalla
sentenza 10.09.2015 n. 11188, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Lazio-Roma.
Secondo cui la polizia municipale, in quanto espressione del
comune, agisce nell'ambito della sua attività istituzionale,
che è amministrativa e non come polizia giudiziaria laddove
ha ricevuto l'esposto dal terzo.
Risulta dunque esclusa l'applicazione della regola secondo
cui gli atti d'indagine compiuti dal pm e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando
l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari.
Deve invece riconoscersi al proprietario dell'immobile la
sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale di
accedere a esposti o denunce presentati nei suoi confronti
(articolo ItaliaOggi del 13.10.2015).
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MASSIMA
... ritiene il Collegio che il ricorso meriti favorevole
esame.
La gravata determinazione oppone un diniego all’istanza del
ricorrente, volta ad ottenere l’accesso all’esposto
presentato nei suoi confronti con riguardo a lavori edili
eseguiti nella propria abitazione, nel ritenuto presupposto
che essendo stato trasmessa comunicazione di notizia di
reato all’Autorità Giudiziaria ed essendo in corso
l’attività di indagine vi osterebbe la previsione recata
dall’art. 329 c.p.p.
Al riguardo, osserva il Collegio l’erroneità della
motivazione posta a base del gravato diniego in quanto, in
adesione alla giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis,
da ultimo: Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.01.2013 n. 547;
TAR Reggio Calabria 22.10.2014 n. 584),
non
ogni denuncia di reato presentata all'autorità giudiziaria
costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e
come tale sottratta all'accesso, dal momento che, se la
denuncia è presentata dalla p.a. nell'esercizio delle
proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade
nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.,
diversamente da quanto accade nell’ipotesi in cui la p.a.
che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato
non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale
attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall'ordinamento, venendo in rilievo in tali casi atti di
indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali,
sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329
c.p.p. che sono conseguentemente sottratti all'accesso ai
sensi dell'art. 24 della legge n. 241 del 1990.
Esclusa quindi l’applicabilità, alla fattispecie in esame,
dell’art. 329 c.p.p. –il quale prevede, al comma 1, che gli
atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando
l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari– e ciò in
quanto la comunicazione effettuata dall’Amministrazione
all’Autorità Giudiziaria non rientra tra le attività di
polizia giudiziaria attribuite all’Amministrazione stessa,
ritiene ancora il Collegio, quanto a verifica della
sussistenza dei presupposti per l’accesso, che
deve in linea generale riconoscersi in capo
all’istante la sussistenza di un interesse diretto, concreto
e attuale di accedere ad esposti o denunce presentati nei
suoi confronti, trattandosi di interesse collegato ad una
situazione giuridicamente tutelata in capo al soggetto
istante e connesso al documento al quale è chiesto
l'accesso.
Chi subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha, infatti, un interesse qualificato a conoscere
integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati
nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli
atti d'iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto,
denunce o esposti, non essendovi, alla luce del quadro
normativo di riferimento, ostacoli a tale diritto di
accesso, non offrendo l’ordinamento tutela alla segretezza
delle denunce, a meno che la comunicazione del nominativo
del denunciante non si rifletta negativamente sullo sviluppo
dell'istruttoria, il che può unicamente giustificare il
differimento del diritto di accesso, ma non consente,
invece, il diniego del diritto alla conoscenza degli atti
(Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2009, n. 3081; Sez. VI,
25.06.2007 n. 3601).
Nello stesso senso, ancor più di recente,
il Consiglio di Stato
(Sez. III, 08.09.2014, n. 4539) ha
riconosciuto l'ostensibilità delle denunce che hanno dato
origine ad un accertamento medico a cui è stato sottoposto
il lavoratore, da parte del datore di lavoro, ancorché
conclusosi con esito negativo.
I richiamati principi di diritto, che trovano applicazione
alla fattispecie in esame, conducono quindi all’accoglimento
del ricorso, dovendo per l’effetto disporsi l'annullamento
del gravato provvedimento di diniego con contestuale ordine,
alla resistente Amministrazione, di consentire l’accesso al
ricorrente, mediante estrazione di copia, all’esposto
presentato nei suoi confronti entro il termine di 30
(trenta) giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione
se anteriore, della presente pronuncia. |
LAVORI PUBBLICI:
La
prosecuzione dell’attività «salva» i contratti pubblici.
Concordato. Non serve l’ok del giudice.
Quando, durante la fase del concordato “in
bianco”, si prospetta un concordato con continuità diretta,
i contratti pubblici in essere al momento del deposito della
domanda proseguono senza necessità di un’autorizzazione da
parte del giudice.
Ad affermarlo è il
TRIBUNALE di Mantova (ordinanza 10.09.2015,
presidente Alfani, relatore De Simone).
Nella vicenda sottoposta all’attenzione del tribunale una
società per azioni operante nel settore della costruzione di
strade, autostrade e piste aeroportuali aveva proposto
domanda di concordato preventivo e, con successiva istanza,
aveva rappresentato la volontà di proseguire e regolarmente
adempiere ai contratti pubblici pendenti.
La legge fallimentare prevede che i contratti in corso di
esecuzione alla data di deposito della domanda di concordato
non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura.
Per quanto riguarda i contratti stipulati con pubbliche
amministrazioni, l’articolo 186-bis della legge fallimentare
stabilisce però che la prosecuzione automatica dei contratti
in essere riguarda solo le proposte di concordato in
continuità aziendale.
L’autorizzazione del tribunale è invece necessaria per la
partecipazione dell’imprenditore a procedure di affidamento
di nuovi contratti pubblici. La norma non prevede
espressamente l’automatica prosecuzione dei contratti
stipulati con la Pa durante il tempo del concordato in
bianco.
Il giudice mantovano ha ricollegato la fattispecie
sottoposta alla sua attenzione, ossia il caso in cui durante
il concordato in bianco venga prospettato un concordato con
continuità diretta, all’istituto del concordato con
continuità aziendale: ne consegue che i contratti in corso
possono proseguire regolarmente anche durante il tempo del
concordato in bianco senza alcuna necessità di
autorizzazione da parte del tribunale.
Il giudice di primo grado ha cioè ritenuto che, durante il
concordato in bianco, l’automatica prosecuzione dei
contratti in corso stipulati con le pubbliche
amministrazioni, quand’anche non espressamente prevista per
il concordato con continuità diretta, si evince dal
complesso delle disposizioni normative in quanto il
concordato in continuità diretta è una delle forme in cui si
attua il concordato il continuità aziendale.
Secondo il collegio, la norma prevista in materia di
continuità aziendale, si limita ad imporre all’imprenditore,
in sede di deposito del piano, di armonizzare la
prosecuzione dei rapporti in essere intervenuta ex lege
con il piano concordatario predisposto. La prosecuzione dei
rapporti in essere non è invece subordinata all’ammissione
dell’imprenditore alla procedura. L’automatica prosecuzione
appare altresì coerente con la logica della continuità
aziendale a cui la stabilità contrattuale è sottesa.
Il tribunale mantovano ha dunque rigettato la richiesta
dell’imprenditore ritenendo che quando, durante il periodo
del concordato in bianco, viene prospettato un concordato
con continuità diretta, i contratti pubblici in essere al
momento del deposito della domanda proseguono senza
necessità di autorizzazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.10.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Rimescolate le carte sulla campionatura.
Il Consiglio di Stato (Sez. III,
sentenza
08.09.2015 n. 4191)
rimescola le carte sul valore della campionatura in tema di
appalti pubblici.
Partendo dal dato normativo (art. 42,
comma 1, lett. l), ha ritenuto che la funzione della
campionatura non sia quella di rappresentare (o integrare)
l'offerta tecnica quanto quella di comprovare l'effettiva
idoneità dei concorrenti a soddisfare le esigenze della p.a.
appaltante. Ne consegue che il campione non costituisce un
elemento costitutivo ma solo dimostrativo delle proposte di
gara, in quanto «consente all'Amministrazione di saggiare e
di toccare con mano, se così può dirsi, la bontà tecnica del
prodotto offerto».
Da ciò ne consegue che, non essendo un
elemento dell'offerta, la campionatura non dev'essere aperta
in seduta pubblica, per cui la sentenza del Tar Milano deve
essere riformata.
La sentenza ha ribaltato il precedente
orientamento, seguito dal Tar Milano secondo il quale la
campionatura era invece una componete essenziale della
proposta tecnica dei concorrenti, per cui la sua mancata
«apertura» in seduta pubblica configurava una violazione dei
principi di pubblicità, con conseguente l'annullamento della
partecipazione. Negli appalti pubblici e, in particolare,
nelle procedure per l'affidamento di forniture di beni, la
campionatura ha spesso costituito un elemento su cui le
interpretazioni sono state mutevoli.
Secondo l'art. 42,
comma 1, lett. l), dlgs n. 163/2006 prevede la «produzione di
campioni» a dimostrazione della capacità tecnica e
professionale di un concorrente ma, al tempo stesso, dispone
la possibilità del deposito di una «descrizione o fotografie
dei beni», ovvero delle c.d. schede tecniche che, di fatto,
rappresentano il vero e proprio contenuto dell'offerta
tecnica, relegando quindi la produzione dei campioni ad una
episodica eventualità. La campionatura ha dunque assunto nel
tempo un ruolo di mera conferma del contenuto delle schede
tecniche oppure di dimostrazione delle serietà e congruità
delle offerte.
A seguito della sentenza del Cds, nelle procedure di gara
l'offerta è e resta essenzialmente documentale e pertanto
qualsiasi «incidente» dovesse eventualmente
riguardare la campionatura (come nel caso in cui risultasse
incompleta, oppure difforme alle schede tecniche depositate
dal concorrente), tutto ciò non può mai comportare
l'esclusione ma solo motivare il soccorso istruttorio al
concorrente, trattandosi (come detto) la campionatura di un
elemento «non essenziale» delle offerte
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.10.201).
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MASSIMA
18. Il motivo è fondato.
18.1. Proprio muovendo da quest’ultimo rilievo, infatti, si
deve evidenziare che la funzione assegnata
dall’art. 42, comma 1, lett. l), del d.lgs. 163/2006 alla
campionatura non è quella di integrare, essa stessa,
l’offerta tecnica, bensì di comprovare, con la produzione di
capi o prodotti dimostrativi detti appunto “campioni”,
la capacità tecnica dei concorrenti e la loro effettiva
idoneità a soddisfare le esigenze, spesso complesse, delle
stazioni appaltanti.
18.2. Il campione non è, dunque, un
elemento costitutivo, ma semplicemente dimostrativo
dell’offerta tecnica, che consente all’Amministrazione di
saggiare e di toccare con mano, se così può dirsi, la bontà
tecnica del prodotto offerto, e non può considerarsi parte
integrante di essa, per quanto oggetto di valutazione, a
determinati fini, da parte della Commissione giudicatrice,
perché la sua funzione è quella, inequivocabile ed
espressamente stabilita dall’art. 42, comma 1, lett. l), del
d.lgs. 163/2006, di fornire la «dimostrazione delle
capacità tecniche dei contraenti», per gli appalti di
forniture, attraverso la «produzione di campioni,
descrizioni o fotografie dei beni da fornire».
18.3. Lo stesso art. 1.6 del capitolato, con previsione
chiara ed inequivocabile, stabilisce che le concorrenti
possono integrare la campionatura con altri articoli,
qualora lo ritengano necessario.
18.4. La possibilità di integrare la
campionatura con altri articoli, anche una volta scaduti i
termini per la presentazione dell’offerta tecnica,
contraddice la sua affermata natura costitutiva dell’offerta
stessa, non integrabile né emendabile o modificabile in
alcun modo, e ne conferma, diversamente da quanto ritiene il
TAR che offre una interpretazione riduttiva di tale
previsione, la natura di elemento materiale dimostrativo, e
non integrante, della stessa offerta tecnica.
18.5. E tanto è precisato dalla stessa stazione appaltante
che, nel chiarimento n. 6 del 16.01.2014, per quanto
impugnato da Se.It. s.p.a., ha evidenziato che «la
mancata tempestiva consegna dei campioni non determinerà
l’esclusione dell’offerta, ma renderà la stessa non
valutabile dalla Commissione Tecnica» ed ha posto due
distinti termini –il 28.01.2014 e il 31.01. 2014– per la
presentazione dell’offerta, da un lato, e della
campionatura, dall’altro.
18.6. L’offerta tecnica,
del resto, consiste pacificamente, secondo
quanto prevede la lex specialis, in documentazione
–progetto tecnico ed allegati– da acquisirsi con modalità
telematiche (piattaforma Sintel).
19. Netta è dunque la distinzione,
funzionale ancor prima che strutturale, tra la
documentazione tecnica e la campionatura, sicché non può
ritenersi corretto affermare che la campionatura sia parte
integrante dell’offerta tecnica e, in quanto tale, debba
essere aperta in seduta pubblica.
19.1. Se essa ha infatti, per espressa e
inderogabile volontà del legislatore, una funzione meramente
esemplificativa delle caratteristiche dell’offerta, mirando
a dimostrare le capacità tecniche della concorrente, e può,
addirittura, essere integrata nel corso della gara, come ha
previsto la lex specialis, finché non sia oggetto di
valutazione da parte della Commissione, non vi è alcuna
esigenza di par condicio tra i concorrenti né alcun
interesse pubblico alla imparzialità e trasparenza
dell’azione amministrativa che ne giustifichi l’apertura in
seduta pubblica, con il ricorso ad operazioni materiali di
apertura, aventi ad oggetto molti e ingombranti campioni,
lunghe, complesse e finanche inutili, una volta che i
campioni possano essere cambiati dalla concorrente, anche
successivamente, per dimostrare la bontà della propria
offerta tecnica, che è e resta nella sua essenza
documentale, come pure si dirà tra breve, il parametro
principale e imprescindibile al quale la stazione appaltante
deve fare riferimento, pur essendo condizione necessaria, ma
non sufficiente, nella gara in questione, per la congiunta
necessità di depositare anche la campionatura.
19.2. La previsione dell’art. 42, comma 1,
lett. l), del d.lgs. 163/2006, ha già del resto chiarito
questo Consiglio, trova la sua ratio nell’esigenza di
disporre, fin dalla fase di qualificazione, di «un
parametro fermo di raffronto dei contenuti dell’offerta
tecnica cui deve poi corrispondere l’esecuzione del
contratto»
(Cons. St., sez. III, 23.10.2014, n. 5225), ciò che, nel
caso di specie, è reso manifesto dalla stessa previsione
dell’art. 1.6. del capitolato, secondo cui, durante la
validità del contratto, tutti i capi oggetto del servizio
dovranno corrispondere esattamente a quelli campionati in
sede di gara.
19.3. Non paiono al Collegio condivisibili le contrarie
argomentazioni, pur fini e suggestive, articolate da Se.It.
s.p.a. nella propria memoria difensiva, laddove sostiene, in
particolare (p. 17), che la tesi dell’appellante principale,
Ad., proverebbe in realtà troppo, perché la campionatura,
seguendo tale tesi, sarebbe tutto e il contrario di tutto
(requisito di partecipazione, ma non a pena di esclusione,
elemento dimostrativo dell’offerta, ma estraneo al suo
contenuto), ma giammai offerta tecnica.
19.4. Al contrario rileva il Collegio che la tesi
dell’appellante principale, oltre che conforme al dato
normativo e alla ratio legis della campionatura,
rispecchia la sola ed esclusiva funzione, anche alla stregua
della lex specialis, che la campionatura può avere,
quella, cioè, di illustrare, in modo esemplificativo e non
tassativo, il contenuto dell’offerta tecnica, comprovando le
capacità tecniche dell’impresa concorrente, e quindi di
essere, rispetto all’offerta tecnica, un elemento richiesto
ad probationem e non ad substantiam, rendendo
quest’ultima, in sua assenza, non valutabile, come ha
chiarito la stazione appaltante, e non già inammissibile.
19.5. Da quanto esposto consegue l’accoglimento
dell’appello, proposto da Ad., e la reiezione in parte qua
del ricorso proposto in primo grado da Se.It. s.p.a., non
dovendo i campioni essere aperti in seduta pubblica. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La materia delle emissioni acustiche prodotte
nello svolgimento di servizi pubblici essenziali ed in
particolare quello ferroviario non possono essere
disciplinate dagli enti locali.
In tema di inquinamento acustico, l'art. 9 della l.
26.10.1995 n. 447 prevede espressamente la possibilità di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti in caso ricorrano
"eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute
pubblica o dell'ambiente", ma riserva il potere di
ordinanza alle Autorità rispettivamente indicate, secondo le
competenze di ciascuno, individuando, tuttavia, il
Presidente del Consiglio dei ministri "nel caso di
servizi pubblici essenziali", all'evidente scopo di
uniformare l'azione amministrativa applicata alle enucleate
peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici
essenziali.
Il legislatore ha conferito allo Stato la disciplina delle
emissioni ed immissioni sonore prodotte nello svolgimento di
servizi pubblici essenziali e in particolare quello
ferroviario, nel quale rientra l'attività di uno scalo
ferroviario, con la conseguenza che le emissioni ed
immissioni sonore prodotte da quest'ultima attività non
possono essere disciplinate dagli enti locali (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.09.2015 n. 1920 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Si può affidare un contratto di appalto solo sulla base del
massimo ribasso.
È possibile affidare contratti di appalto anche
caratterizzati da ampi profili di complessità sulla base del
solo criterio del massimo ribasso.
È questo il principio sancito dal Consiglio di Stato -Sez.
V- nella
sentenza
31.08.2015 n. 4040.
I giudici di palazzo Spada hanno ribaltato, infatti, la
sentenza del Tar del Lazio riguardante una gara, contestata
da un'impresa esclusa, per l'affidamento in appalto della
gestione dei servizi di call center e di back office per i
reclami della clientela, la cui aggiudicazione era prevista
sulla base del solo criterio del massimo ribasso.
In primo luogo, i giudici del Tar affermavano come il
criterio di selezione del massimo ribasso non apparisse
idoneo a garantire un servizio non caratterizzato da elevata
standardizzazione, e, in aggiunta, rilevavano che il
disciplinare e il bando di gara predisposti dalla stazione
appaltante non erano definiti in modo compiuto ed esaustivo,
essendo, perciò, tali da compromettere la par condicio tra
le imprese concorrenti, a causa dell'indeterminatezza dei
contenuti dell'offerta da presentare.
In merito al primo rilievo riscontrato dal Tar,
nell'accogliere l'appello presentato dalla stazione
appaltante, il Consiglio di stato afferma come i servizi
oggetto dell'appalto in contestazione non costituiscano
attività con contenuti tecnico-specialistici prevalenti o
significativi, sia per quanto riguarda l'organizzazione dei
mezzi e del personale, sia per quanto attiene ai processi
produttivi.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, sono
molti gli elementi che inducono a ritenere ragionevole la
decisione dell'ente aggiudicatore di attribuire
all'«elemento prezzo» rilevanza esclusiva nella scelta
dell'appaltatrice del servizio: la serialità delle
prestazioni oggetto del servizio, la non necessità di
ricorrere a personale altamente specializzato, l'assenza di
dotazione strumentale di elevata complessità tecnologica e,
non ultimo, la possibilità di delocalizzare le unità
produttive anche in paesi extracomunitari, sfruttando così
le asimmetrie salariali esistenti tra diverse nazioni.
Di conseguenza, è legittima, secondo i giudici, la scelta
della stazione appaltante di basare la selezione di gara
solo sull'elemento del risparmio economico, fatti salvi gli
standard minimi di tipo organizzativo e di rendimento,
necessari a garantire l'integrazione delle attività
dell'appaltatrice con la propria struttura e il rispetto
della vigente normativa di settore, compresa quella di
provenienza dell'Autorità competente, predisponendo a tal
fine appositi indicatori di qualità del servizio e
prevedendo conseguentemente premi o penali.
E neanche rileva, secondo i giudici di palazzo Spada,
l'eccezione presentata dalla ricorrente basata sulle
significative differenze (una forbice di oltre due milioni
di euro tra l'offerta migliore e quella contenente il minore
ribasso) registrate nei ribassi offerti in sede di gara:
infatti, la varietà di soluzioni organizzative reperibili
sul mercato può consentire il raggiungimento di elevati
margini di comprimibilità dei costi interni, anche per
quelle tipologie di servizi incentrate su basso contenuto
tecnologico e alta intensità di lavoro.
Per quanto riguarda, poi, il secondo rilievo riscontrato dai
giudici di primo grado, il Consiglio di stato ritiene
idonea, e in linea con il disciplinare tecnico predisposto
dalla stazione appaltante, la scelta di demandare
all'appaltatore la combinazione dei fattori produttivi
necessari alla fornitura del servizio, ferme restando le
proprie responsabilità per il raggiungimento dei risultati
previsti. Tale previsione appare, peraltro, in linea con il
contenuto dell'articolo 1655 del codice civile, nel quale è
riconosciuta all'appaltatrice la facoltà di svolgere ed
organizzare autonomamente le proprie attività, fermo
restando il vincolo del risultato.
Nella sentenza del Consiglio di stato è richiamato, poi,
l'articolo 81, comma 2, del dlgs 163/2006 (c.d. «Codice degli
appalti») secondo il quale è riconosciuta alla stazione
appaltante ampia discrezionalità nell'individuare il metodo
di selezione delle offerte nell'ambito di procedure di
affidamento, tra il criterio del prezzo più basso ed quello
dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Inoltre, nell'enunciare le «caratteristiche dell'oggetto
dell'appalto» quale elemento discrezionale
nell'individuazione del criterio di selezione, la
disposizione suddetta rimanda, quindi, alla fase
preparatoria della gara, e cioè alla progettazione che ogni
ente aggiudicatore deve svolgere in vista del futuro
affidamento del contratto, per la definizione delle
caratteristiche di quest'ultimo, e all'esito di tale fase,
per gli ulteriori aspetti per i quali si preveda, invece, la
ricerca presso gli operatori privati di soluzioni in grado
di conseguire prestazioni qualitativamente migliori rispetto
a quelle individuate in sede progettuale.
In conclusione, secondo i giudici di palazzo Spada, qualora
il grado di dettaglio della progettazione svolta dalla
stazione appaltante sia tale da non richiedere, secondo
valutazioni di carattere discrezionale di quest'ultima,
l'acquisizione di soluzioni tecniche migliorative, è
possibile procedere ad affidamenti sulla base del solo
criterio del massimo ribasso anche per quei contratti
d'appalto caratterizzati da rilevanti profili di
complessità, quali, in particolare, gli appalti di opere
pubbliche
(articolo ItaliaOggi del 02.10.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Avvocati della p.a., stop a controfirme
dirigenziali.
No alla «sudditanza tecnica» degli avvocati funzionari della
Regione. Gli addetti al servizio legale ben possono essere
posti in rapporto di subordinazione gerarchica nei confronti
dei dirigenti dell'ente, in quanto comunque dipendenti
pubblici. Ma non devono essere soggetti alla controfirma del
responsabile dell'unità operativa direzionale laddove (Uod)
quel potere vale come un diritto di veto del capo che
impedisce all'avvocato di esprimere il suo punto di vista.
Mentre anche il dissenso rappresenta una caratteristica
imprescindibile dell'attività forense. Annullata sul punto,
dunque, la delibera della Campania per il riassetto degli
uffici: risulta contraria ai principi affermati dal nuovo
statuto dell'avvocatura, contenuto nella legge 247/2012.
È quanto emerge dalla
sentenza 27.07.2015 n. 3945, della III Sez. del
TAR Campania-Napoli.
Accolto in parte il ricorso degli avvocati-funzionari
dell'ente. La controfirma del dirigente sugli atti ha un
senso solo quando è diretta a condividere le valutazioni
professionali già espresse dal legale.
Nel nostro caso, invece, si consegna al coordinatore dell'Uod
la facoltà di bloccare tutta l'attività se l'avvocato è
incaricato di un affare legale contro il parere del
responsabile dell'unità. Il quale può negare il suo
placet anche in contrasto con le scelte operate
dall'avvocato capo. Ecco allora che prevedere una
controfirma «senza l'introduzione di contrappesi e
bilanciamenti», si legge in sentenza, «appare
un'evidente ingerenza sull'autonomo svolgimento
dell'attività professionale forense».
E ciò perché le valutazioni professionali non possono essere
soggette a convalida altrui ma devono sempre risultare il
portato di «un libero ed autonomo giudizio intellettuale»
da parte del singolo avvocato incaricato dell'affare: il
legale, d'altronde, assume la piena responsabilità
individuale degli atti giudiziali e consultivi.
Senza dimenticare che l'avvocato-funzionario ha il diritto
di manifestare e formalizzare il dissenso e di fare comunque
valere le sue idee sui profili tecnico-giuridici riguardanti
la questione esaminata di volta in volta. Spese di giudizio
compensate
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2015).
---------------
MASSIMA
9.- Delineato quindi in parallelo il quadro normativo
disegnato con le due delibere, il Collegio è dell’avviso che
il nuovo riassetto organizzativo non compromette di per sé
le prerogative del ruolo forense.
Come ha avuto modo di chiarire il Consiglio di Stato con la
sentenza n. 4366/2014, “la nuova delibera n. 731/2012 ha
modificato in modo significativo l’assetto dei rapporti
interni all’Avvocatura appena disegnato dal precedente
provvedimento (ndr delibera 478/2012), configurando in
termini diversi le relazioni interne a ciascuna UOD come
pure, più ampiamente, la posizione rivestita dagli
avvocati-funzionari in seno alla complessiva struttura.”.
Ed invero,
l’assimilazione dell’Avvocatura
agli altri uffici della giunta regionale ed il fatto che
l’Ufficio legale mutui il relativo impianto strutturale non
si pone come un’inaccettabile impostazione gerarchica entro
cui gli avvocati-funzionari dell’ente vengono
inevitabilmente compressi nelle loro prerogative
professionali.
Questa Sezione, con la sentenza n. 2508 del 2013, ha
precisato che “…non vi sono ostacoli
all’individuazione all’interno dell’Ufficio Avvocatura
(dunque tra gli Avvocati iscritti all’albo) di posizioni
differenziate in ragione dell’anzianità di servizio e
dell’esperienza maturata. Ciò si realizza anche attraverso
la suddivisione in Avvocati–dirigenti e Avvocati–funzionari”.
10.- Il punto che, al contrario, pone perplessità circa il
libero esercizio dell’attività forense e che costituisce
l’aspetto caratterizzante della delibera 731/2012 è nella
previsione della controfirma dei pareri e degli atti degli
avvocati-funzionari da parte dei Coordinatori di UOD, in
aggiunta a quella dell’Avvocato Capo.
In altri termini, l’assoggettamento a modelli organizzativi
e gerarchici non appare di per sé incompatibile con la
funzione di avvocato dipendente di un ente pubblico e non in
contraddizione con i principi del’ordinamento professionale
forense; ciò che invece, al di là delle variabili
organizzative e strutturali, può ledere o almeno seriamente
compromettere le garanzie volte all’autonomo svolgimento del
mandato professionale è il potere di controfirma sugli atti
e sui pareri legali senza che vi sia alcuna possibilità da
parte del legale di fare emergere inequivocabilmente la
propria posizione sulla specifica questione.
Sul punto, la controfirma, in senso
tecnico, assume il valore di convalida della prima firma.
I ricorrenti
richiamano, per analogia, l’istituto dell’art. 89 della
Costituzione che postula la necessità del requisito formale
della controfirma quale condizione di efficacia, validità e
legittimità degli atti per i quali essa è prevista. In
questo senso, la controfirma su un documento servirebbe a
convalidare la prima firma, nel caso di specie quella
apposta dall’avvocato-funzionario.
Ebbene, a sostegno delle deduzioni dei ricorrenti, il
Collegio riflette sulla circostanza che le
valutazioni professionali non sono suscettibili di convalida
altrui ma devono sempre essere il risultato del formarsi di
un libero ed autonomo giudizio intellettuale del singolo
avvocato incaricato dell’affare, tant’è che la stessa
comporta la sua piena responsabilità individuale e non
concorrente, in quanto unico legittimato a predisporre il
contenuto dei propri atti giudiziali e consultivi.
La controfirma ha un senso solo laddove sia
diretta a condividere le valutazioni professionali già
espresse dal legale.
Pertanto, ciò che non è conciliabile con le
funzioni proprie dell’avvocato non è la subordinazione
gerarchica o l’inserimento nel contesto di modelli di
coordinamento, aspetti fondamentalmente giustificati da
ineludibili e razionali esigenze organizzative
dell’ente,quanto l’essere sottoposto a forme di “sudditanza
tecnica”, ancorché il legale sia dipendente di
un’amministrazione pubblica.
11.- Il sistema organizzativo congegnato dalla delibera
731/2012 comporta che, nel caso in cui l’avvocato
funzionario venga incaricato di un affare legale contro il
parere del proprio coordinatore di UOD, quest’ultimo,
disponendo del potere di “controfirma” su tutti gli
atti del sottoposto, può inibirne in concreto l’attività,
negando di volta in volta l’apposizione anche in contrasto
con le scelte operate dall’Avvocato capo.
La previsione della controfirma, senza
l’introduzione di contrappesi e bilanciamenti, questi ultimi
individuabili fondamentalmente nella possibilità, da parte
dell’avvocato-funzionario, di manifestare e formalizzare il
dissenso e di fare comunque valere i propri convincimenti,
relativamente ai profili tecnico-giuridici inerenti la
questione di volta in volta oggetto di esame, appare
un’evidente ingerenza sull’autonomo svolgimento
dell’attività professionale forense.
La possibilità, per il legale, di esprimere
incondizionatamente il proprio punto di vista, anche sotto
forma di dissenso, costituisce un elemento irrinunciabile
dell’attività forense, anche laddove svolta in qualità di
dipendente di amministrazioni pubbliche, più o meno
conformate a modelli che richiedono forme di gerarchia o,
perlomeno, di coordinamento.
La salvaguardia della piena libertà di
espressione è fattore imprescindibile perché il contributo
professionale, i pareri e le valutazioni tecniche svolte
dall’avvocato abbiano i caratteri dell’attendibilità e
dell’affidabilità.
La legge professionale forense, in particolare l’art. 23 L.
247/2012, riconosce infatti l’autonomia del giudizio tecnico
ed intellettuale dell’avvocato.
L’autonomia, la professionalità e la specializzazione è
garantita, peraltro, dalla stessa Costituzione (artt. 3, 24,
33, 97 e 111 Cost.; Corte Cost, 27.06.2012, n. 166).
Anche nell’ambito degli enti pubblici,
l’avvocato gode di autonomia ed indipendenza di giudizio,
nella fase precontenziosa e contenziosa, nell’impostazione
da dare alla difesa degli interessi del proprio datore di
lavoro, in questo caso pienamente assimilabile alla
posizione del “cliente”; sotto questo profilo, il
ruolo dell’avvocato dell’ente non è dissimile da quella del
libero professionista. Ed invero, l’avvocato risponde verso
il proprio ente a titolo di responsabilità professionale ove
non avesse tempestivamente e motivatamente sconsigliato gli
uffici amministrativi ad insistere nella difesa giudiziale
di un provvedimento palese illegittimo.
Ciò spiega perché anche il legale dipendente di un ente
pubblico deve essere pienamente libero di valutare la
legittimità della pretesa del proprio datore di lavoro e,
più in particolare, di potere apprezzare che la stessa non
sia in contrasto alle regole deontologiche ed ai principi
fondamentali dell’ordinamento
(cfr. in questo senso Tar Lazio, Roma, sez. II, 13.04.2011,
n. 3222; Tar Basilicata, Potenza, sez. I, 08.07.2013, n.
405; Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 730).
In conclusione, limitatamente ai profili sopra richiamati,
la delibera appare illegittima perché lesiva delle
prerogative e delle intrinseche caratteristiche proprie
dell’attività legale, confermate dal legislatore con la
Legge sulla professione forense n. 247/2012. Pertanto, nei
termini sopra descritti il ricorso introduttivo merita
accoglimento con conseguente annullamento in parte qua
e per quanto di ragione dell’impugnata delibera n. 731/2012. |
TRIBUTI:
Tributi locali, prescrizione in 5 anni.
In tema di riscossione di tributi locali, si applica il
termine di prescrizione quinquennale, a decorrere dalla data
di notifica della cartella di pagamento, divenuta definitiva
per mancata impugnazione. Non può invocarsi, dunque,
l'applicazione della prescrizione decennale, in via
analogica rispetto a quanto avviene nel caso in cui la
pretesa erariale si fondi su una sentenza passata in
giudicato.
Dunque, contro una intimazione di pagamento per
tributi locali, che si riferisca a una cartella notificata
oltre cinque anni addietro, è possibile proporre ricorso
dinanzi al giudice tributario e ottenerne l'annullamento.
Sono le conclusioni a cui giunge la Ctp di Salerno, nella
sentenza 13.07.2015 n. 3603/10/15.
Un contribuente della provincia
campana impugnava un'intimazione di pagamento notificata da Equitalia Sud nell'anno 2014, riferita a una precedente
cartella di pagamento per tributi locali, notificata
nell'anno 2005 e mai contestata.
Il ricorrente eccepiva la
prescrizione, essendo trascorsi più di 5 anni tra la
notifica della cartella e quella della successiva
intimazione. L'Agente della riscossione, invece, sosteneva
l'applicazione della prescrizione decennale, chiedendo
l'applicazione, in via analogica, dell'articolo 2953 del
codice civile, secondo cui: «I diritti per i quali la legge
stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando
riguardo a essi è intervenuta sentenza di condanna passata
in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni».
Secondo il resistente, infatti, la definitività del titolo
paragiudiziale (nella specie, la cartella di pagamento),
verificatasi per la mancata impugnazione, produce degli
effetti del tutto equiparabili al passaggio in giudicato
della sentenza, ancorando la prescrizione della pretesa a
dieci anni anziché al termine breve.
La Ctp ha respinto tale
impostazione difensiva dell'Agente della riscossione,
accogliendo il ricorso del contribuente. L'effetto giuridico
previsto dall'art. 2953 c.c., spiega il collegio, consegue
esclusivamente al passaggio in giudicato di una sentenza e
non può essere esteso, in via analogica, ad altre
situazioni.
Il citato articolo 2953, infatti, è norma
speciale che non può essere suscettibile di applicazione
analogica. Per cui, dopo la notifica della cartella e la sua definitività per mancata impugnazione, il termine di
prescrizione non subisce alcun allungamento, rimanendo
quello originariamente previsto in ragione della tipologia
di credito assunto in riscossione.
Trascorsi più di cinque
anni senza la notifica di atti interruttivi, la pretesa cade
in prescrizione ed è possibile eccepire dinanzi al giudice
tributario tale vizio, impugnando la relativa intimazione di
pagamento.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso può essere accolto.
In sostanza merita attenzione l'eccezione di prescrizione
sollevata da parte ricorrente sul presupposto che la
cartella di pagamento afferente l'intimazione opposta e
relativa ai tributi locali anni 1998/19999, è stata
notificata in data 18/02/2005 come riportato nella stessa
intimazione.
Sul punto parte resistente ha dedotto che, anche per i
tributi locali, il termine da applicare è quello decennale
in forza della teoria dei c.d. titoli paragiudiziali che
diventano definitivi in mancanza di tempestiva opposizione.
Secondo tale impostazione, dal c.d. passaggio in giudicato
della cartella esattoriale, discenderebbe la trasformazione
della prescrizione propria dei crediti in quella ordinaria,
indipendentemente dalla natura degli stessi sicché, ancorché
il credito si prescriva in un termine più breve,
quest'ultimo si trasformerebbe in decennale per applicazione
analogica della norma.
Orbene, al riguardo la Commissione osserva che l'effetto
giuridico previsto dall'art. 2953 cod. civ, secondo il quale
i diritti che si prescrivono in un termine inferiore ai
dieci anni, quando è intervenuta sentenza di passato in
giudicato si prescrivono con il decorso di dieci anni,
consegue esclusivamente al passaggio in giudicato di una
sentenza e non può essere esteso in via analogica ad altri
atti.
In merito la giurisprudenza della S.C. è abbastanza uniforme
nel ritenere che gli effetti dell'art. 2953 cc non possono e
non devono essere applicati in via analogica, trattandosi di
norma speciale e che solo quando la pretesa erariale si
fondi su una sentenza passata in giudicato, la relativa
cartella esattoriale, avendo a oggetto un credito
definitivamente accertato a seguito di contenzioso e come
tale avente diritto nella sentenza, va emessa entro il
termine decennale di prescrizione (cfr Cass. sez. 5, n.
19077/2014).
Tanto premesso nel caso di specie, il termine
prescrizionale applicabile è quello quinquennale e, di
conseguenza, l'eccezione di parte ricorrente è fondata
poiché dalla notifica della cartella, avvenuta in data
18/2/2005, alla successiva notifica dell'intimazione del
28/11/2014, sono decorsi più di cinque anni.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La commissione accoglie il ricorso.
Condanna la resistente Equitalia Sud SpA al pagamento delle
spese di lite che liquida in complessivi euro 330,00 di cui
30,00 per spese, oltre accessori se dovuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.10.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Disabili, va concesso il nullaosta comunale alla piattaforma.
Condominio. Andrebbe indicata l’alternativa praticabile.
Se un condòmino richiede al comune la possibilità di installare,
nel vano scale condominiale, una piattaforma elevatrice,
anche in deroga al regolamento edilizio, la domanda non può
essere rifiutata per l’esistenza in astratto di soluzioni
tecnicamente praticabili ma deve fondarsi sull’indicazione
di reali alternative concretamente praticabili.
Questo il
principio contenuto nella motivazione della
sentenza
03.07.2015 n. 1541 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II.
La vicenda che ha portato alla decisione citata prende
l’avvio quando due condòmini chiedevano al Comune il
permesso per installare nel vano scale una piattaforma
elevatrice necessaria per il superamento delle barriere
architettoniche presenti nell’edificio, opera che peraltro
l’assemblea del caseggiato con apposita delibera (allegata
alla domanda) aveva autorizzato.
Il Comune, però, con due note, sottolinea la necessità di
modificare il progetto in quanto non idoneo ad assicurare la
larghezza minima della rampa di scale e delle porte interne
della piattaforma di elevazione prevista dal regolamento
edilizio. E in ogni caso sarebbe impossibile concedere
deroghe ai regolamenti comunali per la praticabilità
dell’alternativa tecnica consistente nella realizzazione di
un montascale (che non avrebbe richiesto l’assenso del
comune e del condominio).
I condòmini protestano ma il Comune non tiene conto delle
ragioni chiarite dal tecnico dei condòmini, per le quali
veniva ritenuta non praticabile l’installazione di un
montascale. E nega il permesso di costruire, ribadendo la
possibilità di realizzare soluzioni alternative.
Secondo il Tar Lombardia, che ha annullato provvedimento del
Comune, il rigetto della domanda di permesso di costruire,
con la quale è stata chiesta la deroga alle norme
regolamentari, non può fondarsi sulla semplice esistenza in
astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili, ma
richiede la precisa indicazione di reali alternative
concretamente praticabili.
Questa rigorosa conclusione è pienamente giustificabile se
si considera che l’interesse del disabile all’eliminazione
delle barriere architettoniche è tutelato da diverse norme,
anche costituzionali.
Del resto l’esistenza solo in astratto di altre possibili
soluzioni, potrebbe spingere il cittadino ad individuare
altri progetti, che potrebbero però poi a loro volta
risultare non realizzabili. In ogni caso, come precisano i
giudici amministrativi, la “soluzione montascale” non può
rappresentare un’alternativa tecnica effettivamente
praticabile e rispettosa del regolamento edilizio, bensì una
soluzione utile solo per evitare il rilascio di un titolo
edilizio e l’assenso dell’assemblea condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.10.2015).
---------------
MASSIMA
2. Venendo al merito, deve preliminarmente scrutinarsi
il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, avente
carattere potenzialmente assorbente delle ulteriori censure,
con il quale si allega l’illegittimità del diniego di
permesso di costruire, in quanto intervenuto dopo la
ritenuta formazione del silenzio-assenso.
Il motivo è infondato, per un duplice ordine di ragioni.
2.1 Sotto un primo profilo, risulta comprovato in atti che
l’intervento progettato prevedeva anche l’installazione di
una pedana all’esterno dell’edificio e, quindi, richiedeva,
sotto questo profilo, l’autorizzazione paesaggistica, stante
il vincolo cui è sottoposto l’intero complesso immobiliare.
La formazione del silenzio-assenso è, quindi, espressamente
esclusa ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.P.R. n.
380 del 2001 e dell’articolo 38, comma 10, della legge
regionale n. 12 del 2005.
2.2 Deve, poi, rilevarsi che –anche prescindendo dalle
considerazioni sopra svolte– il silenzio-assenso non
avrebbe potuto in ogni caso formarsi, essendo intervenuto in
data 28.11.2013 il preavviso di provvedimento
negativo.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dei
ricorrenti, l’interruzione dei termini procedimentali a
seguito del preavviso di diniego costituisce istituto di
portata generale e, come tale, da ritenere applicabile anche
con riferimento al permesso di costruire (v. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.03.2015, n. 1515, ove, in fattispecie analoga
alla presente, concernente l’allegata formazione per
silenzio-assenso di un permesso di costruire soggetto alla
disciplina dell’articolo 13 della legge regionale
dell’Emilia Romagna 25.11.2002, n. 31, si rileva la
mancata prospettazione di ragioni convincenti per ritenere
non applicabile l’articolo 10-bis della legge n. 241 del
1990).
Nel caso di specie, dopo l’emissione del preavviso di
provvedimento negativo, il diniego del permesso di costruire
è intervenuto entro i termini previsti dall’articolo 38
della legge regionale n. 12 del 2005, peraltro inferiori
rispetto a quelli previsti dall’articolo 20 del d.P.R. n.
380 del 2001.
In particolare, il termine per la conclusione del
procedimento ha ripreso a decorre alla scadenza del termine
di sette giorni assegnato nel preavviso di diniego per la
presentazione di osservazioni (05.12.2013). E’ quindi
intervenuta, il 09.01.2014 –ossia dopo trentacinque
giorni– la relazione del responsabile del procedimento, che
è quindi tempestiva rispetto al termine di quarantacinque
giorni cui al comma 3 dell’articolo 38 della legge regionale
n. 12 del 2005. Il provvedimento finale è stato emesso,
infine, il 16.01.2014, ossia dopo sette giorni, nel
rispetto del termine di quindici giorni previsto per
l’ultimo segmento procedimentale dall’articolo 38, comma 7,
della legge regionale n. 12 del 2005.
2.3 E’, infine, da escludersi che la nota comunale del 16.01.2014 possa rilevare quale (illegittimo) atto di
autotutela, trattandosi del diniego con cui si è concluso il
procedimento avviato con la presentazione dell’istanza di
permesso di costruire e –come detto– di provvedimento
intervenuto nei termini e non successivamente alla
prospettata formazione del titolo per silentium.
2.4 In definitiva, per le suesposte ragioni, deve
respingersi il primo mezzo del ricorso per motivi aggiunti.
3. Possono quindi esaminarsi le censure articolate con il
primo motivo del ricorso introduttivo, con le quali i
ricorrenti si dolgono delle affermazioni contenute nella
comunicazione comunale del 10.10.2013 e nel preavviso
di provvedimento negativo, laddove vi si afferma che
l’intervento progettato non sarebbe conforme alle
disposizioni del Regolamento edilizio e del Regolamento
locale di igiene (affermazione, questa, che è richiamata
anche dal provvedimento finale di diniego, nel quale si
evidenzia che “l’intervento così come proposto non è
comunque conforme al vigente Regolamento Edilizio”).
3.1 A riguardo, ritiene il Collegio di non poter accedere
alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni
regolamentari richiamate dal Comune –recanti le regole
tecniche sulla larghezza delle scale e delle porte degli
ascensori– non sarebbero applicabili nel caso di specie e,
quindi, l’intervento proposto potrebbe essere realizzato
senza alcuna deroga alle disposizioni del Regolamento
edilizio e del Regolamento locale di igiene.
3.2 Viene anzitutto in considerazione l’articolo 139, comma
1 del Regolamento edilizio, ove si legge che “Le scale di
uso comune sono disciplinate, quanto a lunghezza, dimensioni
e chiusure dalla normativa vigente in materia. Deve in ogni
caso essere garantita la possibilità del trasporto di
soccorso delle persone”.
Il rinvio alla “normativa vigente in materia” è stato
correttamente inteso dal Comune come volto a determinare il
richiamo dell’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, il quale prevede che “La larghezza della rampa e dei
pianerottoli deve essere commisurata al numero dei piani,
degli alloggi e degli utenti serviti, comunque non deve
essere inferiore a m. 1,20 riducibili a m. 1,00 per le
costruzioni fino a due piani e/o ove vi sia servizio di
ascensore. Nei casi di scale che collegano locali di
abitazioni, o che collegano vani abitativi con cantine,
sottotetti dello stesso alloggio, ecc. può essere consentita
una larghezza di rampa inferiore e comunque non minore di m.
0,80”.
Ora, i ricorrenti ritengono che le suddette disposizioni non
possano trovare applicazione nel caso di specie.
3.2.1 Quanto all’articolo 139 del Regolamento edilizio, esso
è contenuto nel Capo III, rubricato “Gli edifici”, che si
apre con l’articolo 135, il quale –secondo i ricorrenti–
delimiterebbe l’ambito di applicazione dell’intero Capo ai
soli “interventi di nuova costruzione”.
Al riguardo, deve tuttavia evidenziarsi che l’articolo 135
del Regolamento edilizio si riferisce alle “Distanze e
altezze”. Non a caso, le parole “Negli interventi di nuova
costruzione” sono seguite dall’indicazione della distanza
minima dal confine con proprietà di terzi da osservarsi
nelle costruzioni. La disposizione non risulta, quindi, aver
inteso delimitare l’ambito applicativo dell’intero Capo, ma
si riferisce solo alle regole sulle distanze applicabili
alle nuove costruzioni.
D’altro canto, deve pure tenersi presente che l’articolo 181
del Regolamento edilizio dispone che “Il presente
regolamento si applica ai progetti edilizi presentati a far
data dalla sua entrata in vigore”. Le disposizioni contenute
nel Regolamento sono, quindi, applicabili in linea di
massima –e salva la concessione di deroghe– a tutti gli
interventi successivi, a prescindere dalla circostanza che
abbiano ad oggetto edifici esistenti o nuove costruzioni.
A tale conclusione non osta la previsione dell’articolo 123
del medesimo Regolamento edilizio, concernente “Eliminazione
e superamento delle Barriere Architettoniche”, il quale
stabilisce che: “1. Nell’ambito dell’ambiente costruito e
non costruito devono essere realizzati tutti gli interventi
atti a favorirne la massima fruibilità da parte di tutte le
persone disabili, colpite da handicap sia temporaneo che
permanente, con ridotte o impedite capacità motorie,
sensoriali, mentali e psichiche, per garantire loro una
migliore qualità della vita col superamento di ogni forma di
emarginazione e di esclusione sociale.
2. A tal fine negli edifici e negli spazi esterni, in tutti
gli interventi edilizi, nonché nei cambi di destinazione,
devono essere previste e realizzate tutte le soluzioni
conformi alla disciplina vigente in materia di eliminazione
e superamento delle barriere architettoniche.
3. I progettisti, in armonia col contesto più ampio in cui
si inserisce l’intervento, possono proporre soluzioni
innovative e alternative a quelle usuali, che, debitamente
documentate, dimostrino comunque il rispetto delle finalità
stabilite dalle specifiche leggi vigenti in materia di
superamento e abbattimento di barriere, per un utilizzo
ampliato ed in piena autonomia e sicurezza dell’ambiente da
parte di tutte le persone, in special modo per i portatori
di handicap.
4. In particolare, a partire dalle modalità e
caratteristiche indicate dalle norme vigenti al momento
della realizzazione dell’opera e in condizioni di adeguata
sicurezza ed autonomia, devono essere garantiti i requisiti
di adattabilità, visitabilità, accessibilità.”.
L’articolo 123 non costituisce, invero, una disposizione
alternativa rispetto a quella dell’articolo 139, ma sancisce
un generale favor –in conformità ai principi costituzionali
e alle previsioni della disciplina normativa nazionale e
regionale– nei confronti degli interventi di abbattimento
delle barriere architettoniche.
La disposizione, quindi, non detta regole esaustive e
alternative per la realizzazione degli interventi volti a
realizzare tale finalità, ma enuncia principi e criteri
rilevanti al fine della eventuale concessione di deroghe
alle altre previsioni del Regolamento, proprio in vista del
conseguimento dell’obiettivo della piena accessibilità degli
edifici da parte dei portatori di handicap (v. in
particolare il comma 3).
3.2.2 Quanto all’articolo 3.6.10 del Regolamento locale di
igiene, la non applicabilità nel caso di specie deriverebbe
–secondo i ricorrenti– dalle previsioni dell’articolo
3.0.0 del medesimo Regolamento, ove si stabilisce che “Le
norme del presente Titolo non si applicano alle situazioni
fisiche esistenti e già autorizzate o comunque conformi alla
previgente normativa” (primo comma).
Ritiene tuttavia il Collegio che la prevista inapplicabilità
alle previsioni del Regolamento locale di igiene alle
situazioni preesistenti e già autorizzate debba essere letta
unicamente come affermazione dell’inesistenza di un obbligo
di adeguamento alle nuove regole degli edifici già
realizzati in conformità alla disciplina previgente. Ciò,
però, fermo restando che le previsioni del Regolamento
debbano essere osservate –in linea di massima, e fatta
salva la possibilità di concessione di deroghe– anche in
tutti i casi di interventi da eseguire sulle costruzioni
esistenti.
Tali conclusioni sono confermate dai successivi commi del
medesimo articolo 3.0.0, ove si legge che:
- “Le norme si applicano, per gli aspetti inerenti l’igiene
e la sanità pubblica, a tutti i nuovi interventi soggetti al
rilascio di concessione o autorizzazione da parte del
Sindaco” (secondo comma):
- “Agli edifici esistenti o comunque autorizzati all’uso,
per interventi anche parziali di ristrutturazione,
ampliamenti e comunque per tutti gli interventi di cui alle
lettere b), c) e d) dell’art. 31 della Legge 05.08.1978,
n 457, si applicheranno le norme del presente Titolo fermo
restando che per esigenze tecniche documentabili saranno
ammesse deroghe agli specifici contenuti in materia di
igiene della presente normativa purché le soluzioni
comportino oggettivi miglioramenti igienico sanitari” (terzo
comma);
- “A motivata e documentata richiesta possono adottarsi
soluzioni tecniche diverse da quelle previste dalle norme
del presente Titolo, purché tali soluzioni permettano
comunque il raggiungimento dello stesso fine della norma
derogata” (quinto comma).
In altri termini, la disposizione del Regolamento locale di
igiene non può essere interpretata come volta a consentire,
in via generale, di apportare, senza alcun limite, modifiche
alle costruzioni esistenti e oggi conformi alla normativa
vigente, in modo da renderle difformi da tali nuovi
standard.
La possibilità di non applicare le previsioni del
regolamento di igiene –in linea di principio operanti anche
per gli interventi da eseguire su costruzioni già
autorizzate– è, invece, prevista e subordinata alla
concessione di apposite deroghe.
3.3 Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento
all’articolo 131, comma 2, primo periodo del Regolamento
edilizio, il quale dispone che “La larghezza di passaggio
netto delle porte esterne non deve essere inferiore a 90 cm
e per le porte interne non inferiore a cm 80”.
Secondo l’avviso dei ricorrenti, tale previsione non
dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, poiché
l’unica disciplina cui il Comune avrebbe dovuto fare
riferimento sarebbe quella dell’articolo 127 del Regolamento
edilizio, il quale prevede la realizzazione di piattaforme
elevatrici o servoscala “solo nel caso di interventi in
edifici esistenti nei quali vi sia comprovata impossibilità
tecnica di superamento di dislivelli mediante la
realizzazione di rampe”.
E invero, la circostanza che debba trovare applicazione il
predetto articolo 127 non esclude, di per sé,
l’applicabilità anche delle disposizioni in materia di
larghezza delle porte, contenute all’articolo 131, posto che
l’intervento di che trattasi ha ad oggetto proprio la
realizzazione di una piattaforma elevatrice dotata di porte,
e considerato che nessuna previsione concernente la
larghezza delle porte è contenuta all’articolo 127.
3.4 In definitiva, deve concludersi rilevando che
all’intervento proposto sono applicabili –in linea di
principio– le previsioni degli articoli 131 e 139 del
Regolamento edilizio e 3.6.0 del Regolamento locale di
igiene. Nella specie, poiché il progetto presentato dai
ricorrenti non consente di assicurare la larghezza minima
della rampa di scale e la larghezza minima delle porte della
piattaforma elevatrice previste dalle suddette previsioni,
lo stesso può essere realizzato solo subordinatamente alla
concessione di una deroga ai regolamenti comunali.
L’immediata applicabilità delle disposizioni richiamate dal
Comune risulta, del resto, essere stata riconosciuta anche
dagli stessi ricorrenti, i quali hanno proposto espressa
istanza di deroga alle norme regolamentari.
Per tutte le suesposte ragioni, devono conseguentemente
rigettarsi le censure articolate dai ricorrenti con il primo
motivo del ricorso introduttivo, con le quali si afferma la
possibilità di assentire l’intervento senza necessità di
derogare ai vigenti regolamenti comunali.
4. Ciò posto, al fine di esaminare le residue censure
proposte dai ricorrenti con il secondo motivo del ricorso
introduttivo (attinente alla mancata considerazione delle
possibilità di deroga alle previsioni regolamentari), e con
il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti (attinente
alla mancanza di corrispondenza tra le ragioni ostative al
rilascio del permesso di costruire indicate nel preavviso di
diniego e quelle poi enunciate nel provvedimento finale di
rigetto della domanda) occorre premettere che tutte le
disposizioni regolamentari richiamate dal Comune e ostative
alla realizzazione dell’intervento risultano essere
suscettibili di deroga.
4.1 Si è già detto della derogabilità delle norme del
Regolamento locale di igiene, prevista dalle richiamate
previsioni dei commi terzo e quinto dell’articolo 3.0.0.
4.2 Quanto agli articoli 131 e 139 del Regolamento edilizio,
la derogabilità delle relative previsioni discende dal
disposto dell’articolo 182 del medesimo Regolamento, in base
al quale “Salvo quanto previsto nei precedenti articoli,
eventuali deroghe al presente Regolamento possono essere
consentite esclusivamente con deliberazione del Consiglio
Comunale, fatti comunque salvi i pareri obbligatori per
l’esecuzione degli interventi edilizi da parte della
Commissione Edilizia, della Commissione del Paesaggio e
degli Organi di Vigilanza”.
4.3 Deve poi soggiungersi, per completezza, che non è invece
rilevante, nella specie, la previsione dell’articolo 3,
comma 1, della legge 09.01.1989, n. 13 –richiamata dai
ricorrenti– in quanto la disposizione si riferisce alla
possibilità di realizzare interventi di abbattimento delle
barriere architettoniche in deroga “alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi (...)”.
Non risulta rilevante neppure la previsione dell’articolo 20
della legge regionale 20.02.1989, n. 6 (“Norme
sull'eliminazione delle barriere architettoniche e
prescrizioni tecniche di attuazione”), poiché la
disposizione in questione, pure richiamata dai ricorrenti,
si riferisce alla possibilità di concedere deroghe –in
presenza di vincoli culturali o paesaggistici o di
“impossibilità tecnica connessa agli elementi statici ed
impiantistici degli edifici oggetto dell'intervento”–
rispetto alle sole norme volte all’abbattimento delle
barriere architettoniche contenute nell’allegato alla stessa
legge.
Potrebbe, semmai, avere un ambito applicativo in parte
rilevante ai fini del presente giudizio la disposizione
dell’articolo 19, comma 1, della stessa legge regionale n. 6
del 1989, che prevede espressamente la possibilità di
concedere deroghe in favore di interventi specificamente
finalizzati all'abbattimento delle barriere architettoniche
e localizzative; sennonché anche tale disposizione si
riferisce alla sola deroga “agli standard, limiti o vincoli
previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”, e non quindi
alle previsioni dei regolamenti comunali, rilevanti nel caso
di specie.
4.4 In definitiva, la derogabilità tanto del Regolamento
edilizio, quanto del Regolamento locale di igiene risulta
dalle stesse previsioni dei suddetti regolamenti.
5. Venendo quindi all’esame delle modalità per la
concessione di deroghe alle previsioni dei regolamenti
comunali invocate dal -OMISSIS- nel caso oggetto del
presente giudizio, deve tenersi presente che, sulla base del
quadro normativo sopra ricostruito:
- la concessione di eventuali deroghe al Regolamento locale
di igiene risulta essere subordinata all’accertamento che
“le soluzioni comportino oggettivi miglioramenti igienico-sanitari” (nelle fattispecie di cui al terzo comma
dell’articolo 3.0.0, sopra riportato) e che le soluzioni
tecniche diverse da quelle previste dal Regolamento
“permettano comunque il raggiungimento dello stesso fine
della norma derogata” (articolo 3.0.0, quinto comma);
- la deroga alle previsioni del Regolamento edilizio è
invece subordinata a un’apposita deliberazione del Consiglio
comunale (articolo 182),
il quale dovrà peraltro tenere
conto delle finalità di piena accessibilità degli edifici da
parte delle persone portatrici di handicap (finalità
richiamate dall’articolo 123 del Regolamento, e
riconducibili ai principi enunciati dalla Costituzione e
attuati dalla disciplina legislativa statale e regionale).
6. Ciò posto, deve osservarsi che le ragioni poste alla base
del diniego di permesso di costruire consistono, in buona
sostanza:
(i) nella ritenuta impossibilità di concedere deroghe ai
regolamenti comunali per la praticabilità dell’alternativa
tecnica consistente nella realizzazione di un montascale;
(ii) nella realizzabilità di tale soluzione alternativa
senza alcun atto di assenso del Comune e del condominio;
(iii) nella mancanza di autorizzazione paesaggistica.
6.1 Di tali ragioni, solo quella sub (ii) risulta essere
stata effettivamente preannunciata nel preavviso di
provvedimento negativo.
E invero, nella relazione del tecnico dei ricorrenti,
depositata agli atti del procedimento in data 08.11.2013, era stata illustrata, con dovizia di argomenti, la
necessità di prescegliere la soluzione progettuale
consistente nella realizzazione di una piattaforma
elevatrice, indicando le ragioni per le quali veniva
ritenuta non praticabile l’installazione di un montascale
(v. doc. 9 dei ricorrenti).
A fronte di tale dettagliata relazione, nella comunicazione
di motivi ostativi il Comune non ha indicato la soluzione
consistente nella realizzazione di un montascale quale
alternativa tecnica rispetto all’intervento proposto dai
ricorrenti. L’Ente si è, infatti, limitato a richiamare la
previsione dell’articolo 78 del d.P.R. n. 380 del 2001,
ossia una disposizione che si riferisce alle possibilità di
libera installazione di “servoscala nonché strutture mobili
e facilmente rimovibili”. Tali soluzioni non sono state,
quindi, indicate quali alternative tecniche effettivamente
praticabili e idonee a consentire il rispetto della
disciplina regolamentare, bensì quali soluzioni che
avrebbero consentito di evitare tanto la necessità del
rilascio di un titolo edilizio, quanto quella dell’assenso
dell’assemblea condominiale.
Soltanto nella “Relazione finale e proposta di provvedimento
per la pratica n. 215/2013-0”, richiamata nel provvedimento
di diniego (doc. 15 del controinteressato), viene
effettivamente presa in considerazione la praticabilità
tecnica della soluzione consistente nella realizzazione di
un montascale, e tale soluzione viene indicata quale
alternativa praticabile.
Le suddette valutazioni sono state, però, poste alla base
del diniego senza consentire alla parte di controdedurre in
merito ai dati fattuali presi in considerazione dal Comune e
alle considerazioni tecniche svolte dal Responsabile del
procedimento.
6.2 Ora, quanto alla predetta motivazione sub (ii), deve
osservarsi che –come osservato dai ricorrenti nel secondo
motivo del ricorso introduttivo– tale ragione, pur
ritualmente preannunciata nel preavviso di provvedimento
negativo, non può di per sé fondare il diniego del permesso
di costruire.
L’esistenza di una astratta ipotesi progettuale tale da non
richiedere alcun titolo edilizio né l’assenso del condominio
potrebbe, invero, formare oggetto di un mero “suggerimento”
informale al richiedente da parte dell’Ufficio tecnico.
L’Amministrazione non può, tuttavia, esimersi dal verificare
se sussistono le condizioni per assentire l’intervento
richiesto, sia quanto alla legittimazione del soggetto
richiedente, sia con riguardo al merito della soluzione
progettuale proposta.
Nel caso di specie, il primo di tali profili
(legittimazione) avrebbe dovuto essere verificato in
concreto dal Comune, posto che la domanda di permesso di
costruire era corredata dalla delibera condominiale di
assenso all’intervento, solo successivamente sospesa
nell’ambito del giudizio civile promosso dal sig. -OMISSIS-.
D’altro canto, la circostanza che l’installazione di un
montascale non richieda il rilascio del titolo edilizio di
per sé non consente di ritenere che tale soluzione possa
essere realizzabile anche in violazione della normativa
tecnica sulla larghezza delle scale, in assenza di apposita
deroga.
In definitiva, la (teorica) libera realizzabilità della
soluzione “montascale” non fa di tale opzione, di per sé,
un’alternativa tecnica effettivamente praticabile rispetto
al progetto presentato dai richiedenti.
6.3 Quanto alle ulteriori ragioni sub (i) e sub (iii), la
loro mancata evidenziazione nel preavviso di diniego non
assume, nella specie, rilevanza meramente formale, ma
riveste carattere sostanziale, per le ragioni che seguono.
6.3.1 Per ciò che attiene alla motivazione sub (iii), i
ricorrenti, ove fossero stati portati a conoscenza della
necessità dell’autorizzazione paesaggistica, avrebbero
potuto presentare la relativa domanda.
In alternativa, sarebbe stata possibile anche la modifica
dell’istanza di permesso di costruire, con rinuncia
all’installazione della modesta opera consistente nella
pedana esterna, volta al superamento di pochi gradini. E
invero –come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2014, n. 1032–
l’abbattimento delle barriere
architettoniche può essere realizzato anche in modo parziale
e tale da non soddisfare completamente le esigenze di
soggetti non deambulanti in modo autonomo, i quali non sono
gli unici destinatari della normativa, che fa riferimento
anche ai soggetti a “capacità motoria ridotta”, come tali in
grado di superare alcuni gradini, ma non diversi piani di
scale.
6.3.2 Per ciò che attiene alla motivazione sub (i), la
mancata indicazione, nel preavviso di diniego, delle ragioni
in base alle quali il Comune ha ritenuto che l’installazione
di un montascale possa costituire un’alternativa
praticabile, ha impedito ai ricorrenti di prendere in esame
le considerazioni tecniche poste alla base di tale
valutazione e di interloquire eventualmente con il Comune in
merito alla effettiva praticabilità della prospettata
soluzione alternativa, fornendo elementi fattuali e
valutativi in relazione agli elementi contenuti nella
relazione finale del Responsabile del procedimento.
Al riguardo, il Collegio condivide bensì quanto affermato
nel provvedimento impugnato, ossia che la possibilità di
concedere deroghe ai regolamenti edilizi debba ammettersi
soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente
praticabili.
Tuttavia, è proprio nel modus procedendi attraverso il quale
il Comune ha ritenuto di poter ravvisare l’esistenza di una
alternativa tecnica che l’intero iter procedimentale, e il
provvedimento comunale, manifestano i vizi allegati dai
ricorrenti.
Occorre invero tenere presente che l’eliminazione delle
barriere architettoniche che impediscono la piena
accessibilità degli edifici, limitando la possibilità per le
persone affette da handicap di svolgere pienamente la
propria personalità e di avere una normale vita di
relazione, attiene ad esigenze di rilievo costituzionale
primario, riconducibili anzitutto alle previsioni degli
articoli 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, la sussistenza
di alternative praticabili rispetto all’intervento proposto
–ossia il presupposto per la concessione della deroga alle
previsioni dei regolamenti comunali– costituisce una
legittima ragione di diniego del permesso di costruire solo
laddove l’individuazione di tali alternative emerga e rilevi
in concreto, alla luce di tutti i dati fattuali rilevanti
nel caso di specie.
In altri termini, il rigetto della domanda di permesso di
costruire, con la quale sia stata chiesta la deroga alle
norme regolamentari, non può fondarsi sulla mera esistenza
in astratto di ulteriori soluzioni tecnicamente praticabili,
ma –laddove il richiedente abbia illustrato, come nella
specie, la non praticabilità, a suo avviso, di altre idonee
soluzioni– deve muovere dall’evidenziazione di soluzioni
che, sulla base delle circostanze fattuali note, siano da
ritenere come reali alternative, ossia come possibilità
effettivamente e concretamente praticabili.
E invero, laddove si ritenesse che l’esistenza solo in
astratto di altre possibili soluzioni costituisca una
ragione sufficiente per il rigetto dell’istanza di deroga
alle norme regolamentari, si finirebbe con il frustrare le
finalità stesse della deroga, oltre che i principi
costituzionali sopra richiamati, esponendo il richiedente a
elaborare altre soluzioni progettuali, che potrebbero però
poi a loro volta risultare non effettivamente fattibili.
Proprio per tali ragioni è necessario che la valutazione
tecnica del Comune in merito all’idoneità della soluzione
proposta dal richiedente, in deroga ai regolamenti comunali,
sia compiuta con il pieno coinvolgimento nell’istruttoria
procedimentale del soggetto istante, il cui apporto può
consentire la piena acquisizione di tutti gli elementi
fattuali e valutativi rilevanti nel caso di specie.
6.4 In conclusione, sul punto, le censure articolate dai
ricorrenti con il secondo motivo del ricorso introduttivo e
con il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti devono
essere accolte, nei sensi e nei termini di quanto fin qui
esposto, con assorbimento degli ulteriori profili di censura
articolati negli stessi motivi, e non rilevanti ai fini
della decisione del ricorso.
7. L’accoglimento delle domande di annullamento proposte dai
ricorrenti comporta, per l’effetto, l’annullamento della
nota comunale datata 14.11.2013 e del provvedimento di
diniego del permesso di costruire.
8. Non può, invece, trovare accoglimento la domanda di
risarcimento del danno, poiché i ricorrenti non hanno
fornito alcuna prova del pregiudizio subito, laddove il
relativo onere, per consolidato orientamento
giurisprudenziale, ricade interamente sulla parte che si
assume danneggiata (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato,
Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293).
D’altro canto, l’annullamento del permesso di costruire
lascia residuare un ampio margine di valutazione al Comune
al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il
rilascio del permesso di costruire in deroga ai regolamenti,
per cui –mancando un accertamento in ordine all’effettiva
spettanza del bene della vita richiesto– l’accoglimento
dell’impugnazione non può costituire il presupposto per
l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (v.
Cons. Stato, Ad. Plen., 03.12.2008 n. 13; Id., Sez. IV,
04.09.2013 n. 4439; TAR Lombardia, Sez. II, 16.03.2015, n. 729). |
EDILIZIA PRIVATA: Il condominio non può controllare il vicino.
Tar Liguria. Il Comune non può condizionare una costruzione
al consenso dei confinanti.
Non è
legittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune a
un’impresa che vuole realizzare un’autorimessa, se viene
subordinato al consenso dei condomìni confinanti,
attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di veto in
ordine alla fattibilità dell’opera.
Lo ha affermato dal
TAR Liguria, Sez. I, nella
sentenza 11.06.2015 n. 561.
Nel caso esaminato un’impresa edile chiede il rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione di un’autorimessa
da svilupparsi su cinque livelli interrati. L’imponenza
dell’opera suscita le proteste di alcuni residenti i quali,
temendo che le opere di sbancamento potessero provocare
crolli o cedimenti, presentano esposti al Comune. L’impresa
allora ridimensiona l’opera prevista e il Comune, dopo un
supplemento di istruttoria, approvava il nuovo progetto in
versione ridotta.
Il titolo abilitativo, però, impone all’impresa non solo di
predisporre (prima dell’avvio dei lavori di costruzione
dell’autorimessa interrata) una relazione congiunta
sottoscritta anche da un tecnico dei residenti che
riconoscesse la fattibilità dell’intervento, ma di
acconsentire anche un’attività di controllo da parte del
professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi
soprastanti. In altre parole, il Comune condizionava
l’esecuzione dei lavori al consenso degli autori dei
precedenti esposti e degli amministratori dei condomini
circostanti. L’impresa, perciò, dopo l’inutile tentativo di
accordarsi con i caseggiati vicini fa ricorso al Tar contro
questi obblighi.
I giudici amministrativi liguri, nell’accogliere il ricorso,
hanno rilevato come, in linea generale, sia da considerare
legittimo un provvedimento (di solito, abilitativo)
condizionato ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione. Tuttavia, secondo il Tar, il permesso
di costruire deve essere rilasciato solo in base a precisi
parametri normativi, attinenti alla legittimazione del
richiedente e alla conformità dell’intervento alle
previsioni degli strumenti urbanistici, senza considerare
situazioni finalizzate a costituire forme di tutela dei
residenti del vicinato.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che,
considerando possibili pericoli legati all’esecuzione delle
opere, ne subordina l’esecuzione al consenso dei proprietari
confinanti, attribuendo di fatto a questi ultimi il potere
di pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento
(potere che comporta un potere di veto circa la
realizzazione dell’opera) (articolo Il Sole 24 Ore del 06.10.2015).
--------------
MASSIMA
6.1) In linea di principio, deve darsi
atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che
ammette l’apposizione di condizioni al permesso di
costruire, ritenendo che l’inserimento di particolari
clausole accidentali possa risultare funzionale alla
semplificazione della procedura e all’ampliamento dei poteri
conformativi dell’amministrazione la quale, in questo modo,
ha la possibilità di “modellare” meglio la propria
decisione alle particolarità del caso concreto
(cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n.
3447).
Anche in tale prospettiva, però, il permesso di costruire
mantiene la propria natura di atto vincolato che deve essere
rilasciato in base a precisi parametri normativi,
pacificamente attinenti alla legittimazione del richiedente
e alla conformità dell’intervento alle previsioni degli
strumenti urbanistici.
I presupposti di assentibilità del permesso di costruire non
possono includere, invece, analisi della situazione di fatto
sostanzialmente finalizzate, come nel caso di specie, a
precostituire forme di tutela dei terzi in sede di
esecuzione dei lavori.
Ne consegue la palese illegittimità della prescrizione che,
avendo riguardo agli ipotetici (ma non dimostrati) pericoli
cagionati dall’esecuzione delle opere, ne subordina
l’esecuzione al consenso dei proprietari confinanti,
attribuendo di fatto a questi ultimi il potere di
pronunciarsi in ordine alla fattibilità dell’intervento (o,
se si preferisce, un inammissibile potere di veto circa la
realizzazione dell’intervento stesso).
Tanto più che la stessa Amministrazione aveva riconosciuto
come tali elementi, riguardando la successiva fase della
progettazione esecutiva, fossero estranei ai presupposti
richiesti per l’approvazione del progetto edificatorio.
6.2) L’apposizione della contestata condizione sospensiva
sembra anche funzionale alla prevenzione di potenziali
contenziosi tra i privati (la Società titolare del permesso
di costruire e i proprietari degli stabili limitrofi).
In tale prospettiva, si verifica un’obiettiva divergenza
dell’atto rispetto alla sua funzione istituzionale, non
identificabile con la tutela preventiva di interessi privati
(tanto che esso viene normalmente rilasciato con la formula
“fatti salvi i diritti dei terzi”), ma con la
verifica della conformità dell’intervento alla normativa
urbanistica ed edilizia.
Peraltro, la clausola in contestazione non arricchisce
concretamente gli strumenti di tutela dei privati i quali,
laddove abbiano ragione di temere i danni derivanti da una
nuova opera intrapresa da altri, possono tutelare i propri
diritti dinanzi al giudice ordinario mediante l’azione
prevista dall’art. 1171 cod. civ..
6.3) La prescrizione di cui si controverte si pone anche
immotivatamente in contraddizione con le risultanze
dell’articolata istruttoria procedimentale.
Tutti gli uffici che si erano pronunciati in ordine
all’intervento edificatorio, compreso l’Ufficio geologico
del Comune, infatti, avevano reso parere favorevole.
Inoltre, il responsabile di quest’ultimo Ufficio, con una
relazione in data 05.12.2011, si era scrupolosamente
soffermato sulle relazioni tecniche allegate agli esposti
presentati dai privati, escludendo la sussistenza delle
criticità ivi segnalate.
6.4) E’ condivisibile anche la censura inerente alla
violazione del divieto di aggravio del procedimento sancito
dall’art. 1, comma 2, della legge n. 241/1990.
Come già precisato, infatti, l’approfondita istruttoria
svolta dagli uffici comunali non aveva evidenziato la
sussistenza di esigenze straordinarie che potessero
eventualmente giustificare gli ulteriori adempimenti formali
imposti con la contestata prescrizione, tali da determinare,
anche nel caso di esito favorevole, una significativa
dilatazione dei tempi di esecuzione delle opere in progetto.
6.5) Infine, la prescrizione in parola è
illegittima per indeterminatezza in quanto, non contenendo
la precisa individuazione dei soggetti legittimati ad
esprimere il proprio consenso in ordine all’esecuzione dei
lavori (genericamente identificati con gli “esponenti”
e con gli “amministratori dei palazzi soprastanti”),
introduce obiettivi elementi di incertezza in ordine alla
possibilità di adempiervi compiutamente.
7) Per tali ragioni, il ricorso è fondato e, pertanto, deve
essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è sufficiente invocare il concetto di “stabile collegamento”
per radicare la propria legittimazione a ricorrente quando,
per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le
condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli
immobili, la “vicinitas” non rappresenti un indice
inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che
propone l’azione di annullamento del titolo edilizio.
Il criterio in esame è stato coniato dalla giurisprudenza,
pur sempre al fine di selezionare una posizione giuridica
soggettiva protetta, cosicché può ritenersi sufficiente a
radicare la legittimazione del confinante, solo quando la
modifica del preesistente assetto edilizio debba ritenersi
“ictu oculi”, ovvero sulla scorta di sicure base statistiche
tratte dall’esperienza, pregiudizievole per la qualità
(urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell’area in cui
insiste al proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile
di comportarne un deprezzamento commerciale. Quando, invece,
il pregiudizio non sia di per sé insito nella violazione
edilizia (ad esempio per la distanza sussistente tra gli
edifici), il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in
giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo
contestato non è sufficiente.
Occorre, per contro, dare plausibile riscontro dei danni (o
delle potenziali lesioni) ricollegabili all’avversata
struttura.
Ragionare diversamente, ritenendo che i proprietari di
immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle
interessate da un permesso di costruzione siano “sempre”
legittimati ad impugnare i titoli edilizi, anche quando non
sia offerto alcun plausibile riscontro dell’incidenza
negativa sulla propria sfera giuridica, significa elevare un
astratto interesse alla legalità a criterio di
legittimazione, senza che sia necessario far valere un
interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando
(senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione
popolare.
III.1. Pur in presenza di un quadro giurisprudenziale ancora
non sufficientemente organico, ritiene il Collegio che non
sia sufficiente invocare il concetto di “stabile
collegamento” per radicare la propria legittimazione a
ricorrente quando, per il tipo di violazione edilizia
denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in
cui si trovano gli immobili, la “vicinitas” non
rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito
dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo
edilizio.
Il criterio in esame è stato coniato dalla giurisprudenza,
pur sempre al fine di selezionare una posizione giuridica
soggettiva protetta, cosicché può ritenersi sufficiente a
radicare la legittimazione del confinante, solo quando la
modifica del preesistente assetto edilizio debba ritenersi “ictu
oculi”, ovvero sulla scorta di sicure base statistiche
tratte dall’esperienza, pregiudizievole per la qualità
(urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell’area in cui
insiste al proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile
di comportarne un deprezzamento commerciale. Quando, invece,
il pregiudizio non sia di per sé insito nella violazione
edilizia (ad esempio per la distanza sussistente tra gli
edifici), il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in
giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo
contestato non è sufficiente.
Occorre, per contro, dare plausibile riscontro dei danni (o
delle potenziali lesioni) ricollegabili all’avversata
struttura. Ragionare diversamente, ritenendo che i
proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con
quelle interessate da un permesso di costruzione siano “sempre”
legittimati ad impugnare i titoli edilizi, anche quando non
sia offerto alcun plausibile riscontro dell’incidenza
negativa sulla propria sfera giuridica, significa elevare un
astratto interesse alla legalità a criterio di
legittimazione, senza che sia necessario far valere un
interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando
(senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione
popolare (la prospettazione offerta dal Collegio, non è
priva di riscontri in giurisprudenza; cfr., ad esempio,
Consiglio di Stato, sez. V 13/03/2014 n. 1263; sez. V
27/04/2012 n. 2460)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.05.2015 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art.
328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto
plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre
l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza
della P.A., anche il concorrente interesse del privato
danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto
amministrativo dovuto.
Ne consegue che il soggetto privato può
teoricamente assumere la posizione di persona offesa dal
reato ed è pertanto legittimato a proporre opposizione
avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.M..
---------------
Il dovere di risposta presuppone che sia
incardinato un procedimento amministrativo e perciò, se
questo, come nella specie, non è stato ancora avviato, non
v'è alcun obbligo di risposta.
Detto altrimenti, non ogni richiesta di
atto che il privato sollecita alla P.A. ha idoneità ad
attivare, in tesi, il meccanismo per l'operatività della
previsione delittuosa di cui al secondo comma dell'art. 328
cod. pen., con la conseguenza che restano al di fuori della
tutela penale quelle richieste che, per mero capriccio o
irragionevole puntigliosità, sollecitano alla P.A.
un'attività che è dalla stessa ritenuta ragionevolmente
superflua.
---------------
Tanto premesso, in primo luogo, ed in relazione all'assunto
del Procuratore generale, che ha sostenuto l'inammissibilità
del ricorso, non rivestendo il ricorrente la qualità di "parte
lesa", va rilevato che il delitto di
omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma
secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in
quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico
al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il
concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione
o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto.
Ne consegue che il soggetto privato può
teoricamente assumere la posizione di persona offesa dal
reato ed è pertanto legittimato a proporre opposizione
avverso la richiesta di archiviazione formulata dal P.M.
(Cass. pen. sez. 2, 17345/2011 Rv. 250077 Massime precedenti
Conformi: N. 1817 del 1995 Rv. 202818, N. 3806 del 1997 Rv.
210306, N. 4316 del 1998 Rv. 211123, N. 5376 del 2003 Rv.
223937).
Tuttavia siffatta generica asserzione -correlata allo schema
dogmatico dell'art. 328 cod. pen.- va chiarita nel senso che
il dovere di risposta presuppone che sia incardinato
un procedimento amministrativo e perciò, se questo, come
nella specie, non è stato ancora avviato, non v'è alcun
obbligo di risposta
(cfr. in termini: cass. pen. sez. 6, U.P. 04.10.2001, in
ricorso Giordano e altri).
Si vuole in altri termini significare che
non ogni richiesta di atto che il privato sollecita alla
P.A. ha idoneità -come si pretende nella specie- ad
attivare, in tesi, il meccanismo per l'operatività della
previsione delittuosa di cui al secondo comma dell'art. 328
cod. pen., con la conseguenza che restano al di fuori della
tutela penale quelle richieste che, per mero capriccio o
irragionevole puntigliosità, sollecitano alla P.A.
un'attività che è dalla stessa ritenuta ragionevolmente
superflua e non doverosa
(cfr. sul punto: cass. Pen. sezione 6, U.P. 06.10.1998, in
ricorso Concu)
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza n. 79/2012). |
AGGIORNAMENTO AL 06.10.2015 |
ã |
OKKIO AL DANNO ERARIALE (sempre possibile,
appena dietro l'angolo...)
* * *
Realizzazione diretta opere di urbanizzazione a
scomputo oo.uu. 1^ e 2^:
1) per le opere di importo sotto soglia
comunitaria
si deve prendere come riferimento il prezzo "pieno"
del redatto computo metrico estimativo,
sulla base delle voci di costo dell'ultimo listino
della C.C.I.A.A. di appartenenza del comune??
2) per le opere di importo sopra soglia
comunitaria
a chi rimane lo sconto di gara??
Ecco, a seguire, le risposte recenti della Corte dei
Conti... |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sulla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria a scomputo degli oo.uu..
L’importo da porre a scomputo
degli oneri di urbanizzazione è preliminarmente determinato
in relazione al computo metrico estimativo, ritenuto congruo
dai competenti uffici comunali.
Ciò, però, non preclude, nel
caso che dalla contabilità di fine lavori risultasse un
importo effettivamente speso dall’attuatore inferiore a
quello determinato a monte –ove ovviamente detto importo
fosse inferiore alla quota di contributo relativa agli oneri
di urbanizzazione– che il Comune possa chiedere al privato
attuatore la differenza tra il primo importo e quello
effettivamente speso.
Tale valore differenziale potrà essere
corrisposto all’Amministrazione Comunale, a scelta di
quest’ultima, o sotto forma di conguaglio economico o sotto
forma di opere complementari ed integrative.
In questo
senso, del resto, milita in primo luogo la considerazione
che, nel caso si seguisse la procedura ordinaria, ovvero che
l’Amministrazione eseguisse direttamente le opere di
urbanizzazione, sopportandone i relativi oneri,
beneficerebbe direttamente anche delle eventuali riduzioni,
conseguite in fase di aggiudicazioni dei lavori, rispetto ai
valori astrattamente indicati nel computo metrico estimativo.
Il ricorso all’istituto dello scomputo,
dunque, non può consentire un esito deteriore per il Comune,
con l’attribuzione al privato dei possibili guadagni
relativi al minor costo di realizzazione delle opere.
---------------
Ancora oggi risulta attuale e condivisibile la
conclusione cui è giunta la Corte veneta nel 2009,
pur tenuto conto delle successive modifiche
legislative, circa la «spettanza al Comune dei
ribassi d’asta eventualmente conseguiti in sede di
gara rispetto al corrispettivo astrattamente e
aprioristicamente posto a base d’asta.
Invero, il ribasso d’asta si traduce in una minore
entità del corrispettivo che sarà in concreto
corrisposto dal privato per la realizzazione delle
opere rispetto a quello teorico ipotizzato prima
della gara, al quale è stato commisurato lo scomputo
iniziale.
E’ dunque evidente che, ove la differenza
determinata dal ribasso d’asta non fosse riversata
al Comune, la misura dello scomputo sarebbe maggiore
rispetto a quella degli oneri di urbanizzazione in
concreto sostenuti dal privato, determinandosi per
tale parte un’ingiustificata decurtazione del
contributo per permesso di costruire spettante al
Comune».
---------------
Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG), con
nota del giorno 29.06.2015, dopo aver premesso che:
- “l’art. 16, comma 2-bis, del DPR n. 380/2001 così
dispone: nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria
di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui
all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di
trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del
titolare del permesso di costruire e non trova applicazione
il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”;
- “ciò significa che
a) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione
primaria il cui importo è al di sotto della soglia
comunitaria (ad oggi € 5.186.000,00) non sussiste
più l'obbligo di legge di espletare la preventiva
gara d'appalto;
b) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria
il cui importo è pari o superiore alla soglia comunitaria (€
5.186.000,00) sussiste ancora l'obbligo di legge di
espletare la preventiva gara d'appalto”;
- “ora, come è noto, il computo metrico estimativo delle
opere di urbanizzazione primaria da realizzare è
dettagliatamente redatto sulla base delle voci di costo
desumibili dal "Bollettino prezzi opere edili" edito dalla
C.C.I.A.A. di Bergamo con cadenza semestrale, sul cui
Bollettino sono anche redatti i computi metrici estimativi
dei lavori pubblici da porre in gara d'appalto. Ed è
altresì noto come su tali voci di costo, nell'ambito di una
gara d'appalto, normalmente il ribasso d'asta non sia di
poco conto”,
ha posto i seguenti quesiti:
1) “per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione
primaria il cui importo (computo metrico estimativo redatto
siccome specificato al comma precedente) è al di sotto della
soglia comunitaria (€ 5.186.000,00), ancorché non sussista
più l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara
d'appalto, bisogna scomputare dall'importo degli oo.uu.
prima dovuti l'importo (pieno) del computo metrico
estimativo oppure la somma (sicuramente minore) che il
lottizzante andrà effettivamente a spendere chiedendo
(ovviamente) più preventivi di spesa ad imprese edili, le
quali offriranno uno sconto percentuale sulle varie voci di
costo? Nel caso la risposta propendesse per la seconda
ipotesi, quali pezze giustificative si dovrebbero chiedere
al lottizzante per avere la certezza dell'importo di spesa?
2) per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione
primaria il cui importo (computo metrico estimativo redatto
siccome specificato al comma precedente) è pari o superiore
alla soglia comunitaria (€ 5.186.000,00), e quindi sussiste
ancora l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara
d'appalto, il ribasso d'asta resta nella disponibilità̀ del
lottizzante oppure del Comune”?
...
1. Deve preliminarmente evidenziarsi come l’analisi delle
questioni proposte dall’Ente rimane circoscritta ai profili
generali ed astratti relativi all’interpretazione delle
disposizioni che vengono in rilievo, essendo preclusa
qualunque interferenza sulle scelte gestionali riservate
alla discrezionalità dell’Ente.
Allo stesso tempo si invita l’Ente a valutare l’opportunità
di adottare un apposito Regolamento relativo all’esecuzione
delle opere di urbanizzazione da realizzarsi a scomputo
degli oneri di urbanizzazione, in modo da disciplinare ex
ante la materia in esame, evitando incertezze
interpretative e il rischio di possibili contenziosi con i
soggetti attuatori dei predetti oneri.
Questa Sezione ha già avuto modo di esaminare l’evoluzione
della disciplina applicabile in subiecta materia in
una precedente deliberazione (parere
21.05.2012 n. 222).
In quella sede si è avuto modo di precisare come la
regolamentazione dell'istituto delle “opere di
urbanizzazione a scomputo” risale alla normativa in
materia urbanistica, secondo la quale la realizzazione di
tali opere condiziona il rilascio del permesso di costruire
(cfr. art. 31 della legge 1150/1942, art. 8 legge n.
765/1967, art. 6 legge n. 10/1977). Le pregresse
disposizioni sono state poi trasfuse nell'articolo 16 del
Testo unico sull'edilizia DPR n. 380/2001 che, ai commi 7,
7-bis e 8, stabilisce la suddivisione in oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, prevedendo che il
rilascio del permesso di costruire comporta per il privato "la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione".
Il legislatore ha previsto poi, nel comma 2 del citato art.
16, la possibilità di scomputare la quota del contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione, nel caso in cui il
titolare del permesso di costruire, o l’attuatore del piano,
si obblighi a realizzarle direttamente. Tra l'operatore
privato e l'amministrazione viene stipulata una convenzione
che accede al permesso di costruire nella quale vengono
regolate le opere da realizzare, i tempi, le modalità della
loro esecuzione, la loro valutazione economica e le garanzie
dell'adempimento, imprimendo così una connotazione negoziale
al rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
La ratio dell'istituto va individuata nella
possibilità offerta all'amministrazione locale di dotarsi di
opere di urbanizzazione senza assumere direttamente i rischi
legati alla loro realizzazione.
Su tale assetto normativo è intervenuta la Corte di
Giustizia con la
sentenza 12.07.2001 C-399/98 ("Scala
2001"),
che ha affermato le direttive europee in tema di
appalti ostano “ad una normativa nazionale in materia
urbanistica che, al di fuori delle procedure previste da
tale direttiva, consenta al titolare di una concessione
edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la
realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il
rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di
tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla
direttiva di cui trattasi".
La Corte di Giustizia ha precisato che “la realizzazione
diretta di un'opera di urbanizzazione secondo le condizioni
e le modalità previste dalla normativa italiana in materia
urbanistica costituisce un appalto pubblico di lavori”.
In sostanza, la Corte ha sostenuto che
tali opere sono da
ritenere pubbliche sin dall’origine (anche se eseguite su
proprietà privata e se formalmente tali prima del passaggio
al patrimonio pubblico) e che la realizzazione delle
medesime in luogo del pagamento del contributo conferma tale
natura.
Con l'approvazione del Codice dei contratti il quadro
normativo si è evoluto nella direzione di un più esteso
assoggettamento delle opere a scomputo alle procedure di
evidenza pubblica.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, con la
citata
determinazione 02.04.2008 n. 4
ha poi esteso la portata dell'articolo 32, comma 2, lettera
g), del d.lgs. 163/2006 a tutti i piani urbanistici e
accordi convenzionali, comunque denominati, stipulati tra
privati e amministrazioni (cosiddetti "accordi complessi",
compresi gli accordi di programma) che prevedano
l'esecuzione di opere destinate a confluire nel patrimonio
pubblico.
Il Legislatore nazionale, per dare piena attuazione ai
principi enunciati dalla Corte di Giustizia, è intervenuto
più volte sulla materia attraverso una serie di correttivi
al Codice degli appalti. Di particolare rilievo appare
l'art. 45 del D.L. n. 201/2011 che nuovamente interviene
sulla materia in questione, inserendo il comma 2-bis
all'art. 16 t.u. dell'edilizia, attraverso il quale viene
reintrodotta la possibilità̀, per il titolare del titolo
abilitativo o l'attuatore di un piano di lottizzazione o
altro piano attuativo, di realizzare direttamente le opere
di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia
comunitaria. Vengono, così, escluse dall'ambito di
applicazione del Codice dei contratti pubblici, le strade
residenziali, gli spazi di sosta o parcheggio, le fognature,
le reti idriche, le reti di approvvigionamento di energia
elettrica e gas, il verde attrezzato, che siano di importo
inferiore alla soglia comunitaria.
In sintesi, sono assoggettate a procedure pubbliche di
affidamento le opere di urbanizzazione sia primarie che
secondarie di rilevanza comunitaria. Per le opere sotto
soglia, l'operatore privato può eseguire direttamente e
senza formalità̀ le opere pubbliche a scomputo degli oneri
di urbanizzazione primaria, di importo inferiore alla soglia
comunitaria; mentre l'indizione della gara trova
applicazione solo per le opere di urbanizzazione secondaria.
2. Venendo ad esaminare il primo dei quesiti posti
dall’Ente istante, vertente sul criterio di determinazione
dell’importo delle opere di urbanizzazione da scomputare
dalla quota di oneri di urbanizzazione complessivamente
dovuti dal lottizzante, appare dirimente richiamare,
preliminarmente, quanto già affermato dalla Sezione
regionale di controllo per il Veneto di questa Corte (parere
07.08.2009 n. 148),
partendo dai tratti caratterizzanti l’istituto del
contributo per costruire, che «costituisce un’entrata di
integrale spettanza dell’Ente e … lo stesso è commisurato …
all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, la cui
esecuzione spetta, in primis, al Comune. L’esercizio di tale
opzione derogatoria da parte del privato ha dunque l’effetto
di sollevare il Comune, in misura corrispondente alle opere
assunte dal privato, dalla corresponsione immediata dei
relativi oneri di urbanizzazione, ciò nonostante assumendo
comunque la proprietà delle opere realizzate.
Ciò posto, l’istituto dello scomputo ha dunque la funzione
di riequilibrare l’entità del contributo per permesso di
costruire -commisurato, tra l’altro e come detto,
all’incidenza degli oneri di urbanizzazione che sono di
regola a carico del Comune- al passaggio di tali oneri dal
Comune al soggetto privato. L’istituto consente dunque di
evitare un indebito arricchimento del Comune ai danni del
privato, che altrimenti verrebbe a determinarsi ove la
commisurazione dell’entità del contributo per permesso di
costruire non tenesse conto della misura in cui gli oneri di
urbanizzazione ai quali quel contributo va commisurato sono
stati effettivamente sostenuti dal Comune, scomputandovi
conseguentemente gli oneri in realtà sostenuti dal privato.
In assenza di scomputo, si creerebbe, in altri termini, una
situazione disparitaria tra l’ipotesi in cui il Comune
acquista la proprietà delle opere di urbanizzazione avendone
sostenuto i relativi oneri e quella in cui il Comune
acquista la proprietà medesima, ma senza averne sostenuto i
relativi oneri, ipotesi quest’ultima che viene
riequilibrata, per l’appunto, mediante lo scomputo degli
oneri di urbanizzazione sostenuti in realtà dal privato dal
contributo che egli deve corrispondere al Comune.
L’esigenza di aderenza della misura del contributo per
permesso di costruire ai costi effettivi dell’urbanizzazione
è, del resto, resa evidente anche dall’art. 16, comma 6, del
D.P.R. n. 380/2001, che menziona espressamente quale
criterio sulla base del quale procedere alla revisione
periodica dell’incidenza degli oneri di urbanizzazione cui è
commisurato il contributo per permesso di costruire quello
della considerazione dei “riscontri e prevedibili costi
delle opere di urbanizzazione” (comma 6)».
Alla luce di questa premessa generale, viene
condivisibilmente affermato che «in ragione
dell’incidenza indiretta sulle finanze dell’Ente locale
degli oneri sostenuti in prima battuta dal privato proprio
in virtù del meccanismo dello scomputo, che fa sì che gli
oneri di urbanizzazione sostenuti dal privato si traducano
in una corrispondente decurtazione di un’entrata dell’ente
locale (quella appunto derivante dal contributo per permesso
di costruire)» non può che collegarsi, pertanto, «l’esigenza
di assicurare che gli oneri che si vanno a scomputare
dall’entrata del Comune (e dunque dalle finanze pubbliche)
corrispondano al “giusto prezzo” per le opere realizzate».
Ne deriva, dunque, in relazione allo specifico quesito in
esame, che l’importo da porre a scomputo
degli oneri di urbanizzazione è preliminarmente determinato
in relazione al computo metrico estimativo, ritenuto congruo
dai competenti uffici comunali. Ciò, però, non preclude, nel
caso che dalla contabilità di fine lavori risultasse un
importo effettivamente speso dall’attuatore inferiore a
quello determinato a monte –ove ovviamente detto importo
fosse inferiore alla quota di contributo relativa agli oneri
di urbanizzazione– che il Comune possa chiedere al privato
attuatore la differenza tra il primo importo e quello
effettivamente speso. Tale valore differenziale potrà essere
corrisposto all’Amministrazione Comunale, a scelta di
quest’ultima, o sotto forma di conguaglio economico o sotto
forma di opere complementari ed integrative. In questo
senso, del resto, milita in primo luogo la considerazione
che, nel caso si seguisse la procedura ordinaria, ovvero che
l’Amministrazione eseguisse direttamente le opere di
urbanizzazione, sopportandone i relativi oneri,
beneficerebbe direttamente anche delle eventuali riduzioni,
conseguite in fase di aggiudicazioni dei lavori, rispetto ai
valori astrattamente indicati nel computo metrico estimativo.
Il ricorso all’istituto dello scomputo,
dunque, non può consentire un esito deteriore per il Comune,
con l’attribuzione al privato dei possibili guadagni
relativi al minor costo di realizzazione delle opere.
In questo senso, del resto si muove la stessa disciplina
legislativa regionale di riferimento (Legge regionale n.
12/2005, su cui cfr.
parere 23.02.2015 n. 83
di questa Sezione), che, all’art. 46, comma 1, lett. b),
prevede: “la realizzazione a cura dei
proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e
di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria
o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai
pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere
devono essere esattamente definite; ove la realizzazione
delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per
la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della
presente legge, è corrisposta la differenza; al comune
spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la
realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma
commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione
inerenti al piano attuativo, nonché all'entità ed alle
caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore
agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale”.
Al riguardo meritano, infine, di essere richiamate anche le
conclusioni da ultimo formulate dal Consiglio di Stato, Sez.
IV (sentenza
24.04.2015 n. 2121), che ha avuto modo di
precisare, in particolare in riguardo al secondo profilo
del quesito in analisi, che «occorre
muovere dal principio, chiaramente recepito dal comma 2
dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, per cui il diritto allo
scomputo dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta
dal costruttore sorge alla “realizzazione delle opere” di
che trattasi. E’ inoltre principio generale (ex art. 190
D.P.R. n. 207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere
sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui viene
certificata la loro regolare esecuzione, che segna anche la
chiusura della relativa contabilità. Dallo stesso momento
deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo scomputo delle
somme spese per lavori di urbanizzazione, sul cui importo
possono insorgere divergenze dipendenti dalla
contabilizzazione delle opere (le c.d. “riserve” che
l’impresa ha l’onere di presentare nei termini di legge la
cui inosservanza produce decadenza
(cfr. Cass. n. 14381/2000), ma certamente
non sorge la facoltà dell’impresa di presentare “ad libitum”
nel tempo una ulteriore contabilità dei lavori. Aderire alla
tesi in esame significherebbe peraltro individuare una sorta
di diritto potestativo dell’impresa di incidere “sine die” e
con effetti patrimoniali sulla certezza del rapporto
giuridico convenzionale già definito. Pertanto e
conclusivamente, deve ritenersi sostanzialmente corretta la
posizione espressa dal primo giudice nel confermare la
legittimità della decisione dell’amministrazione di
considerare, ai fini della definitiva determinazione
dell’onere concessorio, soltanto il primo computo metrico
“prodotto, restando a carico della ricorrente (imputet sibi)
un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella
precedentemente documentata”».
3. I principi ora richiamati consentono, altresì, di
rispondere anche al secondo quesito posto dal Comune
istante, ovvero se, nei casi sopra visti in cui sussiste
l'obbligo di legge di espletare la preventiva gara
d'appalto, il ribasso d'asta resta nella disponibilità̀ del
lottizzante oppure del Comune.
Al riguardo la Sezione di controllo del Veneto, nel
parere
07.08.2009 n. 148
precedentemente richiamato è giunta alla conclusione, ancora
attuale e condivisibile, pur tenuto conto delle successive
modifiche legislative, della «spettanza
al Comune dei ribassi d’asta eventualmente conseguiti in
sede di gara rispetto al corrispettivo astrattamente e
aprioristicamente posto a base d’asta. Invero, il ribasso
d’asta si traduce in una minore entità del corrispettivo che
sarà in concreto corrisposto dal privato per la
realizzazione delle opere rispetto a quello teorico
ipotizzato prima della gara, al quale è stato commisurato lo
scomputo iniziale. E’ dunque evidente che, ove la differenza
determinata dal ribasso d’asta non fosse riversata al
Comune, la misura dello scomputo sarebbe maggiore rispetto a
quella degli oneri di urbanizzazione in concreto sostenuti
dal privato, determinandosi per tale parte un’ingiustificata
decurtazione del contributo per permesso di costruire
spettante al Comune».
In una successiva deliberazione (parere
28.07.2010 n. 94),
la stessa Sezione ha avuto modo di precisare che «l’onere
assunto dal privato per la realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria superi (e non risulti quindi con
essi in posizione di corrispettività) gli oneri di
urbanizzazione, occorre procedere ad una valutazione globale
della fattispecie, di modo che l’eventuale ribasso d’asta
potrà competere al privato (in applicazione, anche in tal
caso, ma in senso inverso, del criterio del “giusto prezzo”)
purché, come suggerito dallo stesso Comune richiedente, in
casi limite, il ribasso d’asta non scenda sotto i valori
tabellari degli oneri dovuti. Al di fuori di quest’ultima
ipotesi, infatti, il Comune sarebbe comunque garantito che
il valore delle opere da realizzare superi comunque –a
prescindere dalla spettanza del ribasso d’asta– quanto il
privato avrebbe dovuto versare quali oneri di urbanizzazione
primaria» (Corte dei Conti, Sez. controllo
Lombardia,
parere 24.09.2015
n. 314). |
E per una migliore comprensione dei termini della
questione, a seguire anche alcuni pronunciamenti
menzionati nel suddetto parere: |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
diritto allo scomputo dagli oneri di urbanizzazione
della quota dovuta dal costruttore sorge alla
“realizzazione delle opere” di che trattasi.
E’ inoltre principio generale (ex art. 190 d.p.r. n.
207/2010) regolante i lavori pubblici che le opere
sono da ritenersi realizzate solo dal momento in cui
viene certificata la loro regolare esecuzione, che
segna anche la chiusura della relativa contabilità.
Dallo stesso momento deve quindi ritenersi sorgere
il diritto allo scomputo delle somme spese per
lavori di urbanizzazione, sul cui importo possono
insorgere divergenze dipendenti dalla
contabilizzazione delle opere (le c.d. “riserve” che
l’impresa ha l’onere di presentare nei termini di
legge la cui inosservanza produce decadenza), ma
certamente non sorge la facoltà dell’impresa di
presentare “ad libitum” nel tempo una ulteriore
contabilità dei lavori.
... per la riforma della
sentenza 23.01.2013 n. 50 del TAR Sardegna-Cagliari: Sez. II, resa tra
le parti, concernente la determinazione conguaglio
per opere di urbanizzazione primaria.
...
1.- La società appellante chiede la riforma della
sentenza, in epigrafe specificata, con la quale il
TAR della Sardegna ha respinto il suo ricorso
proposto per la determinazione di un conguaglio su
oneri di urbanizzazione primaria relativi a lavori
(una condotta fognaria) previsti da una convenzione
di lottizzazione.
In particolare la controversia verte sulla
quantificazione dello scomputo previsto -in favore
della ricorrente- dalla convenzione urbanistica
stipulata col Comune di Sestu in data 09.03.2003
rispetto al contributo dovuto commisurato al costo
di costruzione ex lege n. 10/1977; nell’atto
convenzionale, infatti, si prescriveva una riduzione
di tale contributo nella misura del 50% del costo di
realizzazione del predetto collettore.
2.- Con la sentenza epigrafata il TAR ha respinto il
ricorso, che chiedeva (in difformità dal
provvedimento comunale n. 19923 del 14.09.2010 teso
alla riscossione di un contributo pari ad Euro
57.232,13) un riconoscimento di un credito verso il
Comune per la realizzazione dell’opera di
urbanizzazione (in forza di nuova contabilità dei
lavori presentata dalla ricorrente) in quanto non
condividendo “una valutazione di sopravvenuta
illegittimità della determinazione assunta
dall’amministrazione comunale”.
3.- A sostegno del gravame la società istante ha
dedotto motivi che risultano tuttavia infondati.
In sintesi, la sentenza sarebbe incorsa nella
violazione degli artt. 5 e 10 della legge n. 10/1977
e dell’art. 16 del dpr n. 380/2001, e della
convenzione urbanistica, per aver respinto il
ricorso sulla base di una circostanza irrilevante,
costituita dal fatto che i conteggi che supportano
la pretesa azionata sono stati depositati
successivamente al collaudo; del resto la
contabilità finale dei lavori sotto il profilo
temporale non era disciplinata dalla convenzione,
con la conseguenza che non sussisteva alcun
impedimento ad addivenire al diverso computo
consuntivo dei lavori presentato.
Nel merito della somma richiesta, la ricorrente
supporta le proprie ragioni esibendo specifica
perizia.
La tesi è infondata.
Punto nodale della controversia, come specifica il
Comune appellato, è la natura giuridica da
attribuire al computo metrico presentato
dall’appellante in data 31.08.2010 e sulla base del
quale il Comune ha determinato il conguaglio
spettante alla società, da essa contestato sul “quantum”.
In particolare si tratta di stabilire se
successivamente al collaudo dei lavori necessari per
realizzare l’opera di urbanizzazione ed ai fini
della determinazione degli oneri dovuti, può
assumere rilievo una contabilità diversa da quella
assunta a base del collaudo. Alla questione ritiene
il Collegio debba darsi esito negativo.
Al riguardo occorre muovere dal principio,
chiaramente recepito dal comma 2 dell’art. 16 del
dpr n. 380/2001, per cui il diritto allo scomputo
dagli oneri di urbanizzazione della quota dovuta dal
costruttore sorge alla “realizzazione delle opere”
di che trattasi. E’ inoltre principio generale (ex
art. 190 d.p.r. n. 207/2010) regolante i lavori
pubblici che le opere sono da ritenersi realizzate
solo dal momento in cui viene certificata la loro
regolare esecuzione, che segna anche la chiusura
della relativa contabilità. Dallo stesso momento
deve quindi ritenersi sorgere il diritto allo
scomputo delle somme spese per lavori di
urbanizzazione, sul cui importo possono insorgere
divergenze dipendenti dalla contabilizzazione delle
opere (le c.d. “riserve” che l’impresa ha
l’onere di presentare nei termini di legge la cui
inosservanza produce decadenza - cfr. Cass. n.
14381/2000), ma certamente non sorge la facoltà
dell’impresa di presentare “ad libitum” nel
tempo una ulteriore contabilità dei lavori.
Aderire alla tesi in esame significherebbe peraltro
individuare una sorta di diritto potestativo
dell’impresa di incidere “sine die” e con
effetti patrimoniali sulla certezza del rapporto
giuridico convenzionale già definito.
Pertanto e conclusivamente, deve ritenersi
sostanzialmente corretta la posizione espressa dal
primo giudice nel confermare la legittimità della
decisione dell’amministrazione di considerare, ai
fini della definitiva determinazione dell’onere
concessorio, soltanto il primo computo metrico “prodotto,
restando a carico della ricorrente (imputet sibi)
un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella
precedentemente documentata”.
4.- Le spese del presente giudizio seguono il
principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
...il cui Consiglio di
Stato ha confermata l'impugnata sentenza del TAR
Sardegna: |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In data 31.08.2010 la ricorrente
depositava presso l’amministrazione comunale la
contabilità dei lavori concernenti le opere di
urbanizzazione primaria soggette a scomputo.
Successivamente, in data 29.02.2012 la medesima
società presentava al Comune una nuova contabilità
dei lavori, recante gli importi superiori che hanno
determinato l’odierna contestazione.
Ritiene il Collegio che questa nuova produzione
della ricorrente non valga a determinare una
valutazione di sopravvenuta illegittimità della
determinazione assunta dall’amministrazione
comunale.
Da un lato, infatti, non è stata indicata
alcuna ragionevole giustificazione della produzione
–a distanza di quasi 2 anni– di una seconda
contabilità, recante valori economici di importo
sensibilmente superiori rispetto a quanto
precedentemente comunicato.
Dall’altro lato tale ripensamento della
ricorrente risulta vieppiù incomprensibile se si
considera che fin dal 2006 i lavori erano stati già
abbondantemente eseguiti e risultava già interamente
chiusa la relativa procedura amministrativa
(comunicazione di fine lavori, collaudo, delibera di
approvazione del collaudo da parte della giunta
comunale).
Con la conseguenza che si rivela corretta la
decisione dell’amministrazione di tenere in
considerazione, ai fini della definitiva
determinazione dell’onere concessorio, soltanto il
primo computo metrico prodotto (ndr: contabilità
lavori), restando a carico della ricorrente (imputet
sibi) un’eventuale ulteriore spesa rispetto a quella
precedentemente documentata.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento prot. n.
19923 del 14.09.2010, con il quale è stato richiesto
alla società ricorrente il pagamento di un
conguaglio per opere di urbanizzazione primaria
nella misura di euro 57.232.13;
...
FATTO
La società Po.D. de J. S.p.a. ha realizzato un
complesso intervento edilizio nel Comune di Sestu,
località “More Corraxe”.
A tal fine ha stipulato, in data 09.03.2003, la
convenzione urbanistica n. 4035 di attuazione dello
stralcio 1 del Piano di Lottizzazione “More
Corraxe” e, in pari data, la convenzione
urbanistica n. 4036 di attuazione dello stralcio 2
del medesimo Piano di Lottizzazione.
In entrambe le convenzioni l’art. 6 prevedeva che
l’amministrazione comunale avrebbe scontato dal
contributo commisurato al costo di costruzione ex
lege n. 10/1977 l’importo pari al 50% del costo
della realizzazione del collettore fognario.
Successivamente il Comune di Sestu rilasciava le
concessioni edilizie previste per la realizzazione
delle opere convenzionate.
Sennonché, nell’assunto della ricorrente, col
provvedimento impugnato il Comune di Sestu avrebbe
determinato un conguaglio errato rispetto a quanto
concordato in sede di convenzionamento.
Di qui il ricorso in esame affidato ai seguenti
motivi:
Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5
della legge 28.01.1977 n. 10 e dell’art. 16, comma
2, del DPR 06.06.2001 n. 380 – Eccesso di potere e
carenza di motivazione anche per violazione e falsa
applicazione dell’art. 6 della Convenzione
urbanistica n. 4035 del 09.03.2003 e dell’art. 7
della la convenzione urbanistica n. 4036 di pari
data: in quanto l’amministrazione comunale avrebbe
erroneamente conteggiato i costi sopportati dalla
ricorrente per la realizzazione diretta delle opere
di urbanizzazione primaria.
Concludeva quindi la ricorrente chiedendo
l’annullamento del provvedimento impugnato, con
vittoria delle spese.
Per resistere al ricorso si è costituito il Comune
di Sestu che, con articolate difese scritte, ne ha
chiesto il rigetto, vinte le spese.
A seguito di rinuncia al mandato degli originari
difensori, con memoria di costituzione depositata il
30.11.2012, la società ricorrente si è costituita
con nuovo procuratore.
In vista dell’udienza di trattazione le controparti
hanno depositato ulteriori scritti difensivi con i
quali hanno confermato le rispettive conclusioni.
Alla pubblica udienza del 16.01.2013, sentiti i
difensori delle parti, la causa è stata posta in
decisione.
DIRITTO
La vicenda per cui è causa concerne la
quantificazione dello scomputo previsto -in favore
della ricorrente- dalla convenzione urbanistica
stipulata col Comune di Sestu in data 09.03.2003
rispetto al contributo dovuto commisurato al costo
di costruzione ex lege n. 10/1977.
Nell’atto convenzionale, infatti, si prescriveva un
riduzione di tale contributo nella misura del 50%
del costo di realizzazione del collettore fognario.
A ben vedere, infatti, le discordanze tra le
controparti non concernono l’applicazione o meno
dell’anzidetta riduzione, pacificamente riconosciuta
dall’amministrazione comunale, ma attengono
esclusivamente al quantum del costo
sopportato dalla ricorrente quale base applicativa
dello scomputo.
In particolare la ricorrente contesta la
quantificazione operata dal Comune circa il costo di
realizzazione della condotta fognaria assumendo di
aver sostenuto un costo complessivo pari ad euro
2.018.496,62, valutabili al 50% per euro
1.009.248,31, con la conseguenza che non solo
sarebbe errata la richiesta del conguagli di euro
57.232,13 operata dal Comune di Sestu, ma, a ben
vedere si determinerebbe addirittura un credito in
suo favore.
L’argomento non merita accoglimento.
In data 31.08.2010 la ricorrente depositava presso
l’amministrazione comunale la contabilità dei lavori
concernenti le opere di urbanizzazione primaria
soggette a scomputo.
Sulla base della documentazione presentata (allegati
3, 4, 5, 6 delle produzioni comunali) il Comune di
Sestu provvedeva alla liquidazione dello scomputo,
determinandolo in euro 517.008,95 (pari al 50% di
euro 1.034.017,89).
Tenuto conto dello scomputo già precedentemente
applicato, l’ente comunale determinava la somma
ancora dovuta dalla ricorrente in euro 57.232,13 e,
al fine del recupero, adottava il provvedimento oggi
impugnato.
Successivamente all’adozione di tale provvedimento,
in data 29.02.2012, la società Po. presentava al
Comune di Sestu una nuova contabilità dei lavori,
recante gli importi superiori che hanno determinato
l’odierna contestazione.
Ritiene il Collegio che questa nuova produzione
della ricorrente non valga a determinare una
valutazione di sopravvenuta illegittimità della
determinazione assunta dall’amministrazione
comunale.
Da un lato, infatti, non è stata indicata
alcuna ragionevole giustificazione della produzione
–a distanza di quasi 2 anni– di una seconda
contabilità, recante valori economici di importo
sensibilmente superiori rispetto a quanto
precedentemente comunicato dalla stessa società Po..
Dall’altro lato tale ripensamento della
ricorrente risulta vieppiù incomprensibile se si
considera che fin dal 2006 i lavori erano stati già
abbondantemente eseguiti e risultava già interamente
chiusa la relativa procedura amministrativa
(comunicazione di fine lavori, collaudo, delibera di
approvazione del collaudo da parte della giunta
comunale: vedi allegati 7, 8, 9, e 10 delle difese
comunali).
Con la conseguenza che si rivela corretta la
decisione dell’amministrazione di tenere in
considerazione, ai fini della definitiva
determinazione dell’onere concessorio, soltanto il
primo computo metrico prodotto, restando a carico
della ricorrente (imputet sibi) un’eventuale
ulteriore spesa rispetto a quella precedentemente
documentata.
Di qui la reiezione del ricorso n esame.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed altri interessanti princìpi recentissimamente
enunciati dall'A.N.AC.: |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: ANCE Marche – mancato pagamento di opere di
urbanizzazione e tutela dell’impresa esecutrice - richiesta
di parere.
Il privato titolare del permesso di
costruire è titolare diretto della funzione di stazione di
appaltante in qualità di “altro soggetto aggiudicatore” ex
art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006. Il titolare del
permesso di costruire è pertanto «esclusivo responsabile
dell’attività di progettazione, affidamento e di esecuzione
delle opere di urbanizzazione».
Residuano in capo al Comune i
poteri di vigilanza e controllo che spettano
all’Amministrazione, consistenti nell’approvazione
del progetto in linea tecnica ed economica,
nell’approvazione delle eventuali varianti in corso
di esecuzione e degli atti di collaudo, oltre che
nella possibilità di chiedere al privato
informazioni circa le modalità di svolgimento della
gara d’appalto.
Si tratta di poteri che il Comune conserva
in quanto istituzionalmente preposto alla cura dell’assetto
e dell’utilizzazione del territorio, giustificati dalla
natura pubblica delle opere di urbanizzazione, in quanto
opere di utilità generale destinate a fare parte del
patrimonio comunale, e finalizzati pertanto a garantirne la
piena rispondenza alla funzione cui sono preposte. Tali
poteri sono dunque esercitati per garantire specifiche
caratteristiche e funzionalità delle opere di
urbanizzazione.
Non sono invece contemplati poteri/obblighi solidali o
sussidiari del Comune rispetto alle obbligazioni
contrattualmente assunte dal titolare del permesso di
costruire nei confronti dell’operatore economico esecutore
delle opere di urbanizzazione.
---------------
I costi delle opere di
urbanizzazione, benché queste siano destinate al
patrimonio del Comune, devono rimanere a carico del
titolare del permesso di costruire in forza
dell’originaria obbligazione avente titolo nella
legge.
Dunque, il titolare del permesso di costruire, avendo
assunto l’obbligazione di realizzare direttamente le opere
di urbanizzazione in luogo della corresponsione del
contributo ed essendo titolato ex lege all’espletamento
della procedura per la selezione dell’operatore economico
incaricato della realizzazione dell’opera, è l’unico soggetto
tenuto ad adempiere all’obbligazione assunta nei confronti
dell’amministrazione, anche adempiendo diligentemente alle
obbligazioni scaturenti dal contratto stipulato con
l’operatore economico.
Sicché,
è da escludere che possa rinvenirsi nella normativa vigente un
titolo su cui fondare la responsabilità del Comune per gli
eventuali inadempimenti del titolare del permesso di
costruire nei confronti dell’operatore economico.
Una simile responsabilità del Comune potrebbe avere solo
origine pattizia se dedotta nella convenzione urbanistica o
altro atto d’obbligo che accede al permesso di
costruire/lottizzazione.
Sotto una diversa prospettiva, può considerarsi che
l’obbligazione di sostenere i costi dei lavori di
realizzazione delle opere di urbanizzazione tramite il
pagamento del corrispettivo all’operatore economico
esecutore potrebbe essere contemplata, nella medesima
convenzione, tra le obbligazioni coperte dalle garanzie
prestate dal titolare del permesso di costruire all’atto
della stipula, la cui violazione comporta l’escussione delle
garanzie medesime.
Anche in tal caso, dovrebbe comunque
esservi una espressa previsione in questo senso nella
convenzione.
---------------
In esito a quanto richiesto con nota acquisita al protocollo
n. 42361 del 09.04.2015 relativamente alle possibili azioni
a tutela delle imprese affidatarie della realizzazione delle
opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione a seguito di
procedura di gara espletata dal titolare del permesso di
costruire, nel caso in cui non venga loro corrisposto il
pagamento dei crediti maturati a seguito dell’esecuzione del
contratto, si rappresenta che il Consiglio dell’Autorità,
nell’adunanza del 23.09.2015, ha approvato le
seguenti considerazioni.
Tralasciando di ripercorrere il noto iter che ha condotto
dalla previsione dell’art. 11, comma 1, della legge n. 28.01.1977, n. 10 (ora trasfusa nell’art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001) –contemplante la possibilità di
scomputare in tutto o in parte il contributo per gli oneri
di urbanizzazione dovuto dal titolare del permesso di
costruire attraverso la realizzazione diretta delle opere di
urbanizzazione– attraverso la
sentenza 12.07.2001 C-399/98 della Corte di
Giustizia, all’obbligo per il
titolare del permesso di costruire che intende avvalersi di
detta possibilità di affidare la realizzazione delle opere
di urbanizzazione con procedura ad evidenza pubblica (oggi
sancito dall’art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n.
163/2006), si evidenzia come nella
determinazione
16.07.2009 n. 7 l’Autorità abbia delineato l’inquadramento
giuridico dell’istituto affermando, sotto il profilo
soggettivo, che il privato titolare del permesso di
costruire è titolare diretto della funzione di stazione di
appaltante in qualità di “altro soggetto aggiudicatore” ex
art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006.
Essendo destinatario diretto della normativa sulle gare
pubbliche in qualità di stazione appaltante, il titolare del
permesso di costruire è pertanto «esclusivo responsabile
dell’attività di progettazione, affidamento e di esecuzione
delle opere di urbanizzazione».
Come chiarito nella stessa determinazione, residuano in capo
al Comune i poteri di vigilanza e controllo che spettano
all’Amministrazione, consistenti nell’approvazione del
progetto in linea tecnica ed economica, nell’approvazione
delle eventuali varianti in corso di esecuzione e degli atti
di collaudo, oltre che nella possibilità di chiedere al
privato informazioni circa le modalità di svolgimento della
gara d’appalto.
Si tratta di poteri che il Comune conserva
in quanto istituzionalmente preposto alla cura dell’assetto
e dell’utilizzazione del territorio, giustificati dalla
natura pubblica delle opere di urbanizzazione, in quanto
opere di utilità generale destinate a fare parte del
patrimonio comunale, e finalizzati pertanto a garantirne la
piena rispondenza alla funzione cui sono preposte. Tali
poteri sono dunque esercitati per garantire specifiche
caratteristiche e funzionalità delle opere di
urbanizzazione.
Non sono invece contemplati poteri/obblighi solidali o
sussidiari del Comune rispetto alle obbligazioni
contrattualmente assunte dal titolare del permesso di
costruire nei confronti dell’operatore economico esecutore
delle opere di urbanizzazione.
Occorre altresì considerare che l’onere di copertura almeno
parziale degli oneri di urbanizzazione grava sul titolare
del permesso di costruire in forza di espressa previsione
normativa (art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001) e che,
quando il titolare del permesso di costruire si avvale della
facoltà di scomputare quanto dovuto realizzando direttamente
le opere, altro non fa che stipulare con
l’amministrazione locale una sorta di novazione
dell’obbligazione originaria a proprio carico sostituendola
con la diversa obbligazione di realizzazione diretta delle
opere (determinazione cit. «il privato adempie l’obbligo
eseguendo la diversa prestazione delle realizzazione delle
opere»).
Ne consegue -oltre al fatto evidenziato nella
citata determinazione che gli eventuali ribassi derivanti
dalla procedura di gara permangono nella disponibilità del
titolare del permesso di costruire– che i costi delle opere
di urbanizzazione, benché queste siano destinate al
patrimonio del Comune, devono rimanere a carico del titolare
del permesso di costruire in forza dell’originaria
obbligazione avente titolo nella legge.
Dunque, il titolare del permesso di costruire, avendo
assunto l’obbligazione di realizzare direttamente le opere
di urbanizzazione in luogo della corresponsione del
contributo ed essendo titolato ex lege all’espletamento
della procedura per la selezione dell’operatore economico
incaricato della realizzazione dell’opera, è l’unico soggetto
tenuto ad adempiere all’obbligazione assunta nei confronti
dell’amministrazione, anche adempiendo diligentemente alle
obbligazioni scaturenti dal contratto stipulato con
l’operatore economico.
Una ricostruzione in questi termini dell’istituto induce ad
escludere che possa rinvenirsi nella normativa vigente un
titolo su cui fondare la responsabilità del Comune per gli
eventuali inadempimenti del titolare del permesso di
costruire nei confronti dell’operatore economico.
Una simile responsabilità del Comune potrebbe avere solo
origine pattizia se dedotta nella convenzione urbanistica o
altro atto d’obbligo che accede al permesso di
costruire/lottizzazione.
Sotto una diversa prospettiva, può considerarsi che
l’obbligazione di sostenere i costi dei lavori di
realizzazione delle opere di urbanizzazione tramite il
pagamento del corrispettivo all’operatore economico
esecutore potrebbe essere contemplata, nella medesima
convenzione, tra le obbligazioni coperte dalle garanzie
prestate dal titolare del permesso di costruire all’atto
della stipula, la cui violazione comporta l’escussione delle
garanzie medesime. Anche in tal caso, dovrebbe comunque
esservi una espressa previsione in questo senso nella
convenzione.
Per ciò che concerne la mancata riconsegna delle opere di
urbanizzazione da parte dell’operatore economico, si osserva
che il contratto di appalto stipulato tra titolare del
permesso di costruire e l’operatore economico selezionato
con gara, come evidenziato nella richiamata determinazione,
è disciplinato dalle norme del diritto civile e che pertanto
l’operatore economico può avvalersi dell’eccezione
d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. che consente al
contraente, che non abbia ottenuto la prestazione cui ha
diritto, di rifiutare quella di cui è debitore.
Invero, anche la disciplina pubblicistica dell’appalto di
lavori riconosce, nell’art. 133, comma 1, del Codice dei
contratti, la possibilità per l’operatore economico, qualora
l’ammontare delle rate di acconto per le quali non sia stato
tempestivamente emesso il certificato di collaudo o il
titolo di spesa raggiunga il quarto dell’importo netto
contrattuale, di agire ai sensi dell’art. 1460 c.c.. La
previsione dell’art. 133 è in linea con la consolidata
giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui la
preminenza della posizione riservata alla pubblica
amministrazione non incide sulla natura privatistica del
contratto di appalto di opere pubbliche(cfr., ex multis,
Cassazione Civile, sez. I, 12.08.2010, n. 18644).
E da tempo la Cassazione aveva già riconosciuto la facoltà
all’operatore economico di esperire il rimedio cautelativo
della sospensione dei lavori a fronte dell’inadempimento
dell’amministrazione, avvalendosi dell’eccezione di
inadempimento, ove lo stesso deduca e dimostri che detto
inadempimento sia ascrivibile a dolo o colpa grave
dell’amministrazione e sempreché l’inadempimento stesso
presenti gravità idonea a compromettere l’equilibrio fra le
contrapposte prestazioni (Cassazione civile, sez. I, 24.10.1985, n. 5232).
Quanto riconosciuto a favore dell’operatore economico
nell’ambito degli appalti di lavori soggetti alla disciplina
pubblicistica conferma la legittimità dell’esercizio
dell’eccezione di inadempimento nel caso di contratto di
appalto che, benché avente ad oggetto la realizzazione di
opere pubbliche, è stipulato tra privati ed è «disciplinato
dalle norme del diritto civile, nel rispetto delle
disposizioni contenute nella convenzione urbanistica, nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle
disposizioni della procedura di gara» (determinazione cit.).
Per completezza si rammenta che l’eccezione di cui all’art.
1460 c.c. va esercitata nel rispetto dei principi
ermeneutici enucleati dalla giurisprudenza per i contratti
con prestazioni corrispettive, per i quali, in particolare,
si ritiene che, ove una delle parti giustifichi la propria
inadempienza con l’inadempimento dell’altra, il giudice deve
procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti,
tenendo conto non solo dell’elemento cronologico ma anche e
soprattutto dei rapporti di proporzionalità e
corrispettività esistenti tra le prestazioni inadempiute,
per stabilire se l’inadempimento o la prospettiva di
inadempimento di una parte giustifichi il rifiuto di
esecuzione della prestazione dovuta dall’altra; a tal fine
il giudice non deve avere riguardo alle sole obbligazioni
principali dedotte in contratto (e cioè, nell’appalto, a
pagamento del compenso, per il committente ed il compimento
dell’opera, per l’appaltatore), ma anche a quelle secondarie
cui le parti, nell’esplicamento della loro autonomia
contrattuale, abbiano attribuito carattere di essenzialità
sul piano sinallagmatico (cfr. Cassazione civile I,
27.09.1999, n. 10668)
(parere
sulla normativa 23.09.2015 n. 65 - rif. AG 65/2015/AP
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
|
IN EVIDENZA |
Come deve provvedere
un piccolo comune, giusta i 1.000 e più vincoli normativi
d'ogni genere, a
garantire
legittimamente
ai propri cittadini il servizio dell'Ufficio
Tecnico?? |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se
risulti possibile, in considerazione dell’assoluta
impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane
disponibili all’interno della propria dotazione
organica, provvedere alla esternalizzazione del
servizio relativo all’ufficio tecnico comunale.
Il Comune aveva già interpellato questa
Sezione regionale di controllo, sulla medesima vicenda, con
una richiesta formulata il 01.06.2011.
All’epoca il Sindaco aveva chiesto se fosse possibile, per
superare il problema dell’assenza del titolare dell’UTC,
provvedere con una consulenza continuativa.
La Sezione aveva
rilevato l’impossibilità di procedere con tale strumento,
stante l’ordinarietà dei compiti amministrativi riservati
all’Ufficio tecnico “non richiedendosi per lo svolgimento
di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata
diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle
assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali
finalizzate”, suggerendo di ricorrere alle forme di
lavoro c.d. “flessibili” (assunzioni a tempo
determinato e contratti di collaborazione ordinaria), ai
sensi dell’art. 92 TUEL.
Oggi
il Comune,
riprendendo la questione, precisa di non potere ricorrere
alle medesime in quanto non si rispetterebbero i limiti
previsti in materia di contenimento di spese per personale a
tempo determinato e torna a chiedere “se risulti
possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità
oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili
all’interno della propria dotazione organica, provvedere
alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio
tecnico comunale”.
Al riguardo, la Sezione non può che confermare la
propria consolidata giurisprudenza.
Peraltro, nel precedente parere, la Sezione
aveva espressamente indicato, come soluzione al problema
prospettato dal Comune, “la possibilità di ricorrere agli
istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e dall’art. 33
(esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei
comuni) del TUEL”.
Entrambi gli istituti consentirebbero di
affrontare una spesa sensibilmente inferiore rispetto a
quella sostenibile per un’assunzione a tempo determinato.
Pertanto, la Sezione ritiene che, in
presenza di una situazione di fatto come quella esposta dal
Comune di Pontinvrea nella sua richiesta, sia possibile
stipulare una convenzione con altro Comune per
usufruire congiuntamente del servizio dello stesso tecnico
comunale, percorso giuridico sicuramente meno complesso e
più celere rispetto a, quello comunque esperibile, dell’esercizio
stabilmente associato della funzione dell’ufficio
tecnico insieme ad un altro comune.
---------------
Con istanza in data 25.05.2015, trasmessa dal Presidente del
Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria con nota n.
46 del 10.06.2015, assunta in pari data al protocollo della
Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte
dei conti per la Liguria con il n. 2456 – 10.06.2015 – SC _
LIG - T85 – A, il Comune di Pontinvrea (SV) ha inviato
una richiesta di parere inerente alla possibilità di
conferire l’incarico esterno di responsabile dell’Ufficio
tecnico comunale (UTC), ai sensi dell’art. 7, comma 6, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
In particolare il Sindaco, dopo avere ricordato che per la
stessa vicenda aveva già chiesto un parere, rilasciato con
il
parere 21.06.2011
n. 54,
evidenzia che il Comune continua a non avere al suo interno
professionalità da valorizzare per il funzionamento
dell’Ufficio tecnico comunale, il quale risulta privo di
personale.
Per tale ragione, secondo quanto riferisce il Sindaco, si
rende necessario operare una esternalizzazione del servizio
“stante la sempre più diffusa tendenza verso pratiche di
outsourcing, al fine di razionalizzare e rendere efficiente
l’uso di risorse umane ed economiche a disposizione”
specificando, peraltro che si fornirebbe idonea motivazione
in ordine agli obiettivi da raggiungere e alla durata
dell’incarico, da conferire solo a seguito di “una
rigorosa procedura comparativa”.
A sostegno della propria tesi, il Sindaco menziona la
sentenza 04.02.2015 n. 826, con la quale il TAR Campania
riconosce ampia discrezionalità agli enti locali
nell’organizzazione dei propri uffici, in presenza di un “rapporto
deficitario tra personale in servizio e pratiche in corso”.
...
Come correttamente riconosciuto nella richiesta di parere, il Comune di Pontinvrea aveva già interpellato questa
Sezione regionale di controllo, sulla medesima vicenda, con
una richiesta formulata il 01.06.2011.
All’epoca il Sindaco aveva chiesto se fosse possibile, per
superare il problema dell’assenza del titolare dell’UTC,
provvedere con una consulenza continuativa.
La Sezione aveva
rilevato l’impossibilità di procedere con tale strumento,
stante l’ordinarietà dei compiti amministrativi riservati
all’Ufficio tecnico “non richiedendosi per lo svolgimento
di tali compiti alcuna preparazione altamente qualificata
diversa da quella richiesta dalla legge ai fini delle
assunzioni di personale mediante le procedure concorsuali
finalizzate”, suggerendo di ricorrere alle forme di
lavoro c.d. “flessibili” (assunzioni a tempo
determinato e contratti di collaborazione ordinaria), ai
sensi dell’art. 92 TUEL.
Il Comune, nella richiesta di parere oggi in esame,
riprendendo la questione, precisa di non potere ricorrere
alle medesime in quanto non si rispetterebbero i limiti
previsti in materia di contenimento di spese per personale a
tempo determinato e torna a chiedere “se risulti
possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità
oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili
all’interno della propria dotazione organica, provvedere
alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio
tecnico comunale”, richiamando allo scopo i principi
contenuti nella sentenza del TAR Campania n. 826 del 2015.
Tale decisione ha ritenuto legittimo l’incarico, conferito
dal Comune ad un avvocato del libero foro, di patrocinare e
assistere in giudizio il Comune per tutti i nuovi giudizi,
in attesa dell’espletamento del concorso per la nomina del
Dirigente del Settore Affari Legali, pur in presenza di un
avvocato comunale, riconoscendo la necessità di una
professionalità altamente qualificata.
Il principio richiamato, peraltro, non sembra applicabile
alla fattispecie de qua: non si può infatti sostenere
che la difesa e rappresentanza in giudizio di tutte le nuove
cause che coinvolgono un comune (che possono spaziare dalle
questioni civilistiche a quelle più propriamente
amministrative, fino a giungere al diritto penale, laddove
il medesimo ritenesse di costituirsi come parte civile in
determinati processi) presupponga conoscenze e nozioni
possedute ordinariamente dagli impiegati pubblici.
A conferma di ciò, si rileva la circostanza che il bando
emesso per coprire quella posizione organizzativa
richiedeva, quale requisito di ammissione alle prove scritte
non solo l’abilitazione alla professione legale ma,
addirittura, l’iscrizione all’albo dei Cassazionisti, che si
ottiene solo a seguito di uno specifico esame, ovvero dopo
otto anni di esercizio della professione e la
frequentazione, con ottimi risultati, dei corsi istituiti
dalla Scuola superiore dell’avvocatura con verifica finale
per accertare la sussistenza dei relativi requisiti.
Si tratta pertanto dell’individuazione di una
professionalità non rinvenibile ordinariamente nelle piante
organiche dei Comuni e che, pertanto, può legittimare, come
ha ritenuto il TAR Campania, con una decisione condivisibile
secondo questa Sezione, il conferimento di un incarico
esterno con durata e compenso predeterminati.
Non altrettanto può dirsi per il caso in esame,
relativamente al quale la Sezione non può che confermare la
propria consolidata giurisprudenza.
Peraltro, nel precedente parere, la Sezione
aveva espressamente indicato, come soluzione al problema
prospettato dal Comune, “la possibilità di ricorrere agli
istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e dall’art. 33
(esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei
comuni) del TUEL”.
Entrambi gli istituti consentirebbero di
affrontare una spesa sensibilmente inferiore rispetto a
quella sostenibile per un’assunzione a tempo determinato.
Pertanto, la Sezione ritiene che, in
presenza di una situazione di fatto come quella esposta dal
Comune di Pontinvrea nella sua richiesta, sia possibile
stipulare una convenzione con altro Comune per
usufruire congiuntamente del servizio dello stesso tecnico
comunale, percorso giuridico sicuramente meno complesso e
più celere rispetto a, quello comunque esperibile, dell’esercizio
stabilmente associato della funzione dell’ufficio
tecnico insieme ad un altro comune
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 30.07.2015 n. 61). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per
avere l'Ufficio Tecnico coperto ed operativo è
illegittimo conferire un incarico esterno quale "consulenza".
E' legittimo il conferimento all'esterno
dell'incarico (di consulenza, collaborazione) di
geologo ma solo nel momento in cui tali forme di
spesa non incidono sul bilancio pubblico, in questo
caso dell’ente locale. Detto altrimenti, quando tali istituti si auto-finanziano o
trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni
all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati,
ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali
istituti giuridici.
L’incarico da
conferire per il funzionamento dell’ufficio tecnico non
può essere ricompreso nella nozione di consulenza esterna
di cui all’art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010.
Difatti, tale
incarico è finalizzato allo svolgimento degli ordinari
compiti amministrativi facenti capo all’ufficio tecnico
comunale non richiedendosi per lo svolgimento di tali
compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da
quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di
personale mediante le procedure concorsuali finalizzate
(titolo di studio, esperienze lavorative, specializzazioni,
ecc).
Inoltre, contrasta con i caratteri tipici della
consulenza, individuati al comma 6 dell’art. 7 del D.Lgs.
n. 165/2001, il carattere continuativo della prestazione
richiesta al “consulente”.
--------------
La finalità
perseguita dalla normativa finanziaria degli ultimi anni
consiste nella riduzione delle spese pubbliche al fine di
realizzare gli obiettivi di finanza pubblica e, per ciò che
concerne istituti come quello delle consulenze esterne,
ridurre l’incidenza di tali spese sui bilanci degli enti
pubblici.
Pertanto le norme non mirano a vietare o ridurre l’utilizzo tout court di tali istituti (consulenze, collaborazioni,
sponsorizzazioni, missioni, ecc.) ma solo nel momento in cui
tali forme di spesa incidono sul bilancio pubblico, in
questo caso, dell’ente locale.
Diversamente, quando tali istituti si auto-finanziano o
trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni
all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati,
ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali
istituti giuridici.
Pertanto qualora non vi siano oneri in capo
alle amministrazioni locali non vi è alcuna preclusione al conferimento
all’esterno dell’incarico di geologo.
-----------------
Con istanza n. 1251 del 15.05.2011, trasmessa dal
Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della
Liguria con nota n. 42 del 30.05.2011 ed assunta al
protocollo della Segreteria della Sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Liguria l’01.06.2011 con il n. 2246 – 01.06.2011 – SC _ LIG - T85 – A,
il
Sindaco del Comune di Pontinvrea (SV) chiede alla Sezione un
parere in merito all’applicazione dell’art. 6, comma 7, del
D.L. 78/2010, convertito in Legge n. 122/2010, in materia di
riduzione dei costi degli apparati amministrativi.
In particolare il Sindaco evidenzia che il comune di
Pontinvrea non ha al suo interno professionalità da
valorizzare per il funzionamento dell’ufficio tecnico
comunale che risulta privo di personale, motivo per cui si
rende necessario stipulare un contratto di consulenza
continuativa per il funzionamento dell’ufficio predetto.
Tale affidamento si porrebbe in contrasto con quanto
stabilito dall’art. 6, comma 7 sopra citato che prevede,
anche per gli enti locali, precisi limiti di spesa in
materia di consulenza, spesa che non può eccedere per l’anno
2011 il 20% di quella sostenuta nell’anno 2009.
Pertanto il Sindaco chiede si sapere se al fine di
perseguire lo scopo del funzionamento dell’ufficio tecnico
sia possibile, nonostante il disposto della norma citata,
stipulare una consulenza continuativa in mancanza di
professionalità interne all’amministrazione locale.
Il Sindaco, inoltre, pone un secondo quesito. In
considerazione della soppressione delle comunità montane,
alcuni servizi, tra cui quelli relativi al vincolo
idrogeologico, devono essere svolti in forma associata dalle
Amministrazioni comunali tra le quali il comune di
Pontinvrea si è proposto come comune capofila.
Il Sindaco chiede di sapere se l’affidamento esterno ad un
geologo, mancando all’interno del comune la relativa figura
professionale, debba ricadere nell’ambito di applicazione
del comma 7 dell’art. 6 citato considerando, inoltre, che il
servizio svolto in forma associata si auto-finanzierebbe
nella sua totalità senza alcun onere, pertanto, in capo alle
amministrazioni comunali associate.
...
I quesiti posti riguardano, secondo la prospettazione
fattane dal Sindaco del comune di Pontinvrea, la stipula di
due incarichi di consulenza e la compatibilità degli stessi
con quanto disposto dalla norma di cui al comma 7 dell’art. 6
del D.L. 78/2010, convertito in Legge n. 122/2010, in base al
quale “al fine di valorizzare le professionalità interne
alle amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa
annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella
relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a
pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche
amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della
legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità
indipendenti, escluse le università, gli enti e le
fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli
incarichi di studio e consulenza connessi ai processi di
privatizzazione e alla regolamentazione del settore
finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di
quella sostenuta nell'anno 2009. L'affidamento di incarichi
in assenza dei presupposti di cui al presente comma
costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità
erariale".
La norma in esame, pertanto, si inserisce in un quadro di
interventi finanziari volti al cd. taglio lineare di alcune
categorie di spesa pubblica, al fine di ridurre i costi
della macchina amministrativa e realizzare gli obiettivi di
finanza pubblica richiesta dalla partecipazione all’Unione
europea, in considerazione del difficile periodo
congiunturale che attraversa l’economia europea e mondiale.
Delineato il quadro normativo
questo Collegio esprime dubbi
circa la corretta qualificazione giuridica della fattispecie
così come prospettata dal Sindaco del comune di Pontinvrea.
A tal fine è necessario, se pur brevemente, circoscrivere
l’istituto delle consulenze giuridiche così come delineatosi
soprattutto ad opera della giurisprudenza contabile al fine
della corretta applicazione delle norme finanziarie che
hanno interessato tale tipologia contrattuale.
Gli incarichi esterni sono fondamentalmente di tre tipi:
incarichi di studio, incarichi di ricerca e incarichi di
consulenza propriamente detti affidati, mediante convenzioni
o contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ad
esperti esterni all’amministrazione dotati di particolari
doti professionali nel campo giuridico, amministrativo,
scientifico, ecc..
Tali incarichi sono ormai raggruppati all’interno di
un’unica nozione di collaborazione autonoma che può assumere
contenuto diverso (richieste di parere, consulenze legali,
studi e ricerche) ma che si caratterizza, in tutti i casi,
per l’elevata e qualificata professionalità richiesta al
consulente che agisce, nell’esplicazione dell’incarico, con
la massima autonomia.
Tali incarichi trovano ormai puntuale disciplina nell’art. 7,
comma 6, del D.Lgs. 165/2001, come modificato dall’art. 46,
comma 1, della legge n. 133/2008, in base al quale “Per esigenze
cui non possono far fronte con personale in servizio, le
amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi
individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di
particolare e comprovata specializzazione anche
universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di
legittimità:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione…..”.
Pertanto, come evidenziato dalle SS.RR, ciò che accomuna le
differenti tipologie di incarico è la sostanziale
riconducibilità di tali fattispecie alla categoria del
contratto di lavoro autonomo di cui agli articoli 2229-2238
c.c..
Motivo per cui, secondo le SS.RR, vi è ormai una sostanziale
differenza, voluta dal legislatore, tra gli incarichi ad
alto contenuto professionale e le altre “semplici”
collaborazioni coordinate e continuative, avendo le prime a
oggetto prestazioni implicanti un’alta specializzazione (non
rinvenibile nelle normali competenze del personale della
P.A.) e una correlativa attività lavorativa sostanzialmente
autonoma, mentre le altre collaborazioni (co.co.co.) hanno ad
oggetto prestazioni ordinarie non richiedenti un elevato
grado di autonomia organizzativa (collaborazioni utilizzate,
al pari dei contratti di lavoro a tempo determinato per far
fronte ai tagli o ai blocchi delle assunzioni di lavoratori
subordinati nella P.A.).
Tale distinzione concettuale tra i due diversi tipi di
collaborazione emerge in modo chiaro dall’impostazione delle
leggi di natura finanziaria che si sono susseguite negli
ultimi anni.
La legge finanziaria per il 2008 adotta una logica
restrittiva nei confronti delle collaborazioni ordinarie.
Difatti ai sensi dell’art. 79, che sostituisce l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, “le pubbliche amministrazioni assumono
esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo
indeterminato e non possono avvalersi delle forme
contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile
e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa se non per esigenze stagionali o per periodi
non superiori a tre mesi, fatte salve le sostituzioni per
maternità relativamente alle autonomie territoriali. Il
provvedimento di assunzione deve contenere l'indicazione del
nominativo della persona da sostituire”.
L’art. 36 citato, a seguito delle modifiche intervenute per
opera dell’art. 49 della legge n. 133/2008 e dell’art. 17, comma
26, della legge n. 102/2009, attualmente dispone quanto segue:
“1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno
ordinario le pubbliche amministrazioni assumono
esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo
indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste
dall'articolo 35.
2. Per rispondere ad esigenze temporanee
ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono
avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione
e di impiego del personale previste dal codice civile e
dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa,
nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma
restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla
individuazione delle necessità organizzative in coerenza con
quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i
contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la
materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei
contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti
formativi e della somministrazione di lavoro ed il lavoro
accessorio …..”.
Se pertanto gli articoli 7 e 36 del D.Lgs. n. 165/2001 (nel
testo vigente) prevedono rispettivamente la disciplina
giuridica relativa ai due diversi tipi di collaborazione,
attualmente la disciplina finanziaria trova regolamentazione
rispettivamente negli articoli 6, comma 7, e 9, comma 28.
Il
primo, come ricordato, prevede che “al fine di valorizzare
le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere
dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di
consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di
consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle
pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1
della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità
indipendenti, escluse le università, gli enti e le
fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli
incarichi di studio e consulenza connessi ai processi di
privatizzazione e alla regolamentazione del settore
finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di
quella sostenuta nell'anno 2009. L'affidamento di incarichi
in assenza dei presupposti di cui al presente comma
costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità
erariale”.
Il comma 28 dell’art. 9 citato dispone, invece, che “a
decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, incluse le
Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto
legislativo 30.07.1999, n. 300, e successive
modificazioni, gli enti pubblici non economici, le
università e gli enti pubblici di cui all'articolo 70, comma
4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e
successive modificazioni e integrazioni, fermo quanto
previsto dagli articoli 7, comma 6, e 36 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, possono avvalersi di
personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con
contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel
limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse
finalità nell'anno 2009. Per le medesime amministrazioni la
spesa per personale relativa a contratti di formazione
lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione
di lavoro, nonché al lavoro accessorio di cui all'articolo
70, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, e successive modificazioni ed integrazioni,
non può essere superiore al 50 per cento di quella sostenuta
per le rispettive finalità nell'anno 2009. Le disposizioni
di cui al presente comma costituiscono principi generali ai
fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si
adeguano le regioni, le province autonome, e gli enti del
Servizio sanitario nazionale…”.
Per tutto quanto premesso, distinte le due diverse forme di
collaborazione, questo Collegio ritiene che
l’incarico da
conferire per il funzionamento dell’ufficio tecnico non
possa essere ricompreso nella nozione di consulenza esterna
di cui all’art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010. Difatti, tale
incarico è finalizzato allo svolgimento degli ordinari
compiti amministrativi facenti capo all’ufficio tecnico
comunale non richiedendosi per lo svolgimento di tali
compiti alcuna preparazione altamente qualificata diversa da
quella richiesta dalla legge ai fini delle assunzioni di
personale mediante le procedure concorsuali finalizzate
(titolo di studio, esperienze lavorative, specializzazioni,
ecc). Inoltre, contrasta con i caratteri tipici della
consulenza, individuati al comma 6 dell’art. 7 del D.Lgs.
n. 165/2001, il carattere continuativo della prestazione
richiesta al “consulente”.
La situazione descritta dal Sindaco sembra maggiormente
rispondente all’ipotesi prevista dall’art. 36 del D.Lgs.
n. 165/2001 laddove prevede che “per rispondere ad esigenze
temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche
possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di
assunzione e di impiego del personale previste dal codice
civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa”.
Nel caso di specie, pertanto, il comune di Pontinvrea potrà
ricorrere a forme di lavoro flessibili (assunzioni a tempo
determinato, contratti di collaborazione “ordinaria”) così
come previsto dall’art. 92 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) e dalla
normativa di settore. In tal caso l’ente comunale, che nel
caso di specie non è sottoposto alle regole del Patto di
Stabilità avendo una popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, dovrà rispettare la normativa in materia di
contenimento per le spese di personale espressamente
prevista per gli enti appartenenti alla categoria in esame.
Inoltre non può non rimarcarsi che i comuni di ridotte
dimensioni, in situazioni come quella evidenziata dal
Sindaco del comune di Pontinvrea, hanno la possibilità di
ricorrere agli istituti previsti dall’art. 30 (convenzioni) e
dall’art. 33 (esercizio associato di funzioni e servizi da
parte dei comuni) del TUEL.
Quanto al secondo quesito valgono le considerazioni appena
espresse dal Collegio con un’ulteriore precisazione.
Difatti, anche a voler considerare la prestazione del
geologo come rientrante nella tipologia di consulenza
esterna, occorre evidenziare, come anche ricordato dalle
SS.RR (da ultimo Delibera n. 7/2011), che la finalità
perseguita dalla normativa finanziaria degli ultimi anni
consiste nella riduzione delle spese pubbliche al fine di
realizzare gli obiettivi di finanza pubblica e, per ciò che
concerne istituti come quello delle consulenze esterne,
ridurre l’incidenza di tali spese sui bilanci degli enti
pubblici.
Pertanto le norme non mirano a vietare o ridurre l’utilizzo
tout court di tali istituti (consulenze, collaborazioni,
sponsorizzazioni, missioni, ecc.) ma solo nel momento in cui
tali forme di spesa incidono sul bilancio pubblico, in
questo caso, dell’ente locale.
Diversamente, quando tali istituti si auto-finanziano o
trovano copertura finanziaria in capo a soggetti esterni
all’amministrazione locale (finanziamenti europei, privati,
ecc.) non vi è motivo per impedire l’utilizzo di tali
istituti giuridici.
Pertanto qualora non vi siano oneri in capo
alle amministrazioni locali, come evidenziato dal comune di Pontinvrea,
non vi è alcuna preclusione al conferimento
all’esterno dell’incarico di geologo (Corte dei Conti, Sez.
controllo Liguria,
parere 21.06.2011
n. 54). |
06.10.2015 - LA
SEGRETARIA PTPL |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Chiedere
un parere alla Corte dei Conti:
1) in merito alla necessità, o meno, dell’iscrizione all’albo
professionale del dipendente comunale tecnico per
l'espletamento di attività progettuali di cui all'art. 90
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
il quesito non contiene profili contabili e,
come tale, è inammissibile.
Invero, le Sezioni regionali della Corte
dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere
generale in favore degli enti locali, ma le attribuzioni
consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di
controllo collaborativo conferite dalla legislazione.
Si è precisato che la funzione consultiva
non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma
ristretta esclusivamente alla materia contabile pubblica,
quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che
disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o
comunque a temi di carattere generale nella materia
contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti hanno delineato una
nozione di contabilità pubblica incentrata
sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività
finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti
pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in
relazione alle materie che incidono sulla gestione del
bilancio e sui suoi equilibri.
In particolare, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può
comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti
i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai
profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo
delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi
di contenimento della spesa sanciti dai principi di
coordinamento della finanza pubblica […] in grado di
ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria
dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
2) ed in merito all’individuazione del soggetto, Comune o
dipendente interessato, sul quale graverebbero i connessi
oneri economici, la questione è
ugualmente inammissibile per carenza delle
caratteristiche indicate nella deliberazione n. 54/2010
delle Sezioni riunite della Corte dei conti, in quanto la
questione prospettata –concernente l’individuazione del
soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per
l’iscrizione all’albo professionale– “solo indirettamente
potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità
pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di
stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le
ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito
della competenza consultiva della Sezione”.
----------------
Il Sindaco del Comune di Bellusco (MI) ha formulato una
richiesta di parere in merito alla necessità, o meno,
dell’iscrizione all’albo professionale per l'espletamento di
attività progettuali di cui all'art. 90 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163 e all’individuazione del
soggetto, Comune o dipendente interessato, sul quale
graverebbero i connessi oneri economici.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre
precisare che, come previsto dall’art. 7 della legge n.
131/2003, le Sezioni regionali della Corte
dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere
generale in favore degli enti locali, ma le attribuzioni
consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di
controllo collaborativo conferite dalla legislazione.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha
fissato principi e modalità per l’esercizio dell’attività
consultiva, modificati ed integrati con le successive
delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009.
Si è precisato che la funzione consultiva
non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma
ristretta esclusivamente alla materia contabile pubblica,
quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che
disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o
comunque a temi di carattere generale nella materia
contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenendo con
una pronuncia in sede di coordinamento della finanza
pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n.
78/2009, convertito, con modificazioni, con legge n.
102/2009, hanno delineato una nozione di
contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi
e di norme che regolano l’attività finanziaria e
patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da
intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie
che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi
equilibri
(delibera n. 54 del 17.11.2010).
In particolare, nella citata pronuncia, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica”
non può comportare una estensione dell’attività consultiva
“a tutti i settori dell’azione amministrativa”, ma va
delimitata ai profili che “risultino connessi alle
modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di
specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai
principi di coordinamento della finanza pubblica […] in
grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione
finanziaria dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa si ritengono
inammissibili entrambi i quesiti proposti.
Il primo quesito, relativo alla necessità, o meno,
dell’iscrizione all’albo professionale per l'espletamento di
attività progettuali di cui all'art. 90 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, non contiene, infatti,
profili contabili.
Con riferimento al secondo quesito, riguardante
l’individuazione del soggetto, Comune o dipendente
interessato, sul quale graverebbero i connessi oneri
economici, le Sezioni Riunite in sede di controllo hanno
ritenuto, con deliberazione n. 1/CONTR/11, che la questione
sia inammissibile per carenza delle caratteristiche indicate
nella citata deliberazione n. 54/2010, in quanto la
questione prospettata –concernente l’individuazione del
soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per
l’iscrizione all’albo professionale– “solo indirettamente
potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità
pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di
stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le
ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito
della competenza consultiva della Sezione”.
P.Q.M.
la Sezione dichiara oggettivamente
inammissibile la richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.09.2015 n. 293). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
inammissibile porre un quesito alla Corte dei Conti per
conoscere:
1. quando ed in quali termini una professione deve
intendersi esercitata nell'interesse esclusivo dell'Ente
datore di lavoro;
2. se è da ritenersi dovuto da parte dell'Ente
d'appartenenza il pagamento/rimborso del contributo annuale
di iscrizione all'Albo/Ordine degli Architetti ed Ingegneri
in favore dei dipendenti che espletano le attività tecniche
più sopra indicate e che ne facciano richiesta;
3. nel caso di risposta affermativa, da quale anno è
consentito provvedere al rimborso del contributo annuale di
iscrizione al rispettivo Albo o Ordine,
poiché lo stesso non contiene
profili contabili e, nel contempo, risulta carente delle
caratteristiche indicate nella deliberazione n.
54/2010 delle Sezioni riunite della
Corte dei conti, in quanto la questione prospettata “solo
indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della
“contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una
questione di stretta interpretazione normativa, che
esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che
delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cologno al Serio (BG) ha formulato una
richiesta di parere in merito alla rimborsabilità ai
dipendenti pubblici del contributo annuale di iscrizione
all’albo professionale.
In particolare si chiede:
"1. quando
ed in quali termini una professione deve intendersi
esercitata nell'interesse esclusivo dell'Ente datore di
lavoro;
2. se è da ritenersi dovuto da parte dell'Ente
d'appartenenza il pagamento/rimborso del contributo annuale
di iscrizione all'Albo/Ordine degli Architetti ed Ingegneri
in favore dei dipendenti che espletano le attività tecniche
più sopra indicate e che ne facciano richiesta;
3. nel caso
di risposta affermativa, da quale anno è consentito
provvedere al rimborso del contributo annuale di iscrizione
al rispettivo Albo o Ordine”.
...
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre
precisare che, come previsto dall’art. 7 della legge n.
131/2003, le Sezioni regionali della Corte dei conti non
svolgono una funzione consultiva a carattere generale in
favore degli enti locali, ma le attribuzioni consultive si
connotano sulle funzioni sostanziali di controllo
collaborativo conferite dalla legislazione.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha fissato principi e modalità per l’esercizio
dell’attività consultiva, modificati ed integrati con le
successive delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009.
Si è
precisato che la funzione consultiva non può intendersi come
consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente
alla materia contabile pubblica, quindi ai bilanci pubblici,
alle norme e principi che disciplinano la gestione
finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere
generale nella materia contabile.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, intervenendo con
una pronuncia in sede di coordinamento della finanza
pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009,
convertito, con modificazioni, con legge n. 102/2009, hanno
delineato una nozione di contabilità pubblica incentrata sul
“sistema di principi e di norme che regolano l’attività
finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti
pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in
relazione alle materie che incidono sulla gestione del
bilancio e sui suoi equilibri (delibera n. 54 del 17.11.2010).
In particolare, nella citata pronuncia, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può
comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti
i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai
profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo
delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi
di contenimento della spesa sanciti dai principi di
coordinamento della finanza pubblica […] in grado di
ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria
dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa si ritengono inammissibili
tutti e tre i quesiti proposti.
Il primo quesito, relativo
alla nozione di professione esercitata nell'interesse
esclusivo dell'Ente datore di lavoro, non contiene, infatti,
profili contabili.
Con riferimento al secondo e al terzo
quesito, riguardanti la rimborsabilità ai dipendenti
pubblici del contributo annuale di iscrizione all’albo
professionale, con la connessa problematica relativa alla
decorrenza temporale di tale onere, le Sezioni Riunite in
sede di controllo hanno ritenuto, con deliberazione n. 1/CONTR/11,
che la questione sia inammissibile per carenza delle
caratteristiche indicate nella citata deliberazione n.
54/2010, in quanto la questione prospettata –concernente
l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare
le spese per l’iscrizione all’albo professionale– “solo
indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della
“contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una
questione di stretta interpretazione normativa, che
esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che
delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
P.Q.M.
la Sezione dichiara oggettivamente inammissibile la
richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.09.2015 n. 291). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione del manufatto abusivo e acquisto del
bene per successione a causa di morte.
L'ordine
di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale
ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a
contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito
nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col
bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
perciò, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a
seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non
è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente.
Invero, se ne ricorresse la fattispecie, il
terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti
del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
---------------
L'ordine di demolizione impartito dal
giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, ha carattere
reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto
con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può
essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione.
E nemmeno l'ordine di demolizione di un
immobile abusivo può essere revocato o sospeso in
conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca
successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario
riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova
al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità.
Parimenti, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è
impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul
bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia
ancora pendente il procedimento per il reato edilizio.
---------------
L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato
edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale
ma di sanzione amministrativa accessoria.
Pertanto nell'ipotesi di acquisto
dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia
nei confronti dell'erede del condannato, stante la
preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla
cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo
emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico,
alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto
afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale
della stessa.
--------------
Peraltro, nel ribadire che l'esecuzione di
un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile
abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta
cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei
confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto
che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, questa
Corte ha già avuto modo di precisare che tale principio è
conforme alle norme CEDU.
---------------
1. Il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. E' stato precisato da questa Corte di legittimità che
l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso
dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto
essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono
in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o
personale di godimento, anche se si tratti di soggetti
estranei alla commissione del reato
(cfr. sez. 3 n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, caso in cui
la Corte ha precisato in motivazione che, comunque, la
mancata condanna del terzo per concorso nell'abuso edilizio
non implica necessariamente una posizione di buona fede
rispetto ad esso).
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
perciò, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a
seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non
è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente
(sez. 3, n. 22853 del 29.3.2007, Coluzzi, rv. 236880,
occasione in cui la Corte ha ulteriormente precisato che
il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi
nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta
demolizione).
L'ordine di demolizione impartito dal
giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, infatti, ha
carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o
meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività
può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione
(sez. 3, n. 37120 dell'11.5.2005, Morelli, rv. 232175; conf.
sez. 3, n. 16035 del 26.2.2014, Attardi, rv. 259802).
E nemmeno l'ordine di demolizione di un
immobile abusivo può essere revocato o sospeso in
conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca
successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario
riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova
al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità
(cfr. sez. 3, n. 38941 del 09.07.2013, DE Martino, rv.
256383).
Parimenti, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è
impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul
bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia
ancora pendente il procedimento per il reato edilizio
(così sez. 3, n. 45301 del 7.10.2009, Roscetti, rv. 245213,
in un caso in cui era stata respinta la richiesta,
presentata dal correo non ancora giudicato, avente ad
oggetto la sospensione dell'ordine di demolizione impartito
con sentenza già divenuta irrevocabile nei confronti del
coimputato).
3. Nello specifico del caso che ci occupa il G.E. di Torre
Annunziata ha operato un buon governo del costante dictum
di questa Corte di legittimità secondo cui
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con
la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della
sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione
amministrativa accessoria
(cfr. ex multis sez. 3, n. 3861 del 18.01.2011,
Baldinucci ed altri, rv. 249317).
Pertanto nell'ipotesi di acquisto
dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia
nei confronti dell'erede del condannato, stante la
preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla
cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo
emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico,
alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto
afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale
della stessa (sez.
3, n. 3720 del 24.11.1999 dep. il 27.1.2000, Barbadoro, rv.
215601).
Peraltro, nel ribadire che l'esecuzione di
un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile
abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta
cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei
confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto
che continui ad arrecare pregiudizio al territorio questa
Corte ha già avuto modo di precisare,
diversamente da quanto opina il ricorrente,
che tale principio è conforme alle norme CEDU,
come interpretate dalla Corte Europea con sentenza
20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (cfr. sez. 3, n.
48925 del 22.10.2009, Viesti ed altri, rv. 245918).
Peraltro, in ogni caso, la circostanza che Re.An. fosse nel
possesso dell'immobile, rende la stessa soggetto passivo
legittimato a ricevere la notifica dell'ingiunzione alla
demolizione del manufatto abusivo originariamente di
proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 09.09.2015 n. 36383). |
PATRIMONIO:
Risponde penalmente
il dirigente comunale per le gravi negligenze in merito al
(mancato) controllo delle condizioni di sicurezza della
strada.
Sussiste la condotta colposa del dirigente comunale (in
virtù della sua qualifica, preposto alla manutenzione del
patrimonio comunale) laddove nell'omettere di manutenere un
tombino di raccolta delle acque piovane posizionato su un
marciapiede nello stesso, a causa di una rottura della
copertura, un passante affonda con il piede destro, cadendo
quindi al suolo.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di
Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Giudice di
Pace di Messina con la quale Am.An. é stato giudicato
colpevole di aver cagionato a Sa.Ti.Tr. lesioni personali
lievi, con
condotta colposa consistita nell'omettere -in qualità di
dirigente comunale preposto al competente servizio- di
manutenere un tombino di raccolta delle acque piovane
posizionato su un marciapiede di via Cesare Battisti, in
Messina, nel quale, a causa di una rottura della copertura,
il Tr. affondava con il piede destro, cadendo quindi al
suolo.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l'imputato
a mezzo del difensore di fiducia, avv. Gi.Sa..
2.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge
in relazione agli artt. 187, co. 1 e 192, co. 1 e 2 cod.
proc. pen. e vizio motivazionale.
Rileva il ricorrente che il Tribunale non ha tenuto conto
del comportamento negligente della persona offesa e non ha
accertato l'esistenza di una oggettiva insidia non potendosi
spingere la difesa degli interessi degli utenti della strada
sino al punto di escludere il principio di
auto-responsabilità della vittima.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto l'attendibilità della
persona offesa senza rilevare che la medesima si é
costituita parte civile e che quindi le sue dichiarazioni
necessitavano di riscontri; riscontri che non possono essere
colti né nel verbale di accertamento dei vigili urbani né
nella affermata compatibilità delle lesioni riportate dal Tr..
2.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione
degli artt. 40, co. 2, 45 cod. pen. in relazione all'art.
169 d.lgs. n. 67 del 18.8.2000 nonché mancanza di
motivazione.
Il Tribunale é pervenuto alla decisione senza verificare la
possibilità giuridica dell'imputato di provvedere
all'adozione delle opportune cautele, in relazione alla
titolarità delle necessarie risorse economiche per lo
svolgimento delle funzioni assegnategli.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato, nei termini di seguito precisati.
3.1. L'intero sviluppo delle argomentazioni del ricorrente
appare attraversato da un limite intrinseco, quello
dell'astrattezza, nel senso della posizione di asserzioni
che, pur valevoli in linea di principio, appaiono
prescindere dal concreto contenuto della sentenza impugnata
e dalle circostanze in essa affermate.
Sembra opportuno prendere le mosse dalla censura che si
indirizza al giudizio di attendibilità della persona offesa.
E' certamente vero che quando questa si costituisce parte
civile mostra di avere specifico interesse all'affermazione
di responsabilità dell'imputato e che tanto si riflette in
un onere rafforzato di prudente valutazione da parte del
giudice.
Ma nel caso di specie tale accorta ponderazione é stata
compiuta dal Tribunale, il quale ha evidenziato che non
risultano elementi che mettano in discussione
l'attendibilità del Tr.; che la querela esponeva i fatti con
linearità e precisione; che dal verbale della Polizia
Municipale si evinceva la presenza sul marciapiede del
tombino con una parte di piastrelle mancante lì dove lo
aveva segnalato il Tr.; che anche le lesioni patite
risultavano, siccome compatibili con la dinamica narrata,
elemento di conforto alla versione dell'accusa.
Il Tribunale, quindi, ha operato la prescritta analisi dei
materiali e, con motivazione né mancante né manifestamente
illogica, ha spiegato le ragioni per le quali la persona
offesa potesse essere assunta come primaria fonte di
conoscenza dei fatti.
3.2. A fronte di ciò l'esponente, in definitiva, lascia
intendere che il Tr. possa essersi inventato di sana pianta
l'accadimento, al fine di lucrare un indebito risarcimento
(e perciò, si intuisce, si ritiene non valevole quale
riscontro il verbale dei VV.UU.). Ma tale sospetto può
valere quale motore di una acuminata difesa, che porti in
emersione specifiche circostanze in grado di sostanziare il
sospetto sino a dargli la corporeità di una evidenza
probatoria. Nulla di ciò si riscontra nel caso di specie; di
qui quel connotato di astrattezza che si é sopra menzionato.
Certo non é dirimente il rilievo che indica una diversità
nella descrizione dell'accaduto nel trascorrere dalla
querela al verbale della P.M. perché
il rovinare al suolo non nega lo sprofondare con un piede
nel tombino, potendo quest'ultimo essere antecedente causale
del primo.
3.3. Quanto alla necessità, ai fini dell'addebito per colpa,
che si dia l'esistenza di una insidia, si tratta di un
assunto fondato.
Il ricorrente richiama, attraverso la massima redatta dal
CED, la giurisprudenza di questa Corte per la quale,
in tema di omicidio colposo a seguito di incidente stradale,
affinché le condizioni della strada assumano un'esclusiva
efficienza causale dell'evento, è necessario che le sue
anomalie assumano i caratteri dell'insidia e del
trabocchetto, di guisa che per la loro oggettiva
invisibilità e la conseguente imprevedibilità, integrino una
situazione di pericolo occulto inevitabile con l'uso della
normale diligenza; qualora, invece, adottando la normale
diligenza che si richiede a colui che usi una strada
pubblica, la situazione di pericolo sia conoscibile e
superabile, la causazione dell'infortunio non può che fare
capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato
la diligenza imposta
(Sez. 4, n. 34154 del 13/06/2012 - dep. 06/09/2012, Di
Carro, Rv. 253520).
Si tratta, tuttavia, di un principio che non si attaglia al
caso di specie.
Nella vicenda oggetto della sentenza in causa Di Ca. si
discuteva della incidenza causale di un dislivello del piano
stradale che aveva determinato una sterzata del conducente
del veicolo che, impattando altro veicolo, aveva procurato
la morte del conducente di questo secondo veicolo. Si
trattava, quindi, di verificare se il dislivello avesse
avuto esclusiva efficienza causale.
La Corte lo ha negato, evidenziando che si sarebbe dovuto
ritenere diversamente se avesse costituito una insidia o un
trabocchetto, come tale non percepibile con l'ordinaria
diligenza dall'utente della strada; mentre nel caso
all'esame il dislivello sarebbe stato percepibile
all'imputato se avesse usato l'ordinaria diligenza.
In tale contesto si é quindi concluso che la causazione
dell'infortunio non può che fare capo esclusivamente e
direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta.
Nella vicenda oggetto del presente processo,
per contro,
viene in considerazione il comportamento della persona
offesa dal reato; la cui eventuale negligenza nulla toglie
alla rilevanza causale della condotta ascritta all'imputato,
eventualmente concorrendo con questa
(aspetto non attinto dalle censure del ricorrente).
3.4. Infine, a riguardo della pretesa mancata verifica della
sussistenza della posizione di garanzia in capo all'Am. alla
data del fatto e della effettiva titolarità delle necessarie
risorse economiche, evidenziato che
non é in alcun modo contestato che l'Am. rivestisse il ruolo
dirigenziale che gli é stato attribuito dai giudici di
merito, va registrato come
-diversamente da quanto opinato dal ricorrente-
la Corte di Appello abbia preso in esame il profilo della
impossibilità di adempiere all'obbligo gravante sull'Am.,
da un canto evidenziando come tale impossibilità non
fosse in alcun modo emersa e dall'altro
puntualizzando che essa avrebbe dovuto verificarsi non già
in relazione ad interventi manutentivi ma solo rispetto al
controllo delle condizioni di sicurezza per gli utenti, con
l'apposizione di segnali di pericolo per il caso che quel
controllo avesse fatto emergere fonti di pericolo.
Rispetto a tali corrette osservazioni il ricorrente non
formula alcuna specifica censura.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il
ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 08.09.2015 n. 36242). |
UTILITA' |
SCUREZZA LAVORO:
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 - REV. SETTEMBRE 2015.
---------------
Testo Unico sulla salute e sicurezza sul
lavoro.
Disponibile il testo coordinato nell'edizione settembre
2015.
Disponibile on-line il testo coordinato del Decreto
Legislativo 09.04.2008 n.81 in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro con tutte le
disposizioni integrative e correttive.
Novità in questa versione:
• Corretto l’importo massimo previsto per l’ammenda all’art.
284, comma 1;
• Inseriti gli interpelli dal n. 26 al n. 28 del 31/12/2014,
le precisazioni all’interpello n. 20/2014 del 31/12/2014, e
gli interpelli dal n. 1 al n. 5 del 23 e 24/06/2015;
• Inserite le circolari n. 34 del 23/12/2014, n. 35 del
24/12/2014, n. 3 del 13/02/2015, n. 5 del 03/03/2015 e n. 22
del 29/07/2015;
• Inserito il decreto interministeriale n. 201 del
18.11.2014, recante norme per l'applicazione, nell'ambito
dell'amministrazione della giustizia, delle disposizioni in
materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di
lavoro (avviso pubblicato nella G.U. n. 15 del 20.01.2015);
• Abrogazione del comma 5 dell’art. 3, ai sensi dell’art.
55, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 15.06.2015, n. 81 (SO n.
34 alla G.U. 24/06/2015, n. 144, in vigore dal 25/06/2015);
• Modifica dell’art. 88, comma 2, lettera g-bis), ai sensi
dell'art. 16, comma 1, della legge 29.07.2015, n. 115 (G.U.
03/08/2015, n. 178, in vigore dal 18/08/2015);
• Inserite le modifiche agli artt. 3, 5, 6, 12, 14, 28, 29,
34, 53, 55, 69, 73-bis (nuovo articolo), 87, 98 e 190,
introdotte dal d.lgs. 14.09.2015, n. 151 recante “Disposizioni
di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e
degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre
disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari
opportunità, in attuazione della legge 10.12.2014, n. 183”
(G.U. n. 221 del 23/09/2015 - S.O. n. 53, in vigore dal
24/09/2015)
(tratto da www.lavoro.gov.it). |
SINDACATI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità ed assunzioni quasi completamente
bloccate negli enti locali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 05.10.2015). |
PENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comune di Stezzano (BG): per i danni arrecati
alle casse del comune c'è la Corte dei Conti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 28.09.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Modifica di alcune norme del Decreto Legislativo
09.04.2008, n. 81 (ANCE di Bergamo,
circolare 02.10.2015 n. 198). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
chiarimenti interpretativi in merito alla nuova
classificazione dei rifiuti introdotta dal Regolamento UE
1375/2014 e dalla Decisione UE 955/2014. Errata-corrige
(Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del
Mare,
nota 28.09.2015 n. 11845 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 del 02.10.2015, "Politiche
regionali in materia di turismo e attrattività del
territorio lombardo" (L.R.
01.10.2015 n. 27). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 30.09.2015, "Nuovi
indirizzi generali per i comuni sugli orari e i turni di
apertura e chiusura degli impianti di distribuzione dei
carburanti ex artt. 81, comma 2, lett. c) e 106 della l.r.
n. 6/2010, disciplina in tema di sospensione volontaria
dell’attività di distribuzione carburanti ai sensi dell’art.
95 della l.r. 6/2010 s.m.i. e modifica della d.g.r. VIII/9590
dell’11.06.2009" (deliberazione
G.R. 25.09.2015 n. 4071). |
ENTI LOCALI:
G.U. 30.09.2015 n. 227 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3
della legge 31.12.2009, n. 196 e ss.mm. (Legge di
contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT,
elenco). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
30.09.2015 n. 227 "Criteri per la mobilità del personale
dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta
dichiarato in soprannumero, della Croce rossa italiana,
nonché dei corpi e servizi di polizia provinciale per lo
svolgimento delle funzioni di polizia municipale" (Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione
Pubblica,
decreto 14.09.2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Skype: le conversazioni dei dipendenti
non possono essere spiate (29.09.2015
- tratto da www.quotidianogiuridico.it).
---------------
►
Garante della privacy,
newsletter 28.09.2015 n. 406 (link a
www.garanteprivacy.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
A. Testa,
Effettiva commerciabilità di
un immobile costruito ante '67 e garanzie dell'acquirente
sulla conformità urbanistico-edilizia (29.09.2015
- tratto da www.quotidianogiuridico.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
G. Palliggiano,
Competenze geometri:
per progettazioni e direzione lavori di "modeste costruzioni
civili" (22.09.2015
- tratto da www.quotidianogiuridico.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
C. Passalacqua,
Il segretario comunale: una specie in estinzione?
(21.09.2015 - tratto da www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
CERTIFICAZIONE ENERGETICA - LE NOVITÀ IN VIGORE
DALL'01.10.2015
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 18.09.2015).
---------------
Sommario:
1. DECRETO 26.06.2015; 1.1. Entrata in vigore; 1.2. Finalità
ed ambito di intervento; 1.3. Contenuto del decreto; 1.4. La
prestazione energetica degli edifici; 1.5. La
classificazione degli edifici in base alla destinazione
d’uso; 1.6. Definizione degli interventi edilizi e di
riqualificazione energetica;
2. DECRETO 26.06.2015 ; 2.1. Entrata in vigore; 2.2.
Finalità ed ambito di intervento; 2.3. Contenuto del
decreto;
3. DECRETO 26.06.2015; 3.1. Entrata in vigore; 3.2. Finalità
ed ambito di intervento; 3.3. Contenuto del decreto; 3.4. La
validità dell’APE; 3.5. Contenuto dell’APE a pena di
invalidità; 3.6. Obbligo di sopralluogo; 3.7. Annunci
commerciali; 3.8. Il Sistema Informativo sugli Attestati di
Prestazione Energetica (SIAPE); 3.9. Informazione;
4. LE NUOVE LINEE GUIDA NAZIONALI PER L’ATTESTAZIONE DELLA
PRESTAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI; 4.1. Entrata in
vigore; 4.2. Finalità ed ambito di intervento; 4.3. Funzioni
dell’APE; 4.4. Modalità di redazione dell’APE; 4.5. La
prestazione energetica; 4.6. La classificazione degli
immobili in funzione della prestazione energetica; 4.7. Il
contenuto dell’Attestato di prestazione Energetica (APE);
4.8. Annunci commerciali; 4.9. Procedura di attestazione
della prestazione energetica; 4.10. L’attestato di
qualificazione energetica e suoi rapporti con l’APE; 4.11.
La registrazione e la sottoscrizione dell’attestato di
qualificazione energetica; 4.12.I casi di esclusione
dall’obbligo di dotazione dell’APE. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. A. Sandulli,
Gli effetti diretti della 07.08.2015 L. n. 124 sulle
attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a.,
silenzio-assenso e autotutela
(16.09.2015 - tratto da www.federalismi.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI SERVIZI:
Concessione parcheggi, vale il codice dei contratti.
Anac:
nell'importo a base d'asta anche i servizi opzionali.
In una concessione di servizi per la gestione di aree di
sosta si applicano anche le regole del codice dei contratti
se vi sia un rinvio ad esse negli atti di gara; c'è
l'obbligo di indicare i criteri motivazionali per la
valutazione delle offerte; ed è necessario calcolare
nell'importo a base di gara anche i servizi opzionali.
Sono questi alcuni dei principi affermati dall'Autorità
nazionale anticorruzione nella
delibera 26.08.2015 n. 64 (Affidamento del
servizio di gestione della sosta a pagamento senza custodia
mediante parcometro e ausiliari del traffico nel centro
storico) relativa ad un affidamento del servizio di
gestione della sosta a pagamento senza custodia mediante
parcometro e ausiliari del traffico in un centro storico.
Il primo problema affrontato nella deliberazione dell'Anac
riguarda la disciplina applicabile alla procedura, stante il
fatto che negli atti di gara venivano richiamate sempre
norme del codice dei contratti pubblici.
Al riguardo l'Autorità ha precisato che seppure
l'affidamento fosse relativo ad una concessione di servizi,
fattispecie che in via generale esula dall'ambito di
applicazione del Codice dei contratti, tuttavia il
sistematico rimando negli atti di gara alle norme dello
stesso Codice e alle regole ivi previste, comporta la
vincolatività della stazione appaltante alle stesse. Ma
anche a prescindere da tale motivazione, l'Autorità fa
presente che in ogni caso l'affidamento di una concessione
di servizi non può essere sottratto ai principi del Trattato
in tema di tutela della concorrenza, richiamati peraltro
anche dal codice dei contratti (articolo 30).
Nel merito delle prescrizioni di gara la delibera eccepisce
che il bando abbia omesso di indicare il criterio di
valutazione (cd. criterio motivazionale) per la ponderazione
dei vari elementi e aspetti dell'offerta tecnica; questo
elemento aveva determinato la palese violazione
dell'articolo 83, comma 4 del codice dei contratti pubblici
che vincola la commissione ad applicare tali criteri.
La delibera nota che se è poi vero che la norma del codice
non prevede espressamente che i criteri motivazionali
debbano essere predefiniti a monte, è comunque pacifico che
il bando debba dettagliare i criteri e i punteggi in modo da
lasciare margini di discrezionalità ristretti alla
commissione, la quale deve operare solo in modo vincolato,
avendo cura di assegnare per quel «criterio uno specifico
e determinato punteggio corrispondente alla definizione
dell'offerta». E tutto ciò non era avvenuto.
Infine, un altro profilo di rilievo riguardava la
definizione dell'importo a base di gara. In particolare
l'Autorità ha rilevato che nel capitolato si prevede che al
concessionario venga riconosciuto a titolo di rimborso spese
per le iniziative per la realizzazione di opere, strutture e
apparecchiature intese a migliorare l'attività di
pianificazione, controllo e gestione del sistema di
viabilità delle aree destinate a parcheggio, l'importo di 10
euro per ogni multa emessa regolarmente ed effettivamente
riscossa.
Di questo importo, relativo ad un servizio aggiuntivo e
opzionale, non si è però tenuto conto nel calcolo della base
d'asta nonostante l'articolo 29 del codice dei contratti
pubblici faccia riferimento per il calcolo stimato
dell'importo anche alle «opzioni» prestazionali (articolo
ItaliaOggi del 25.09.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO:
La Sezione ritiene che la disciplina limitativa,
vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte
degli enti locali,
posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del
2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, non possa trovare diretta
applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito
della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del
contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili,
che caratterizza l’intervento legislativo in discorso,
appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei
limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i
presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare, sotto il profilo della “indispensabilità
e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile,
risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione
alla stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita
attestazione di congruità, anche se non appare necessario,
alla luce della differente conformazione della fattispecie
transattiva (in cui è assente un “prezzo” di
acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”),
l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari).
Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell’operazione
transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell’ente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Milano, con nota del
16.06.2015, ha formulato una richiesta di parere avente
ad oggetto l’acquisto di un immobile nel contesto di un
contratto di transazione.
Il Comune di Milano formula il quesito in ordine all'ambito
oggettivo di applicazione dell'art. 12, comma 1-ter del
decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito dalla legge
15.07.2011, n. 111. Il predetto comma, nella formulazione
vigente, stabilisce che "a decorrere dal 01.01.2014 al
fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del Demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell'ente".
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se tale norma si
applichi anche alle acquisizioni operate dagli enti locali
nell'ambito di accordi transattivi stipulati al fine di
porre termine o prevenire una lite e, in particolare, a casi
in cui, nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra
le parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la
controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la
proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità
pubblica.
Al fine di far comprendere la portata del quesito, l’istanza
rappresenta che la fattispecie è relativa ad un caso in cui
vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la disponibilità ad
accettare che un credito, accertato con sentenza passata in
giudicato, venga pagato non in denaro, ma con il
trasferimento di un bene immobile (oltre alla rinuncia da
parte del debitore a crediti vantati nei confronti dell'ente
locale, ancora sub iudice, ed alle relative azioni
già intraprese).
L'opinione del Comune di Milano è che il suddetto comma
1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011 non si
applichi anche alle fattispecie transattive, riguardando
solo ipotesi di operazioni di acquisto puro, inquadrabili
nello schema del contratto di vendita, e ciò in ragione
della lettera e della ratio della norma.
Sotto il profilo della lettera della legge, l’istante
osserva che la disposizione in questione subordina le
operazioni di acquisto di immobili ad una attestazione
dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità del prezzo" ed al
successivo obbligo di pubblicazione sul sito internet
istituzionale dell'ente "con indicazione del soggetto
alienante e del prezzo pattuito".
La norma, dunque, utilizzando la terminologia propria
dell'istituto della compravendita fa evidentemente
riferimento solo ad ipotesi in cui l'acquisto avvenga
mediante alienazione; la transazione non prevede la
corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, evidenzia che la norma
in esame è contenuta nell'ambito di un decreto legge volto a
dettare "disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria"; la ratio espressa è quella di
"pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno". La norma ha dunque
carattere finanziario ed ha l'esclusivo scopo di dettare
disposizioni al fine del contenimento della spesa pubblica
e, quindi, concerne acquisti di immobili a fronte del
pagamento di un prezzo, ossia di uscite di denaro pubblico.
La transazione, nell'ambito della quale l'ente locale
acquisisce un bene immobile, è un'operazione più complessa,
basata su valutazioni di convenienza economica ed
amministrativa che vanno oltre il mero valore economico del
bene immobile che verrà acquisito dall'ente locale, e che
coinvolgono anche le probabilità di vittoria del contenzioso
in essere nonché considerazioni sulla portata e sulla
rilevanza degli interessi pubblici.
La transazione non si presta, per sua natura, ad essere
assoggettata alle limitazioni e ai vincoli contenuti nel
comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011.
L'acquisto di un bene immobile, infatti, potrebbe essere non
strettamente indispensabile ed indilazionabile e, tuttavia,
altamente conveniente nel quadro transattivo complessivo.
Sotto altro profilo anche l'attestazione della congruità del
prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio non si presta a
trovare applicazione alla fattispecie transattiva, posto
che, oltre all'ammontare del credito ed al valore del bene
immobile da trasferire, vi possono essere ulteriori
reciproche concessioni che definiscono i contenuti
dell'accordo transattivo, tra cui la rinuncia della
controparte ad altri crediti oggetto di contenzioso. Tali
elementi nel loro complesso concorrono congiuntamente a
comporre il quadro di convenienza economica della
transazione stessa e dunque, in ultima analisi, il giudizio
circa la presenza di risparmi di spesa, non riducibile ad
una stima meramente economica.
L’istanza precisa che, comunque, la stima del valore del
bene oggetto di trasferimento viene effettuata, nell'ambito
del procedimento che conduce alla stipula dell'accorcio
transattivo, dalla Direzione Centrale Sviluppo del
Territorio del Comune.
Assoggettare gli accordi transattivi, nell’ambito dei quali
vi siano trasferimenti di beni immobili a favore della
pubblica amministrazione, all'applicazione dell'art. 12,
comma 1-ter, del decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai
relativi limiti e vincoli, appare contrario al
raggiungimento degli stessi obiettivi di conseguimento di
effetti finanziari positivi che la norma in questione vuole
perseguire. L'applicazione della suddetta norma potrebbe,
infatti, impedire il raggiungimento di accordi
economicamente convenienti, costringendo l'Amministrazione a
non acquisire beni immobili che rivestono pubblica utilità
od esponendola al rischio dell'accoglimento di domande
risarcitorie già formulate in giudizio dalla controparte.
Si evidenzia, infine, che l'art. 12 comma 1-ter del
decreto-legge n. 98 del 2011 è norma eccezionale, in quanto
limitativa della generale capacità giuridica degli enti
locali, e, in quanto tale, va interpretata restrittivamente.
Tanto premesso, il Comune di Milano chiede parere in merito
all’applicabilità della norma sopra indicata agli accordi
transattivi stipulati dagli enti locali, nell'ambito dei
quali sia prevista l'acquisizione di beni immobili, di
potenziale utilità pubblica, da parte dell'ente locale
stesso.
...
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione circa
l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di
contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente
locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità
dell’amministrazione. Quest’ultimo, tuttavia, potrà
orientare la sua decisione in base alle conclusioni
contenute nel presente parere.
Il Comune di Milano chiede lumi sulla portata applicativa
dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare
operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano
comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità,
attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione della
disciplina introdotta dall’art. 12 del decreto legge n. 98
del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, come
novellato dal citato art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012. La disposizione in commento è stata varie volte
scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni, n.
97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste
occasioni è stato chiarito come, a decorrere dal 1° gennaio
2014, a differenza di quanto disposto per il 2013, gli enti
locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni
immobili, sia pure nei limiti e con le modalità previste dal
comma 1-ter del citato art. 12 del decreto legge n. 98 del
2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012. Attualmente, quindi, non è più vigente la
precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato
l’acquisto di beni immobili (contenuta nel comma 1-quater
dell’indicato art. 12 del decreto-legge n. 98 del 2011).
La vigente formulazione del comma 1-ter dell’art. 12 del
decreto-legge n. 98 del 2011 dispone, infatti, che, “a
decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del
servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, al regime di divieto (salvo specifiche
eccezioni) è stata sostituita una disciplina che consente le
operazioni di acquisto di beni immobili, ma solo in caso di
comprovata indispensabilità ed indilazionabilità,
presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella
motivazione del provvedimento dall’amministrazione.
Il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella
disciplina legislativa limitativa ora esposta,
l’acquisizione di un bene immobile quale effetto di un
contratto di transazione.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della
disposizione, la Sezione, già nella vigenza del regime più
restrittivo del divieto, imposto nell’esercizio 2013, ha
chiarito, per esempio nella deliberazione n. 164/2013/PAR,
che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta
disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui
“l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso
finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la
Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n.
148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso
si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la
Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR). Allo stesso modo
la Sezione regionale per le Marche, nella deliberazione n.
7/2013/PAR, ha sottolineato come, dal punto di vista
civilistico, l’acquisto di un immobile a titolo oneroso si
richiama senz’altro allo schema tipico della compravendita,
la quale risulta esplicitamente coinvolta nel divieto.
Peraltro, l’effetto traslativo del diritto di proprietà su
beni immobili si realizza anche attraverso altri contratti,
come, a titolo esemplificativo, il conferimento in società,
la donazione, la transazione, i contratti ad effetti reali,
anche atipici. Indirettamente si può procedere al
trasferimento della titolarità di beni immobili anche
attraverso la cessione di quote o di azioni di società che
posseggano immobili (argomentazioni simili si ritrovano
nella deliberazione della Sezione Toscana n. 125/2013/PAR).
L’interpretazione condotta circa i presupposti oggettivi di
applicazione della disciplina limitativa all’acquisto di
beni immobili da parte di enti locali, tesi a valorizzare la
natura eccezionale della norma posta dall’art. 12, comma
1-ter, del decreto legge n. 98 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228 del 2012, come
tale non suscettibile di estensione oltre i casi da essa
considerati (art. 14 delle disposizioni preliminari al
codice civile), trova maggiore supporto in presenza di una
rinnovata disciplina che, dal 2014, non vieta più l’acquisto
di immobili, ma lo sottopone soltanto a limitazione. In
questa direzione può farsi rinvio alle deliberazioni della
Sezione n. 97/2014/PAR, n. 299/2014/PAR e n. 21/2015/PAR.
In queste occasioni, riprendendo le coordinate
interpretative affermate in precedenti pronunce, la Sezione
ha avuto modo di escludere la soggezione alla disciplina
limitativa nel caso di acquisizione al patrimonio comunale
di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che, in queste
ipotesi, l’acquisizione avviene a seguito di un contratto
assimilato all’appalto di lavori pubblici, non ad una
compravendita (cfr. deliberazione n. 21/2015/PAR e, nella
vigenza del precedente divieto, la deliberazione n.
220/2013/PAR).
In queste occasioni è stato sottolineato, fra
l’altro, come la disciplina limitativa attualmente vigente
(richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da
parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del
soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet
dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica
della compravendita.
Nella deliberazione n. 97/2014/PAR, la Sezione è giunta a
conclusioni simili per quanto riguarda l’acquisto di
immobili effetto di un procedimento di espropriazione per
pubblica utilità. Nell’occasione, è stato richiamato anche
il parere della Sezione Veneto che, con deliberazione n.
148/2013/PAR, ha ritenuto che “la formulazione della norma
disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, i soli
acquisti a titolo derivativo iure privatorum” e non si
applichi quindi alle procedure espropriative (in tal senso
si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la
Puglia, con deliberazione n. 89/2013/PAR).
Anche in questo
caso, inoltre, è stato sottolineato come
la richiesta
attestazione di conformità da parte dell’Agenzia del Demanio
in ordine al prezzo di acquisto dell’immobile trova
difficoltosa applicazione nell’ambito di una procedura
espropriativa (nella quale la determinazione dell'indennità
è soggetta agli specifici criteri previsti dalla legge).
Infine, i canoni ermeneutici generali sono stati applicati
dalla Sezione per escludere la riconducibilità alla
disciplina limitativa del contratto di permuta. Sempre nella
deliberazione n. 97/2014/PAR, infatti, è stato precisato
come il comma 1-ter dell’art. 12 del decreto-legge n. 98 del
2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228
del 2012, contiene un’espressa indicazione della propria
finalità (“al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno”) ed è inserito nell’ambito della legge di
stabilità, la quale, come previsto dall’art. 11, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196, contiene norme tese a
realizzare effetti finanziari.
La permuta pura, invece,
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste
patrimoniali afferenti a beni immobili, costituisce
un’operazione finanziariamente neutra (in termini, le
precedenti deliberazioni della Sezione n. 162/2013/PAR, n.
164/2013/PAR e n. 193/2013/PAR) e, di conseguenza, non
rientra nell’ambito di applicazione del comma 1-ter in
esame. Anche in questa occasione è stato evidenziato,
altresì, come la norma indicata preveda, espressamente, una
serie di obblighi concernenti il “soggetto alienante” ed il
“prezzo pattuito”, mentre nel contratto di permuta le
posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche, e
riferibili a entrambi i contraenti.
La Sezione ritiene che le argomentazioni esposte, sia in
linea generale, che in riferimento a specifiche modalità di
acquisizione di beni immobili al patrimonio comunale, tese a
ricondurre l’applicazione oggettiva della disciplina
limitativa alle sole acquisizione di beni immobili
discendenti direttamente da contratti ad effetti traslativi
(quali la compravendita) debbano valere anche per il
contratto di transazione (anche in aderenza ai canoni
interpretativi posti dall’art. 14 delle disposizioni
preliminari al codice civile).
Quest’ultimo, come noto, ai
sensi dell’art. 1965 del codice civile, è il contratto col
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che
può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si
possono creare, modificare o estinguere anche rapporti
diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e
della contestazione delle parti. Appare opportuno
sottolineare, anche ai fini dell’interferenza interpretativa
con la disciplina limitativa all’acquisto di beni immobili
da parte degli enti locali, come elemento essenziale della
transazione sia, fra gli altri, l’esistenza di reciproche
concessioni (in difetto, sussiste rinuncia unilaterale).
Il dubbio che il Comune di Milano pone è se la disciplina
limitativa all’acquisto di beni immobili si applichi anche
alle acquisizioni operate dagli enti locali nell'ambito di
accordi transattivi stipulati al fine di porre termine o
prevenire una lite e, in particolare, ai casi in cui,
nell'ambito di più ampie reciproche concessioni tra le
parti, l'ente locale rinunci ad un proprio credito e la
controparte, tra le varie concessioni, trasferisca la
proprietà di un bene immobile, di potenziale utilità
pubblica (nello specifico, la fattispecie è relativa ad un
caso in cui vi sarebbe, da parte dell'ente locale, la
disponibilità ad accettare che un credito, accertato con
sentenza passata in giudicato, venga pagato a mezzo del
trasferimento di un bene immobile, cui accederebbe la
rinuncia, da parte del debitore, a differenti crediti
vantati nei confronti dell'ente locale ed alle relative
azioni già intraprese).
Sotto il profilo letterale, la disposizione in questione
subordina, in effetti, le operazioni di acquisto di immobili
all’attestazione dell'Agenzia del Demanio sulla "congruità
del prezzo", nonché al successivo obbligo di pubblicazione
sul sito internet istituzionale dell'ente "con indicazione
del soggetto alienante e del prezzo pattuito". La norma,
utilizzando la terminologia propria del contratto di
compravendita, sembra far riferimento, come sottolineato in
precedenza, a questa fattispecie, mentre il contratto di
transazione non prevede la corresponsione di un prezzo.
Sotto il profilo della ratio, inoltre, pare opportuno
ricordare nuovamente come la norma in esame sia contenuta
nell'ambito di un decreto legge volto a dettare
"disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria"
("pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno"). Avendo carattere
finanziario, e quindi lo scopo di dettare disposizioni al
fine del contenimento della spesa pubblica, dovrebbe
concernere i soli acquisti di immobili a fronte del
pagamento di un prezzo (o della mancata acquisizione di un
credito liquido ed esigibile).
La transazione, invece, anche
nell'ipotesi in cui conduca, come effetto, all’acquisto di
un bene immobile, è un'operazione più complessa, basata su
valutazioni di convenienza economica ed amministrativa che
vanno oltre il mero valore economico del bene che verrà
acquisito, quale prestazione della controparte, dall'ente
locale. Valutazioni che coinvolgono anche le probabilità di
vittoria del contenzioso in essere, nonché considerazioni
sulla portata e sulla rilevanza degli interessi pubblici
tendenti alla definizione transattiva di una controversia.
Sotto quest’ultimo profilo, il contratto di transazione fa
fatica, per sua natura, ad essere assoggettato ai vincoli
contenuti nel comma 1-ter dell'art. 12 del decreto-legge n.
98 del 2011. L'acquisto di un bene immobile, infatti,
potrebbe essere non strettamente indispensabile ed
indilazionabile, ma altamente conveniente nel quadro
transattivo complessivo.
Sotto altro aspetto,
anche la richiesta attestazione della
congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del Demanio non riesce a trovare piana
applicazione alla fattispecie transattiva, posto che, in
questo caso, oltre all'ammontare del credito ed al valore
del bene immobile da trasferire, vanno valutate le ulteriori
reciproche concessioni che definiscono i contenuti
dell'accordo transattivo. Tutti elementi che, nel loro
complesso, concorrono a definire il quadro di convenienza
economica della transazione e, in conclusione, il giudizio
circa la presenza di effettivi risparmi di spesa per
l’amministrazione stipulante.
La Sezione osserva, altresì, come, assoggettare gli accordi
transattivi, nell’ambito dei quali vi siano trasferimenti di
beni immobili a favore della pubblica amministrazione,
all'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, del
decreto-legge n. 98 del 2011, ed ai relativi limiti e
vincoli, possa produrre effetti contrari al raggiungimento
degli stessi obiettivi di contenimento finanziario che la
norma in questione vuole perseguire. L'applicazione ai
contratti di transazione, infatti, potrebbe impedire il
raggiungimento di accordi economicamente convenienti,
esponendo l’amministrazione al rischio dell'accoglimento
giudiziale delle pretese di controparte.
Sulla base delle motivazioni sopra esposte,
la Sezione ritiene che la disciplina limitativa,
vigente dal 2014, all’acquisto di beni immobili da parte
degli enti locali,
posta dall’art. 12, comma 1-ter, del decreto legge n. 98 del
2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, introdotto
dall’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228 del
2012, non possa trovare diretta
applicazione riguardo ai beni immobili acquisiti a seguito
della stipula di un contratto di transazione.
Naturalmente, nello spirito del
contenimento delle operazioni di acquisto di beni immobili,
che caratterizza l’intervento legislativo in discorso,
appare necessario che l’ente locale procedente osservi, nei
limiti di compatibilità con la fattispecie transattiva, i
presupposti ed i requisiti previsti dall’esposta normativa.
In particolare, sotto il profilo della “indispensabilità
e indilazionabilità” dell’acquisizione di un immobile,
risulta necessario che il provvedimento di autorizzazione
alla stipula della transazione espliciti puntualmente i
presupposti di fatto e di diritto in base ai quali risulta
necessario porre fine ad una controversia mediante la
necessaria acquisizione al patrimonio comunale di un bene
immobile, evidenziando in particolare i vantaggi derivanti
da tale opzione e gli alternativi rischi derivanti dal
protrarsi del contenzioso.
Per quanto riguarda, inoltre, l’apposita
attestazione di congruità, anche se non appare necessario,
alla luce della differente conformazione della fattispecie
transattiva (in cui è assente un “prezzo” di
acquisto, di cui occorre valutare la “congruità”),
l’intervento di apposita stima da parte dell’Agenzia del
Demanio (opzione comunque preferibile al fine di ottenere
una certificazione da parte di un soggetto istituzionale e
terzo), risulta tuttavia doveroso che la valutazione del
bene oggetto di acquisizione al patrimonio comunale sia
certificata dagli appositi uffici tecnici interni,
costituendo elemento della complessiva stima di convenienza
economica dell’accordo transattivo (sul quale, in generale,
va naturalmente assunto specifico parere dell’avvocatura
interna, nonché gli ulteriori pareri richiesti da norme di
legge o regolamentari).
Infine, si ritiene necessario, non
risultando incompatibile con la struttura dell’operazione
transattiva, l’apposita pubblicazione, con indicazione del
soggetto alienante, dell’immobile acquisito e degli altri
elementi essenziali dell’accordo transattivo, nel sito
istituzionale dell’ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.09.2015 n. 310). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
possibilità del ripristino del passaggio del personale da
part-time a tempo pieno.
I dipendenti del settore pubblico che abbiano
trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale
“hanno il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla
scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle
successive scadenze previste dai contratti collettivi. La
trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in
sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Peraltro, in un’ottica più generale di riduzione e di
contenimento della spesa pubblica,
la “maggior spesa in questione va, comunque, riassorbita,
sia pur gradualmente ed a partire dall’esercizio finanziario
immediatamente successivo a quello nel quale si è verificata
la riespansione del rapporto di lavoro“.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cinto Caomaggiore (VE), con
la suindicata nota, sollecita l'esercizio della funzione
consultiva da parte di questa Sezione su alcune
problematiche in materia di personale, ed in particolare
sulla richiesta di un dipendente comunale per il ripristino
dell'orario di lavoro a tempo pieno.
Nella suindicata nota il Sindaco evidenzia come
l'accoglimento di tale richiesta, essendo trascorsi i due
anni previsti dall'art. 4, comma 14, del CCNL del
14.09.2000, potrebbe comportare l'aumento ed il conseguente
sforamento delle spese di personale ai sensi del comma 557
della legge 27/12/2006, n. 296, mostrando altresì di
conoscere la posizione della Corte Conti nelle sue varie
articolazioni territoriali e le problematiche sottese.
...
II. La richiesta di parere avanzata dal Comune di Cinto
Caomaggiore –che comunque attiene alla materia della
contabilità pubblica come sopra definita- assume, peraltro,
un sufficiente carattere di generalità tale da poter
consentire alla Sezione di esprimersi nel merito,
circa cioè la possibilità del passaggio del
personale part-time a tempo pieno e sul contestuale rispetto
del vincolo di riduzione della spesa di personale dell’ente
rispetto a quella sostenuta nell’esercizio precedente:
vincolo posto in dubbio dall’incremento conseguente agli
oneri derivanti dalla riespansione del rapporto di lavoro
dal tempo parziale al tempo pieno.
Sul punto, giova evidenziare che l’art. 4 del CCNL del
Comparto Regioni–Autonomie Locali del 14.09.2000 riconosce
ai dipendenti in regime di part-time, la possibilità di
ottenere la riconduzione del rapporto alle condizioni
originarie (full-time). Detta possibilità, che sembra
atteggiarsi quale vero e proprio diritto potestativo, viene
riconosciuta anche normativamente atteso che l’art. 6, comma
4, del D.L. n. 79/1997, convertito dalla Legge n. 140 del
1997, tutt’oggi in vigore, prevede che i
dipendenti del settore pubblico che abbiano trasformato il
rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno il
diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza
di un biennio dalla trasformazione nonché alle successive
scadenze previste dai contratti collettivi. La
trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in
sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Per converso, la possibilità per l’ente locale di convertire
a tempo pieno il rapporto di lavoro di un dipendente assunto
a tempo parziale incontra, come noto, il limite posto
dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria per il 2008,
n. 244/2007, che stabilisce quanto segue: “per
il personale assunto con contratto di lavoro a tempo
parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può
avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti
dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”.
Dette disposizioni vincolistiche, attualmente in vigore e
destinate agli enti locali soggetti al patto, si sostanziano
nelle previsioni di cui all’articolo 1, commi 557 -
557-quater della legge 27.12.2006 n. 296.
In particolare il comma 557 di detta disposizione, letto in
combinato disposto con il successivo comma 557-quater,
introdotto dall’articolo 3, comma 5-bis del D.L. 90/2014,
prevede che “…. a decorrere dall'anno 2014 gli enti
assicurano, nell'ambito della programmazione triennale dei
fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di
personale con riferimento al valore medio del triennio
precedente”.
Alla luce delle richiamate disposizioni appare chiaro che
le amministrazioni, una volta che il dipendente
abbia esercitato detto diritto, potrebbero trovarsi di
fronte all’evidenza di dover sostenere per l’esercizio
interessato una spesa di personale ben più alta di quella
programmata (con la necessità tuttavia del rispetto dei
vincoli vigenti), non potendo prevedere puntualmente quando
la richiesta alla riespansione dell’orario di lavoro verrà
effettivamente formulata dal dipendente. Con ciò, incidendo
la maggiore spesa sull’importo della media triennale imposta
dalla normativa sopra richiamata.
Va poi evidenziato che la successiva circolare n. 1/2015
della Funzione Pubblica, ha precisato sul punto quanto segue
“il legislatore vincola gli enti a destinare il 100% del
turn-over alla mobilità del personale degli enti di area
vasta, salvaguardando l'assunzione dei vincitori
esclusivamente a valere sulle facoltà ordinarie di
assunzione. Sono altresì salvaguardate le esigenze di
incremento di part-time nel rispetto di quanto previsto
dall'articolo 3, comma 101, della legge 244/2007”.
Proprio alla luce delle richiamate coordinate ermeneutiche
va dunque inquadrata la questione interpretativa sollevata
dal comune di Cinto.
III. Sul punto, il Collegio osserva peraltro che il quesito
proposto dal Comune di Cinto Caomaggiore è in tutto simile a
quello oggetto di recentissima remissione alla Sezione
autonomie, in cui la Sezione Lombardia con deliberazione n.
135/2015/QMIG del 27.03.2015 aveva chiesto espressamente “se
la trasformazione di un rapporto di lavoro da tempo parziale
a tempo pieno, sottoposta alla disciplina limitativa delle
assunzioni di personale dall’art. 3, comma 101, della legge
n. 244/2007, sia soggetta, per gli anni 2015 e 2016, anche
agli ulteriori limiti e divieti posti dall’art. 1, comma
424, della legge n. 190/2014”.
La Sezione remittente, sulla scorta del dettato letterale
delle normativa in materia (art. 3, comma 101, legge n.
244/2007; art. 3, comma 5, del d.l. n. 90/2014, convertito
con legge n. 114/2014; art. 1, comma 424, legge n.
190/2014), nonché dei pregressi orientamenti assunti da
alcune Sezioni regionali di controllo, aveva ritenuto che,
nell’attesa che si concludano le procedure previste
dal comma 424 della legge di stabilità per il 2015, gli enti
locali non possano procedere alla trasformazione di un
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno in quanto
fattispecie normativamente equiparata alla disciplina
prescritta per le assunzioni a tempo indeterminato.
Al riguardo, poiché la disciplina della trasformazione dei
rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno non
presenta profili ermeneutici direttamente riferibili alla
disciplina di cui al citato comma 424, la Sezione delle
Autonomie con la deliberazione n. 26 SEZAUT/2015/QMIG del
20.07.2015 ha confermato l’orientamento già espresso nella
propria deliberazione n. 19/SEZAUT/2015/QMIG del 04.06.2015,
concludendo per il non luogo a deliberare sul quesito
deferito dalla Sezione di controllo per la Lombardia con
deliberazione n. 135/2015/QMIG.
Nella deliberazione n. 19/SEZAUT/2015/QMIG, infatti, si
trova affermato che “l’esame delle questioni è limitato
alle difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale,
sistematico e logico, direttamente ed esclusivamente
connesse al tenore dell’art. 1, comma 424, della legge
190/2014; altri istituti concernenti altre facoltà
assunzionali degli enti interessati, anche se indirettamente
rilevanti nell’ambito del lavoro esegetico, restano fuori
dal perimetro della questione di massima. La ragione di
questa delimitazione dell’ambito esegetico risiede nel fatto
che il comma 424 contiene solo un espresso regime
derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie
dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo
indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti
interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna
novella legislativa esorbita dalla stessa funzione
nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle
fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle
disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424, della legge
190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina
normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli
previsti dalle leggi”, a cui questo Collegio fa rinvio e
che sono state descritte in precedenza.
Più specificamente, deve essere sottolineato che la stessa
Sezione delle Autonomie nella citata deliberazione n.
26/2015 ha precisato che la circolare n. 1/2015 del
Dipartimento della Funzione Pubblica è stata registrata
dalla Corte dei Conti in data 20.02.2015 (Reg. ne. - Prev.
n. 399), la quale, come ricordato, ha ritenuto di escludere
dalla disciplina vincolistica posta dal comma 424 della
legge n. 190/2014 le conversioni da part-time a tempo pieno
(“Sono altresì salvaguardate le esigenze di incremento di
part-time nel rispetto di quanto previsto dall’art. 3, comma
101, della legge n. 244/2007”).
In relazione a ciò, il citato art. 6, comma 4, del D.L. n.
79/1997, conv. dalla Legge n. 140 del 1997, prevede che
i dipendenti del settore pubblico che abbiano
trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale “hanno
il diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla
scadenza di un biennio dalla trasformazione nonché alle
successive scadenze previste dai contratti collettivi. La
trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in
sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”.
Peraltro, in un’ottica più generale di riduzione e di
contenimento della spesa pubblica, questa Sezione ha
ripetutamente sottolineato (deliberazione n. 287/2011/PAR,
n. 106/2013/PAR e n. 406/2014/PAR) che la “maggior
spesa in questione va, comunque, riassorbita, sia pur
gradualmente ed a partire dall’esercizio finanziario
immediatamente successivo a quello nel quale si è verificata
la riespansione del rapporto di lavoro“
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 23.09.2015 n. 410). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli incentivi possono
essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un
atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via
esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato
direttamente ed in modo immediato alla progettazione di
un’opera pubblica.
Il che porta necessariamente ad escludere il diritto
all’incentivo per tutte quelle attività di pianificazione
territoriale che, quantunque funzionali e preordinate alla
realizzazione di opere pubbliche non si estrinsechino in una
attività di puntuale progettazione delle opere stesse.
Questa Sezione,
in precedenti pareri resi in materia,
ha negato la configurabilità dell’incentivo
per la redazione del Piano di governo del territorio o delle
relative varianti, così come dei Piani integrati di
intervento.
Le attività richieste per l’adozione di tali strumenti
urbanistici, come emergono dalle disposizioni della legge
regionale che li ha introdotti e come descritte nelle schede
fornite dal comune istante, non si estrinsecano infatti, di
regola, nella progettazione di un’opera nel senso sopra
descritto.
Tale requisito,
in particolare, non può essere ravvisato,
contrariamente a quanto sostenuto dal comune istante,
nella sola localizzazione e nella
previsione di realizzazione di un'opera pubblica, apportando
i necessari presupposti di conformità agli strumenti di
pianificazione urbanistica generale.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi
di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per
le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che
la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato
l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle
ordinariamente richieste dalla predisposizione di un
generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella
puntuale progettazione di un’opera pubblica.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Milano
formula un quesito sulla corretta interpretazione dell’art.
92, comma 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in
vigore fino al 18.08.2014, con particolare riferimento ai
compensi riconosciuti ai dipendenti dell’ente per attività
di pianificazione.
Il Comune intende infatti procedere alla determinazione e
alla conseguente liquidazione, ai dipendenti, dei compensi
incentivanti inerenti la pianificazione urbanistica,
maturati in vigenza della disposizione sopra citata.
Si richiama al riguardo l'orientamento più volte espresso da
questa Sezione e condiviso dalla Sezione delle Autonomie
della Corte dei Conti (deliberazione
15.04.2014 n. 7
di orientamento generale), secondo il quale il
riconoscimento del compenso richiede che il contenuto
specifico dell'atto di pianificazione sia connesso alla
realizzazione di un'opera pubblica.
Ciò premesso si chiede se in considerazione del predetto
orientamento possano ritenersi ricompresi nella fattispecie
di pianificazione, collegata alla realizzazione di opera
pubblica, sia gli atti di pianificazione urbanistica
generale del PGT, inerenti il Piano dei Servizi e il Piano
Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo, le Varianti
urbanistiche per la localizzazione di opere pubbliche, sia
gli atti di pianificazione urbanistica attuativa, nonché gli
strumenti di programmazione negoziata, il cui contenuto,
secondo la prospettazione del comune istante, rappresenta
quel "quid pluris" di progettualità interna e si
estrinseca nella localizzazione e nella previsione di
realizzazione di un'opera pubblica, apportando i necessari
presupposti di conformità agli strumenti di pianificazione
urbanistica generale previsti dal "Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità" - D.P.R. 327/2001,
nonché nella definizione degli scenari di intervento (sotto
il profilo urbanistico, ambientale, costruttivo),
preliminarmente all'avvio del procedimento di realizzazione
dell'opera.
A tal fine si precisa inoltre che l'atto di pianificazione
è un atto complesso, per la cui redazione occorre svolgere
un'attività di ricerca, di organizzazione e di elaborazione
di dati, nonché di analisi degli aspetti di natura
urbanistico-edilizia, ambientale, storico-monumentale di un
determinato ambito territoriale, attività che richiedono
specifiche competenze di figure professionali interne
all'Amministrazione, adeguate anche per un confronto con i
professionisti esterni.
L'Amministrazione si è avvalsa della collaborazione di
dipendenti che sono in possesso di queste specifiche
competenze professionali, ottenendo un risparmio di spesa
rispetto ai costi, che avrebbe dovuto sostenere, per il
ricorso di tali prestazioni professionali all'esterno degli
uffici comunali.
Alla richiesta di parere sono allegate le schede sintetiche
delle fattispecie di atti di pianificazione con
illustrazione dell'attività urbanistica svolta, considerata
essenziale ai fini della progettazione delle opere
pubbliche/opere di urbanizzazione.
...
Conviene preliminarmente ricordare che l’art. 13 del decreto
legge del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con
modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, ha abrogato
l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la
disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti
delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di
progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede
di conversione e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato una
nuova normativa in materia, confluita nell’art. 93 del
codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a
7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i
dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate
attività secondo i modi e criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
dell’ente,
restringe, sotto diversi aspetti, la portata
applicativa della disciplina precedente.
Si registra in particolare, per quanto di specifico
interesse ai fini del presente parere,
la definitiva
soppressione degli incentivi per la redazione di atti
pianificazione la cui disciplina non è stata riproposta
nelle nuove disposizioni di legge le quali, viceversa,
limitano la remunerazione alle sole attività di
progettazione propriamente detta.
Si deve tuttavia ritenere, come confermato dai pareri resi
in materia dalle sezioni di controllo di questa Corte, che
i
dipendenti che abbiano realizzato attività di pianificazione
conclusesi prima dell’entrata in vigore della riforma sopra
accennata, mantengano il diritto agli incentivi maturato nel
rispetto della precedente disciplina normativa.
Ciò detto, l’esame del merito del quesito sottoposto alla
sezione, nei termini sopra riferiti, richiede di fornire la
corretta interpretazione del previgente art. 92, comma 6,
del codice dei contratti pubblici, ove si disponeva che “il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Si tratta di chiarire, in particolare,
la natura delle
attività riconducibili alla nozione di “atto di
pianificazione comunque denominato” agli effetti del
riconoscimento al personale interno dell’ente dei compensi
“incentivanti” ivi previsti.
Questa Sezione, nei diversi pareri forniti in materia,
ha
sempre ritenuto di circoscrivere tale nozione ai soli atti
di pianificazione che siano strettamente connessi alla
progettazione di opere pubbliche, escludendo la possibilità
di corrispondere gli incentivi per la redazione di atti di
pianificazione di carattere generale, privi dei predetti
requisiti e rientranti, come tali, nelle ordinarie mansioni
richieste al personale dipendente (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 06.03.2012 n. 57,
parere 30.05.2012 n. 259,
parere 23.10.2012 n. 440,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 10.02.2014 n. 62).
Un’interpretazione restrittiva della disposizione in esame,
per la cui completa disamina si rinvia ai precedenti citati,
porta a sostenere che “ciò che rileva ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è
tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ossia a quel quid pluris di progettualità interna,
rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano
regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante” (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72).
Al predetto orientamento, condiviso dalla maggioranza delle
Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (tra le
varie: Sezione regionale di controllo per la Toscana,
deliberazione n. 15/2013/PAR; Sezione regionale di controllo
per il Piemonte, deliberazione n. 290/2012/PAR) si è
contrapposto il diverso avviso, recentemente ribadito in
seno alla giurisprudenza contabile, volto, viceversa, ad
ammettere il diritto all’incentivo per la sola attività di
pianificazione a prescindere dall’eventuale collegamento con
la progettazione di un’opera pubblica (Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 22.11.2013 n. 361 e
parere 03.12.2013 n. 381).
La questione è stata sottoposta all’esame della Sezione
Autonomie della Corte dei conti, chiamata a stabilire, a
fronte del citato contrasto interpretativo, se il diritto
all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione
sussista solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato
direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di
un’opera pubblica, oppure se tale diritto sussista anche
nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione
generale.
La Sezione Autonomie,
nel risolvere la questione di massima, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7,
ha ritenuto di aderire all’orientamento maggioritario che
riconosce di “palmare evidenza” il riferimento della
definizione “atto di pianificazione comunque denominato”
alla materia dei lavori pubblici, reputando l’ambito
applicativo della disposizione di legge, apparentemente
ampio ed indefinito, limitato esclusivamente all’attività
progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata
alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
Si riportano di seguito le argomentazioni poste a fondamento
della predetta interpretazione, rinviando al testo della
deliberazione citata per la completa disamina della
questione.
Si considera dirimente, innanzitutto, l’argomento che
attiene all’interpretazione sistematica delle disposizioni
in esame e che ha riguardo alla collocazione delle stesse (sedes
materiae) all’interno del Capo IV “Servizi attinenti
all’architettura ed all’ingegneria”- Sez. I “Progettazione
interna ed esterna e livelli di progettazione”- del
Codice dei Contratti ed al fatto che le stesse siano
immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato “progettazione
interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in
materia di lavori pubblici".
Disposizione quest’ultima che affida la progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici
tecnici delle stazioni appaltanti o, in alternativa, a
liberi professionisti e che, al comma 6, limita la
possibilità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di
ricorrere a professionalità esterne ai soli casi di carenza
in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di
rispettare i tempi della programmazione dei lavori, o,
infine, nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il
successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento.
L’art. 92 rubricato “corrispettivi, incentivi per la
progettazione e fondi a disposizione delle stazioni
appaltanti“ completa quanto disposto dai precedenti
articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della
progettazione dei lavori pubblici.
Decisivo appare, nondimeno, l’argomento basato
sull’interpretazione funzionale della norma in esame.
Il citato art. 92 del codice dei contratti pubblici, ai
commi 5 e 6, esprime, in modo evidente, il favor legis
per l’affidamento a professionalità interne alle
amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in
prestazioni d’opera professionale.
Pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle
norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le
amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente,
al quale applicheranno le regole generali previste per il
pubblico impiego il cui sistema retributivo è basato, come è
noto, sui principi cardine di onnicomprensività della
retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs.
30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle
componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma
1. In base a tali principi nulla è dovuto oltre il
trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una
prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.
Il legislatore, con le disposizioni in parola, ha voluto
riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni
aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando
agli anzidetti principi.
In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92, ai commi 5
e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi
di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati
principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni
singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento
e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga
riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque
denominato, da ripartire fra i dipendenti
dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto,
entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.
La norma deve essere considerata, dunque, di stretta
interpretazione, non suscettibile di applicazione in via
analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle
disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare
possibile una lettura della definizione in essa contenuta
che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo
stesso non esplicitato.
La funzione “incentivante” riconosciuta all’art. 92,
comma 6, oltre a limitarne l’ambito di applicazione
oggettivo nei termini sopra riferiti, ne circoscrive
l’applicazione soggettiva al solo personale interno
dell’ente, escludendo implicitamente, come confermato nei
precedenti pareri resi dalla Sezione, che possano essere
erogati speciali compensi ai dipendenti che svolgono
attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla
redazione di un atto di pianificazione che sia affidato ad
un professionista esterno.
Tutto ciò premesso, questa Sezione, con riferimento alla
richiesta formulata, non può che ribadire il proprio
precedente e consolidato orientamento, confermato anche
dalla Sezione Autonomie, per cui
gli incentivi possono
essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un
atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via
esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato
direttamente ed in modo immediato alla progettazione di
un’opera pubblica.
Il che porta necessariamente ad escludere il diritto
all’incentivo per tutte quelle attività di pianificazione
territoriale che, quantunque funzionali e preordinate alla
realizzazione di opere pubbliche non si estrinsechino in una
attività di puntuale progettazione delle opere stesse.
Questa Sezione,
in precedenti pareri resi in materia,
ha negato la configurabilità dell’incentivo
per la redazione del Piano di governo del territorio o delle
relative varianti, così come dei Piani integrati di
intervento
(parere
24.10.2012 n. 452).
Le attività richieste per l’adozione di tali strumenti
urbanistici, come emergono dalle disposizioni della legge
regionale che li ha introdotti e come descritte nelle schede
fornite dal comune istante, non si estrinsecano infatti, di
regola, nella progettazione di un’opera nel senso sopra
descritto.
Tale requisito,
in particolare, non può essere ravvisato,
contrariamente a quanto sostenuto dal comune istante,
nella sola localizzazione e nella
previsione di realizzazione di un'opera pubblica, apportando
i necessari presupposti di conformità agli strumenti di
pianificazione urbanistica generale.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi
di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per
le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che
la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato
l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle
ordinariamente richieste dalla predisposizione di un
generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella
puntuale progettazione di un’opera pubblica.
Spetta naturalmente all’ente istante stabilire se nel caso
concreto, con riferimento alle diverse tipologie di
pianificazione adottate, il predetto requisito possa
ritenersi soddisfatto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 22.09.2015 n. 303). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Enti
locali, meno paletti sulle nuove assunzioni.
Sezione autonomie: i resti vanno considerati in senso
dinamico.
Il triennio dei resti assunzionali da calcolare ai fini
della determinazione del budget per le nuove assunzioni va
considerato in senso dinamico e non statico. Gli enti
locali, dunque, ogni anno dovranno calcolare il budget
considerando il costo delle cessazioni dell'anno precedente,
aggiungendo i resti assunzionali del triennio a scorrimento.
Lo chiarisce la
deliberazione 22.09.2015 n. 28 della Corte dei
conti, sezione autonomie, che torna sui problemi già in
parte affrontati con la precedente deliberazione 26/2015,
innovandone parzialmente i contenuti, analizzando le
disposizioni del dl 78/2015 che ha novellato l'articolo 3,
comma 5, del dl 90/2014, prevedendo che «è altresì
consentito l'utilizzo dei residui ancora disponibili delle
quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al
triennio precedente».
Il meccanismo dettato dalla delibera 28/2015 può essere
chiarito come segue. Per il 2015 le capacità assunzionali
degli enti locali corrispondono al 60% del costo delle
cessazioni intervenute nel 2014, più i resti del budget
assunzionale degli anni 2011-2013; per il 2016, invece, le
capacità assunzionali saranno pari all'80% del costo delle
cessazioni del 2015, più i resti del budget assunzionale del
nuovo triennio 2012-2014.
La sezione autonomie non si limita a chiarire la natura
dinamica del triennio. Sottolinea che gli enti possono
utilizzare i resti assunzionali solo a condizione che le
connesse risorse «siano state a suo tempo previste,
nell'ambito della programmazione del turn-over».
Occorre, dunque, che i «resti» si formino in
corrispondenza a previsioni di assunzioni formalizzate,
altrimenti non avrebbero un fondamento né giuridico, né
finanziario.
La delibera, inoltre, torna sugli effetti della novellazione
dell'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014 rispetto alla
disciplina di congelamento delle assunzioni contenuta
nell'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, dando
l'impressione di rivedere in senso critico le indicazioni
della delibera 26/2015. Questa, infatti, ha ritenuto che gli
enti locali possano porre in essere assunzioni a tempo
indeterminato a valere sui resti assunzionali del trienni
2011-2013, senza che esse incorrano nelle limitazioni poste
dalla legge 190/2014.
La delibera 28/2015 indica, dal canto suo che «le
limitazioni di cui alla legge n. 190/2014, finalizzate a
garantire il riassorbimento del personale provinciale, sono
da ritenere operanti, con riguardo al budget di spesa per il
2015 (riferito alle cessazioni di personale intervenute nel
2014), anche nei casi in cui sia possibile utilizzare gli
spazi assunzionali connessi alle cessazioni intervenute nel
triennio precedente».
La Corte dei conti pare dunque correggersi: afferma,
infatti, che i resti assunzionali del triennio 2012-2014
accedano al budget del 2015, così da formare un corpo unico
che finanzi le assunzioni ammesse dal comma 424: la chiamata
dei vincitori dei concorsi con graduatorie vigenti o
approvate all'01/01/2015, nonché la ricollocazione dei
dipendenti provinciali in sovrannumero.
Un secondo importante chiarimento dettato dalla delibera
28/2015 riguarda il calcolo del costo delle cessazioni. La
delibera dispone che «con riguardo alle cessazioni di
personale verificatesi in corso d'anno, il budget
assunzionale di cui all'art. 3, comma 5-quater, del dl n.
90/2014 va calcolato imputando la spesa a regime per
l'intera annualità», allo scopo di evitare le distorsioni
nei calcoli derivanti dal conteggio per cassa»
(articolo ItaliaOggi del 29.09.2015).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla
questione interpretativa posta dalla Sezione regionale di
controllo per la Campania con la deliberazione n. 200/2015/QMIG
pronuncia i seguenti principi di diritto:
1) Il riferimento “al triennio
precedente” inserito nell’art. 4, comma 3, del d.l. n.
78/2015, che ha integrato l’art. 3, comma 5, del d.l. n.
90/2014, è da intendersi in senso dinamico, con scorrimento
e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si
intende effettuare le assunzioni.
2) Con riguardo alle cessazioni di personale verificatesi in
corso d’anno, il budget assunzionale di cui all’art. 3,
comma 5-quater, del d.l. n. 90/2014 va calcolato imputando
la spesa “a regime” per l’intera annualità. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
trasformazione di un rapporto di lavoro costituito
originariamente a tempo parziale in un rapporto a tempo
pieno (36 ore settimanali) deve considerarsi una nuova
assunzione.
Invero, per il
personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale
la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire
solo nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle
disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
Invece, nell’eventualità in cui il dipendente sia stato
originariamente assunto a tempo pieno e abbia
successivamente beneficiato di una riduzione dell’orario di
lavoro, la trasformazione del rapporti di lavoro in
full-time non è assimilabile ad una nuova assunzione, avendo
il lavoratore diritto alla riespansione dell’orario di
lavoro secondo quanto previsto dal CCNL e dalla sussistenza
del posto in organico.
Per completezza, si ribadisce
la possibilità per l’ente
locale, fermo restando i vigenti vincoli di contenimento
della spesa, di rimodulare in aumento l’orario di lavoro di
dipendente assunto in part-time (senza tuttavia trasformare
il rapporto in full-time); tale aumento non incontra il
limite posto dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria
per il 2008 (n. 244/2007).
---------------
Il sindaco del comune di Cairate (VA), mediante nota n. 5449
del 15.05.2015, espone quanto segue.
Nell’ufficio di segreteria del comune di Cairate (7.834
residenti) sono in servizio 2 dipendenti a tempo
indeterminato di fascia “C” di cui uno a part-time a 34 ore
ed una a tempo pieno; quest’ultima unità sarà assente per
congedo obbligatorio dovuto a maternità.
Ciò premesso, e precisato che la disponibilità della spesa
del personale è ritenuta sufficiente a rispettare i vigenti
limiti di legge, il sindaco chiede “un parere in merito alla
possibilità di trasformare il part-time di 34 ore in tempo
pieno per il tempo di assenza della dipendente, ovvero se
tale temporanea trasformazione debba considerarsi nuova
assunzione".
Quanto suddetto al fine di consentire l’adozione
di una nuova assunzione a tempo determinato di un minor
numero di ore favorendone, con le ulteriori due ore al
dipendente a tempo indeterminato, un’idonea formazione.
...
In via preliminare, la Sezione precisa che la decisione se
procedere o meno alla trasformazione del rapporto di lavoro
a tempo pieno, nonché all’assunzione a tempo determinato
prospettata nel quesito attiene al merito dell’azione
amministrativa e rientra, pertanto, nella piena ed esclusiva
discrezionalità e responsabilità dell’ente, che potrà
orientare la propria decisione in base alle conclusioni
contenute nel parere della Sezione.
Spetta all’ente, in particolare, valutare l’effettivo
rispetto dei limiti e dei vincoli stabiliti in tema di
contenimento della spesa di personale per gli enti
sottoposti al patto di stabilità interno dagli articoli 1,
comma 557, legge n. 296/2006 e s.m.i. e 76, comma 7, d.l. 25.06.2008, n. 112 convertito, con modificazioni, dalla
legge 06.08.2008, n. 133, e s.m.i.
Nel quesito posto dal sindaco del comune di Cairate non è
specificato se il dipendente attualmente in servizio a 34
ore settimanali sia stato originariamente assunto a tempo
pieno (36 ore) o con contratto part-time; tale circostanza,
di fatto, si dimostra dirimente, in quanto le Sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti si sono più
volte espresse sulla questione, evidenziando che
la
trasformazione di un rapporto di lavoro costituito
originariamente a tempo parziale in un rapporto a tempo
pieno (36 ore settimanali) debba considerarsi una nuova
assunzione, che, come tale, soggiace ai limiti previsti
dalla legge per i vincoli assunzionali.
Infatti, l’art. 3,
comma 101, della Legge n. 244/2007 stabilisce che
per il
personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale
la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire
solo nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle
disposizioni vigenti in materia di assunzioni (Cfr. ad es.
Sez. Controllo Emilia Romagna 8/2012/PAR; Sez. Controllo
Lombardia 51/2012/PAR).
Invece, nell’eventualità in cui il dipendente sia stato
originariamente assunto a tempo pieno e abbia
successivamente beneficiato di una riduzione dell’orario di
lavoro, la trasformazione del rapporti di lavoro in
full-time non è assimilabile ad una nuova assunzione, avendo
il lavoratore diritto alla riespansione dell’orario di
lavoro secondo quanto previsto dal CCNL e dalla sussistenza
del posto in organico. Infatti l’art. 4, comma 14, del CCNL
Comparto Regioni – Autonomie Locali del 14.09.2000,
dispone che “i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo
parziale hanno diritto di tornare a tempo pieno alla
scadenza di un biennio dalla trasformazione, anche in
soprannumero oppure, prima della scadenza del biennio, a
condizione che vi sia la disponibilità del posto in
organico”.
La previsione della contrattazione collettiva sopra
riportata trova riscontro nell’art. 6, comma 4, del decreto
legge 2803.1997, n. 79, convertito dalla legge 28.05.1997, n. 140, a tenore del quale: ”i dipendenti che
trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale hanno diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno
alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, nonché
alle successive scadenze previste dai contratti collettivi.
La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche
in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze”
(Cfr. Sez. Controllo Lombardia 51/2012/PAR; Sez. Controllo
Lombardia 873/2010/PAR; Sez. Controllo Lombardia
251/2014/PAR).
Per completezza, si ribadisce la possibilità per l’ente
locale, fermo restando i vigenti vincoli di contenimento
della spesa, di rimodulare in aumento l’orario di lavoro di
dipendente assunto in part-time (senza tuttavia trasformare
il rapporto in full-time); tale aumento non incontra il
limite posto dall’art. 3, comma 101, della legge finanziaria
per il 2008, n. 244/2007 (Sez. Controllo Lombardia
parere 30.10.2012 n. 462; Sez. Controllo Campania 20/2014/PAR)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.09.2015 n. 298). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'intenzione
di istituire l’Ufficio di staff del Sindaco ex art. 90 tuel,
finalizzato a supportare il medesimo nell’esercizio delle
funzioni di indirizzo e di controllo nel rispetto delle
previsioni contenute nell’art. 90 del D.Lgs. 267/2000 e del
vigente regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi.
La giurisprudenza contabile ha già
analizzato l’istituto di cui all’art. 90 TUEL e si può
affrontare la problematica posta dal Comune istante in
merito al rapporto intercorrente fra l’assunzione a tempo
indeterminato di cui all’art. 90 TUEL e l’art. 1, comma 424,
della legge di stabilità per il 2015.
Sul piano letterale, il comma 424 si riferisce alle
sole “assunzioni a tempo indeterminato”, non alle
“assunzioni” genericamente intese. Sul piano sistematico,
il legislatore ha, al comma 420, disciplinato diversamente,
ed in modo più stringente, le facoltà assunzionali delle
sole province, impedendo a queste ultime anche le assunzioni
a tempo determinato (oltre che gli incarichi ex art. 90 e
110 TUEL, oggetto di analisi nel punto successivo).
Precludere le assunzioni in esame anche agli altri enti
locali non pare coerente con il sistema complessivamente
delineato dal legislatore, che ha dettato, all’interno del
medesimo testo legislativo, una disciplina differente per le
province (comma 420, più stringente) rispetto a quella degli
altri enti locali (commi 424 e 425, meno stringente).
Del resto, la facoltà di assumere a tempo determinato è
disciplinata da altre norme di legge (l’art. 36 del d.lgs.
n. 165/2001 sul piano sostanziale e l’art. 9, comma 28, del
d.l. n. 78/2010, sul piano finanziario), tuttora vigenti,
anche se i limiti dell’art. 9, comma 28, sono stati oggetto
di recente espansione ad opera del d.l. n. 90/2014.
Sul punto corre, peraltro, l’obbligo di richiamare le
prescrizioni contenute nell’art. 1, comma 557, della legge
n. 296/2006 e nell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010,
che devono essere rispettate, nei termini ivi disciplinati,
dall’ente allorquando assume a tempo determinato.
Al riguardo si richiama, fra l’altro, la Sezione delle
Autonomie, la quale ha affermato che “Le limitazioni dettate
dai primi sei periodi dell’art. 9, comma 28, del d.l. n.
78/2010, in materia di assunzioni per il lavoro flessibile,
alla luce dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. 90/2014 non si
applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di
riduzione della spesa di personale di cui ai commi 557 e 562
dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma restando la vigenza del
limite massimo della spesa sostenuta per le medesime
finalità nell’anno 2009, ai sensi del successivo ottavo
periodo dello stesso comma 28”.
---------------
Il Sindaco della Città di Muggiò (MI) ha formulato una
richiesta di parere in merito alle possibilità applicative
dell’art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000 in combinato disposto
con l’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014 (cd. Legge
Stabilità 2015).
A tale fine si premette che è intenzione
dell’Amministrazione, in sede di riorganizzazione della
propria struttura, istituire l’Ufficio di staff del Sindaco
ex art. 90 tuel, finalizzato a supportare il medesimo
nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo
nel rispetto delle previsioni contenute nell’art. 90 del
D.Lgs. 267/2000 e del vigente regolamento sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi.
L’art. 5 prevede che “1. Il Sindaco, indipendentemente da
quanto previsto dalla dotazione organica, può dotarsi di un
ufficio posto alle sue dirette dipendenze per coadiuvarlo
nell'esercizio delle proprie attività, con particolare
riguardo a quelle riferite alle relazioni esterne.
2. All'Ufficio è preposto un dipendente con incarico
coincidente con l'effettiva durata del mandato del Sindaco
che lo ha nominato.
3. Tale incarico può essere assegnato ad un dipendente
dell'Ente ovvero ad altro soggetto assunto a tempo
determinato con contratto di diritto privato, la cui durata
deve prevedere l'automatica risoluzione del rapporto in caso
di anticipata cessazione dalla carica di Sindaco.
4. Nel caso di dipendente dell’Amministrazione, lo stesso
deve essere posto fuori organico con garanzia di
reinserimento in organico a tutti gli effetti, a scadenza
del contratto e o alla cessazione della carica di Sindaco”.
La Città di Muggiò intende reclutare -nel rispetto degli
obblighi posti dalla normativa, quali il patto di stabilità
interno, la riduzione della spesa del personale, gli
obblighi in materia di certificazioni dei crediti, i tempi
medi di pagamento, e nell’ambito della programmazione del
fabbisogno triennale di personale- una unità di personale a
tempo determinato, in part-time per 18 ore, con contratto di
lavoro da destinare all’Ufficio di Staff. Tale risorsa, alla
quale verrà applicato il contratto collettivo nazionale di
lavoro del personale degli enti locali, con inquadramento di
cat. D1, sarà assunta a tempo determinato fino alla scadenza
del mandato Sindacale.
Alla luce di quanto sopra si chiede un parere “in
merito alla fattibilità di reclutamento del sopracitato
personale alla luce dell’entrata in vigore della nuova
normativa introdotta dal legislatore nell’art. 1, comma 424,
della Legge n. 90/2014, dando atto che la disciplina
contenuta nell’art. 90 TUEL parrebbe a giudizio di questo
Ente, peculiare trattandosi di attività lavorativa
intrinsecamente collegata all’esercizio della funzione di
direzione politica del Sindaco, a tempo determinato e senza
compiti gestionali”.
...
Occorre preliminarmente precisare che la decisione da parte
dell’Amministrazione sulle modalità interpretative delle
norme di contabilità è frutto di valutazioni proprie
dell’Ente medesimo, rientranti nelle prerogative dei
competenti organi decisionali, pur nel rispetto delle
previsioni legali e nell’osservanza delle regole di sana
gestione finanziaria e contabile.
Ciò nondimeno il Comune richiedente potrà tenere conto,
nelle determinazioni di propria competenza, dei principi
generali enunciati in sede interpretativa nel presente
parere.
La richiesta di parere verte sulle possibilità applicative
dell’art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000 in combinato disposto
con l’art. 1, comma 424, della Legge n. 90/2014 (cd. Legge
Stabilità 2015).
A tale fine si premette che è intenzione
dell’Amministrazione, in sede di riorganizzazione della
propria struttura, istituire l’Ufficio di staff del Sindaco
ex art. 90 tuel, finalizzato a supportare il medesimo
nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo
nel rispetto delle previsioni contenute nell’art. 90 del
D.Lgs. 267/2000 e del vigente regolamento sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi.
L’art. 5 prevede che “1. Il Sindaco, indipendentemente da
quanto previsto dalla dotazione organica, può dotarsi di un
ufficio posto alle sue dirette dipendenze per coadiuvarlo
nell'esercizio delle proprie attività, con particolare
riguardo a quelle riferite alle relazioni esterne.
2. All'Ufficio è preposto un dipendente con incarico
coincidente con l'effettiva durata del mandato del Sindaco
che lo ha nominato.
3. Tale incarico può essere assegnato ad un dipendente
dell'Ente ovvero ad altro soggetto assunto a tempo
determinato con contratto di diritto privato, la cui durata
deve prevedere l'automatica risoluzione del rapporto in caso
di anticipata cessazione dalla carica di Sindaco.
4. Nel caso di dipendente dell’Amministrazione, lo stesso
deve essere posto fuori organico con garanzia di
reinserimento in organico a tutti gli effetti, a scadenza
del contratto e o alla cessazione della carica di Sindaco”.
La Città di Muggiò intende reclutare -nel rispetto degli
obblighi posti dalla normativa, quali il patto di stabilità
interno, la riduzione della spesa del personale, gli
obblighi in materia di certificazioni dei crediti, i tempi
medi di pagamento, e nell’ambito della programmazione del
fabbisogno triennale di personale- una unità di personale a
tempo determinato, in part-time per 18 ore, con contratto di
lavoro da destinare all’Ufficio di Staff. Tale risorsa, alla
quale verrà applicato il contratto collettivo nazionale di
lavoro del personale degli enti locali, con inquadramento di
cat. D1, sarà assunta a tempo determinato fino alla scadenza
del mandato Sindacale.
Alla luce di quanto sopra si chiede un parere “in merito
alla fattibilità di reclutamento del sopracitato personale
alla luce dell’entrata in vigore della nuova normativa
introdotta dal legislatore nell’art. 1, comma 424, della
Legge n. 90/2014, dando atto che la disciplina contenuta
nell’art. 90 TUEL parrebbe a giudizio di questo Ente,
peculiare trattandosi di attività lavorativa intrinsecamente
collegata all’esercizio della funzione di direzione politica
del Sindaco, a tempo determinato e senza compiti gestionali”.
L’art. 90 TUEL (che riproduce sostanzialmente il precetto
del secondo periodo dell’art. 51, comma 7, della Legge
n. 142/1990, nel testo modificato dalle leggi n. 127/1997 e
n. 191/1998) reca la disciplina degli uffici di supporto agli
organi di direzione politica dell’ente locale (uffici c.d.
di staff) demandando, sul piano delle fonti, al regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi la possibilità
di costituire tali uffici.
Sul piano organizzativo è previsto che tali uffici siano
posti alle dirette dipendenze del sindaco (o del presidente
della provincia), della giunta o degli assessori e svolgano
esclusivamente le funzioni di indirizzo e di controllo
attribuite dalla legge agli organi che se ne avvalgono e,
sul piano della consistenza organica, che tali uffici siano
costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per
gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da
collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i
quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono
collocati in aspettativa senza assegni. Il comma 2 del
medesimo articolo stabilisce che a tali contratti di lavoro
subordinato a tempo determinato si applica il contratto
collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti
locali.
Inoltre, con provvedimento motivato della Giunta, per il
personale in discorso il trattamento economico accessorio
previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da
un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro
straordinario, per la produttività collettiva e per la
qualità della prestazione individuale (comma 3).
La Sezione osserva come la giurisprudenza contabile abbia
già avuto modo di analizzare l’istituto di cui all’art. 90
TUEL con le deliberazioni Piemonte/312/2013/SRCPIE/PAR e
Campania/155/2014/PAR, che si richiamano.
In particolare sono stati affermati i seguenti principi:
- la necessità che tali uffici non svolgano funzioni
gestionali. Il personale in staff, infatti, ai sensi
dell’art. 90 TUEL, può svolgere esclusivamente funzioni di
supporto all’attività di indirizzo e di controllo, alle
dirette dipendenze dell’organo politico, al fine di evitare
qualunque sovrapposizione con le funzioni gestionali ed
istituzionali. Il principio sopra esposto è stato
chiaramente sintetizzato dalla Sezione Prima Giurisdizionale
Centrale della Corte dei conti nella Sentenza n. 785/2012/A,
laddove ha affermato che “l'incarico ex articolo 90 non
può negli effetti andare a sovrapporsi a competenze
gestionali ed istituzionali dell'ente. Se così il
legislatore avesse voluto, si sarebbe espresso in maniera
completamente diversa e non avrebbe affatto fatto
riferimento alle funzioni di indirizzo e controllo
dell'autorità politica”.
Ancora di recente, la giurisprudenza (Sez. Giur. Puglia,
sent. n. 208/2013) ha ribadito che la previsione dell’art.
90 del TUEL «costituisce un portato del principio di
separazione tra politica e amministrazione, rispondendo alla
finalità di assicurare agli organi titolari della specifica
funzione di “direzione politica” di potersi avvalere di
uffici posti alle proprie dirette dipendenze sotto il
profilo funzionale e, per tale via, di poter disporre, al
fine di supportare il concreto “esercizio delle funzioni di
indirizzo e di controllo” di loro esclusiva spettanza, di
personale diretto in prima persona, senza il tramite
dell’apparato gerarchico amministrativo, che ad essi
direttamente risponda nell’ambito di un rapporto instaurato
in base all’intuitu personae».
- il carattere fiduciario della selezione del personale. Si
rammenta, in ogni caso, che la specializzazione va valutata
in relazione alle funzioni da svolgere, tenendo conto della
declaratoria delle funzioni previste da ogni qualifica
funzionale nel CCNL e dai titoli previsti dallo stesso
contratto per l’accesso dall’esterno (cfr. Sez. Giur.
Toscana, sent. n. 622/2004: «Il comando normativo
dell’art. 90 non permette, peraltro, […], di prescindere
dalla valutazione della specificazione della categoria e del
profilo professionale che, visti anche gli insegnamenti
della Corte costituzionale, 28.07.1999 n. 364, la quale ha
rimarcato la necessaria comparazione nello scrutinio dei
soggetti aspiranti ad essere incardinati nella Pubblica
Amministrazione, costituiscono fondamentali elementi di
valutazione al fine dell’inserimento di un soggetto
nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione. La
presenza dell’elemento fiduciario, che pur deve sussistere
nell’ambito di un rapporto di staff, pertanto, non prescinde
da una oggettiva valutazione del curriculum vitae del
soggetto preso in considerazione, anche al fine di collocare
nell’ambito della “macchina amministrativa” collaboratori in
osservanza del fondamentale principio di trasparenza che
deve connotare l’attività dell’Amministrazione»);
- il carattere necessariamente oneroso del rapporto di
lavoro subordinato. È da escludere la possibilità di
corrispondere al personale dell’ufficio di staff il mero
rimborso delle spese sostenute e debitamente documentate
nell’esercizio dell’attività lavorativa, con esclusione di
qualsiasi compenso o retribuzione per l’attività svolta,
essendo testualmente previsto dall’art. 90, comma 2, TUEL
che “al personale assunto con contratto di lavoro
subordinato a tempo determinato si applica il contratto
collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti
locali”.
Peraltro, come è stato esplicitato nel parere della Sez.
Contr. Calabria n. 395/2010, la citata norma di legge
statale non è suscettibile di essere derogata dal
regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e
servizi, trattandosi di norma imperativa posta a tutela del
lavoratore, al quale viene garantito un trattamento
economico equivalente a quello disciplinato dalla
contrattazione collettiva nazionale del personale degli enti
locali, alla quale si fa espresso rinvio.
In tale contesto con le deliberazioni sopra richiamate
è
stato confermato il carattere dotazionale delle assunzioni
effettuate ai sensi dell’art. 90 TUEL (a differenza di
quelle ex art. 110 TUEL, di carattere extradotazionale), già
illustrato dalla Sezione Giur. Toscana con la sentenza n.
622/2004.
Considerato quanto sopra, si può affrontare la problematica
posta dal Comune istante in merito al rapporto intercorrente
fra l’assunzione a tempo indeterminato di cui all’art. 90
TUEL e l’art. 1, comma 424, della legge di stabilità per il
2015.
Ai sensi dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014 “Le
regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016,
destinano le risorse per le assunzioni a tempo
indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. È
fatta salva la possibilità di indire, nel rispetto delle
limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti, le procedure
concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di
personale in possesso di titoli di studio specifici
abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali
necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali
relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi
e scolastici, con esclusione del personale amministrativo,
in caso di esaurimento delle graduatorie vigenti e di
dimostrata assenza, tra le unità soprannumerarie di cui al
precedente periodo, di figure professionali in grado di
assolvere alle predette funzioni. Esclusivamente per le
finalità di ricollocazione del personale in mobilità le
regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante
percentuale della spesa relativa al personale di ruolo
cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa
ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando
i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità
finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il
personale ricollocato secondo il presente comma non si
calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al
comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il
numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile
è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le
assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono
nulle”.
Sul piano letterale, il comma 424 si riferisce alle sole “assunzioni
a tempo indeterminato”, non alle “assunzioni”
genericamente intese. Sul piano sistematico, il legislatore
ha, al comma 420, disciplinato diversamente, ed in modo più
stringente, le facoltà assunzionali delle sole province,
impedendo a queste ultime anche le assunzioni a tempo
determinato (oltre che gli incarichi ex art. 90 e 110 TUEL,
oggetto di analisi nel punto successivo).
Segnatamente è fatto divieto alle province delle regioni a
statuto ordinario: ”a) di ricorrere a mutui per spese non
rientranti nelle funzioni concernenti la gestione
dell'edilizia scolastica, la costruzione e gestione delle
strade provinciali e regolazione della circolazione stradale
ad esse inerente, nonché la tutela e valorizzazione
dell'ambiente, per gli aspetti di competenza;
b) di effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni,
mostre, pubblicità e di rappresentanza;
c) di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, anche
nell'ambito di procedure di mobilità;
d) di acquisire personale attraverso l'istituto del comando.
I comandi in essere cessano alla naturale scadenza ed è
fatto divieto di proroga degli stessi;
e) di attivare rapporti di lavoro ai sensi degli articoli 90
e 110 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, e successive modificazioni. I rapporti in essere ai
sensi del predetto articolo 110 cessano alla naturale
scadenza ed è fatto divieto di proroga degli stessi;
f) di instaurare rapporti di lavoro flessibile di cui
all'articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122, e successive modificazioni;
g) di attribuire incarichi di studio e consulenza”.
Precludere le assunzioni in esame anche agli altri enti
locali non pare coerente con il sistema complessivamente
delineato dal legislatore, che ha dettato, all’interno del
medesimo testo legislativo, una disciplina differente per le
province (comma 420, più stringente) rispetto a quella degli
altri enti locali (commi 424 e 425, meno stringente).
Del resto, la facoltà di assumere a tempo determinato è
disciplinata da altre norme di legge (l’art. 36 del d.lgs.
n. 165/2001 sul piano sostanziale e l’art. 9, comma 28, del
d.l. n. 78/2010, sul piano finanziario), tuttora vigenti,
anche se i limiti dell’art. 9, comma 28, sono stati oggetto
di recente espansione ad opera del d.l. n. 90/2014.
Sul punto corre, peraltro, l’obbligo di richiamare le
prescrizioni contenute nell’art. 1, comma 557, della legge
n. 296/2006 e nell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010,
che devono essere rispettate, nei termini ivi disciplinati,
dall’ente allorquando assume a tempo determinato.
Al riguardo si richiama, fra l’altro, la deliberazione n. 2/SEZAUT/2015/QMIG
della Sezione delle Autonomie, nella quale si afferma che “Le
limitazioni dettate dai primi sei periodi dell’art. 9, comma
28, del d.l. n. 78/2010, in materia di assunzioni per il
lavoro flessibile, alla luce dell’art. 11, comma 4-bis, del
d.l. 90/2014 (che ha introdotto il settimo periodo del
citato comma 28), non si applicano agli enti locali in
regola con l’obbligo di riduzione della spesa di personale
di cui ai commi 557 e 562 dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma
restando la vigenza del limite massimo della spesa sostenuta
per le medesime finalità nell’anno 2009, ai sensi del
successivo ottavo periodo dello stesso comma 28”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.09.2015 n. 292). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è
consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate
esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di
area vasta.
A conclusione del processo di ricollocazione del personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è
ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità
volontaria.
---------------
Il Sindaco del Comune di Pieve Emanuele (MI), con
nota del giorno 16.03.2015, dopo aver premesso che:
- l’ente ha indetto nel corso dell’anno 2014 un concorso
pubblico per l’assunzione di n. 1 Istruttore Direttivo
Esperto Cat. D3 nell'Area Programmazione Economica;
- la prima classificata ha rinunciato all’assunzione in data
23/07/2014, pertanto si è proceduto con l'assunzione in
prova del 2° classificato, il quale ha rassegnato le proprie
dimissioni con decorrenza dal 17/01/2015, finito il periodo
di prova;
- contestualmente entra in vigore la legge n. 190/2014
(cosiddetta “Legge di Stabilità’’) secondo cui “per
gli anni 2015 e 2016 gli enti locali destinano le proprie
risorse per assunzioni a tempo indeterminato nelle
percentuali stabilite dalla normativa vigente,
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità";
- l’ente ha approvato la propria graduatoria di merito in
data 30/06/2014 e la procedura di assunzione dalla suddetta
graduatoria ha avuto esito infruttuoso,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”possa dare corso nell'anno 2015 allo
scorrimento della suddetta graduatoria per l’assunzione di
un vincitore, come previsto dal piano delle assunzioni
dell’ente, o se debba attendere il 2017 per poterlo fare”;
b) se “possa legittimamente assumere mediante mobilità
da enti del comparto provvedendo all'indizione di procedura
di mobilità”.
Al quesito sub a) questa Sezione ha già fornito risposta con
il
parere 22.04.2015 n. 168,
residua il quesito sub b), il cui esame era stato sospeso in
attesa del pronunciamento su analoga questione della Sezione
delle Autonomie di questa Corte, avvenuta con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19.
...
1. Come premesso, degli originali quesiti posti dal Comune
istante residua soltanto il secondo, ovvero se “possa
legittimamente assumere mediante mobilità da enti del
comparto provvedendo all'indizione di procedura di mobilità”.
Su analogo quesito si è pronunciata la Sezione delle
Autonomie di questa Corte, che, nella
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
ha così statuito: “per il 2015 ed il
2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure
di mobilità riservate esclusivamente al personale
soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del
processo di ricollocazione del personale soprannumerario
destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire
le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Il seguente principio di diritto risolve, dunque, a monte il
quesito interpretativo posto dal Comune istante, in quanto
esclude la possibilità che si possa procedere
all’esperimento di procedure di mobilità non riservate ai
dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 289). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Alla luce del disposto del comma 424 dell’art. 1
della legge 23.12.2014, n. 190, un Ente, nel biennio
2015-2016, non può procedere allo scorrimento di una propria
graduatoria di concorso per l’assunzione di un idoneo, nel
caso in cui il vincitore chiamato si sia dimesso
successivamente all’entrata in vigore della predetta
disposizione.
---------------
Il Sindaco del Comune di Pieve Emanuele (MI), con
nota del giorno 16.03.2015, dopo aver premesso che:
- l’ente ha indetto nel corso dell’anno 2014 un concorso
pubblico per l’assunzione di n. 1 Istruttore Direttivo
Esperto Cat. D3 nell'Area Programmazione Economica;
- la prima classificata ha rinunciato all’assunzione in data
23/07/2014, pertanto si è proceduto con l'assunzione in
prova del 2° classificato, il quale ha rassegnato le proprie
dimissioni con decorrenza dal 17/01/2015, finito il periodo
di prova;
- contestualmente entra in vigore la legge n. 190/2014
(cosiddetta “Legge di Stabilità’’) secondo cui “per
gli anni 2015 e 2016 gli enti locali destinano le proprie
risorse per assunzioni a tempo indeterminato nelle
percentuali stabilite dalla normativa vigente,
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità";
- l’ente ha approvato la propria graduatoria di merito in
data 30/06/2014 e la procedura di assunzione dalla suddetta
graduatoria ha avuto esito infruttuoso,
ha posto alla Sezione i seguenti quesiti:
a) se ”possa dare corso nell'anno 2015 allo
scorrimento della suddetta graduatoria per l’assunzione di
un vincitore, come previsto dal piano delle assunzioni
dell’ente, o se debba attendere il 2017 per poterlo fare”;
b) se “possa legittimamente assumere mediante mobilità
da enti del comparto provvedendo all'indizione di procedura
di mobilità”.
...
1. Deve preliminarmente evidenziarsi come l’analisi delle
questioni proposte dall’Ente rimane circoscritta ai profili
generali ed astratti relativi all’interpretazione delle
disposizioni che vengono in rilievo, essendo preclusa
qualunque interferenza sulle scelte gestionali riservate
alla discrezionalità dell’Ente.
Deve, altresì, evidenziarsi, in riferimento al secondo
quesito formulato dall’Ente (riportato sopra sub b), che
questa Sezione, con il
parere 24.02.2015 n. 85
abbia ritenuto di sottoporre al Presidente della Corte
l’opportunità -relativamente ad alcuni quesiti sollevati dal
Comune di Botticino proprio sul disposto e la portata
applicativa dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del
23/12/2014- di valutare la possibilità di deferire la
questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art.
6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito
con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il
quale in presenza, in particolare, di questioni di massima
di particolare rilevanza, la citata Sezione emana delibera
di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo
si conformano.
Il quesito posto dall’odierno Comune istante in relazione
alla ora richiamata novella legislativa appare involgere
profili analoghi a quelli posti nella richiesta di parere
del Comune di Botticino, attualmente al vaglio della Sezione
Autonomie di questa Corte.
2. Alla luce delle premesse ora richiamate può, dunque,
procedersi ad esaminare nel merito il solo primo quesito
posto dall’Ente, con il quale si domanda se, alla luce del
disposto dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del
23/12/2014, si possa dare corso nell'anno 2015 allo
scorrimento di una graduatoria, approvata nel 2014, per
l’assunzione di un’unità di personale, a seguito di
dimissioni del vincitore avvenute nella seconda metà del
mese di gennaio 2015.
3. Com’è noto, la menzionata disposizione, volta a favorire
la ricollocazione del personale soprannumerario degli Enti
di area vasta, ha introdotto una disciplina speciale delle
assunzioni, valevole per i soli anni 2015 e 2016 (su cui
cfr.
parere 24.02.2015 n. 85 di questa Sezione): in
riferimento ai predetti anni, infatti, gli enti locali
devono destinare le proprie risorse per assunzioni a tempo
indeterminato nelle percentuali stabilite dalla normativa
vigente, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso
pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o
approvate alla data di entrata in vigore della presente
legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità
soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Tale
previsione normativa è entrata in vigore il giorno
01.01.2015.
4. Costituisce, altresì, principio generale, in materia di
disciplina dei concorsi pubblici, che siano dichiarati
vincitori, nei limiti dei posti complessivamente messi a
concorso, i candidati utilmente collocati nelle graduatorie
di merito (cfr. art. 15 del D.P.R. 09.05.1994, n. 487). Ne
deriva, in relazione alla fattispecie enucleabile dal caso
prospettato dal Comune istante, che al momento dell’entrata
in vigore del disposto dell’art. 1, comma 424, della legge
n. 190 del 23/12/2014, nella graduatoria concorsuale
risultavano presenti dei soggetti “idonei”, ma non
vincitori, alla luce dei posti complessivamente messi a
concorso.
Il recentissimo intervento normativo ha, però, previsto che
per gli anni 2015 e 2016 le risorse assunzionali disponibili
debbano essere, come visto, destinate alle due sole finalità
sopra richiamate, con la conseguenza che, nei due anni
considerati, non appare possibile procedere all’assunzione
di eventuali soggetti idonei, ma non vincitori, utilmente
collocati in graduatoria, avendo il Legislatore ritenuto di
privilegiare –oltre ai vincitori di concorso pubblico
collocati in graduatorie vigenti o approvate alla data di
entrata in vigore della norma in esame– la ricollocazione
delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di
mobilità.
Ne deriva, dunque, che il discrimen che assume
rilievo nella fattispecie in esame è dato dal fatto che
soltanto la qualificazione come vincitore in una
graduatoria vigente o approvata alla data del 01.01.2015
consente all’Ente di procedere all’assunzione in via
prioritaria della relativa unità di personale.
Risulta, invece, inibita la possibilità di
procedere, nel biennio considerato, allo scorrimento delle
eventuali graduatorie di merito, al fine di consentire la
ricollocazione del personale sopra richiamato.
Milita, del resto, in questo senso la stessa Circolare n.
1/2015, recante “linee guida del Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro
per gli affari regionali e le autonomie in materia di
attuazione delle disposizioni in materia di personale e di
altri profili connessi al riordino delle funzioni delle
province e delle città metropolitane. Articolo 1, commi da
418 a 430, della legge 23.12.2014, n. 190”.
In essa, in piena aderenza al dato normativo e in
riferimento –in particolare- al successivo comma 425, si
limita “l'eventuale assunzione anche di idonei, nel
rispetto delle procedure di autorizzazione previsti dalla
normativa vigente” e nei limiti del turn-over consentito
secondo il regime ordinario, al solo “personale
infungibile (es.: magistratura, carriera prefettizia e
diplomatica, docenza universitaria; personale educativo e
docente degli enti locali)”.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per
la Lombardia:
- sospende la pronuncia in relazione al secondo quesito
posto dal Comune di Pieve Emanuele;
- in merito al primo quesito,
l'avviso della Sezione è nel senso che, alla luce del
disposto del comma 424 dell’art. 1 della legge 23.12.2014,
n. 190, un Ente, nel biennio 2015-2016, non possa procedere
allo scorrimento di una propria graduatoria di concorso per
l’assunzione di un idoneo, nel caso in cui il vincitore
chiamato si sia dimesso successivamente all’entrata in
vigore della predetta disposizione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 22.04.2015 n. 168). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Il sindaco
può delegare. Atti a rilevanza esterna preclusi ai
consiglieri.
Non possono essere trasferiti compiti di
amministrazione attiva.
Quali sono i limiti delle deleghe conferite dal sindaco ai
consiglieri comunali?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché
il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione
istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Secondo un criterio generale, il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di
collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di
situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività
istituzionale, in qualità di componente di un organo
collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo
statuto. Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e
controllo politico-amministrativo, partecipando «alla
verifica periodica dell'attuazione delle linee
programmatiche da parte del sindaco e dei singoli assessori»
(art. 42, comma 3, del Tuel) ne scaturisce l'esigenza di
evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività
di controllo.
Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in
taluni casi previsti dalla legge, quali quelli previsti
dall'art. 54, comma 7, per le funzioni svolte dal sindaco
nella sua attività di ufficiale di governo, e dall'art. 31
del citato Testo unico, che consente al sindaco di
trasferire proprie attribuzioni ad altro organo in caso di
partecipazione alle assemblee consortili, composte «dai
rappresentanti degli enti associati nella persona del
sindaco o di un suo delegato».
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel
disciplinare la materia de qua, potrà prevedere disposizioni
compatibili con tali principi, recati dalla legge dello
stato, in quanto lo stesso statuto può integrare le norme di
legge che stabiliscono il riparto di attribuzioni tra gli
organi di governo dell'ente, ma non può derogarle.
Nel caso di specie, lo statuto dell'ente locale prevede che
«il sindaco può delegare le sue funzioni o parte di esse ai
singoli assessori o consiglieri».
In proposito, il Tar Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha
respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente
la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la
stessa escludeva implicitamente che potessero essere
delegati compiti di amministrazione attiva, tali da
comportare «l'inammissibile confusione in capo al medesimo
soggetto del ruolo di controllore e di controllato».
Inoltre
il Consiglio di stato, con parere n. 4883/11 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario
al presidente della repubblica in quanto l'atto sindacale
impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali
di funzioni di amministrazione attiva, determinava «una
situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di
interesse».
Per completezza va considerato, che il vigente ordinamento
non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti
degli enti locali in capo al ministero dell'interno e
pertanto gli eventuali vizi di legittimità degli atti
adottati potranno essere fatti valere solo nelle competenti
sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le
consuete regole vigenti in materia
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Composizione delle commissioni consiliari permanenti.
Le commissioni consiliari, ai sensi
dell'art. 38 TUEL, devono rispecchiare in modo proporzionale
la composizione del consiglio.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia
stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi
rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la
presenza di ciascun gruppo -anche se formato da un solo
consigliere- presente in consiglio. Un diverso indirizzo, ad
oggi minoritario, interpreta in maniera meno rigida il
concetto di proporzionalità e ritiene che il criterio
proporzionale risulterebbe soddisfatto rispettando le
proporzioni dei due schieramenti di maggioranza e minoranza
complessivamente considerate.
Il consigliere comunale chiede di conoscere un parere in
merito alla composizione delle commissioni consiliari
permanenti e, in particolare, alla necessità o meno che in
ciascuna di esse sia rappresentato ogni gruppo consiliare.
In particolare, nel riferire di essere l'unico componente
del proprio gruppo consiliare e di essere stato designato a
far parte di una sola delle tre commissioni consiliari
presenti, desidera sapere se il Comune abbia l'obbligo di
prevedere la sua partecipazione anche nelle altre due
commissioni esistenti.
Sentito il Servizio elettorale si formulano le seguenti
considerazioni.
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 stabilisce che 'quando lo statuto lo preveda, il
consiglio si avvale di commissioni consiliari costituite nel
proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento
determina i poteri delle commissioni e ne disciplina
l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori'.
Per quanto concerne, in particolare, la composizione, la
legge si limita a disporre che tali commissioni devono
essere formate da soli consiglieri e devono rispecchiare in
modo proporzionale quella del consiglio. Pertanto, le
stesse, una volta istituite sulla base di una facoltativa
previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento
comunale con l'unico limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione.
La ratio della norma in esame, attesa la natura
giuridica di tali commissioni, che sono delle articolazioni
interne del consiglio, consiste nella necessaria
rappresentazione al loro interno dei rapporti di forza tra
maggioranza e opposizione presenti in consiglio comunale.
Come rilevato, anche di recente, dal Ministero dell'Interno,
[1] 'ciò
significa che le forze politiche presenti in consiglio
debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto
il loro peso numerico e di voto'.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale, il
legislatore non precisa come lo stesso debba essere
declinato in concreto.
Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei
poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori,
dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il
rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia
[2]
stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi
rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la
presenza di ciascun gruppo -anche se formato da un solo
consigliere- presente in consiglio. [3]
Il predetto principio, peraltro, è stato ribadito dal
Consiglio di Stato il quale con parere n. 4323/2009 del
14.04.2010 emesso su ricorso straordinario al Presidente
della Repubblica, ha osservato che 'come da consolidata
giurisprudenza dalla quale la Sezione non intende
discostarsi, il criterio di proporzionalità di
rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla
presenza in ciascuna Commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il
criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il
voto ponderato (v. anche TAR Lombardia Sez. II, 19.11.1996,
n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della
Commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel Consiglio comunale, vale a dire
corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di
appartenenza in seno al Consiglio, diviso per il numero dei
rappresentanti della stessa lista nella commissione
interessata'. [4]
Per completezza espositiva, merita segnalare un diverso
indirizzo, ad oggi minoritario, che interpreta in maniera
meno rigida il concetto di proporzionalità. Secondo tale
indirizzo il criterio proporzionale risulterebbe soddisfatto
rispettando le proporzioni dei due schieramenti di
maggioranza e minoranza complessivamente considerate. In
tale senso certa giurisprudenza [5]
ha affermato che: 'Non risulta difatti contrario al
principio di cui all'art. 38, c. 6, TUEL prevedere che il
criterio proporzionale venga applicato mediante la
rispondenza, nei rapporti (numerici) fra membri di
maggioranza e di minoranza, della proporzione dei gruppi'.
Aderendo a tale filone interpretativo, ed al fine di
contemperare, da un lato l'esigenza di funzionalità,
speditezza e semplificazione dell'azione amministrativa,
[6]
dall'altro la rappresentatività delle minoranze, la scelta
circa il numero dei componenti le commissioni consiliari
potrebbe essere operata in funzione dei compiti e delle
attività attribuiti alle singole commissioni, avendo cura di
garantire la presenza di tutti i gruppi consiliari nelle
commissioni cui siano attribuiti maggiori poteri.
Da ultimo, ed a fronte dell'esistenza di due orientamenti
difformi esistenti sulla questione posta, si fa presente che
spetta al regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale operare la scelta relativa alla composizione delle
commissioni consiliari ed alla nozione da dare al principio
statutario di 'rispetto del principio di proporzionalità
fra maggioranza e minoranze'. [7]
Atteso che l'articolo 7 dell'indicato regolamento, al comma
2, recita: 'Ciascun consigliere ha diritto di far parte
di almeno una commissione ma non può di norma far parte di
più di due commissioni salvo che ciò sia indispensabile per
rispettare quanto previsto dal comma seguente', ed il
comma 3 recita: 'La composizione numerica delle
commissioni deve rispettare il rapporto proporzionale
esistente in seno al Consiglio comunale tra la coalizione di
maggioranza e di opposizione', parrebbe seguire
l'adesione all'orientamento giurisprudenziale minoritario
sopra citato.
Conseguentemente, e per rispondere al quesito posto, alla
luce della disposizione regolamentare sopra riportata non si
ritiene possibile affermare con certezza la necessità che il
consigliere comunale faccia parte anche delle altre due
commissioni esistenti. Spetterà unicamente ad un giudice,
eventualmente investito della questione, esprimersi sulla
stessa prendendo posizione circa l'obbligatoria presenza o
meno di ciascun gruppo consiliare esistente in tutte le
commissioni permanenti.
---------------
[1] Ministero dell'Interno, parere dell'08.07.2015.
[2] TAR Lombardia Brescia, sentenza del 04.07.1992, n. 796;
TAR Lombardia, Milano, sentenza del 03.05.1996, n. 567.
[3] In tal senso si veda, anche, il parere dell'ANCI del
04.09.2014.
[4] Si osserva che le considerazioni sopra espresse sono
state mutuate dal parere del Ministero dell'Interno,
dell'08.07.2015. Peraltro, il Ministero, anche in
precedenza, si era espresso in senso analogo: si vedano, al
riguardo, i pareri del 21.10.2013 e del 18.10.2012.
[5] TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza del 07.03.2013, n.
516.
[6] L'orientamento che ritiene necessaria la presenza in
ogni commissione di ciascun gruppo consiliare presente in
consiglio, determinerebbe, infatti, l'inevitabile aumento
del numero dei componenti delle commissioni consiliari.
[7] Si veda articolo 17 dello statuto comunale (22.09.2015
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Obbligo di astensione dall'esercizio di attività
professionale, ai sensi dell'art. 78, comma 3, TUEL. Divieto
di assunzione di incarichi ai sensi dell'art. 78, comma 5,
TUEL.
1) Il sindaco libero professionista
(geometra) che abbia conferito agli assessori comunali le
deleghe nelle materie dell'urbanistica, dell'edilizia e dei
lavori pubblici non è tenuto all'osservanza dell'obbligo di
astensione dall'esercizio dell'attività professionale nel
territorio amministrato, previsto dall'art. 78, comma 3,
TUEL.
2) Nel caso in cui il sindaco gestisca degli incarichi
professionali conferitigli da parte di due Comuni che hanno
stipulato una convenzione con il Comune (che risulta
capofila) presso cui egli svolge il mandato, pare non venire
in rilievo la fattispecie di cui all'art. 78, comma 5, TUEL,
secondo cui il sindaco non può ricoprire incarichi e
assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o
comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del
comune, atteso che tale situazione non sembra riconducibile
alla fattispecie disciplinata dal legislatore che fa
espresso riferimento ad 'enti' ed 'istituzioni'.
Il Comune chiede un parere in merito a due distinte
problematiche, relative alla possibilità per il sindaco:
a) di svolgere attività di libero professionista (geometra)
nel territorio del Comune;
b) di mantenere incarichi professionali che gli sono stati
conferiti, prima dell'assunzione della carica, da parte di
due Comuni che hanno stipulato una convenzione con l'Ente
(che risulta capofila) presso cui egli svolge il mandato.
Detta convenzione prevede la gestione in comune di alcuni
servizi, tra i quali i lavori pubblici, l'edilizia privata,
l'urbanistica e le manutenzioni.
Sentito il Servizio elettorale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
a)
Ai sensi dell'articolo 78, comma 3, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 (TUEL), «I componenti la giunta
comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e
di lavori pubblici devono astenersi dall'esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato».
La ratio della disposizione in argomento si prefigge
«la garanzia dell'imparzialità dell'azione amministrativa
in un quadro comunque di attenzione alle concrete condizioni
di operatività degli enti locali, soprattutto di quelli
minori, e si rivolge a coloro che svolgono in proprio
un'attività libero-professionale nello stesso delicato
settore nel quale come pubblici amministratori sono chiamati
a tutelare interessi della collettività locale».
[1]
La norma non introduce alcuna causa di incompatibilità,
bensì impone un dovere di astensione per i componenti della
giunta che svolgano attività professionale in materia di
edilizia privata e pubblica nel territorio amministrato ed
ai quali sia stata formalmente conferita la delega in
materia di edilizia, urbanistica e lavori pubblici
[2].
In particolare, per quanto concerne il sindaco, è stato
chiarito anche dal Ministero dell'Interno
[3] che lo stesso
non è tenuto all'osservanza dell'obbligo di astensione in
argomento, qualora abbia conferito agli assessori comunali
le deleghe nelle materie indicate dalla norma. Resta
comunque fermo il generale obbligo, previsto dal comma 2 del
medesimo articolo 78, di astenersi dal prendere parte alla
discussione ed alla votazione di delibere eventualmente
riguardanti interessi propri, da valutare in relazione alle
singole fattispecie concrete.
b) Ai sensi dell'art. 78, comma 5, TUEL, il sindaco, gli assessori
ed i consiglieri comunali non possono ricoprire incarichi e
assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o
comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del
comune.
Come chiarito dalla giurisprudenza [4],
la norma non incide sulla titolarità dell'ufficio pubblico,
ma ha inteso soltanto disporre che la titolarità della
carica preclude l'assunzione o l'espletamento
[5]
dell'incarico.
Il divieto di ricoprire incarichi presso enti controllati
dal comune ha lo 'scopo di evitare che il controllo
dell'ente locale sull'operato dell'ente controllato sia
svolto dai medesimi destinatari delle commesse dell'ente
controllato.' [6].
Riguardo al caso in esame, si osserva che la situazione
della gestione associata di un servizio sulla base di una
convenzione stipulata tra più comuni, con costituzione di un
ufficio comune presso l'Ente capofila, non sembra
riconducibile alla fattispecie disciplinata dal legislatore
nell'art. 78, comma 5, TUEL., che fa espresso riferimento ad
'enti' ed 'istituzioni'.
Peraltro, in considerazione del compito, attribuito alla
conferenza dei sindaci, di sovrintendere al corretto
funzionamento della gestione associata, eventuali situazioni
di conflitto di interesse andranno risolte alla luce del
generale obbligo di astensione previsto dal citato comma 2
dell'articolo 78, ovvero mediante la partecipazione
dell'assessore delegato, in luogo del
sindaco/professionista, alle sedute dell'organismo di
coordinamento relative al servizio associato.
---------------
[1] Cfr. da ultimo il parere del Ministero dell'Interno,
Dipartimento degli affari interni e territoriali, del
25.11.2014.
[2] In questo senso si è espressa la Corte d'Appello di
Salerno con sentenza del 03-11.08.2000, n. 270.
[3] Si veda il citato parere del 25.11.2014: 'Solo
avvalendosi dello strumento della delega nello specifico
settore, l'organo di vertice può ritenersi esentato
dall'obbligo di astensione di che trattasi...'.
[4] Si veda Cassazione civile, sez. I, 24.05.1994, n. 5076,
in relazione alla disposizione di cui all'art. 26 della
legge 25.03.1993, n. 81, poi trasfusa nell'art. 78, comma 5,
TUEL.
[5] Qualora l'assunzione sia già avvenuta, precedentemente
all'attribuzione della carica pubblica.
[6] Così Ministero dell'Interno, parere del 28.11.2008 (11.09.2015
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NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendenti delle province, mobilità solo fra sei mesi.
Confermata la tutela parziale per gli stipendi.
Pa. Via libera della Corte dei conti al decreto sui criteri
- Pesa la complessità delle procedure.
Il bollino della
Corte dei conti arriva anche per il
decreto sui criteri generali per la mobilità dei dipendenti
pubblici, che ora aspetta solo la pubblicazione
in «Gazzetta Ufficiale» per completare il quadro
attuativo della riforma delle Province.
I tasselli mancanti, a questo punto, si concentrano nelle
nove Regioni ordinarie che non hanno ancora approvato le
leggi di redistribuzione delle funzioni provinciali, e che
dovrebbero procedere entro fine ottobre se non vogliono
inciampare nelle sanzioni (non semplicissime da attuare)
previste nel decreto enti locali.
Con la pubblicazione del nuovo decreto firmato dal ministro
per la Pa Marianna Madia, comunque, partirà il conto alla
rovescia per attuare la mobilità dei dipendenti in «soprannumero»
negli enti di area vasta. La prima tappa è prevista 10
giorni dopo la pubblicazione, e riguarda il consenso del
personale in comando o in distacco a essere inquadrato
nell’ente in cui già si trova.
Entro fine ottobre (se come tutto lascia supporre la
pubblicazione del testo in Gazzetta avverrà a breve)
Province e Città dovranno inserire nel portale nazionale
della mobilità gli elenchi degli esuberi, e nei 30 giorni
successivi (quindi entro fine novembre) Regioni, enti
locali, sanità e Pa statali dovranno pubblicare i posti
disponibili nei loro organici per l’assorbimento degli ex
provinciali.
Il censimento dovrà essere pubblicato dalla Funzione
pubblica nei 30 giorni successivi (e siamo a fine dicembre),
dopo di che i diretti interessati avranno 30 giorni per
esprimere la propria preferenza sulla ricollocazione. Nei 30
giorni successivi, quindi entro l’inizio di marzo, la
Funzione pubblica assegnerà ai nuovi datori di lavoro i
dipendenti interessati, che entro un mese dovranno prendere
servizio.
Anche secondo il serrato calendario scritto nel decreto,
quindi, la maxi-mobilità collegata alla riforma ha bisogno
di almeno altri sei mesi. I bilanci di Città metropolitane e
Province, che già hanno il fiato corto per i tagli da un
miliardo scritti nell’ultima manovra, cominceranno ad
alleggerirsi davvero dei costi del personale solo in
primavera: una prospettiva che pone qualche interrogativo
pesante sulla sostenibilità dei conti locali, in vista di
una manovra che già dovrebbe trovare il modo di rivedere
l’altro miliardo di tagli in calendario per il 2016.
A complicare la corsa c’è poi il fatto che anche questo
decreto, oltre a fissare i criteri per la scelta sulla nuova
collocazione e le priorità in caso di preferenze analoghe,
in fatto di stipendi parla ovviamente la stessa lingua del
provvedimento già varato sulla mobilità fra diversi
compartimenti pubblici, prevedendo la salvaguardia del
trattamento fondamentale e dell’accessorio solo per le voci
«con carattere di generalità e natura fissa e
continuativa» (da finanziare con una sezione ad hoc
dei fondi decentrati).
Questo meccanismo, motivato dalla necessità di allineare
stipendi e inquadramenti, ha già fatto infuriare i
sindacati, che annunciano ricorsi in caso di buste paga
alleggerite (articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2015). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Competenze: dialogo avviato. Un pronunciamento innovativo
che segna un nuovo corso.
Il presidente del Cngegl Savoncelli sulle novità
legate al parere del Consiglio di stato n. 2539.
Si è ampiamente discusso, soprattutto nell'ambito delle
professioni tecniche, del parere n. 2539 espresso dal
Consiglio di stato in merito alle competenze dei geometri.
Un parere che ho subito definito innovativo rispetto ai
precedenti pronunciamenti, non sempre in grado di sciogliere
le ambiguità più ricorrenti.
A distanza di qualche settimana e di un numero imprecisato
di letture, approfondimenti e confronti, aggiungo un secondo
aggettivo: inequivocabile. Partendo dalla disamina degli
argomenti presentati nel 2013 dall'interpellante Regione
Toscana, i giudici di palazzo Spada hanno sancito con
estrema chiarezza:
- l'abrogazione del Rd del 1939, che elimina riserve in capo
ad alcune categorie; il principio generale della «collaborazione
tra titolari di diverse competenze professionali»,
precisando che ciascun tecnico risponderà della
progettazione «per la parte di sua competenza e sotto la
sua responsabilità»;
- anche per le modeste costruzioni civili, il geometra può
progettare, con l'uso del cemento armato, «piccole
costruzioni accessorie, che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e non implichino per destinazione
pericolo per l'incolumità delle persone»;
- la competenza dei geometri nell'attività di «progettazione
e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti
architettonici della modesta costruzione civile»;
- solo nelle zone ad alto rischio sismico il professionista
strutturista interverrà fin dalle prime fasi della
progettazione, assumendo il ruolo di capofila e interagendo
con il progettista architettonico (la progettazione statica,
in questi casi, avrà la prevalenza sulla progettazione
architettonica).
Ho più volte sostenuto che il tema delle competenze
nell'ambito delle costruzioni debba essere affrontato e
risolto tra le categorie direttamente interessate:
ingegneri, architetti e geometri, un bacino di quasi 500
mila professionisti.
L'attuale e generalizzato clima positivo induce a pensare
che il parere possa rappresentare il terreno comune sul
quale approfondire un dialogo da tempo avviato all'interno
delle Rete delle professioni tecniche: l'obiettivo condiviso
è arrivare in tempi brevi a una definizione chiara ed
esaustiva delle reciproche competenze, a patrimonio dei
liberi professionisti e dell'intera collettività
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nuova
Ape parte il 1° ottobre. L’attestazione condominiale vale
anche in caso di vendita o affitto.
Risparmio energetico. La validità del documento è
di 10 anni, quindi non va rifatto da chi lo possiede già.
Il conto alla rovescia è
partito: dopodomani, 1° ottobre, entra in vigore in tutta
Italia il nuovo modello di attestato di prestazione
energetica, compilato secondo i contenuti delle linee guida
firmate il 26 giugno dal ministero dello Sviluppo Economico
e concordate fra lo Stato e le Regioni
[G.U. 15.07.2015 n. 162,
suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle
prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e
dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione
della relazione tecnica di progetto ai fini
dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi
di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo
economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la
certificazione energetica degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015)].
Le novità riguardano sia i proprietari di casa che i
professionisti: cambia il sistema di classificazione degli
immobili, cambiano i parametri presi in esame per decretare
se una casa è o meno efficiente sotto l’aspetto energetico e
cambia il documento finale che sarà consegnato agli utenti.
Chi deve averlo
In caso di nuova costruzione e per i risanamenti l’Ape è
necessario e spetta al costruttore farlo predisporre.
L’attestato deve inoltre essere prodotto in caso di
compravendita o locazione di un immobile. Il compito di
farlo redigere spetta al proprietario.
Ma può anche essere fatto dal condominio (ed è decisamente
più economico): l’articolo 6, comma 4, del Dlgs 192/2005
dice che «l’attestazione della prestazione energetica
(...) riferita a più unità immobiliari può essere prodotta
solo qualora esse abbiano la medesima destinazione d’uso, la
medesima situazione al contorno, il medesimo orientamento e
la medesima geometria e siano servite, qualora presente, dal
medesimo impianto termico destinato alla climatizzazione
invernale e, qualora presente, dal medesimo sistema di
climatizzazione estiva».
Attenzione: anche in caso di Ape “condominiale” è
possibile consegnare all’inquilino o all’acquirente,
all’atto della stipula del contratto, l’attestato
condominiale. Se si tratta di locazione, basta inserire nel
contratto, se soggetto a registrazione, una clausola con cui
il conduttore dichiara di avere ricevuto le informazioni in
ordine all’attestazione della prestazione energetica
dell’edificio.
La “targa energetica” viene rilasciata dai tecnici
qualificati, singoli o associati, dalle Esco o da tutti gli
enti e organismi in possesso dei requisiti del Dpr 75/2015 e
accreditati a livello nazionale. In ogni caso va compiuto
almeno un sopralluogo fisico nell’edificio.
L’attestazione ha una durata di dieci anni (quindi chi la ha
già non la deve rifare), a meno che l’immobile sia stato
sottoposto, dopo la compilazione del documento, a un
intervento di ristrutturazione o di riqualificazione tale da
averne modificato la performance energetica. In questo caso,
terminati i lavori, l’attestato non ha più validità e se
l’unità immobiliare viene ceduta in affitto o compravendita
sarà da rifare.
Le Regioni
Con la nuova norma si torna ovunque (eccetto che nelle
province autonome) a una metodologia omogenea per definire
le classi degli edifici. Le Regioni che avevano un proprio
format per il rilascio dell’Ape si sono via via adeguate al
modello nazionale, salvo mantenere in alcuni casi (come in
Lombardia) un proprio software per la compilazione del
documento (ricalcato su quello nazionale).
Controlli e sanzioni
Le verifiche sugli Ape scattano d’obbligo su almeno il 2%
degli attestati rilasciati e a partire dalle targhe
energetiche che attestano classi più efficienti. Per chi non
verrà trovato in regola, le sanzioni sono severe.
Il progettista che rilascia un Ape senza il rispetto dei
criteri obbligatori è punito con una sanzione amministrativa
non inferiore a 700 euro e non superiore a 4.200 euro, più
la segnalazione del fatto all’ordine o collegio di
riferimento per provvedimenti disciplinari.
Se manca l’Ape per gli edifici di nuova costruzione e quelli
sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o
il proprietario sono puniti con una sanzione amministrativa
da 3mila euro a 18mila euro.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il
venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e
i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel
secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la
nullità dell’atto stesso (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Chiamate
Skype protette. Il datore non può spiare le conversazioni.
Il
principio del garante a tutela della privacy della
corrispondenza.
Il datore di lavoro non può conservare le conversazioni
Skype dei dipendenti. Neanche per documentare una condotta
denigratoria ai danni dell'azienda e neppure se il
lavoratore ha lasciato attiva l'icona di Skype sul computer
della postazione lavorativa.
Il principio è stato affermato dal garante privacy (provvedimento
04.06.2015 n. 345, solo ora reso noto), che ha
accolto il ricorso proposto da una dipendente che lamentava
l'illecita acquisizione, tramite un apposito software, di
conversazioni, avute con alcuni clienti e fornitori, poste
poi alla base del suo licenziamento.
Alla base della pronuncia il garante pone le norme
costituzionali sulla segretezza della corrispondenza, valide
anche per le comunicazioni di tipo elettronico o telematico
scambiate dai dipendenti nell'ambito del rapporto di lavoro.
Le motivazioni della condanna del datore di lavoro invocano
anche le linee guida per posta elettronica e internet
(adottate dal garante il 01.03.2007 e pubblicate in Gazzetta
Ufficiale n. 58 del 10.03.2007), che vietano condotte lesive
della personalità del lavoratore.
Nel caso esaminato una lavoratrice, andando in ferie, ha
lasciato il proprio computer acceso con l'icona Skype
in evidenza, dando la possibilità di leggere le
conversazioni intrattenute dalla dipendente. Inoltre il
datore di lavoro ha installato sul computer in uso alla
dipendente il programma SkypeLog View, dopo aver
preso conoscenza dell'inoltro di comunicazioni denigratorie
a soggetti esterni all'azienda e al solo scopo di
documentare le conversazioni e non di controllare la
dipendente.
Quindi, da un lato, abbiamo il datore di lavoro che sostiene
la tesi del controllo difensivo e difende l'accesso alla
corrispondenza telematica della dipendente, poiché avvenuto
non per verificare la corretta esecuzione della prestazione
lavorativa, ma per avere la prova delle violazioni, tali da
giustificare il licenziamento.
Dall'altro lato abbiamo il lavoratore che invoca la
normativa sulla privacy, per bloccare casi di questo tipo
come gravi interferenze nelle comunicazioni. Tra l'altro
l'applicativo ha consentito di conservare e intercettare
anche le conversazioni avvenute con il medesimo account
Skype da un computer collocato presso la propria
abitazione.
Proprio l'installazione dell'applicativo rende comunque
illecito il controllo effettuato, anche se spetta pur sempre
al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli
strumenti aziendali.
I controlli, infatti, non devono essere occulti (le
caratteristiche essenziali dei trattamenti di dati devono
essere rese note ai lavoratori), e non possono determinare
la raccolta di informazioni personali, anche non pertinenti,
di natura sensibile oppure riferite a terzi. Tali aspetti
sono validi anche dopo l'entrata in vigore della modifica ai
controlli a distanza effettuata dal decreto attuativo del
Jobs act.
A seguito del provvedimento del garante il datore di lavoro
non potrà effettuare alcun trattamento dei dati personali
contenuti nelle conversazioni ottenute in modo illecito,
limitandosi alla conservazione di quelli finora raccolti ai
fini di una eventuale acquisizione da parte dell'autorità
giudiziaria
(articolo ItaliaOggi del 29.09.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
Acqua,
entro mercoledì passaggio ai gestori unici.
Servizi locali. Scadono i termini previsti dallo
Sblocca-Italia.
Mercoledì prossimo scade il termine
entro il quale gli enti di governo degli ambiti territoriali
ottimali che non vi hanno ancora provveduto devono redigere
il piano d’ambito e, soprattutto, devono disporre
l’affidamento del servizio idrico al gestore unico, a
rischio di esercizio dell’intervento sostitutivo del
presidente della regione.
Mancano pochi giorni alla scadenza stabilita dall’articolo
172 del Dlgs 152/2006 a seguito della riformulazione della
disposizione a opera del decreto «sblocca Italia» (Dl
133/2014) e nei 76 ambiti definiti a livello nazionale si
apre la fase finale dei processi di riassetto della gestione
dell’acqua.
L’Osservatorio dei servizi pubblici locali, attraverso il
servizio Monitor-Ato, ha tuttavia rilevato alcune criticità,
tra cui spicca (secondo la rilevazione effettuata nel mese
in corso) la mancata adesione degli enti locali agli enti di
governo in 13 Ato sui 76 costituiti.
Questa situazione ha inciso sia sulla definizione dei piani
d’ambito sia sull’individuazione del gestore unico.
L’analisi degli affidamenti in essere del servizio idrico
rileva una situazione ancora molto frammentata, con 474
aziende che erogano il servizio sul territorio nazionale,
aggiungendosi a queste moltissimi Comuni (il 29%) che
gestiscono in economia tutto il servizio o sue frazioni.
Il numero notevole di attori rende problematico
l’affidamento a un unico gestore, secondo un percorso che si
è concretizzato solo in pochi ambiti (ad esempio in Veneto
si rileva la situazione nei bacini di Venezia, Belluno e del
Brenta) e al quale gli enti di governo devono dare
attuazione entro la fine di settembre, affrontando
situazioni in alcuni casi molto complesse, a fronte della
presenza di molte aziende affidatarie attuali.
L’obiettivo che il legislatore intende perseguire con il
modello dell’Ato è garantire il rispetto del principio di
unicità della gestione all’interno dell’ambito territoriale
ottimale: in questa prospettiva il gestore unico deve
subentrare agli ulteriori soggetti operanti all’interno del
medesimo Ato, assorbendo immediatamente quelli già scaduti e
in proroga, e subentrando alla scadenza del contratto di
servizio ai gestori che hanno affidamenti in essere conformi
ai requisiti comunitari.
Tuttavia il mancato affidamento al soggetto individuato come
responsabile della gestione unitaria del servizio idrico
integrato fa scattare l’intervento sostitutivo del
presidente della regione, il quale esercita, i poteri
sostitutivi, comunicandolo al ministero dell’Ambiente e all’Aeeg,
e ponendo le relative spese a carico dell’ente inadempiente.
Il presidente della regione è tenuto anche a determinare le
scadenze dei singoli adempimenti procedimentali e ad avviare
entro 30 giorni le procedure di affidamento, secondo una
tempistica molto stringente finalizzata a sostenere in tempi
rapidi l’ottimizzazione del processo di riassetto del
servizio nei vari contesti.
Qualora il Presidente della regione non provveda nei termini
stabiliti, spetta all’Autorità per l’energia elettrica, il
gas segnalare entro i successivi 30 giorni l’inadempienza al
Presidente del consiglio dei ministri che nomina un
commissario ad acta, le cui spese sono a carico
dell’ente inadempiente.
Rileva in questo quadro di riferimento l’esplicita
previsione contenuta all’articolo 172, comma 4, ultimo
periodo, del Dlgs 152/2006, in base alla quale la violazione
della disposizione sul gestore unico comporta responsabilità
erariale.
La regione diviene quindi il livello istituzionale di snodo
per la trasformazione del sistema del servizio idrico,
dovendo in questa fase assicurare l’impulso all’affermazione
definitiva del modello di gestione unitaria previsto dalla
riforma del 2014, anche superando le resistenze degli enti
locali (in alcuni casi essi stessi gestori) (articolo Il Sole 24 Ore del
28.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Energia,
per l'attestato unico è partenza a singhiozzo.
Dall'1/10 Ape in vigore solo nelle regioni che non si sono
ancora adeguate alla direttiva Ue.
Ape ai nastri di partenza, ma non per tutti. Dal prossimo 1°
ottobre proprietari e operatori del settore dovranno tenere
conto delle numerose novità introdotte dai due decreti del
ministero dello sviluppo economico del 26.06.2015 (emanati
di concerto con i ministeri dell'ambiente, delle
infrastrutture e della semplificazione e pubblicati sulla
G.U. n. 162 del 15.07.2015, ai quali occorre aggiungere
quello sugli schemi e le modalità di riferimento per la
compilazione della relazione tecnica di progetto, già
entrato in vigore lo scorso 16 luglio) [G.U. 15.07.2015 n.
162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle
prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e
dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione
della relazione tecnica di progetto ai fini
dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi
di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo
economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la
certificazione energetica degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015)].
Tuttavia per le regioni che si siano già conformate alla
direttiva 2010/31/Ue, detta scadenza viene procrastinata di
due anni. Il nuovo attestato di prestazione energetica è
quindi destinato a diventare unico sull'intero territorio
nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea, e
porterà a 10 le classi energetiche (la classe A viene
infatti spacchettata in quattro, di cui la A4 rappresenterà
quella più efficiente).
Per gli annunci di vendita e locazione di immobili sarà
disponibile un format unico che evidenzierà in maniera
semplificata le prestazioni energetiche dell'edificio. Ma
vediamo di illustrare più nel dettaglio le numerose novità.
Che fine fanno gli attestati già
rilasciati? Gli
attestati di prestazione energetica redatti prima
dell'01.10.2015, purché a loro tempo compilati conformemente
alle regole e ai modelli in vigore, manterranno comunque la
propria validità fino alla naturale scadenza di dieci anni.
Quanto sopra a condizione che non avvengano trasformazioni
dell'immobile (ristrutturazioni o riqualificazioni tali da
modificarne la classe energetica) e che siano rispettate le
prescrizioni per le operazioni di controllo di efficienza
energetica dei sistemi tecnici dell'edificio, in particolare
per gli impianti termici, comprese le eventuali necessità di
adeguamento, previste dalle normative vigenti.
A tale proposito si ricorda come il dlgs n. 192/2005
prescriva che i libretti di impianto debbano essere allegati
all'Ape, in originale o in copia. Quindi, per esempio, per
quanto riguarda gli atti di vendita degli immobili, il
proprietario potrà tranquillamente continuare ad avvalersi
dell'Ape già in suo possesso.
Quanto sopra è stato confermato anche dal Consiglio
nazionale del notariato in un proprio recente studio dello
scorso 18.09.2015, riallacciandosi alla specifica
disposizione di cui all'art. 10 del medesimo dm del
26.06.2015, nonché al principio ricavabile dall'art. 6,
comma 10, del dlgs n. 192/2005, norma che fa salvi gli
attestati di certificazione energetica rilasciati prima del
06.06.2013 in conformità alla direttiva n. 2002/91/Ce e in
corso di validità.
Applicazione sul territorio ancora a
macchia di leopardo.
Come detto le nuove regole sull'Ape si applicheranno a
partire dal prossimo 1° ottobre soltanto in quelle regioni e
province autonome che non abbiano ancora adottato specifiche
disposizioni in materia di certificazione energetica o che,
pur avendo già legiferato, abbiano recepito esclusivamente
le prescrizioni della precedente direttiva 2002/91/Ce e non
si siano ancora conformate alla direttiva 2010/31/Ue.
Le altre regioni, infatti, avranno tempo per adeguare la
propria normativa alle linee guida ministeriali fino
all'01.10.2017 (si veda altro articolo nella pagina seguente
per l'elenco delle regioni coinvolte).
Il nuovo attestato di prestazione
energetica. Il
decreto definisce la prestazione energetica degli edifici
come il valore determinato sulla base della quantità di
energia necessaria annualmente per soddisfare le esigenze
legate a un uso standard dell'immobile e corrisponde al
fabbisogno energetico annuale globale in energia primaria
per il riscaldamento, il raffrescamento, la ventilazione, la
produzione di acqua calda sanitaria e, nel settore non
residenziale, per l'illuminazione, gli impianti ascensori e
scale mobili. Si stabilisce anche che è consentito tener
conto, a particolari condizioni, dell'energia derivante da
fonti rinnovabili.
La nuova Ape, che manterrà la validità massima decennale,
presenterà una metodologia di calcolo omogenea e porterà a
10 le classi energetiche (la classe A viene infatti
spacchettata in quattro, di cui la A4 rappresenterà quella
più efficiente). La validità temporale massima resta
comunque subordinata al rispetto delle prescrizioni per le
operazioni di controllo di efficienza energetica degli
impianti tecnici dell'edificio, in particolare per gli
impianti termici.
Nel caso di mancato rispetto di queste disposizioni,
infatti, l'Ape decade il 31 dicembre dell'anno successivo a
quello in cui è prevista la prima scadenza non rispettata
per le predette operazioni di controllo di efficienza
energetica. A tale scopo, all'attestazione devono essere
allegati i libretti di impianto in originale, in formato
cartaceo o elettronico.
Una delle novità più importanti è che per la prima volta
viene indicato un contenuto minimo che l'attestato deve
possedere a pena di invalidità (si veda la tabella in
pagina). D'ora in poi sarà quindi particolarmente importante
verificare a fondo le informazioni riportate nell'Ape,
perché in caso contrario il proprietario dell'immobile
rischia di incappare nelle pesanti sanzioni previste
dall'art. 15 del dlgs n. 192/2005.
Vengono inoltre banditi gli attestati, per così dire, per
corrispondenza, nel senso che d'ora in poi sarà obbligatorio
che il soggetto incaricato di redigere l'Ape abbia
effettuato almeno un sopralluogo presso l'edificio o l'unità
immobiliare interessata.
Il decreto interministeriale prevede poi l'istituzione del
c.d. Siape, Sistema informativo sugli attestati di
prestazione energetica, che dovrà essere istituito dall'Enea
entro 90 giorni a partire dall'01.10.2015 per raccogliere i
dati relativi agli attestati di prestazione energetica, i
quali dovranno essere obbligatoriamente inviati dalle
regioni e le province autonome entro il 31 marzo di ogni
anno.
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Una promozione con riserva.
Parola agli addetti ai lavori: non sarà una rivoluzione
normativa con effetti dirompenti.
Un passo in avanti in direzione della semplificazione e di
una omogeneizzazione della normativa a livello nazionale.
Così gli addetti ai lavori giudicano la nuova Ape che
entrerà in vigore il 1° ottobre, che comunque non si
attendono dall'innovazione normativa effetti dirompenti.
Bene la semplificazione, ma restano punti oscuri. «Per
quanto riguarda il nostro lavoro, cambia poco», commenta
Giovanni Rizzi, componente della commissione Studi
pubblicistici del Consiglio nazionale del notariato. «Sicuramente
va accolto positivamente il cambio di format del
certificato, che d'ora in avanti sarà più leggibile anche
dai non addetti ai lavori, così come l'obiettivo di superare
la frammentazione della disciplina a livello regionale, ma
per le pratiche notarili l'impatto sarà trascurabile».
Da Confedilizia arriva una sostanziale promozione: «Di
positivo c'è l'obiettivo, espressamente dichiarato dal
legislatore, di favorire l'applicazione omogenea e
coordinata dell'attestazione della prestazione energetica
degli edifici e delle unità immobiliari sull'intero
territorio nazionale», spiegano dall'organizzazione
della proprietà immobiliare. «In questo modo si supera
finalmente la frammentazione legislativa alla quale abbiamo
assistito in questi anni».
Il riferimento è al fatto che le nuove disposizione saranno
immediatamente operative nelle regioni e nelle province
autonome che non abbiano ancora provveduto ad adottare
propri strumenti di attestazione della prestazione
energetica degli edifici in conformità alla direttiva
2010/31/Ue. Le restanti regioni e province autonome (vale a
dire Liguria, Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Trento,
Bolzano ed Emilia-Romagna) dovranno, invece, adeguarvisi
entro due anni rispettando alcuni elementi essenziali e
disposizioni minime comuni.
Non manca una nota negativa: «Su alcuni passaggi»,
spiegano da Confedilizia, «il legislatore avrebbe dovuto
essere più chiaro. In particolare, allorché si occupa di
disciplinare alcuni adempimenti da effettuare in occasione
del distacco dall'impianto centralizzato da parte del
singolo condomino».
Professioni tecniche soddisfatte con
riserva. Per
Maurizio Savoncelli, presidente nazionale del Cngegl
(Consiglio nazionale geometri e geometri laureati), è
positivo l'avvio di un percorso «per uniformare la
procedura di compilazione dell'Ape, che prevede anche la
conoscenza diretta dell'immobile, in linea con le politiche
di razionalizzazione e trasparenza intraprese dal Paese
sulle procedure a tutela del cittadino e di tutti gli
operatori».
I geometri si dicono soddisfatti anche per il cambio di
passo rispetto al passato nel modo di legiferare: «Questa
volta, con un unico decreto sono state definite sia le linee
guida, che i requisiti minimi per la prestazione energetica
degli edifici», sottolinea Savoncelli. Che vede
nell'ultimo intervento normativo il pieno recepimento della
direttiva 2010/31/Ue. «Finalmente si fa chiarezza nel
settore e questo aiuterà gli operatori».
Gaetano Fede, consigliere nazionale, responsabile area
Energia del Cni (Consiglio nazionale ingegneri), giudica
positivamente la riduzione dei coefficienti di trasmissione
termica degli elementi dell'involucro edilizio e, più in
generale, la semplificazione dell'attestazione. Tuttavia
smorza gli entusiasmi di alcuni operatori: «Non ci
facciamo troppe illusioni sull'innalzamento della qualità
degli Ape, perché ormai il mercato è inquinato da personaggi
assai poco competenti e non sarà semplice invertire la rotta».
Infine, Fede lamenta il fatto che il ministero dello
Sviluppo economico continui a non consultare preventivamente
i professionisti quando si tratta di assumere decisioni di
tipo energetico.
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Il sopralluogo è d'obbligo.
Adempimenti invertiti per la consegna e la registrazione
dell'Ape da parte del soggetto certificatore il quale, a
differenza del passato, dovrà obbligatoriamente effettuare
almeno un sopralluogo presso l'immobile oggetto di
attestazione. Viene inoltre confermato che la sottoscrizione
con firma digitale dell'Ape ha valenza di dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà. Queste alcune delle novità
contenute nelle nuove linee guida nazionali per
l'attestazione della prestazione energetica degli edifici di
cui all'allegato n. 1 del dm del 26.06.2015, che dal
prossimo 1° ottobre andranno a sostituire quelle utilizzate
fino a oggi.
Le vecchie linee guida prevedevano infatti che nei 15 giorni
successivi alla consegna dell'Ape al richiedente, il
certificatore ne dovesse trasmettere copia alla regione o
alla provincia autonoma competente per territorio. Come
detto, è stato quindi invertito l'ordine degli adempimenti,
perché l'Ape dovrà essere in primo luogo trasmesso in forma
di dichiarazione sostitutiva di atto notorio alla p.a. e
poi, entro i successi 15 giorni, il certificatore dovrà
consegnarne copia al richiedente.
Pertanto, come rilevato dal Consiglio nazionale del
notariato, se sino al 30.09.2015 si potranno utilizzare e
allegare agli atti notarili anche Ape non ancora trasmessi
alla p.a., dall'1 ottobre l'attestazione potrà essere
allegata soltanto se preventivamente trasmessa alla regione
o alla provincia autonoma territorialmente competente,
producendo al notaio la relativa ricevuta.
Per quanto riguarda gli immobili esclusi dall'obbligo di
attestazione, le nuove linee guida, oltre a richiamare i
casi già previsti dalla normativa vigente, prevedono
ulteriori ipotesi che, come sottolineato dal Notariato nel
menzionato studio del 18.09.2015, non trovano riscontro nel
dlgs n. 192/2005, ma l'esclusione delle quali si ricava dai
principi che regolano il sistema dell'attestazione di
prestazione energetica.
Si tratta degli edifici industriali e artigianali utilizzati
per attività che non ne prevedano il riscaldamento o la
climatizzazione, dei ruderi, purché tale stato venga
espressamente dichiarato nell'atto notarile, dei fabbricati
in costruzione per i quali non si disponga dell'abitabilità
o dell'agibilità al momento della compravendita, purché
anche in tale caso il relativo stato venga espressamente
dichiarato nell'atto notarile (si tratta degli immobili
venduti nello stato di scheletro strutturale, cioè privi di
tutte le pareti verticali esterne o di elementi
dell'involucro edilizio e degli immobili venduti al rustico,
cioè privi delle rifiniture e degli impianti tecnologici),
nonché dei manufatti comunque non riconducibili alla
definizione di edificio di cui al menzionato dlgs n.
192/2005 (per esempio una piscina all'aperto, una serra non
realizzata con strutture edilizie ecc.).
Anche le nuove linee guida, come già quelle precedenti,
evidenziano poi la differenza tra attestato di
qualificazione energetica e attestato di prestazione
energetica. Viene quindi ribadito che il primo documento ha
carattere complementare rispetto all'Ape, nel senso che il
soggetto certificatore, nel redigere quest'ultimo, può
utilizzare i dati ricavabili dal primo, ove il proprietario
ne sia già in possesso, per semplificare il proprio lavoro e
ridurre gli oneri a carico di quest'ultimo.
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Un bollino per gli agenti immobiliari.
Annunci immobiliari con il bollino verde. D'ora in poi gli
agenti immobiliari dovranno utilizzare uno specifico format
per evidenziare le condizioni energetiche dell'edificio o
dell'unità immobiliare offerta sul mercato. Gli operatori
del settore saranno quindi in linea di massima facilitati
dalla maggiore omogeneità territoriale degli adempimenti
richiesti dalla nuova normativa.
Per quanto riguarda gli annunci di vendita e locazione
immobiliare, il decreto interministeriale stabilisce,
infatti, che i corrispondenti annunci, effettuati tramite
tutti i mezzi di comunicazione commerciali, debbano
riportare gli indici di prestazione energetica
dell'involucro, l'indice di prestazione energetica globale
dell'unità immobiliare, sia rinnovabile che non rinnovabile,
e la classe energetica corrispondente.
A tal fine occorrerà utilizzare, con l'esclusione degli
annunci via internet e a mezzo stampa, lo specifico format
approvato col medesimo regolamento (appendice C alle linee
guida allegate al decreto interministeriale), nel quale
dovranno essere indicati la classificazione dell'immobile
oggetto di attestazione (con indicazione se si tratta
eventualmente di «edificio a energia quasi zero»),
l'indice della prestazione energetica rinnovabile e le
valutazioni in ordine alla prestazione energetica, invernale
ed estiva, del medesimo.
Si tratta di un modello molto semplice e intuitivo, anche
grazie all'utilizzo di specifici emoticon destinati a un
pubblico non tecnico, che riporta le nuove dieci classi
energetiche e indica quella specifica in cui ricade
l'immobile, con il riferimento preciso del valore rilevato
dal soggetto certificatore nell'Ape che sarà stata visionata
dall'agente immobiliare
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
ENTI
LOCALI - VARI: Autoveicoli,
conto alla rovescia per l'addio ai tagliandi rc.
Si conclude l'iter avviato dal dl 1/2012. Dal 18/10 non sarà
d'obbligo esporre i contrassegni.
Dal 18 ottobre non sarà più obbligatorio esporre sul
parabrezza dei veicoli il contrassegno attestante la
copertura assicurativa. La verifica sarà effettuata
direttamente dagli organi di polizia stradale sfruttando
apposite banche dati telematiche. Ma i controlli
completamente automatici resteranno difficili perché servono
strumenti specificamente omologati al momento non
disponibili.
Con la smaterializzazione dei contrassegni assicurativi
giunge a conclusione il lungo iter avviato dal dl 1/2012 con
lo scopo di contrastare i fenomeni della contraffazione ed
evasione dell'obbligo di copertura della responsabilità
civile derivante dalla circolazione dei veicoli.
Il contrassegno assicurativo tradizionale
andrà in soffitta dal 18 ottobre.
Il decreto legge n. 1/2012, convertito con modificazioni
dalla legge n. 27 del 24.03.2012 ha previsto la sostituzione
con sistemi elettronici o telematici del tradizionale
tagliando. Il ministro per lo sviluppo economico, di
concerto con il ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, ha quindi emanato il decreto n. 110/2013, con il
quale è stata regolamentata in dettaglio la
dematerializzazione dei contrassegni assicurativi.
Questo decreto ha indicato il 18.10.2015 come termine a
partire dal quale cessa l'obbligo di esposizione del
tagliando. Da questa stessa data l'esistenza e la validità
della copertura obbligatoria della rc auto dovranno essere
verificate da remoto anche mediante l'utilizzo dei
dispositivi o mezzi tecnici di controllo e rilevamento a
distanza delle violazioni delle norme del codice della
strada approvati od omologati ai sensi dell'art. 45, comma
6, del codice della strada.
In una prima fase transitoria le compagnie di assicurazione
continueranno a rilasciare al contraente il contrassegno
assicurativo cartaceo, che, però, non occorrerà esporre
nella parte anteriore del veicolo. Inoltre, per circolare in
un altro Stato dell'Unione europea il conducente dovrà avere
con sé il certificato di assicurazione cartaceo.
Per garantire una migliore efficacia dei controlli sulla
situazione assicurativa del veicolo è prevista la piena
realizzazione di un unico archivio Aia (Archivio integrato
antifrode) che deve collegare le banche dati dell'Ivass, del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, del
Ministero dell'interno, dell'Ania, dell'Agenzia delle
entrate, della Consap, dell'Aci e dell'Uci.
I controlli in strada da parte degli organi
di vigilanza. Una
prima modalità di controllo dell'esistenza del contrassegno
assicurativo dematerializzato prevede la verifica, da parte
degli organi di polizia stradale, della banca dati dei
veicoli istituita presso la Motorizzazione, alimentata dalle
informazioni contenute nell'Archivio nazionale dei veicoli e
nell'Anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, nonché
dalle informazioni provenienti dalla banca dati «Sita»
dell'Ania, appositamente creata per raccogliere, con
aggiornamenti in tempo reale, i dati delle compagnie di
assicurazione sulle polizze auto.
In questo modo l'agente accertatore è in grado di sapere in
pochi secondi se per un veicolo sussiste oppure no la
copertura assicurativa.
Accertamento mediante autovelox, tutor e
varchi ztl. In
conseguenza delle modifiche che sono state introdotte dalla
legge di Stabilità 2012, l'art. 193 del Codice della strada
prevede che l'accertamento della mancanza di copertura
assicurativa obbligatoria del veicolo possa essere
effettuato anche utilizzando i seguenti dispositivi
omologati ovvero approvati per il funzionamento in modo
completamente automatico e gestiti direttamente dagli organi
di polizia stradale:
- apparecchi che consentono la determinazione dell'illecito
in tempo successivo, poiché il veicolo oggetto del rilievo è
a distanza dal posto di accertamento o comunque
nell'impossibilità di essere fermato in tempo utile o nei
modi regolamentari;
- dispositivi per il rilevamento a distanza delle violazioni
del Codice della strada di cui agli artt. 142 (velocità),
148 (sorpasso) e 176 (comportamenti su autostrade e strade
extraurbane principali);
- dispositivi per la rilevazione degli accessi di veicoli
non autorizzati ai centri storici, alle zone a traffico
limitato, alle aree pedonali, o della circolazione sulle
corsie e sulle strade riservate.
In arrivo strumenti ad hoc.
L'altra procedura di contrasto dei furbetti del tagliando
assicurativo è invece quella prevista dall'art. 31 del dl
1/2012, convertito nella legge 27/2012, non ancora operativa
per la mancanza degli adempimenti previsti dall'art. 31 che
prefigura una procedura di accertamento della violazione in
via autonoma. In questi casi però è richiesta una specifica
omologazione dei dispositivi predisposti al controllo.
E il ddl 3012, nella versione all'esame della camera in
questi giorni, conferma questa indicazione normativa. Ovvero
che per attivare controlli automatici della mancata
copertura assicurativa dei veicoli serviranno strumenti ad
hoc omologati. Non basterà utilizzare gli impianti già in
dotazione in tutta Italia, gratuitamente.
---------------
Controlli automatici, si naviga a vista.
La lacuna nel contrasto efficace della mancata copertura
assicurativa è rappresentata dalla mancanza di dispositivi
specificamente omologati per la verifica a distanza della
regolarità assicurativa dei veicoli in transito. Ma anche
dalla mancata liberalizzazione dei controlli in base alle
risultanze delle videosorveglianza comunale.
Questo aspetto è stato evidenziato anche dal Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti con il parere prot. n. 3560
del 21.07.2015. La procedura autonoma di accertamento della
violazione della mancata copertura assicurativa con sistemi
elettronici non presidiati dagli organi di polizia stradale
richiede che sussista una specifica omologazione. Ma, al
momento, nessun dispositivo in tal senso è stato approvato
per questo uso.
In ogni caso, anche qualora intervenisse tempestivamente la
necessaria modifica per colmare il vuoto burocratico,
considerati i tempi che generalmente sono richiesti per il
rilascio dell'omologazione, occorrerebbe poi attendere
almeno un anno prima dell'effettiva commercializzazione
degli apparecchi.
Tutto ciò, peraltro, non esclude che già adesso possano
essere utilizzati i dispositivi automatici in funzione
ausiliaria, con la presenza del personale di polizia
stradale. Per potenziare efficacemente e senza oneri il
contrasto della mancata copertura assicurativa basterebbe
sdoganare tutti i varchi di controllo targhe presenti sul
territorio nazionale. Non solo autovelox, tutor o varchi ztl.
Ma anche telecamere di videosorveglianza che documentano con
precisione le circostanze e sono in grado di immortalare i
trasgressori.
Del resto, mentre per documentare un'infrazione come
l'eccesso di velocità sono necessarie verifiche tecniche
sempre più scrupolose, per accertare la circolazione di un
veicolo senza copertura assicurativa basterebbe un semplice
fotogramma. Che evidenzi chiaramente il passaggio del mezzo
sotto alle telecamere munite di riconoscimento numerico
della targa, data ora e circostanza esatta del passaggio
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Cibi e
bevande, rischi in chiaro. Sostanze allergeniche in vista su
menù, registri o cartelli.
Gli adempimenti per gli esercenti che effettuano
la somministrazione al pubblico.
Chiarezza nell'indicazione di sostanze o prodotti che
provocano allergie. Gli esercenti della somministrazione di
alimenti e bevande dovranno indicare le sostanze o i
prodotti allergenici su un menù o un registro o su un
apposito cartello o altro sistema equivalente, da tenere
bene in vista. In alternativa al registro o al menù, potrà
essere apposto un cartello che avvisi la clientela della
possibile presenza degli allergenici e rimanderà al
personale cui chiedere le necessarie informazioni. Le
notizie sugli allergenici dovranno risultare da una
documentazione scritta e facilmente reperibile sia per
l'autorità competente sia per il consumatore finale.
Queste alcune delle novità contenute in una bozza di dpcm
(Mise e ministero delle salute) sulla etichettatura,
presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari nei
limiti consentiti dal capo VI del regolamento Ue n.
1169/2011.
Il nuovo testo modifica il dlgs 27.01.1992 n. 109, in
materia di etichettatura dei prodotti alimentari.
Indicazione specifica nell'elenco degli
ingredienti. Un
ingrediente richiamato nella denominazione dell'alimento o
nell'etichettatura in generale di un prodotto finito potrà
figurare con il solo nome generico, purché nell'elenco
ingredienti esso compaia con la sua denominazione specifica.
La commercializzazione di un prodotto alimentare avverrà
solo se accompagnato da un'indicazione che consentirà di
identificarne lotto o partita alla quale appartiene. Per
lotto o partita si intende un insieme di unità di vendita di
un prodotto alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate
in circostanze praticamente identiche.
Nell'elenco ingredienti non sarà necessario indicare il
lotto o la partita dei prodotti agricoli che, all'uscita
dall'azienda agricola, saranno venduti o consegnati ai
centri di deposito, di preparazione o di confezionamento o
quando saranno raccolti per essere immediatamente integrati
in un sistema operativo di preparazione o trasformazione.
Inoltre non sarà necessario indicare il lotto quando gli
alimenti saranno offerti non preconfezionati in quanto
offerti in vendita al consumatore finale o alle collettività
senza confezione, preincartati sui luoghi di vendita su
richiesta del consumatore o generalmente venduti previo
frazionamento, anche se originariamente preconfezionati,
preincartati sui luoghi di vendita ai fini della vendita a
libero servizio.
Quando i prodotti alimentari saranno preconfezionati,
l'indicazione del lotto o della partita, e all'occorrenza la
lettera «L», figurano sulla confezione o su un'etichetta che
a esso si accompagnerà.
Quando i prodotti alimentari non saranno preconfezionati, le
indicazioni del lotto o della partita, e all'occorrenza la
lettera «L», figureranno sulla confezione o sul recipiente
o, in mancanza, sui relativi documenti commerciali.
Esse figureranno in tutti i casi in modo da essere
facilmente visibili, chiaramente leggibili e indelebili.
L'indicazione del termine minimo di conservazione non sarà
richiesta per i prodotti di confetteria consistenti quasi
unicamente in zuccheri e/o edulcoranti, aromi e coloranti
quali caramelle e pastigliaggi.
Distributori automatici.
Nel caso di distribuzione di alimenti non preconfezionati,
posti in involucri protettivi, o di bevande a preparazione
estemporanea o ad erogazione istantanea, dovranno essere
riportati sui distributori o nei locali commerciali
automatizzati e per ciascun prodotto, la denominazione di
vendita del prodotto finito, e l'elenco degli ingredienti,
nonché il nome o la ragione sociale e l'indirizzo
dell'impresa responsabile della gestione dell'impianto.
Prodotti non preconfezionati.
I prodotti alimentari non preconfezionati in quanto offerti
in vendita al consumatore finale o alle collettività senza
confezione dovranno essere muniti di apposito cartello o
altro sistema equivalente, applicato ai recipienti che li
contengono oppure applicato nei comparti cui saranno
esposti, da tenere bene in vista e a disposizione
dell'acquirente, sul quale dovranno essere riportate le
seguenti informazioni:
- la denominazione dell'alimento;
- l'elenco degli ingredienti ;
- le condizioni particolari di conservazione per i prodotti
alimentari molto deperibili dal punto di vista
microbiologico;
- la data di scadenza per le paste fresche e le paste
fresche con ripieno ;
- il titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande
con contenuto alcolico superiore a 1,2% in volume;
- la percentuale di glassatura, considerata tara, per i
prodotti ittici congelati glassati.
Negozi vari.
Per i prodotti della gelateria, della pasticceria, della
panetteria e della gastronomia, ivi comprese le preparazioni
alimentari e della macelleria, l'elenco degli ingredienti
potrà essere riportato per tipologia di prodotti sul «cartello
unico» nonché ad eventuale integrazione del cartello
unico o in alternativa allo stesso, per singoli prodotti, su
apposito «registro degli ingredienti e degli allergeni»
tenuto ben in vista.
Se si ricorre a questa modalità di indicazione dell'elenco
degli ingredienti, sarà previsto che il cartello recante le
altre indicazioni obbligatorie riporti, se del caso,
l'avviso che il prodotto contiene allergeni da consultare
nell'apposito libro o registro.
Verrà inoltre offerta la possibilità che i prodotti
preincartati saranno posti in vendita nei medesimi banchi o
spazi in cui sono esposti i prodotti preconfezionati, a
condizione che siano distinti mediante l'impiego di appositi
separatori o cartelli divisori. Nell'elenco ingredienti
dovranno figurare le indicazioni delle sostanze o prodotti
che provocano allergie o intolleranze. Le medesime
informazioni potranno essere rese disponibili anche
attraverso impiego di supporti digitali o tecnologie
equipollenti purché direttamente consultabili dal
consumatore.
Prodotti sfusi.
L'articolo 11 della bozza dpcm (in materia di etichetta
alimentare) modifica infatti l'articolo 16 del dlgs 109/1992
sui prodotti sfusi prevedendo che questi prodotti siano
muniti di un apposito cartello, o altro sistema equivalente,
applicato ai recipienti che li contengono oppure nei
comparti in cui sono esposti, da tenere bene in vista e a
disposizione dell'acquirente, su cui riportare le
informazioni obbligatorie.
Quando parliamo prodotti sfusi ci riferiamo ai non
preconfezionati in quanto offerti in vendita al consumatore
finale o alle collettività senza confezione, confezionati
sui luoghi di vendita su richiesta del consumatore o
generalmente venduti previo frazionamento, anche se
originariamente preconfezionati e preconfezionati sui luoghi
di vendita ai fini della vendita a libero servizio, definiti
«preincartati»
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Figli,
congedi lunghi retroattivi. Fruizione estesa ai 12 anni
anche per «vecchi» genitori.
Guida ai calcoli secondo le novità introdotte dalla riforma
del Jobs act in vigore dal 25/6.
Più tempo per il prolungamento del congedo parentale al fine
dell'assistenza di figli disabili. A partire dal 25 giugno,
infatti, è possibile fruire del prolungamento del congedo
fino alla durata di tre anni entro i dodici anni di età del
figlio (o dell'ingresso in famiglia, in caso di adozione o
affidamento), in luogo del limite di otto anni rimasto
operativo fino al 24 giugno.
In tal caso, il congedo, per tutta la sua durata (tre anni)
dà diritto all'indennità del 30% della retribuzione.
Il nuovo congedo parentale.
Il congedo parentale (ex astensione facoltativa) è il
diritto di genitore, lavoratore dipendente, di assentarsi
dal lavoro secondo modalità e durate prestabilite dalla
legge e contratti collettivi. Tale diritto (cioè la
fruizione del congedo parentale), dal 25 giugno, è
riconosciuto nei primi dodici anni di vita di ciascun
figlio; fino al 24 giugno, invece, era riconosciuto nei
primi otto anni di vita di ciascun figlio.
Il congedo parentale può essere fruito, complessivamente tra
i due genitori (mamma e papà), per massimo 10 mesi;
tuttavia, se il papà ne fruisce per almeno 3 mesi, il limite
complessivo tra i due genitori sale a 11 mesi. Nell'ambito
dei predetti limiti (10 ovvero 11 mesi), il diritto di
astenersi dal lavoro spetta:
a) alla madre, trascorso il periodo di congedo di maternità
(ex astensione obbligatoria), per un periodo non superiore a
6 mesi da fruire in maniera sia continuativo sia frazionata;
b) al padre, sin dalla nascita del figlio, per un periodo
non superiore a 7 mesi da fruire in maniera continuativa o
frazionata. Nell'ipotesi di un solo genitore (single,
ragazza-madre, ecc.) il congedo parentale spetta per un
periodo massimo di 10 mesi, da fruire in maniera
continuativa o frazionata.
Fruibili anche i «vecchi periodi».
La novità del prolungamento del periodo di fruizione del
congedo parentale si applica anche ai «vecchi»
genitori, a coloro cioè che non hanno fruito di tutto il
congedo entro il 24.06.2015, nel vecchio limite di otto anni
del figlio. Dal 25 giugno, pertanto, possono fruire dei
periodi di congedo parentale residui fino all'età di 12 anni
del figlio (la tabella in pagina riporta le possibili
combinazioni di durate del congedo per entrambi i genitori).
La fruizione frazionata.
Particolari criteri vigono ai fini del calcolo della durata
del congedo parentale fruito (specie quando è richiesto in
modalità frazionata, cioè per alcuni giorni della settimana)
e, quindi, per la relativa indennizzabilità (messaggi n.
28379 del 25.10.2006 e n. 19772 del 18.10.2011 dell'Inps).
Caso emblematico è quello in cui il congedo risulti
inframmezzato da ferie, malattia, assenze ad altro titolo
incluse le pause di sospensione previste da contratto nel
part-time di tipo verticale o misto. Ai fini del computo e
dell'indennizzo delle giornate di congedo, l'Inps applica
questo criterio: i giorni festivi e le domeniche, nonché i
sabati ma solo in caso di settimana corta, che ricadono
all'interno di un periodo di ferie, malattia o assenze ad
altro titolo non sono in alcun caso indennizzabili, né
computabili in conto al congedo parentale.
Pertanto, nel caso in cui un lavoratore, con orario di
lavoro articolato su cinque giorni lavorativi (c.d.
settimana corta), fruisca di congedo parentale nel seguente
modo:
• 1ª settimana: dal lunedì al venerdì = congedo parentale
sabato e domenica
• 2ª settimana: dal lunedì al venerdì =
ferie/malattia/assenza ad altro titolo
sabato e domenica
• 3ª settimana: dal lunedì al venerdì = ferie o malattia o
assenza ad altro titolo
sabato e domenica
• 4ª settimana: dal lunedì al venerdì = congedo parentale il
sabato e la domenica compresi tra la seconda e la terza
settimana non sono computabili, né indennizzabili a titolo
di congedo parentale in quanto tali giorni (compresi in un
periodo unico di congedo parentale posto che, dalla prima
alla quarta settimana, non vi e ripresa dell'attività
lavorativa) risultano comunque ricompresi all'interno di un
periodo di assenza fruita ad altro titolo (periodo neutro ai
fini di interesse).
Viceversa, il sabato e la domenica ricadenti tra la prima e
la seconda settimana e tra la terza e la quarta sono
computabili e indennizzabili in conto congedo parentale, in
quanto tali giorni cadono, rispettivamente, subito dopo e
subito prima il congedo parentale richiesto.
Lo stesso vale anche nei casi in cui il lavoratore alterni
congedo parentale e ferie nel seguente modo:
• dal martedì al giovedì = congedo parentale
• venerdì = ferie
sabato e domenica
• lunedì = ferie
• dal martedì a giovedì = congedo parentale
anche in tal caso, cioè, il sabato e la domenica non si
computano a titolo di congedo parentale in quanto inclusi in
un periodo, seppur breve, di ferie (venerdì e lunedì).
Il prolungamento fino a 3 anni.
Nel caso di figlio affetto da handicap grave (situazione di
gravità accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, della legge
n. 104/1992), la lavoratrice madre o, in alternativa, il
lavoratore padre ha diritto fino ai 12 anni d'età del
bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in
misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo non
superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia
ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati
(oppure anche in caso di ricovero, a condizione che sia
richiesta dai sanitari la presenza del genitore).
Nel calcolo del limite massimo di congedo parentale
prolungato (tre anni) si tiene conto anche dei periodi di
congedo parentale ordinario fruito dai genitori (10/11
mesi). Si ricorda che l'handicap è la situazione di
svantaggio sociale che dipende dalla disabilità o
menomazione e dal contesto sociale di riferimento in cui una
persona vive (art. 3 comma 1, legge n. 104/1992).
L'handicap è poi considerato «grave» quando la
persona necessita di intervento assistenziale permanente,
continuativo e globale nella sfera individuale o in quella
di relazione (art. 3 comma 3, legge n. 104/1992).
Il prolungamento del congedo parentale decorre dal termine
del periodo corrispondente alla durata massima del congedo
parentale ordinario spettante al genitore richiedente.
La riforma del Jobs act.
Anche in questo caso la riforma Jobs act ha ridefinito il
limite di età del figlio con disabilità in situazione di
gravità entro cui i genitori possono fruire del
prolungamento del congedo parentale: fino al 24.06.2015,
infatti, il prolungamento del congedo parentale era
possibile entro il compimento dell'ottavo anno di vita del
bambino con disabilità in situazione di gravità; dal
25.06.2015, invece, la possibilità è data fino al dodicesimo
anno di vita del figlio con disabilità in situazione di
gravità.
Ovviamente, l'ampliamento dell'arco temporale entro cui
fruire del prolungamento del congedo parentale trova
applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e
internazionale, e di affidamento.
Pertanto, dal 25.06.2015 il prolungamento del congedo
parentale può essere fruito dai genitori adottivi e
affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro 12 anni (e
non più 8 anni) dall'ingresso in famiglia del minore con
disabilità in situazione di gravità. Inoltre, i giorni
fruiti fino al dodicesimo anno di vita del bambino (o fino
al dodicesimo anno dall'ingresso in famiglia del minore in
caso di adozione o affidamento) a titolo di prolungamento
del congedo parentale danno diritto pieno all'indennità
economica pari al 30% della retribuzione.
Non risulta cambiato, invece, che il prolungamento del
congedo parentale:
• ha una durata massima di tre anni;
• decorre a partire dalla conclusione del periodo di normale
congedo parentale teoricamente fruibile dal genitore
richiedente;
• non può essere fruito oltre il raggiungimento della
maggiore età del minore.
Domanda online.
Per quanto riguarda la richiesta del prolungamento del
periodo di congedo parentale, questa va fatta all'Inps in
via telematica. In particolare, l'istituto ha provveduto
all'adeguamento degli applicativi informatici utilizzati per
la presentazione della domanda online e, a partire dal 14
settembre, accetta unicamente le domande presentate in via
telematica.
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Ampliamento anche per adozioni e affidi.
L'ampliamento dell'arco temporale entro cui fruire del
prolungamento del congedo parentale, ha precisato l'Inps,
trova applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e
internazionale, e di affidamento (messaggio n. 4805/2015).
Pertanto, il prolungamento può essere fruito dai genitori
adottivi e affidatari, qualunque sia l'età del minore, entro
12 anni (non più 8) dall'ingresso in famiglia. In ogni caso,
ha aggiunto ancora l'Inps, resta fermo che il prolungamento:
a) decorre dalla conclusione del periodo di normale congedo
parentale teoricamente fruibile dal genitore richiedente;
b) non può essere fruito oltre la maggiore età del minore.
Le prestazioni alternative.
In alternativa al prolungamento del congedo parentale fino a
tre anni, i genitori (lavoratori dipendenti) possono fruire
di altre prestazioni allo scopo di assistere i figli con
disabilità in situazione di gravità.
Tali prestazioni alternative (significa, quindi, che non
possono essere fruite assieme al prolungamento del congedo
parentale) sono le seguenti:
• tre giorni di permesso mensile, oppure le ore di riposo
giornaliere (c.d. «allattamento»), per bambini anche
adottivi o affidati fino a tre anni di età;
• tre giorni di permesso mensile per bambini tra i tre e i
dodici anni di vita, oppure tra i tre anni di vita e fino a
dodici anni dall'ingresso in famiglia in caso di adozione e
affidamento
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
APPALTI:
Doppio binario per la delega appalti. Nuovo
codice entro luglio 2016.
Doppio binario per la delega appalti: il recepimento delle
direttive appalti pubblici dovrà essere concluso entro
aprile 2016, mentre il nuovo codice dei contratti pubblici
verrà completato entro luglio 2016. Sarà abrogato il
regolamento attuativo del codice, sostituito da linee guida
messe a punto dall'Autorità nazionale anticorruzione di
concerto con il ministero delle infrastrutture, previo
parere delle commissioni parlamentari. Contratti secretati
al vaglio della Corte dei conti. Accelerazione
sull'introduzione del Bim (Building information modelling).
Sono queste le novità contenute nei quattro emendamenti
presentati mercoledì sera dai relatori del disegno di legge
delega sugli appalti pubblici
(Atto
Camera n. 3194) (da mercoledì la votazione
degli emendamenti in commissione) che modificano la
tempistica del complesso lavoro di recepimento delle
direttive e di emanazione del nuovo codice.
Il revirement,
finalizzato anche a concedere più tempo alla Commissione
ministeriale guidata da Antonella Manzione che si occuperà
dei decreti, prevede un doppio binario: prima (entro il 18.04.2016) si procederà al recepimento delle tre direttive
su appalti e concessioni; poi (entro il 31.07.2016) si
emanerà il nuovo codice dei contratti pubblici.
Gli
emendamenti prevedono anche l'abrogazione del regolamento
del codice (l'attuale dpr 207/2010): al suo posto saranno
emanate, sulla base delle norme del nuovo codice e di
concerto fra Anac e ministero delle infrastrutture, linee
guida di carattere generale, anch'esse da trasmettere prima
dell'adozione alle competenti commissioni parlamentari per
il parere.
Per quanto riguarda la procedura di consultazione
pubblica che seguirà l'adozione degli schemi di decreto, si
prevede che sia gestita e coordinata dalla presidenza del
consiglio dei ministri di concerto con il ministero delle
infrastrutture e dei trasporti, sentita l'Anac.
L'emendamento delinea con cura anche la fase di acquisizione
dei pareri sia sul decreto di recepimento, sia su quello
concernente il nuovo codice: Consiglio di stato, Conferenza
unificata e Commissioni parlamentari (da notare che l'Anac
non è espressamente citata) si esprimeranno
«contestualmente, su ciascuno schema, entro trenta giorni
dalla trasmissione». Dopo i 30 giorni il decreto, in mancanza
dei pareri, verrà adottato. Nel caso delle commissioni
parlamentari, se verrà segnalata la non conformità di alcune
norme ai principi e criteri direttivi, il governo dovrà
rimandare un nuovo testo sul quale entro 15 giorni il
parlamento darà l'ok.
Gli emendamenti introducono ulteriori novità in tema di
contratti secretati (quelli del settore della difesa),
affidati con procedure derogatorie: vi saranno regole
specifiche con controllo della Corte dei conti. È poi stato
introdotto un riferimento al progressivo uso, nella fase di
progettazione degli interventi, di strumenti elettronici
specifici quali quelli di modellazione elettronica e
informativa per l'edilizia e le infrastrutture.
Il
riferimento è alla norma (art. 22 della direttiva europea)
che lascia gli stati membri liberi di promuovere l'uso di
metodologie quali il Bim. Infine con un altro emendamento si
danno indicazioni al governo per dettare le regole anche
negli appalti al di sotto della soglia comunitaria
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sui dirigenti apicali la legge Madia è troppo
rigida.
Il 28 agosto scorso è entrata in vigore la legge delega
n.124 concernente la nuova normativa in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Una vera e
propria sfida del governo Renzi in un terreno di riforma in
cui si sono cimentati in passato ministri illustri con
risultati non ancora soddisfacenti. La legge punta
soprattutto sulla profonda riforma della dirigenza pubblica.
Rilevante appare dunque la finalità posta all'inizio della
norma che collega la disciplina della materia della
dirigenza pubblica alla valutazione dei rendimenti dei
pubblici uffici e che mira a creare una nuova figura di
dirigente selezionato sul principio del merito, competente,
proiettato verso l'esterno, orientato al risultato.
I principi e i criteri direttivi espressi nella delega
riguardano l'istituzione di un nuovo sistema di dirigenza
pubblica articolato in ruoli tra loro distinti, ma unificati
e coordinati da una disciplina comune dell'accesso basata
sul merito e dalla mobilità da un ruolo all'altro.
In particolare, con riferimento alla dirigenza degli enti
locali, la norma prevede l'istituzione, previa intesa in
sede di Conferenza stato-città, del ruolo unico dei
dirigenti degli enti locali in cui confluiscono, in sede di
prima applicazione, i dirigenti di ruolo negli enti locali e
i segretari comunali e provinciali iscritti all'albo
nazionale nelle fasce professionali A e B e, con alcune
riserve, nella fascia C.
Nello stesso tempo è prevista l'abolizione della figura dei
segretari e la soppressione. dell'albo. Una decisione
storica che ha destato molte perplessità ma che, nel
trasformare i segretari in dirigenti, attribuisce ai
segretari medesimi, in sede di prima applicazione e per un
periodo non superiore a tre anni, la funzione di dirigente
apicale degli enti, con l'eccezione delle città
metropolitane e dei comuni con popolazione superiore ai 100
mila abitanti per i quali è prevista la possibilità di
nominare un direttore generale.
Ne deriva che la funzione di direzione viene definita in
maniera riduttiva come «attuazione dell'indirizzo politico e
coordinamento dell'attività amministrativa» e a «misura» dei
segretari in quanto comprende anche il «controllo della
legalità dell'azione amministrativa».
Con la stessa terminologia la norma definisce anche la
funzione di direzione apicale e che addirittura comprende
anche la funzione rogante! L'inserimento di questa funzione
nella sfera delle competenze del dirigente di vertice (ad
eccezione delle città metropolitane e dei comuni che optano
per il direttore generale e per i quali si ripropone in
termini quasi analoghi il dualismo attuale tra il dg e il
dirigente rogante, ex segretario) e l'obbligo per i comuni
di conferire l'incarico di direzione apicale ai segretari
comunali e provinciali confluiti nel ruolo unico confermano
la sensazione che, in attesa di necessari sviluppi in sede
di decreti delegati, la definizione della funzione di
direzione di vertice sia stata fortemente influenzata
dall'esigenza di dare una prima sistemazione ai segretari
medesimi in seguito all'abolizione dell'albo.
Ma ciò che sorprende è la presenza dell'«obbligo per gli
enti locali di nominare comunque un dirigente apicale».
L'obbligo implica infatti un problema di scelta circoscritta
a soggetti iscritti nel ruolo e potrebbe comportare oneri
aggiuntivi tenendo conto del numero e della situazione
attuale dei comuni.
La generalizzazione dell'obbligo richiederebbe una maggiore
attenzione all'esercizio della funzione di direzione apicale
che necessita di esperienze e professionalità adeguate e che
andrebbe disciplinata in relazione alla dimensione,
all'importanza dell'ente e al contesto territoriale,
economico e sociale in cui esso opera.
Sarebbe pertanto opportuno individuare meglio la platea
degli enti interessati e introdurre strumenti di maggiore
flessibilità estendendo la possibilità di conferire
incarichi di direzione apicale anche a soggetti non iscritti
nel ruolo dei dirigenti degli enti locali, ma che siano in
possesso di una serie di requisiti analoghi a quelli che
saranno fissati per i direttori generali; requisiti previsti
dalla legge e certificati dalla stessa Commissione per la
dirigenza locale incaricata della gestione del ruolo.
In tal modo sarebbe ampliata la possibilità di scelta da
parte degli enti locali interessati, sarebbero agevolati i
processi di mobilità dei dirigenti dal settore privato al
settore pubblico, sarebbe avviata in concreto la riforma del
management pubblico insieme con una energica e continua
azione di formazione
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2015). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La giurisdizione del g.a. prevale su quella del
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (TSAP) in quelle
controversie concernenti atti solo strumentalmente inseriti
in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle
acque pubbliche.
L'art. 143, R.D. n. 1775/1933, c. 1, lett. a), non limita la
giurisdizione del TSAP alle controversie tra concedente e
concessionario in tema di derivazione idrica, ma utilizza
una formula più ampia, facendo riferimento più in generale
alla "materia delle acque pubbliche".
Tale nozione è stata chiarita con il contributo della
giurisprudenza delle magistrature superiori ed in
particolare, delle Sezioni Unite della Cassazione e del
Consiglio di Stato. In particolare, l'ambito della
giurisdizione del TSAP è stato individuato in relazione a
tutti i provvedimenti aventi incidenza diretta e immediata
di tali atti sul regime delle acque pubbliche, inteso come
regolamentazione del loro decorso e della loro
utilizzazione.
Questa Sezione ha anche chiarito che la giurisdizione del
TSAP ha ad oggetto i provvedimenti che, pur se promananti da
autorità diverse da quelle specificamente preposte alla
tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza
diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in
concreto, a disciplinare la realizzazione, la
localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere
idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi
o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la
realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque
influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Restano, invece, sottratte alla giurisdizione del TSAP
quelle controversie nelle quali i provvedimenti impugnati
incidono sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in
via meramente strumentale ed indiretta.
Nello stesso senso è la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, che utilizza lo stesso criterio esegetico
dell'immediata incidenza dell'atto sull'uso delle acque.
Così, Cass, Sez. Un., 25.10.2013, n. 24154, ha ritenuto
sussistente la giurisdizione del TSAP nel caso di
impugnazione dell'atto di approvazione, da parte della P.A.,
con deliberazione contenente anche la dichiarazione di
pubblica utilità ai fini ablatori, di un progetto per la
realizzazione di un serbatoio di accumulo di acque
pubbliche.
In questo senso deve rilevarsi che la giurisdizione del g.a.
prevale su quella del TSAP in quelle controversie
concernenti atti solo strumentalmente inseriti in
procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque
pubbliche, in cui rileva esclusivamente l'interesse al
rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative
volte all'affidamento di concessioni o di appalti di opere
relative a tali acque (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.10.2015 n. 4594 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizio-urbanistici, sono
principi fondamentali della materia del governo del
territorio le disposizioni del d.P.R. n. 380/2001 che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità di queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
Di conseguenza, occorre il permesso di costruire per una
ristrutturazione comportante mutamento della destinazione
d’uso, pur in presenza di leggi regionali che dispongono
diversamente.
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Gli
interventi di ristrutturazione edilizia necessitano
di permesso di costruire sia nel caso in cui comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico sia nel caso in cui,
se eseguiti nei centri storici, comportino il mutamento
della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria
omogenea.
Diversamente, se eseguiti fuori dei centri storici, gli
stessi sono eseguibili in base a denuncia di inizio attività
(DIA) qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza 23.01.2012 il Tribunale di Firenze,
rigettando la richiesta di riesame, ha confermato il
sequestro preventivo di un fabbricato in viale ..., in
relazione ad alcune violazioni edilizie ipotizzate a carico
di Sa.Ma. (legale rappresentante della società proprietaria
dell'immobile), Bo.Eu. (direttore dei Lavori) e Fr.Cr.
(esecutore).
Agli indagati -quanto interessa- è stata contestata la
violazione dell'art. 44, lett. c), DPR n. 380/2001, per
avere posto in essere, nelle rispettive qualità, una
attività di "sostituzione edilizia" nell'immobile
originariamente destinato a magazzino, mediante completa
demolizione e successiva ricostruzione del complesso
edilizio con modifica di sagoma e destinazione d'uso, avendo
iniziato la realizzazione, mediante iniziale demolizione
completa, di 50 appartamenti destinati a civile abitazione e
uffici nonché 109 autorimesse, in assenza di permesso di
costruire.
Secondo i giudici del riesame, gli indagati avevano
realizzato una ristrutturazione edilizia con cambio di
destinazione d'uso mediante opere strutturali e totali
modificazioni rispetto al preesistente edificio con
variazioni tra categorie non omogenee, sicché per tale
intervento -definito di ampia portata- occorreva il permesso
di costruire e non già la DIA (di cui essi erano in
possesso), trattandosi di un organismo del tutto diverso.
Hanno inoltre ritenuto privo di rilievo il parere 11.01.2012
della Commissione Edilizia osservando che esso riguarda solo
la fedele ricostruzione della parte demolita, ma nulla dice
del cambio di destinazione d'uso.
2. I difensori degli indagati Bo. e Sa. ricorrono per
cassazione denunziando due censure:
2.1 Con una prima censura, lamentano ai sensi
dell'art. 606, comma 1, lett. b), cpp, la violazione degli
artt. 3, comma 1, lett. d), 22 e 44 DPR n. 380/2001 nonché
79 della legge regionale n. 1/2005.
Rilevano innanzitutto che la demolizione ha interessato solo
una parte dell'immobile (la campata centrale) come risulta
dall'accertamento svolto il 26.09.2011 e richiamano all'uopo
il parere della Commissione Edilizia rilasciato l'11.1.2012,
ritenuto di importanza decisiva perché definisce con
esattezza la natura e i caratteri dell'intervento,
soprattutto nella parte in cui precisa che "per la parte
demolita si può procedere alla fedele ricostruzione,
mantenendo invariata la sagoma": da ciò consegue
-secondo i ricorrenti- la sottoposizione dell'intervento
alla semplice DIA e quindi la sua legittimità. Osservano
inoltre che l'immobile si trova in zona A ("Centro
Storico fuori le mura") ed è suscettibile di
manutenzione (ordinaria o straordinaria) oppure di
ristrutturazione.
Analizzano poi il progetto allegato alla DIA nonché la
normativa di riferimento nazionale (DPR n. 380/2001 art. 3,
comma 1, lett. d), e regionale (legge regionale n. 1/2005
art. 79, comma 2, lett. d), osservando che la demolizione
rappresenta un intervento minoritario rispetto alla
consistenza dell'edificio, e quindi non è propedeutica ad
una demolizione totale e quindi ancora una volta soggetta a
DIA: a tale problematica il Tribunale -secondo i ricorrenti-
non ha fatto alcun riferimento benché sollevata nel corso
delle discussione.
2.2 Col secondo motivo i ricorrenti deducono le
stesse violazioni di legge indicate nella precedente censura
ed in più la violazione degli artt. 7.5 e 8 delle norme
tecniche di attuazione del piano regolatore nonché dell'art.
170 del regolamento edilizio comunale. In particolare
osservano che il cambio di destinazione d'uso su cui si è
soffermato il Tribunale deve invece ritenersi conforme agli
strumenti urbanistici.
Riportano il contenuto dell'art. 10 del DPR n. 380/2001 e,
quanto alla potestà regionale in materia prevista
dall'ultimo comma di tale disposizione, richiamano gli artt.
77 e 78 della legge n. 1/2005 per concludere che gli
interventi di ristrutturazione implicanti modifica della
destinazione d'uso non richiedono il rilascio del permesso
di costruire. A tal fine invocano anche il contenuto degli
artt. 7 e 8 delle norme tecniche di attuazione del Piano
regolatore che qualificano tra gli interventi di
ristrutturazione anche quelli finalizzati al mutamento di
destinazione d'uso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati
L'articolo 10, comma 1, lett. c), del DPR n. 380/2001
assoggetta a permesso di costruire gli interventi di
ristrutturazione edilizia che comportino determinate opere
(ivi specificamente indicate) ovvero, anche quegli
interventi senza opere "nelle zone omogenee A" che
comportino "mutamenti della destinazione d'uso".
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte precisato che
in tema di reati edilizi, gli interventi di
ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di
costruire sia nel caso in cui comportino mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico sia nel caso in cui, se eseguiti
nei centri storici, comportino il mutamento della
destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria
omogenea; diversamente, se eseguiti fuori dei centri
storici, gli stessi sono eseguibili in base a denuncia di
inizio attività (DIA) qualora comportino il mutamento della
destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria
omogenea (cfr. tra
le varie, Sez. 3, Sentenza n. 9894 del 20/01/2009 Cc. dep.
05/03/2009 Rv. 243102; Sez. 3, Sentenza n. 5712 del
13/12/2013 Cc. dep. 05/02/2014 Rv. 258686; Sez. 3, Sentenza
n. 39897 del 24/06/2014 Ud. dep. 26/09/2014 Rv. 260422).
I ricorrenti riconoscono che sia stata eseguita una
ristrutturazione edilizia e che vi sia stato mutamento di
destinazione d'uso, ma ritengono che anche in tal caso il
titolo richiesto non è il permesso di costruire, ma la
semplice DIA, come consentito dalla legge regionale toscana
n. 1/2005 all'art. 79, comma 2, lett. d), in mancanza di una
demolizione "totale", anche perché il cambio di
destinazione è conforme agli strumenti urbanistici.
Ritengono che, secondo la previsione dell'ultimo comma
dell'art. 10 DPR n. 380/2001 spetti alle regioni di
stabilire quali mutamenti sono subordinati a permesso di
costruire o a DIA e che nel silenzio della previsione
dell'art. 79, comma 2, lett. d), della citata legge
regionale, le ristrutturazioni comportanti modifica dei
destinazione d'uso in Toscana non sono soggette al previo
rilascio del permesso di costruire.
La tesi non è condivisibile.
La questione di diritto sottoposta al Collegio riguarda
evidentemente la competenza concorrente in materia di
governo del territorio: ebbene, per costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale, rientrano «nell'ambito
della normativa di principio in materia di governo del
territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli
abilitativi per gli interventi edilizi
(sentenza Corte Cost. n. 259/2014, punto 3.1 del Considerato
in diritto; sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2):
a fortiori sono principi fondamentali della materia
le disposizioni che definiscono le categorie di interventi,
perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il
regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento
e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni,
anche penali»
(così la sentenza n. 309 del 2011), sicché
la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi
spetta allo Stato
(sentenze n. 102 e n. 139 del 2013).
Più specificamente, la sentenza della Corte Costituzionale
n. 309 del 2011, occupandosi di una legge della Regione
Lombardia, ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
proprio in quanto definiva come ristrutturazione edilizia
interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo
della sagoma, in contrasto con il principio fondamentale
stabilito ("allora") dall'art. 3, comma 1, lettera
d), del D.P.R. n. 380 del 2001.
Da quanto esposto, discende che la potestà legislativa della
Regione Toscana, nella materia di legislazione concorrente
(quella relativa appunto al governo del territorio), non
poteva incidere su principi fondamentali, come quello di cui
oggi si discute, riservati alla legislazione dello Stato
(art. 117, comma 3, Cost.) e quindi errano i ricorrenti nel
fondare la legittimità dell'intervento su una potestà
legislativa regionale intervenuta su una normativa di "principio"
riservata alla legislazione statale.
Nel caso di specie, è assolutamente pacifico (v. ricorso
pagg. 4 e 5) che l'immobile si trova in "zona A" (Centro
Storico fuori le mura) e che vi è stato un mutamento di
destinazione d'uso (da commerciale a residenziale) e ciò è
sufficiente per ritenere necessario il previo rilascio del
titolo abilitativo.
E' comunque il caso di aggiungere -ma solo per mera
completezza- che la legge regionale n. 1/2005 invocata dai
ricorrenti è stata di recente abrogata dall'art. 254 della
legge regionale 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del
territorio) che ha disciplinato nuovamente le trasformazioni
urbanistiche ed edilizie soggette a permesso di costruire
(art. 134), le opere ed interventi soggetti a SCIA (art.
135) e l'attività edilizia libera (art. 136), prevedendo, in
particolare, il permesso di costruire anche per gli
interventi di ristrutturazione edilizia ricostruttiva (v.
art. 134, comma 1, lett. h, n. 2).
Si rivela pertanto corretta l'ordinanza impugnata laddove ha
ritenuto necessario, in presenza di una ristrutturazione
implicante mutamento della destinazione d'uso, il permesso
di costruire.
Il ricorso va perciò rigettato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.09.2015 n. 39374). |
APPALTI SERVIZI:
Sugli indici che devono sussistere per stabilire
la natura pubblica o privata di una società affidataria in
house del servizio pubblico.
Per stabilire la natura pubblica o privata di una società,
affidataria in house del servizio pubblico svolto in
precedenza dal Consorzio dei Comuni, si deve aver riguardo
al regime giuridico che conforma l'attività degli organi
societari, gli atti adottati e, per quel che qui più rileva
nel caso di specie, il rapporto di impiego con i dipendenti.
Pertanto, alla luce di tali indici la società rientra nel
genus delle società di diritto privato, come del resto
dimostrato dal fatto che il rapporto d'impiego intrattenuto
col ricorrente non è soggetto alle regole di cui al d.lgs.
165 del 2001 contenente "Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche",
bensì interamente assoggettato al diritto del lavoro
privato.
Ne consegue che è infondata la censura che lamenta l'errata
valutazione della Commissione concernente un bando di
concorso pubblico, per soli titoli, per la copertura del
posto di segretario generale dell'autorità di bacino
Regionale, che ha esattamente ascritto la società presso la
quale il ricorrente ha svolto l'attività di lavoro tra le
strutture private (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2015 n. 4510 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
TRIBUTI:
Paga Ici
l’albergo dell’istituto religioso. Beni ecclesiastici.
Cassazione: sì al tributo se l’attività è commerciale.
Deve pagare l’Ici l’istituto religioso
proprietario di un complesso immobiliare concesso in affitto
per attività alberghiera.
Con l'ordinanza
24.09.2015 n. 19016 la Corte di Cassazione -Sez. VI
civile- ha confermato l’esito del giudizio di merito,
ponendosi in linea a proprie precedenti pronunce peraltro
intervenute tra le stesse parti in causa ed inerenti altre
annualità di imposta.
Nel caso in questione l’istituto religioso aveva già
ricevuto altri avvisi di accertamento Ici per annualità
pregresse al 2007, tutti impugnati fino ad arrivare al
giudizio di legittimità conclusosi negativamente con tre
pronunce della Cassazione emesse nel 2011.
Tuttavia
l’istituto religioso insiste e ripercorre le stesse tappe
anche per l’accertamento Ici del 2007, tentando di ottenere
questa volta una pronuncia favorevole. Ma i giudici di
Piazza Cavour ritengono inammissibili i motivi di ricorso in
quanto redatti in modo plurimo mediante la prospettazione di
più censure su questioni differenti.
Sul punto la Corte
evidenzia che il “giudicato” (articolo 2909 del codice
civile) è applicabile non solo allorché si tratti della
medesima imposta, ma anche nel caso in cui gli atti
tributari impugnati in due giudizi siano diversi.
Un altro rilievo dell’istituto religioso riguarda la
cartella di pagamento emessa da Equitalia durante il
contenzioso. E per la Cassazione l’ente impositore, e per
esso l’agente della riscossione, può procedere al recupero
del tributo anche in presenza di contenzioso.
Per quel che riguarda il fatto, l’ente ecclesiastico ha
concesso in affitto il proprio immobile ad una società di
capitali che effettua attività alberghiera, traendo così un
reddito. Pertanto è del tutto evidente che difetta, ai fini
della richiesta esenzione Ici, anche il requisito oggettivo
previsto dalla norma, non trattandosi di un immobile
destinato esclusivamente allo svolgimento di attività non
commerciali (articolo Il Sole 24 Ore del
25.09.2015). |
VARI:
TAR LAZIO/ Coa e Cnf battuti dall'Anac
L'Anac batte Consiglio nazionale forense. Le misure di
trasparenza della riforma Severino si applicano anche agli
Ordini professionali, in primis agli avvocati, che sì vedono
respingere dal Tar Lazio il ricorso contro le delibere
dell'autorità anticorruzione. Via libera, dunque, alla
pubblicazione di incarichi, redditi e patrimoni da par te
dei consiglieri. E ciò perché, sul fronte degli organismi
forensi, è la stessa riforma del 2012 a definire Cnf e Coa
come «enti pubblici non economici», il che basta a
ricomprenderli nei controlli anticorruzione dell'Anac.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.09.2015 n. 11392, pubblicata dalla
III Sez. e attesa da mesi.
Niente da fare, quindi, per il ricorso del Cnf e di oltre 50
Coa: gli obblighi di pubblicazione introdotti dalla legge
190/12 per le pubbliche amministrazioni valgono anche per
gli Ordini forensi. Basta il dato testuale dell'art. 24
della legge 247/2012, il nuovo statuto dell'avvocatura, a
escludere che gli organismi dei legali possano evitare di
rendere pubblici atti di nomina, curricula, compensi
legati alla carica e ad altri incarichi pubblici.
Non conta che gli Ordini, in definitiva, si finanziano con i
contributi degli iscritti. Né giova agli avvocati ricordare
che il dl 101/2013, con il suo restyiing delle
amministrazioni, ha escluso gli Ordini professionali alla
diretta applicazione del testo unico del pubblico impiego,
ciò che li farebbe uscire dalla categoria degli enti
pubblici non economici, in cui invece restano nonostante la
natura associativa.
In realtà gli enti esponenziali della categoria forense sono
pubblici perché collegati alla funzione sociale
dell'avvocato: la riforma forense affida a Cnf, Coa e agli
avvocati iscritti l'attuazione di principi costituzionali
come il diritto di difesa dei cittadini. Insomma: gli Ordini
non esistono solo per fornire servizi agli iscritti ma
anzitutto per regolare la relativa professione.
A questo punto diventano irrilevanti anche le altre censure
secondo cui gli Ordini sono sottratti al controllo della
Corte dei conti, non considerati nel conto economico
consolidato dello Stato né individuati a tal fine dall'Istat
(articolo ItaliaOggi del 29.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Ordini,
su internet piani anticorruzione e redditi dei vertici. Tar
del Lazio. Trasparenza estesa ai professionisti.
Trasparenza per gli ordini professionali.
Avvocati, ma anche architetti, ingegneri, commercialisti e
tutti gli altri enti di rappresentanza dei professionisti
sono obbligati a dotarsi di uno scudo anti-corruzione come
gli enti pubblici. Devono predisporre un piano triennale di
prevenzione, nominare un responsabile anticorruzione e
rispettare incompatibilità e inconferibilità degli
incarichi, oltre all’obbligo di pubblicare i dati su
patrimonio e redditi dei titolari delle funzioni di
indirizzo politico.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Lazio, Sez. III, con la
sentenza 24.09.2015 n. 11391, che ha rigettato il
ricorso promosso da cinque ordini locali degli avvocati
(Locri, Pisa, Biella, Catanzaro, Cosenza), contro le
delibere (144 e 145/2014) con cui l’Anticorruzione ha
applicato gli obblighi di trasparenza della legge Severino
(190/2012) e dei suoi decreti attuativi (Dlgs 33/2013 e
39/2013) anche agli Ordini professionali.
Il Tar ha escluso che gli ordini non rientrino nel novero
delle Pa elencate dal Dlgs 165/2001, come dimostrerebbe il
fatto di non essere soggetti alla Corte dei Conti, proprio
perché non a carico delle casse pubbliche ma finanziati con
i contributi dei professionisti.
Argomentazioni smontate dal tribunale amministrativo,
ricorrendo proprio alla legge di riforma della professione
forense ( 247/2012) che al contrario «dispone
espressamente che il Cnf e gli ordini circondariali sono
enti pubblici non economici a carattere associativo».
Una definizione che, qualificando gli ordini come enti
pubblici «deve ritenersi di per sé sufficiente al rigetto
delle censure in esame».
Non rileva l’obiezione secondo la quale gli ordini hanno
natura associativa, o autonomia finanziaria. Perché «l’ordinamento
non ha avuto difficoltà a riconoscere prima e a ribadire
dopo, la qualificazione di enti pubblici ad altre
organizzazioni di tipo associativo». Bocciato anche
l’argomento relativo «all’esclusivo finanziamento
mediante i contributi degli iscritti».
Piuttosto, è la risposta, il fatto che la «tassa annuale»
venga appunto assimilata a un «tributo» non fa che
rafforzare la «qualificazione pubblicistica» degli
ordini professionali (articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI:
Qualora il bando richieda come requisito di
partecipazione un fatturato specifico relativo a precedenti
servizi svolti ed inerenti l'oggetto dell'appalto è
necessario che le precedenti esperienze del concorrente
siano identiche a quelle dell'appalto.
L'art. 41, c. 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 relaziona il
fatturato al settore di gara in generale e non all'oggetto
specifico della fornitura o del servizio, in quanto,
sostituendo la precedente locuzione "servizi identici"
con il riferimento al "settore oggetto della gara",
ha inteso ampliare l'ambito delle tipologie di servizi che
possono essere fatti valere ai fini della partecipazione
alla gara; ciò all'evidente scopo di evitare il
cristallizzarsi di situazioni di oligopolio o monopolio e
favorire l'apertura del mercato medesimo attraverso
l'ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si
possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
Quindi nelle gare pubbliche, se il bando richiede come
requisito di partecipazione un fatturato specifico relativo
a precedenti servizi svolti ed inerenti l'oggetto
dell'appalto, è necessario che le precedenti esperienze del
concorrente riguardino settori identici a quelli oggetto
dell'appalto o quanto meno ad essi collegate secondo un
ragionevole criterio di analogia o inerenza (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 22.09.2015 n. 4425 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'impresa
che non rispetta il salario minimo è fuori gara.
La
sua offerta è ritenuta anomala.
In una gara di appalto la violazione dei minimi salariali è
indice di anomalia dell'offerta.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 18.09.2015 n. 4361
concernente un appalto per l'affidamento del servizio di
portierato e assistenza alla didattica presso un'università
statale.
Il problema affrontato dai giudici riguardava l'anomalia di
una offerta presentata da un concorrente da accertare alla
luce del disposto degli articoli 86 e 87 del codice dei
contratti pubblici e in particolare dell'articolo 3-bis
dell'articolo 86 il quale impone che gli enti aggiudicatori
verifichino «che il valore economico sia adeguato e
sufficiente rispetto al costo del lavoro, il quale deve
essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o
delle forniture».
L'offerta era apparentemente favorevole per
l'amministrazione, ma in misura tale da porre in dubbio che
fosse stata frutto di valutazioni corrette e in concreto
attuabili da parte dell'impresa, con conseguenze che, in
caso contrario, si sarebbero riflesse negativamente sulla
fase esecutiva del contratto.
Esaminati gli atti i giudici premettono in termini generale
che il costo del lavoro è indice di anomalia quando non
risultino rispettati i livelli salariali che la normativa
vigente, anche a base pattizia, rende obbligatori.
Sotto tale profilo, dice la sentenza, la ragione di
invalidità dell'offerta va ricercata nella possibile
inaffidabilità dell'impresa; per i giudici infatti una
convenienza dei costi inferiore ai livelli economici minimi
fissati normativamente (anche in sede di contrattazione
collettiva) per i lavoratori del settore, «costituisce
indice inequivoco di inattendibilità economica
dell'offerta».
Non solo: emergono anche profili di lesione del principio di
par condicio dei concorrenti (essenziale per l'imparzialità
e il buon andamento dell'azione amministrativa), «fonte
di evidente pregiudizio delle altre imprese partecipanti
alla gara che abbiano correttamente valutato il fattore
retributivo»
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).
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MASSIMA
La questione sottoposta a giudizio riguarda le modalità
di individuazione e di accertamento –nonché i limiti della
sindacabilità in sede giurisdizionale– di un’offerta
cosiddetta “anomala”, ovvero apparentemente
favorevole per l’Amministrazione, ma in misura tale da porre
in dubbio che la medesima sia frutto di valutazioni corrette
e in concreto attuabili da parte dell’impresa, con
conseguenze che, in caso contrario, si rifletterebbero
negativamente sulla fase esecutiva del contratto.
Il tema è disciplinato dagli articoli 86 e 87 del d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18 /CE), normalmente intesi come
impositivi di una valutazione dell’offerta nel suo
complesso, anche al di là delle voci direttamente indicate
dall’Amministrazione come incongrue, in ogni caso con
riconoscimento al riguardo di ampi margini di
discrezionalità tecnica –insindacabile nel merito, salvo i
consueti limiti di manifesta illogicità o errore di fatto–
per l’apprezzamento affidato all’Amministrazione stessa
(giurisprudenza consolidata: cfr., fra le tante, Cons.
Stato, V, 05.09.2014, n. 4516 e 22.12.2014, n. 6237; IV,
11.11.2014, n. 5518, 20.01.2015, n. 147 e 26.02.2015, n.
963).
La prima delle disposizioni legislative citate (art. 86)
contiene, ai commi 1 e 2, alcuni indicatori automatici di
anomalia, ma al comma 3 consente comunque una valutazione di
congruità per ogni offerta che, “in base ad elementi
specifici, appaia anormalmente bassa”; il successivo
comma 3-bis –nel testo introdotto dall’art. 1, comma 909,
lettera a), della legge 27.12.2006, n. 296 (Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge Finanziaria 2007)– impone inoltre, per quanto qui
interessa, che gli enti aggiudicatori verifichino «che il
valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al
costo del lavoro […] il quale deve essere specificamente
indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
Seguono precisazioni circa le competenze affidate al
Ministero del lavoro e della previdenza sociale, incaricato
della predisposizione di apposite tabelle, che tengano conto
della contrattazione collettiva (specifica, o riferita al «settore
merceologico più vicino a quello preso in considerazione»),
con altri parametri riferiti anche all’ambito territoriale,
nonché all’individuazione dei sindacati comparativamente più
rappresentativi.
Il costo del lavoro è dunque indice di
anomalia quando non risultino rispettati i livelli salariali
che la normativa vigente –anche a base pattizia– rende
obbligatori.
Sotto tale profilo, la ragione di
invalidità dell’offerta va ricercata in una prospettiva di
inaffidabilità dell’impresa, che tale offerta abbia
presentato, diversa da quella riconducibile a un’erronea
valutazione in fatto della prestazione richiesta, o di
singoli parametri cui la stessa deve rapportarsi.
Una convenienza dei costi, inferiore ai
livelli economici minimi fissati normativamente (anche in
sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del
settore, infatti, costituisce indice inequivoco di
inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del
principio di par condicio dei concorrenti (essenziale per
l’imparzialità e il buon andamento, di cui all’art. 97 della
Costituzione), fonte di evidente pregiudizio delle altre
imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente
valutato il fattore retributivo. |
APPALTI:
Le indicazioni dell'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) assumono valenza di canoni oggettivi
di comportamento per gli operatori del settore, la cui
violazione integra un'ipotesi di negligenza.
Le indicazioni dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture -Avcp (ora, Autorità
nazionale anticorruzione- Anac) a prescindere dal loro
inquadramento dogmatico, assumono, in ogni caso, valenza di
canoni oggettivi di comportamento per gli operatori del
settore, la cui violazione integra un'ipotesi di negligenza,
per gli effetti di cui all'art. 70, comma 1, lett. a),
d.P.R. n. 207 del 2010, essendo all'Autorità riconosciuti il
ruolo di garante dell'efficienza e del corretto e
trasparente funzionamento del mercato nel settore dei
contratti pubblici e, quindi, del sistema di qualificazione,
nonché penetranti poteri di vigilanza e controllo (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.09.2015 n. 4358 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Il prezzo
imposto «segue» la casa. Per accordi fuori dal «Peep» le
rivendite successive sono possibili con prezzo libero.
Sezioni unite. Se l’immobile è in un piano di edilizia
residenziale pubblica la convenzione impresa-Comune vale per
ogni vendita
Quando un piano di edilizia residenziale pubblica
venga realizzato in base a una convenzione tra l’impresa
costruttrice e il Comune, stipulata ai sensi della legge
865/1971, nella quale sia pattuito un “prezzo imposto” per
la vendita delle singole unità immobiliari comprese nel
Peep, questo prezzo deve essere applicato anche in tutte le
rivendite successive alla prima (e cioè successive a quella
tra il costruttore e il primo compratore).
È quanto la Corte di
Cassazione ha deciso, a Sezz. Unite civili, con la
sentenza 16.09.2015 n. 18135, nella quale è stato
precisato che, invece, il prezzo di vendita “imposto”
in conseguenza delle convenzioni stipulate ai sensi degli
articoli 7 e 8 della legge 10/1977, vale solo per la prima
vendita, ma non per le rivendite successive (come già
ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 13006/2000).
Le convenzioni di cui alla legge 10/1977 non sono inerenti
l’edilizia residenziale pubblica (come quelle della legge
865/1971), ma consentono lo sconto degli oneri concessori a
favore del costruttore che si impegni a moderare i prezzi
delle sue vendite (o locazioni) oppure alla realizzazione di
opere di urbanizzazione.
La controversia giunta all’esame della Suprema corte
concerneva l’inadempimento di un contratto preliminare di
vendita, avente a oggetto la proprietà superficiaria di un
appartamento edificato sulla base di una convenzione Peep,
stipulata tra il Comune di Roma e la società costruttrice,
ai sensi dell’articolo 35, legge 22.10.1971 n. 865.
In questo preliminare, la promittente venditrice e la
promissaria acquirente avevano pattuito un prezzo fissato
convenzionalmente, sul presupposto che il vincolo di
determinazione del prezzo (stabilito nella convenzione con
il Comune) fosse venuto meno; successivamente, però, la
parte promissaria acquirente aveva rifiutato di acquistare
al prezzo convenuto, intendendo pagare solo il prezzo “imposto”
dalla convenzione.
Alle Sezioni unite è stato dunque chiesto se il vincolo di
imposizione del prezzo operi solo nei confronti del
cessionario che acquisti dalla società costruttrice (come
deciso dalla Cassazione nella sentenza n. 7630/2011 e nella
sentenza n. 13006/2000) o anche nei confronti dei successivi
aventi causa dal primo cessionario (come deciso dalla
Cassazione nella sentenza n. 9266/1995).
La Cassazione fonda, in particolare, la sua decisione sul
rilievo che l’articolo 31, comma 49-bis, legge 448/1998
(introdotto dal dl 70/2011, convertito in legge 106/2011),
ha statuito che i vincoli relativi alla determinazione del
prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative
nonché del canone massimo di locazione delle stesse,
contenuti nelle convenzioni di cui all’articolo 35 della
legge 865/1971, «possono essere rimossi, dopo che siano
trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo
trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a
richiesta del singolo proprietario» con il Comune verso
il pagamento di un corrispettivo stabilito dal Comune stesso
sulla base di un decreto ministeriale. Questa norma dunque
evidenzia chiaramente che, in mancanza della predetta
convenzione, il vincolo del prezzo «segue il bene nei
successivi passaggi di proprietà, a titolo di onere reale,
con naturale efficacia indefinita».
Ne segue che la clausola del contratto preliminare nella
quale sia stabilito un prezzo convenzionale superiore a
quello “imposto” si intende affetta da nullità e
automaticamente integrata con il prezzo “imposto”, ai
sensi dell’articolo 1419 del Codice civile.
Si tratta infatti di una nullità parziale e cioè un vizio
che concerne solo la specifica clausola contrattuale
contraria a legge, senza estendersi all’intero contratto:
con la conseguenza che alla clausola nulla si sostituisce
ex lege la volontà della legge (ai sensi dell’articolo
1339 del Codice civile); nel caso specifico, la volontà del
legislatore di non permettere speculazioni in sede di
successiva rivendita a chi abbia approfittato di un regime
di favore predisposto per agevolare (nell’acquisto
dell’abitazione) i ceti meno abbienti e non per agevolare il
conseguimento di plusvalenze da rivendita
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tar Campania. Muri cinta. Distanze in libertà.
Muro di cinta o di contenimento? C'è una bella differenza:
il primo rappresenta una mera recinzione e non risulta
soggetto alle distanze minime fra costruzioni, il secondo
serve a contenere il dislivello fra due fondi e dunque
costituisce un'opera vera e propria, assoggettata al regime
di concessione edilizia, con obbligo di demolizione in caso
di inosservanza.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.09.2015 n. 1992, che è stata
pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Salerno.
Tutela del territorio
Non ha buon gioco il proprietario del fondo nel tentativo di
far demolire le opere realizzate dal vicino. È vero:
soltanto il muro di cinta può essere considerato una mera
pertinenza dell'immobile e dunque risultare sottratto al
rispetto delle distanze legali. E ciò perché non altera la
conformazione del terreno ma serve soltanto a delimitare e
proteggere la proprietà privata, con eventuali abbellimenti.
Il muro di contenimento, invece, può ben essere utilizzato
come recinzione ma costituisce comunque un'opera autonoma
perché nasce per evitare danni in caso di frane.
Nella specie, tuttavia, la distinzione non è utile a
dirimere la controversia: anche il muro di contenimento può
sorgere sul confine se il terreno del vicino risulta «inedificato»
e le norme di attuazione del piano urbanistico comunale sono
ispirate al principio della prevenzione per la tutela del
territorio rimandando alle disposizioni del codice civile.
Spese di giudizio compensate per la peculiarità della
questione
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2015).
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MASSIMA
2.- Il gravame è, per contro, tempestivo in relazione ai
profili di doglianza attinenti l’autorizzazione alla
variatio del progetto edificatorio, non essendo stata
dimostrata (giusta il consueto canone probatorio, gravante
sulla parte eccipiente) la effettiva risalenza temporale
della relativa e piena percezione della concreta e specifica
lesività delle opere assentite.
Siffatte doglianze si appuntano, in sostanza, sulla
autorizzazione alla realizzazione, in asserita violazione
del regime legale delle distanze, di un muro posto al
confine con la proprietà del ricorrente.
Sul punto, l’intero apparato critico si fonda sul
presupposto –diffusamente argomentato– della distinzione tra
“muro di cinta” o “di recinzione”
(concretante pertinenza dell’unità immobiliare e, come tale,
sottratto, in assenza di autonomia sotto il profilo
costruttivo, al rispetto delle distanze legali) e “muro
di contenimento”.
Nella specie, a dispetto della qualificazione effettuata
dall’interessato, si tratterebbe di un muro della seconda
specie, in quanto finalizzato a contenere un dislivello non
preesistente, ma frutto della contestata iniziativa
edificatoria.
È noto,
invero, giusta il diffuso orientamento giurisprudenziale
in subiecta materia, che per muro di
cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, comma 7,
lett. c), d.l. 05.10.1993 n. 398, convertito con
modificazioni in l. 04.12.1993 n. 493, e sostituito per
effetto dell'art. 2, comma 60, l. 23.12.1996 n. 662, devono
intendersi le opere di recinzione, non suscettibili di
modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del
terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno
esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o
eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è invece
la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di
contenimento”, i quali si differenziano
sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la
funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al
fine di evitare movimenti franosi dello stesso e quindi
devono necessariamente presentare una struttura a ciò idonea
per consistenza e modalità costruttive.
Di conseguenza il muro di contenimento, pur potendo
assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche una
concomitante funzione di recinzione, sotto il profilo
edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in
quanto non esclusivamente preordinata a recingere la
proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed
autonomia, in relazione alla sua funzione principale; il che
esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza,
conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al
regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della
demolizione prevista per il caso di assenza di concessione
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014, n. 1651).
Ne discende che, in caso di dislivello
derivante dall'opera dell'uomo, sono da considerare
costruzioni in senso tecnico-giuridico, rientranti
nell'art. 873 c.c., il terrapieno ed il relativo muro di
contenimento, che lo abbiano prodotto, o che abbiano
accentuato quello già esistente per la natura dei luoghi; è
pertanto illegittimo il provvedimento di accertamento di
conformità richiesto con d.i.a. a sanatoria in relazione a
lavori oggetto di d.i.a. in variante al permesso di
costruire, ove venga in rilievo un muro di fabbrica -di
altezza superiore a tre metri, e dunque non considerabile
quale muro di cinta ex art. 878 c.c.- recante sostegno di un
terrapieno e posto a una distanza dal confine laterale
inferiore ai mt. 3 prescritta dall'art. 873 c.c.
(in termini, TAR Lazio Latina, sez. I, 05.05.2014, n. 324).
Così posta la questione, la controversia andrebbe, in tesi
astratta, risolta sull’accertamento, in punto di fatto,
della effettiva natura e consistenza del muro oggetto del
contestato provvedimento abilitativo (che parte ricorrente
–assumendo artificialmente mutato il dislivello tra i fondi
finitimi– ritiene, per l’appunto, muro di contenimento).
Tuttavia, osserva il Collegio come il punto, in concreto,
non appaia nella specie decisivo, in quanto, ai sensi
dell’art. 10 delle norme tecniche di attuazione del PUC di
Caposele, per le zone B2, di completamento del tessuto
urbano moderno la distanza dal confine risulta regolata con
espresso richiamo alle disposizioni dettate in materia dal
codice civile, le quali si ispirano e valorizzano il c.d.
principio della prevenzione.
Con il che, in buona sostanza –essendo in concreto
incontestato che il fondo di proprietà del ricorrente è,
allo stato, inedificato– il muro in contestazione,
quand’anche dovesse qualificarsi, per le sua concrete
caratteristiche, nuova costruzione, potrebbe legittimamente
essere collocato, come dal titolo, in contestazione, sulla
linea di confine tra i fondi. |
APPALTI:
Sull'omissione da parte della stazione appaltante
del rilascio del codice identificativo di gara (CIG)
all'Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici (AVCP).
La stazione
appaltante omettendo di richiedere all'Autorità di Vigilanza
dei Contratti Pubblici (AVCP) il rilascio del codice
identificativo di gara (CIG) non ha violato la normativa sui
contratti pubblici e dunque la nullità dell'intera procedura
in quanto la sanzione della nullità deve essere
espressamente prevista dalla legge e non può essere desunta
in via d'interpretazione di provvedimenti attuativi.
Peraltro non si ritiene che la mancata indicazione di tale
codice escluda l'obbligo dei partecipanti alla gara di
provvedere al versamento di quanto dovuto a titolo di
contributo a favore della predetta Autorità ed in ogni caso
tale obbligo non è previsto a pena d'inammissibilità, sicché
la sua inosservanza non determina l'invalidità della
partecipazione alla procedura (TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II,
sentenza 11.09.2015 n. 809 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'applicabilità della disciplina dei contratti
pubblici riguardo all'affidamento delle gestioni
aeroportuali.
L'art. 30 del Codice dei Contratti esclude l'applicazione
delle disposizioni del Codice alle concessioni di servizi
salvo il rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei
principi generali in materia di contratti pubblici ed
inoltre fatte salve le discipline specifiche che prevedono
forme più ampie di tutela della concorrenza.
Il D.lgs. n. 96/2005 -art. 3- modificativo del titolo III
della parte II del Codice della Navigazione ed in
particolare dell'art. 704, dispone però con riguardo
all'affidamento delle gestioni aeroportuali, che la
concessione è adottata su proposta dell'ENAC all'esito di
selezione effettuata tramite procedura di gara ad evidenza
pubblica secondo la normativa comunitaria, previe idonee
forme di pubblicità.
Discende dal tenore letterale della disposizione
l'applicabilità della disciplina dei contratti ad evidenza
pubblica alle concessioni di gestione aeroportuale (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 11.09.2015 n. 809 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione di un
concorrente in una gara pubblica che non abbia dichiarato le
sentenze riportate risultanti dal casellario giudiziale.
E' legittima l'esclusione di un concorrente in una gara
pubblica che, come nel caso di specie, non abbia dichiarato
le sentenze riportate risultanti dal casellario giudiziale
(sentenza irrevocabile di applicazione della pena su
richiesta delle parti a due anni di reclusione e sospensione
condizionale per il reato di bancarotta fraudolenta,
sentenza passata in giudicato per violazione dei sigilli,
violazione delle norme in materia di controllo dell'attività
urbanistico-edilizia, violazione del TU delle leggi
sanitarie), né la pendenza di altri carichi penali, con
richiesta di rinvio a giudizio, di cui al relativo
certificato.
Non è dubitabile, infatti, che le suddette condanne debbano
essere ricomprese tra quelle considerate dall'art. 38, c. 1,
lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, e siano tali da incidere
gravemente sulla affidabilità e sulla moralità professionale
del soggetto, soprattutto se poste in relazione all'oggetto
della procedura di gara, relativa all'affidamento di servizi
in favore della collettività e da svolgersi su bene
demaniale. Proprio l'oggetto della gara esclude la
legittimità dell'affidamento ad un soggetto il cui legale
rappresentante sia stato condannato per i su riportati
reati, incidenti sulla correttezza personale e professionale
del legale rappresentate della società concorrente.
Inoltre, la valutazione circa il requisito dell'affidabilità
dell'impresa concorrente ad una gara pubblica è riservata
all'Amministrazione, ed è frutto di una valutazione sulla
quale il sindacato giurisdizionale deve mantenersi "sul
piano della verifica della non pretestuosità della
valutazione degli elementi di fatto esibiti come ragioni del
rifiuto" (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2015 n. 4228 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Chi non fa tutto il possibile è negligente.
Sarà negligente l'avvocato che non svolge tutte le attività
esigibili, in senso assoluto, per la tutela del cliente.
Lo hanno affermato i giudici della seconda sezione civile
della Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la
sentenza 08.09.2015 n. 17758.
Da una disamina degli atti processuali (opposizione a
decreto ingiuntivo e atto di appello), secondo i giudici di
piazza Cavour risultava che la domanda era stata fondata
sulla responsabilità professionale dell'avvocato Tizio per
la negligenza consistita nel non avere formulato domanda di
mala gestio nei confronti di una società
assicuratrice del danneggiante nel giudizio civile per danni
da sinistro stradale in cui l'avvocato aveva rappresentato e
difeso Caio, il quale aveva chiesto il consequenziale
pregiudizio patrimoniale determinato dalla inadeguatezza del
risarcimento liquidato per effetto della mancata
rivalutazione del massimale assicurato.
A parere degli Ermellini siamo dinanzi ad un caso di perdita
di chance, come corretta qualificazione giuridica della
fattispecie concreta dedotta in giudizio, essendosi i
Giudici (secondo il noto principio iura novit curia)
limitati a inquadrare i fatti posti a base della domanda
nella norma applicabile. Il caso sul quale gli Ermellini
sono stati chiamati a esprimersi aveva come protagonista un
avvocato (sopra denominato Tizio) che si era rivolto al
Tribunale al fine di ottenere un decreto ingiuntivo contro
il proprio cliente per il pagamento delle prestazioni
professionali rese in una causa di risarcimento danni.
Il cliente Caio presentava opposizione al decreto
evidenziando l'imperizia e la negligenza del professionista
legale per non aver svolto nella causa di risarcimento
alcuna domanda volta a far valere la responsabilità per
mala gestio della compagnia assicurativa del
danneggiante, risultando così fortemente ridotta l'entità
del risarcimento ottenuto.
In prima istanza il Tribunale confermava il decreto
ingiuntivo, ma successivamente la Corte d'appello
considerava l'avvocato responsabile e liquidava il
risarcimento in via equitativa, condannando l'assicurazione
professionale del legale a manlevarlo e tenerlo indenne.
Così, l'avvocato adiva alla Cassazione
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorso
obbligatorio anche per le promozioni. Personale. Per il
Consiglio di Stato deroghe possibili solo «adeguatamente
motivate».
Il concorso è la via ordinaria non solo per le
assunzioni pubbliche, ma anche per le “promozioni” di chi è
già in organico.
Su questi
presupposti il Consiglio di Stato, -Sez. V- con la
sentenza 07.09.2015 n. 4139, ha annullato gli
atti della Giunta regionale della Calabria con la quale era
stata data copertura a circa mille posti di funzionario: non
attraverso un ordinario concorso pubblico ma con una
selezione verticale interamente riservata agli interni.
Il Consiglio di Stato richiama il principio più volte
affermato dalla giurisprudenza costituzionale (da ultimo con
la sentenza 227/2013) secondo la quale il concorso pubblico
costituisce la regola ordinaria di accesso nei ruoli delle
pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi di
uguaglianza (articolo 3), di imparzialità e di buon
andamento (articolo 97).
I concorsi interni, o comunque le selezioni riservate agli
interni, sono da considerare come eccezione al generale
principio dell’ammissione in servizio per il tramite del
pubblico concorso. Anche la facoltà del legislatore di
introdurre deroghe a questo principio deve essere delimitata
in senso rigoroso: le deroghe sono legittime solo se
funzionali al buon andamento dell’amministrazione e se
ricorrono peculiari e straordinarie esigenze di interesse
pubblico idonee a giustificarle.
Il Consiglio di Stato riconosce al concorso pubblico un
ambito di applicazione particolarmente ampio: esso vale non
solo per le ipotesi di assunzione di soggetti in precedenza
estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche ai casi di
nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli
di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati
ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo.
Principio di particolare interesse è quello per il quale la
scelta di effettuare selezioni verticali, in deroga al
pubblico concorso, deve essere adeguatamente motivata e
proporzionatamente vanno espresse le ragioni della deroga.
Si tratta ora di valutare quali possano essere gli effetti
di una decisione del genere, sia nei confronti della Regione
parte del giudizio sia nei confronti delle altre Pa che
abbiano deciso progressioni verticali con atti privi di
adeguata motivazione o come spesso avvenuto senza alcuna
motivazione.
Sugli effetti nei confronti della Regione interessata è dei
più l’opinione che l’attuale prestazione lavorativa sia
priva di titolo: l’effetto di novazione del contratto di
lavoro che segue alla verticalizzazione cade con
l’annullamento giudiziale degli atti a monte derivante dalla
sentenza definitiva.
In materia va richiamato il contratto nazionale di Regioni
ed enti locali, il cui articolo 14 precisa che «è, in
ogni modo, condizione risolutiva del contratto, senza
obbligo di preavviso, l’annullamento della procedura di
reclutamento che ne costituisce il presupposto». In
altri termini, una volta annullati giudizialmente gli atti
amministrativi posti a monte dell’avvenuta assunzione, il
contratto di lavoro dei dipendenti dovrebbe essere risolto.
Salvo a voler discutere e interpretare il termine «procedura
di reclutamento» come attinente solo alla prima
costituzione di un rapporto di lavoro, tesi in verità di
difficile dimostrazione essendo da sempre la
verticalizzazione una novazione del contratto e una nuova
assunzione.
Sulle altre Pa, invece, un atto di autotutela amministrativa
sarebbe in contrasto con il principio (legge Madia) per il
quale l’annullamento d’ufficio venga effettuato entro 18
mesi e non più entro «un tempo ragionevole».
Ragionevole lasso di tempo che nel caso di specie (le
progressioni sono per lo più sino al 2009) sarebbe anche
poco dimostrabile. Malgrado le perplessità però, come fatto
per i dirigenti delle Entrate potrebbe essere cercata una
soluzione legislativa: i funzionari interessati hanno fatto
affidamento sulla correttezza della procedura adottata, e
ora si vedono retrocessi dopo circa 12 anni, per un difetto
di motivazione del quale, probabilmente, sarà difficile
trovare il responsabile.
E questa soluzione, difficilmente potrà essere in una legge
regionale, palesemente incostituzionale (la materia è di
diritto civile) per violazione dell’articolo 117 della
Costituzione (articolo Il Sole 24 Ore del
28.09.2015).
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MASSIMA
4. L’appello è fondato.
4.1. La giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze
n. 227 del 2013, n. 90 e n. 62 del 2012, n. 310 e n. 299 del
2011) ha più volte ribadito che il concorso
pubblico costituisce la modalità ordinaria di accesso nei
ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i
principi costituzioni di uguaglianza (art. 3) ed i canoni di
imparzialità e di buon andamento (art. 97) e che pertanto i
concorsi interni sono da considerare come eccezione al
principio dell’ammissione in servizio per il tramite del
pubblico concorso.
In tal senso anche la facoltà del
legislatore di introdurre deroghe al predetto principio deve
essere delimitata in senso rigoroso, potendo tali deroghe
considerarsi legittime soltanto allorquando siano funzionali
al buon andamento dell’amministrazione e ricorrano altresì
peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico
idonee a giustificarle
(sent. n. 95, n. 150 e n. 100 del 2010, n. 293 del 2009).
E’ stato precisato inoltre che al principio del concorso
pubblico “…deve riconoscersi un ambito
di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le
ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei
alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo
inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di
trasformazione di rapporti non di ruolo, e non istaurati ab
origine mediante concorso, in rapporti di ruolo”
(Corte Cost. 12.04.2012, n. 90): come ha sottolineato Cons.
St., sez. IV, 25.06.2013, n. 3438, ciò “…implica
che la valutazione delle necessità eccezionali, tali da
escludere il ricorso alle procedure ordinarie, può essere
giustificata solo in collegamento con altre esigenze di pari
rango costituzionale, spesso richiamate dalla Corte, quando
afferma che il principio del pubblico concorso non è
<incompatibile, nella logica dell’agevolazione del buon
andamento della pubblica amministrazione, con la previsione
per legge di condizioni di accesso intese a consentire il
consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate
nella stessa amministrazione>
(Corte Costituzionale 10.11.2011, n. 299).
Secondo la ricordata sentenza di questo Consiglio di Stato “…la
salvaguardia della legittimità ordinamentale dei concorsi
interni, nei limiti complessivi quantitativi e qualitativi
delineati dalla giurisprudenza costituzionale, passa
necessariamente attraverso la valutazione dei criteri
utilizzati per la selezione e rende ammissibile una
selezione concorsuale riservata solo in quanto i criteri
utilizzati siano effettivamente compatibili con il
consolidamento dell’esperienza maturata all’interno della
stessa pubblica amministrazione”.
Proprio insistendo sull’obbligo
dell’amministrazione di rispettare il principio del concorso
pubblico quale mezzo ordinario di accesso al pubblico
impiego, anche per quanto attiene i passaggi a qualifiche
funzionali superiori e sottolineando che il concorso
pubblico costituisce un meccanismo imparziale di selezione
tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio
del merito, è stato evidenziato che esso rappresenta un
ineludibile presidio delle esigenze di trasparenza e di
efficienza dell’azione amministrativa e che di conseguenza
le eccezioni a tale regole possono essere disposte solo con
legge e debbono rispondere a peculiari e straordinarie
esigenze di interesse pubblico, risolvendosi altrimenti la
deroga in un inammissibile privilegio in favore di categorie
più o meno ampie di persone
(Cons. St., sez, V, 22.03.2012, n. 1625). |
PATRIMONIO:
Sul demanio marittimo spazio ai giudici ordinari.
La controversia concernente la determinazione dei canoni per
la concessione delle aree del demanio marittimo spetta alla
giurisdizione del giudice ordinario salvo che nella causa
non assumono rilievo provvedimenti autoritativi della
pubblica amministrazione di cui si chieda in via principale
la valutazione al giudice adito per la eventuale
disapplicazione o annullamento.
Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. del TAR Emilia
Romagna-Bologna con la
sentenza 07.09.2015 n. 803.
Il caso sul quale sono stati chiamati ad esprimersi i
giudici amministrativi bolognesi vedeva Tizio ricorrente,
titolare di una concessione demaniale marittima, che
impugnava alcuni provvedimenti della pubblica
amministrazione contestando il pagamento del canone per
l'anno 2007, rideterminato dall'amministrazione, con
efficacia retroattiva, in applicazione dei nuovi criteri
stabiliti dall'articolo 1, comma 251, della legge 296 del
2006, e ne deduceva l'illegittimità.
Si costituiva in giudizio il Comune intimato che contro
deduceva alle avverse doglianze eccependo, in via
preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo. In seguito alla presentazione del ricorso il
Comune rettificava la richiesta di canone avendo applicato
erroneamente su tutta la superficie della pertinenza
demaniale marittima il canone per l'attività commerciale,
terziario e direzionale calcolando, conseguentemente, il
coefficiente maggiorato previsto dalla legge soltanto per la
superficie di mq 22,09 riconoscendo per questa parte, la
fondatezza della pretesa azionata.
Tale rettifica andava a ridimensionare enormemente la
richiesta di aggiornamento del canone e determinava la
parziale sopravvenuta cessazione della materia del
contendere.
Il tribunale amministrativo accoglieva, quindi, l'eccezione
della difesa dell'amministrazione intimata, e dichiarava il
ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, essendo
competente sulla controversia in esame il giudice ordinario,
previa declaratoria parziale della sopravvenuta cessazione
della materia del contendere nei termini sopra indicati.
Pertanto il giudizio sarà riassunto davanti al giudice
ordinario in applicazione della regola della translatio
judicii di cui all'articolo 11 del c.p.a.
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI:
Appalti, azienda risarcita per la perdita di
tempo.
Scatta il danno da tempo perso per l'azienda rimasta sospesa
per la gara prima bandita e poi annullata in autotutela
dall'ente. Si configura la responsabilità extracontrattuale
in capo alla stazione appaltante, costretta a «rimangiarsi»
la procedura a evidenza pubblica rivelatasi illegittima fin
dall'inizio.
L'impresa risultata vincitrice del bando, in seguito
cancellato per un vizio dalla stessa amministrazione, ha
diritto al risarcimento perché ha comunque interesse a non
essere coinvolta in trattative inutili, perdendo tempo e
denaro, laddove la procedura pubblica è destinata a non
andare a buon fine per la condotta scorretta
dell'amministrazione pubblica.
È quanto emerge dalla
sentenza
02.09.2015 n. 11008, pubblicata dalla II Sez. del TAR
Lazio-Roma.
Buona fede.
L'interesse negativo dell'impresa fa scattare il ristoro del
danno emergente e del lucro cessante: il primo per le spese
sostenute ai fini della partecipazione alla gara e in
previsione della stipulazione del contratto, il secondo per
la perdita di ulteriori occasioni contrattuali.
Anche le
pubbliche amministrazioni hanno infatti il dovere di
comportarsi secondo buona fede, sia nelle mere trattative
negoziali sia nell'ambito degli appalti pubblici. E dunque
si configura l'obbligo di ristoro quando l'ente è costretto
ad annullare la procedura per un suo errore. Nella specie
non è rifuso all'impresa il lucro cessante perché non
risulta provato.
Né possono essere risarcite le voci di
danno che fanno riferimento all'interesse positivo in quanto
riguardano le utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati
dall'esecuzione del contratto. Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 25.09.2015).
---------------
MASSIMA
7. Parte ricorrente ha infine criticato, in sé, l’esercizio
del potere di autotutela, in quanto non sarebbe stato
palesato l’interesse pubblico ad esso sotteso, né si sarebbe
tenuto conto dell’affidamento ingenerato nei soggetti
utilmente collocati in graduatoria.
L’amministrazione, inoltre, non avrebbe considerato che
l’opzione alternativa alla gara annullata (presumibilmente,
l’affidamento di una concessione di lavori), sarebbe più
costosa, e, comunque, non adeguata alle finalità perseguite.
7.1. Circa la pretesa insussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale all’annullamento dell’intera gara, giova
ricordare che è del tutto consolidato nella giurisprudenza
amministrativa l’orientamento secondo cui,
in relazione alle procedure selettive per l'affidamento di
lavori, servizi e forniture, l'amministrazione conserva il
potere di annullare in autotutela il bando, le singole
operazioni di gara e lo stesso provvedimento di
aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi
vizi dell'intera procedura.
Tale potere di autotutela “trova
fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon
andamento, [...] in attuazione dei quali l'amministrazione
deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da
conseguire, fermo l'obbligo nell'esercizio di tale delicato
potere, anche in considerazione del legittimo affidamento
eventualmente ingeneratosi nel privato, di rendere effettive
le garanzie procedimentali, di fornire un'adeguata
motivazione in ordine alle ragioni che giustificano la
differente determinazione e di una ponderata valutazione
degli interessi, pubblici e privati, in gioco”
(così Consiglio di Stato, Sez. V, 07.09.2011 n. 5032).
Orbene, nel caso di specie, gli atti di gara sono
radicalmente inficiati dall’assenza, a monte, dell’esatta
individuazione dell’oggetto dell’affidamento, e quindi degli
stessi “necessari contenuti per l’individuazione e
descrizione dell’intervento” nonché della “consistenza
e tipologia del servizio previsto in modo da garantire
l’omogeneità e la comparabilità nella valutazione delle
offerte più vantaggiose per l’amministrazione”.
E’ evidente, pertanto, che le ragioni di pubblico interesse
risiedono nella necessità di ripristino delle condizioni
ottimali di funzionamento dei meccanismi concorrenziali, a
partire dall’elaborazione di un bando legittimo e
rispondente agli scopi perseguiti dall’amministrazione.
Allo stato, inoltre, non è possibile sapere con quali
modalità l’amministrazione capitolina intenda perseguire gli
obiettivi di riqualificazione dei parchi pubblici cittadini.
Si tratta, peraltro, di scelte che attengono al merito
dell’azione amministrativa, di talché le affermazioni di
parte ricorrente circa l’illegittimità e/o convenienza di
una eventuale nuova gara, tesa all’affidamento di una
concessione di lavori pubblici, risultano inconferenti.
7.2. Relativamente all’esigenza,
esplicitata dall’art. 21–nonies della l. n. 241/1990, che
l’annullamento intervenga entro un “termine ragionevole”,
giova ricordare che la norma ha introdotto “un parametro
indeterminato ed elastico [...] finendo così per lasciare
all'interprete il compito di individuarlo in concreto, in
considerazione del grado di complessità degli interessi
coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il canone
costituzionale di ragionevolezza”
(così in termini, TAR Campania, Napoli, sez. I, 09.10.2013,
n. 4529).
Tale disposizione, entrata in vigore per effetto della
novella di cui alla l. n. 15 del 2005, in quanto contenuta
in una norma successiva, recante la disciplina organica
dell'istituto, prevale sulla disposizione speciale e più
restrittiva, inserita nell'art. 1, comma 136, della legge
finanziaria n. 311 del 2004.
Da ciò consegue, diversamente da quanto prospettato dalla
ricorrente, che il decorso di tre anni di
efficacia del provvedimento illegittimo non preclude alla
p.a. l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
Nel caso oggi in rilievo va poi considerato che, nel momento
in cui è stato avviato il procedimento di autotutela, la
convenzione di concessione non era stata ancora stipulata.
Inoltre, la stessa definizione degli interventi, per effetto
delle prescrizioni progettuali e dei pareri richiesti alle
Soprintendenze statali, era, sostanzialmente, ancora in
fieri.
Pertanto, nessun affidamento poteva essersi
realmente consolidato in capo ai vincitori, non essendosi
ancora prodotti concreti effetti ampliativi della loro sfera
giuridica o, comunque, tali da meritare di essere bilanciati
con l’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere di
autotutela (cfr.,
ex plurimis, Cons. St., sentenza n. 5609 del
14.11.2014).
8. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso,
nella parte impugnatoria, deve essere respinto.
9. Rimane a questo punto da scrutinare la domanda di
risarcimento del danno.
Tra le domande prospettate da parte ricorrente, il Collegio
reputa fondata quella, subordinata, relativa al risarcimento
del danno precontrattuale.
Al riguardo, valga quanto segue.
9.1. E’ noto che, nei procedimenti ad
evidenza pubblica, può configurarsi, accanto ad una
responsabilità civile per lesione dell’interesse legittimo
derivante dalla illegittimità degli atti o dei provvedimenti
relativi al procedimento amministrativo di scelta del
contraente, una responsabilità di tipo precontrattuale, per
violazione di norme imperative che pongono regole di
condotta, da osservarsi durante l’intero svolgimento della
procedura (Cons.
St., sez. IV, sentenza n. 4674 del 15.09.2014).
Secondo costante giurisprudenza (cfr. Cass. SS.UU.
12.05.2008, n. 11656, richiamata da Cons. St., sez. VI,
sentenza n. 633 del 01.02.2013), la
responsabilità precontrattuale è una responsabilità da
comportamento, non da provvedimento, che incide non già
sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma
sul diritto di autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali e, pertanto, sulla libertà di compiere le proprie
scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto
dell’altrui scorrettezza.
In sostanza, anche i soggetti pubblici, sia
nell’ambito di trattative negoziali condotte senza procedura
di evidenza pubblica, sia nell’ambito di procedure di gara,
sono tenuti ad improntare la propria condotta al canone di
buona fede e correttezza scolpito nell'art. 1337 c.c.,
omettendo di determinare nella controparte privata
affidamenti ingiustificati ovvero di tradire, senza giusta
causa, affidamenti legittimamente ingenerati.
Tale canone si specifica in una serie di
regole di condotta, tra le quali l'obbligo di valutare
diligentemente le concrete possibilità di positiva
conclusione della trattativa e di informare tempestivamente
la controparte dell'eventuale esistenza di cause ostative
rispetto a detto esito
(TAR Lazio, sez. II, sentenza n. 488 del 19.01.2011; cfr.
anche, Cons. St., A.P., 05.09.2005, n. 6; Cass. S.U.
12.05.2008, n. 11656).
Nel caso di responsabilità precontrattuale,
il danno risarcibile è commisurato non all’interesse
positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato
avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto) ma al c.d.
interesse negativo, da intendersi come interesse a non
essere coinvolto in trattative inutili, o, comunque, a non
investire inutilmente tempo e risorse economiche
partecipando a trattative destinate a rivelarsi inutili a
causa del comportamento scorretto della controparte.
In tale prospettiva, non possono essere
risarcite le voci di danno che fanno riferimento
all’interesse positivo in quanto esse attengono, appunto,
alle utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati
dall'esecuzione del contratto.
L’interesse negativo include poi sia il
danno emergente (per le spese sostenute ai fini della
partecipazione alla gara e in previsione della stipulazione
del contratto), sia il lucro cessante, dovuto alla perdita
di ulteriori occasioni contrattuali, sfumate a causa
dell’impegno derivante dall’aggiudicazione, non sfociata
nella stipulazione, o, comunque in ragione dell’affidamento
nella positiva conclusione del procedimento
(cfr. Cons. St., sez. V, sentenza n. 6406 del 29.12.2014).
9.2. Ciò posto, nel caso di specie, deve rilevarsi la
sussistenza di una fattispecie di responsabilità
precontrattuale ascrivibile all’amministrazione capitolina.
E’ infatti incontestabile che la ricorrente sia stata
coinvolta, per più di 4 anni, in una procedura che, sin
dall’origine, era da considerarsi invalida, per fatto
imputabile all’ente, e che, per tale ragione, è stata poi
legittimamente annullata.
La condotta colposa dell’amministrazione si
è concretizzata sia nell’indizione di una gara “contra
legem” sia nell’induzione dei partecipanti a confidare
nel fisiologico sviluppo della gara e dei suoi esiti finali.
Né, ad avviso del Collegio, può ipotizzarsi una sorta di
concorso colposo dell’impresa ricorrente per avere
partecipato ad una procedura di cui doveva conoscere
l’illegittimità, alla stregua di quanto previsto dall’art.
1338 c.c., secondo cui “La parte che,
conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di
invalidità del contratto non ne ha dato notizia all'altra
parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per
avere confidato, senza sua colpa, nella validità del
contratto”.
Rileva infatti, al riguardo “il
fondamentale principio di legittimità degli atti
amministrativi e di affidamento nella regolarità negoziale
della p.a., tanto più in una materia connotata da spiccato
tecnicismo quale quella dei contratti pubblici”
(così, ad esempio, il TAR Campania, sez. I, sentenza n. 6461
del 10.12.2014).
Per quanto riguarda la quantificazione del danno, si è già
evidenziato che l'unico danno risarcibile
attiene all'interesse negativo vantato dal soggetto a non
esser coinvolto in fasi prenegoziali inutili, nel duplice
aspetto del danno emergente, costituito dalla spese
inutilmente sostenute per la partecipazione alla gara, e del
lucro cessante, rappresentato dal valore delle occasioni di
lavoro perdute in seguito alla partecipazione stessa.
Viceversa, non può essere richiesto il danno da esecuzione
del contratto (che non vi è stato), né il danno cd.
curriculare il quale presuppone l'aggiudicazione e
l'esecuzione della prestazione contrattuale, attenendo
entrambi all'interesse positivo
Nel caso di specie, in favore della società istante può
essere riconosciuto soltanto il danno emergente costituito
dalla spese inutilmente sostenute per la partecipazione alla
gara, non essendo stato fornito alcun principio di prova in
ordine al lucro cessante
Tale prova avrebbe dovuto essere data, quantomeno,
attraverso l’allegazione di proposte contrattuali sfumate a
causa dell’impegno richiesto dalla partecipazione alla gara
successivamente annullata.
Relativamente al risarcimento del danno emergente, il
Collegio reputa opportuno, in applicazione dell’art. 34,
comma 4, del c.p.a., affidare alla stessa amministrazione
capitolina il compito di quantificare la somma dovuta,
commisurandola alle spese che parte ricorrente avrà cura di
comprovare attraverso la presentazione di idonea
documentazione (fatture quietanzate, bonifici bancari etc..).
A tale somma –che ha natura risarcitoria e costituisce un
debito di valore– dovranno poi essere aggiunti gli importi
della rivalutazione e gli interessi legali sulla somma
rivalutata.
La rivalutazione dovrà essere computata a partire dal
concretizzarsi dell’evento dannoso, consistente nella
definitiva perdita delle somme investite per effetto del
provvedimento di autoannullamento.
Le somme così quantificate dovranno essere liquidate
dall’amministrazione capitolina nel temine di novanta giorni
dalla comunicazione e/o notificazione, della presente
sentenza.
10. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso
deve essere respinto, nella parte impugnatoria, mentre
merita accoglimento, nei limiti precisati, la domanda di
risarcimento del danno precontrattuale. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Risarcimenti ampi per i legali. Si deve tenere conto dei
redditi dello studio associato.
CASSAZIONE/ Il caso del professionista assente da
lavoro per un sinistro stradale.
Se l'avvocato è costretto ad abbandonare temporaneamente la
professione, a causa di un sinistro stradale, l'eventuale
risarcimento dovrà conteggiarsi tenendo contro anche dei
redditi dello studio associato.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
31.08.2015 n. 17294.
Il thema decidendum aveva ad oggetto il seguente
caso: un avvocato aveva convenuto in giudizio il signor
Tizio e la Beta S.p.A., compagnia assicuratrice del
convenuto, al fine di ottenere il risarcimento del danno
patrimoniale, cagionato dall'incapacità di svolgere
l'attività professionale in termini equivalenti al periodo
antecedente il sinistro, oltre che dei danni non
patrimoniali.
L'avvocato sosteneva di essere stato investito da Tizio
mentre stava attraversando sulle strisce pedonali e
conseguentemente di aver subito gravi lesioni.
Il Tribunale con sentenza, in considerazione dell'esclusiva
responsabilità di Tizio, condannò i convenuti Tizio e Beta
S.p.A.), in solido tra loro, al pagamento in favore
dell'avvocato della somma di euro 102.735,00 dedotto quanto
già percepito, oltre interessi e rivalutazione.
La Corte d'appello con sentenza riduceva la somma.
L'avvocato si rivolgeva, quindi, ai giudici di piazza
Cavour.
Secondo i giudici della Suprema corte in tema di
risarcimento del danno da lucro cessante conseguente a un
sinistro stradale, le dichiarazioni dei redditi hanno
efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell'art. 4
della legge n. 39 del 1977, e inoltre il lucro cessante
riconosciuto all'avvocato non dovrà essere determinato sulla
base dei soli redditi professionali derivanti dalla attività
svolta come singolo professionista, ma sarà necessario
considerare quelli derivanti dall'attività svolta in forma
associata che ugualmente rientrano tra i redditi cui fare
riferimento
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
APPALTI SERVIZI:
Discrezionalità tecnica alla stazione appaltante.
La stazione appaltante esercita una discrezionalità tecnica
nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento di un
appalto e più in generale nell'imposizione di specifiche
tecniche, ma non può ledere il principio di concorrenza.
Ad evidenziarlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR
Liguria con la
sentenza 27.08.2015 n. 727.
È stato altresì sottolineato che tale discrezionalità
tecnica incontra i limiti di cui all'art. 68, comma 2, dlgs
163/2006 costituiti dal rispetto della parità di accesso
agli offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli
ingiustificati alla concorrenza, infatti eventualmente
imporre specifiche tecniche che possano risultare
particolarmente gravose e sproporzionate rispetto
all'oggetto dell'appalto potrebbe risolversi in una lesione
della concorrenza.
Si afferma, inoltre, che in casi in cui si rendano
particolarmente necessarie alcune decisioni volte
all'imposizione di determinate specifiche tecniche, è
opportuno che la pubblica amministrazione ne motivi,
congruamente, le ragioni.
In conclusione, quindi, l'amministrazione non può imporre,
in assenza di adeguata motivazione, l'impiego di particolari
attrezzature e mezzi il cui approvvigionamento appare
potenzialmente lesivo della concorrenza. I giudici
amministrativi liguri hanno, poi, affrontato il tema
dell'art. 134 del dlgs 163/2006 teso a disciplinare la
facoltà dell'amministrazione di recedere in qualunque tempo
dal contratto, previo pagamento dei lavori eseguiti e del
valore dei materiali utili esistenti in cantiere oltre al
decimo delle opere non eseguite.
Si è osservata che la norma è dettata per gli appalti di
lavori, e gli appalti di servizi, ed occorre rilevare come
una eventuale clausola che vada, quindi, a configurare
un'ipotesi di condizione risolutiva espressa, con eventuale
palese richiamo all'art. 1353 c.c. contenuto nel testo della
clausola stessa, non determinerebbe il venir meno del
rapporto contrattuale per effetto di una nuova valutazione
dell'interesse pubblico, secondo il paradigma dell'art. 134
dlgs 163/2006, ma al verificarsi di un evento futuro ed
incerto preventivamente individuato.
Ciò andrebbe ad escludere la sussistenza di quelle esigenze
di tutela che sono alla base della previsione di cui
all'art. 134, dlgs 163/2006
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il
«doppio voto» va giustificato.
Selezioni. Da indicare nel verbale le ragioni per
cui il primo giudizio è stato modificato.
Il punteggio assegnato nel
corso-concorso può essere modificato solo sulla base di una
specifica motivazione; l’operato di una commissione composta
solo da uomini porta all’annullamento del concorso se si
dimostra che vi sono state discriminazioni; occorre
comunicare ai candidati i punteggi ottenuti negli scritti e
nella valutazione dei titoli prima degli orali, e le
commissioni devono adottare i criteri per l’assegnazione dei
punteggi ai titoli prima di acquisire l’elenco delle
domande.
Sono queste le principali indicazioni dettate recenti
sentenze del Consiglio di Stato n. 3959/2015, 2584/2015 e
3340/2015.
Con la
sentenza 20.08.2015 n. 3959 della V Sez. del
Consiglio di Stato si ribadisce in primo luogo la competenze
dei giudici amministrativi sull’esame dei contenziosi sulle
progressioni verticali, qualunque sia la loro forma,
compresi i corsi-concorso di riqualificazione.
Assumono notevole importanza le indicazioni dettate sul
doppio voto, cioè sulla scelta della commissione di
assegnare inizialmente un punteggio e poi di variarlo.
Questi comportamenti possono essere giudicati come legittimi
se nei verbali risultano le ragioni a base della scelta, per
cui occorre preoccuparsi in primo luogo di darne
espressamente conto nel verbale; tra le motivazioni può
sicuramente essere compresa la revisione a seguito del
completamento dell’esame «degli altri elaborati per
consentire un unico metro di valutazione».
Sulla composizione della commissione viene chiarito che, ove
non vi ostino le disposizioni regolamentari, sono legittime
tanto la composizione prevalentemente esterna, quanto
l'affidamento della presidenza a un non dipendente, quanto
la suddivisione in subcommissari. Viene stabilito inoltre
che la composizione della commissione senza rispettare
l’equilibrio di genere non determina di per sé la
illegittimità del concorso, salvo che si rilevi «una
condotta discriminatoria in danno dei concorrenti di sesso
femminile». Ed inoltre, in caso di rinnovazione della
composizione, si possono confermare gli stessi componenti,
tranne che siano state mosse censure sull’operato della
commissione o anche di suoi singoli componenti.
Infine la sentenza ha ribadito l’ampiezza della sfera
dell’apprezzamento discrezionale delle valutazioni delle
commissioni: esso può essere censurato solamente
dimostrandone la irragionevolezza o illogicità, ma comunque
senza entrare nel merito.
Con la
sentenza 22.05.2015 n. 2584 della V Sez. del
Consiglio di Stato è stato stabilito che si deve dare
comunicazione ai candidati dei punteggi provvisori ottenuti.
Alla base di questo vincolo l’esigenza di consentire agli
stessi di “calibrare” la propria preparazione e di
dare garanzia che i punteggi siano stati attribuiti nel
rispetto della scansione prevista dal bando, dando così
corso ad una forma di controllo.
La
sentenza 07.07.2015 n. 3340 della V Sez. del
Consiglio di Stato ha stabilito che la valutazione dei
titoli deve essere effettuata dalla commissione, sulla base
dei criteri fissati dal bando e delle modalità di
applicazione, intesa come “facoltà discrezionale di
suddividere il punteggio nell’ambito delle già prefissate
categorie di titoli”, che la stessa si è data, prima di
acquisire l’elenco dei partecipanti al concorso. E ciò per
evitare che le loro scelte possano essere influenzate dalla
conoscenza di tali nomi (articolo Il Sole 24 Ore del
28.09.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Uffici trasparenti solo se c'è vero interesse.
In tema di accesso agli atti l'esibizione dei documenti è
strumentale alla tutela di un interesse concreto e
meritevole di tutela e la necessità di un collegamento
specifico e concreto con un interesse rilevante, al fine di
impedire che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della p.a..
Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. del TAR
Campania-Salerno, con la
sentenza 18.08.2015 n. 1805.
Inoltre i giudici amministrativi campani hanno osservato, in
ossequio anche con un consolidato orientamento
giurisprudenziale (si veda: Tar Palermo, Sicilia, sez. II,
24.03.2015, n. 725), che l'istanza di accesso deve essere
riferita a documenti caratterizzati da specificità e già
esistenti e non può pertanto comportare la necessità di
un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto
destinatario della richiesta.
Secondo il collegio salernitano, quindi, tale principio deve
essere esteso anche a quel caso in cui i documenti richiesti
già esistano, ma per la mole degli atti richiesti e per i
criteri della richiesta, viene imposta alla pubblica
amministrazione un'attività complessa di ricerca e
reperimento dei documenti che presuppone un'attività
preparatoria di elaborazione di dati.
E inoltre, nei procedimenti d'accesso ai documenti
amministrativi, l'esercizio del relativo diritto non potrà
che riguardare, per evidenti ragioni di buon senso, i
documenti esistenti e non anche quelli mai formati (o
comunque non rinvenuti), spettando alla pubblica
amministrazione destinataria della richiesta d'accesso
indicare, sotto la propria responsabilità, quali siano gli
atti inesistenti che non è in grado d'esibire
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015).
---------------
MASSIMA
RITENUTO che:
- il ricorso va respinto nella parte in cui si contesta il
diniego dell’istanza di accesso n. 1, con la quale si
intende accedere “alle ultime cinquanta pratiche di
repressione degli abusi istruite e sottoscritte dall’arch.
Ad.Ni.”, in quanto l’ordinamento
prevede che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla
tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la
necessità di un collegamento specifico e concreto con un
interesse rilevante al fine di impedire che l'accesso possa
essere utilizzato per conseguire improprie finalità di
controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della
P.A.;
-
depone in senso preclusivo di tale possibilità la
disposizione contenuta nell'art. 24, comma 3, l. n. 241 del
1990, a mente del quale "non sono ammissibili istanze di
accesso, preordinate ad un controllo generalizzato delle
pubbliche amministrazioni";
- l’istanza n. 1 del 03.02.2015, per come formulata (in essa
si chiede di conoscere plurime e svariate circostanze
afferenti alle ultime cinquanta pratiche edilizie, quali la
richiesta di protocollazione dell’atto alla Segreteria
Generale, i tempi, il sopralluogo, ecc.), non consente di
cogliere il suddetto profilo di interesse in termini di
necessaria concretezza, essendo finalizzata a verificare il
comportamento dell’arch. Ni. in un numero rilevante di
pratiche edilizie, il che si traduce in una
finalità di mero controllo dell’operato della p.a. anche in
considerazione dell’elevato numero di documenti richiesti;
- tale ultima circostanza assume autonomo rilievo, in quanto
“l’istanza di accesso deve riferirsi a
specifici documenti già esistenti e non può pertanto
comportare la necessità di un'attività di elaborazione di
dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i
documenti richiesti già esistono, ma per la mole degli atti
richiesti e per i criteri della richiesta, viene imposta
all'amministrazione un'attività complessa di ricerca e
reperimento dei documenti che presuppone un'attività
preparatoria di elaborazione di dati”
(cfr. TAR Palermo, Sicilia, sez. II, 24.03.2015, n. 725);
- in ordine alla istanza di accesso n. 2 del 03.02.2015,
assecondata dall’Amministrazione sua sponte per gli atti sub
1)-4) (ad esclusione della nota a firma dell’arch. Fo.Ma.
circa la sua incompatibilità), sussistono i presupposti per
l’accoglimento del ricorso, ai fini della presa visione ed
estrazione copia della pratica relativa al permesso di
costruire in sanatoria in favore del sig. Gi.Ma. (p.d.c. n.
3497 del 14.02.2013), avendo il ricorrente, rispetto a tale
documentazione, lumeggiato il profilo di interesse,
evidenziando che “attiene a caso analogo a quello
dell’opificio di sua proprietà risolto mediante interramento
della linea del fabbricato che fuoriusciva –rispetto al
progetto assentito– dalla linea del terreno”, secondo le
prospettazioni difensive rese nel corso del giudizio
risarcitorio promosso dallo stesso ricorrente;
- in ordine alla su citata nota dell’arch. Fo., non
rinvenuta agli atti del fascicolo, vale ad escludere la
fondatezza della pretesa azionata il principio "ad
impossibilia nemo tenetur", di guisa che
nei procedimenti d'accesso ai documenti
amministrativi l'esercizio del relativo diritto (o l'ordine
d'esibizione impartito dal giudice) non può che riguardare,
per evidenti ragioni di buon senso, i documenti esistenti e
non anche quelli mai formati (o comunque non rinvenuti),
spettando alla p.a. destinataria dell'accesso indicare,
sotto la propria responsabilità, quali siano gli atti
inesistenti che non è in grado d’esibire
(TAR Parma, Emilia-Romagna, sez. I 28.07.2014 n. 344);
CONSIDERATO che, per l'effetto, entro tali limiti, il Comune
di Castellabate vada condannato a consentire, nel termine di
quindici giorni decorrenti dalla notifica della presente
sentenza, l'accesso alla richiesta documentazione, mediante
estrazione di copia a spese del ricorrente. |
APPALTI SERVIZI:
Tar Abruzzo. L'affidamento in house non è ipotesi
residuale.
L'affidamento diretto in house non si configura
assolutamente come un'ipotesi eccezionale e residuale di
gestione dei servizi pubblici locale.
A sottolinearlo, in ossequio anche ad un precedente
giurisprudenziale, sono stati i giudici del TAR
Abruzzo-Pescara con la
sentenza 14.08.2015 n. 349.
Secondo i giudici amministrativi abruzzesi nel motivare la
scelta della gestione in proprio, l'amministrazione non è
tenuta a dimostrare che ciò corrisponda a un prezzo del
servizio in assoluto il più conveniente, potendo la stessa
ritenere che il controllo analogo che gli è assicurato
compensi adeguatamente -in termini di qualità del servizio,
poteri di controllo sulla gestione e condivisione delle
problematiche in tendenziale assenza di conflitti di
interesse- una eventuale maggior spesa.
Una simile valutazione ovviamente presuppone la
considerazione dei vari fattori che entrano in essa, senza
l'indicazione dei quali le ragioni complessive della scelta
non potranno in alcun modo emergere.
Già il Consiglio di stato (Sez. V, 10.09.2014 n. 4599) aveva
avuto modo di evidenziare come i servizi pubblici locali
aventi rilevanza economica possono essere gestiti ugualmente
mediante il mercato (ossia individuando all'esito di una
gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero
attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per
mezzo di una società mista e quindi con una «gara a
doppio oggetto» per la scelta del socio o poi per la
gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento
diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto
che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne
sostituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo.
È stato altresì sottolineato che in quest'ultimo caso
saranno in capo a tale soggetto diverso dall'ente «i
requisiti della totale partecipazione pubblica, del
controllo (sulla società affidataria) “analogo” (a quello
che l'ente affidante esercita sui propri servizi) e della
realizzazione, da parte della società affidataria, della
parte più importante della sua attività con l'ente o gli
enti che la controllano (sentenza della Corte cost. n. 199
del 20.07.2012)».
È noto, inoltre, che la decisione di un ente pubblico di
affidare la concreta gestione dei servizi pubblici locali,
ivi compresa quella di avvalersi dell'affidamento diretto,
in house, rappresenta una scelta ampiamente
discrezionale, che, però, deve essere adeguatamente motivata
circa le ragioni di fatto e di convenienza che la
giustificano.
Tale scelta, inoltre, sfugge al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che non appaia manifestamente
priva di istruttoria e motivazione, viziata da travisamento
dei fatti, palesemente illogica o irrazionale
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015).
---------------
3 - Seguendo l’ordine dei motivi di ricorso, con il primo
[Violazione e falsa applicazione dell'art. 34, comma 20, del
d.l. n. 179/2012. Violazione dell'art. 3 della legge n.
241/1990. Eccesso di potere sotto il profilo della carenza
istruttoria] la ricorrente sostiene che il Comune, violando
la norma richiamata, “non ha dimostrato in alcun modo la
rispondenza della società Ecolan al modello in house
providing” né ha dato adeguatamente conto della
economicità della scelta.
Il Collegio ritiene di richiamare taluni condivisi principi
elaborati dalla giurisprudenza in modo da individuare
l’estensione dell’obbligo di motivazione oggetto di tale
motivo.
“I servizi pubblici locali di rilevanza
economica possono essere gestiti indifferentemente mediante
il mercato (ossia individuando all'esito di una gara ad
evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso
il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di
una società mista e quindi con una 'gara a doppio oggetto'
per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio),
ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza
previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso
dall'ente, ma che ne sostituisce sostanzialmente un diretto
strumento operativo, ricorrendo in capo a quest'ultimo i
requisiti della totale partecipazione pubblica, del
controllo (sulla società affidataria) 'analogo' (a quello
che l'ente affidante esercita sui propri servizi) e della
realizzazione, da parte della società affidataria, della
parte più importante della sua attività con l'ente o gli
enti che la controllano
(sentenza della Corte Cost. n. 199 del 20.07.2012).
L'affidamento diretto, in house -lungi dal
configurarsi pertanto come un'ipotesi eccezionale e
residuale di gestione dei servizi pubblici locale-
costituisce invece una delle (tre) normali forme
organizzative delle stesse, con la conseguenza che la
decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei
servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi
dell'affidamento diretto, in house (sempre che ne ricorrano
tutti i requisiti così come sopra ricordati e delineatisi
per effetto della normativa comunitaria e della relativa
giurisprudenza), costituisce frutto di una scelta ampiamente
discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa
le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e
che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente
inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed
arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto
macroscopico travisamento dei fatti”
(Cons. Stato, Sez. V, 10.09.2014 n. 4599);
“Venuto meno l'art. 23-bis d.l. n.
112/2008 per scelta referendaria, e dunque venuto meno il
criterio prioritario dell'affidamento sul mercato dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica e l'assoluta
eccezionalità del modello in house, la scelta dell'ente
locale sulle modalità di organizzazione dei servizi pubblici
locali, e in particolare la opzione tra modello in house e
ricorso al mercato, deve basarsi sui consueti parametri di
esercizio delle scelte discrezionali, vale a dire:
- valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e
privati coinvolti;
- individuazione del modello più efficiente ed economico;
- adeguata istruttoria e motivazione.
Trattandosi di scelta discrezionale, la stessa è sindacabile
se appaia priva di istruttoria e motivazione, viziata da
travisamento dei fatti, palesemente illogica o irrazionale”
(Cons. Stato, Sez. VI, 11.02.2013 n. 762).
In questo contesto (il “Principio di libera
amministrazione delle autorità pubbliche” emerge ora
dall’art. 2 direttiva “concessioni” 2014/23/UE) va
letto il co. 20 dell’art. 34 cit., che richiede che la
decisione sia preceduta dalla verifica della “sussistenza
dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo” e ne
siano esposte “le ragioni”, così richiamando i
consueti parametri su cui deve basarsi l’esercizio delle
scelte discrezionali.
L’apposita relazione ha perciò lo scopo di rendere
trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le
operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno
dell’affidataria una società in house, quanto i
processo di individuazione del modello più efficiente ed
economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti
gli interessi pubblici e privati coinvolti. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Stretta
sui residui in betoniera. Il calcestruzzo in esubero è
considerato tra i rifiuti.
La Cassazione esclude dai sottoprodotti le
forniture in eccesso respinte dal cliente.
Anche il materiale in esubero che resta nelle betoniere dopo
una fornitura di calcestruzzo costituisce, al pari di quello
proveniente dalle successive operazioni di lavaggio dei
mezzi di trasporto, rifiuto ai sensi del Codice ambientale.
Questo il principio di diritto veicolato dalla
sentenza
06.08.2015 n. 34284
della Corte di Cassazione - Sez. fer. penale, pronuncia con
la quale il giudice di legittimità ha negato la qualifica di
sottoprodotto al suddetto «calcestruzzo in esubero»,
lasciandolo nel novero dei rifiuti con i connessi oneri
gestori a carico dei relativi produttori e detentori.
Alla base della sentenza le attività di gestione effettuate
da un impianto di produzione di calcestruzzo sul materiale
residuo riportato dalle proprie betoniere in sede all'esito
della consegna del relativo carico perché ritenuto dal
cliente in eccesso.
Per la Corte di cassazione le operazioni di trattamento (tra
cui separazione, essicazione e frantumazione delle
componenti) dei residui finalizzati al loro riutilizzo
costituisce infatti attività di gestione dei rifiuti, non
ricorrendo tutte le condizioni per inquadrarli nella diversa
disciplina derogatoria riservata ai sottoprodotti dal dlgs
152/2006.
Il contesto normativo.
In base al Codice ambientale sono infatti considerati
sottoprodotti (e dunque non soggetti agli stringenti
adempimenti dei rifiuti) unicamente le sostanze e gli
oggetti che soddisfano (alla luce dell'ultima novella
introdotta dal dlgs 205/2010) tutte le condizioni generali
ex articolo 184-bis, comma 1, del dlgs 152/2006 o che
rispetta i particolari criteri stabiliti (ex successivo
articolo 184-bis, comma 2, dello stesso Codice sulla base
delle predette condizioni) da parte del legislatore per
specifiche categorie di residui (tra cui, a oggi, non figura
il calcestruzzo).
In base alle suddette condizioni generali del dlgs 152/2006
(e sulle quali è fondata la ricognizione in questione della
corte di Cassazione) sono sottoprodotti solo i residui:
originati da un processo di produzione, di cui costituiscono
parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro
produzione; il cui riutilizzo è certo, nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; ancora,
il cui riutilizzo è diretto, senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
infine, il cui utilizzo è legale, ossia ha a oggetto beni
che soddisfano i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti
e la protezione della salute e dell'ambiente senza
comportare su di essi impatti complessivi negativi.
Le condizioni ex dlgs 152/2006: il processo
produttivo. La
nuova sentenza 34284/2015 rileva innanzitutto che detto «calcestruzzo
in esubero» non è un output «secondario» del
processo di produzione (come chiesto dall'articolo 184-bis,
comma 1, del dlgs 152/2006), ma «primario», per cui a
monte non è tecnicamente un «sottoprodotto», ma un
prodotto.
A farlo diventare poi rifiuto, suggerisce la sentenza, può
in primis essere (come nella fattispecie in esame) la
condotta del cliente-destinatario che, entratone nella
(seppur temporanea) materiale disponibilità all'atto della
consegna della fornitura totale, lo lascia alla conclusione
della stessa al trasportatore ritenendolo «in eccesso»
rispetto alle proprie necessità, così manifestando la
propria intenzione di non volerne più disporne, dunque di
volersene disfare (integrando quindi la previsione ex
articolo 183, comma 1, lettera a), del Codice ambientale, in
base al quale è rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di
cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia
l'obbligo di disfarsi»).
In tema si ricorda la precedente sentenza 42338/2013 della
stessa Corte (richiamata dalla nuova pronuncia in analisi)
con cui si è esclusa dal regime dei sottoprodotti i
(successivi) residui da lavaggio delle betoniere in quanto
sostanze che non sono (come richiesto invece del citato
184-bis, comma 1, del Codice ambientale) parte «integrante»
del processo produttivo che vi è a monte.
La certezza del riutilizzo.
In base alla nuova sentenza 34284/2015 il calcestruzzo in
esubero non era nella fattispecie altresì qualificabile come
sottoprodotto poiché mancava la certezza dell'effettivo
riutilizzo ai sensi dello stesso articolo 184-bis dlgs
152/2006, essendo la sua destinazione decisa solo
successivamente al trattamento e in base alle concrete
esigenze dell'azienda o alle richieste dei clienti.
È utile altresì ricordare come pregressa e consolidata
giurisprudenza della stessa Corte abbia più ampiamente
affermato come tale «certezza» sia configurata solo
dalla prova dell'assenza della volontà del disfarsi dei
residui, unitamente a quella della destinazione al
riutilizzo e della preventiva individuazione e definizione
del reimpiego (sentenza 41839/2008).
Il trattamento.
Con la sentenza 34284/2015 il giudice di legittimità appare
escludere infine la qualifica di sottoprodotto per il
calcestruzzo residuo anche sotto il profilo tecnico del
citato trattamento cui è stato sottoposto, al quale
evidentemente non si riconosce la valenza di «normale
pratica industriale».
La Cassazione sottolinea infatti come, nella fattispecie
analizzata, il calcestruzzo in esubero che rientrava nello
stabilimento non sembrava mantenere la stessa natura di
quello prodotto, necessitando di un trattamento specifico
per il suo riutilizzo.
Anche in relazione alla circostanza del caso, merita
ricordare come dalla stessa Corte siano stati con pregresse
sentenze identificati come «diversi» (dalla normale
pratica industriale) i trattamenti che comportano
trasformazioni radicali, tali da far perdere ai residui la
loro identità in funzione del successivo reimpiego (sentenza
17453/2012), così come quelli che non costituiscono parte
integrante del processo di produzione (20886/2013)
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.09.2015). |
APPALTI:
Niente requisiti speciali nelle gare d'appalto.
Va condannato a risarcire l'impresa il comune che revoca la
gara quando scopre che l'aggiudicataria non ha la
certificazione di qualità richiesta da più di tre anni. E
ciò perché la norma del bando di gara che lo prevede
introduce un requisito speciale che non è previsto dal
codice dei contratti pubblici e in particolare è contrario
al principio di tassatività sancito dal comma 1-bis
dall'articolo 46. L'impresa, però, viene compensata solo
dell'utile perduto e non anche del danno curriculare perché
non prova la lesione patita rispetto alla sua immagine
commerciale.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.06.2015 n. 2957, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di stato.
L'articolo 43 del codice dei contratti pubblici non prevede
alcun requisito minimo temporale o di durata delle
certificazioni di qualità ai fini della partecipazione alle
gare d'appalto. E il principio di tassatività dei requisisti
speciali serve a evitare proprio che i disciplinari delle
procedure siano confezionati a favore o sfavore di qualcuno.
La nullità del provvedimento di revoca dell'aggiudicazione
si estende allo stop dell'intera gara. Ma in questo caso il
danno curriculare non può essere liquidato perché non basta
la mera perdita di chance: l'impresa viene meno
all'onere probatorio costituito a suo carico, che le impone
di dimostrare di non aver perso anche qualche altra commessa
dopo la revoca illegittima.
Il comune deve comunque formulare entro sessanta giorni
all'impresa per il ristoro dell'utile perduto, interessi
compresi (articolo ItaliaOggi del 29.09.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
AFFIDAMENTO DELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI A SOCIETÀ ESTERNA.
Sussiste in capo al datore di lavoro
, nel caso di specie, sia una culpa in eligendo, per
l’affidamento dell’incarico di redazione del documento
di
valutazione dei rischi
ad una società dotata dì un’organizzazione
inadeguata, sia una culpa in vigilando, per il mancato
controllo dell’imputato sui tempi di esecuzione di tale
importante e indifferibile adempimento.
Altresì, ’imputato, pur consapevole
della mancanza del documento, ha comunque continuato lo
svolgimento dell’attività aziendale, rispetto alla quale
tale documento, che deve avere data certa ed essere
custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce la
valutazione dei rischi, costituisce un presupposto
indefettibile (ai sensi degli artt. 28, comma 2, e 29, comma
4, del D.Lgs. n. 81/2008).
---------------
Di frequente, il datore di lavoro –titolare
dell’obbligo indelegabile di effettuare la valutazione dei
rischi e di elaborare il relativo documento– si affida a
consulenti o società esterne, e, qualora venga poi chiamato
a rispondere penalmente per carenze relative al DVR, tenti
di discolparsi, chiamando in causa la società o il
consulente (sul punto v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i
commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 216 ss.).
La presente sentenza considera un’ipotesi in cui un datore
di lavoro fu condannato per la «contravvenzione prevista
dall’art. 29, comma 1, e punita dall’art. 55, comma 1, del
D.Lgs. n. 81/2008, perché non effettuava la valutazione dei
rischi e non elaborava il documento di cui all’art. 17,
comma 1, lett. a), dello stesso D.Lgs., in collaborazione
con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
ed il medico competente, nei casi previsti dal successivo
art. 41».
A sua discolpa, l’imputato deduce che «aveva
commissionato a una società la redazione del documento di
valutazione dei rischi; documento che era stato redatto in
ritardo per cause imputabili a tale società ed era stato
presentato all’ASL 48 ore dopo il sopralluogo nel quale era
stato accertato il reato».
La Sez. III conferma la condanna.
Rileva che «vi sarebbero, nel caso di
specie, sia una culpa in eligendo, per l’affidamento
dell’incarico di redazione del documento ad una società
dotata dì un’organizzazione inadeguata, sia una culpa in
vigilando, per il mancato controllo dell’imputato sui tempi
di esecuzione di tale importante e indifferibile adempimento».
Aggiunge che «l’imputato, pur
consapevole della mancanza del documento, ha comunque
continuato lo svolgimento dell’attività aziendale, rispetto
alla quale tale documento, che deve avere data certa ed
essere custodito presso l’unità produttiva a cui si
riferisce la valutazione dei rischi, costituisce un
presupposto indefettibile (ai sensi degli artt. 28, comma 2,
e 29, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008)»
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.03.2015 n. 12962
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 5/2015). |
TRIBUTI:
Contraddittorio anche per la Tarsu. Tributi locali. Nella
verifica della superficie il Comune deve andare oltre le
planimetrie catastali.
È illegittimo l’avviso di accertamento Tarsu
fondato unicamente sullo scostamento tra superficie
dichiarata e superficie risultante dagli atti catastali. Il
Comune avrebbe dovuto accedere ai locali tassabili, al fine
di verificare in loco l’effettiva superficie imponibile.
L’accesso avrebbe anche consentito al contribuente di
presentare le osservazioni entro 60 giorni dalla consegna
del Pvc, in attuazione del principio del contraddittorio.
La conclusione è
della Ctr Molise, sezione di Campobasso, nella
sentenza 18.03.2015 n. 73/3/15
(presidente Liberatore, relatore D’Imperio). Si tratta di
una delle prime pronunce che recepiscono il principio del
contraddittorio nel contesto dei tributi locali.
La vicenda riguarda un avviso di accertamento Tarsu emesso
per una utenza abitativa. Il Comune aveva rettificato la
dichiarazione presentata solo sulla scorta della superficie
risultante dagli atti catastali. Il contribuente aveva
impugnato l’avviso, rilevando come non tutte le superfici
accertate dal Comune fossero idonee alla produzione di
rifiuti. La Ctp ha accolto il ricorso e il Comune ha
proposto appello osservando, tra l’altro, come nel caso di
una utenza abitativa sia improbabile l’esistenza di aree
escluse da tassazione.
Il collegio di giudici di Campobasso ha innanzitutto
ricordato gli elementi del prelievo:
- ai fini dell’applicazione del tributo sui rifiuti, è
sufficiente la mera idoneità dei locali e delle aree alla
formazione dei rifiuti urbani;
- la legislazione di riferimento (articolo 62, Dlgs
507/1993) pone in capo al contribuente l’onere di provare le
circostanze di esclusione da prelievo, rappresentate per le
utenze abitative dall’impossibilità (anche teorica) delle
aree alla formazione di rifiuti;
- in base all’articolo 73, Dlgs 507/1993, in caso di mancata
risposta al questionario da parte del contribuente, il
Comune dispone di alcune facoltà istruttorie, compreso
l’accesso diretto ai locali tassabili, previa informativa al
contribuente.
L’ente, dunque, avrebbe dovuto avvalersi di tale potere, al
fine di accertare, alla presenza dell’interessato,
l’effettiva condizione delle aree detenute. Così operando,
rileva ancora il collegio molisano, il contribuente avrebbe
potuto presentare le osservazioni, entro 60 giorni dalla
consegna del Pvc, rispettando il diritto al contraddittorio.
La conclusione è l’annullamento della pretesa tributaria.
Il diritto al contraddittorio è salvo anche nel comparto dei
tributi locali: in attesa che le Sezioni unite ne
definiscano meglio il perimetro applicativo (Cassazione,
ordinanza 527/2015), non vi è dubbio che si tratti di un
istituto applicabile alla generalità dei tributi, derivando
dalla disciplina comunitaria e costituzionale (Sezioni unite
19667/2014).
Lascia perplessi, invece, l’uso che la Ctr Molise ne ha
fatto nel caso specifico. Una volta affermato che è compito
del Comune determinare la superficie occupata dal
contribuente, mentre spetta al contribuente dimostrare
l’esistenza di cause di esclusione dal prelievo, non si vede
per quale motivo l’ente locale avrebbe dovuto
necessariamente eseguire un accesso presso la casa di
abitazione (articolo Il Sole 24 Ore del
28.09.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
NON SANZIONATI GLI OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E FORMAZIONE?
Errare è umano, perseverare diabolico.
In materia di prevenzione
degli infortuni ai danni dei lavoratori, la norma di cui
all’art. 18, comma 1, lett. l), D.Lgs. n. 81/2008 –che
obbliga il datore di lavoro ad adempiere agli
obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui
agli artt. 36 e 37 stesso decreto– non rientra tra quelle
disposizione precettive la cui violazione, ai sensi del
successivo art. 55, è presidiata da sanzione penale.
---------------
Già Cass. 23.01.2014, n. 3145, Dal Sasso, in ISL, 2014, 6,
307, nell’annullare la condanna di un datore di lavoro per
la violazione dell’art. 18, comma 1, lett. l), D.Lgs. n.
81/2008, per non aver adempiuto agli obblighi di
informazione, formazione ed addestramento dei lavoratori,
asserì: «La struttura del testo normativo in esame (D.Lgs.
n. 81/2008) è chiarissima nel distinguere, al proprio
interno, un complesso di diposizioni precettive che, poi,
trovano una sanzione negli articoli che vanno dal 55 al 60.
Tuttavia, nell’art. 55 –unica norma nella quale si cita
l’art. 18 [comma 5, lett. c), d) ed e)]– non è richiamata la
disposizione che qui si assume violata, vale a dire la lett.
l) del comma 1 dell’art. 18). È, quindi, evidente, nella
specie, la violazione del principio di legalità perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato e, quindi,
nessuna sanzione avrebbe potuto essere irrogata.
L’enunciazione di cui alla citata lett. l), infatti, si
risolve in una disposizione programmatica priva di sanzione
penale.»
La Sez. III torna ora sul tema, e annulla la condanna di un
datore di lavoro per violazione degli obblighi di
formazione ed informazione di un suo dipendente: «in
materia di prevenzione degli infortuni ai danni dei
lavoratori, la norma di cui all’art. 18, comma 1, lett. l),
D.Lgs. n. 81/2008 –che obbliga il datore di lavoro ad
adempiere agli obblighi di informazione, formazione e
addestramento di cui agli artt. 36 e 37 stesso decreto– non
rientra tra quelle disposizione precettive la cui
violazione, ai sensi del successivo art. 55, è presidiata da
sanzione penale».
Il fatto è che la violazione degli obblighi di informazione
e formazione è sanzionata dall’art. 55, comma 1, lett. c),
con riguardo agli artt. 36 e 37, D.Lgs. n. 81/2008 (v.,
infatti, esattamente, della stessa Sez. III, ad es., Cass.
09.09.2014, n. 37312, inedita) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2015 n. 10023
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 5/2015). |
SICUREZZA LAVORO: I POTERI DI SOSPENSIONE DEL COORDINATORE PER L’ESECUZIONE
DEI LAVORI.
Il coordinatore per la sicurezza è
titolare
di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi
specificamente individuati dall’art. 92 D.Lgs. 09.04.2008,
n. 81.
Tale posizione di garanzia gli impone,
nell’ambito
dei cantieri temporanei o mobili contrassegnati da
lavori appaltati, di assicurare il collegamento tra impresa
appaltatrice e committente al fine della migliore
organizzazione
del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica:
in particolare sono a suo carico i compiti di adeguare il
piano
di sicurezza in relazione allo stato di avanzamento dei
lavori, di vigilare sul rispetto dello stesso e di
sospendere le
singole lavorazioni in caso di pericolo grave ed imminente.
Le funzioni del coordinatore non si limitano a
compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le
eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione
dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare
sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della
singola
impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò
a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori.
La presenza in cantiere del coordinatore per
la sicurezza non va intesa come stabile presenza in
cantiere,
ma secondo il significato che consegue dalla posizione
di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli
obblighi
specificamente individuati dall’art. 92 del citato D.Lgs. n.
81/2008), che comprendono anche poteri a contenuto impedivo
in situazioni di pericolo grave ed imminente.
---------------
Condannato in cooperazione colposa con il datore di lavoro
della vittima titolare della ditta appaltatrice per un
infortunio
mortale in danno di un operaio precipitato da un ponteggio
da una altezza di 16/18 metri nel corso di lavori di
restauro della facciata di un edificio, un coordinatore per
la
esecuzione dei lavori sicurezza sostiene a sua discolpa che
«i poteri del coordinatore per l’esecuzione debbano essere
esercitati solo nei casi in cui il pericolo grave ed
imminente
sia direttamente riscontrato dallo stesso.»
La Sez. IV ribatte che «il coordinatore per la sicurezza è
titolare
di una posizione di garanzia nei limiti degli obblighi
specificamente individuati dall’art. 92 D.Lgs. 09.04.2008,
n. 81», e che «tale posizione di garanzia gli impone,
nell’ambito
dei cantieri temporanei o mobili contrassegnati da
lavori appaltati, di assicurare il collegamento tra impresa
appaltatrice e committente al fine della migliore
organizzazione
del lavoro sotto il profilo della tutela antinfortunistica:
in particolare sono a suo carico i compiti di adeguare il
piano
di sicurezza in relazione allo stato di avanzamento dei
lavori, di vigilare sul rispetto dello stesso e di
sospendere le
singole lavorazioni in caso di pericolo grave ed imminente».
Rileva che «le funzioni del coordinatore non si limitano a
compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le
eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione
dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare
sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della
singola
impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò
a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori».
Chiarisce che «la presenza in cantiere del coordinatore per
la sicurezza non va intesa come stabile presenza in
cantiere,
ma secondo il significato che consegue dalla posizione
di garanzia di cui lo stesso è titolare nei limiti degli
obblighi
specificamente individuati dall’art. 92 del citato D.Lgs. n.
81/2008), che comprendono anche poteri a contenuto impedivo
in situazioni di pericolo grave ed imminente».
Prende atto che «le circostanze di fatto afferenti lo stato
del cantiere e le condizioni in cui lavorava l’operaio
(l’assenza
di parapetti nel ponteggio e la presenza sullo stesso
di varchi seguenti allo smontaggio di un elevatore,
effettuato
circa dieci giorni prima del fatto, utilizzati per il
passaggio
dei materiali e l’omessa adozione da parte della vittima di
cinture di sicurezza), non consentono dubbi sulla palese
violazione degli obblighi sopra indicati da parte
dell’imputato,
che, per sua stessa ammissione assicurava in cantiere
una presenza a cadenza settimanale o al più quindicennale»
(circa la posizione di garanzia del coordinatore per
l’esecuzione dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i
commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 659 ss., cui adde, da
ultimo, Cass. pen., sez. IV, 23.01.2015, n. 3272,
Cardarelli e altro; Cass. pen., sez. IV, 17.11.2014,
n. 47283; Bartoli, Cass. pen., sez. IV, 17.10.2014, n.
43466, Turroni e altro, tutte in ISL, n. 3/2015, 144; nonché
Cass. pen., sez. fer., 01.09.2014, n. 36510, Caporale
e altri, ibid., 2014, 11, 551; Cass. pen., sez. IV, 05.05.2014, n. 18515, Landi e R.C., ibid., 2014, 7, 365; Cass. pen.,
sez. IV, 05.05.2014, n. 18459, Brioschi e altri, ibid.,
2014, 7, 363; Cass. pen., sez. IV, 05.05.2014, n. 18436, Angele, ibid., 2014, 7, 366; nonché, retro, la sentenza
Bellinato) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 02.03.2015
n. 9158
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 4/2015). |
SICUREZZA LAVORO:
DATORE DI LAVORO DI FATTO E DATORE DI LAVORO DI DIRITTO.
In materia prevenzionistica, il datore
di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, va
individuato sia in colui che risulta parte in senso formale
del contratto di lavoro sia nel soggetto che di fatto assume
i poteri tipici della figura datoriale [art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008; ed inoltre l’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008].
Ne consegue che l’individuazione di un datore di lavoro
“formale” non si pone in contrapposizione con
l’eventualità dell’esistenza anche di un datore di lavoro
di fatto.
---------------
Nel settore della sicurezza del lavoro, alla luce degli
artt. 2, comma 1, lettera b), e 299 D.Lgs. n. 81/2008, è
ormai incalzante l’individuazione del datore di lavoro di
fatto (v., in proposito, Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i
commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 17 ss. e 859 ss., cui
adde Cass. pen., Sez. Un., 18.09.2014, n. 39343, in ISL,
2014, 11, 552, in motivazione).
Nel contempo, la giurisprudenza più recente si preoccupa di
mettere in guardia contro un’esenzione da responsabilità
dello stesso datore di lavoro di fatto pur in presenza di un
datore di lavoro di diritto (circa il garante formale v.
Guariniello, op. cit., 861 ss.).
In particolare, Cass. 28.11.2014, n. …., Canigiani e altri,
in ISL, … (ma v. anche, ibid., Cass. 01.10.2014, n. ….,
Fortino), rilevò che «la giurisprudenza di legittimità ha
avuto modo di precisare che in tema di sicurezza e di igiene
del lavoro, nelle società di capitale, il datore di lavoro
si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei
poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda, e
quindi con i vertici dell’azienda stessa, salvo il caso di
espressa delega di funzioni». Ma subito chiarì che «la
responsabilità dell’amministratore della società non può
venir meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente
apparente e ciò in ragione della posizione di garanzia ad
esso assegnata dall’ordinamento».
Spiegò che, «ove si ritenesse esonerato da responsabilità
colui che formalmente assume uno dei ruoli, in ragione della
sua apparenza, si consentirebbe attraverso l’interposizione
fittizia di vanificare la cogenza della tutela penale per
omissione di cautele doverose correlate alla salvaguardia di
soggetti ritenuti dall’ordinamento deboli e bisognevoli di
protezione», e che «l’esigenza imprescindibile
connessa alle norme di salvaguardia nei confronti di terzi,
nella specie finalizzate a prevenire gli infortuni sul
lavoro, impone, salva restando la possibilità di cumulo con
le responsabilità di altri soggetti, l’attribuzione a colui
che si interpone, in prima persona, dei doveri di garanzia
che derivano dal ruolo rivestito».
Osservò che «sulle garanzie connesse alle attribuzioni di
ruolo fanno affidamento i garantiti, i quali devono essere
esonerati dall’onere di accertare compiutamente il
fondamento del potere di colui che formalmente si presenta
come titolare di una posizione di garanzia nei loro
confronti».
Ne ricavò che «la funzione di garanzia non può che
derivare direttamente dall’assunzione formale del ruolo,
senza possibilità per colui che si presenta come garante di
invocare la mera apparenza quale ragione di esonero da colpa».
La Sez. IV torna ora sul tema in termini quanto mai limpidi:
«In materia prevenzionistica, il datore
di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, va
individuato sia in colui che risulta parte in senso formale
del contratto di lavoro sia nel soggetto che di fatto assume
i poteri tipici della figura datoriale [art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008; ed inoltre l’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008].
Ne consegue che l’individuazione di un datore di lavoro
“formale” non si pone in contrapposizione con
l’eventualità dell’esistenza anche di un datore di lavoro
di fatto»
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 16.02.2015 n. 6723
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 4/2015). |
SICUREZZA LAVORO: I RAPPORTI TRA DATORE DI LAVORO E RSPP.
Non è il
datore di lavoro a dover
informare
il RSPP delle modalità e degli aspetti logistici e
organizzativi
di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli
connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente
valutare tali elementi, attraverso una costante
opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e
di
eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione
aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro
onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di
intervento a fini di prevenzione e sicurezza.
Diversamente, la previsione di una siffatta
figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal
momento che, postulandosi un onere informativo in capo
allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso,
contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque
in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie
al fine di un compiuto espletamento dei doveri
prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di
rischi la cui conoscenza derivi da competenze
specialistiche).
S ne ricava che «il RSPP può essere tenuto a rispondere –proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa
dell’evento– dell’infortunio in ipotesi verificatosi
proprio
in ragione dell’inosservanza colposa dei compiti di
prevenzione attribuitigli dalla legge», e che,
«relativamente
alle funzioni che la normativa di settore attribuisce al
RSPP, l’assenza di capacità immediatamente operative
sulla struttura aziendale non esclude che l’eventuale
inottemperanza
a tali funzioni –e segnatamente la mancata o
erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio
delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure
di sicurezza nonché di informazione e formazione dei
lavoratori– possa integrare una omissione rilevante per
radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro
sia oggettivamente riconducibile ad una situazione
pericolosa
ignorata o male considerata dal responsabile del
servizio».
L’omissione colposa al potere-dovere di
segnalazione
in capo al RSPP, impedendo l’attivazione da
parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di
intervento,
finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento
dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione
della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi,
che, qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza,
imprudenza
o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato
un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare
una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di
lavoro
ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale,
ben può e deve essere chiamato a risponderne insieme
a questi (ex art. 41 c.p., comma 1) dell’evento dannoso
derivatone.
---------------
La sentenza qui presentata fa spicco, in quanto non si
limita
a ribadire gli insegnamenti della Corte Suprema in merito
agli obblighi e alle responsabilità del RSPP (in proposito
v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con
la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale
(artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), VI edizione,
Milano,
2014, 453 ss.), ma ha cura di approfondire l’analisi dei
rapporti tra datore di lavoro e RSPP sotto un profilo non
ancora
adeguatamente esplorato.
Nel caso di specie, l’RSPP, condannato al pari del datore di
lavoro per un infortunio mortale occorso a un lavoratore
durante il lavaggio tramite idropulitrice di pannelli in
conglomerato
cementizio, sostiene a propria discolpa che «il
datore di lavoro aveva negligentemente omesso di indicare
all’interno del documento di valutazione dei rischi la fase
di
lavaggio delle pareti in cemento e la relativa
organizzazione
della zona dell’azienda a ciò destinata, senza peraltro
fornire
in altri modi informazioni utili», e che «la pulitura delle
pareti in cemento avveniva in una zona dello stabilimento
che era destinata, nel documento di valutazione dei rischi,
ad altre fasi della produzione».
La Sez. IV respinge la tesi dell’imputato secondo cui
l’obbligo
dell’RSPP di individuare i fattori di rischio e suggerire
le misure da adottare per la sicurezza e la salubrità
dell’ambiente
di lavoro «presuppone l’indicazione, da parte del datore
di lavoro, nel documento di valutazione dei rischi, dello
specifico aspetto organizzativo interessato dalla possibile
insorgenza di rischi non trova alcun appiglio nel dato
positivo
e ancor prima è manifestamente illogico dal momento
che finisce con l’invertire il rapporto di collaborazione
tra
responsabile del servizio di prevenzione e protezione e
datore
di lavoro, quale presupposto dalla norma, e in definitiva,
come detto, a privare di senso la stessa previsione della
figura del RSPP».
Ritiene «evidente che
non è il datore di lavoro a dover
informare
il RSPP delle modalità e degli aspetti logistici e
organizzativi
di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli
connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente
valutare tali elementi, attraverso una costante
opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e
di
eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione
aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro
onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di
intervento a fini di prevenzione e sicurezza».
Osserva che, «diversamente, la previsione di una siffatta
figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal
momento che, postulandosi un onere informativo in capo
allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso,
contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque
in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie
al fine di un compiuto espletamento dei doveri
prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di
rischi la cui conoscenza derivi da competenze
specialistiche)».
Ne ricava che «il RSPP può essere tenuto a rispondere –proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa
dell’evento– dell’infortunio in ipotesi verificatosi
proprio
in ragione dell’inosservanza colposa dei compiti di
prevenzione attribuitigli dalla legge», e che,
«relativamente
alle funzioni che la normativa di settore attribuisce al
RSPP, l’assenza di capacità immediatamente operative
sulla struttura aziendale non esclude che l’eventuale
inottemperanza
a tali funzioni –e segnatamente la mancata o
erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio
delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure
di sicurezza nonché di informazione e formazione dei
lavoratori– possa integrare una omissione rilevante per
radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro
sia oggettivamente riconducibile ad una situazione
pericolosa
ignorata o male considerata dal responsabile del
servizio».
E spiega che «l’omissione colposa al potere-dovere di
segnalazione
in capo al RSPP, impedendo l’attivazione da
parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di
intervento,
finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento
dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione
della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi,
che, qualora il RSPP, agendo con imperizia, negligenza,
imprudenza
o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato
un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare
una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di
lavoro
ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale,
ben può e deve essere chiamato a risponderne insieme
a questi (ex art. 41 c.p., comma 1) dell’evento dannoso
derivatone» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 10.02.2015
n. 5983
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 5/2015). |
SICUREZZA LAVORO:
RESPONSABILITÀ DEL LIBERO PROFESSIONISTA DIRETTORE DEI
LAVORI IN CASO D’INFORTUNIO.
Il
direttore dei lavori è incaricato, per conto del
committente, di curare l’esatta esecuzione dei lavori,
e svolge
normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica
attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di
questi.
E' irrilevante
il tema della presenza del direttore dei lavori in cantiere
in quanti tale presenza non è da
intendere come presenza fisica costante, durante i lavori,
trattandosi di adempimento in tal caso pressoché
impossibile, ma va intesa come presenza di volta in volta
necessaria a seconda dell’iter dei lavori e delle emergenze.
Il
direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa
del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi di sua assenza
dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di
vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed
in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni
d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria
posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori,
rinunciando all’incarico ricevuto.
---------------
Sempre più incalzante è l’attenzione prestata dalla
giurisprudenza alla posizione di garanzia del direttore dei
lavori in tema di sicurezza del lavoro (v. Guariniello, Il
T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza.
Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437,
449, 575, 582, 589, 590), VI edizione, Milano, 2014, 704 s.,
cui aggiungi Cass. 19.08.2014, n. 35970, Consonni, in Dir.
prat. lav., 2014, 38, 2045; Cass. 16.06.2014, n. 25815,
Corona e altri, in ISL, 2014, 430; Cass. 05.05.2014, n.
18459, Brioschi e altri, ibid., 7, 363).
Nel caso affrontata da questa nuova sentenza, un
professionista «incaricato della redazione del progetto
e, in ogni caso, quale direttore dei lavori, tenuto per ciò
a garantire sia la conformità dell’opera al progetto, sia il
rispetto nell’esecuzione, delle regole della tecnica»,
fu condannato per omicidio colposo in danno di un lavoratore
deceduto nel corso dei lavori di ristrutturazione di un
immobile.
Nel confermare la condanna, la Sez. IV afferma che «il
direttore dei lavori è incaricato, per conto del
committente, di curare l’esatta esecuzione dei lavori»,
e «svolge
normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica
attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse di
questi».
Precisa che «questo rende irrilevante ai fini
dell’addebito finanche la questione dell’essere o no
l’ampliamento della cantina con opere strutturali di cemento
armato ricompreso nel progetto, perché, quale che fosse la
situazione, comunque, l’imputato avrebbe dovuto sorvegliare
l’esecuzione dei lavori; ed anzi, la omissione sarebbe
ancora più evidente laddove l’intervento che ha provocato il
crollo della struttura non fosse neppure previsto in
progetto, palesandosi un comportamento ancora più
accentuatamente violativo dell’obbligazione assunta nei
confronti del committente».
Chiarisce, altresì, che «è irrilevante
il tema della presenza del direttore dei lavori in cantiere»,
in quanto «tale presenza non è da
intendere come presenza fisica costante, durante i lavori,
trattandosi di adempimento in tal caso pressoché
impossibile, ma va intesa come presenza di volta in volta
necessaria a seconda dell’iter dei lavori e delle emergenze».
Prende atto che, «se l’imputato si fosse recato sul luogo
di svolgimento dei lavori, avrebbe notato che gli stessi
erano diversi da quelli segnalati ed eseguiti in violazione
delle regole in tema di prevenzione degli infortuni», e
che «l’iter dello scavo effettuato lungo la muratura del
seminterrato dell’immobile teatro dell’infortunio mortale e
l’impegno che questo non può non aver richiesto avrebbe
dovuto imporre una sorveglianza e una presenza che non vi è
stata, almeno nel momento della verificazione del crollo».
Osserva che «una presenza immediatamente precedente,
laddove fosse stata attenta, avrebbe impedito l’attività che
ha poi originato il crollo».
Ne desume, «così ricostruito il ruolo dell’imputato»,
che «correttamente è stata apprezzata l’inosservanza agli
obblighi cautelari assunti in primo luogo nei confronti del
committente e, conseguentemente la rilevanza di tale
inosservanza ai fini della verificazione dell’evento mortale».
Con riferimento al contenuto degli obblighi del direttore
dei lavori, ricorda che «il
direttore dei lavori è responsabile a titolo di colpa
del crollo di costruzioni anche nell’ipotesi di sua assenza
dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di
vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed
in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni
d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria
posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori,
rinunciando all’incarico ricevuto».
Rileva che, «nella fattispecie in esame, è stato
addebitato all’imputato, nella qualità di direttore dei
lavori nel cantiere relativo ai lavori di ristrutturazione
di un immobile, non solo di avere omesso di intervenire e di
segnalare le specifiche violazioni alla normativa
antinfortunistica ivi realizzate ma di avere contribuito
alla produzione dell’evento anche attraverso la
predisposizione di una S.C.I.A. con l’indicazione di lavori
diversi da quelli indicati nel capitolato, poi eseguiti»
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 23.01.2015 n. 3286
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 3/2015). |
SICUREZZA LAVORO:
La vigilanza impositiva del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori.
Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori
ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le
imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma
deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle
prescrizioni del piano di sicurezza.
Va escluso che «la
sola segnalazione all’impresa esecutrice in ordine alle
inadeguatezze dei ponteggi rispetto ai pericoli di caduta
dall’alto, esaurisca gli obblighi gravanti nei suoi
confronti, dovendosi ricomprendere anche quello della
verifica dell’effettiva e tempestiva predisposizione dei
dispositivi idonei ad evitare la caduta degli oggetti
dall’alto, nei tempi dallo stesso indicati, e dunque prima
dell’accesso degli operai.
---------------
Per l’infortunio occorso a un dipendente di un’impresa
nell’ambito di un cantiere edile, furono imputati, oltre che
il datore di lavoro dell’infortunato e il capo
cantiere, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori
(circa la posizione di garanzia del coordinatore per
l’esecuzione dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione,
Milano, 2014, 659 ss., cui adde Cass. 05.05.2014, Landi e
R.C., in ISL, 2014, 7, 365; Cass. 05.05.2014, Brioschi e
altri, ibid., 2014, 7, 363; Cass. 05.05.2014, Angele, ibid.,
2014, 7, 366).
Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, l’imputato lamenta
che i magistrati di merito, «dopo aver condiviso principi
di legittimità in ordine ai compiti ed ai doveri del
coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dei
lavori, hanno tratto una conclusione del tutto
contraddittoria stabilendo -in presenza delle segnalazioni
delle inadeguatezze effettuate dall’imputato- che, pur non
essendovi un obbligo di vigilanza quotidiana, tuttavia
l’imputato doveva verificare l’effettiva e tempestiva
predisposizione degli appositi dispositivi».
La Sezione feriale ribatte che «il
coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto
compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che
collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche
vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del
piano di sicurezza»;
ed esclude che «la sola segnalazione
all’impresa esecutrice in ordine alle inadeguatezze dei
ponteggi rispetto ai pericoli di caduta dall’alto, esauriva
gli obblighi gravanti nei suoi confronti, dovendosi
ricomprendere anche quello della verifica dell’effettiva e
tempestiva predisposizione dei dispositivi idonei ad evitare
la caduta degli oggetti dall’alto, nei tempi dallo stesso
indicati, e dunque prima dell’accesso degli operai»
(Corte
di Cassazione, Sez. fer. penale,
sentenza 01.09.2014 n. 36510
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 11/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Incidente a scuola: dirigente comunale, preside, ASPP.
Gli
obblighi relativi agli interventi strutturali e di
manutenzione necessari per assicurare ai sensi del D.Lgs. n.
81/2008 la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in
uso a pubbliche amministrazioni o a uffici pubblici, ivi
comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a
carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o
convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione.
In tal caso gli obblighi previsti dal suddetto decreto,
relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti,
da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici
interessati, con la richiesta del loro adempimento
all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha
l’obbligo giuridico.
Trattasi di un rafforzamento della
prevenzione, attribuita dalla legge, su un piano paritario,
a due soggetti: il datore di lavoro ed il
proprietario dell’immobile, secondo il principio di
‘‘effettività della prevenzione’’.
Sul responsabile dell'UTC (ovvero del Responsabile Ufficio
LL.PP.) incombe l’obbligo di verificare l’efficienza della
struttura scolastica e delle sue pertinenze»,
e ciò a prescindere dal fatto che sia stata, o meno, «effettuata
da parte del datore di lavoro effettivo -il dirigente
scolastico- richiesta di intervento per l’esecuzione di
necessarie opere di manutenzione».
--------------
Nel cortile di una scuola materna, durante il periodo di
ricreazione, una minore di anni quattro, mentre giocava con
altri bambini sotto la vigilanza della maestra, a seguito
della caduta di un’anta del cancello, riportava un trauma
cranico con esito mortale.
Per colpa consistita nella violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro furono dichiarati
colpevoli del delitto di omicidio il responsabile dei lavori
pubblici presso l’ufficio tecnico del comune, il dirigente
scolastico del circolo didattico datore di lavoro, l’addetta
al SPPR della scuola, e l’incaricato dalla ditta
appaltatrice di lavori di sistemazione del piazzale della
scuola.
La Sez. IV assolve l’addetta al SPPR, e conferma la condanna
degli altri imputati.
A)
Quanto al dirigente comunale, la Sez. IV osserva che «la
dedotta mancanza di prova circa la conoscenza da parte sua
della fatiscenza del cancello non rileva, poiché,
in considerazione della qualità da lui ricoperta
di responsabile dei lavori pubblici presso l’ufficio tecnico
del comune, di rappresentante dell’ente territoriale
proprietario dell’edificio scolastico, di responsabile della
sicurezza dei luoghi di lavoro, ed, ancor prima, nel periodo
di esecuzione delle opere di sistemazione del piazzale della
scuola, riguardanti anche il cancello, del ruolo di
direttore dei lavori, era suo dovere verificare
(innanzitutto) la bontà dell’esecuzione delle saldature
delle cerniere del cancello, e curarne, poi, la
manutenzione, e, quindi, indipendentemente dalla circostanza
che le condizioni del cancello gli venissero portate a
conoscenza da altri».
Considera rilevante, «non tanto che il
cancello era fatiscente, quanto che, ad ogni apertura di
anno scolastico, egli effettuava dei sopralluoghi presso il
plesso scolastico, per conto del comune, al fine di
verificare che tutto fosse a posto, e costituiva, per la
scuola, il referente in ordine alla soluzione di ogni
questione attinente a lavori, anche minimi, da eseguire
nell’edificio scolastico, tanto che aveva provveduto, su
segnalazione della scuola, a munire il cancello di catena e
lucchetto per evitare l’uso improprio che estranei alla
scuola ne facevano quale scorciatoia per raggiungere un
insediamento abitativo».
Precisa che, «per un tecnico (geometra),
quale è l’imputato, non ci voleva molto per verificare lo
stato del cancello e rendersi conto della sua fatiscenza e,
quindi, della sua pericolosità».
Nel riferirsi alla norma attualmente dettata dall’art. 18,
comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 («Gli
obblighi relativi agli interventi strutturali e di
manutenzione necessari per assicurare ai sensi del presente
decreto la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in
uso a pubbliche amministrazioni o a uffici pubblici, ivi
comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a
carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o
convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso
gli obblighi previsti dal presente decreto, relativamente ai
predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei
dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con
la richiesta del loro adempimento all’amministrazione
competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico»),
chiarisce efficacemente che «trattasi di
un rafforzamento della prevenzione, attribuita dalla legge,
su un piano paritario, a due soggetti: il datore di
lavoro ed il proprietario dell’immobile, secondo
il principio di ‘‘effettività della prevenzione’’»,
e che «sull’imputato
incombeva l’obbligo di verificare l’efficienza della
struttura scolastica e delle sue pertinenze»,
e ciò a prescindere dal fatto che fosse stata, o no, «effettuata
da parte del datore di lavoro effettivo -il dirigente
scolastico- richiesta di intervento per l’esecuzione di
opere di manutenzione sul cancello».
Ritiene l’ipotesi di omicidio colposo aggravata a norma
dell’art. 589, comma 2, cod. pen., sul presupposto che «il
richiamo della norma attualmente dettata dall’art. 18, comma
3, D.Lgs. n. 81/2008, che prevede l’obbligo degli enti
territoriali di provvedere alla manutenzione degli edifici
di cui sono proprietari ed adibiti ad uso pubblico, tra i
quali gli edifici scolastici, individua in capo ai
rappresentanti di detti enti una posizione di garanzia
nell’ambito della sicurezza e prevenzione sul lavoro»,
e sull’ulteriore presupposto che, «in
tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa
ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle
norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è
sufficiente che sussista legame causale tra siffatta
violazione e l’evento dannoso, legame che non può ritenersi
escluso sol perché il soggetto colpito da tale evento non
sia un dipendente (o equiparato) dell’impresa obbligata al
rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il
fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse».
B)
Con riguardo al dirigente scolastico, la Sez. IV
sostiene che, «acclarata la sua
qualifica formale di dirigente scolastico dell’Istituto,
prima del verificarsi dell’evento, è indubitabile la
titolarità della posizione di garanzia alla stregua delle
disposizioni normative già indicate, essendo pacifico che al
preside è attribuita la qualità di datore di lavoro nei
confronti del personale della scuola, non essendo
contestabile la qualificazione di quest’ultima come ‘‘luogo
di lavoro’’, il comportamento dovuto per legge era pertanto
rappresentato dal dovere di richiedere all’ente
territoriale, proprietario del plesso scolastico, un
intervento risolutivo per la eliminazione del pericolo
derivante dalla fatiscenza del cancello, e, nelle more
dell’intervento del comune, dell’adozione di misure di
propria pertinenza e disponibilità per eliminare il pericolo
mediante un ordine di interdizione, con l’apposizione di
ostacoli fisici, di accedere a chicchessia all’area ove
insisteva il cancello.»
E ribadisce che «gli obblighi di
vigilanza e controllo del datore di lavoro, di per sé
delegabili ad altro, non vengono meno con la nomina del
responsabile del servizio prevenzione e protezione al quale
sono demandati compiti diversi intesi ad individuare i
fattori a rischio, ad elaborare le misure preventive e
protettive, le procedure di sicurezza per le varie attività
aziendali.»
C) La
Sez. IV annulla, invece, la condanna dell’addetta al SPPR
nell’ambito scolastico.
Avverte che «il datore di lavoro designa
il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
interno o esterno all’azienda nonché gli addetti al servizio
di prevenzione e protezione interno o esterno all’azienda».
Osserva che «il soggetto cui siano stati
affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione,
ancorché sia privo di poteri decisionali e di spesa, può,
tuttavia, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di
un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente
riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe
avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi
presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla
segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del
datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a
neutralizzare detta situazione».
Aggiunge che «l’assenza di capacità
immediatamente operative sulla struttura aziendale non
esclude che l’inottemperanza alle stesse -e segnatamente la
mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio
delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure
di sicurezza nonché di informazione e formazione dei
lavoratori- possa integrare un’omissione ‘‘sensibile’’ tutte
le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile
a una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del
servizio».
Chiarisce che, «considerata la
particolare conformazione concepita dal legislatore per il
sistema antinfortunistico, con la individuazione di un
soggetto incaricato di monitorare costantemente la sicurezza
degli impianti e di interloquire con il datore di lavoro,
deve presumersi che, ove una situazione di rischio venga dal
primo segnalata, il secondo assuma le iniziative idonee a
neutralizzarla».
Rileva che «l’addetto alla prevenzione e protezione e` un
collaboratore del responsabile della prevenzione e
protezione ed insieme, nella esplicazione dei compiti ad
essi demandati, concorrono alla attuazione ed efficienza del
servizio di prevenzione e protezione».
Con riguardo al caso di specie, prende atto che «il
datore di lavoro era bene a conoscenza della situazione di
pericolo determinata dalla fatiscenza del cancello,
all’esito della redazione e della spedizione al comune del
documento di valutazione dei rischi»,
che «lo stato del cancello ed il
pericolo che ne derivava era noto a tutti già da diverso
tempo anche a seguito di ‘‘passaparola’’»,
e che
«il
responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che
si avvaleva per l’espletamento dei suoi compiti anche della
collaborazione della addetta, era a conoscenza della
situazione ed era in continuo contatto con il preside.»
Considera contraddittorio «ritenere che
il dirigente comunale e il dirigente scolastico hanno posto
in essere una condotta colpevolmente omissiva sebbene
fossero pienamente e perfettamente a conoscenza della
situazione di potenziale pericolo derivante dal cancello de
quo», e «poi
sostenere che l’addetta sia colpevole di non aver effettuato
un’ulteriore segnalazione del pericolo, atteso altresì che,
anche ove fosse stata effettuata, la citata comunicazione
non avrebbe assolutamente evitato l’evento e/o mutato la
situazione di fatto esistente, perché riguardava un pericolo
già a conoscenza del datore di lavoro ed ancor prima dal
responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i
quali, pur a fronte di un proprio potere-dovere di
intervento - potere di cui invece era priva l’imputata -
erano rimasti consapevolmente inerti».
La conclusione è che «la condotta
omissiva contestata alla addetta al SPPR -ovvero l’ulteriore
segnalazione- non avrebbe con ragionevole certezza e/o
elevato grado di probabilità evitato l’evento mortale e ciò
in quanto riguardava un pericolo perfettamente a conosciuto
ai soggetti che erano rimasti inerti e che erano detentori
del potere-dovere di intervento»
(per una vicenda similare, accaduta presso il liceo Darwin
di Rivoli, v. Corte App. Torino, 28.10.2013, est. Grasso,
imp. Delmastro e altri, inedita. Quanto alla posizione di
garanzia del SPPR v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione,
Milano, 2014, 453 ss., e ivi, 477, in particolare, Cass.
26.10.2007, Aimone, ove si rileva: «la
totale omissione di ogni attività sia pure nei limiti della
collaborazione con il datore di lavoro, e specialmente la
mancanza di una formale segnalazione della situazione,
dovuta ai sensi dell’art. 9, lettera a), D.Lgs. n. 626/1994
[ora art. 33, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008] che
impone l’individuazione dei fattori di rischio e delle
misure necessarie per la sicurezza, costituisce un
antecedente causalmente ricollegabile alla verificazione
dell’infortunio, della cui incidenza causale non può
dubitarsi solo perché la pericolosità della situazione era
comunque nota al datore di lavoro; deve infatti ritenersi,
secondo il sistema di prevenzione delineato dal legislatore
con il D.Lgs. n. 626/1994, che la segnalazione formale della
situazione avrebbe indotto il datore di lavoro, dovendosi
presumere il corretto funzionamento del sistema
prevenzionale, a quegli interventi di adeguamento
(sostanzialmente consistenti nell’acquisto e utilizzo di
nuove stive) che invece solo a seguito dell’incidente in
questione vennero adottati»)
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 01.09.2014 n. 36476
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 11/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Le responsabilità del libero professionista direttore dei
lavori.
Va riconosciuto che il direttore dei lavori nominato
dal committente è responsabile dell’infortunio sul lavoro,
quando allo stesso sia affidato il compito di sovrintendere
all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire
ordini alle maestranze; e ciò, sia per convenzione, cioè per
una particolare clausola introdotta nel contratto di
appalto, sia quando, per fatti concludenti, risulti che egli
si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro.
In tema di prevenzione degli infortuni,
il direttore dei lavori nominato dal committente, mentre
svolge normalmente un’attività limitata alla sorveglianza
tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse
di questi, risponde invece dell’infortunio subito dal
lavoratore là dove sia concretamente accertata, come nel
caso di specie, una sua effettiva ingerenza
nell’organizzazione del cantiere.
---------------
Sempre più
pressante è l’attenzione prestata dalla giurisprudenza alla
posizione di garanzia del direttore dei lavori in tema di
sicurezza del lavoro (v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza, VI edizione,
Milano, 2014, 704 ss., cui aggiungi Cass. 16.06.2014, in ISL,
2014, 430; Cass. 05.05.2014, Brioschi e altri, 7, 363).
Nel caso ora esaminato dalla Corte Suprema, un architetto
libero professionista designato come direttore tecnico da
una s.a.s. subappaltante fu condannato per il delitto di
lesione personale colposa, in quanto «aveva consentito, o
comunque non impedito, che il titolare della ditta
subappaltatrice, impegnato nelle operazioni di getto del
calcestruzzo per il completamento di un solaio di copertura
in cemento armato prefabbricato, cadesse al suolo,
provocandosi gravi lesioni personali, a causa del cedimento
di detto solaio, cedimento dovuto all’inadeguatezza delle
opere provvisionali di sostegno, collocate in assenza di uno
specifico calcolo tale da garantire che le armature
supportassero, oltre il peso delle strutture, anche quello
delle persone e dei sovraccarichi eventuali, nonché le
sollecitazioni dinamiche dovute all’esecuzione dei lavori».
A sua discolpa, l’imputato osserva che il proprio ruolo era
limitato «a una mera collaborazione professionale per la
predisposizione dell’istruttoria ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto pubblico, posizione alla
quale non faceva riscontro l’attribuzione di alcuna mansione
in materia di conduzione del cantiere o di sicurezza dei
lavoratori, non disponendo lo stesso, né del tempo
necessario, né delle specifiche competenze indispensabili a
tal fine».
La Sez. IV prende atto che «dal contratto di prestazione
d’opera stipulato tra l’imputato e la s.a.s. è emerso come
all’imputato era stata attribuita la qualifica e le mansioni
di direttore tecnico, unitamente e/o disgiuntamente al
titolare della s.a.s. subappaltante, per la direzione
tecnica dei lavori pubblici eseguiti, e che, con una missiva
inviata dalla società subappaltante al Servizio di
prevenzione degli infortuni sul lavoro della ASL
(coerentemente con il contenuto del contratto di prestazione
d’opera), si precisava come l’architetto,
nell’organizzazione della ditta subappaltante, rivestisse la
funzione di direttore tecnico, come da attestazione SOA, con
competenza sui lavori di carattere edilizio per tutti i
contratti di lavori pubblici di cui alla stessa attestazione
SOA (e quindi ivi compreso il cantiere) sulla base della
specifica professionalità acquisita dallo stesso».
Prende atto, altresì, che l’imputato «disponeva ed
esercitava effettivamente e concretamente i poteri di
gestione e di direzione del cantiere, anche perché spesso
presente in loco impegnato ad attendervi, e ciò anche
nell’immediatezza dell’infortunio, prima del quale
l’imputato, che aveva partecipato all’organizzazione dei
lavori, nessuna direttiva o disposizione aveva impartito ai
fini del corretto e sicuro posizionamento dei puntelli di
sostegno del solaio successivamente crollato».
A questo punto, la Sez. IV richiama «il consolidato
insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del
quale va riconosciuto che il
direttore dei lavori nominato dal committente è responsabile
dell’infortunio sul lavoro, quando allo stesso sia affidato
il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con
la possibilità di impartire ordini alle maestranze; e ciò ,
sia per convenzione, cioè per una particolare clausola
introdotta nel contratto di appalto, sia quando, per fatti
concludenti, risulti che egli si sia in concreto ingerito
nell’organizzazione del lavoro».
Spiega che, «in tema di prevenzione
degli infortuni, il direttore dei lavori nominato dal
committente, mentre svolge normalmente un’attività limitata
alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del
progetto nell’interesse di questi, risponde invece
dell’infortunio subito dal lavoratore là dove sia
concretamente accertata, come nel caso di specie, una sua
effettiva ingerenza nell’organizzazione del cantiere»
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 19.08.2014 n. 35970
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 10/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Coordinatore non informato della ripresa del lavoro o
dell’ingresso di nuova impresa.
L’eventuale sussistenza di profili di colpa
gravanti su altro soggetto destinatario di obblighi
prevenzionali non vale ad escludere quelli specificamente
affermati e gravanti sulla componente datoriale.
Nella specie la rilevanza di eventuali
manchevolezze attribuibili al coordinatore per la
sicurezza è esclusa in radice, in ragione dell’accertata
ripresa dei lavori dopo la sospensione dei medesimi senza
preventiva comunicazione all’architetto che tale ruolo
rivestiva, con conseguente carenza in concreto di una
posizione di garanzia in capo alla menzionata figura
prevenzionale.
---------------
Le funzioni del coordinatore non si limitano a
compiti organizzativi e di raccordo o di collegamento tra le
eventuali varie imprese che collaborano nella realizzazione
dell’opera, ma si estendono anche al compito di vigilare
sulla corretta osservanza da parte delle imprese o della
singola impresa delle prescrizioni del piano di sicurezza e
ciò a maggior garanzia dell’incolumità dei lavoratori.
La presenza in cantiere del
coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile
presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue
dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei
limiti degli obblighi specificamente individuati ora
dall’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008, che comprendono anche
poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave
ed imminente.
Il coordinatore per l’esecuzione «ha
anche il potere di vigilare sul rispetto del piano di
sicurezza da parte dei lavoratori, senza limitarsi ad una
verifica superficiale, che non tenga conto delle molteplici
ed indefinite situazioni di pericolo grave derivanti nei
cantieri dalla violazione sistematica della normativa
antinfortunistica.
---------------
Tra la ricca giurisprudenza in tema di obblighi e
responsabilità del coordinatore per l’esecuzione dei lavori
(per un’ampia analisi dei precedenti in materia v.
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza, VI edizione, Milano, 2014, sub art. 92;
cfr., altresì la sentenza Brioschi sopra riportata),
segnaliamo due sentenze che affrontano un tema rilevante
quale quello relativo alla responsabilità del coordinatore
per l’esecuzione dei lavori disinformato circa la ripresa
della giornata lavorativa o l’ingresso di una nuova impresa.
A)
Cominciamo dalla sentenza Angelé (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.05.2014 n. 18436).
Condannato per un infortunio mortale subito da un dipendente
in un cantiere edile, il datore di lavoro di
un’impresa esecutrice rimprovera ai magistrati di merito di
non aver rilevato le anomalie della condotta tenuta dal
coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
La Sez. IV ribatte che «l’eventuale
sussistenza di profili di colpa gravanti su altro soggetto
destinatario di obblighi prevenzionali non varrebbe a
escludere quelli specificamente affermati e gravanti sulla
componente datoriale»,
e che «nella specie la rilevanza di
eventuali manchevolezze attribuibili al coordinatore per
la sicurezza è esclusa in radice, in ragione
dell’accertata ripresa dei lavori dopo la sospensione dei
medesimi senza preventiva comunicazione all’architetto che
tale ruolo rivestiva, con conseguente carenza in concreto di
una posizione di garanzia in capo alla menzionata figura
prevenzionale».
B) Nel
caso considerato dalla sentenza Landi (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.05.2014 n. 18515),
un operaio, «mentre era impegnato al montaggio di
pannelli prefabbricati, costituenti la facciata
dell’erigendo prefabbricato presso una Università, raggiunta
l’altezza di metri 21,60, a bordo della navetta con cui
terminava il braccio telescopico della piattaforma, a causa
del ribaltamento della predetta navetta, franava al suolo».
Al coordinatore per l’esecuzione dei lavori designato
dall’Amministrazione committente, si addebitò di avere
omesso di «verificare l’applicazione da parte delle
imprese esecutrici delle disposizioni contenute nel piano di
sicurezza e la corretta applicazione delle relative
procedure e di segnalare al responsabile dei lavori
l’inosservanza delle disposizioni», e, segnatamente, di
«avere omesso di segnalare l’inosservanza dell’obbligo di
fornire adeguata informazione al manovratore della
piattaforma aerea in ordine ai rischi per la sicurezza
connessi all’attività lavorativa, nonché di procurargli il
corretto addestramento per la manovra della detta
piattaforma», nonché «l’inosservanza dell’obbligo di
adottare tutte le misure necessarie affinché la piattaforma
aerea fosse installata in conformità alle istruzioni del
fabbricante ed utilizzata correttamente».
Nell’escludere la responsabilità del coordinatore, la Sez.
IV premette che «le funzioni del
coordinatore non si limitano a compiti organizzativi e
di raccordo o di collegamento tra le eventuali varie imprese
che collaborano nella realizzazione dell’opera, ma si
estendono anche al compito di vigilare sulla corretta
osservanza da parte delle imprese o della singola impresa
delle prescrizioni del piano di sicurezza e ciò a maggior
garanzia dell’incolumità dei lavoratori»,
e che «la presenza in cantiere del
coordinatore per la sicurezza non va intesa come stabile
presenza in cantiere, ma secondo il significato che consegue
dalla posizione di garanzia di cui lo stesso è titolare nei
limiti degli obblighi specificamente individuati ora
dall’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008, che comprendono anche
poteri a contenuto impedivo in situazioni di pericolo grave
ed imminente.»
Precisa che il coordinatore per l’esecuzione «ha
anche il potere di vigilare sul rispetto del piano di
sicurezza da parte dei lavoratori, senza limitarsi ad una
verifica superficiale, che non tenga conto delle molteplici
ed indefinite situazioni di pericolo grave derivanti nei
cantieri dalla violazione sistematica della normativa
antinfortunistica».
Prende atto, peraltro, che, nel caso di specie, «la
successione degli eventi dimostrava l’interruzione dei
canali informativi, a seguito della quale vi era la
dimostrazione che nessuna delle ditte presenti nel cantiere
aveva comunicato al coordinatore l’ingresso nel cantiere di
una nuova società, risultata alla fine, l’unica ad avere la
disponibilità della piattaforma aerea cingolata».
Ne desume che il coordinatore «non
era stato posto in condizione di conoscere la disponibilità
di una ditta diversa da quella originariamente prevista nel
piano di sicurezza».
Conclude che «è evidente in questo caso
l’insussistenza rispetto all’evento dannoso del parametro
della prevedibilità»
(tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 7/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Committente, progettista-direttore dei lavori,
coordinatori.
Quanto ai committenti, «la mancata nomina di un
responsabile
dei lavori e la mancata promozione del contatto
tra impresa esecutrice e coordinatore per
l’esecuzione dei lavori pongono gli stessi committenti
nella posizione di diretti destinatari degli
obblighi di vigilanza e verifica sull’operato
della prima posti dalle norme di legge, il
cui inadempimento rileva (nel caso di specie)
sia sotto il profilo causale che sotto quello della
colpa, senza che lo stesso possa ritenersi scriminato
dalla assenza di competenze tali da consentire
di rendersi conto del pericolo incombente».
Con il D.Lgs. n. 81/2008 e già prima con il D.Lgs. n. 494/1996
«la figura del committente trova esplicito riconoscimento
e definizione (‘il soggetto per conto
del quale l’intera opera viene realizzata’’ e ne
vengono esplicitati gli obblighi».
Sicché «l’individuazione di tale peculiare
figura di garante è coerente con la complessiva
configurazione del sistema di protezione in
materia di sicurezza sul lavoro, che tende a
connettere la sfera di responsabilità con il ruolo
esercitato da alcune figure che tipicamente
intervengono nell’ambito delle varie attività
lavorative»:
- «normalmente la figura di vertice
della sicurezza è costituita dal datore di lavoro
che, come è noto, è individuato non solo nel
titolare del rapporto di lavoro, ma anche nel
soggetto che ha la responsabilità dell’impresa,
ed è quindi chiamato a compiere le più importanti
scelte di carattere economico, gestionale
ed organizzativo e ne porta le connesse responsabilità»;
- «è quindi razionale che, nel diverso
contesto dell’attività cantieristica di cui
qui si tratta, emerga anche la figura del committente,
che è il soggetto che normalmente
concepisce, programma, progetta, finanzia l’opera»;
- «tale ruolo giustifica l’attribuzione di
una sfera di responsabilità per ciò che riguarda
la sicurezza e la conseguente assegnazione del
ruolo di garante»;
- «la legge gli attribuisce alcuni obblighi
sia nella fase progettuale che in quella esecutiva,
destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre
figure di garanti legali».
La nomina di un
coordinatore non può esonerare da responsabilità
il committente (o il responsabile dei lavori),
né per ciò che riguarda la redazione del piano di
sicurezza e del fascicolo per la protezione dai
rischi, né per ciò che attiene alla vigilanza sul
coordinatore in ordine allo svolgimento dell’attività
di coordinamento e controllo circa l’osservanza
delle disposizioni contenute nel piano
di sicurezza e di coordinamento.
Una tale congerie di doveri imposti
a carico del committente dalle norme ora
trasposte in termini coincidenti nel Testo Unico
per la sicurezza del lavoro di cui al D.Lgs. 09.04.2008, n. 81), tanto più in quanto non
schermati dalla nomina di un responsabile dei
lavori, configura a carico degli stessi una posizione
di garanzia rilevante ai fini della imputazione
oggettiva anche ad essi, secondo lo schema
della causalità omissiva (del tragico evento de quo).
Nel caso di specie, «la mancata comunicazione al
coordinatore per l’esecuzione dei lavori del nominativo
dell’impresa installatrice del pesante
cancello non è motivo comunque di esonero
da responsabilità per quest’ultimo, i cui obblighi
in tema di coordinamento prescindono dall’assolvimento
dei compiti di cooperazione attribuiti
al committente»,
con la precisazione che
«ciò, lungi dal rendere senza conseguenze tale
mancata cooperazione, ha semmai l’effetto di
rendere più pressante e attuale per il committente
l’obbligo di vigilanza sulle attività del coordinatore,
costituendo essa stessa motivo di
preallarme per il primo sul completo ed efficace
svolgimento dei compiti su questo incombenti».
In tema di prevenzione
nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche
non sono dettate soltanto per la tutela
dei lavoratori nell’esercizio della loro attività,
ma anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente
di lavoro, indipendentemente dall’esistenza
di un rapporto di dipendenza con il titolare
dell’impresa», e «sempre che la presenza
di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente
di lavoro, nel luogo e nel momento
dell’infortunio non rivesta carattere di anormalità,
atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere
interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la
condotta inosservante.
---------------
A proposito
del progettista-direttore dei lavori,
«il ruolo di progettista
del cancello non può di per sé considerarsi fonte
di una posizione di garanzia cui riferire la condotta
omissiva penalmente rilevante attribuitagli,
nessuna norma imponendo infatti al progettista
di un’opera di seguirne e controllarne la sua
concreta esecuzione in modo conforme al progetto
e in condizioni di sicurezza. Però, valorizza
la qualifica di direttore dei lavori al contempo
rivestita dall’imputato nell’occorso».
Al riguardo, «la figura del
direttore
dei lavori è estranea alla disciplina prevenzionistica,
non comportando essa, automaticamente,
la responsabilità per la sicurezza sul lavoro.»
Peraltro, sussiste «in capo allo
stesso l’obbligo di esercitare un’oculata attività
di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere
edilizie (quale pur sempre deve considerarsi
anche l’installazione del cancello in questione,
tanto più in quanto compreso nell’ambito di
un più ampio intervento di ristrutturazione edilizia)
ed in caso di necessità adottare le necessarie
precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere
immediatamente la propria posizione di garanzia
da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando
all’incarico ricevuto».
Sicché «tale obbligo trova fondamento nell’art.
29 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 che, in
materia edilizia, pone a carico del direttore dei
lavori una posizione di garanzia in merito alla
regolare esecuzione dei lavori, che lo rende responsabile,
anche nei confronti dei terzi, dei
danni derivanti dall’esecuzione dell’opera in difformità delle prescrizioni contenute nel permesso
di costruire».
---------------
Relativamente al coordinatore.
Ciò che
fondatamente può rimproverarsi al coordinatore è, non già di aver omesso di seguire passo passo
le singole fasi della installazione del cancello,
né di avvedersi di una contingente e imprevedibile
specifica inosservanza del piano di
coordinamento e sicurezza da parte dell’impresa
esecutrice, ma proprio di aver omesso di
provvedere a una completa e puntuale predisposizione
di tale piano e/o al suo aggiornamento
in modo da comprendere anche tale specifica attività, con ciò venendo meno all’adempimento
degli obblighi di vigilanza, ancorché alta,
connessi al suo ruolo.
L’insorgenza in concreto di tali obblighi
presupponesse la comunicazione da parte dei committenti del
nominativo dell’impresa esecutrice dei lavori di
installazione del cancello scorrevole.
L’omissione da parte dei committenti di tale comunicazione può certamente rilevare
quale fattore causale concorrente addebitabile
agli stessi committenti, ma non vale certo a
esonerare il coordinatore per la sicurezza dall’obbligo
predetto, ben potendo e dovendo egli
autonomamente accertarsi, attraverso l’esame
del progetto esecutivo dell’opera realizzanda,
della natura e consistenza di tutte le opere progettate
e delle conseguenti necessità operative di coordinamento, in
modo da garantire la sicurezza di tutte le operazioni.
E' indubitabile la sussistenza
di una efficacia causale diretta della
violazione della regola cautelare inosservata rispetto
al tragico evento verificatosi, essendo di
tutta evidenza che la predisposizione di un piano
di sicurezza esteso anche alla lavorazione in
questione avrebbe del tutto verosimilmente impedito
che il manufatto fosse lasciato nelle condizioni
di assoluta precarietà e, al contempo, di
agevole accessibilità a chiunque, nelle quali si è
tragicamente trovato ad essere.
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Con questa sentenza di alto profilo, la Sez. IV
esamina un caso particolarmente significativo:
«una bambina, entrata nell’area non recintata
e non segnalata di un cantiere edile veniva a
contatto con il cancello scorrevole in metallo,
del peso di 250 kg, collocato a chiusura dell’unico
accesso carraio, fissato in modo precario e
privo dei relativi fermi a fine corsa, che, ribaltandosi,
le cadeva addosso, cagionandole lesioni
mortali.»
Furono dichiarati colpevoli di omicidio colposo,
oltre che il titolare dell’impresa individuale
appaltatrice dei lavori di realizzazione e posa in
opera del cancello e all’esecutore materiale dell’attività
di installazione della recinzione e del
cancello, i proprietari dell’immobile committenti
dell’opera in assenza della nomina di un
responsabile dei lavori, il direttore dei lavori nonché progettista del cancello, il
coordinatore
in fase di progettazione e di esecuzione.
Illuminanti sono le analisi condotte dalla Corte
Suprema in merito a ciascuna di tali tre figure.
A) Quanto ai committenti, la Sez. IV osserva
che, «ricondotti gli obblighi di vigilanza in capo
ai committenti, nessun rilievo può assumere
la considerazione che la situazione di pericolo
non fosse percepibile ad un non addetto ai lavori», e che «la mancata nomina di un
responsabile
dei lavori e la mancata promozione del contatto
tra impresa esecutrice e coordinatore per
l’esecuzione dei lavori ponevano gli stessi committenti
nella posizione di diretti destinatari degli
obblighi di vigilanza e verifica sull’operato
della prima posti dalle norme richiamate, il
cui inadempimento rileva nel caso di specie
sia sotto il profilo causale che sotto quello della
colpa, senza che lo stesso possa ritenersi scriminato
dalla assenza di competenze tali da consentire
di rendersi conto del pericolo incombente».
Rammenta che,
in passato, «la giurisprudenza
di legittimità escludeva, anche nel contesto dell’attività
cantieristica, che il committente potesse
rispondere delle inadempienze prevenzionistiche
verificatesi nell’approntamento del cantiere
e nell’esecuzione dei lavori, salvo che
non si ingerisse nell’esecuzione dei lavori o privasse
l’appaltatore di autonomia tecnica o operativa
nell’attuazione delle misure di prevenzione
degli infortuni», e che, con il D.Lgs. n. 81/2008 e già prima con il D.Lgs. n. 494/1996,
«la figura del committente trova esplicito riconoscimento
e definizione (‘il soggetto per conto
del quale l’intera opera viene realizzata’’ e ne
vengono esplicitati gli obblighi».
Ne trae che «l’individuazione di tale peculiare
figura di garante è coerente con la complessiva
configurazione del sistema di protezione in
materia di sicurezza sul lavoro, che tende a
connettere la sfera di responsabilità con il ruolo
esercitato da alcune figure che tipicamente
intervengono nell’ambito delle varie attività
lavorative»: «normalmente la figura di vertice
della sicurezza è costituita dal datore di lavoro
che, come è noto, è individuato non solo nel
titolare del rapporto di lavoro, ma anche nel
soggetto che ha la responsabilità dell’impresa,
ed è quindi chiamato a compiere le più importanti
scelte di carattere economico, gestionale
ed organizzativo e ne porta le connesse responsabilità»; «è quindi razionale che, nel diverso
contesto dell’attività cantieristica di cui
qui si tratta, emerga anche la figura del committente,
che è il soggetto che normalmente
concepisce, programma, progetta, finanzia l’opera»; «tale ruolo giustifica l’attribuzione di
una sfera di responsabilità per ciò che riguarda
la sicurezza e la conseguente assegnazione del
ruolo di garante»;
«la legge gli attribuisce alcuni obblighi
sia nella fase progettuale che in quella esecutiva,
destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre
figure di garanti legali».
Sottolinea efficacemente che «la nomina di un
coordinatore non può esonerare da responsabilità
il committente (o il responsabile dei lavori),
né per ciò che riguarda la redazione del piano di
sicurezza e del fascicolo per la protezione dai
rischi, né per ciò che attiene alla vigilanza sul
coordinatore in ordine allo svolgimento dell’attività
di coordinamento e controllo circa l’osservanza
delle disposizioni contenute nel piano
di sicurezza e di coordinamento».
Ne desume che «una tale congerie di doveri imposti
a carico del committente dalle norme ora
trasposte in termini coincidenti nel Testo Unico
per la sicurezza del lavoro di cui al D.Lgs. 09.04.2008, n. 81), tanto più in quanto non
schermati dalla nomina di un responsabile dei
lavori, configuri a carico degli stessi una posizione
di garanzia rilevante ai fini della imputazione
oggettiva anche ad essi, secondo lo schema
della causalità omissiva, del tragico evento
de quo».
Nota, in particolare, che «proprio l’inosservanza
dell’obbligo di mettere in contatto l’impresa
esecutrice dei lavori di installazione del cancello
con il coordinatore per l’esecuzione dei lavori -nell’una e nell’altra direzione- imposto al
committente, da un lato, ha avuto significativa
incidenza nella sequenza causale che ha condotto
al tragico evento, come è possibile agevolmente
cogliere, con giudizio controfattuale,
ove si consideri che l’adempimento di un tale
obbligo avrebbe potuto avere l’effetto di attivare
e sollecitare l’uno e l’altro soggetto rispettivamente
alla predisposizione di un piano operativo
di sicurezza e al controllo della sua realizzazione
e osservanza; dall’altro, ha indubbiamente
reso particolarmente pregnante e cogente
l’obbligo sussidiario di garanzia direttamente
incombente sui committenti ai sensi del citato
art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 494/1996 [ora 93,
comma 2, D.Lgs. n. 81/2008], in particolare
per quel che riguarda la vigilanza sul coordinatore
in ordine allo svolgimento dell’attività di
coordinamento e controllo circa l’osservanza
delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza
e di coordinamento».
Ammette che «la mancata comunicazione al
coordinatore per l’esecuzione dei lavori del nominativo
dell’impresa installatrice del pesante
cancello non è motivo comunque di esonero
da responsabilità per quest’ultimo, i cui obblighi
in tema di coordinamento prescindono dall’assolvimento
dei compiti di cooperazione attribuiti
al committente», ma chiarisce che
«ciò, lungi dal rendere senza conseguenze tale
mancata cooperazione, ha semmai l’effetto di
rendere più pressante e attuale per il committente
l’obbligo di vigilanza sulle attività del coordinatore,
costituendo essa stessa motivo di
preallarme per il primo sul completo ed efficace
svolgimento dei compiti su questo incombenti».
Considera irrilevante che «il tragico evento che
si afferma essere conseguito alle omissioni dei
committenti abbia riguardato terzi e non lavoratori
impegnati nell’esecuzione delle opere commesse
in appalto», poiché, «in tema di prevenzione
nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche
non sono dettate soltanto per la tutela
dei lavoratori nell’esercizio della loro attività,
ma anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente
di lavoro, indipendentemente dall’esistenza
di un rapporto di dipendenza con il titolare
dell’impresa», e «sempre che la presenza
di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente
di lavoro, nel luogo e nel momento
dell’infortunio non rivesta carattere di anormalità,
atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere
interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la
condotta inosservante.»
Afferma che, «nel caso di specie, non è certamente
predicabile un siffatto carattere di eccezionalità
e atipicità della presenza della bambina
e dei suoi genitori sui luoghi del tragico sinistro,
attesa la mancanza di recinzione e segnalazione
e la prossimità di edifici destinati a civile
abitazione».
B) A proposito
del progettista-direttore dei lavori,
la Sez. IV concede che «il ruolo di progettista
del cancello non può di per sé considerarsi fonte
di una posizione di garanzia cui riferire la condotta
omissiva penalmente rilevante attribuitagli,
nessuna norma imponendo infatti al progettista
di un’opera di seguirne e controllarne la sua
concreta esecuzione in modo conforme al progetto
e in condizioni di sicurezza. Però, valorizza
la qualifica di direttore dei lavori al contempo
rivestita dall’imputato nell’occorso».
Al riguardo, ammette che «la figura del direttore
dei lavori è estranea alla disciplina prevenzionistica,
non comportando essa, automaticamente,
la responsabilità per la sicurezza sul lavoro.»
Peraltro, individua nondimeno «in capo allo
stesso l’obbligo di esercitare un’oculata attività
di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere
edilizie (quale pur sempre deve considerarsi
anche l’installazione del cancello in questione,
tanto più in quanto compreso nell’ambito di
un più ampio intervento di ristrutturazione edilizia)
ed in caso di necessità adottare le necessarie
precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere
immediatamente la propria posizione di garanzia
da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando
all’incarico ricevuto».
Ritiene che «tale obbligo trova fondamento nell’art.
29 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 che, in
materia edilizia, pone a carico del direttore dei
lavori una posizione di garanzia in merito alla
regolare esecuzione dei lavori, che lo rende responsabile,
anche nei confronti dei terzi, dei
danni derivanti dall’esecuzione dell’opera in difformità delle prescrizioni contenute nel permesso
di costruire».
Prende atto che, nel caso di specie, i magistrati
di merito hanno, «da un lato, escluso, nei confronti
del direttore dei lavori, l’applicabilità dell’aggravante
della violazione di norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro, dall’altro
focalizzato correttamente il profilo di colpa
ad esso addebitato nell’omesso accertamento
della conformità delle modalità di esecuzione
alle regole della tecnica e nella mancata attiva
vigilanza su tutte le fasi esecutive dell’opera».
C) Lucida è poi l’analisi relativa al coordinatore.
Al riguardo, la Sez. IV rileva come «ciò che
fondatamente può rimproverarsi al coordinatore
è, non già di aver omesso di seguire passo passo
le singole fasi della installazione del cancello,
né di avvedersi di una contingente e imprevedibile
specifica inosservanza del piano di
coordinamento e sicurezza da parte dell’impresa
esecutrice, ma proprio di aver omesso di
provvedere a una completa e puntuale predisposizione
di tale piano e/o al suo aggiornamento
in modo da comprendere anche tale specifica attività, con ciò venendo meno all’adempimento
degli obblighi di vigilanza, ancorché alta,
connessi al suo ruolo».
Esclude che «l’insorgenza in concreto di tali
obblighi presupponesse la comunicazione da
parte dei committenti del nominativo dell’impresa
esecutrice dei lavori di installazione del
cancello scorrevole.»
Spiega che «l’omissione da parte dei committenti di tale comunicazione può certamente rilevare
quale fattore causale concorrente addebitabile
agli stessi committenti, ma non vale certo a
esonerare il coordinatore per la sicurezza dall’obbligo
predetto, ben potendo e dovendo egli
autonomamente accertarsi, attraverso l’esame
del progetto esecutivo dell’opera realizzanda,
della natura e consistenza di tutte le opere progettate
e delle conseguenti necessità operative di coordinamento, in
modo da garantire la sicurezza di tutte le operazioni».
Prende atto che, «nel caso di specie: a) il coordinatore
per la sicurezza aveva, per sua stessa
ammissione, consapevolezza della previsione
del cancello tra le opere in progetto;
b) egli
non poteva non avere contezza del fatto che alla
sua installazione ormai ci si stesse di fatto avviando,
considerato lo stato di avanzamento
dei lavori;
c) di più, egli era presumibilmente
consapevole del progetto esecutivo del cancello
nonché della ditta incaricata, avuto riguardo alla
accertata con titolarità al coordinatore e al progettista-direttore dei lavori del medesimo studio
tecnico associato e considerato che tale circostanza
e lo stretto rapporto di colleganza da essa
desunto sono risultati fonte di conoscenze comuni,
relative ad altri momenti dell’attività del
cantiere e alle sottostanti vicende negoziali e sono
stati anche confermati da alcuni testi».
Nota, a questo punto, che «è indubitabile la sussistenza
di una efficacia causale diretta della
violazione della regola cautelare inosservata rispetto
al tragico evento verificatosi, essendo di
tutta evidenza che la predisposizione di un piano
di sicurezza esteso anche alla lavorazione in
questione avrebbe del tutto verosimilmente impedito
che il manufatto fosse lasciato nelle condizioni
di assoluta precarietà e, al contempo, di
agevole accessibilità a chiunque, nelle quali si è
tragicamente trovato ad essere»
(Circa le figure del committente, del progettista,
del direttore dei lavori e dei coordinatori, v., oltre
le sentenze Landi e Angele qui di seguito,
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza, VI edizione,
Milano, 2014, sub artt. 92 e 93)
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 05.05.2014 n. 18459
- tratto da Igiene e
Sicurezza del Lavoro n. 7/2014). |
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