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AGGIORNAMENTO AL 25.09.2015 |
ã |
Ancora sulla questione della
QUOTA ANNUALE DI
ISCRIZIONE ALL'ALBO/ORDINE PROFESSIONALE dei
tecnici pubblici dipendenti. |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 13.06.2015 ci ponevamo l'interrogativo
del perché la Corte dei Conti non si pronunciasse
(quanto meno, negli ultimi anni a questa parte) in
ordine alla legittimità -o meno- della restituzione
di quanto versato direttamente dal pubblico
dipendente (segnatamente, del tecnico comunale).
Ecco qui la risposta: |
"La richiesta di parere
dev’essere giudicata inammissibile sul piano
oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal
concetto di contabilità pubblica.
Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili
non sono preminenti rispetto ad altre problematiche
di ordine giuridico, che più propriamente devono
essere risolte in diversa sede.
Infatti, non si rinvengono i caratteri di
specializzazione funzionale che caratterizzano la
Corte dei conti in sede consultiva e che
giustificano la relativa attribuzione da parte del
legislatore". |
QUINDI?? |
Facciamocene una
ragione e non perdiamo -inutilmente- tempo prezioso a formulare
ulteriori medesimi quesiti che non troveranno (mai)
risposta (sono sufficienti quei riscontri resi in
illo tempore consultabili nell'apposito
dossier ed assolutamente condivisibili e,
ad oggi, più che mai attuali anche alla luce delle
motivazioni esplicitate nell'AGGIORNAMENTO
AL 14.05.2015 del
perché non sia
legittimo accollare all'ente di appartenenza la
quota annuale di iscrizione) e concentriamoci sulle
altre 1.000 questioni, che ci assillano tutti i
giorni, meritevoli di necessario approfondimento giuridico-contabile per una corretta azione
amministrativa.
Tra l'altro, se il tecnico
comunale/provinciale/regionale che dir si voglia (per quanto qui
interessa) volesse stare "tranquillo" -laddove l'ente
di appartenenza (particolarmente magnanimo) gli
riconoscesse (con consapevole avventatezza: ergo,
con "colpa grave") la somma versata
anticipatamente per l'iscrizione all'albo
professionale- abbia almeno l'accortezza di
acquisire agli atti
il preliminare e
necessario parere favorevole motivato:
del segretario comunale, del responsabile
di ragioneria e del revisore dei conti
(nessuno escluso),
tutti soggetti
deputati a sovraintendere alla legittimità degli
atti amministrativi da adottare, che rispondo
personalmente (laddove il controllo è venuto meno)
per eventuali cagionati danni erariali
(al riguardo si consulti l'apposito
dossier).
Quanto sopra alla luce
di due recentissimi pareri che di seguito
riportiamo.
25.09.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
possibilità o meno, per un comune, di rimborsare a
propri dipendenti la tassa di iscrizione agli albi
professionali, in particolare all’ordine degli
architetti ed all’ordine degli assistenti sociali.
La richiesta di
parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano
oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal
concetto di contabilità pubblica come sopra delineato.
Si
tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non
sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine
giuridico, che più propriamente devono essere risolte in
diversa sede.
Infatti, non si rinvengono i caratteri di
specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei
conti in sede consultiva e che giustificano la relativa
attribuzione da parte del legislatore.
---------------
Il Sindaco del Comune di Ponte dell’Olio (PC) ha
inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere
avente ad oggetto la possibilità, per un comune, di
rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione agli
albi professionali, in particolare all’ordine degli
architetti ed all’ordine degli assistenti sociali.
...
1.3 Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo,
occorre anzitutto evidenziare che la disposizione contenuta
nel comma 8 dell’art. 7 della legge 131 del 2003, deve
essere raccordata con il precedente comma 7, norma che
attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare
il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento
degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di
principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli
enti locali.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il
comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a
quelle del precedente comma rese esplicite, in particolare,
con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere
pareri in materia di contabilità pubblica.
Sull’esatta individuazione di tale locuzione e, dunque,
sull’ambito di estensione della funzione consultiva
intestata alle Sezioni di regionali di controllo della Corte
dei conti, che non può essere intesa quale una funzione di
carattere generale, sono intervenute sia le Sezioni riunite
sia la Sezione delle autonomie con pronunce di orientamento
generale, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 17, comma
31, d.l. n. 78/2009 e dell’articolo 6, comma 4, d.l. n.
174/2012.
Con deliberazione 17.11.2010, n. 54, le Sezioni riunite
hanno chiarito che la nozione di contabilità pubblica
comprende, oltre alle questioni tradizionalmente ad essa
riconducibili (sistema di principi e norme che regolano
l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli
enti pubblici), anche i “quesiti che risultino connessi
alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche nel quadro
di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti
da principi di coordinamento della finanza pubblica (….),
contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi
direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui
pertinenti equilibri di bilancio”.
Di recente, la Sezione delle autonomie, con la deliberazione
n. 3/2014/SEZAUT, ha operato ulteriori ed importanti
precisazioni rilevando come, pur costituendo la materia
della contabilità pubblica una categoria concettuale
estremamente ampia, i criteri utilizzabili per valutare
oggettivamente ammissibile una richiesta di parere possono
essere, oltre “all’eventuale riflesso finanziario di un
atto sul bilancio dell’ente” (criterio in sé riduttivo ed
insufficiente), anche l’attinenza del quesito proposto ad
“una competenza tipica della Corte dei conti in sede di
controllo sulle autonomie territoriali”.
E’ stato, altresì, ribadito come “materie estranee, nel
loro nucleo originario alla contabilità pubblica –in una
visione dinamica dell’accezione che sposta l’angolo visuale
dal tradizionale contesto della gestione del bilancio a
quello inerente ai relativi equilibri– possono ritenersi ad
essa riconducibili, per effetto della particolare
considerazione riservata dal Legislatore, nell’ambito della
funzione di coordinamento della finanza pubblica”: solo
in tale particolare evenienza, una materia comunemente
afferente alla gestione amministrativa può venire in rilievo
sotto il profilo della contabilità pubblica.
Al contrario, la presenza di pronunce di organi
giurisdizionali di diversi ordini, la possibile interferenza
con funzioni requirenti e giurisdizionali delle sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti o di altra
magistratura, nonché il rischio di un inserimento nei
processi decisionali degli enti territoriali, precludono
alle sezioni regionali di controllo la possibilità di
pronunciarsi nel merito.
1.2.2 Sulla base di quanto evidenziato, la richiesta di
parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano
oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal
concetto di contabilità pubblica come sopra delineato. Si
tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non
sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine
giuridico, che più propriamente devono essere risolte in
diversa sede. Infatti, non si rinvengono i caratteri di
specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei
conti in sede consultiva e che giustificano la relativa
attribuzione da parte del legislatore.
La valutazione nel senso dell’inammissibilità della
richiesta, peraltro, è conforme al contenuto della delibera
della Sezione delle autonomie, n. 1/CONTR/11 del 13.01.2011, nonché a pronunce di altre sezioni regionali di controllo
(da ultimo, della Sezione regionale di controllo per la
Toscana, n. 162/2015/PAR, dell’08.06.2015).
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il quesito deve essere considerato
inammissibile; pertanto, il Collegio non può
esaminarlo nel merito
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 16.09.2015 n. 129). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
questione del rimborso a propri dipendenti della
quota di iscrizione ad albi professionali.
Il quesito posto dal comune
deve ritenersi inammissibile, in quanto i dubbi proposti non
afferiscono alla materia della contabilità pubblica, come
delimitata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, al
cui principio di diritto la scrivente Sezione regionale deve
conformarsi in aderenza al dettato normativo.
---------------
Il Sindaco del Comune di Buccinasco (MI), con nota
del 04.06.2015, ha formulato una richiesta di parere
avente ad oggetto il rimborso a propri dipendenti della
quota di iscrizione ad albi professionali. Il Comune,
infatti, aderendo agli orientamenti espressi da diverse
Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, non ha
riconosciuto a propri dipendenti (architetti, ingegneri e
assistenti sociali) il ridetto rimborso.
A seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione
n. 7776 del 16.04.2015, un dipendente, funzionario tecnico,
iscritto all'albo degli architetti della Provincia di
Milano, ha chiesto al Comune il rimborso della tassa di
iscrizione al predetto albo, in relazione a tutto il periodo
2010-2015.
Esposta tale premessa, il Sindaco chiede se l'Ente sia
tenuto ad accogliere la summenzionata richiesta di rimborso
formulata dal dipendente.
Chiede, altresì, se il rimborso della tassa di iscrizione
all'albo professionale sia dovuto anche nel caso in cui il
dipendente istante non sia stato più adibito allo
svolgimento di attività di progettazione e di direzione
lavori per conto dell’ente locale.
...
La funzione consultiva delle Sezioni regionali è inserita
nel quadro delle competenze che la legge n. 131 del 2003,
recante adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha attribuito
alla Corte dei conti.
In relazione allo specifico quesito formulato dal Sindaco
del Comune di Buccinasco (MI), il primo punto da esaminare
concerne la verifica in ordine alla circostanza se la
richiesta rientri nell’ambito delle funzioni attribuite alle
Sezioni regionali della Corte dei conti dall’art. 7, comma
8, della legge 06.06.2003, n. 131, norma in forza della
quale Regioni, Province e Comuni possono chiedere a dette
Sezioni pareri in materia di contabilità pubblica, nonché
ulteriori forme di collaborazione, ai fini della regolare
gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia
dell’azione amministrativa.
I pareri e le altre forme di collaborazione si inseriscono
nei procedimenti amministrativi degli enti territoriali
consentendo, nelle tematiche in relazione alle quali la
collaborazione viene esercitata, scelte adeguate e ponderate
nello svolgimento dei poteri che appartengono agli
amministratori pubblici, restando peraltro esclusa qualsiasi
forma di cogestione o co-amministrazione con l’organo di
controllo esterno (si rinvia, per tutte, alla delibera della
Sezione dell’11.02.2009, n. 36).
Infatti, deve essere messo in luce che
il parere della
Sezione attiene a profili di carattere generale anche se,
ovviamente, la richiesta proveniente dall'ente pubblico è
motivata, generalmente, dalla necessità di assumere
specifiche decisioni in relazione ad una particolare
situazione. L'esame e l'analisi svolta nel parere è limitata
ad individuare l'interpretazione di disposizioni di legge e
di principi generali dell'ordinamento in relazione alla
materia prospettata dal richiedente, spettando, ovviamente,
a quest'ultimo la decisione in ordine alle modalità
applicative in relazione alla situazione che ha originato la
domanda.
Con specifico riferimento all’ambito di legittimazione
soggettiva per l'attivazione di questa particolare forma di
collaborazione, è ormai consolidato l'orientamento che vede,
nel caso del comune, il Sindaco quale organo
istituzionalmente legittimato a richiedere il parere, in
quanto riveste il ruolo di rappresentante dell’Ente.
Il presente presupposto soggettivo sussiste nel quesito
richiesto dal Sindaco del Comune di Buccinasco, con nota del
04.06.2015.
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre
rilevare come la disposizione, contenuta nel comma 8
dell’art. 7 della legge 131, deve essere raccordata con il
precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei
conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri
di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi
statali e regionali di principio e di programma, la sana
gestione finanziaria degli enti locali. Lo svolgimento della
funzione è qualificato dallo stesso legislatore come una
forma di controllo collaborativo.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il
comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a
quelle del precedente comma, rese esplicite in particolare
con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere
pareri in materia di contabilità pubblica.
Appare conseguentemente chiaro che
le Sezioni regionali
della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a
carattere generale in favore degli enti locali, ma che,
anzi, le attribuzioni consultive si connotano sulle funzioni
sostanziali di controllo collaborativo ad esse conferite
dalla legislazione positiva.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha
fissato principi e modalità per l’esercizio dell’attività
consultiva, modificati ed integrati con le successive
delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009. Si è precisato
che
la funzione consultiva non può intendersi come
consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente
alla materia della contabilità pubblica, quindi ai bilanci
pubblici, alle norme e principi che disciplinano la gestione
finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere
generale nella materia contabile.
In seguito, le Sezioni riunite della Corte dei conti, con
pronuncia di coordinamento, emanata ai sensi dell’art. 17,
comma 31, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, hanno delineato
una
nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema
di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e
patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da
intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie
che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi
equilibri (Delibera n. 54 del 17.11.2010).
Il limite della
funzione consultiva, come sopra delineato, fa escludere
comunque qualsiasi possibilità di intervento della Corte dei
conti nella concreta attività gestionale o nei casi di
interferenza, in concreto, con competenze di altri organi
giurisdizionali.
Tanto premesso,
il quesito posto dal comune di Buccinasco
deve ritenersi inammissibile, in quanto i dubbi proposti non
afferiscono alla materia della contabilità pubblica, come
delimitata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, al
cui principio di diritto la scrivente Sezione regionale deve
conformarsi in aderenza al dettato normativo.
Infatti, oltre ai criteri generali esposti nella
deliberazione n. 54/2010 sopra richiamata, le stesse Sezioni
Riunite della Corte dei conti sono intervenute sulla
questione specifica proposta dal Comune di Buccinasco con la
deliberazione n. 1/CONTR/2011 del 13.01.2011, sempre assunta
in funzione nomofilattica ai sensi della normativa prima
esposta.
Con deliberazione n. 722/PAR del 26.10.2010, la Sezione
regionale di controllo per le Marche aveva deferito una
questione di massima tesa a conoscere se rientrasse nel
concetto di contabilità pubblica di cui all’art. 7, comma 8,
della legge 05.06.2003, n. 131, e quindi se fosse
ammissibile, la richiesta di parere concernente il rimborso
delle spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Le Sezioni Riunite hanno ritenuto che solo indirettamente la
questione potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità
pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione
di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le
ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito
della competenza consultiva della Sezione.
P.Q.M.
dichiara non ammissibile l’istanza di
parere (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 274). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell’imputazione ex art. 44 d.P.R. n.
380/2001, non è necessaria la precisa intenzione di non
esporre il cartello riportante gli estremi degli atti
autorizzativi e la descrizione dell’intervento edilizio.
È bastevole l’omissione a titolo di colpa generica.
L’obbligo di esposizione, inoltre, grava sul committente,
oltre che sul direttore dei lavori e sul costruttore, a
titolo di culpa in vigilando.
---------------
4. Il primo motivo del ricorso di F. ed il secondo
motivo del ricorso di C., di analogo contenuto, sono
infondati.
È anzitutto non corretto il presupposto da cui muove
essenzialmente la doglianza sollevata, ovvero che l’elemento
soggettivo del reato de quo non possa consistere in
un atteggiamento di negligenza o trascuratezza.
Va premesso che il costante orientamento di questa Corte si
è posto, sin dalla pronuncia delle Sez. U., n. 7978 del
29/05/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, Rv. 191176,
riferita alla previgente, omologa, disposizione di cui
all’art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985, per giungere
fino ad oggi, nel senso di ritenere che la
violazione, da parte del titolare del permesso a costruire,
del committente, del costruttore o del direttore dei lavori,
dell’obbligo della esposizione di un cartello contenente gli
estremi della concessione e degli autori dell’attività
costruttiva sia penalmente sanzionata a condizione che detto
obbligo sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o
dalla concessione
(cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013,
Stroppini ed altri, Rv. 255836; Sez. 3, n. 46832 del
15/10/2009, Thabet ed altro, Rv. 245613; Sez. 3, n. 16037
del 07/04/2006, Bianco, Rv. 234330).
In particolare le Sezioni Unite, con la pronuncia menzionata
appena sopra, hanno posto l’accento, nel contesto normativo
in allora rappresentato dalla legge n. 47 del 1985,
sull’art. 4 della stessa che, intitolato “vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nella concessione o
nell’autorizzazione”, prevedeva, all’ultimo comma, che
gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero
immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, al
presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei
luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la
concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto
cartello, “ovvero in tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia”, da qui testualmente
desumendo, in particolare, come anche la
sola violazione dell’obbligo di apposizione del cartello
fosse appunto considerata dal legislatore come ipotesi di
presunta violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di
particolare rilevanza ai suindicati fini;
aveva aggiunto, a riprova, come la sistemazione del
prescritto cartello, contenente gli estremi della
concessione edilizia e degli autori dell’attività
costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza
rapida, precisa ed efficiente dell’attività rispondendo allo
scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se i
lavori fossero o meno stati autorizzati dall’autorità
competente.
Di qui, dunque, la riconducibilità della
condotta omissiva in questione all’interno dell’allora
precetto dell’art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985 (e,
oggi, dell’omologo precetto di cui all’art. 44, lett. a),
del d.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla inosservanza
delle norme di cui alla stessa legge.
Deriva dunque, da quanto sin qui ricordato, che
tale condotta omissiva ben può essere sorretta dalla
colpa generica, secondo, del resto, il generale dettato
dell’art. 43 c.p., posto che l’inosservanza del precetto di
esposizione del cartello nel quale la condotta si traduce
appunto ben può avvenire a seguito anche solo di
trascuratezza e di negligenza e non unicamente, come
parrebbe sostenere la ricorrente, a seguito della precisa
intenzione di non adempiere a quanto prescritto.
Anche a non volere considerare che un tale assunto
finirebbe, in realtà, per escludere la possibilità di
realizzazione del reato a titolo di colpa e far ritenere
invece penalmente configurabile unicamente un atteggiamento
doloso, senza che la norma sia formulata (a differenza di
altre fattispecie contravvenzionali) in termini tali da
condurre l’interprete ad un tale approdo esegetico, appare
decisiva la considerazione che “l’inosservanza delle
norme, prescrizioni e modalità esecutive” è, nella
disposizione dell’art. 44, lett. a) cit., la condotta
sanzionata e non già, evidentemente, l’atteggiamento
psicologico unicamente richiesto per la configurabilità del
reato.
Anche l’ulteriore assunto secondo cui la
norma punirebbe unicamente la mancanza del cartello che si
protragga dall’inizio dei lavori edilizi sino alla fine
degli stessi non trova rispondenza nel dettato normativo
che, anzi, attesa la ratio cui la previsione è
informata, ben può includere anche omesse apposizioni del
cartello non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione dei
lavori stessi solo essendo necessario che le stesse abbiano
luogo prima che i lavori siano terminati;
e, nella specie, la sentenza impugnata ha dato atto del
fatto che il cantiere era ancora attivo e i lavori ancora in
corso nel momento in cui venne constatata l’assenza del
cartello e che, in ogni caso, nessuna traccia dello stesso,
secondo la Difesa asseritamente esposto ab origine ma
poi danneggiato e solo successivamente riposizionato, venne
rinvenuta al momento del sopralluogo.
...
6. Il terzo motivo del ricorso di F.A. è
manifestamente infondato.
Va ricordato che l’obbligo di esposizione
del cartello si rivolge, oltre che al costruttore e
direttore dei lavori, anche al committente
(Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini e altri, Rv.
255836) sulla base di quanto espressamente
previsto dall’art. 6 della l. n. 47 del 1985 e, oggi,
dall’art. 29, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001; ne
consegue che il committente-proprietario, autonomamente
responsabile per legge, non può legittimamente abdicare al
proprio obbligo di osservanza semplicemente facendo leva sul
fatto di avere affidato i lavori e persona esperta e
competente come appunto il direttore dei lavori, non essendo
tale solo fatto (né la ricorrente ha allegato né dalla
sentenza risulta che il direttore dei lavori–progettista
avesse fornito rassicurazioni sull’adempimento della
prescrizione) sufficiente a far venire meno la culpa in
vigilando incombente sul committente stesso.
Per tali ragioni questa Corte ha del resto, in più
occasioni, specificato che la
responsabilità del committente trova fondamento
nell’omissione della dovuta vigilanza, cui egli è tenuto in
considerazione del fatto che l’opera soddisfa un suo preciso
interesse; ed infatti ogni committente ha l’obbligo di
accertarsi che i lavori siano eseguiti in conformità alle
prescrizioni amministrative perché la responsabilità penale,
che grava sul destinatario di un obbligo imposto dalla
legge, non può essere delegata ad altri
(Sez. 3 n. 47434 del 24/11/2011, Rossi, Rv. 251636; Sez. 3,
n. 37299 del 04/10/2006, Mazzotta ed altro, Rv. 235075).
La sentenza impugnata, correttamente applicando detti
principi, ha dunque concluso nel senso che,
indipendentemente dal fatto che ella fosse o meno presente
sul cantiere, F.A. era tenuta ad esercitare, con la normale
diligenza, la necessaria vigilanza circa l’adempimento
dell’obbligo di esposizione, anch’ella dunque rispondendo
del reato così come (e sia pure con un grado di colpa
sicuramente inferiore come più oltre si vedrà) il coimputato
progettista e direttore dei lavori (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.09.2015 n. 38380). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
eventuali condizioni di degrado di un bene non costituiscono
ragione sufficiente per recedere dall’intento di tutelare i
valori estetici o paesaggistici dallo stesso rappresentati
poiché l’esistenza stessa del vincolo consente di imporre al
proprietario l’adozione delle cautele e degli interventi
necessari per la conservazione del bene medesimo.
Al riguardo, potrebbe essere in via di principio presa in
considerazione la tesi dell’appellante (secondo cui il
quantum di interventi che è possibile imporre al
proprietario –ad es., nella scelta fra la demolizione e
ricostruzione e la ristrutturazione– dovrebbe giungere
all’esito di una sorta di analisi costi/benefici).
10. Si osserva ancora che la sentenza in epigrafe è
meritevole di puntuale conferma per la parte in cui i primi
Giudici hanno richiamato il consolidato orientamento secondo
cui le eventuali condizioni di degrado di un bene non
costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento
di tutelare i valori estetici o paesaggistici dallo stesso
rappresentati poiché l’esistenza stessa del vincolo consente
di imporre al proprietario l’adozione delle cautele e degli
interventi necessari per la conservazione del bene medesimo
(in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, V, 27.11.2012, n. 5989).
Al riguardo, potrebbe essere in via di principio presa in
considerazione la tesi dell’appellante (secondo cui il
quantum di interventi che è possibile imporre al
proprietario –ad es., nella scelta fra la demolizione e
ricostruzione e la ristrutturazione– dovrebbe giungere
all’esito di una sorta di analisi costi/benefici).
Ma il punto è che (anche a voler seguire tale prospettazione)
l’appellante non ha allegato alcun circostanziato elemento
idoneo a dimostrare che la demolizione e ricostruzione del
manufatto rappresentasse l’opzione più congrua fra quelle
astrattamente possibili, essendosi piuttosto attestata al
livello di mere (ed indimostrate) petizioni di principio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2015 n. 4220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
professionista incaricato deve informare il cliente sui
contrasti giurisprudenziali.
Nell’adempimento
dell’incarico professionale conferito, l’obbligo di
diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di
cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., impone al
professionista di assolvere, sia all’atto del conferimento
del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto,
(anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed
informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a
quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto,
comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del
risultato, o comunque produttive del rischio di effetti
dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in
suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o
proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova
della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro
essendo il rilascio da parte del cliente delle procure
necessarie all’esercizio dello “jus postulandi”, stante la
relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente
deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le
circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del
cliente di una decisione pienamente consapevole
sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire
in giudizio.
Svolgimento del processo
1. Nel luglio del 2002, la E. s.a.s. di R.F. e i suoi soci
accomandatati, R.I., Ra.Ga., R.F., R.L., g. e G., convennero
in giudizio il loro commercialista, dottor B.G., per
sentirlo condannare al risarcimento dei danni loro causati
dal negligente espletamento di un incarico professionale in
relazione all’impugnativa di diversi avvisi di accertamento
emessi dall’ufficio distrettuale delle imposte dirette di
Sanremo nei confronti della E. s.a.s. e dei soci della
stessa.
A seguito di verifica fiscale effettuata dalla Guardia di
Finanza nel settembre del 1993, presso la sede della
società, furono riscontrate irregolarità relative alle
dichiarazioni ILOR e IRPEF per l’anno 1992. Irregolarità che
avevano dato seguito ad avvisi di accertamento notificati
alla società ed ai soci personalmente.
Sostennero gli attori che avevano conferito incarico al
dottor B. di proporre opposizione avanti alla Commissione
Tributaria di Imperia. Opposizione che non fu accolta perché
i ricorsi depositati furono dichiarati inammissibili in
quanto sottoscritti dalle parti personalmente e non dal
difensore tecnico come richiedeva il D.Lgs. n. 546 del 1992,
art. 18, comma 3, nelle more entrato in vigore. La
riscontrata irregolarità formale dei ricorsi impedì al
giudice tributario di verificare i motivi di merito addotti
dai contribuenti.
Mentre analoghe impugnazioni, presentate successivamente,
che si fondavano sugli stessi motivi ebbero esito
vittorioso.
Si difese il B. contestando la fondatezza delle domande
proposte nei suoi confronti sostenendo, da un lato, che non
era possibile che i ricorsi in questione anche se
regolarmente sottoscritti sarebbero stati accolti e,
dall’altro, che gli attori non avevano impugnato in
cassazione le pronunce della Commissione Tributaria
Regionale determinando così la loro definitività.
Chiese, in ogni caso, di essere autorizzato a chiamare in
causa le compagnie assicurataci Zurigo e Milano
Assicurazioni per essere eventualmente manlevato.
Il Tribunale di Sanremo, con sentenza del 13.04.2007,
ritenne provata l’esistenza del rapporto professionale tra
gli attori e B. in forza del quale aveva predisposto i
ricorsi oggetto di causa, nonché la colpevolezza del
professionista per avere ignorato una disposizione di legge.
Ma che ciò nonostante, non era possibile ritenere che
esistesse la probabilità che i ricorsi, anche se
correttamente presentati, sarebbero stati accolti. Respinse
perciò le domande proposte dagli attori e la domanda con cui
la Milano Assicurazione aveva chiesto la restituzione della
somma di Euro 12.000 che aveva versato agli attori per
consentire loro di aderire al condono fiscale.
2. La decisione è stata confermata, ma con diversa
motivazione, dalla Corte d’Appello di Genova, con sentenza
n. 16 dell’11.01.2011. La Corte ha ritenuto la condotta del
B. non colpevole e che, pertanto, non poteva essere chiamato
a rispondere delle conseguenze dannose causate agli attori
dalla reiezione dei ricorsi.
I giudici della Corte territoriale hanno motivato che nelle
more del processo di appello, sono intervenute pronunce
della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione che
hanno affermato che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18,
comma 3, era stato interpretato nel senso che
l’inammissibilità del ricorso sottoscritto dalla parte e non
dal suo difensore scaturiva solo dall’inosservanza
dell’ordine impartito dal Giudice Tributario di munirsi di
difensore.
Pertanto, non è stata la condotta del B. l’antecedente
causale del danno che gli attori lamentano ma piuttosto la
loro scelta di non far valere innanzi la Suprema Corte le
ragioni che esistevano per ottenere la riforma delle
pronunce della Commissione Tributaria Regionale.
Conseguentemente erano gli attori i soli responsabili della
definitività degli accertamenti svolti dagli uffici
finanziari. La Corte territoriale ha dichiarato tardiva la
domanda di restituzione proposta dalla Milano Assicurazione
contro gli attori.
3. Avverso tale decisione, la E. di R.F. ed i suoi soci
propongono ricorso in Cassazione sulla base di tre motivi.
3.1. B. e le società assicuratrici non svolgono attività
difensiva.
Motivi della decisione
4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la “violazione
e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., e D.Lgs. n. 546
del 1992, art. 18; contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio”.
Lamentano che i giudici del merito hanno errato
nell’interpretare il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, alla
luce della giurisprudenza formatasi tra il 2000 e 2004
perché si riferisce ad un’ipotesi di assenza di assistenza
tecnica nel giudizio tributario. Nel caso di specie, invece,
i mandati in favore del B. esistevano ma il professionista
non aveva sottoscritto ricorsi.
Inoltre la Corte d’Appello erroneamente imputa agli odierni
ricorrenti di non avere interposto ricorso per cassazione
avverso le pronunce sfavorevoli della commissione tributaria
regionale non considerando che il B. ha confessato il suo
errore professionale. Infatti fu lui a sconsigliare il
ricorso per cassazione. In ogni caso denunciano che il B.
non ha svolto il suo mandato secondo i criteri della
diligenza.
4.2. Con il secondo motivo, la società e i suoi soci
lamentano la “contraddittorietà della motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360
c.p.c., n. 5)".
Lamentano i ricorrenti che la sentenza impugnata è errata,
contraddittoria e sfornita di prova nel punto in cui
sostengono che la condotta del B. non è stata l’antecedente
causale del danno, ma la loro scelta di non impugnare
dinanzi alla Suprema Corte per ottenere la riforma della
sentenza della Commissione Tributaria Regionale. In tale
motivazione i giudici omettono di considerare che nel corso
delle risultanze istruttorie era emersa la responsabilità
del B. ed, in particolare, il fatto che il professionista ha
condiviso il proprio convincimento con i clienti di non
impugnare in Cassazione.
4.3. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano la “contraddittorietà
della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
La società ed i suoi soci lamentano che la statuizione delle
spese di giudizio effettuata dal giudice di appello nel
dispositivo e del tutto contraddittoria ed inconciliabile
con tutti gli altri capi del dispositivo stesso, nonché con
la parte motiva del provvedimento impugnato.
5. I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente per la
loro connessione e sono entrambi fondati.
È principio consolidato di questa Corte che
nell’adempimento
dell’incarico professionale conferito, l’obbligo di
diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di
cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., impone al
professionista di assolvere, sia all’atto del conferimento
del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto,
(anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed
informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a
quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto,
comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del
risultato, o comunque produttive del rischio di effetti
dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in
suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o
proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova
della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro
essendo il rilascio da parte del cliente delle procure
necessarie all’esercizio dello “jus postulandi”,
stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed
univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine
a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da
parte del cliente di una decisione pienamente consapevole
sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire
in giudizio (Cass. n. 14597/2004; Cass. n. 16023/2002).
Nel caso di specie la motivazione della sentenza dei giudici
del merito è carente proprio in punto di informazione. Non
emerge, infatti, se il professionista nell’espletamento del
suo mandato sia stato diligente nell’aver rappresentato, ed
informato, i suoi clienti di tutte le circostanze necessarie
per poter assumere una decisione consapevole finalizzata ad
impugnare i provvedimenti della Commissione Tributaria
Regionale.
In particolare, assunto il dato che circa l’obbligo di
assistenza tecnica nel processo tributario di cui al D.Lgs.
n. 546 del 1992, art. 18, sussisteva a quel tempo quanto
meno un contrasto interpretativo, il professionista avrebbe
avuto, per quanto premesso, il dovere di informare il
cliente della possibilità di un ricorso per cassazione, allo
scopo di sperimentare una possibilità di esito favorevole,
fatte ovviamente le opportune valutazioni in concreto in
ordine alla possibilità di successo del ricorso anche nel
merito delle questioni tributarie dedotte in giudizio,
attraverso cioè un ponderato bilanciamento tra il costo del
rimedio impugnatorio ulteriore e le possibilità di ricavarne
concreta utilità. Onde rimettere, in definitiva, la
responsabilità della decisione ad una ponderata delibazione
del cliente stesso.
Su tutto questo, non risulta che sia stata esperita una
indagine di merito (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 14.07.2015 n. 14639). |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
novella (di cui alla legge n. 114 dell’11.08.2014, di
conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90), nel confermare la possibilità di remunerare i
dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate
attività secondo i modi e criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata
applicativa della disciplina precedente.
---------------
La formulazione della norma (co. 7-bis, dell’art. 93, del
d.lgs. n. 163 del 2006) ed il richiamo,
contenuto nello stesso comma, alla necessità che venga
adottato da ogni ente un regolamento che contenga
l’indicazione del limite massimo di risorse destinate alla
predetta finalità e la disciplina di riparto induce a
ritenere che le risorse confluiscano in un
fondo a gestione autonoma e regolata dal citato regolamento
e non nell’ordinario fondo di cui all’art. 15, co. 1, lett.
k), del CCNL del 01.04.1999, che presenta modalità di
costituzione e gestione basate su diversi presupposti.
---------------
Mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap
grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate
disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto
conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”,
l’amministrazione non potrà che quantificare le
disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre
retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle
citate disposizioni).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura
degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in
sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione
e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle
risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione.
---------------
E’ indubbio che le somme destinate all’IRAP
non possono che ricadere all’interno della quota dell’80%
dell’incentivo destinato al personale, considerato che il
restante 20% deve essere destinato all’acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, nonché di implementazione di banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa e che,
come si è visto in relazione al secondo quesito, le somme
destinate al pagamento dell’IRAP rientrano nell’ammontare
delle risorse complessivamente destinate ad essere inserite
nel fondo per la progettazione e l’innovazione.
---------------
Il diritto all’incentivo deve essere
corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in
cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività
incentivate senza che possa essere modificato da
disposizioni di legge successive che ne riducano i
presupposti e ne limitino l’entità”.
In relazione alle attività in corso, la Sezione ha chiarito
che “i soggetti incaricati della
redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire
l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al
momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si
esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi
positivamente i successivi controlli che ne attestino la
regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che,
rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa
del dipendente, potranno pertanto intervenire anche
successivamente alla data di entrata in vigore della
riforma.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa,
maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella
citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con
riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata
la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei
giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà
essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo
l’entrata in vigore della riforma.
Occorre precisare, però, che gli incentivi
maturati prima dell’entrata in vigore possono essere
liquidati nei limiti in cui si siano verificate tutte le
condizioni previste dalla normativa vigente in precedenza.
---------------
Deve ritenersi che il Regolamento in
corso di predisposizione (da parte del comune) possa disciplinare la situazione
transitoria al fine di evitare incertezze e contenere in un
unico testo le regole che disciplinano questa specifica
materia, ovviamente sulla base della disciplina vigente fino
al 19.08.2014, senza apportare alcuna innovazione che possa,
in qualche, modo limitare i diritti già maturati o sanare
precedenti irregolarità.
Le risorse che confluiscono nel fondo per l’innovazione e
l’incentivazione sono destinate a remunerare l’attività
lavorativa del personale e, pertanto, sono soggette ai
limiti di spesa che l’Ente locale è tenuto ad osservare in
materia di spesa per il personale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Solaro ha inoltrato alla Sezione
alcuni quesiti con i quali, “al fine di non incorrere in
errori interpretativi sull’approvazione del regolamento”
“per la costituzione e la ripartizione del fondo per la
progettazione e l’innovazione – art. 93, comma 7-bis, D.Lgs
163/2006”, ha domandato l’avviso della Sezione in ordine
ad alcuni profili interpretativi della disposizione
richiamata sopra.
...
La magistratura contabile, come ricordato dallo stesso
Sindaco di Solaro nella richiesta di parere, in più
occasioni ha fornito indirizzi interpretativi nella materia
della costituzione e ripartizione di quello che oggi viene
denominato fondo per la progettazione e l’innovazione, sia
prima che dopo le modifiche introdotte dall’art. 13-bis
della legge n. 114 dell’11.08.2014, di conversione del
decreto legge 24.06.2014, n. 90.
Al riguardo è opportuno mettere in luce che la Sezione, dopo
le modifiche introdotte dal citato art. 13-bis della legge
n. 114 del 2014, ha reso già alcuni pareri con i quali, dopo
aver rilevato che l’art. 13 del d.l. n. 90 del 2014 aveva
abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. 12.04.2006, n.
163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la
previgente disciplina relativa agli incentivi spettanti a
dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le
attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma
6) con l’art. 13-bis, introdotto in sede di conversione nel
d.l. e in vigore dal 19.08.2014, aveva dettato una nuova
disciplina risultante dai co. 7-bis – 7-quinquies dell’art.
93 del Codice dei contratti.
E’ stato precisato, in particolare, che “La
novella, nel confermare la possibilità di remunerare i
dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate
attività secondo i modi e criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata
applicativa della disciplina precedente”
(Sez. contr. Lombardia,
parere 05.05.2015 n. 191).
Richiamando, quindi, il contenuto della precedente
giurisprudenza contabile e, in particolare, le indicazioni
contenute nel citato
parere 05.05.2015 n. 191 della Sezione,
in relazione ai singoli quesiti posti dal Sindaco del Comune
di Solaro si osserva quanto segue:
1. Con il primo quesito viene domandato alla Sezione
se le somme da stanziare per la costituzione del fondo
previsto dal co. 7-bis, dell’art. 93, del d.lgs. n. 163 del
2006 debbano transitare nel fondo incentivante per la
produttività dei dipendenti comunali di cui all’art. 15, co.
1, lett. k), ovvero se debbano essere considerate in modo
autonomo.
In proposito, si osserva che il nuovo comma 7-bis del d.lgs.
n. 163 del 2006, introdotto dalla legge di conversione del
citato d.l. n. 90 del 2015, prevede che “le
amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la
progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro”.
La formulazione della norma ed il richiamo,
contenuto nello stesso comma, alla necessità che venga
adottato da ogni ente un regolamento che contenga
l’indicazione del limite massimo di risorse destinate alla
predetta finalità e la disciplina di riparto induce a
ritenere, come
peraltro ipotizzato dal Sindaco di Solaro nella richiesta di
parere, che le risorse confluiscano in un
fondo a gestione autonoma e regolata dal citato regolamento
e non nell’ordinario fondo di cui all’art. 15, co. 1, lett.
k), del CCNL del 01.04.1999, che presenta modalità di
costituzione e gestione basate su diversi presupposti.
2. Con il secondo quesito il Sindaco di Solaro “chiede
se anche le somme destinate per l’IRAP debbano essere
incluse nel tetto del 2 per cento (come sembra chiarito
dalla deliberazione n. 33 del 30/06/2010 delle Sezioni
Riunite) oppure se debbano essere previste in aggiunta a
quelle determinate per il tetto del 2 per cento”.
Il dubbio posto dal Sindaco di Solaro non ha ragion d’essere
poiché, come rilevato dallo stesso richiedente, le Sezioni
riunite della Corte dei conti in sede di controllo hanno
statuito che “mentre sul piano
dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap
grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate
disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto
conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”,
l’amministrazione non potrà che quantificare le
disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre
retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle
citate disposizioni).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura
degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in
sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione
e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle
risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione”
(la
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010).
3. Con il terzo quesito, viene domandato se, tenuto
conto della ripartizione introdotta dal co. 3 dell’art. 93
del d.lgs. n. 163 del 2006, le somme riferite all’IRAP “debbano
essere incluse nella quota dell’80%” dell’incentivo
(destinato al personale) “oppure se possano esser incluse
nella quota del 20%” dell’incentivo (destinato
all’acquisto di strumentazioni, implementazione banche dati
e simili) “oppure se non debbano essere incluse
nell’incentivo e debbano, invece, essere finanziati con
mezzi propri di bilancio”.
E’ indubbio che le somme destinate all’IRAP
non possono che ricadere all’interno della quota dell’80%
dell’incentivo destinato al personale, considerato che il
restante 20% deve essere destinato all’acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, nonché di implementazione di banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa e che,
come si è visto in relazione al secondo quesito, le somme
destinate al pagamento dell’IRAP rientrano nell’ammontare
delle risorse complessivamente destinate ad essere inserite
nel fondo per la progettazione e l’innovazione.
4. Con il quarto quesito, viene domandato se la “liquidazione
dell’incentivo relativo in parte ad opere risalenti agli
anni 2004–2014 ed in parte ad opere in corso al momento di
entrata in vigore della legge 11/08/2014, n. 114” possa
avvenire “in base ai criteri di ripartizione già esistenti e
determinati in questo Ente con una delibera di Giunta
comunale, ma non disciplinati da apposito regolamento,
tenuto presente anche del fatto che le stesse non sono state
fatte transitare nel fondo di cui all’art. 15, comma 1,
lett. k), del CCNL 01.04.1999”.
Con il citato
parere 05.05.2015 n. 191, la Sezione,
richiamando la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie riguardante una analoga
questione derivante da una precedente riformulazione
dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del codice dei
contratti pubblici, ha chiarito già che “il
diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base
della normativa vigente al momento in cui questo è sorto,
ossia al compimento delle attività incentivate senza che
possa essere modificato da disposizioni di legge successive
che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità”.
In relazione alle attività in corso, la Sezione ha chiarito
che “i soggetti incaricati della
redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire
l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al
momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si
esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi
positivamente i successivi controlli che ne attestino la
regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che,
rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa
del dipendente, potranno pertanto intervenire anche
successivamente alla data di entrata in vigore della
riforma.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa,
maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella
citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con
riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata
la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei
giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà
essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo
l’entrata in vigore della riforma”
(parere
05.05.2015 n. 191).
Occorre precisare, però, che gli incentivi
maturati prima dell’entrata in vigore possono essere
liquidati nei limiti in cui si siano verificate tutte le
condizioni previste dalla normativa vigente in precedenza
(sul punto si richiama: Corte dei conti, Sezione regionale
di controllo per la Lombardia,
parere 15.10.2013 n. 442), sia con riferimento al concreto avvio della
realizzazione dell’opera che alla costituzione del fondo e
alle modalità di ripartizione del fondo che dovevano essere
stabilite dal Regolamento comunale.
5. Il quinto quesito è diretto ad appurare se nel
regolamento in corso di predisposizione “possa essere
inserita una norma transitoria disciplinante le situazioni
precedenti alla data del 19.08.2014 e non ancora concluse
ossia quelle che vanno dal 2004 al 2014 e se sia corretto
ritenere che le somme relative a detti incentivi siano
compatibili con la normativa concernente il contenimento
della spesa di personale e quella riguardante il conto
annuale delle spese di personale, considerato che l’art. 90,
commi 1 e 6, del D.Lgs. 163/2006, obbliga le amministrazioni
pubbliche ad utilizzare, in prima istanza, il personale
tecnico interno per la redazione del progetto preliminare,
definitivo ed esecutivo”.
Al riguardo, richiamando quanto indicato al precedente punto
4., deve ritenersi che il Regolamento in
corso di predisposizione possa disciplinare la situazione
transitoria al fine di evitare incertezze e contenere in un
unico testo le regole che disciplinano questa specifica
materia, ovviamente sulla base della disciplina vigente fino
al 19.08.2014, senza apportare alcuna innovazione che possa,
in qualche, modo limitare i diritti già maturati o sanare
precedenti irregolarità.
Le risorse che confluiscono nel fondo per l’innovazione e
l’incentivazione sono destinate a remunerare l’attività
lavorativa del personale e, pertanto, sono soggette ai
limiti di spesa che l’Ente locale è tenuto ad osservare in
materia di spesa per il personale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 276). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nessun
incentivo di progettazione può essere corrisposto per le
opere di manutenzione straordinaria compiute dopo il
19.08.2014.
---------------
Sul punto oggetto della richiesta di parere, afferente la
possibilità di compensare le attività di progettazione
inerenti le attività di manutenzione, le numerose pronunce
intervenute in argomento hanno enucleato alcuni
principi che possono essere cosi compendiati:
a) la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata
all’area degli appalti pubblici di lavori e non si estende
agli appalti di servizi manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di
manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre
che alla base sussista una necessaria attività progettuale
(ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le
fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed
esecutiva);
c) vanno esclusi dall’ambito di applicazione dell’incentivo
tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si
proceda mediante svolgimento di una gara (come in caso di
lavori di manutenzione eseguiti in economia).
A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l.
90/2014, l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della
norma
fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità
dell’incentivo di progettazione all’intero novero di
attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie
che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di
una preventiva attività di progettazione.
---------------
Sulle modalità
di determinazione del compenso spettante al dipendente
avvocato in caso di vittoria in sede giudiziale, è stato
sottolineato che:
da una parte
l’Irap grava,
giuridicamente, sull’amministrazione comunale in quanto il
presupposto stesso dell'imposta, indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive integrazioni, è,
infatti, costituito dall'esercizio abituale di una attività
autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo
scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. La
disposizione è strettamente collegata al successivo articolo
3, che individua i soggetti passivi dell'imposizione; la
mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei
lavoratori dipendenti comporta, ex se, la
inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna
degli Enti;
dall’altra parte, però, le somme destinate al pagamento
dell’Irap devono trovare copertura finanziaria nell’ambito
dei fondi destinati a compensare l’attività incentivata nel
rispetto del principio di cui all’art. 81, comma 4, della
Costituzione: e ciò in quanto “le somme indicate per
fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di
spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i
miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità
complessive massime e, pertanto, non superabili. In
sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti
pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non
trovino adeguata copertura".
Tali principi possono essere utilizzati anche nel caso di specie
(incentivo progettazione interna) nel
senso di escludere l’Irap dall’ambito degli oneri riflessi,
restando in capo all’Ente l’obbligo giuridico di provvedere
al pagamento della stessa, e dovendo le risorse per
finanziare il pagamento del tributo gravare sui fondi
destinati a compensare l’attività.
---------------
Il Sindaco del Comune di Conegliano (TV), con la suindicata
nota, sollecita l'esercizio della funzione consultiva da
parte di questa Sezione su alcune problematiche in materia
di applicabilità delle previsioni di cui all'art. 93, comma
7-bis e ss, del D.Lgs, 12.04.2006 n. 163, come introdotti
dal D.L. 24.06.2014 n. 90 convertito in L. 11.08.2014 n.
114, agli incentivi previsti per la realizzazione di lavori
di manutenzione straordinaria.
Con la richiesta in epigrafe, richiamando a tal
proposito il
parere 17.12.2014 n. 141 della Sezione regionale di controllo per
le Marche ed il
parere 12.11.2014 n. 237 della Sezione
regionale di controllo per la Toscana, si
chiede, in particolare, parere in merito alla possibilità di
annoverare gli interventi di manutenzione straordinaria tra
le opere che si possano considerare ai fini del riparto del
fondo per la progettazione e l'innovazione di cui alle
previsioni normative richiamate, atteso che il comma
7-ter dell'art. 93 prevede che il regolamento da adottarsi a
cura dell'amministrazione definisca i criteri di riparto di
dette risorse "...escludendo le attività manutentive...".
Con la stessa nota, il Sindaco chiede altresì se le somme
destinate al pagamento degli emolumenti in parola debbano
intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori, e, quindi,
siano comprensive -oltre che degli "oneri previdenziali
ed assistenziali a carico dell'amministrazione"
espressamente menzionati dall'art. 93, comma 7-ter- anche di
quelli fiscali, quali l'Irap, ovvero se gli oneri debbano
trovare capienza nel tetto dell'80% delle risorse del fondo
per la progettazione e l'innovazione da ripartirsi tra il
personale interessato secondo le modalità ed i criteri
previsti dal regolamento comunale oppure debbano trovare
diversa copertura nel bilancio.
Analogo quesito viene rivolto con riferimento ai compensi
incentivanti professionali spettanti agli avvocati.
Tale richiesta viene avanzata alla luce delle diverse
letture espresse da alcune Sezioni regionali a seguito della
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010 delle Sezioni riunite della Corte dei Conti (cfr.
il
parere 02.12.2010 n. 543 della Sezione regionale
di controllo per l'Emilia Romagna, il
parere 07.07.2014 n. 127 della
Sezione regionale di controllo per la Puglia, la deliberazione della Sezione regionale di
controllo per l'Umbria n. 25/PAR/2014 e la deliberazione
della Sezione regionale di controllo per la Liguria n.
38/PAR/2014), nonché della recente pronuncia della Sezione
delle autonomie n. 21/SEZAUT/2015/QMIG seppur relativa alla
diversa fattispecie dei diritti di rogito.
...
II. La richiesta di parere avanzata dal Comune di Conegliano
assume, peraltro, un sufficiente carattere di generalità
tale da poter consentire alla Sezione di esprimersi nel
merito, circa cioè la portata applicativa della norma
contenuta nel D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla Legge
11.08.2014, n. 114, che ha mantenuto ferma la possibilità di
attribuire, nell’ambito di un apposito “fondo per la
progettazione e l’innovazione”, un incentivo ai
dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi
tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed
esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 13-bis, introdotto dalla legge di conversione,
nell’abrogare il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006,
ha inserito, nel corpo dell’art. 93 del citato d.lgs. n.
163/2006, i quattro commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e
7-quinquies.
Il comma 7-ter, che qui maggiormente interessa, così recita:
“L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per
la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale e
adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta
offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del
presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione
dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti
elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.
Il Collegio precisa preliminarmente al riguardo come
la
normativa in esame sugli incentivi costituisca una
fattispecie derogatoria del principio di onnicomprensività.
Questa Sezione (ex multis, cfr.
parere 22.11.2013 n. 361)
ha avuto modo di sottolineare che detto principio trova
espresso fondamento negli artt. 2, comma 3 e 24, comma 3 del Dlgs. 165/2001 in virtù del quale il trattamento economico
stabilito dalla contrattazione collettiva remunera tutte le
funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti nonché
qualsiasi incarico ad essi conferito dall’amministrazione
presso cui prestano servizio o su designazione della stessa,
mentre per il personale non dirigente, esso trova la sua
enunciazione nella norma contenuta nell’art. 45 del Dlgs.
165/2001.
In virtù di tale principio, nulla è dovuto,
oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio
stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha
svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio
(cfr. Corte dei Conti Puglia, sezione giurisdizionale,
sentenza 20.07.2010 n. 464,
sentenza 22.07.2010 n. 475 e
sentenza 02.08.2010 n. 487).
Il principio si coniuga con quello, previsto parimenti dalle
norme citate, della riserva alla contrattazione collettiva
in tema di determinazione del corrispettivo delle
prestazione dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che
solo il contratto collettivo nazionale, può fissare
onnicomprensivamente il trattamento economico, mentre quello
decentrato assume rilevanza nei limiti di quanto disposto
dalle fonti nazionali.
In ambo i casi, solo la legge può derogare a tale sistema,
prevedendo talora ulteriori specifici compensi (Sez.
Autonomie n. 7/2014 e Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11
del 04.10.2011) o addirittura la possibilità di una diversa
strutturazione del trattamento economico (cfr., ad esempio,
gli artt. 24 e 45 del D.lgs. n. 165 del 2001), sia sul piano
qualitativo che su quello quantitativo: con la conseguenza
che, in quanto tale, costituisce un’eccezione di stretta
interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle
disposizioni preliminari al codice civile: Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008), essendo regola generale quella
secondo cui il contratto individuale o una determinazione
unilaterale dell’ente (ad esempio un regolamento) non
possono determinare il corrispettivo e, dall’altro, che tale
corrispettivo retribuisce ogni attività che ricade nei
doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività).
IV. Sul punto oggetto della richiesta di parere, afferente
la possibilità di compensare le attività di progettazione
inerenti le attività di manutenzione, le numerose pronunce
intervenute in argomento (ex multis: Sez. controllo
Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72,
parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246
e
parere 13.11.2014 n. 300;
Sez. controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24,
parere 24.10.2014 n. 60,
parere 16.12.2014 n. 73 e
parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana,
parere 13.11.2012 n. 293,
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 12.11.2014 n. 237; Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114; Sez.
controllo Marche,
parere 17.12.2014 n. 141; Corte dei Conti
Umbria,
parere 14.05.2015 n. 71) hanno enucleato alcuni
principi che possono essere cosi compendiati:
a) la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata
all’area degli appalti pubblici di lavori e non si estende
agli appalti di servizi manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di
manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre
che alla base sussista una necessaria attività progettuale
(ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le
fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed
esecutiva);
c) vanno esclusi dall’ambito di applicazione dell’incentivo
tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si
proceda mediante svolgimento di una gara (come in caso di
lavori di manutenzione eseguiti in economia).
A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l.
90/2014, l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della
norma -la quale, come si evince dalla formulazione della
norma, espressamente prevede che i criteri di riparto del
fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione
è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”-
fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità
dell’incentivo di progettazione all’intero novero di
attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie
che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di
una preventiva attività di progettazione (ex multis,
Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300; Sez. Toscana,
parere 12.11.2014 n. 237; Sez. EmiliaRomagna,
parere 19.09.2014 n. 183; Sez. Liguria,
parere 24.10.2014 n. 60).
Questo Collegio ritiene di aderire a tale indirizzo
interpretativo, pur non ignorando che potrebbe prospettarsi
una diversa soluzione volta a porre in evidenza l’attrazione
delle opere di manutenzione straordinaria operata dalla
legge n. 350 del 2003 nell’alveo delle spese di
investimento: peraltro, l’applicazione dei canoni
ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi e che sono
stati richiamati nell’esordio di questo parere
impone
all’interprete di privilegiare, tra le possibili
interpretazioni, quella più conforme alla lettera della
norma, la quale esclude espressamente dall’incentivo in
argomento “le attività manutentive” ed evitando, in
ragione della natura eccezionale della deroga,
interpretazioni analogiche.
Questa Sezione, richiamando i principi contenuti nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 e n. 11/SEZAUT/2014/QMIG
rese dalla Sezione delle Autonomie, e la propria
giurisprudenza (Sez. Controllo Veneto,
parere 14.04.2015 n. 211) ritiene quindi che
nessun
incentivo di progettazione potrà essere corrisposto per le
opere di manutenzione straordinaria compiute dopo il
19.08.2014 (Corte dei Conti Umbria,
parere 14.05.2015 n. 71).
V. Il Collegio procede quindi all’esame del secondo quesito
proposto, e cioè se le somme destinate al pagamento degli
emolumenti –che si ribadisce non possono essere quelle
inerenti gli interventi di manutenzione
straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla
realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base
sussista una necessaria attività progettuale- debbano
intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori.
In particolare, occorre verificare se esse siano
comprensive, quindi, -oltre che degli "oneri
previdenziali ed assistenziali a carico dell'amministrazione"
espressamente menzionati dall'art. 93, comma 7-ter- anche di
quelli fiscali, quali l'Irap, ovvero se gli oneri debbano
trovare capienza nel tetto dell'80% delle risorse del fondo
per la progettazione e l'innovazione da ripartirsi tra il
personale interessato secondo le modalità ed i criteri
previsti dal regolamento comunale oppure debbano trovare
diversa copertura nel bilancio.
Questa Sezione intende rifarsi ai principi enunciati dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con
la
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010 resa in funzione nomofilattica (ai sensi dell’articolo 17, comma 31, del
decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102).
Nella pronuncia, soffermandosi sulle modalità di
determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato
in caso di vittoria in sede giudiziale, è stato sottolineato
che “mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane
chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (…), su un
piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di
copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà
che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e
professionisti, accantonando le risorse necessarie a
fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il
pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico
(….). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la
copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si
riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la
progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei
confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al
netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere
Irap gravante sull’amministrazione”.
Il Collegio evidenzia come due sono i punti fermi espressi
dalla delibera citata.
Da una parte l’Irap grava,
giuridicamente, sull’amministrazione comunale in quanto il
presupposto stesso dell'imposta, indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive integrazioni, è,
infatti, costituito dall'esercizio abituale di una attività
autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo
scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. La
disposizione è strettamente collegata al successivo articolo
3, che individua i soggetti passivi dell'imposizione; la
mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei
lavoratori dipendenti comporta, ex se, la
inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna
degli Enti (delibera n. 34/2007 Sezione di controllo per
l’Emilia Romagna).
Dall’altra parte, però, le somme destinate al pagamento
dell’Irap devono trovare copertura finanziaria nell’ambito
dei fondi destinati a compensare l’attività incentivata nel
rispetto del principio di cui all’art. 81, comma 4, della
Costituzione: e ciò in quanto “le somme indicate per
fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di
spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i
miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità
complessive massime e, pertanto, non superabili. In
sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti
pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non
trovino adeguata copertura” (Sez. Controllo Piemonte,
delibera n. 16/2012).
Tali principi possono essere, ad avviso della Sezione,
utilizzati anche nel caso di specie –trattandosi come per
gli incentivi dell’Avvocatura di espressa deroga al
principio sopra richiamato dell’onnicomprensività-
nel
senso di escludere l’Irap dall’ambito degli oneri riflessi,
restando in capo all’Ente l’obbligo giuridico di provvedere
al pagamento della stessa, e dovendo le risorse per
finanziare il pagamento del tributo gravare sui fondi
destinati a compensare l’attività
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 09.09.2015 n. 393). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Part-time:
cosa cambia nel pubblico impiego con la nuova disciplina del
jobs act
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 07.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
disciplina sempre più caotica delle assunzioni a tempo
indeterminato negli enti locali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.08.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 25.09.2015, "Settimo
aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 10.09.2015 n. 7236). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 21.09.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’Elenco dei Tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.08.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 14.09.2015 n. 142). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuove definizioni di “produttore”, “raccolta” e
“deposito temporaneo” (ANCE di Bergamo,
circolare 18.09.2015 n. 195). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Prevenzione incendi: pubblicate le nuove norme
tecniche (ANCE di Bergamo,
circolare 18.09.2015 n. 194). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Modifica al Decreto Legislativo 09.04.2008, n.
81 (ANCE di Bergamo,
circolare 18.09.2015 n. 191). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Art. 1, commi 113, 258, 623, 708 della legge
23.12.2014, n. 190 recante “Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2015)” - riflessi sui Tfs, Tfr dei dipendenti
pubblici. Effetti del citato comma 258 sui trattamenti
pensionistici (INPS,
circolare 17.09.2015 n. 154 - link a
www.inps.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione Agenzia delle Entrate relativa
alla predisposizione degli atti di aggiornamento geometrico
con la procedura Pregeo (Consiglio Nazionale degli
Ingegneri,
circolare 14.09.2015 n. 598). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione relativa alla predisposizione
degli atti di aggiornamento geometrico con la procedura
Progeo (Agenzia delle Entrate,
nota 03.09.2015 n. 113303 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendenti pubblici: effetti della legge di stabilità sui
Tfs e Tfr (18.09.2015 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Petrelli,
CERTIFICAZIONE ENERGETICA
DEGLI EDIFICI - Prospetto sinottico della legislazione
nazionale e regionale
(30.06.2015 - tratto da www.gaetanopetrelli.it). |
CORTE DEI CONTI |
SEGRETARI COMUNALI: La
Sezione delle autonomie ha affermato il principio,
vincolante per tutte le Sezioni regionali, secondo cui
la corresponsione dei diritti di rogito
compete esclusivamente ai segretari di comuni di piccole
dimensioni collocati in fascia C, e non spetta invece ai
segretari che godono di equiparazione alla dirigenza, sia
tale equiparazione assicurata dalla appartenenza alle fasce
A e B, sia essa effetto del “galleggiamento” ai sensi
dell’art. 41, comma 5, del CCNL di categoria, nei comuni di
maggiori dimensioni.
Tanto premesso, benché l’odierna fattispecie -segretario
comunale in convenzione tra due enti, di cui uno dotato e
l’altro sprovvisto di posizione dirigenziale- non trovi
esplicita soluzione nella disposizione in parola,
la Sezione ritiene che la ratio perequativa
della norma, enunciata dalla Sezione delle autonomie,
consenta di tenere distinte le posizioni del segretario nei
confronti dei singoli enti locali di appartenenza: pertanto,
laddove il segretario sia collocato in fascia C, il comune
sprovvisto di posizione dirigenziale dovrà corrispondergli i
diritti di rogito, nei limiti previsti dalla legge.
E’ di tutta evidenza che, ove invece il segretario comunale
sia un dirigente, non potrà essergli corrisposto il diritto
in questione, neppure nel comune di più piccole dimensioni.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota prot. n. 32772/1.13.9, una richiesta di
parere formulata dal comune di Massa e Cozzile, avente ad
oggetto l’attribuibilità dei diritti di rogito al segretario
comunale titolare dell’ufficio in convenzione tra due
comuni, di cui uno soltanto dotato di posizione dirigenziale,
alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 10, comma
2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con
modificazioni dalla l. 11.08.2014, n. 114.
...
Nel merito, l’art. 10 della normativa citata in premessa,
dopo aver disposto che il provento annuale dei diritti di
segreteria è attribuito integralmente al comune o alla
provincia, stabilisce, al comma 2-bis, che “negli enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e
comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale
spettante al comune ai sensi dell’art. 30, secondo comma,
della legge 15.11.1973, n. 734 […] è attribuita al
segretario comunale rogante, in misura non superiore a un
quinto dello stipendio in godimento”.
Nel caso di specie, il segretario comunale è titolare
dell’ufficio di segreteria in convenzione tra i comuni di
Massa e Cozzile e Pescia (comune capofila); tuttavia, come
dichiarato nella richiesta, solo in quest’ultimo ente “sono
presenti dipendenti con qualifica dirigenziale”.
Il comune di Massa e Cozzile sollecita dunque la Corte ad
esprimersi sul punto se il comma 2-bis debba essere
applicato considerando l’insieme dei comuni gestiti in
convenzione, ovvero se debba essere presa a base la
situazione del singolo ente, ciò che comporterebbe, per
l’ente richiedente, la conseguenza di dover corrispondere i
diritti di rogito al segretario comunale che presentasse
anche i requisiti soggettivi per l’attribuzione.
Come recentemente chiarito dalla Sezione delle Autonomie su
questione di massima, l’art. 10 del d.l. n. 90/2014,
abrogando il previgente art. 41, comma 4, l. n. 312/1980, ha
stabilito il principio della integrale
spettanza dei diritti di rogito a comuni e province (comma
2), concependo l’erogazione di una parte di tali diritti in
favore dei segretari comunali come un’eccezione alla
disciplina generale (comma 2-bis); eccezione basata sul
duplice presupposto della non esistenza di una posizione
dirigenziale presso l’ente in cui il segretario presta
servizio e del non possesso, da parte del segretario stesso,
della qualifica dirigenziale
(Sezione delle autonomie,
deliberazione 24.06.2015 n. 21).
Secondo la Sezione delle Autonomie, l’anzidetta deroga
rispetto al principio generale della non debenza dei diritti
di rogito ai segretari comunali trova giustificazione nella
volontà di contemperare l’esigenza di maggiori entrate degli
enti locali con una finalità perequativa (resa palese anche
dai lavori parlamentari di conversione del decreto legge), a
tutela delle sole situazioni retributive meno vantaggiose.
In base a tali considerazioni, la Sezione delle autonomie ha
affermato il principio, vincolante per tutte le Sezioni
regionali, secondo cui la corresponsione
dei diritti di rogito compete esclusivamente ai segretari di
comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C, e non
spetta invece ai segretari che godono di equiparazione alla
dirigenza, sia tale equiparazione assicurata dalla
appartenenza alle fasce A e B, sia essa effetto del “galleggiamento”
ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL di categoria, nei
comuni di maggiori dimensioni.
Tanto premesso, benché l’odierna fattispecie -segretario
comunale in convenzione tra due enti, di cui uno dotato e
l’altro sprovvisto di posizione dirigenziale- non trovi
esplicita soluzione nella disposizione in parola,
la Sezione ritiene che la ratio perequativa
della norma, enunciata dalla Sezione delle autonomie,
consenta di tenere distinte le posizioni del segretario nei
confronti dei singoli enti locali di appartenenza: pertanto,
laddove il segretario sia collocato in fascia C, il comune
sprovvisto di posizione dirigenziale dovrà corrispondergli i
diritti di rogito, nei limiti previsti dalla legge.
E’ di tutta evidenza che, ove invece il segretario comunale
sia un dirigente, non potrà essergli corrisposto il diritto
in questione, neppure nel comune di più piccole dimensioni
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 24.09.2015 n. 393). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Va
ridotta l'incidenza del personale sulle uscite.
Per
la sezione autonomie non basta solo contenere le spese.
Gli enti locali sono obbligati a ridurre la spesa di
personale anche in termini di incidenza sulla propria spesa
corrente complessiva e non solo in valore assoluto.
Lo ha chiarito la Corte dei Conti, Sez. delle autonomie,
con la
deliberazione
18.09.2015 n. 27, risolvendo la questione di
massima sollevata dalla sezione regionale di controllo
dell'Emilia-Romagna.
Quest'ultima aveva evidenziato
l'incertezza della disciplina vincolistica contenuta nei
commi da 557 a 557-quater della legge n. 296/2006. In
particolare, non era chiaro se sia sufficiente contenere la
dinamica della sola spesa di personale, ovvero se occorra
anche migliorare il rapporto fra tale aggregato e il
complesso delle uscite correnti.
In effetti, mentre il primo vincolo è chiaramente previsto
dal comma 557-quater (che impone agli enti «nell'ambito
della programmazione triennale dei fabbisogni di personale,
il contenimento delle spese di personale, con riferimento al
valore medio del triennio precedente»), la riduzione
dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto
al complesso delle spese correnti è indicata dalla lett. a)
del comma 557 come una delle possibili misure che le
amministrazioni possono mettere in campo per centrare il
predetto obiettivo, insieme alla razionalizzazione ed allo
snellimento delle strutture burocratico-amministrative ed
al contenimento delle dinamiche di crescita della
contrattazione integrativa. Una sorta di consiglio, quindi,
più che un vero obbligo.
Tale lettura sarebbe stata
confermata indirettamente anche dall'abrogazione, disposta
dal dl 90/2014, dell'art. 76, comma 7, del dl 112/2008, che
vietava di effettuare nuove assunzioni negli enti in cui la
spesa di personale superava il 50% di quella corrente.
Ma i giudici contabili sono stati di diverso avviso e hanno
affermato, invece, l'immediata cogenza dell'obbligo di
riduzione dell'incidenza percentuale della spesa di
personale quale
species rispetto al
genus spesa corrente,
senza che a nulla osti neppure la mancata emanazione del
previsto dpcm volto all'individuazione di criteri e
parametri di dettaglio.
A orientare questa lettura rigorosa, la copiosa
giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha in più
occasioni riconosciuto alle disposizioni in esame carattere
di principi fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica.
La Corte dei conti, inoltre, conferma che parametro di
riferimento per verificare il rispetto dei predetti vincoli
è rappresentato dal valore medio della spesa effettivamente
sostenuta negli esercizi 2011-2013, un parametro, quindi,
fisso e immutabile nel tempo e non, come in passato,
dinamico, come già chiarito dalla deliberazione delle
autonomie n. 25/2014.
Questa pronuncia mette in allarme diverse amministrazioni,
visto che finora nella prassi prevaleva nettamente la tesi
ora rigettata. In alcuni casi, peraltro, si rischiano
paradossali penalizzazioni a carico degli enti che, pur
contenendo le uscite di personale, abbiamo avviato percorsi
di più intensa riduzione di altre tipologie di spesa e che
adesso si trovano spiazzate dal nuovo orientamento, per di
più espresso ad esercizio finanziario ormai quasi concluso
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2015).
---------------
MASSIMA
Le disposizioni contenute nel comma
557, lett. a), della legge n. 296/2006, che impongono la
riduzione dell’incidenza della spesa di personale rispetto
al complesso delle spese correnti, devono considerarsi
immediatamente cogenti alla stregua del 10 parametro fissato
dal comma 557-quater e la programmazione delle risorse umane
deve essere orientata al rispetto dell’obiettivo di
contenimento della spesa di personale ivi indicato. |
APPALTI: Il beneficio
di legge dell’esenzione dal pagamento dei diritti di
segreteria si limita ai soli
contratti di acquisto di beni e servizi.
La chiara volontà del legislatore di prevedere l’esenzione
in relazione ai soli contratti relativi a beni e servizi non
consente di estendere il beneficio agli acquisti di lavori
che hanno natura diversa e presentano peculiarità
particolari che rendono difficoltoso, se non in relazione a
situazioni particolari, il ricorso al mercato elettronico.
---------------
L’esenzione dal pagamento dei diritti di
segreteria è stata prevista dal legislatore quale
conseguenza della modalità seguita per addivenire
all’acquisto mediante l’utilizzo di strumenti informatici e
senza il ricorso alle formalità stabilite dalla legge di
contabilità, ivi compresa la stipula di contratto in forma
pubblica.
Risulta, quindi, ragionevole ritenere che
si possa ricorrere alla deroga introdotta dall’art. 13 del
d.l. n. 52 del 2012 nei soli casi nei quali l’intera
procedura, dall’ordine al contratto, avvenga e si concluda in
forma elettronica.
--------------
Il Sindaco del Comune di Cassano Magnago (VA) ha
inoltrato alla Sezione un quesito con il quale, dopo aver
richiamato il contenuto del parere della Sezione n. 301 del
2014, ha domandato:
- se la disapplicazione dal pagamento dei diritti di
segreteria prevista dall’art. 13 del d.l. n. 52 del
06.07.2012, conv. dalla legge n. 94 del 06.07.2012, “sia
limitata ai soli contratti per acquisto di beni e servizi
conclusi mediante strumenti informatici e non si estenda
anche ai contratti per l’affidamento di lavori pubblici”;
- se la citata disapplicazione “riguardi solo gli
acquisti di beni e servizi effettuati grazie al ricorso a
piattaforme che consentono di concludere il procedimento con
la stipula del negozio in forma digitale/elettronica (vedi
MEPA o adesione a convenzione CONSIP) oppure si estenda
anche agli acquisti di beni e servizi effettuati grazie al
ricorso a piattaforme che non consentono di concludere il
procedimento con la stipula del negozio in forma
digitale/elettronica (vedi Sistema Sintel predisposto da
ARCA in Lombardia)”.
...
La Sezione, come ricordato dallo stesso Sindaco di Cassano
Magnago nella richiesta di parere, si è già occupata
dell’interpretazione dell’art. 13 del d.l. 07.05.2012, n.
52, convertito dalla legge 06.07.2012, n. 94, osservando che
la norma ha “previsto la disapplicazione dell’obbligo di
richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40
della legge 08.06.1962, n. 604 nell’ipotesi” di
contratti conclusi a seguito del ricorso a gare telematiche
di acquisto.
Il d.l. n. 52 del 2012, nell’ambito di numerosi interventi
di razionalizzazione della spesa pubblica, ha introdotto
modifiche alle procedure di acquisto che le amministrazioni
sono tenute a seguire per contenere e limitare gli oneri a
carico della finanza pubblica.
In particolare, per quanto interessa in questa sede, al fine
di favorire il ricorso al mercato elettronico e ai
conseguenti risparmi, all’art. 13 ha stabilito che “per i
contratti relativi agli acquisti di beni e servizi degli
enti locali, ove i beni o i servizi da acquistare risultino
disponibili mediante strumenti informatici di acquisto, non
trova applicazione quanto previsto dall’articolo 40 della
legge 08.06.1962, n. 604”,
vale a dire l’applicazione
dei diritti di segreteria al momento della stipula del
contratto.
In relazione al primo quesito posto dal Sindaco del Comune
di Cassano Magnago, occorre osservare che il testo
dell’articolo 13
limita il beneficio dell’esenzione ai soli
contratti di acquisto di beni e servizi, come specificato in
due punti della medesima disposizione e, peraltro, la stessa
rubrica delimita l’oggetto della norma specificando “semplificazione
dei contratti di acquisto di beni e servizi”.
La chiara volontà del legislatore di prevedere l’esenzione
in relazione ai soli contratti relativi a beni e servizi non
consente di estendere il beneficio agli acquisti di lavori
che hanno natura diversa e presentano peculiarità
particolari che rendono difficoltoso, se non in relazione a
situazioni particolari, il ricorso al mercato elettronico.
Quanto al secondo quesito, è necessario mettere in
luce che
l’esenzione dal pagamento dei diritti di
segreteria è stata prevista dal legislatore quale
conseguenza della modalità seguita per addivenire
all’acquisto mediante l’utilizzo di strumenti informatici e
senza il ricorso alle formalità stabilite dalla legge di
contabilità, ivi compresa la stipula di contratto in forma
pubblica.
Risulta, quindi, ragionevole ritenere che
si possa ricorrere alla deroga introdotta dall’art. 13 del
d.l. n. 52 del 2012 nei soli casi nei quali l’intera
procedura, dall’ordine al contratto, avvenga e si concluda in
forma elettronica
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 11.09.2015 n. 275). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Associazione intercomunale.
Ufficio comune. Competenza adozione atti.
Nell'ambito di un'associazione
intercomunale, qualora, in base alla convenzione attuativa
relativa alla gestione del personale, sia affidato
all'ufficio comune l'esercizio di tutte le funzioni
attinenti a detta gestione, il responsabile/titolare di p.o.
dell'ufficio comune provvede ad adottare, per ciascun comune
associato, avendone l'esclusiva competenza, qualsiasi atto
inerente alla gestione giuridica del personale.
Il Comune, Ente capofila di un'associazione intercomunale,
ha chiesto un parere in ordine alle competenze dell'ufficio
comune per la gestione del personale (funzione associata che
ricomprende anche il trattamento giuridico), con particolare
riferimento a quanto verificatosi nell'ambito di una
procedura di mobilità interna, con modifica del profilo
professionale di un dipendente, che risulta essere stata
espletata autonomamente da uno degli enti associati, senza
alcun coinvolgimento dell'ufficio comune medesimo.
L'Amministrazione istante manifesta pertanto perplessità
sull'operato, sia evidenziando l'incompetenza del comune
associato ad adottare il predetto provvedimento, di
spettanza invece del Responsabile dell'ufficio comune della
funzione 'gestione del personale', sia sottolineando
che tale provvedimento ha di fatto realizzato disparità di
trattamento nei confronti di altri dipendenti dei comuni
associati ai quali, su indirizzo della Conferenza dei
Sindaci, era stata negata, da parte dell'ufficio comune, la
possibilità di mutare il proprio profilo professionale,
anche in vista della prossima costituzione dell'UTI.
L'Ente si è infine posto la questione relativa alla
conseguente necessità di proporre al Comune associato un
intervento in autotutela.
Nel condividere le perplessità rilevate, si espone quanto
segue.
Si osserva preliminarmente che la fonte normativa che
disciplina la gestione di funzioni degli enti locali
mediante la forma dell'associazione intercomunale è
rappresentata dall'art. 22 della l.r. 1/2006.
Tale particolare forma associativa, come stabilito dal
legislatore regionale, risulta priva di personalità
giuridica ed è costituita mediante una manifestazione
congiunta di volontà dei comuni interessati, contenuta nella
convenzione quadro.
La predetta convenzione ha il compito di disciplinare, tra
gli altri aspetti, anche le funzioni e i servizi comunali da
svolgere in forma associata ed i criteri generali relativi
alle modalità di esercizio; provvede nel contempo ad
individuare il Comune capofila e definisce altresì i
rapporti finanziari intercorrenti tra i Comuni associati
(art. 22, comma 5, lettere d) ed e), della l.r. 1/2006).
Il comma 1 dell'art. 22 in esame precisa inoltre che le
associazioni intercomunali sono dotate di 'uffici comuni'
e, pertanto, operano funzionalmente mediante dette,
specifiche, articolazioni.
In virtù di quanto specificato all'articolo 21, comma 2,
della citata l.r. 1/2006, risulta che gli uffici comuni sono
strutture organizzative alle quali è affidato l'esercizio
delle funzioni pubbliche in luogo di tutti gli enti
partecipanti all'accordo.
Pertanto, l'ufficio comune delle associazioni intercomunali
gestisce, per ciascun comune partecipante, le funzioni 'messe'
in associazione a seguito dell'approvazione della
convenzione quadro e meglio specificate con l'approvazione
successiva delle convenzioni attuative. L'ufficio comune
diviene quindi contemporaneamente, con la propria dotazione
di risorse umane e strumentali, l'ufficio referente di ogni
singolo comune partecipante. Ogni ente aderente
all'associazione gestisce, di conseguenza, la funzione del
caso unicamente per il tramite della struttura operativa
messa in comune.
Come emerge dalla lettura della convenzione attuativa per lo
svolgimento della macrofunzione gestione del personale, e in
particolare da quanto disposto all'art. 7, comma 1, della
medesima, l'ufficio comune dell'associazione intercomunale
svolge le attività connesse con le funzioni elencate
all'art. 1 [1],
adottando tutti gli atti e i provvedimenti necessari.
Il successivo comma 2 precisa altresì che al responsabile
dell'ufficio comune compete, tra l'altro, la gestione delle
attività inerenti le funzioni di cui al citato articolo 1
della convenzione e lo svolgimento di tutti i compiti
previsti dall'art. 107 del d.lgs. 267/2000.
Pertanto, è tale soggetto [2]
che deve assicurare lo svolgimento completo della funzione
associata, per ogni singolo comune, provvedendo ad adottare,
avendone l'esclusiva competenza, come stabilito nella
riportata convenzione attuativa, qualsiasi atto inerente
-fra le altre attività individuate- alla gestione giuridica
del personale dei comuni associati.
In conclusione, posta la competenza dell'ufficio comune
all'adozione degli atti inerenti alla gestione del personale
degli enti associati, il provvedimento di mobilità interna
di cui si discute è suscettibile di annullamento d'ufficio
da parte dell'organo burocratico che lo ha adottato, ai
sensi dell'art. 21-nonies della l. 241/1990, il quale
precisa che 'rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento
illegittimo'.
---------------
[1] Reclutamento del personale/concorsi, trattamento
economico, trattamento giuridico (gestione amministrativa
del personale), relazioni sindacali e formazione
professionale.
[2] A mente di quanto stabilito all'art. 5, comma 3, della
convenzione attuativa, alla direzione dell'ufficio comune è
preposto un responsabile titolare di posizione
organizzativa, nominato con provvedimento del sindaco del
comune in cui ha sede l'ufficio medesimo e scelto fra il
personale di ruolo dei comuni associati appartenenti alla
categoria D (22.09.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori. Verifica compatibilità tra la carica di
Presidente di Consorzio tra enti locali e status di
pensionato.
Nella fattispecie di consorzi fra enti
locali non pare possibile avvalersi della espressa deroga al
divieto (di conferimento a soggetti collocati in quiescenza)
di cui all'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come
modificato dall'art. 6, comma 1, del d.l. 90/2014, ai sensi
della quale è ammesso il conferimento di cariche in organi
di governo per i 'componenti delle giunte degli enti
territoriali', non potendo ricomprendersi detti enti in tale
tipologia.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla compatibilità
tra lo status di pensionato pubblico e la carica di
Presidente di un Consorzio, stante la vigenza delle norme
previste dall'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come
modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014.
La predetta disposizione, com'è noto, sancisce il divieto,
per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2,
del d.lgs. 165/2001, di attribuire a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi di
studio e di consulenza. Alle richiamate amministrazioni è,
altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti
incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di
governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e
società da esse controllati, ad eccezione dei componenti
delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o
titolari degli organi elettivi degli enti di cui
all'articolo 2, comma 2-bis [1],
del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l.
125/2013.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione [2],
gli incarichi vietati dalla citata norma sono solo quelli
espressamente contemplati, nello specifico incarichi di
studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi,
cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e
società controllati. Si è inoltre precisato che 'la
disciplina in esame pone puntuali norme di divieto, per le
quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è
esclusa l'interpretazione estensiva o analogica'
[3].
Nella stessa sede si è inoltre rimarcato come la nuova
disciplina, a norma dell'articolo 6, comma 2, del d.l.
90/2014, si applichi agli incarichi conferiti a decorrere
dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto
(25.06.2014).
Si è altresì sottolineato che 'la condizione del
collocamento in quiescenza, ostativa rispetto al
conferimento di incarichi e cariche, rileva nel momento del
conferimento', deve cioè risultare già sussistente nel
momento stesso in cui si procede al conferimento
dell'incarico.
Premesso un tanto, per quanto concerne la specifica
questione prospettata, si osserva che l'inserimento del
Consorzio di cui trattasi nel novero delle amministrazioni
pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, è
stata affrontata, con esito affermativo, con il parere
rilasciato a suo tempo dallo scrivente Servizio in data
04.03.2008 [4].
In particolare, il Consorzio in questione rientra tra i
consorzi previsti dal comma 6 dell'articolo 24 della l.r.
1/2006 ed è soggetto alla disciplina di cui all'articolo 31
del d.lgs. 267/2000, che concerne i consorzi tra enti
locali. E' proprio la configurazione di 'consorzio fra
enti locali' a far rientrare il predetto consorzio tra
le 'pubbliche amministrazioni' indicate al d.lgs.
165/2001.
Pertanto, in ordine alla possibilità di nominare lavoratori
collocati in quiescenza (tenendo conto però della data del
pensionamento rispetto al conferimento della carica) quali
componenti del consiglio di amministrazione (nella
fattispecie, l'assunzione della carica di Presidente del
Consorzio), si fornisce risposta negativa, stante
l'applicabilità del divieto sancito dal richiamato articolo
6, comma 1, del d.l. 90/2014.
Non pare infatti possibile avvalersi della espressa deroga
al divieto stabilita nel medesimo articolo, laddove è
ammesso il conferimento di cariche in organi di governo per
i 'componenti delle giunte degli enti territoriali',
atteso che in tale locuzione non sembra possano
ricomprendersi i consorzi tra enti locali.
Al riguardo, si osserva che enti territoriali sono solo
quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento
costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito
spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Conseguentemente, tutti gli altri rientrano nella nozione di
'enti non territoriali'; per essi il territorio non è
elemento costitutivo, ma ciò non esclude che possano essere
limitati territorialmente nella loro azione (c.d. enti ad
efficacia territoriale) [5].
La dottrina [6],
nel sottolineare il distinguo tra enti autarchici
territoriali e non territoriali, ha espressamente ricompreso
i consorzi pubblici tra gli 'enti autarchici non
territoriali locali', in quanto trattasi di enti 'con
competenza limitata ad una parte più o meno estesa del
territorio nazionale'.
La citata circolare del Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione ha evidenziato inoltre che: 'Tra
le cariche in organi di governo di amministrazioni e di enti
e società controllate, a parte le esclusioni espressamente
previste dalla legge (relative alle giunte degli enti
territoriali e agli organi elettivi degli enti pubblici
associativi), rientrano quelle che comportano effettivamente
poteri di governo, quali quelle di presidente,
amministratore o componente del consiglio di
amministrazione. La nomina in consigli di amministrazione,
in particolare, rientra nell'ambito del divieto
indipendentemente dalla qualifica in virtù della quale il
soggetto in quiescenza sia stato nominato (per esempio, in
qualità di esperto o rappresentante di una determinata
categoria), dato che il consiglio di amministrazione ha
comunque funzioni di governo dell'ente. Naturalmente, il
divieto opera anche nel caso in cui la nomina sia preceduta
dalla designazione da parte di un soggetto diverso
dall'amministrazione nominante' [7].
Corre l'obbligo di rammentare, da ultimo, che la norma di
cui si discute prevede ad ogni buon conto che gli incarichi,
le cariche e le collaborazioni oggetto del divieto possano
essere attribuiti a titolo gratuito [8].
Per quanto concerne l'ulteriore quesito relativo alla
corresponsione del rimborso chilometrico e del buono pasto
al Presidente del Consorzio, ci si rimette alle
considerazioni che esprimerà il Servizio finanza locale,
competente per materia.
---------------
[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi
organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Vedasi, in proposito, Corte dei conti, Sezione centrale
del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle
amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 23/2014/PREV
del 30.09.2014.
[4] Prot. n. 4205 in cui si richiama il parere reso dal
Servizio finanza locale con nota prot. n. 16543 del
18.10.2007.
[5] Così 'Nuovi dizionari online Simone', voce 'Ente
pubblico', consultabile sul seguente sito internet:
www.simone.it
[6] 'Gli enti autarchici non territoriali', in 'Corso di
diritto pubblico', cap. 29, consultabile sul seguente sito
internet: www.dirittoditutti.giuffre.it.
[7] Cfr. pag. 5.
[8] Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, la durata
non può essere superiore a un anno, ferma la gratuità (21.09.2015
-
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SEGRETARI COMUNALI:
Segretari comunali. Diritti di rogito liquidati.
La Corte dei conti sezione Autonomie
(cfr. deliberazione n. 21 del 24.06.2015) ha affermato, in
relazione al disposto dell'art. 10, comma 2-bis, del d.l.
90/2014, convertito in l. 114/2014, che i diritti di rogito
competono ai soli segretari di fascia C.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al comportamento da
tenere, nei confronti del Segretario comunale appartenente
alla fascia B, al quale sono stati liquidati e pagati
diritti di rogito, non dovuti in base all'orientamento
espresso da ultimo dalla Sezione Autonomie della Corte dei
conti con deliberazione n. 21 del 24.06.2015.
Preliminarmente è doveroso osservare che esula dalle
competenze dello scrivente Servizio ingerirsi nella concreta
attività gestionale degli enti locali e nell'amministrazione
attiva, atteso che rientra nelle funzioni istituzionali
attribuitegli fornire esclusivamente contributi
giurisprudenziali e dottrinali utili alle scelte delle
singole amministrazioni.
Premesso un tanto, in via collaborativa, si espongono le
seguenti riflessioni.
L'art. 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014, convertito in l.
144/2014, prevede che negli enti locali privi di dipendenti
con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari
comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del
provento annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30,
secondo comma, della l. 734/1973, come sostituito dal comma
2 del medesimo articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2,
3, 4 e 5 della tabella D allegata alla l. 604/1962, e
successive modificazioni, è attribuita al segretario
comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello
stipendio in godimento.
Com'è noto, la Sezione Autonomie della Corte dei conti, con
la sopra citata deliberazione, pronunciandosi relativamente
a contrastanti orientamenti interpretativi espressi da varie
Sezioni regionali di controllo, ha enunciato i seguenti
principi di diritto: 'Alla luce della previsione di cui
all'art. 10 [1]
comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con
modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di
rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto
di specifica regolamentazione nell'ambito del CCNL di
categoria successivo alla novella normativa i predetti
proventi sono attribuiti integralmente ai segretari
comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso
dell'esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto
della retribuzione in godimento del segretario'.
Pertanto, i diritti di rogito non possono essere
riconosciuti ai segretari che godono di equiparazione alla
dirigenza, sia essa assicurata dall'appartenenza alle fasce
A e B, sia nel caso in cui essa sia un effetto del
galleggiamento in ipotesi di titolarità in enti privi di
dipendenti con qualifica dirigenziale.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto [2]
ha inoltre richiamato l'attenzione, in ordine alle questioni
di diritto intertemporale, sul contenuto del comma 2-ter
dell'articolo 10 del d.l. 90/2014, che dispone testualmente
che 'le norme di cui al presente articolo non si
applicano per le quote già maturate alla data di entrata in
vigore del presente decreto'.
In conseguenza, i comuni, in relazione all'anno 2014,
dovranno provvedere a calcolare separatamente la quota dei
diritti di rogito spettante per le due fasi dell'anno (ante
e post entrata in vigore della novella), sulla base
delle rispettive regole di quantificazione.
Si è inoltre precisato -in detta sede- che 'l'ente non
dispone sulla materia di libertà di determinazione,
dovendosi perseguire scelte gestionali sempre rivolte a
tutelare l'incremento delle entrate in questione e a non
depauperarle'.
Pertanto, 'in sede applicativa, la quota dei diritti da
riconoscersi al singolo segretario rogante deve essere
calcolata, sia pure nei limiti quantitativi anzi detti, in
relazione all'attività effettivamente svolta nell'anno
poiché, ai fini della loro corresponsione, deve sussistere
un sinallagma tra la prestazione resa dal segretario ed i
proventi dalla stessa generati. Ai fini, comunque, della
applicazione della normativa di riferimento si ricorda che
il diritto di rogito matura, e cioè si perfeziona, al
momento del ricevimento dell'atto e/o contratto stipulato in
forma pubblica innanzi al segretario. Conseguentemente, a
tal momento, deve farsi riferimento per l'applicazione della
normativa, a nulla rilevando il fatto che il diritto non sia
stato ancora liquidato o pagato'.
Il citato parere fornito dalla Sezione Autonomie, nel
dirimere la questione, fa sorgere anche la questione
relativa alla ripetizione di somme che sono poi risultate
indebitamente erogate.
Preme riportare l'orientamento giurisprudenziale formatosi
in materia, che ha enunciato il principio della doverosità
del recupero delle somme indebitamente erogate dalla
pubblica amministrazione, non ostacolato dalla buona fede
del percipiente, essendo solo necessario che l'atto
chiarisca le ragioni per le quali quest'ultimo non aveva
diritto a quella determinata somma corrispostagli per errore
[3].
L'ANCI ha osservato al riguardo che l'orientamento della
Sezione Autonomie della Corte dei conti è stato adottato ai
sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012, al fine di
prevenire o risolvere contrasti interpretativi avendo, come
ogni attività interpretativa, effetto retroattivo dalla data
di entrata in vigore della disposizione legislativa in
argomento.
Pertanto, appare difficile poter giustificare condotte non
conformi, anche se sostenute in precedenza da pareri della
stessa magistratura contabile.
La predetta associazione ribadisce che pagamenti effettuati
in difformità dall'ultimo orientamento espresso devono
formare oggetto di recupero di quanto erroneamente
corrisposto.
---------------
[1] Tale norma ha modificato significativamente i criteri
e le modalità di attribuzione ai segretari comunali degli
emolumenti riferiti ai diritti di rogito, al fine di
assicurare all'ente locale maggiori entrate.
[2] Cfr. deliberazione n. 359/PAR/2015.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, sentenza n. 2651 del 2007
e sez. VI, sentenza n. 5315 del 2014 (18.09.2015
-
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Ex assessore
in consiglio. Può subentrare al consigliere dimissionario.
Le
norme su ineleggibilità e incompatibilità sono di stretta
interpretazione.
Un assessore esterno, primo dei non eletti nella lista di
appartenenza di un consigliere comunale dimessosi, avrebbe
diritto a subentrare nella carica di quest'ultimo ai sensi
dell'art. 45 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
A tale surroga è di ostacolo il dettato dell'art. 64, comma
1, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, secondo cui nei comuni che, come nella fattispecie,
hanno una popolazione superiore a 15.000 abitanti, la carica
di assessore è incompatibile con la carica di consigliere
comunale?
L'art. 38 del citato decreto legislativo n. 267 del 2000, al
comma 4, prevede che: «I consiglieri entrano in carica
all'atto della proclamazione ovvero, in caso di
surrogazione, non appena adottata dal consiglio la relativa
deliberazione».
Il successivo comma 8, a sua volta, dispone
che: «Il consiglio, entro e non oltre dieci giorni, deve
procedere alla surroga dei consiglieri dimissionari, con
separate deliberazioni, seguendo l'ordine di presentazione
delle dimissioni quale risulta dal protocollo».
Sulla
questione, la giurisprudenza ha chiarito che «l'abdicazione
dalla carica di Consigliere comunale, seppure immediatamente
operativa, è logicamente e cronologicamente distinta dal
subentro del primo dei candidati non eletti, che si realizza
con l'adozione di un atto consequenziale e subordinato entro
il termine di legge (omissis).
Ne deriva che la
presentazione delle dimissioni da parte del Consigliere
comunale non comporta ipso jure l'acquisizione in capo al
primo dei non eletti della medesima lista dei diritti e
delle prerogative connesse all'appartenenza all'organo
immediatamente rappresentativo della collettività locale».
Nel caso di specie, appare dirimente la circostanza che
l'interessato ha cessato di ricoprire la carica di assessore
e l'organo deliberativo dell'ente non ha ancora provveduto
alla surrogazione del consigliere dimessosi.
Poiché, allo stato, l'ex amministratore locale non ricopre
più alcuna carica all'interno del comune, non è ravvisabile
la prospettata situazione di incompatibilità; pertanto lo
stesso può legittimamente subentrare nella posizione di
consigliere comunale rimasta vacante.
In tal senso depone altresì la considerazione che le
disposizioni che stabiliscono ipotesi di ineleggibilità o
incompatibilità alle cariche elettive si sostanziano in una
limitazione al diritto di elettorato passivo,
costituzionalmente garantito, e, pertanto, sono tassative e
di stretta interpretazione
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Aspettativa.
Un amministratore, lavoratore dipendente a tempo pieno
presso un comune, può usufruire di un periodo di aspettativa
non retribuito per mandato elettorale che preveda
settimanalmente lo svolgimento di una giornata lavorativa
alternata a quattro giornate di aspettativa non retribuite
con correlato obbligo, da parte dell'ente locale in cui
esercita il mandato, di corresponsione dell'indennità di
funzione in misura intera e di versamento degli oneri
previdenziali per le sole giornate di aspettativa non
retribuite?
L'art. 81 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
prevede che gli amministratori comunali che siano lavoratori
dipendenti possono essere collocati a richiesta in
aspettativa non retribuita per tutto il periodo di
espletamento del mandato e il periodo di aspettativa è
considerato come servizio effettivamente prestato, nonché
come legittimo impedimento per il compimento del periodo di
prova.
In merito alla possibilità di frazionare il periodo
di aspettativa nel corso del mandato amministrativo, la
Corte dei conti, con pronuncia n. 2045/1988, ha affermato che
il collocamento in aspettativa non deve consistere
necessariamente in un unico periodo, senza soluzione di
continuità, in quanto, esso può essere frazionato in
distinti periodi di minore durata, nel corso
dell'espletamento del mandato.
Tuttavia, come ha già
precisato il ministero dell'interno, con parere del 29.11.2004, l'aspettativa deve essere intesa come un
istituto generale che sancisce la sospensione del rapporto
sinallagmatico tra il datore di lavoro e il lavoratore,
facendo venir meno i reciproci obblighi connessi al rapporto
di lavoro subordinato, ivi inclusa la corresponsione della
retribuzione.
Nel caso di specie la richiesta avanzata
dall'amministratore si configurerebbe come un rapporto di
lavoro part-time, nel quale coesisterebbero contestualmente
sia la prestazione lavorativa che la sospensione del
rapporto di lavoro, aspetti inconciliabili con l'istituto
dell'aspettativa che non consentono, pertanto, di ritenere
ammissibile tale istanza
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il procedimento per la licenza di pubblico spettacolo.
DOMANDA:
In data 30/04/2015 viene presentata istanza volta
all’ottenimento della licenza ex artt. 68-80 TULPS. Viene
dato avvio al procedimento con contestuale sospensione e
viene convocata la CCVLPS.
In data 05/06/2015 si riunisce la Commissione Vigilanza e
rimanda l’esame progetto in attesa di presentazione della
seguenti integrazioni:
1) elaborati grafici illustranti lo stato di fatto dei
luoghi, materiali, arredi, etc.;
2) descrizione precisa e puntuale del locale cucina con
indicate le potenzialità degli apparecchi installati, il
tipo di alimentazione e la presenza di eventuali
dichiarazioni di conformità dei medesimi.
Ad oggi le integrazioni richieste non sono state prodotte
per cui non si è più riunita la CCVLPS.
Con il presente quesito si chiede come debbano essere
considerati i termini di conclusione del procedimento
amministrativo per la parte relativa al rilascio della
licenza d’esercizio ex art. 68 TULPS, posto che l’atto
infraprocedimentale rappresentato dal parere di agibilità ex
art. 80 è di fatto rimandato sine die. Visti i tempi
trascorsi infruttuosamente e stante l’immobilismo
dell’istante è possibile archiviare la pratica?
RISPOSTA:
Si premette che il D.P.R. 09.05.1994 n. 407, recante il “Regolamento
recante modificazioni al decreto del Presidente della
Repubblica 26.04.1992, n. 300, concernente le attività
private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20
della legge 07.08.1990, n. 241”, che non risulta
abrogato, alla Tabella C contenente “Elenco delle
attività sottoposte alla disciplina dell'art. 20 della legge
n. 241/1990 con indicazione del termine entro cui la
relativa domanda si considera accolta”, prevede che per
la licenza di cui all’art. 68 del TULPS si attui il silenzio
assenso entro 60 giorni.
Ovviamente, pur non risultando abrogato detto provvedimento,
i termini in esso contenuti sono di fatto superati dalla
normativa che disciplina il SUAP (DPR 160/2000), in quanto
per le domande presentate tramite questo portale tutti i
termini sono ricondotti a 60 gg.. D’altro canto l’art. 20
della legge n. 241/1990 esclude dal silenzio assenso agli
atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica
sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la
salute e la pubblica incolumità (...).
Con l’emanazione del DPR 407/1994, avvenuta dopo la
formulazione del citato comma 4 dell’art. 20 che già
escludeva in origine dall’applicazione del silenzio-assenso
gli atti riguardanti la pubblica sicurezza e la pubblica
incolumità, sembrerebbe che la licenza di pubblico
spettacolo non si possa annoverare tra gli atti preclusi al
silenzio assenso.
Premesso questo, poiché nel quesito si dice che
all’interessato è stata data sospensione del procedimento
(art. 2, comma 7, della legge 241/1990), il silenzio-assenso
non si attua e quindi, non avendo l’interessato prodotto nei
termini le integrazioni richieste, occorre inviare la
comunicazione di cui all’art. 10- bis della legge 241/1990
per poi procedere con l’emanazione di un diniego (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La procedura abilitativa semplificata.
DOMANDA:
Qual è la corretta cifra da indicare sul verbale di
contestazione, a titolo di pagamento in misura ridotta, per
la violazione del terzo comma dell’art. 44 del D.Lgs.
28/2011 e qual è l’autorità amministrativa competente alla
ricezione del rapporto ed ancora a chi spettano le somme?
RISPOSTA:
Va premesso che dalle notizie riferite dovrebbe trattarsi di
intervento non ricadente nel regime di edilizia libera di
cui all'art. 11, comma 3, D.lgs. 30/05/2008, n. 115 e
all'art. 6 DPR 06.06.2001, n. 380 e paragrafi 11 e 12 Linee
Guida (DM 10/09/2010) e in quello dell'autorizzazione unica
di cui all'art. 5 del D.lgs. 28.03.2011, n. 71.
Ciò premesso si osserva che il comma 3 dell’art. 44 del
D.Lgs. n. 28/2001 prevede che “Fatto salvo l'obbligo di
conformazione al titolo abilitativo e di ripristino dello
stato dei luoghi, la violazione di una o più prescrizioni
stabilite con l'autorizzazione o con gli atti di assenso che
accompagnano la procedura abilitativa semplificata di cui
all’art. 6, è punita con la sanzione amministrativa
pecuniaria di importo pari ad un terzo dei valori minimo e
massimo di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 2, e comunque
non inferiore a euro 300. Alla sanzione di cui al presente
comma sono tenuti i soggetti di cui ai commi 1 e 2”.
Il precedente art. 6 disciplina la cd. PAS (procedura
abilitativa semplificata) la quale prevede un particolare
procedimento (che sostituisce la DIA e la SCIA) nell’ambito
del quale è stabilita la competenza del Comune come soggetto
che valuta la effettiva sussistenza delle condizioni
previste ex lege in presenza delle quali risulta
ammissibile tale forma semplificata di autorizzazione che
riguarda essenzialmente la conformità urbanistica
dell’intervento richiesto (il comma 2 di tale articolo
prevede infatti che “Il proprietario dell'immobile o chi
abbia la disponibilità sugli immobili interessati
dall'impianto e dalle opere connesse presenta al Comune,
mediante mezzo cartaceo o in via telematica, almeno trenta
giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, una
dichiarazione accompagnata da una dettagliata relazione a
firma di un progettista abilitato e dagli opportuni
elaborati progettuali, che attesti la compatibilità del
progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i
regolamenti edilizi vigenti e la non contrarietà agli
strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle
norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”).
Pertanto considerata la competenza del Comune al riguardo
vertendosi in materia urbanistica, si è dell’avviso che
l’applicazione delle sanzioni per violazioni attinenti a
tale materia sia di competenza dello stesso Comune che è il
soggetto istituzionalmente competente nella materia stessa.
Quanto all’importo concreto da applicare come sanzione, non
è possibile indicarlo preventivamente poiché esso dipende
dal conteggio da effettuare in base ai criteri previsti al
citato comma 6 dovendo essere pari ad un terzo dei valori
minimo e massimo indicati al precedenti commi 1 o 2 e
comunque non inferiore a 300 euro (a seconda del tipo di
intervento se relativo ad impianti termici o meno ed al tipo
di violazione riscontrata, in ragione della parte non
autorizzata dell’impianto) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Certificazione energetica con un nuovo «format».
Immobili. Le linee guida dei notai sull’obbligo dal 1°
ottobre.
Con l’approssimarsi della data di
entrata in vigore (il 01.10.2015) del decreto del ministero
dello Sviluppo economico del 26.06.2015, recante le Linee
guida nazionali per la certificazione energetica degli
edifici, il Consiglio nazionale del notariato ha fatto il
punto su questa complessa materia (studio
18.09.2015).
La nuova disciplina ha la finalità di armonizzare le norme
in materia di prestazione energetica degli edifici e troverà
immediata applicazione nelle Regioni che non hanno ancora
adottato specifiche disposizioni in materia, nonché nelle
Regioni e le Province autonome che hanno legiferato
recependo solamente le prescrizioni della direttiva
2002/91/Ce (senza conformarsi alla direttiva 2010/31/Ue).
Invece le Regioni e Provincie autonome che hanno già
legiferato in maniera conforme alla direttiva 2010/31/Ue
hanno l’onere di adeguarsi ai principi dettati dal decreto
del Mise entro il 01.10.2017.
Questo intento di uniformazione avrà l’apice della sua
espressione in un nuovo format di Ape (l’attestato di
prestazione energetica), contenuto nell’appendice “B” delle
Linee guida e che dovrà essere utilizzato per tutti gli
attestati che verranno prodotti dal 1° ottobre in poi. Si
conferma la regola per cui l’Ape ha validità decennale.
Restano peraltro validi gli attestati redatti prima
dell’entrata in vigore del decreto del Mise.
Una importante novità introdotta dal decreto consiste
nell’indicazione delle informazioni che l’Ape deve riportare
a pena di invalidità (mentre fino a oggi non vi era alcuna
disposizione -né legislativa né regolamentare- che
disciplinasse in maniera analitica il contenuto). La
questione non è di poco conto in quanto l’allegazione di un
Ape invalido a un contratto di compravendita (sempre ferma
restando, beninteso, la validità del contratto) sarà punita
con in modo uguale alla sua mancanza, ossia con una sanzione
pecuniaria da 3mila a 18mila euro.
Altra importante novità del decreto è la previsione che il
soggetto incaricato di redigere l’attestato deve
obbligatoriamente effettuare almeno un sopralluogo
nell’edificio.
Con particolare riferimento alla classificazione degli
immobili, le Linee guida dispongono l’impiego di una
differente classificazione rispetto a quella finora
utilizzata: si prevede innanzitutto il contrassegno con una
serie di lettere alfabetiche, dalla G (che rappresenta la
classe caratterizzata dall’indice di prestazione più elevato
ossia con maggiori consumi energetici) alla A (che
rappresenta la classe con il miglior indice di prestazione,
ossia i minori consumi energetici).
Con riferimento agli immobili in classe A, inoltre, un
indicatore numerico identificherà i livelli di prestazione
energetica in ordine crescente, da 1 (indicante il livello
più basso) a 4 (che rappresenterà la classe di prestazione
energetica più efficiente); si prevede, inoltre, la
possibilità di indicare come “edificio a energia quasi
zero” quelli dotati di fonti energetiche rinnovabili e
che siano caratterizzati da una altissima efficienza
energetica.
Quanto al rilascio dell’attestato, occorre rilevare che
-mentre finora il soggetto certificatore era obbligato a
trasmettere l’attestato all’organo territorialmente
competente entro quindici giorni dal suo rilascio- è ora
stato invertito l’ordine temporale, per cui l’attestato può
essere consegnato al richiedente solo dopo che siano
trascorsi quindici giorni dalla sua trasmissione, in forma
di dichiarazione sostitutiva di atto notorio all’ente
territorialmente competente; si tratta, però, di una
prescrizione senza sanzioni, che non incide sulla validità
dell’Ape.
Le Linee guida hanno previsto, inoltre, un nuovo format per
l’indicazione della classe energetica degli edifici negli
annunci commerciali, esclusi quelli effettuati tramite
internet o a mezzo stampa, i quali dovranno indicare: la
classe energetica in cui si trova l’immobile; l’indice della
prestazione energetica rinnovabile; la prestazione
energetica del fabbricato, in inverno e in estate
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'energia attestato unico.
Le nuove regole sull'Ape al via dall'01.10.
L'Ape cambia pelle. Dal prossimo 1° ottobre (si veda
ItaliaOggi di ieri) proprietari e operatori del settore
dovranno tenere conto delle numerose novità introdotte dai
decreti del ministero dello sviluppo economico del
26.06.2015 (pubblicati sulla G.U. n. 162 del 15.07.2015).
Una prima rassicurazione: gli attestati di prestazione
energetica redatti prima di tale data conformemente alle
regole oggi in vigore manterranno comunque la propria
validità, ad esempio per essere allegati agli atti di
vendita degli immobili (lo ha confermato anche il Consiglio
nazionale del notariato nel proprio
studio 18.09.2015).
Un avvertimento: le nuove regole si applicheranno
immediatamente in quelle regioni e province autonome che non
abbiano ancora adottato specifiche disposizioni in materia
di certificazione energetica o che, pur avendo già
legiferato, abbiano recepito esclusivamente le prescrizioni
della precedente direttiva 2002/91/Ce e non si siano ancora
conformate alla direttiva 2010/31/Ue. Le altre regioni,
infatti, avranno tempo per adeguare la propria normativa
fino all'01.10.2017. Il nuovo attestato sarà quindi unico
sull'intero territorio nazionale, con una metodologia di
calcolo omogenea, e porterà a 10 le classi energetiche (la
classe A viene infatti spacchettata in quattro, di cui la A4
rappresenterà quella più efficiente).
Gli operatori del settore saranno in linea di massima
facilitati. Gli agenti immobiliari avranno infatti uno
schema unico di annuncio di vendita e locazione, mentre i
progettisti potranno contare su schemi e modalità di
riferimento per la compilazione della relazione tecnica di
progetto. Nella redazione dell'Ape bisognerà però prestare
la massima attenzione a rispettare il contenuto minimo
previsto dai decreti ministeriali e dalle relative linee
guida, perché la mancanza anche di una sola delle
informazioni obbligatorie comporta l'invalidità
dell'attestato.
E in questi casi le sanzioni sono davvero salate. Ad esempio
per un atto di vendita una disattenzione del genere potrebbe
costare dai 3 mila ai 18 mila euro
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2015). |
APPALTI:
Appalti
senza regolamento, linee guida Anac-Ministero. Trovata
l’intesa sull’emendamento per semplificare l’attuazione.
Contratti pubblici. Confermato l’alleggerimento del codice:
Porta Pia affiancherà Cantone.
Resta fermo l’obiettivo della semplificazione,
con la conferma dell'addio al regolamento appalti. Ma il
compito di guidare il mercato nelle delicatissima fase di
transizione tra vecchio e nuovo codice non spetterà solo
all'Autorità Anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone,
come sembrava certo fino a solo poche ore fa.
A dettare le linee guida per il mercato, subito dopo
l’entrata in vigore del nuovo codice, saranno insieme il
ministero delle Infrastrutture e l’Anac. Con una formula di
“coabitazione” che almeno formalmente mantiene in pista
l’idea della regolamentazione flessibile, della «soft law»
adattabile alle evoluzioni di mercato, ma che nei fatti
ridimensiona la portata del trasferimento di poteri di
regolazione all’Autorità.
La novità trapela a tarda sera, al termine di un lungo
incontro tra il ministro delle Infrastrutture Graziano
Delrio e lo stesso Cantone, in vista della stesura
dell’emendamento destinato a mandare in soffitta il
regolamento monstre (359 articoli e svariati allegati) che
ora contiene le norme di dettaglio sugli appalti pubblici.
Da Porta Pia sottolineano che la nuova linea è stata trovata
in piena intesa con l’Anac. L’impressione però è che almeno
sottotraccia il progetto di trasferire tutti i poteri di
regolazione del settore all’Anac qualche tensione l’abbia
creata.
Come peraltro sembra confermare l’allungamento dei
tempi per la messa a punto dell’emendamento al testo della
delega che la commissione Lavori pubblici della Camera
attendeva per ieri. L’intesa sarà peraltro rimessa alla
valutazione del relatore del provvedimento, Raffaella
Mariani. Quindi è possibile che alla fine l’emendamento non
venga presentato direttamente dal Governo, ma al contrario
transiti per vie parlamentari.
In ogni caso a questo punto si dovrebbe sbloccare l’impasse
che ha tenuto ferma la commissione in questi giorni. Oltre
all’addio al regolamento sono già state annunciate diverse
altre modifiche al testo approvato dal Senato. Confermati
gli emendamenti già annunciati da parte della relatrice
Raffaella Mariani.
Modifiche in arrivo, dunque, per il bonus
2% concesso ai progettisti della Pa. L’incentivo rimarrà.
Però non riguarderà più la progettazione, ma le attività di
controllo e vigilanza delle amministrazioni. Altre misure
sono annunciate per favorire l'accesso al mercato da parte
delle Pmi, per sospendere da subito l'operatività del
performance bond che sta bloccando diverse gare di appalto
da centinaia di milioni e per dare l'addio alla legge
obiettivo.
Nonostante le indiscrezioni degli ultimi giorni, dal Governo
non dovrebbero arrivare invece ritocchi alla disciplina
delle concessioni e del regime di affidamento dei lavori
(100% in gara) da parte delle concessionarie (in primis
autostradali) definiti in Senato. Se ci saranno delle
correzioni arriveranno dal Parlamento (articolo Il Sole 24 Ore del
23.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Salasso
sulle case senza Ape. Multe fino a 18.000 euro a chi non
utilizza il nuovo bollino.
Dal 1° ottobre è in vigore il nuovo attestato di
prestazione energetica per vendite e locazioni.
Autunno caldo sul fronte dell'efficienza energetica. Per la
vendita o l'affitto di un immobile, dal 1° ottobre entrerà
in vigore il nuovo Ape. Previste sanzioni pecuniarie per chi
non si atterrà al nuovo attestato di prestazione energetica:
il certificatore, dovrà pagare una multa da 700 euro a 4.200
euro per un Ape compilato scorrettamente, al costruttore o
al proprietario, spetta una sanzione da 3.000 a 18.000 euro
se non presenta l'Ape per gli edifici nuovi, ristrutturati e
se mette in vendita o in affitto l'immobile e il direttore
dei lavori, dovrà pagare una multa da 1.000 a 6.000 euro se
non presenterà l'Ape al comune.
Queste novità sono contenute nel decreto del ministero dello
sviluppo economico emanato di concerto con altri ministeri
competenti (ambiente, infrastrutture, semplificazione e
difesa) del 26.06.2015 [G.U. 15.07.2015 n. 162, suppl. ord.
n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle
prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e
dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione
della relazione tecnica di progetto ai fini
dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi
di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo
economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la
certificazione energetica degli edifici (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 26.06.2015)] sulle nuove linee guida per la
redazione dell'attestato di prestazione energetiche.
Contenuti Ape.
Dal 1° ottobre l'attestato di prestazione energetica sarà
unico per tutto il territorio nazionale, con una metodologia
di calcolo omogenea. Le classi energetiche non saranno più
sette ma dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore).
Il nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica
globale sia in termini di energia primaria totale che di
energia primaria non rinnovabile. Inoltre la classe
energetica dovrà essere determinata attraverso l'indice di
prestazione energetica globale, espresso in energia primaria
non rinnovabili. Verrà realizzato e un sistema informativo
comune in tutta Italia, denominato Sape, contenente tutti i
dati relativi agli attestati di prestazione energetica, in
modo che le regioni potranno attivare i relativi controlli.
Le regioni e le province autonome al fine di effettuare i
controlli della qualità degli attestati di prestazione
energetica redatti dai certificatori energetici dovranno
definire piani e procedure di controllo che consentiranno di
analizzare almeno il 2% degli attestati depositati
territorialmente ogni anno solare.
Prestazione globale.
Il nuovo attestato di prestazione energetica dovrà riportare
obbligatoriamente la prestazione energetica globale
dell'edificio sia in termini di energia primaria totale che
di energia primaria non rinnovabile, attraverso i rispettivi
indici. Inoltre dovrà essere indicata la classe energetica,
determinata attraverso l'indice di prestazione energetica
globale dell'edificio (espresso in energia primaria non
rinnovabile), la qualità energetica del fabbricato, ossia la
capacità di contenere i consumi energetici per il
riscaldamento e il raffrescamento (attraverso gli indici di
prestazione termica utile per la climatizzazione invernale
ed estiva dell'edificio) e i valori di riferimento (come i
requisiti minimi di efficienza energetica vigenti). L'ape
dovrà contenere i consumi energetici non solo per il
riscaldamento invernale ma anche per le attività di
rinfrescamento estivo e dovrà riportare l'emissione di
anidride carbonica e l'energia esportata.
Schema annuncio vendita e locazione.
Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di
locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità
energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo
dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli
indici di prestazione energetica parziali, come quello
riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe
energetica corrispondente. Inoltre verranno inseriti simboli
grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione
ai non tecnici
---------------
Gli obblighi dei progettisti.
Il progettista ha l'obbligo di stilare una relazione tecnica
attestante la rispondenza alle prescrizioni per il
contenimento del consumo di energia degli edifici e dei
relativi impianti termici. Tre gli schemi di relazione
tecnica a disposizione del tecnico, a seconda che il
progetto riguardi nuove costruzioni, ristrutturazioni
importanti o interventi di riqualificazione energetica.
È
col decreto del 26.06.2015 del ministro dello Sviluppo
economico (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15.07.2015 n. 162) che vengono forniti gli schemi e modalità di
riferimento per la compilazione della relazione tecnica di
progetto ai fini dell'applicazione delle prescrizioni e dei
requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici. Il
progettista o i progettisti, nell'ambito delle rispettive
competenze edili, impiantistiche termotecniche, elettriche e
illuminotecniche, dovranno inserire i calcoli nella
relazione tecnica di progetto attestante la rispondenza alle
prescrizioni per il contenimento del consumo di energia
degli edifici, che il proprietario dell'edificio, o chi ne
ha titolo, deve depositare presso le amministrazioni
competenti, in doppia copia, contestualmente alla
dichiarazione di inizio dei lavori complessivi o degli
specifici interventi proposti, o alla domanda di concessione
edilizia. L'entrata in vigore di questo decreto è al 01.10.2015.
Nello specifico il decreto tecnico fornisce ai
progettisti una bussola sui dati (e come) da inserire
relativamente a elementi edili, termotecnici,
illuminotecnici; e come poi debbano eseguire i calcoli e le
verifiche. In modo da redigere poi la relazione tecnica di
progetto che attesta l'effettiva rispondenza alle
prescrizioni per il contenimento del consumo di energia
degli edifici e dei relativi impianti termici. Il decreto
sulla relazione tecnica è un adempimento previsto dal dlgs
19.08.2005, (articolo 8, comma 1), che recepisce la
direttiva 2010/31/Ue sulle prestazioni energetiche degli
edifici.
---------------
Stretta per gli edifici energivori. Dal
2021 case a impatto 0.
Dal 01.10.2015 i requisiti minimi di prestazione energetica
degli edifici saranno sempre più stringenti (nuove
trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto
agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni cinque anni,
prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o
sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a
energia quasi zero. La classificazione degli edifici avverrà
in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove
norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità
amministrativa e tecnica della prestazione degli immobili.
Tutto questo lo prevede un decreto del ministero dello
sviluppo economico, emanato di concerto con altri ministeri
competenti (ambiente, infrastrutture, semplificazione e
difesa) del 26.06.2015 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 15.07.2015 n. 162) sull'applicazione delle
metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e
definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli
edifici. I nuovi requisiti si applicheranno agli edifici
pubblici e privati, siano essi edifici di nuova costruzione
o edifici esistenti sottoposti a ristrutturazione.
L'Ape
conterrà anche gli indici di climatizzazione estiva, di
illuminazione, l'indicazione dell'energia prelevata dalla
rete e i vantaggi legati alle diagnosi energetiche e agli
interventi di riqualificazione energetica, con lo scopo di
rendere più reali le raccomandazioni già oggi presenti
nell'attestato.
Calcolo prestazione.
La prestazione energetica degli edifici sarà determinata
sulla base della quantità di energia necessaria annualmente
per soddisfare le esigenze legate a un uso standard
dell'edificio e corrisponde al fabbisogno energetico annuale
globale in energia primaria per il riscaldamento, il
raffrescamento, per la ventilazione, per la produzione di
acqua calda sanitaria e, nel settore non residenziale, per
l'illuminazione, gli impianti ascensori e scale mobili.
Qualora un edificio sia costituito da parti individuabili
come appartenenti a categorie diverse, ai fini del calcolo
della prestazione energetica, le stesse dovranno essere
valutate separatamente, ciascuna nella categoria che le
compete. L'edificio sarà valutato e classificato in base
alla destinazione d'uso prevalente in termini di volume
climatizzato.
Scostamento massimo.
Gli strumenti di calcolo, o software commerciali per
l'applicazione delle metodologie, dovranno garantire che i
valori degli indici di prestazione energetica, calcolati
attraverso il loro utilizzo, abbiano uno scostamento massimo
del 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con
l'applicazione dello strumento nazionale di riferimento. Il
comitato termotecnico italiano predisporrà lo strumento
nazionale di riferimento sulla cui base verrà fornita una
apposita garanzia.
Indice di prestazione energetica.
L'indice di prestazione verrà sempre valutato in kWh/m2 di
superficie climatizzata, sia per gli edifici residenziali
che per i non residenziali. L'attestato di prestazione
energetica conterrà quindi gli indici per la climatizzazione
estiva e per l'illuminazione degli ambienti e verrà
chiaramente l'energia esportata alla rete.
Al termine della
certificazione energetica si aggiungerà un'apposita sezione
dedicata alle opportunità legate all'esecuzione di diagnosi
energetiche e interventi di riqualificazione energetica al
fine di rendere più concrete le raccomandazioni già
dichiarate sul certificato
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a.,
corsa alla mobilità fai-da-te. Accelerazione delle richieste
per dribblare il decreto Madia.
L'imminente entrata in vigore del dpcm sugli
esuberi provinciali sta creando caos negli enti
Sulla mobilità dei dipendenti delle province si sta
scatenando il caos, mentre il dpcm in attesa di
registrazione da parte della Corte dei conti non risolve
alcuni problemi fondamentali.
Proprio l'imminente annunciata entrata in vigore del dpcm ha
attivato molte amministrazioni che fin qui per tutto il 2015
si sono guardate bene dall'assumere dipendenti provinciali
in sovrannumero. Il timore di non poter gestire
discrezionalmente la scelta dei dipendenti, dovendo
sottostare ai criteri meccanici ed oggettivi del dpcm,
spinge molte amministrazioni a un'improvvisa accelerazione
delle richieste e delle procedure di mobilità, che certo non
giova alla razionalità del sistema, specie a pochi giorni
dall'entrata a regime del funzionamento della piattaforma
mobilita.gov.it, presso la quale dovranno transitare in via
esclusiva domanda e offerta di mobilità.
Dunque, nonostante
il dpcm contenga una disciplina transitoria per fare salve
le procedure in corso, si è aperto un vero assalto per
chiudere in fretta e furia le mobilità attivate un po' a
macchia di leopardo nel territorio. A partecipare al caos si
è aggiunto anche il Miur che attraverso i propri uffici
provinciali, come a Verona, ha invitato dipendenti
provinciali a presentare domanda di mobilità
intercompartimentale, senza per altro nemmeno indicare
quanti posti sarebbero disponibili, per quali qualifiche e
mansioni.
Non si tratta di un vero e proprio bando, ma di
una sorta di raccolta di manifestazione di interesse alla
mobilità, oggettivamente poco conciliabile con gli intenti
del portale mobilita.gov.it. Il dpcm, dunque, lungi
dall'agevolare il processo di mobilità, involontariamente
finisce per generare ulteriore confusione. Anche perché
lascia aperte troppe incertezze.
Non si comprende cosa
accada se le province non inseriranno i nominativi dei
dipendenti soprannumerari. L'adempimento non è nemmeno
configurato come obbligatorio; infatti, l'articolo 4, comma
4, dello schema di dpcm contempla espressamente, senza
sanzionarla, la possibilità che le province non carichino i
dati. Il rimedio previsto è che ciascun dipendente
singolarmente presenti istanza di mobilità sulla
piattaforma: ma, se il dipendente non è formalmente
individuato come soprannumerario, come è possibile sia
presente in piattaforma?
Un altro possibile inadempimento è quello delle regioni, le
quali potrebbero lasciar decorrere la scadenza del 31
ottobre 2015, entro la quale ai sensi del dl 79/2015,
dovrebbero riordinare le funzioni provinciali. In questo
caso, entro il 30 novembre, le regioni dovrebbero, allora,
trasferire alle province le risorse per sostenere i costi
delle funzioni non trasferite.
Questo pone un problema operativo rilevantissimo: poiché si
deve supporre che le regioni saranno obbligate a rifondere
alle province anche i costi del personale, non si capisce a
quale titolo detto personale sarà ancora da considerare in
sovrannumero
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a. con
valutazioni doc. Performance misurate da enti indipendenti.
Pronto il dpr sulla supervisione delle pubbliche
amministrazioni.
Saranno scelti da un elenco nazionale tenuto dal
Dipartimento della funzione pubblica i componenti degli
organismi indipendenti di valutazione nominati dalle
amministrazioni pubbliche.
È questa una delle novità di maggior rilievo introdotte
dallo
schema di decreto del presidente della repubblica
recante il regolamento di disciplina delle funzioni del
Dipartimento della funzione pubblica in materia di
misurazione e valutazione della performance nelle pubbliche
amministrazioni.
Si tratta di un regolamento delegato di delegificazione, col
quale il governo intende semplificare e rivedere in parte la
normativa sulla valutazione dei risultati da parte delle
p.a., contenuta nella «riforma Brunetta», il dlgs 150/2009,
adempiendo a quanto previsto dall'articolo 19, comma 10, del
dl 90/2014, convertito in legge 114/2014.
Il regolamento punta molto sulla standardizzazione e
centralizzazione delle varie attività finalizzate alla
valutazione. Per questo, punta alla creazione di un «corpo»
coordinato dei soggetti che possono far parte degli Oiv,
sottraendo in parte alle amministrazioni pubbliche l'ampio
margine di discrezionalità che il dlgs 150/2009 assicurava
loro per nominarli.
Come detto, i componenti degli Oiv potranno essere nominati
solo tra coloro che faranno parte dell'Elenco nazionale, la
cui istituzione è demandata a un decreto, col quale si
stabiliranno i requisiti soggettivi per ottenere
l'iscrizione nell'elenco. Una volta che sia istituito, le
nuove nomine dovranno passare necessariamente per questa
sorta di albo; come diritto transitorio, i componenti degli
Oiv già nominati resteranno in carica fino alla naturale
scadenza.
La funzione di coordinamento della valutazione della
performance nella p.a., per effetto del decreto, passerà
dall'Anac, che aveva assorbito le competenze della disciolta
Civit, al Dipartimento della funzione pubblica, chiamato a
razionalizzare il sistema, secondo una serie di indirizzi.
Palazzo Vidoni dovrà garantire la riduzione degli
adempimenti e degli oneri informativi, la reale integrazione
tra processo di valutazione e sistemi di programmazione
economico-finanziaria, supportare l'uso di indicatori
(numerici e quantitativi) nei processi di valutazione,
puntare alla comparabilità dei sistemi di valutazione, i
quali dovranno essere capaci di abbracciare anche un arco
pluriennale.
Palazzo Vidoni dovrà semplificare la documentazione
necessaria alla valutazione, anche attraverso linee guida e
modelli semplificati, valorizzando la sperimentazione delle
buone pratiche, così da diffondere strumenti efficaci e
promuovere l'evoluzione e l'efficienza dei sistemi.
L'attività di coordinamento dovrà tenere conto anche
dell'esigenza di valorizzare la reale indipendenza degli Oiv.
Il Dipartimento, allo scopo di razionalizzare il sistema,
disporrà criteri e parametri per aiutare le amministrazioni
a definire gli importi massimi dei compensi dei componenti
degli Oiv, ed evitare che siano lasciati integralmente alla
discrezionalità di chi li nomina.
Per svolgere le attività previste dal dpr, il Dipartimento
potrà costituire una Commissione tecnica per la performance
composta da 5 componenti scelti tra professori o docenti
universitari, dirigenti pubblici ed esperti provenienti
anche dal privato, con la dotazione di 25 dipendenti, dei
quali 5 con qualifica dirigenziale, reperiti anche tra
dipendenti in comando o fuori ruolo delle pubbliche
amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2015). |
SEGRETARI COMUNALI:
Dai
diritti di rogito alle convenzioni: dal giudice gli stipendi
dei segretari.
Personale. Cresce il contenzioso
sull’applicazione dei tagli.
Le pesanti
limitazioni imposte al trattamento economico dei segretari
comunali dalle interpretazioni della Corte dei Conti,
dell’unità di missione del ministero dell’Interno e della
Ragioneria generale dello Stato sollevano problemi
applicativi e sono oggetto di contestazioni giurisdizionali.
Va ricordata la possibilità di erogare i diritti di rogito
solo ai segretari non dirigenti, le modalità di calcolo
della popolazione dei Comuni in convenzione e l’applicazione
del divieto di reformatio in peius in caso di passaggio a un
Comune di classe inferiore. Limiti che derivano
rispettivamente dal Dl 90/2014, dal mutato orientamento
della Rgs fatto proprio dal Viminale e dalla manovra 2014.
Senza dimenticare il “superamento” della figura del
segretario fra tre anni disposto dalla legge 124/2015 e le
incertezze sulla loro collocazione nel nuovo albo dei
dirigenti degli enti locali.
La sezione autonomie della Corte dei Conti, con la
deliberazione n. 21/2015, sciogliendo i contrasti
interpretativi sorti tra le sezioni regionali, ha chiarito
che i compensi per i diritti di rogito spettano solo ai
segretari di fascia C, cioè quelli che non sono equiparati
ai dirigenti. Ovviamente le sezioni regionali si sono
uniformate, anche se qualcuna ha reso evidente le proprie
perplessità su un’interpretazione che non sembra aderente
alla lettera e allo spirito della nuova norma.
Occorre
capire se la stessa lettura sarà fornita dai giudici
ordinari a cui alcuni segretari si sono nel frattempo
rivolti. Si deve inoltre chiarire che regola applicare ai
compensi erogati prima della delibera a segretari di fascia
A e B nei Comuni privi di dirigenti. Questa questione che si
pone tutte le volte in cui un parere della sezione Autonomie
sposa un’interpretazione restrittiva: occorre o meno dare
corso a recuperi sui compensi erogati in precedenza?
L’unità di missione del ministero dell’Interno, sulla scorta
degli orientamenti di Aran e Ragioneria generale dello
Stato, ha stabilito nei mesi scorsi che la popolazione dei
Comuni in convenzione si calcola non più sommando quella
degli enti aderenti, ma solo con riferimento a quella del
Comune capofila, chiarendo che il vincolo si applica alle
convenzioni stipulate successivamente. Per applicare una
sorta di “par condicio”, ha inoltre consentito ai segretari
di fascia C, che possono essere nominati solo nei Comuni
fino a 3mila abitanti, di svolgere, a differenza del
passato, la propria attività in convenzioni aventi
popolazione superiore a 3mila abitanti se i singoli Comuni
aderenti hanno una popolazione inferiore.
Anche in questo
caso sono stati avviati contenziosi contro questa
interpretazione, ricordando la diversa posizione assunta
formalmente dalla vecchia Agenzia dei segretari con una
delibera. Si pone il problema applicativo che riguarda le
convenzioni stipulate a seguito delle elezioni
amministrative della scorsa primavera come mera proroga di
quelle esistenti: a queste si applicano o meno le nuove
regole sul calcolo della popolazione o le si considerano
come prolungamenti delle vecchie convenzioni, quindi esenti?
Con la legge di stabilità del 2014 è stato abrogato il
divieto di reformatio in peius, per cui i segretari che sono
passati o che passeranno da un Comune di classe superiore a
uno di classe inferiore si vedono ridotto il trattamento
economico. L’unica eccezione si ha nel caso in cui il
passaggio non avvenga direttamente, ma a seguito del
collocamento in disponibilità.
Anche in questo caso sono in
corso contenziosi giurisdizionali. E si pone il dubbio se
queste regole si debbano applicare anche ai passaggi
effettuati prima dell’entrata in vigore delle nuove
disposizioni (articolo Il Sole 24 Ore del
21.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tempi
certi per contestare i lavori. Termine unico di 18 mesi
assegnato ai Comuni per revocare assensi e autorizzazioni.
Riforma della Pa. Finisce l’indeterminatezza sui poteri di
intervento in autotutela relativi a Scia, Dia e permessi di
costruire.
La legge di riforma
della Pubblica amministrazione (la n. 124/2015) ha
modificato gli effetti derivanti dal silenzio
dell’amministrazione riguardo alle Segnalazioni certificate
per l’inizio dell’attività (Scia) utilizzabili in edilizia
per avviare i lavori meno complessi.
Sulla base del previgente testo dell’articolo 19 della legge
241/1990, l’amministrazione, in caso di assenza delle
condizioni legittimanti la segnalazione, poteva adottare
motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti
dannosi, entro 30 giorni dalla presentazione della
segnalazione. Decorso questo termine, alla Pa era consentito
intervenire solo in caso di pericolo per l’integrità del
patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale.
Testualmente la norma non affidava all’amministrazione alcun
ulteriore potere di intervento. Ma sul punto era intervenuta
la Corte costituzionale (con sentenza n. 188/2012) chiarendo
che in materia edilizia la disposizione non avrebbe potuto
privare l’amministrazione del potere di autotutela, ossia
del potere di intervenire previo avviso di avvio del
procedimento e previa valutazione comparativa dell’interesse
pubblico e di quello privato.
Alla luce della natura della Scia (che non è un
provvedimento abilitativo tacito) la Pa non poteva però
assumere atti di annullamento o revoca, ma solo disporre la
rimozione degli effetti dell’attività edilizia con
l’irrogazione di eventuali sanzioni.
A seguito della riforma Madia il quadro è parzialmente
mutato. All’amministrazione, in linea con quanto dedotto
dalla Corte costituzionale, è stato ora espressamente
affidato un potere di intervento maggiore seppur entro un
limite definito. In particolare:
in caso di carenza dei requisiti legittimanti,
l’amministrazione, come in passato, può adottare
provvedimenti inibitori entro 30 giorni dal ricevimento
della segnalazione;
nel caso in cui sussistano le condizioni per l’esercizio del
potere di annullamento in autotutela, ossia quando
l’amministrazione ha accertato l’illegittimità dell’attività
edilizia, i provvedimenti inibitori possono essere adottati
anche una volta decorsi i 30 giorni. La riforma è però
intervenuta anche riguardo al termine entro il quale
l’autotutela può essere esercitata, in precedenza non
puntualmente precisato dalla legge: in base alla nuova
formulazione dell’articolo 21-nonies della legge 241/1990
l’annullamento in autotutela può essere infatti esercitato
entro 18 mesi dall’adozione delle autorizzazioni o
dall’attribuzione al privato dei vantaggi economici
derivati.
Una revisione normativa incardinata sugli effetti del
silenzio che garantisce maggior certezza al settore,ma che
non è priva di criticità: in caso di Scia, la nuova
formulazione della norma difatti lascia spazio ad
interpretazioni diverse in merito al giorno dal quale
decorrono i 18 mesi. Allo stato si può ritenere che
l’attribuzione di vantaggi economici intervenga, con buon
grado di certezza, dal completamento dei lavori, ma non è
escluso che la giurisprudenza che potrà formarsi sul punto
fissi questa data in un momento diverso.
In materia edilizia, il silenzio dell’amministrazione ha
sempre avuto un ruolo ben preciso. L’effetto più rilevante è
quello della formazione del titolo abilitativo per
silenzio-assenso, espressamente previsto solo per i permessi
di costruire. Il Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001)
prevede che, salvo provvedimenti di diniego espressi e ad
eccezione dei casi in cui sussistano vincoli, se decorre
inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento
conclusivo, il permesso di costruire si intende formato per
silenzio-assenso. In questo caso, il silenzio equivale a un
vero e proprio provvedimento di accoglimento della domanda.
Diversamente, gli istituti della Scia e della Dia, in base
all’articolo 19 della legge 241/1990, non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. In questi
casi, il silenzio dell’amministrazione non comporta quindi
la formazione di un provvedimento tacito, ma ha comunque un
effetto rilevante: è determinante ai fini della definizione
delle azioni repressive in materia di interventi soggetti a
Scia e Dia. Come precisato dalla giurisprudenza, infatti, in
assenza delle condizioni legittimanti la Dia,
l’amministrazione può esercitare il potere inibitorio nel
termine di 30 giorni dalla presentazione della denuncia.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere
inibitorio, l’amministrazione dispone del potere di
autotutela (Consiglio di Stato, n. 5751/2012).
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Più tutelati anche i grandi investitori.
Le conseguenze. L’applicazione della nuova norma.
La legge di
riforma della Pa ha previsto misure per garantire
l’affidamento dei privati rispetto ai provvedimenti
amministrativi.
La legge introduce infatti un limite temporale alla
possibilità dell’amministrazione di esercitare il potere di
annullamento in autotutela dei provvedimenti illegittimi,
pari a 18 mesi dall’adozione dei provvedimenti stessi o
dall’attribuzione dei correlati vantaggi economici.
Questa previsione in materia edilizia ha il pregio di dare
maggiori garanzie agli investimenti nel settore.
L’annullamento in autotutela dei provvedimenti
amministrativi, espressi o taciti, o comunque il non
tempestivo intervento dell’amministrazione rispetto alle
attività edilizie illegittime genera infatti rilevanti
criticità.
Con riguardo ai permessi di costruire, la fattispecie è
espressamente disciplinata all’articolo 38 del Dpr 380/2001,
il quale prevede che, in caso di annullamento del titolo,
qualora la rimozione dei vizi delle procedure o la
restituzione in pristino non sia possibile, il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro
parti abusivamente eseguite.
Il pagamento della sanzione pecuniaria produce i medesimi
effetti del permesso di costruire in sanatoria.
A fronte di un’opera eseguita sulla base di un titolo
edilizio illegittimo, l’amministrazione può dunque procedere
all’annullamento e deve con priorità ingiungere la
remissione in pristino dei luoghi.
In alternativa se il ritorno alla situazione precedente non
è percorribile, il Comune può applicare una sanzione
pecuniaria, il cui pagamento legittima la permanenza
dell’opera.
Come detto, in forza della riforma in esame, il potere di
annullamento d’ufficio del permesso potrà però essere
legittimamente esercitato entro un termine massimo pari a 18
mesi dal rilascio del titolo.
Riguardo invece agli interventi realizzabili mediante Scia,
la legge 241/1990 affida all’amministrazione un termine pari
a 30 giorni, entro il quale, in caso di carenza dei
requisiti previsti per la presentazione della segnalazione,
la stessa potrà ordinare la sospensione delle lavorazioni e
la rimozione degli effetti dannosi già cagionati.
Con la
legge 124/2015, il provvedimento inibitorio potrà essere
assunto anche oltre i 30 giorni, ma solo se sussistano le
condizioni per un annullamento in autotutela, ossia se
sussistano profili di illegittimità delle opere in progetto
e, al contempo, se non siano decorsi i 18 mesi
dall’attribuzione dei vantaggi economici connessi
all’attività edilizia. Il limite dei 18 mesi tutela
l'affidamento degli sviluppatori e riduce i margini di
rischio per gli investimenti nel settore.
Nondimeno, la riforma garantisce gli acquirenti finali di
singole unità immobiliari incluse in più ampi progetti di
riqualificazione o di nuova realizzazione, i quali vedono
ridotto il loro rischio di incorrere in inaspettate
interruzioni delle lavorazioni o, ancora peggio, il rischio
di dover fronteggiare personalmente complessi procedimenti
amministrativi derivati da vizi dei titoli abilitativi non
tempestivamente rilevati dai Comuni.
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Auto, dal 18/10 basta tagliando sul parabrezza.
Dal 18 ottobre cesserà l'obbligo di esporre sul parabrezza
il classico contrassegno assicurativo. I controlli saranno
infatti affidati agli strumenti elettronici in dotazione
agli organi di controllo e alle telecamere.
Lo ha chiarito ieri l'Associazione nazionale delle imprese
assicuratrici con una
guida pratica pubblicata sul proprio
portale.
La dematerializzazione dei contrassegni
assicurativi prende il via con il dl n. 1/2012 che prevede
il progressivo superamento del contrassegno assicurativo
cartaceo. Il ministro dello sviluppo economico, di concerto
con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti,
sentito l'Isvap, ha poi emanato il regolamento 09.08.2013, n. 110, che dettaglia la progressiva introduzione
concreta della riforma. Con la messa a regime della banca
dati aggiornata in tempo reale ora la polizia stradale può
conoscere subito la situazione assicurativa di un veicolo.
Ed effettuare controlli in occasione del transito dei mezzi
davanti ad un autovelox, un tutor o un varco di accesso alle
zone a traffico limitato. L'Ania evidenzia le novità per gli
automobilisti. Il contrassegno assicurativo dal 18 ottobre
non dovrà più essere esposto, perché facile da falsificare e
quindi ormai obsoleto. Le forze dell'ordine effettueranno
controlli elettronici tramite il ced della motorizzazione,
direttamente in strada o in caso di impiego di autovelox,
tutor, e telecamere.
La banca dati sarà aggiornata
praticamente in tempo reale, specifica l'Ania, «in questo
modo, anche pochi minuti dopo la stipula del contratto è
possibile circolare». Agli assicurati le compagnie
continueranno a rilasciare il tradizionale tagliando per un
periodo sperimentale. Successivamente verrà rilasciato solo
una copia del contratto assicurativo con la quietanza di
pagamento che sarà importante in caso di sinistro.
Gli
utenti coinvolti in un incidente, specifica l'Ania, infatti
dovranno scambiarsi necessariamente queste informazioni
anche dopo l'entrata in vigore della riforma. Per chi
circola senza assicurazione (nel 2014 quasi il 9% dei
veicoli) la multa è molto salata ed è previsto l'immediato
sequestro del veicolo, ricorda infine l'Associazione
(articolo ItaliaOggi del 19.09.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Impossibile revocare benefici ottenuti con false
dichiarazioni.
La legge madia richiede una sentenza definitiva
di condanna che però nella prassi è molto rara.
Impossibile (o quasi) per la pubblica amministrazione
annullare concessioni di benefici ottenute con false
dichiarazioni del cittadino. Bisognerà aspettare una
sentenza penale definitiva che accerti il reato di falsità.
È la conseguenza della legge 124/2015 (articolo 6), che ha
modificato l'articolo 21-nonies della legge 241/1990 e ha
introdotto una pregiudiziale penale all'autotutela
amministrativa.
La legge 124/2015 mette alle strette l'autotutela
amministrativa anche per un'altra ragione: prevede un
termine di 18 mesi, trascorso il quale il provvedimento
illegittimo (per motivo diversi dalla falsa dichiarazione
del privato). In sostanza, se è passato un anno e mezzo,
l'amministrazione non può rimettere in gioco
un'autorizzazione illegittima.
Attenzione, però, se il privato conserva l'utilità
conseguita con un atto illegittimo, il funzionario pubblico
risponderà sempre del suo errore: sia a livello disciplinare
sia a livello erariale e penale.
Questo significa che la pubblica amministrazione deve
attrezzarsi sia prima sia dopo l'adozione di un atto,
perché, dopo 18 mesi, non potrà azzerare tutto.
Di questo meccanismo, come detto, non potrà avvalersi il
privato in mala fede: se ha reso false dichiarazioni non
potrà approfittare di una pubblica amministrazione lumaca e
inerte. Ma bisognerà aspettare un sentenza penale definitiva
che accerti il fatto. Il che significa che l'annullamento
arriverà se e dopo una denuncia e una trafila giudiziaria,
anche di molti anni.
Ma vediamo di illustrare il dettaglio delle novità.
Atto illegittimo, ma inattaccabile.
La legge Madia interviene sull'articolo 21-nonies della
legge 241/1990, dedicato all'annullamento d'ufficio
dell'atto illegittimo.
L'annullamento in generale è subordinato ad alcune
condizioni. In particolare ci deve essere un interesse
pubblico, poi si deve tenere conto degli interessi dei
privati sia dei destinatari dell'atto (che si vedono privare
di un vantaggio) sia dei controinteressati, che traggono,
invece, beneficio dall'annullamento.
C'è, infine, un altro
requisito e cioè l'annullamento deve essere adottato entro
un termine ragionevole: se si è consolidata una situazione
di fatto per un lungo lasso di tempo, non si possono più
cambiare le carte in tavola. La legge 124/2015 precisa che
il tempo ragionevole entro cui deve intervenire
l'annullamento (prima imprecisato) non può essere superiore
a 18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato con il
silenzio assenso.
Rimangono ferme le responsabilità, aggiunge la norma,
connesse all'adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo.
In sostanza per evitare responsabilità, la pubblica
amministrazione deve attrezzarsi per fare le cose per bene
(una idonea istruttoria e una buon provvedimento) o per
accorgersi in fretta che c'è un errore da rimediare in
autotutela.
False dichiarazioni.
Altra novità della legge 124/2015 riguarda i casi un cui la
soglia del diciottesimo mese può essere superata: questo
vale per i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla
base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato.
Dunque ci vuole
un fatto di reato, ma non basta: occorre anche una sentenza
di accertamento del reato. Pertanto, leggendo la norma, se
c'è una falsità, ma non c'è ancora la sentenza definitiva,
l'amministrazione non può annullare l'atto, autonomamente
valutando le dichiarazione non veritiere.
Questo significa che in presenza di false dichiarazioni,
costituenti reato, la pubblica amministrazione deve
denunciare il fatto e aspettare la sentenza che accerti il
fatto come reato alla fine del processo penale. Esito che,
nella prassi, non è così semplice, visto che molto spesso si
arriva ad assoluzioni per mancanza di dolo: la dichiarazione
è non veritiera, ma manca la volontà di rendere attestazioni
false.
La norma in esame si chiude con la clausola di salvezza
delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445/2000 (Testo
unico della documentazione amministrativa). Dunque,
l'articolo 75 del dpr 445/2000 prevede la decadenza dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera, qualora dal
controllo delle dichiarazioni sostitutive emerga la non
veridicità del contenuto della dichiarazione.
Questa norma non impone di attendere alcuna sentenza e la
pubblica amministrazione può andare avanti da sola.
È molto difficile il coordinamento tra la due disposizioni.
Si potrebbe tentare un composizione dicendo che siamo di
fronte a non veridicità non costituente reato (ad esempio
per assenza di dolo), emersa dal controllo di dichiarazioni
sostitutive, allora la pubblica amministrazione potrà
pronunciare subito e autonomamente la decadenza dal
beneficio.
Se invece siamo di fronte a un reato di falsa
rappresentazione di fatti (fuori da autodichiarazioni) o di
false autodichiarazioni, allora la pubblica amministrazione
deve fare la denuncia e aspettare. Nel frattempo potrà al
massimo sospendere gli effetti dell'atto (articolo 21-quater
della legge 241/1990)
(articolo ItaliaOggi del 19.09.2015). |
APPALTI:
Cantone:
un codice appalti snello. «Abolizione regolamento e soft law»
- L’ipotesi di sdoppiare la delega.
Contratti pubblici. A Varenna il convegno del Consiglio di
Stato sulla riforma che recepisce le direttive Ue.
Chi pensava
che per la legge delega sugli appalti fosse tutto risolto,
sbagliava. A rivelare le tensioni profonde che ancora
restano sul percorso del nuovo codice è stata ieri la
giornata introduttiva del 61° Convegno di studi
amministrativi organizzato dal Consiglio di Stato a Varenna.
Almeno due le questioni che appassionano e dividono giuristi
e protagonisti del mondo degli appalti: la prima è quella
posta dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, di
abolire il regolamento generale per dare ampio spazio alla
soft law dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac)
guidata da Raffaele Cantone; la seconda, che finora era
stata discussa nella commissione di studio presieduta dal
capo del Dagl (l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi),
Antonella Manzione, ma non era ancora venuta allo scoperto
pubblicamente, è se la doppia operazione di recepimento
delle direttive Ue e di riordino del vecchio codice debba
avvenire in una sola puntata o in due tempi.
In altre parole
se si debba procedere a uno “spacchettamento” del decreto
legislativo della delega in due provvedimenti: il primo, da
emanare entro il termine del 18 aprile, per recepire le
direttive; il secondo, con un orizzonte temporale di fine
2016, per riordinare il vecchio codice partendo dal «cuore»
già individuato recependo le direttive.
Questa ipotesi è
emersa con le parole di Alessandro Pajno, presidente di
sezione del Consiglio di Stato e coordinatore scientifico
delle giornate di Varenna, e di Mario Pilade Chiti,
ordinario di diritto amministrativo a Firenze e membro della
commissione Manzione. Fuoco e fulmini, invece, da Raffaele
Cantone, presidente dell’Anac: perché si creerebbero tre
diversi regimi temporali (uno con il vecchio codice e
regolamento, uno con il recepimento delle direttive e
l’altro per attuare la restante parte della delega cioè il
riordino del vecchio codice), ma anche per motivi di
sostanza.
Come ha spiegato Chiti, le priorità definite dalle
direttive sono molto diverse da quelle individuate dai 53
criteri di delega approvati dal Senato. E tutti i poteri di
regolazione affidati all’Anac, per esempio, non stanno nelle
direttive ma nella delega “nazionale” e dovrebbero forse
aspettare il secondo tempo. Una novità che risulterebbe
clamorosa considerando che il trasferimento di poteri
regolatori a Cantone è il «cuore» della riforma voluta dal
Senato e questi poteri sarebbero ulteriormente rafforzati
dalla cancellazione del regolamento, ipotesi su cui per
altro, le posizioni emerse anche ieri sono più convergenti.
A Varenna anche Antonella Manzione, che come coordinatrice
della commissione che dovrà scrivere il testo attuativo
della delega, ha un ruolo centrale nel percorso. «La
commissione ha valutato questa opzione in sede tecnica -dice Manzione- e ritiene che si possa attuare la delega con
più decreti legislativi. Per certi versi il percorso sarebbe
più lineare e consentirebbe di introdurre nell’ordinamento
al meglio le innovazioni contenute nelle direttive. Il
secondo decreto seguirebbe a breve, non comportando grandi
problemi temporali. La decisione spetta ovviamente alla
Camera, ma si dovrà tener conto della posizione del governo.
Abbiamo anche considerato positivamente l’ipotesi della
soppressione del regolamento».
Cantone ha rimarcato che «la vera svolta, per evitare di
ritrovarci fra due anni ad affrontare le stesse questioni,
sarebbe data da un solo provvedimento che tenesse insieme
recepimento delle direttive e riordino del codice,
eliminando al tempo stesso il regolamento e lasciando spazio
a una soft regulation che avrebbe il grande vantaggio di
avvicinare le regole agli operatori».
Le delibere di soft regulation di Anac sono infatti sottoposte a procedimento di
consultazione che non c’è nel regolamento «lontano dalle
esigenze degli operatori». Sulla necessità di semplificare e
stabilizzare anche il presidente del Consiglio di Stato,
Giorgio Giovannini, che ha ricordato come solo il 42% delle
norme dell’attuale codice del 2006 sia rimasto stabile
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
primi passi per la mobilità. Pubblicato in «Gazzetta» il
decreto con le tabelle per chi cambia comparto.
Pa. Clausola di salvaguardia solo per le
voci «fisse e continuative» del trattamento accessorio - No
dei sindacati.
Arriva in
Gazzetta Ufficiale il decreto con le «tabelle di
equiparazione», che serve a disciplinare la mobilità dei
dipendenti pubblici tra un comparto e l’altro della Pa ed è
quindi essenziale per attuare un pezzo importante della
riforma delle Province: quello che dovrebbe spostare fino a
8mila persone dagli organici degli enti di area vasta alle
altre Pubbliche amministrazioni, ministeri in primis (il
primo bando è quello del ministero della Giustizia, che
secondo la legge dovrebbe accogliere fino a 2mila persone
nei prossimi due anni).
Previsto fin dalla riforma Brunetta ma mai attuato, il
provvedimento è stato rilanciato l’anno scorso dal
decreto-Madia (Dl 90/2014) ed è al centro delle polemiche
sindacali. Nel testo si prevede infatti che ai dipendenti
che si spostano in mobilità non volontaria (per la mobilità
volontaria, finora residuale, è scontato che si accettino le
regole della Pa di destinazione) sarà garantito l’eventuale
trattamento accessorio più favorevole solo per le voci «con
carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
La
riforma Delrio prevedeva un sistema diverso, rappresentato
dal cosiddetto “zainetto” nel quale il dipendente in
mobilità si sarebbe dovuto portare le risorse «in godimento
all’atto del trasferimento» (comma 96 della legge 56/2014).
I tagli miliardari a Province e Città metropolitane, ha
spiegato però nei mesi scorsi Palazzo Vidoni in una nota,
non permette di togliere altri fondi a questi enti, e da qui
nasce il nuovo meccanismo.
La garanzia sulle voci fisse e
continuative, aggiunge il decreto pubblicato in Gazzetta, si
attiva quando l’amministrazione ricevente individua la
copertura finanziaria: a questo scopo possono però essere
usati anche gli «spazi assunzionali», e dal momento che le
regole vincolano di fatto il turn-over al riassorbimento
degli ex provinciali, secondo il Governo non ci dovrebbero
essere problemi.
Non sarebbe facile, del resto, giustificare il mantenimento
di indennità particolari (per esempio quelle di turno, o
legate a «specifiche responsabilità») nate da fattori
assenti nella nuova destinazione. Ai sindacati, che ai tempi
della riforma Delrio avevano spinto sull’emendamento dello
“zainetto” per assicurare la garanzia totale sulle buste
paga, il nuovo sistema però non piace per niente, e le
previsioni annunciano ricorsi in tutti i casi che si
riveleranno “problematici”. Ad alimentare il contenzioso
potrà essere anche il fatto che a livello contrattuale manca
una definizione univoca per individuare le voci «fisse e
continuative», che però esiste sul piano previdenziale.
Nel mosaico dell’attuazione manca ora il decreto con i
criteri generali per la mobilità, all’esame della Corte dei
conti. E, soprattutto, mancano in otto Regioni le leggi di
redistribuzione delle funzioni: perché fino a quando non
sarà chiaro quali funzioni le Province devono continuare a
svolgere, non sarà possibile individuare puntualmente gli
“esuberi” da spostare (articolo Il Sole 24 Ore del
18.09.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Liquidazione
dopo 12 mesi agli under 62. Previdenza. In caso di
risoluzione da parte della pubblica amministrazione.
La liquidazione, o trattamento di fine servizio,
relativa alle risoluzioni unilaterali effettuate dalle
pubbliche amministrazioni nei confronti dei propri
dipendenti entro il 31 dicembre 2017 sarà corrisposto
trascorsi dodici mesi dalla cessazione.
Lo precisa l’Inps
con la
circolare
17.09.2015 n. 154.
La legge di stabilità per il 2015 ha modificato -tra
l’altro- la normativa relativa all’applicazione delle
penalità sui pensionamenti anticipati con età inferiori a 62
anni sospendendo le relative decurtazioni sulle quote
retributive. Ciò ha comportato, per i datori di lavoro
pubblici, la possibilità di pensionare i dipendenti anche
prima dell’età soglia, a condizione che comunque abbiano
perfezionato i requisiti per l’accesso al pensionamento
anticipato.
Con il messaggio 8680/2014 l’Inps aveva
stabilito che, qualora la risoluzione unilaterale del
rapporto di lavoro fosse esercitata dalle Pa prima del
62esimo anno di età, il trattamento di fine
servizio/rapporto fosse corrisposto trascorsi 24 mesi dalla
cessazione, parificando la cessazione a dimissioni
volontarie, poiché il dipendente accettava una pensione con
le decurtazioni. Dal 2015, venendo meno le penalità,
l’istituto precisa che i termini di pagamento tornano a
essere di dodici mesi, così come è accaduto fino alla fine
dello scorso anno per le cessazioni con età superiori a 62.
La legge di stabilità ha abolito, inoltre, alcuni benefici
previsti dal codice dell’amministrazione militare. In
particolare ai militari ufficiali non può essere più
concessa la promozione al grado superiore nell’ultimo giorno
di servizio se cessano per raggiungimento del limite di età
e sono iscritti in quadro di avanzamento o giudicati idonei
ma non iscritti in quadro di avanzamento e che non possono
conseguire la promozione o essere valutati perché divenuti
permanentemente inabili al servizio oppure perché cessati
per infermità o decesso dipendenti da causa di servizio.
Inoltre è venuta meno la possibilità di promuovere,
nell’ultimo giorno di servizio, sottufficiali e graduati in
servizio permanente che sono, per esempio, giudicati idonei
e iscritti in quadro di avanzamento e non promossi o che non
possono essere valutati. Anche gli appuntati e i carabinieri
che, avendo maturato l’anzianità prescritta, non possono
essere valutati per l’avanzamento o per aver raggiunto i
limiti di età o perché divenuti permanentemente inabili al
servizio militare o perché deceduti, non potranno ottenere
la promozione.
Per la Polizia di Stato non può più essere
attribuita ai dirigenti superiori (con almeno cinque anni di
anzianità nella qualifica) la promozione alla qualifica di
dirigente generale a decorrere dal giorno precedente la
cessazione dal servizio.
Poiché la retribuzione dell’ultimo
giorno di servizio viene presa a riferimento per il calcolo
dell’indennità di buonuscita nonché della quota A di
pensione, l’abrogazione di tali norme comporta una minore
spesa per le finanze pubbliche (articolo Il Sole 24 Ore del
18.09.2015). |
VARI:
Cibo,
obbligo d'informare. Allergeni in chiaro in bar, mense e
catering.
Una bozza di decreto del governo prevede il
vincolo per i gestori di esercizi.
I responsabili della somministrazione di alimenti nei
pubblici esercizi (bar, ristoranti, mense, esercizi di
catering) hanno l'obbligo di informare i propri clienti
sulla eventuale presenza di sostanze che possono provocare
allergie. L'indicazione delle sostanze o prodotti che
provocano allergie o intolleranze deve essere fornita prima
che l'alimento venga servito al consumatore finale.
L'indicazione degli allergenici deve essere apposta su menu
o registro o apposito cartello o altro sistema equivalente,
da tenere bene in vista.
Queste sono alcune delle misure contenute in una bozza di
dpcm (stilato da ministero dello sviluppo economico e
ministero della salute) di cui ItaliaOggi è in grado
anticipare i contenuti.
Il provvedimento è modificativo del dlgs 109/1992, di adeguamento della normativa nazionale in
materia di indicazione degli allergeni. Il 16 settembre le
principali associazioni di categoria del settore alimentare,
in rappresentanza della parte industriale, della
distribuzione e dell'artigianato, hanno incontrato il
ministro dello sviluppo economico per un confronto sul tema
dell'etichettatura alimentare.
Le associazioni hanno chiesto
di accelerare la formale adozione dei provvedimenti in
materia di etichettatura la cui predisposizione è stata
oggetto di confronto con tutte le componenti della filiera e
con le amministrazioni interessate.
Denominazione specifica. Un ingrediente richiamato nella
denominazione dell'alimento o nell'etichettatura in generale
di un prodotto finito può figurare con il solo nome
generico, purché nell'elenco ingredienti esso compaia con la
sua denominazione specifica. L'indicazione del termine
minimo di conservazione non è richiesta per i prodotti di
confetteria consistenti quasi unicamente in zuccheri e/o
edulcoranti, aromi e coloranti quali caramelle e pastigliaggi.
Il livello di specificazione deve venire
riferito ai singoli ingredienti allergenici identificati
nelle normative. Non ci si può riferire al «glutine» o ai
«cereali contenenti glutine», ma ai singoli cereali, non si
cita la «frutta secca con guscio», ma le singole specie
tassativamente definite (tra le quali figurano, per esempio,
le mandorle, ma non i pinoli).
Lotto. Un prodotto alimentare può essere commercializzato
solo se accompagnato da un'indicazione che consente di
identificarne lotto o partita alla quale appartiene. Per
lotto o partita si intende un insieme di unità di vendita di
un prodotto alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate
in circostanze praticamente identiche.
Imballaggi. Gli imballaggi di qualsiasi specie, destinati al
consumatore, contenenti prodotti preconfezionati, possono
non riportare le indicazioni prescritte agli articoli 9 e 10
del regolamento (Ue) n. 1169/2011, purché esse figurino
sulle confezioni dei prodotti alimentari contenuti.
Qualora
dette indicazioni non siano verificabili dall'esterno,
sull'imballaggio devono figurare almeno la denominazione dei
singoli prodotti contenuti, l'indicazione delle sostanze o
prodotti che provocano allergie o intolleranze e il termine
minimo di conservazione o la data di scadenza del prodotto
avente la durabilità più breve.
Distributori automatici.
Nel caso di distribuzione di alimenti non preconfezionati,
posti in involucri protettivi, o di bevande a preparazione
estemporanea o ad erogazione istantanea, devono essere
riportati sui distributori o nei locali commerciali
automatizzati e per ciascun prodotto, la denominazione di
vendita del prodotto finito, e l'elenco degli ingredienti,
nonché il nome o la ragione sociale e l'indirizzo
dell'impresa responsabile della gestione dell'impianto
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Catasto terreni. Particelle nulle, ok alla
visura.
Dal 1° giugno è possibile ottenere l'estratto di mappa
digitale per atto di aggiornamento anche per le particelle
che risultano avere superficie nulla nell'archivio censuario
del catasto terreni. Al momento della richiesta
dell'estratto di mappa per atto di aggiornamento nel campo
«particelle» deve essere digitato il numero della particella
con superficie censuaria nulla (manufatti interrati, grotte,
impianti fotovoltaici, particelle gravate di diritto di
superficie ecc.) comprensivo di parentesi tonde e anche il
numero della particella a destinazione ordinaria.
È con la
comunicazione
03.09.2015 n. 113303 di prot.
che l'Agenzia delle entrate, direzione centrale catasto e
cartografia - area servizi cartografici, ha chiarito le
procedure telematiche per l'invio degli atti tecnici di
aggiornamento catastale (Docfa e Pregeo) trasmessi con il
modello unico informatico catastale (Muic).
Le entrate hanno
comunicato di avere integrato dall'01.06.2015 la
procedura del rilascio dell'estratto di mappa digitale per
atto di aggiornamento con la possibilità di richiederlo
anche per le particelle che risultano avere superficie nulla
nell'archivio censuario del catasto dei terreni. In caso di
irregolare funzionamento del servizio telematico, l'atto di
aggiornamento, sottoscritto con firma digitale, è presentato
presso l'ufficio territorialmente competente su supporto
informatico.
A decorrere dal primo giugno 2015, i
professionisti iscritti agli ordini e collegi professionali,
abilitati alla predisposizione e alla presentazione degli
atti di aggiornamento catastale, utilizzano le procedure
telematiche per l'accertamento delle unità immobiliari
urbane di nuova costruzione, le dichiarazioni di variazione
dello stato, la consistenza e la destinazione delle unità
immobiliari già censite
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Parere
sui nuovi canali di pagamento. Parcheggi, l'app non vale
sempre.
Via libera alle app per il pagamento del
parcheggio in zona blu con il telefono cellulare ma solo
nelle aree in concessione presidiate dagli ausiliari del
traffico. Oppure negli ambiti urbani dove è stato raggiunto
un accordo tra gli organi di vigilanza per effettuare il
controllo della sosta in maniera univoca. E fermo restando
che deve essere sempre ammessa anche la possibilità di
pagare in modalità tradizionale.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
07.09.2015 n.
4388.
All'interno del centro abitato l'art. 7 del codice stradale
dispone che si possono stabilire le aree destinate al
parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al
pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di
controllo di durata della sosta, anche senza custodia del
veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe.
Ai sensi
dell'art. 157, comma 6, del codice della strada, nei luoghi
in cui la sosta è permessa per un tempo limitato è fatto
obbligo ai conducenti di segnalare, in modo chiaramente
visibile, l'orario in cui la sosta ha avuto inizio e di
porre in funzione il dispositivo di controllo della durata
della sosta. Oltre ai tradizionali parcometri, ai gratta e
sosta e agli abbonamenti, si sono diffusi più recentemente
sistemi che consentono di pagare tramite smartphone la
tariffa della sosta a pagamento.
Su questa nuova modalità è arrivato però un importante
chiarimento da parte del ministero dei trasporti. Specifica
infatti la nota n. 4388 che nelle aree pubbliche dove vige
un sistema di sosta a pagamento è ancora necessario esporre
il relativo titolo che comprova l'avvenuto pagamento della
tariffa e che consente di verificare la durata della sosta.
Peraltro con le modifiche introdotte dalla legge di
stabilità 2014 dal 01.01.2014 il pagamento della tariffa
mediante telefono è ora astrattamente possibile.
Di fatto, prosegue il ministero dei trasporti, non essendo
stato modificato il codice stradale l'uso di questa modalità
di pagamento è ammessa per il parcheggio in area limitata o
privata in concessione, mentre invece sorgono difficoltà per
la sosta su area pubblica dove si deve garantire
l'esposizione di un titolo di pagamento affinché possa
essere svolto il controllo, da parte di qualsiasi organo di
polizia stradale, dell'effettiva durata della sosta
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
mobilità non per tutti. Gli enti sceglieranno le tipologie
di dipendenti da assumere.
Il decreto del ministro Madia non garantisce la
piena ricollocazione degli esuberi.
Il decreto contenente i criteri per la
mobilità non assicura la piena ricollocazione dei dipendenti
in sovrannumero di province e città metropolitane.
Il testo del decreto firmato nei giorni scorsi dal ministro
Marianna Madia e in attesa della registrazione da parte
della Corti dei conti contiene una «falla», del resto
ammessa dalla legge 190/2014, per effetto della quale molti
dipendenti in sovrannumero potrebbero restare senza lavoro.
Il problema è creato dal modo col quale il decreto prevede
che regioni, enti locali e ministeri inseriscano i dati
relativi ai posti di organico utili per il trasferimento dei
dipendenti degli enti di area vasta.
L'articolo 5, comma 1, del decreto dispone che «le regioni e
gli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici da
essi dipendenti e gli enti del Servizio sanitario nazionale,
esclusi gli enti di area vasta, inseriscono nel Portale
della mobilità, con le modalità ivi indicate, i posti
disponibili in base alle proprie facoltà di assumere»; lo
stesso vale per i ministeri. Il successivo comma 3 aggiunge
e precisa: «le amministrazioni, ai fini dell'attuazione dei
commi 1 e 2, individuano i posti disponibili, nell'ambito
delle dotazioni organiche, tenendo conto, in relazione al
loro fabbisogno, delle funzioni riordinate, delle aree
funzionali e delle categorie di inquadramento dei dipendenti
in soprannumero».
In sostanza, quindi, il decreto non impone alle
amministrazioni di rendere noti i posti vacanti della
dotazione organica e di selezionare, poi, i dipendenti
tenendo conto dei limiti di spesa per le assunzioni. Al
contrario, si permette a ciascun ente di «filtrare» le
assunzioni, decidendo autonomamente a monte, sulla base dei
propri fabbisogni, a quali aree e categorie di inquadramento
apparterranno i posti da segnalare nel portale per
l'incontro domanda/offerta di mobilità.
Il rischio è che intere categorie di dipendenti delle aree
vaste restino fuori, rischio, del resto confermato dalle sia
pur sparute procedure di mobilità interamente riservata fin
qui gestite: il 90% e più dei trasferimenti ha riguardato
esclusivamente i dipendenti inquadrati in categoria C, gli
«istruttori», con simmetrica pretermissione dei funzionari
in categoria D e dei dipendenti con inquadramento da
operatore, appartenenti alla categoria B. Nemmeno l'ombra,
poi, c'è stata di mobilità per i dirigenti.
Il meccanismo previsto dal dpcm non risolve questo problema
ed, anzi, lo acuisce. Il governo in questo modo è andato in
totale contraddizione con quanto previsto dall'articolo 2,
comma 13, del dl 95/2012, ove si era previsto, per gestire i
processi di riduzione delle dotazioni organiche, che la
Funzione pubblica avviasse un monitoraggio dei posti vacanti
presso le amministrazioni pubbliche, redigendone un elenco,
da pubblicare sul relativo sito web, così da permettere al
personale da trasferire do presentare domanda di
ricollocazione nei posti vacanti, tutti i posti della
dotazioni; il tutto completato dall'obbligo, per le
amministrazioni di accogliere le domande di mobilità.
Il dpcm, invece, consente una barriera «a monte»,
permettendo agli enti di selezionare quali posti vacanti
inserire nella piattaforma dell'incontro domanda/offerta. Il
che renderà estremamente difficile i trasferimenti in
particolare dei dipendenti inquadrati in categoria D. Un
problema particolare riguarderà, per esempio, i direttivi o
i funzionari delle polizie provinciali, appunto inquadrati
nella categoria D: la gran parte dei comuni interessati ad
assumere dipendenti provinciali della polizia ha i posti di
comandante o di responsabile, quelli coperti da personale di
qualifica dirigenziale o di categoria D), già coperti.
Il dpcm consente loro, dunque, di manifestare il solo
fabbisogno degli agenti da inquadrare nella categoria C, il
che rende molto probabile una difficoltà estrema nella
ricollocazione delle figure di vertice della polizia
provinciale. Ma l'esempio, in realtà, riguarda la gran parte
delle strutture degli enti di area vasta
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
APPALTI:
Migranti,
regole Ue per l'asilo. In emergenza, ammessi affidamenti
senza gara per gli alloggi.
Norme di aggiudicazione decise da Bruxelles in
via di pubblicazione sulla Gazzetta europea.
Per gli appalti connessi all'emergenza dei migranti
richiedenti asilo, le amministrazioni dovranno valutare caso
per caso la procedura da scegliere per l'aggiudicazione di
appalti volti a soddisfare le necessità immediate dei
migranti (alloggi, beni e servizi).
Per appalti sopra la soglia comunitaria, se non sarà
possibile con risorse proprie, con una cooperazione
pubblico-pubblico o avvalendosi di appalti già esistenti, la
nuova gara potrà essere svolta in modalità «accelerata» con
riduzione dei termini fino a dieci giorni.
Inoltre, è ammessa la procedura negoziata senza gara se i
termini, ancorché brevi, non possono assicurare l'esigenza
di fornire rapidamente alloggi o vitto.
È quanto ha chiarito
l'Unione europea con la
comunicazione
09.09.2015 della Commissione al
parlamento Ue e al consiglio sulle
norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in relazione
all'attuale crisi nel settore dell'asilo, in fase di
pubblicazione sulla Gazzetta europea, che ha lo scopo di
fornire un quadro generale delle possibilità a disposizione
dei committenti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici,
per mettere rapidamente a disposizione infrastrutture
(alloggi), beni e servizi di prima necessità.
Per quel che riguarda le infrastrutture, per esempio gli
alloggi, la comunicazione chiarisce che possono essere messe
a disposizione in primo luogo mediante la locazione di
fabbricati esistenti che non richiedono notevoli adeguamenti
(ossia lavori) e in questo caso non si applicano le regole
sugli appalti.
Pertanto, in base alla disponibilità, le amministrazioni
potranno fornire gli alloggi «senza procedure di
aggiudicazione di appalti affittando fabbricati già
esistenti sul mercato o adibendo ad alloggio infrastrutture
pubbliche esistenti (caserme, scuole, strutture sportive)».
In secondo luogo gli alloggi potranno essere realizzati ex
novo ma in questo caso le norme Ue sugli appalti pubblici
possono essere d'applicazione se il valore stimato del
progetto di edificazione-ristrutturazione-adeguamento
risulta pari o superiore alla soglia di 5.186.000 euro:
importante notare che la soglia dovrà essere calcolata per
«ogni progetto funzionalmente indipendente».
Quindi, se un comune prevede di realizzare una serie di
progetti abitativi diversi, dovrà calcolare il valore di
ogni singolo progetto separatamente per stabilire se la
soglia sia stata raggiunta; non potrà invece frazionare un
progetto d'opera al fine di escluderlo dall'applicazione
della direttiva. Per progetti di importo inferiore andranno
applicati i principi generali del diritto dell'Unione con
l'avvertenza che la non discriminazione sulla base della
nazionalità, l'uguaglianza di trattamento e la trasparenza,
si applicano se il progetto ha un interesse transfrontaliero
certo.
Per i servizi la comunicazione chiarisce che, nei casi in
cui il servizio da affidare non sia compreso nell'elenco IIA
della direttiva 2014/24, occorrerà comunque effettuare una
post pubblicazione sui risultati della gara.
Dal punto di vista delle modalità di affidamento il ricorso
alla procedura negoziata senza gara dovrà essere sempre
eccezionale e motivato con una relazione ad hoc che dimostri
l'esistenza delle condizioni che giustificano l'uso di
questa procedura.
Se quindi un comune non ha potuto avere contezza del numero
di migranti attesi si configura la fattispecie di «evento
imprevedibile»; inoltre, dice la commissione, non si può
ragionevolmente mettere in dubbio il nesso di causalità tra
l'aumento dei richiedenti asilo e la necessità di soddisfare
i loro bisogni, elemento che giustifica il mancato rispetto
dei termini ordinari di gara
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Controlli
di legalità ai dirigenti. La figura del segretario è
sostituita dal manager apicale.
Le novità della riforma Madia in materia di
governance delle amministrazioni locali.
La legge n. 124/2015, «Deleghe al governo in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», riforma
il sistema della dirigenza pubblica che sarà articolato nei
decreti delegati in tre ruoli unificati e coordinati
(dirigenti statali, regionali e di enti locali), accomunati
da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di
reclutamento, gestiti da apposite Commissioni.
In base all'art. 11, comma 1, lett. b), n. 4), il
legislatore delegato dovrà procedere all'abolizione della
figura del segretario comunale e provinciale, inserendo gli
attuali segretari nel ruolo unico dei dirigenti degli enti
locali, e prevedere l'obbligo per tutti gli enti locali di
nominare un dirigente apicale; per le città metropolitane e
i comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti, la
normativa delegata dovrà prevedere la facoltà di nominare,
in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale.
Il dirigente apicale è l'unica figura dirigenziale prevista
come obbligatoria nella legge delega, che ne determina anche
i compiti.
Spetta al dirigente apicale l'attuazione dell'indirizzo
politico, il coordinamento dell'attività amministrativa, il
controllo della legalità dell'azione amministrativa, nonché
la funzione rogante. Tra i compiti del dirigente apicale,
accanto a quelli attualmente esercitati dal segretario
comunale, figura anche quello relativo all'attuazione
dell'indirizzo politico, funzione che nella vigente
disciplina risulta tipizzata negli stessi termini per il
direttore generale, chiamato «ad attuare gli indirizzi e gli
obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente» (art.
108 del Tuel).
Il dirigente apicale è dunque una figura di vertice con
compiti di direzione complessiva dell'ente e di garanzia
della legittimità dell'azione amministrativa. Per le città
metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100
mila abitanti che abbiano scelto di nominare un direttore
generale, è previsto l'obbligo di attribuire ad altro
dirigente di ruolo il controllo della legalità dell'azione
amministrativa e la funzione rogante.
Per i comuni di minori dimensioni demografiche è invece
previsto l'obbligo di gestire la funzione di direzione
apicale in forma associata.
È prevedibile che i compiti fondamentali del dirigente
apicale, predeterminati dal legislatore delegante, siano
oggetto di «estensione» nei decreti delegati, anche se le
ulteriori attribuzioni dovranno essere coerenti con le
scelte di fondo effettuate dal legislatore delegante (ad
esempio prevedendo la partecipazione con funzioni
consultive, referenti e di assistenza alle riunioni sia di
consiglio che di giunta).
Chi potrà essere nominato dirigente apicale? La legge n.
124/2015 pone innanzitutto una disciplina transitoria.
In sede di prima applicazione e per un periodo non superiore
a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto
legislativo adottato in attuazione della delega, gli enti
locali, tranne quelli che si sono avvalsi della facoltà di
nomina del direttore generale, hanno l'obbligo di conferire
l'incarico di direzione apicale ai soggetti precedentemente
iscritti nell'albo dei segretari comunali.
A regime è auspicabile che il legislatore delegato
individui, all'interno dei ruoli unici, i profili
professionali dirigenziali e crei un profilo professionale
di dirigente apicale, stante l'assoluta peculiarità del
ruolo e della disciplina che a tale ruolo è riservata già
nella legge delega.
Tale individuazione si rende necessaria, non soltanto per
ragioni di razionalità ed efficienza nella gestione dei
ruoli unici dirigenziali, ma anche e soprattutto al fine di
garantire che la funzione cardine dell'amministrazione
locale sia ricoperta da dirigenti in possesso di adeguata
professionalità. Innovativa poi è la procedura di nomina del
dirigente apicale che verrà effettuata dopo un avviso
dell'amministrazione comunale, sulla base di requisiti e
criteri definiti dall'amministrazione stessa.
A seguito delle dichiarazioni di disponibilità da parte dei
dirigenti interessati, in possesso delle competenze e
professionalità necessarie a ricoprire l'incarico, la
Commissione per la dirigenza locale effettuerà la
preselezione di un numero predeterminato di candidati in
possesso dei requisiti richiesti, tra i quali verrà
effettuata la scelta da parte del «soggetto nominante».
La legge delega prevede poi «che gli incarichi di
funzione dirigenziale apicale cessano se non rinnovati entro
90 giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi»
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
False
perizie difficili da provare. Consulenti tecnici. Non basta
l’errore, occorre la dolosa alterazione del vero.
Non può essere condannato per falsa perizia
(articolo 373 del Codice penale) l’ingegnere Ctu per i danni
all’immobile conseguenti all’edificazione di un altro
edificio se il tecnico esclude che le problematiche
riscontrate siano riconducibili ai lavori, tesi sostenuta da
un perito voluto dal Pm.
A stabilirlo è la
Corte di Cassazione -Sez. VI penale- con la sentenza 21.09.2015 n. 38307
secondo cui «i pareri o le interpretazioni mendaci si
concretizzano in un giudizio che intanto è caratterizzato da
mendacio, in quanto si scosta e differisce da quella che,
secondo la coscienza del reo, costituisce la verità: si
tratta pertanto di una divergenza intenzionale, voluta e
cosciente tra il convincimento reale e quello manifestato,
nell'elaborato tecnico in risposta ai quesiti del giudice».
I consulenti devono «apportare il loro contributo
originale di osservazioni e di giudizi sull’oggetto della
prova, con il rischio che, nel pesare la loro condotta, si
finisca col confondere l’involontario errore della mente,
oppure la cattiva qualità della prestazione professionale,
con la dolosa alterazione del vero».
Quindi l’opinabilità dei temi in gioco di tipo tecnico, non
a sufficienza posta in discussione dal gravame, finisce per
divenire incompatibile con i presupposti oggettivi o
soggettivi del reato. Peraltro la difesa a sua volta aveva
confutato la perizia del Pm che lo accusava di utilizzo di
falsi dati storici (articolo Il Sole 24 Ore del
22.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: In
merito al processo amministrativo che coinvolge l’ente
locale, è infondata l’eccezione con la quale si deduca
l’inammissibilità dell’appello sollevata sul presupposto che
la decisione di agire o resistere in giudizio, con la scelta
del professionista cui affidare il patrocinio, sarebbe di
pertinenza dell’apparato burocratico e non invece degli
organi di governo dell’ente.
Invero, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, di cui
al D.Lgs. n. 267 del 2000, salva diversa previsione dello
statuto comunale o dei regolamenti a cui il medesimo faccia
espresso rinvio, è previsto che la rappresentanza legale
dell’ente compete al Sindaco, il quale non necessita di
preventiva autorizzazione ad agire o a resistere in
giudizio.
Con una prima eccezione la sig.ra Sc. deduce
l’inammissibilità dell’appello, in quanto la decisione di
agire o resistere in giudizio, con la scelta del
professionista cui affidare il patrocinio, sarebbero di
pertinenza dell’apparato burocratico e non degli organi di
governo dell’ente.
L’eccezione è infondata.
Al riguardo basta rilevare che nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali, di cui al D.Lgs. 18/08/2000 n. 267 –salva
diversa previsione dello statuto comunale o dei regolamenti
a cui il medesimo faccia espresso rinvio– la rappresentanza
legale dell’ente compete al Sindaco, il quale non necessita
di preventiva autorizzazione ad agire o a resistere in
giudizio (Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2006 n. 3452; Cass.
Civ. SS. UU. 27/06/2005 n. 13710).
Nel caso di specie, non è stata nemmeno addotta l’esistenza
di una norma statutaria o regolamentare che preveda la
preventiva autorizzazione a stare in giudizio, da qui la
rilevata infondatezza dell’eccezione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.09.2015 n. 4395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Nullo il
patto sui canoni in nero. L’inquilino può riottenere quanto
versato in più rispetto al «concordato».
Sezioni unite civili. Doppio intervento della Cassazione: per la
locazione occorre la forma scritta «ad essentiam».
Gli affitti in nero portano a conseguenze
pericolose, soprattutto per il locatore. La Corte di
cassazione, intervenendo a Sezioni unite su un tema che ha
suscitato più di una perplessità, ridisegna i confini della
nullità dei contratti verbali e di quelli che, pur scritti,
si accompagnano a scritture private con patti diversi (in
generale integrazioni del canone ufficialmente pattuito). E
compie un revirement rispetto alla sentenza 16089/2003.
Con la
sentenza 17.09.2015 n. 18213 (conseguenza
dell’ordinanza di rimessione della III Sez. civile n.
20480/2014), la Corte di Cassazione ha affrontato la
questione della forma scritta.
Partendo dal caso di uno sfratto, convalidato nel 2006, da
un immobile il cui contratto di locazione era stato
stipulato in forma verbale nel 2003. Anzitutto, facendo
riferimento alla norma di cui all’articolo 13 della legge
431/1998, richiama le teorie neoformaliste e
«l’impraticabilità di una automatica applicazione della
disciplina della nullità in mancanza della forma scritta ad substantiam, essendo piuttosto necessario procedere a un’intepretazione
assiologicamente orientata. (...). Così, il carattere
eccezionale o meno della norma sulla forma (...) dovrà
risultare da un procedimento interpretativo».
La sentenza prevede poi illustrando i vari orientamenti di
dottrina e giurisprudenza, aderendo al filone interpretativo
che ritiene «necessaria la forma scritta ad essentiam,
limitando, peraltro, la rilevabilità della nullità in favore
del solo conduttore nella specifica ipotesi di cui
all’articolo 13, comma 5, della legge 431/1998, che gli accorda
una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto,
da parte del locatore, un rapporto di locazione di fatto,
stipulato solo verbalmente».
Le Sezioni unite definiscono quindi due ipotesi: la prima,
quando il conduttore sia stato «costretto» dall’abuso del
locatore a un contratto verbale, con la conseguente
«necessità di un riequilibrio del rapporto mediante (...)
un’ipotesi di nullità relativa». Qui, però, la Cassazione
richiede che sia il locatore ad avere preteso questo
rapporto di fatto, subìto dal conduttore, e che tale
condizione, unitamente all’esistenza del contratto verbale,
vada accertata dal giudice. In questi casi il conduttore (e
lui solo) potrà chiedere che la locazione nulla «venga
ricondotta a condizioni conformi» ai canoni “concordati”.
L’altra ipotesi è che la forma verbale sia stata concordata
liberamente, senza costrizioni: in questo caso il locatore
potrà agire in giudizio per ottenere la liberazione
dell’immobile occupato senza titolo, e il conduttore potrà
ottenere la restituzione delle somme versate in misura
eccedente il canone concordato.
La sentenza 18213 delle Sezioni unite, anch’essa depositata
ieri, riguarda invece il caso di una scrittura privata
(esplicitamente concepita a fini di evasione fiscale) che,
accanto al contratto regolarmente scritto e registrato,
prevedeva il pagamento di una somma in più (assai
superiore). La sentenza risponde all’ordinanza
interlocutoria 37/2014.
Dopo varie considerazioni sulla
simulazione, la Corte conclude (ribaltando l’interpretazione
data dalla sentenza 16089/2003) per la nullità della
«controdichiarazione» in aumento del canone, che sostanzia
una sostituzione vietata dalla legge. Il conduttore può così
riottenere tutte le somme versate. E a nulla vale la tardiva
registrazione della controdichiarazione (articolo Il Sole 24 Ore del
18.09.2015). |
VARI:
Mini-affitti, ha fini elusivi la carta col canone
vero.
Fra il contratto registrato con l'affitto irrisorio per
risparmiare sulle tasse e la scrittura privata a latere con
il canone vero da pagare soltanto il primo è valido e si
deve applicare: la controdichiarazione è infatti nulla
perché viola la norma imperativa di cui alla legge 431/98,
laddove il legislatore intendeva sanzionare con la nullità
ogni «previsione occulta di una maggiorazione del canone
apparente».
Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di
Cassazione con la
sentenza 17.09.2015 n. 18213,
che risolve un contrasto di giurisprudenza e supera
l'orientamento contrario della sentenza 16089/2003.
Sono anche
principi etico-costituzionali, scrivono gli “ermellini”,
a impedire che possa invocare tutela giurisdizionale chi si
dichiara «impunemente» evasore fiscale dinanzi alla Corte
suprema di un Paese europeo. Intento antielusivo - Niente da
fare per il proprietario del villino: deve accontentarsi
dell'affitto di 387,35 euro al mese che risulta dal
contratto registrato invece che prendersi i 1.700 euro al
mese della scrittura privata sottoscritta a latere, anche se
all'inadempimento del conduttore ha provveduto subito a
registrare il contratto “vero”.
La vicenda è chiara: le parti del contratto di locazione,
con la controdichiarazione scritta cui partecipano entrambe
contestualmente, convengono che il canone deve essere
modificato in aumento secondo quanto prevede la scrittura
privata, il tutto perché il locatore vuole evadere il fisco.
Ma la sostituzione del canone fittizio con quello vero
dell'accordo segreto è nulla sulla base dell'articolo 13
della legge 431/1998. E la sanzione della nullità non
dipende dalla mancata registrazione del contratto,
altrimenti bisognerebbe riconoscere efficacia sanante
all'adempimento tardivo.
Invece il punto è che la controdichiarazione inserita
nell'ambito del procedimento simulatorio, con il contratto
fittizio e la scrittura a latere, è affetta da una nullità
insanabile per contrarietà a norma imperativa dal momento
che la legge 431/1998 ha un indiscutibile intento
antielusivo: il legislatore del 1998 sanziona con la nullità
ogni patto che prevede un affitto maggiore del canone
ufficiale per contrastare il sommerso nel mercato delle
locazioni
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
APPALTI: Pur
dovendo ammettersi in via generale, ai sensi dell’art. 76
del d.lgs. n. 163 del 2006, ove la gara venga espletata
secondo il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, la possibilità per le imprese di proporre
aggiustamenti e variazioni migliorative indispensabili sotto
l’aspetto tecnico, tuttavia, tale facoltà incontra il limite
intrinseco consistente nel divieto di alterare i caratteri
essenziali (c.d. requisiti minimi) della prestazione oggetto
del contratto, così come stabiliti dalla lex specialis.
La ratio della limitazione appena delineata riposa sulla
duplice esigenza di non ledere la par condicio tra i
concorrenti e, nel contempo, di garantire il concreto
soddisfacimento delle finalità pubblicistiche sottese al
progetto posto a base di gara.
In tale prospettiva, sono reputate ammissibili varianti
migliorative riguardanti le modalità esecutive dell’opera (o
del servizio), purché non si traducano in una diversa
ideazione dell’oggetto del contratto, che si ponga come del
tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla stazione
appaltante, e sempre che le variazioni proposte garantiscano
l’efficienza del progetto e la realizzazione delle esigenze
della P.A..
La ratio della normativa comunitaria, tradottasi nell’art.
76, d.lgs. n. 163 del 2006, che –nelle gare col criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa– consente la
presentazione di varianti, riposa sulla circostanza che la
stazione appaltante ha maggiore discrezionalità e
soprattutto sceglie il contraente valutando non solo criteri
matematici ma la complessità dell’offerta proposta, sicché
nel corso del procedimento di gara potrebbero rendersi
necessari degli aggiustamenti rispetto al progetto base
elaborato dall’amministrazione.
L’ammissione di un’offerta in variante costituisce una
valutazione afferente a criteri di discrezionalità tecnica,
per cui, in considerazione degli ampi margini di
discrezionalità che connotano le valutazioni della stazione
appaltante, il sindacato giurisdizionale in materia deve
essere circoscritto ai casi di manifesta erroneità o
irragionevolezza delle scelte compiute dall’amministrazione.
Secondo la giurisprudenza che s’è formata, quanto
all’interpretazione dell’art. 76 cit.: “Pur dovendo
ammettersi in via generale, ai sensi dell’art. 76 del d.lgs.
n. 163 del 2006, ove la gara venga espletata secondo il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la
possibilità per le imprese di proporre aggiustamenti e
variazioni migliorative indispensabili sotto l’aspetto
tecnico, tuttavia, tale facoltà incontra il limite
intrinseco consistente nel divieto di alterare i caratteri
essenziali (c.d. requisiti minimi) della prestazione oggetto
del contratto, così come stabiliti dalla lex specialis. La
ratio della limitazione appena delineata riposa sulla
duplice esigenza di non ledere la par condicio tra i
concorrenti e, nel contempo, di garantire il concreto
soddisfacimento delle finalità pubblicistiche sottese al
progetto posto a base di gara. In tale prospettiva, sono
reputate ammissibili varianti migliorative riguardanti le
modalità esecutive dell’opera (o del servizio), purché non
si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del
contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto
a quello voluto dalla stazione appaltante, e sempre che le
variazioni proposte garantiscano l’efficienza del progetto e
la realizzazione delle esigenze della P.A.” (TAR
Campania–Napoli, Sez. I, 9/04/2014, n. 2028), con
l’importante precisazione, secondo la quale: “La ratio della
normativa comunitaria, tradottasi nell’art. 76, d.lgs. n.
163 del 2006, che –nelle gare col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa– consente la presentazione
di varianti, riposa sulla circostanza che la stazione
appaltante ha maggiore discrezionalità e soprattutto sceglie
il contraente valutando non solo criteri matematici ma la
complessità dell’offerta proposta, sicché nel corso del
procedimento di gara potrebbero rendersi necessari degli
aggiustamenti rispetto al progetto base elaborato
dall’amministrazione. L’ammissione di un’offerta in variante
costituisce una valutazione afferente a criteri di
discrezionalità tecnica, per cui, in considerazione degli
ampi margini di discrezionalità che connotano le valutazioni
della stazione appaltante, il sindacato giurisdizionale in
materia deve essere circoscritto ai casi di manifesta
erroneità o irragionevolezza delle scelte compiute
dall’amministrazione” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
23/12/2013, n. 2595)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L’art. 35 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207, a
proposito della documentazione che deve comporre il
progetto esecutivo, quanto alle relazioni
specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede
almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel
progetto definitivo, che illustrino puntualmente le
eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le
modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai
sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le
relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo
figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che,
di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato
anche del progetto esecutivo.
Va specificato che il richiamo alla nozione di “relazioni
tecniche e specialistiche” di cui alla rubrica dell’art. 26,
va inteso in senso complementare e non alternativo, essendo
tale accezione opponibile solo al più ampio elaborato
costituito dalla relazione generale, che potrebbe avere
anche contenuti non tecnici, oltre, che, per definizione,
non specialistici.
Riprova di tale assunto è che l’art. 35 del regolamento non
contiene anche l’espressione relazioni tecniche (ma solo
relazioni specialistiche), sebbene queste abbiano finalità
illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del
progetto definitivo che non possono non riguardare anche
profili tecnici, come proprio quello geologico (...).
A ben vedere, tale esigenza, dal punto di vista
logico–funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta
simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di
progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in
materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la
preferenza del legislatore per una progettazione in
progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in
cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura
funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione
esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso
armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si
finiscono per ritrovarsi.
Ebbene, urterebbe con tale costruzione la possibilità in
alcune fasi di progettazione di segnare il passo rispetto al
livello successivo di differenziazione, in violazione
dell’autonomia funzionale riconosciuta ai vari livelli.
Quand’anche,
in ogni caso, le superiori considerazioni dovessero tenersi
in non cale, rileva il Tribunale che appare fondato il
ricorso incidentale, proposto dalla Bulfaro s.p.a.,
conformemente, oltre che a recente giurisprudenza della
Sezione (sentenza n. 734 del 07.04.2015), anche e soprattutto
all’inequivocabile orientamento assunto dal TAR
Campania–Napoli, nella sentenza n. 1837 del 27.03.2015, la
cui parte motiva, di seguito, si riporta, per quanto
d’interesse: “Le suesposte questioni sono state esaminate e
risolte dalla Sezione con orientamento dal quale non vi è
ragione di discostarsi. Al riguardo, con sentenza 19.03.2014 n. 1578, è stato ritenuto che «l’art. 35 del d.p.r.
05.10.2010 n. 207, a proposito della documentazione che
deve comporre il progetto esecutivo, quanto alle relazioni
specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede
almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel
progetto definitivo, che illustrino puntualmente le
eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le
modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai
sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le
relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo
figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che,
di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato
anche del progetto esecutivo. Va specificato che il richiamo
alla nozione di “relazioni tecniche e specialistiche” di cui
alla rubrica dell’art. 26, va inteso in senso complementare
e non alternativo, essendo tale accezione opponibile solo al
più ampio elaborato costituito dalla relazione generale, che
potrebbe avere anche contenuti non tecnici, oltre, che, per
definizione, non specialistici. Riprova di tale assunto è
che l’art. 35 del regolamento non contiene anche
l’espressione relazioni tecniche (ma solo relazioni
specialistiche), sebbene queste abbiano finalità
illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del
progetto definitivo che non possono non riguardare anche
profili tecnici, come proprio quello geologico (...). A ben
vedere, tale esigenza, dal punto di vista logico–funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta
simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di
progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in
materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la
preferenza del legislatore per una progettazione in
progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in
cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura
funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione
esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso
armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si
finiscono per ritrovarsi. Ebbene, urterebbe con tale
costruzione la possibilità in alcune fasi di progettazione
di segnare il passo rispetto al livello successivo di
differenziazione, in violazione dell’autonomia funzionale
riconosciuta ai vari livelli»"
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Quanto
all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione
della lex specialis, in riferimento alle norme
prescrittive sul contenuto dei livelli di progettazione e
relazioni a corredo.
Alla luce della riforma recata dal
d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del
d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata l’esigenza di
qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di
completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte
provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie
che devono ora trovare applicazione al procedimento
specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel
disciplinare;
Invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di
riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas
legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione
della stazione appaltante a cui è stato, infatti,
espressamente inibito ogni potere, discrezionale e
tecnico–discrezionale, di modifica di principi e precetti
specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte
di produzione normativa.
Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di
ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di
gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la
determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi
integrative o, al più meramente specificative di quelle,
senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito
applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi
interpretativi.
In altri termini, è alla norma che l’interprete deve
guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di
legittimità di una decisione della stazione appaltante in
materia di procedimenti di gara.
Ritenuta la necessità della presenza della relazione
geologica anche nella progettazione esecutiva, quanto
all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione
della lex specialis, in riferimento alle norme prescrittive
sul contenuto dei livelli di progettazione e relazioni a
corredo, è sufficiente rinviare a quanto di recente opinato
dalla Sezione, secondo cui «alla luce della riforma recata
dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46
del d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata
l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il
rapporto di completamento tra disposizioni della lex
specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche
primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al
procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel
bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma
del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva
immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da
qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è
stato, infatti, espressamente inibito ogni potere,
discrezionale e tecnico–discrezionale, di modifica di
principi e precetti specifici che il legislatore ha
riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa. Il
superamento della logica di eterointegrazione, impone di
ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di
gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la
determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi
integrative o, al più meramente specificative di quelle,
senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito
applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi
interpretativi. In altri termini, è alla norma che
l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere
il parametro di legittimità di una decisione della stazione
appaltante in materia di procedimenti di gara» (TAR
Campania-Napoli, I Sezione, 08.04.2014 n. 2010)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
decadenza dal titolo edilizio non implica la demolizione
delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di
chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori
opere, dovendo considerarsi abusivi soltanto gli interventi
realizzati dopo l’intervenuta decadenza. Pertanto, è
illegittimo, in assenza di un’adeguata motivazione e di
specifiche e puntuali ragioni di pubblico interesse,
l’ordine di demolizione di manufatti realizzati sulla base
di un permesso di costruire poi dichiarato decaduto a
seguito del mancato completamento dell’intervento nei
termini di legge.
---------------
La perdita di efficacia della concessione edilizia per
mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini
prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale
provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del
necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza
dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano la
declaratoria di decadenza.
L’istituto della decadenza del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 15 d. P. R. n. 380 del 2001 ha natura
dichiarativa e presuppone un atto di accertamento di un
effetto che consegue ex lege al presupposto legislativamente
indicato.
Il ricorso è fondato.
È fondato, in particolare, il primo motivo di censura, come
sopra illustrato, conformemente alla massima che segue: “La
decadenza dal titolo edilizio non implica la demolizione
delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di
chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori
opere, dovendo considerarsi abusivi soltanto gli interventi
realizzati dopo l’intervenuta decadenza. Pertanto, è
illegittimo, in assenza di un’adeguata motivazione e di
specifiche e puntuali ragioni di pubblico interesse,
l’ordine di demolizione di manufatti realizzati sulla base
di un permesso di costruire poi dichiarato decaduto a
seguito del mancato completamento dell’intervento nei
termini di legge” (TAR Abruzzo– Pescara, Sez. I,
14/11/2014, n. 449).
La tesi di controparte, che l’ordine di demolizione sia
stato disposto a cagione del riscontro di abusi, piuttosto
che a causa della perdita d’efficacia del permesso di
costruire, non trova rispondenza nel tenore testuale del
provvedimento gravato, che ancora, manifestamente, la
demolizione alla scadenza del titolo abilitativo edilizio e
del n.o. paesaggistico.
È fondato, altresì, il secondo motivo di ricorso, in
aderenza alla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui: “La
perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato
inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve
essere accertata e dichiarata con formale provvedimento
dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario
contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che legittimano la
declaratoria di decadenza” (Consiglio di Stato, Sez. V,
12/05/2011, n. 2821); “L’istituto della decadenza del
permesso di costruire ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380
del 2001 ha natura dichiarativa e presuppone un atto di
accertamento di un effetto che consegue ex lege al
presupposto legislativamente indicato” (Consiglio di Stato,
Sez. IV, 11/04/2014, n. 1747).
Il contrario assunto dell’Amministrazione Comunale, secondo
cui “la decadenza del titolo è stata correttamente
dichiarata con provvedimento di avvio del procedimento in
data 28.02.2014” è sfornita di ogni pregio, posto che
una comunicazione d’inizio del procedimento è ovviamente
cosa ben diversa dal provvedimento formale, dichiarativo
della decadenza, richiesto dalla giurisprudenza
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittima l’ingiunzione di demolizione di
opera edilizia abusivamente realizzata, adottata prima della
definizione della pregressa domanda di sanatoria.
È fondato il quarto motivo di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica: “È illegittima l’ingiunzione di
demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata,
adottata prima della definizione della pregressa domanda di
sanatoria” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 03/10/2014, n.
4934).
Nella specie, la demolizione ha preceduto il diniego della
richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica,
presentata dalla ricorrente in data 07.01.2014.
La circostanza, valorizzata nelle sue difese dal Comune di
Santa Marina, secondo cui l’atto di diniego sarebbe stato
protocollato lo stesso giorno (08.04.2014) e presenterebbe un
numero di protocollo generale (3096) anteriore a quello
dell’ordinanza di demolizione (3097), si scontra con il dato
formale, della data, inequivocabilmente apposta
all’ordinanza di demolizione n. 9, prot. n. 14 (04.04.2014).
Ne deriva che quest’ultima è stata emessa prima, anche se
protocollata successivamente al registro generale; ma
l’apposizione del numero di protocollo è dato che non
incide sulla perfezione dell’atto (verificatasi in data
anteriore).
Cfr. la massima che segue: “La mancanza del protocollo può
configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto,
ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione,
ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno
sull’esistenza, dell’atto stesso” (TAR Toscana, Sez. II,
02/04/2003, n. 1205)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mancanza del protocollo può
configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto,
ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione,
ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno
sull’esistenza, dell’atto stesso.
È fondato il quarto motivo di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica: “È illegittima l’ingiunzione di
demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata,
adottata prima della definizione della pregressa domanda di
sanatoria” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 03/10/2014, n.
4934).
Nella specie, la demolizione ha preceduto il diniego della
richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica,
presentata dalla ricorrente in data 07.01.2014.
La circostanza, valorizzata nelle sue difese dal Comune di
Santa Marina, secondo cui l’atto di diniego sarebbe stato
protocollato lo stesso giorno (08.04.2014) e presenterebbe un
numero di protocollo generale (3096) anteriore a quello
dell’ordinanza di demolizione (3097), si scontra con il dato
formale, della data, inequivocabilmente apposta
all’ordinanza di demolizione n. 9, prot. n. 14 (04.04.2014).
Ne deriva che quest’ultima è stata emessa prima, anche se
protocollata successivamente al registro generale; ma
l’apposizione del numero di protocollo è dato che non
incide sulla perfezione dell’atto (verificatasi in data
anteriore).
Cfr. la massima che segue: “La mancanza del protocollo può
configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto,
ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione,
ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno
sull’esistenza, dell’atto stesso” (TAR Toscana, Sez. II,
02/04/2003, n. 1205)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004
prevede che l’autorità preposta alla gestione del vincolo,
si pronunci “ previo parere vincolante della
soprintendenza”.
Tuttavia, qualora l’autorità comunale
ravvisi l'insussistenza dei presupposti di legge per la
sanatoria (non solo paesaggistica, ma anche urbanistica, ai
sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), il parere della
soprintendenza non avrebbe alcuna utilità, visto che
l’autorità di amministrazione attiva, competente
all’adozione del provvedimento finale, già si è determinata
negativamente, sicché non si comprende a che titolo dovrebbe
richiedersi un parere alla soprintendenza.
È fondato il quinto motivo di ricorso.
Il diniego di sanatoria si fonda sulla stessa, illegittima,
motivazione dell’ordinanza di demolizione (vedi sopra);
esso, inoltre, è stato emesso, senza che fosse stato
richiesto il parere della Soprintendenza, ex art. 167 d.
l.vo 42/2004.
Vero è, al riguardo, che secondo una parte della
giurisprudenza: “L’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004
(“Codice dei beni culturali e del paesaggio”) prevede che
l’autorità preposta alla gestione del vincolo, si pronunci
“ previo parere vincolante della soprintendenza”; tuttavia,
qualora l’autorità comunale ravvisi l'insussistenza dei
presupposti di legge per la sanatoria (non solo
paesaggistica, ma anche urbanistica, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), il parere della soprintendenza
non avrebbe alcuna utilità, visto che l’autorità di
amministrazione attiva, competente all’adozione del
provvedimento finale, già si è determinata negativamente,
sicché non si comprende a che titolo dovrebbe richiedersi un
parere alla soprintendenza” (TAR Lombardia–Milano,
Sez. II, 11/01/2013, n. 84).
Ma una motivazione di tal genere è completamente assente nel
diniego gravato, che viceversa assume, a suo unico
presupposto, la scadenza (del p. di c. e) del nulla osta
paesaggistico del 2008.
Si omette la trattazione del sesto motivo di ricorso, stante
il carattere assorbente dei precedenti rilievi
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
In house ok solo se la partecipazione pubblica è
totalitaria.
L'affidamento in house a una società partecipata da un
comune è legittimo soltanto se la partecipazione pubblica è
totalitaria; la nuova norma della direttiva 2014/24, che
ammette la presenza di soci privati, non è norma di diretta
applicazione e potrà essere recepita discrezionalmente dal
nostro legislatore.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 11.09.2015 n. 4253.
La questione riguardava un affidamento in via diretta, senza
ricorso ad una gara, del servizio di gestione dei rifiuti
urbani da parte di un comune a favore di una società
pubblica cui partecipavano anche soci privati facenti parte
di un consorzio.
Si poneva quindi la questione della legittimità
dell'affidamento in house, risolta negativamente in primo
grado sul presupposto che mancasse il requisito del
cosiddetto «controllo analogo» da parte dell'amministrazione
di riferimento. Il Consiglio di stato conferma che soltanto
la partecipazione totalitaria delle amministrazioni
pubbliche e la totale assenza di soggetti privati nella
compagine sociale, consentono di ravvisare nel soggetto
affidatario la sottoposizione al cosiddetto «controllo
analogo», requisito essenziale per potere derogare alla
regola della gara e per potere procedere all'affidamento
diretto.
La sentenza affronta poi l'altro punto connesso alla
possibilità di avvalersi della nuova norma contenuta nella
direttiva europea 2014/24, che ha modificato la disciplina
precedente in tema di in house, andando in controtendenza
rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia e
ammettendo l'affidamento in house anche nei confronti di
società partecipate da privati.
La stessa norma della direttiva ha inoltre introdotto una
seconda modifica relativa alla percentuale di attività
svolta prevalentemente per il soggetto pubblico
controllante, ridotta all'80% dal 90%.
Su questo profilo la pronuncia stabilisce che l'art. 12,
paragrafo 1, della direttiva 2014/24 «che ammette
l'esistenza del controllo analogo anche in casi in cui il
soggetto che opera in regime privatistico è partecipato da
soggetti privati, purché tale partecipazione sia ristretta
nei limiti ivi stabiliti, non è ancora direttamente
applicabile».
I giudici sottolineano infatti che il legislatore
comunitario ha individuato un termine per il recepimento
della suddetta direttiva nei diversi ordinamenti nazionali e
tale termine è ancora pendente (scadrà nell'aprile 2016,
quando le direttive appalti pubblici, previa approvazione
del ddl delega appalti attualmente alla camera sarà
approvato).
Ma la cosa rilevante messa in luce dalla sentenza e spesso
sottovalutata è che su questa materia il legislatore
comunitario ha attribuito ai legislatori nazionali una sfera
di discrezionalità nell'individuazione dei tempi per la
trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti e
per il necessario coordinamento con la normativa interna
vigente.
L'articolo 12, peraltro, non è norma di diretta applicazione
e quindi nell'ambito del recepimento delle direttive nulla
osterebbe a che si optasse per la scelta di mantenere il
vincolo del 100% di partecipazione pubblica, evitando che i
soci privati entrino nelle spa locali che gestiscono servizi
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Poiché
l’oggetto del provvedimento (ndr: ordinanze con le quali il
Sindaco ha disciplinato le modalità di ritiro e conferimento
dei rifiuti solidi urbani dei residenti nei condomini)
attiene alla regolazione delle modalità di conferimento dei
rifiuti solidi urbani, in una specifica e circoscritta zona
del territorio comunale e, quindi, riguarda la concreta
gestione e organizzazione di un servizio pubblico,
disciplinato da atti normativi di vario livello, la
competenza spetta agli organi dirigenziali e non al Sindaco.
1. – Con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti in
esame, l’amministratore dei condomini ed alcuni dei
residenti dei palazzi individuati come “Palazzo B”, “Palazzo
C” e “Palazzo D”, della via ... n. 178, in Quartu
Sant’Elena, contestano le ordinanze con le quali il Sindaco
di Quartu S.E. ha disciplinato le modalità di ritiro e
conferimento dei rifiuti solidi urbani dei residenti nei
condomini in questione.
...
8. - Occorre, pertanto, procedere con l’esame dei motivi
aggiunti, nella parte in cui impugnano l’ordinanza sindacale
n. 90 del 24.12.2014.
9. - Tra questi, occorre privilegiare il motivo con il quale
si deduce l’incompetenza del Sindaco all’adozione del
provvedimento impugnato. Ad avviso dei ricorrenti, difatti,
la materia rientra nella gestione amministrativa, riservata
–ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.)– alla competenza degli organi dirigenziali.
10. - Il motivo è fondato e assorbente.
In primo luogo, come emerge anche da quanto finora
osservato, la materia oggetto degli atti impugnati (e in
particolare delle ordinanze sindacali succedutesi dal
febbraio 2014) riguarda un particolare profilo di
organizzazione e gestione del servizio di ritiro e
conferimento dei rifiuti solidi urbani comunali.
E’ noto
come l’art. 107 del TUEL riservi alla competenza dei
dirigenti l’intera gestione amministrativa dei Comuni, con
un’ampia formula secondo la quale “spettano ai dirigenti
tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97
e 108”.
La stessa norma individua un limite nelle
disposizioni di legge o di statuto che individuano le
competenze degli organi di indirizzo politico; limite, che
costituisce la traduzione in termini più specifici del
principio di distinzione tra gestione, da un lato, e
indirizzo e controllo dall’altro. Anche la variazione o la
modifica dell’estensione dell’area delle attribuzioni
assegnate agli organi di indirizzo è soggetta a rigorosi
limiti, poiché l’art. 107 cit. le consente solo se
introdotte con disposizione di fonte legislativa e solo se
la deroga all’art. 107 sia prevista in modo espresso.
Ma
anche se non si condivida la rigorosa interpretazione appena
esposta, e si ritenga che la distribuzione delle competenze
possa essere incisa anche da disposizioni legislative
speciali che impongono di concludere, in via di
interpretazione sistematica, nel senso che si tratti di
norme che introducono ipotesi di deroga al sistema delineato
dall’art. 107, deve rilevarsi che nella materia oggetto
della vicenda in esame potrebbero venire in gioco
esclusivamente le norme di cui all’art. 54 del TUEL e
all’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Peraltro, entrambe le norme sono inapplicabili alla concreta
fattispecie in esame. L’art. 54 cit. subordina il potere di
ordinanza del Sindaco a diversi presupposti, tra i quali
(tipicamente) la necessità e l’urgenza “di prevenire e di
eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana”. Circostanze che, alla luce
della motivazione, non vengono nemmeno allegate o
prospettate quali presupposti per l’adozione del
provvedimento sindacale impugnato.
Anche l’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 descrive una
fattispecie i cui elementi costitutivi non ricorrono nel
caso di specie. Il presupposto è costituito, infatti, dall’«abbandono e … deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e
nel suolo …» (ovvero dalla «immissione di rifiuti di
qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee»), che –nel disegno della norma–
giustifica l’esercizio del potere del Sindaco, il quale
«dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie
ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al
recupero delle somme anticipate».
Come risulta dalla pur sintetica esposizione in fatto di cui
sopra, è del tutto evidente che, nel caso regolato dalla
impugnata ordinanza, non ricorre alcuno dei presupposti per
l’applicazione dell’art. 192 cit..
11. - In definitiva, come anticipato, poiché l’oggetto del
provvedimento attiene alla regolazione delle modalità di
conferimento dei rifiuti solidi urbani, in una specifica e
circoscritta zona del territorio comunale e, quindi,
riguarda la concreta gestione e organizzazione di un
servizio pubblico, disciplinato da atti normativi di vario
livello, la competenza spetta agli organi dirigenziali e non
al Sindaco
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 11.09.2015 n. 1018 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione non suscettibile di prescrizione.
In tema di reati edilizi, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981
riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità puniti.
---------------
2. In relazione alla dedotta omessa valutazione della
questione relativa all'ineseguibilità dell'ordine di
demolizione allorquando sia intervenuto un provvedimento
amministrativo che abbia sanato o comunque risolto
l'illegittimità dell'abuso, va rilevato che alcun
provvedimento specifico è mai stato invocato dalla
ricorrente.
Va ricordato in proposito che in tema di
reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito dal giudice
con la sentenza di condanna, per la sua natura di sanzione
amministrativa applicata dall'autorità giudiziaria, non è
suscettibile di passare in giudicato essendone sempre
possibile la revoca quando esso risulti assolutamente
incompatibile con i provvedimenti della P.A. che abbiano
conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano
sanato l'abusività
(così questa sez. 3, n. 3456 del 21.11.2012 dep. il
23.1.2013, Oliva, rv. 254426, in cui la Corte,
nell'affermare il principio, ha annullato il provvedimento
di rigetto dell'istanza di revoca dell'ordine di demolizione
emesso nonostante la pendenza della procedura di condono).
Il giudice dell'esecuzione ha l'obbligo di
revocare l'ordine di demolizione del manufatto abusivo
impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento,
ove sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto
incompatibili, ed ha, invece, la facoltà di disporne la
sospensione quando sia concretamente prevedibile e probabile
l'emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi
incompatibili
(cfr. sez. 3, n. 24273 del 24.03.2010, Petrone, rv. 247791).
Nello specifico, il giudice dell'esecuzione, investito della
richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di
demolizione delle opere abusive di cui all'art. 31 d.P.R. n.
380 del 2001 in conseguenza della presentazione di una
istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i
possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento
amministrativo e, in particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di
eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura,
che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel
caso di un suo rapido esaurimento (cfr. ex multis
sez. 3, n. 47263 del 25.09.2014, Russo, rv. 261212; sez. 3,
n. 42978 del 17.10.2007, Parisi, rv. 238145).
E' stato anche precisato che l'ordine di
demolizione impartito dal giudice con la sentenza di
condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività, fermo
restando il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di
verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il
duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua
emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti
dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio
(sez. 3, n. 47402 del 21.10.2014, Chisci ed altro, rv.
260972).
Il GIP del Tribunale di Torre Annunziata in funzione di G.E.
ha perciò correttamente ritenuto che
l'ordine di demolizione può essere sempre revocato quando
risulti incompatibile con atti amministrativi che
conferiscano altra destinazione o provvedano alla sanatoria,
ma detta incompatibilità deve essere esistente ed insanabile
al momento della decisone, mentre non può essere futura e
meramente eventuale.
3. Quanto alla dedotta prescrizione, costituisce jus
receptum di questa Corte Suprema l'affermazione secondo
cui in tema di reati edilizi, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981
riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva
(sez. 3, ord. n. 19742 del 14.04.2011, Mercurio ed altro, rv.
250336; sez. 3, n. 43006 del 10.11.2010, La Mela, rv.
248670; sez. 3, n. 39705 del 30.04.2003, Pasquale, rv.
226573) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2015 n. 36387 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
associazioni di settore sono legittimate a difendere in sede
giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di
cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si
tratti di perseguire, comunque, il conseguimento di
vantaggi, sia pure di carattere strumentale, con l’unico
limite, tuttavia, derivante dal divieto di occuparsi di
questioni concernenti i singoli iscritti ovvero capaci di
dividere la categoria in posizioni disomogenee.
Al riguardo, la giurisprudenza ha anche precisato che le
associazioni di categoria possono agire in giudizio per far
valere interessi propri ed esclusivi dell’associazione ma
non dei singoli associati, e che la circostanza che una
controversia relativa a singoli associati possa interessare
indirettamente la generalità degli appartenenti alla
categoria, non trasforma la controversia da individuale a
collettiva.
Sotto questo profilo, il difetto di legittimazione attiva
rileva anche in considerazione del fatto che le associazioni
di settore sono legittimate a difendere in sede
giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di
cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si
tratti di perseguire, comunque, il conseguimento di
vantaggi, sia pure di carattere strumentale, con l’unico
limite, tuttavia, derivante dal divieto di occuparsi di
questioni concernenti i singoli iscritti ovvero capaci di
dividere la categoria in posizioni disomogenee (C.d.S., sez.
III, n. 474 del 03/02/2014; C.d.S., sez. III, 27/04/2015, n.
2150).
Al riguardo, la citata giurisprudenza ha anche precisato che
le associazioni di categoria possono agire in giudizio per
far valere interessi propri ed esclusivi dell’associazione
ma non dei singoli associati, e che la circostanza che una
controversia relativa a singoli associati possa interessare
indirettamente la generalità degli appartenenti alla
categoria, non trasforma la controversia da individuale a
collettiva
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 09.09.2015 n. 11130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Ai fini della decorrenza del termine
d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera
pubblica non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto
ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza
dello stesso, quante volte esso ha effetti specifici e
circoscritti all'area oggetto di intervento per l'esecuzione
dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche
se non esplicitamente nominati, con la conseguenza che in
questi casi è dalla piena conoscenza che decorre il termine
di proposizione del gravame.
Negli altri casi; invece, ovvero per i soggetti c.d. terzi
il termine decorre dalla data della pubblicazione della
delibera all'albo pretorio (ora, in forza di quanto
stabilito dall’art. 32 della l. 69 del 2009, tale
pubblicazione deve avvenire dal 01.01.2010 sull’albo
online).
Più in particolare, in tema di decorrenza del dies a quo del
termine decadenziale di impugnazione, la pubblicazione
all'albo pretorio non é sufficiente a determinare la
presunzione assoluta di piena conoscenza dell'atto da parte
di quei soggetti ai quali l'atto direttamente si riferisce e
che sono interessati a impugnarlo, ai quali pertanto il
provvedimento, ai fini della decorrenza del termine
d'impugnazione, deve essere notificato o comunicato
direttamente.
Lo è, invece, secondo i canoni dell’art. 41 c.p.a. (già art.
21 della legge Tar), per i soggetti terzi per i quali non è
richiesta la notifica individuale.
Ulteriore
profilo di inammissibilità si coglie, ancora, nella
tardività del ricorso proposto dal Codacons.
Ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione
dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica non è
sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria
la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso,
quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti
all'area oggetto di intervento per l'esecuzione dell'opera
e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche se non
esplicitamente nominati, con la conseguenza che in questi
casi è dalla piena conoscenza che decorre il termine di
proposizione del gravame (C.d.S., sez. IV, 11/11/2014, n.
5526).
Negli altri casi; invece, ovvero per i soggetti c.d. terzi
il termine decorre dalla data della pubblicazione della
delibera all'albo pretorio (ora, in forza di quanto
stabilito dall’art. 32 della l. 69 del 2009, tale
pubblicazione deve avvenire dal 01.01.2010 sull’albo
online).
Più in particolare, in tema di decorrenza del dies a quo del
termine decadenziale di impugnazione, la pubblicazione
all'albo pretorio non é sufficiente a determinare la
presunzione assoluta di piena conoscenza dell'atto da parte
di quei soggetti ai quali l'atto direttamente si riferisce e
che sono interessati a impugnarlo, ai quali pertanto il
provvedimento, ai fini della decorrenza del termine
d'impugnazione, deve essere notificato o comunicato
direttamente.
Lo è, invece, secondo i canoni dell’art. 41 c.p.a. (già art.
21 della legge Tar), per i soggetti terzi per i quali non è
richiesta la notifica individuale.
Ebbene, nel caso di specie non ricorrono i presupposti per
la notificazione individuale dell’atto (sostituibile, in
caso di omissione, solo dalla sua piena conoscenza)
dovendosi escludere, in ragione del contenuto degli atti
impugnati, che il Codacons fosse da considerare soggetto al
quale detti atti direttamente si riferiscono o, comunque,
soggetto immediatamente inciso dai loro effetti e, perciò,
bisognevole di notificazione o comunicazione individuale.
Ne consegue, che il termine d’impugnativa decorreva, per il
Codacons, dalla data di pubblicazione all'albo pretorio
della deliberazione di G.C. n. 251 del 03.09.2010
(disposta dal 7 settembre per i successivi 15 giorni, ovvero
dal 22.09.2010) e non già dal 10 dicembre successivo
(giorno dell’accesso, dal quale potevano decorrere, semmai,
i termini per la proposizione di motivi aggiunti).
Poiché il ricorso del Codacons è stato avviato alla
notificazione soltanto in data 8 febbraio 2011, lo stesso
avrebbe dovuto dichiararsi tardivo
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 09.09.2015 n. 11130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Distinzione tra l'istanza che fa
nascere l'obbligo di provvedere e il semplice "esposto" come protezione
contro le inerzie dell’amministrazione.
Esiste l'obbligo di provvedere, oltre
che nei casi stabiliti dalla legge, anche in fattispecie
ulteriori nelle quali ragioni di giustizia e di equità
impongono l'adozione di un provvedimento. Si tende, in tal
modo, ad estendere le possibilità di protezione contro le
inerzie dell’amministrazione pur in assenza di una norma ad
hoc che imponga un dovere di provvedere (è stato detto che
"indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che
impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza
non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che,
in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo
obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia
sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento
espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona
amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il
privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad
un'esplicita pronuncia)".
---------------
In
caso di richiesta di atti diretti a produrre effetti
sfavorevoli nei confronti di terzi, dall'adozione dei quali
l’istante possa trarre indirettamente vantaggi (c.d.
interessi strumentali) -e tali sono le istanze presentate
dalla ricorrente- occorre distinguere tra l'istanza che
fa nascere l'obbligo di provvedere e il
semplice "esposto", che ha mero valore di
denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse
tutelata sia dall'apertura del procedimento conclusivo, sia
dalla conclusione dello stesso in modo conforme alle
aspettative dell'istante.
Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza
(idonea a radicare il dovere di provvedere) e mero
esposto, viene ravvisato dalla giurisprudenza
“nell'esistenza in capo al privato di uno specifico e
rilevante interesse che valga a differenziare la sua
posizione da quella della collettività. Occorre, in altri
termini, che il comportamento omissivo dell'Amministrazione
sia stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per
l'appunto, titolare di una situazione di specifico e
rilevante interesse che lo differenzia da quello
generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. Ove
ciò accada, l'eventuale inerzia serbata dall'Amministrazione
sull'istanza, assume una connotazione negativa e censurabile
dovendo l'Ente dar comunque seguito (anche magari
esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte
dell'interessato) all'istanza”.
... per
l'accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dalla
Provincia di Milano, ora Città Metropolitana di Milano,
sulle reiterate segnalazioni della ricorrente, con cui si
denunciava la presenza di una serie di impianti pubblicitari
abusivamente apposti da ignoti sul sedime laterale della
Strada Provinciale 15-bis, nel tratto immediatamente
prospiciente la rotonda posta all'incrocio tra Via A. Grandi
e Via XXV Aprile, in Comune di Peschiera Borromeo (MI), ai
fini della loro rimozione, nonché -ove occorrer possa- per
la declaratoria dell'illegittimità di ogni altro eventuale
comportamento presupposto, connesso e/o conseguente.
...
5. La giurisprudenza è ormai costantemente orientata nel
ritenere che esiste l'obbligo di provvedere, oltre che nei
casi stabiliti dalla legge, anche in fattispecie ulteriori
nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono
l'adozione di un provvedimento. Si tende, in tal modo, ad
estendere le possibilità di protezione contro le inerzie
dell’amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc
che imponga un dovere di provvedere (Cons. Stato, sez. VI,
11.05.2007, n. 2318; Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2004, n.
7975 secondo cui “indipendentemente dall'esistenza di
specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di
pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei
privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e
partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta
esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un
provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza
e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al
quale il privato vanta una legittima e qualificata
aspettativa ad un'esplicita pronuncia)".
In particolare, in caso di richiesta di atti diretti a
produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi,
dall'adozione dei quali l’istante possa trarre
indirettamente vantaggi (c.d. interessi strumentali) -e tali
sono le istanze presentate dalla ricorrente- occorre
distinguere tra l'istanza che fa nascere l'obbligo di
provvedere e il semplice "esposto", che ha
mero valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di
interesse tutelata sia dall'apertura del procedimento
conclusivo, sia dalla conclusione dello stesso in modo
conforme alle aspettative dell'istante.
Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza
(idonea a radicare il dovere di provvedere) e mero
esposto, viene ravvisato dalla giurisprudenza “nell'esistenza
in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse
che valga a differenziare la sua posizione da quella della
collettività. Occorre, in altri termini, che il
comportamento omissivo dell'Amministrazione sia
stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per
l'appunto, titolare di una situazione di specifico e
rilevante interesse che lo differenzia da quello
generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. Ove
ciò accada, l'eventuale inerzia serbata dall'Amministrazione
sull'istanza, assume una connotazione negativa e censurabile
dovendo l'Ente dar comunque seguito (anche magari
esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte
dell'interessato) all'istanza”.
In applicazione di questi principi, il Collegio ritiene che,
nel caso di specie, sussista in capo all’amministrazione un
obbligo di provvedere.
La proprietà di un complesso immobiliare che affaccia sulla
strada provinciale 15-bis su cui sono stati apposti i
cartelloni abusivi in questione, attribuisce alla ricorrente
una situazione di specifico e rilevante interesse,
differenziata da quella della generalità dei consociati e
tale, pertanto, da radicare in capo all'amministrazione un
obbligo di pronunciarsi sulla relativa istanza.
6. Occorre a questo punto accertare se l’amministrazione
abbia o meno provveduto sulle istanze presentate dalla
ricorrente, e, in particolare, su quella del 16.12.2013
(perché solo con riferimento a questa il ricorso è stato
proposto nei termini previsti all’art. 31, c. 2, cod. proc.
amm.).
La ricorrente ha presentato all’amministrazione provinciale
una prima denuncia nel luglio 2010, cui ha fatto seguito la
rimozione da parte dell’amministrazione dei cartelloni
abusivi.
Nell’ottobre e nel novembre 2010, la ricorrente ha dato
avviso alla Provincia della successiva nuova installazione
di impianti pubblicitari abusivi da parte di ignoti,
chiedendone la rimozione.
In mancanza di riscontro, con nota del gennaio 2011, la
società ricorrente ha nuovamente denunciato
all’amministrazione il perdurare della situazione e
richiesto l’assunzione di provvedimenti repressivi.
Con nota del 16.2.2011, la Provincia di Milano ha
riscontrato l’istanza, comunicando alla ricorrente di avere
avviato le procedure per bandire il nuovo appalto per il
servizio di rimozione degli impianti pubblicitari abusivi.
Con nota dell’agosto 2011, la ricorrente ha nuovamente
richiesto alla Provincia di provvedere alla eliminazione dei
tabelloni pubblicitari. L’istanza è stata reiterata con nota
del luglio 2012 e da ultimo con nota del 16.12.2013.
Sulle istanze presentate nel 2010 e nel 2011, l’obbligo di
conclusione del procedimento previsto all’art. 2, l. n.
241/1990 può dirsi adempiuto con il provvedimento del
febbraio 2011 con il quale l’amministrazione provinciale ha
comunicato di essere intervenuta più volte per rimuovere gli
impianti pubblicitari in questione, che l’appalto per il
servizio di rimozione mezzi pubblicitari abusivi è scaduto e
sono state avviate le procedure per bandire il nuovo
appalto.
Si tratta invero di un provvedimento espresso che si è
pronunciato sulle richieste presentate della ricorrente.
Ad avviso del Collegio, tale atto non è tuttavia sufficiente
a ritenere rispettato quanto previsto dall’art. 2, l. n.
241/1990 in quanto le successive istanze presentate nel 2012
e nel 2013, con cui la ricorrente ha reiterato la richiesta
di intervento dell’amministrazione, hanno determinato
nuovamente il sorgere di un obbligo di provvedere.
Non trova, invero, applicazione nel caso di specie il
principio giurisprudenziale secondo cui un tale obbligo non
sorge allorché un’istanza sia meramente reiterativa di
altra, di identico contenuto, sulla quale era già
intervenuta una determinazione esplicita, divenuta
inoppugnabile per decorso dei termini (cfr. TAR Puglia,
Bari, sez. I, 13/06/2003, n. 2428; TAR Marche, Ancona, sez.
I, 21/03/2014, n. 369; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I,
26/11/2009, n. 810; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I,
12/10/2009, n. 697) e non siano sopravvenuti mutamenti della
situazione di fatto o di diritto (cfr. id. n. 89/95 e Cass.
SS.UU. 20.01.1969, n. 128).
Questa giurisprudenza trova, invero, applicazione in caso di
mera reiterazione di un'istanza già definita con atto
negativo o anche solo soprassessorio.
Il provvedimento del febbraio 2011 con cui la p.a. ha
riscontrato le prime istanze aveva, invece, un contenuto
favorevole alla ricorrente, poiché con esso la Provincia ha,
nella sostanza, affermato che avrebbe agito nel senso
auspicato dall’istante, provvedendo, mediante una procedura
d’appalto, alla individuazione di un soggetto che avrebbe
rimosso gli impianti abusivi: non avendo un contenuto lesivo
l’atto non necessitava pertanto di alcuna impugnazione.
Inoltre, a fronte di un atto con cui la p.a., nel febbraio
20111, ha affermato di avere dato avvio alle procedure per
bandire il nuovo appalto per il servizio di rimozione dei
mezzi pubblicitari abusivi, ormai scaduto, a luglio 2012 e,
a maggior ragione, a dicembre 2013 può dirsi decorso il
termine entro il quale tale procedura di gara avrebbe dovuto
essere conclusa: ciò configura un sopravvenuto mutamento
della situazione di fatto e di diritto che consente di
ritenere nuova l’ultima istanza e dunque di affermare il
sorgere, nuovamente, dell’obbligo per la p.a. di concludere
il procedimento con la stessa avviato.
In caso contrario, invero, l’istante resterebbe privo di
tutela: non avrebbe potuto impugnare il provvedimento con
cui viene comunicato l’avvio delle procedure per bandire la
gara d’appalto, in quanto atto favorevole e, pur a fronte di
una perdurante inerzia della p.a. nel concludere il
procedimento di gara d’appalto e comunque nel provvedere a
esercitare il doveroso potere sanzionatorio, non disporrebbe
neppure dello strumento del ricorso avverso il silenzio.
7. Affermata la sussistenza di un obbligo di conclusione del
provvedimento va, infine, rigettata l’eccezione formulata
dalla difesa dell’amministrazione provinciale con cui si
afferma che la competenza a provvedere sull’istanza è del
Comune di Peschiera Borromeo -ai sensi di quanto previsto
dall’art. 23, c. 4, d.lgs. n. 285/1992, in quanto la
rotatoria e la strada provinciale 15-bis su cui si trovano i
cartelloni abusivi sono incluse nel centro abitato del
Comune- e non della Città Metropolitana di Milano.
La Provincia di Milano, con nota depositata il 21.05.2015,
in ottemperanza all’istanza istruttoria formulata da questo
Tribunale con ordinanza n. 1009/2015, ha affermato che:
- il Comune di Peschiera Borromeo ha inserito con delibera
n. 301/2008 il tratto stradale in questione nel centro
abitato;
- per i Comuni con un numero di abitanti superiore alle
10.000 unità, l’art. 4, d.P.R. n. 495/1992 prevede che i
tratti di strade provinciali ricadenti all’interno del
centro abitato vengano declassati a strade comunali e che la
competenza della gestione e manutenzione, compresa la
rimozione degli impianti abusivi, passi al Comune;
- ha attivato le procedure per la cessione dei tratti
stradali (incluso il tratto della s.p. 15-bis su cui si
trovano gli impianti abusivi) che il Comune di Peschiera
Borromeo ha incluso nel centro abitato ma che il Comune non
ha dato, al momento, riscontro favorevole di tale passaggio.
Il Collegio non condivide queste argomentazioni.
L’articolo 4, d.P.R. n. 495/1992, recante “passaggi di
proprietà fra enti proprietari delle strade”, così dispone
ai commi 4 e ss.: “4. I tratti di strade statali,
regionali o provinciali, che attraversano i centri abitati
con popolazione superiore a diecimila abitanti, individuati
a seguito della delimitazione del centro abitato prevista
dall'articolo 4 del codice, sono classificati quali strade
comunali con la stessa deliberazione della giunta municipale
con la quale si procede alla delimitazione medesima.
5. Successivamente all'emanazione dei provvedimenti di
classificazione e di declassificazione delle strade previsti
agli articoli 2 e 3, all'emanazione dei decreti di passaggio
di proprietà ed alle deliberazioni di cui ai commi
precedenti, si provvede alla consegna delle strade o dei
tronchi di strade fra gli enti proprietari.
6. La consegna all'ente nuovo proprietario della strada è
oggetto di apposito verbale da redigersi in tempo utile per
il rispetto dei termini previsti dal comma 7 dell'articolo 2
ed entro sessanta giorni dalla delibera della giunta
municipale per i tratti di strade interni ai centri abitati
con popolazione superiore a diecimila abitanti.
7. Qualora l'amministrazione che deve prendere in consegna
la strada, o tronco di essa, non interviene nel termine
fissato, l'amministrazione cedente è autorizzata a redigere
il relativo verbale di consegna alla presenza di due
testimoni, a notificare all'amministrazione inadempiente,
mediante ufficiale giudiziario, il verbale di consegna e ad
apporre agli estremi della strada dismessa, o dei tronchi di
essa, appositi cartelli sui quali vengono riportati gli
estremi del verbale richiamato”.
Poiché nel caso di specie non risulta che l’amministrazione
provinciale -a fronte dell’inerzia del Comune di Peschiera
Borromeo nel prendere in consegna la strada in questione-
abbia attivato la procedura prevista dall’ultimo comma della
norma citata, si può affermare che la competenza a
provvedere in merito all’istanza della ricorrente sia
rimasta in capo alla Provincia e dunque ora alla Città
Metropolitana di Milano.
8. Non escludono, infine, l’illegittimità del silenzio la
non disponibilità, in capo all’ente, delle attrezzature
necessarie per rimuovere mezzi elettrificati e le difficoltà
economiche lamentate dall’amministrazione, stante la
doverosità non solo dell’obbligo di conclusione del
procedimento, previsto all’art. 2, l. n. 241/1990, ma anche
dell’esercizio del potere sanzionatorio disciplinato
dall’art. 23, d.lgs. n. 285/1992, norma che prevede la
irrogazione di sanzioni direttamente nei confronti
dell’autore della violazione, del proprietario o del
possessore del suolo privato o del soggetto che utilizza gli
spazi pubblicitari privi di autorizzazione e che dispone
altresì che, ove la rimozione sia effettuata dall’ente
proprietario, i relativi oneri siano a carico dell'autore
della violazione e, in via tra loro solidale, del
proprietario o possessore del suolo.
9. Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va,
pertanto, accolto. Per l’effetto va ordinato alla Città
Metropolitana di Milano di concludere con un provvedimento
espresso e motivato il procedimento avviato con l’istanza
presentata dalla ricorrente il 16.12.2013, entro il termine
di novanta giorni dalla comunicazione o notificazione della
presente sentenza.
10. In caso di inottemperanza entro il termine suindicato,
il Prefetto di Milano, in qualità di commissario ad acta,
con facoltà di delega a funzionario di sua fiducia,
provvederà in sostituzione dell’amministrazione inadempiente
a concludere il procedimento entro il successivo termine di
novanta giorni (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 09.09.2015 n. 1958 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Se
qualcuno manifesta contro l'opera, l'autorizzazione può
essere revocata.
Altro che «svolta buona». Se la deriva intrapresa l'8
settembre, ricorrenza di una data fatidica, l'armistizio di Cassibile, giornata nera per l'Italia, non sarà corretta,
potremo consegnare le chiavi del paese alla Troika senza
ripensamenti.
L'8 settembre il TAR Lazio-Roma, con una
sentenza clamorosa (Sez. II-bis,
sentenza 08.09.2015 n. 11098), ha infatti respinto un ricorso
presentato da un'azienda specializzata nella produzione di
forni crematori (che brutto mestiere!) contro una delibera
del comune di Borgorose (Rieti).
In questo ridente paesino
laziale la giunta ha dapprima assegnato e poi revocato
l'appalto alla ditta per realizzare uno dei funerei aggeggi.
La ditta appaltatrice aveva fatto ricorso contro la revoca.
E il Tar, nel respingerlo, ha motivato spiegando che in
giunta erano sorti «alcuni profili inerenti una nuova
valutazione dell'interesse pubblico» vale a dire «la
manifestazione da parte della popolazione del comune della
contrarietà alla realizzazione dell'opera e l'interesse
primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla
stessa popolazione». Secondo il Tar «tale motivazione rende
prevalenti le ragioni di opportunità della nuova scelta, con
conseguente conferma della qualificazione del provvedimento
in termini di revoca».
La vicenda, meritoriamente svelata da «Formiche.net»,
sancisce il trionfo legale dell'arbitrio populista. La fine
di qualsiasi ordinata prevedibilità nei rapporti
stato-mercato. L'apoteosi della sindrome del «nimby» (not in
my backyard, non nel mio giardino) che ispira il 99% dei
movimenti ambientalisti italiani, dai no-Tav piemontesi ai
no-Tap pugliesi.
Significa, in definitiva, che nessuna
decisione statale sarà mai più sottratta all'incubo di una
revoca, se incomberà la pressione dell'opinione pubblica.
Fine dello stato di diritto, avvento formale della
Repubblica delle banane. Si sancisce la facoltà
incondizionata al «ripensamento» sotto gli «umori della
piazza», come ha commentato il giudice Massimiliano Atelli.
Le procedure amministrative in vigore in Italia, già
straordinariamente lunghe, avevano però finora trovato un
termine nell'itinerario politico di una delibera, comunale,
regionale o nazionale che fosse. Una volta approvata, la si
eseguiva. Dopo un simile pronunciamento, questo limite
salta: ogni decisione è reversibile, costi quel che costi.
Ebbene, di sicuro, dopo il varo della riforma del senato,
grazie a Calderoli ormai più vicino, sarà bene che il
governo Renzi si occupi delle autonomie locali. Per tagliare
le unghie alle regioni scialacquatrici. E circoscrivere in
ambiti «normali» il potere abnorme dei Tar,
generatore di simili mostri
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazioni su richieste edilizie: sì alle prescrizioni.
Consiglio di Stato. Senza stravolgimenti.
Primi orientamenti dei giudici utili ai cittadini
che intendano operare con la Scia (segnalazione inizio
attività), innovata dalla recente legge 124/2015.
Il Consiglio di Stato -Sez. IV- (sentenza
08.09.2015 n. 4176) conferma che i provvedimenti
richiesti in materia edilizia possono contenere
prescrizioni, correttivi e integrazioni minime o di esigua
entità rispetto alla domanda del cittadino, mentre non si
possono imporre stravolgimenti progettuali che incidano
anche sui vicini.
Questo principio si collega alla modifica del 2015, la quale
riguarda il termine massimo per annullare una Scia (18
mesi): ora il giudice aggiunge anche indicazioni sul tipo di
risposta che, dinanzi a una richiesta di autorizzazione,
permesso, licenza, o concessione, la pubblica
amministrazione è tenuta a fornire. Entro 60 giorni (30 in
edilizia) il Comune può infatti chiedere chiarimenti, e
quindi non vi è più il solo binomio assenso-diniego, bensì
vi è l’alternativa tra assenso e “dissenso costruttivo”.
In altri termini, l’amministrazione è tenuta a suggerire,
indicare, specificare cos’è che non va e come potervi
rimediare. In questo modo, gran parte dei problemi si
possono risolvere, perché il cittadino-utente non vuole
solamente una risposta in 30 o 60 giorni, ma vuol sapere
(anche in tempi brevi) cos’è che non va nella sua idea
progettuale o imprenditoriale.
Ottenere dalla Pa una risposta esauriente applica, del
resto, il “dovere di soccorso” già presente per i
documenti da fornire nelle gare di appalto (Consiglio di
Stato, Adunaza plenaria n. 9/2014), in alcuni aspetti dei
Durc (invito a “regolarizzare” la posizione, articolo
31 Dl 69/2013, su cui Tar Lazio 15.09.2015 n. 11250) o in
materia di giustificazione delle anomalie di gara (Tar Lazio
4274/2015).
Fino a oggi era il privato a doversi giustificare, se voleva
che l’amministrazione condividesse le offerte (in gara) o le
proposte dei privati (nell’edilizia, nel commercio). Ora un
principio di parità estende l’“onere di parlar chiaro”
anche alle Pa, che devono far precedere al rigetto
l’indicazione di quelle modifiche che potrebbero far
ritenere ammissibile l’istanza del privato.
Questa maggiore articolazione del procedimento può rivelarsi
anche rischiosa per l’amministrazione, in quanto, una volta
ottenute dal privato le modifiche proposte, non è possibile
che la Pa torni sui propri passi e rimetta in discussione
temi non affrontati. Si tratta del principio “one shot”
(Consiglio Stato 439/2015), secondo il quale non si possono
riesaminare profili in precedenza non segnalati.
Infine, anche in materia ambientale (articolo 146 Tu
42/2004) è possibile un dissenso costruttivo (Consiglio
Stato 1418/2014) cioè la Pa può (e deve) specificare quali
accorgimenti tecnici o progettuali potrebbero sbloccare una
procedura di autorizzazione paesaggistica.
Ciò fermo restando che l’amministrazione può chiedere anche
un parere a soggetti estranei al procedimento, come è ad
esempio avvenuto per una costruzione vicina ad un aeroporto
militare (Tar Lecce 14.09.2015 n. 2722), intervento sul
quale è stato ritenuto utile, anche se non previsto, il
parere dell’autorità militare.
Del resto, anche per i settori più sensibili, quale quello
paesaggistico, vi sono da tempo (Tar Brescia 317/2008)
segnali favorevoli alla previsione di “misure
compensative” che possano comunque riequilibrare il
rapporto pubblico-privato (articolo Il Sole 24 Ore del
24.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
“vicinitas”, intesa come situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo
autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a
rappresentare l’interesse al ricorso contro un titolo
edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è
necessario accertare concretamente se i lavori assentiti
dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per
il ricorrente.
Quanto, poi, alla evidenziata qualità, in capo alla L.R.E., di proprietaria di altro immobile confinante
con quello oggetto del rilascio della concessione in
sanatoria, rileva il Collegio che essa integra il requisito
della “vicinitas”, la quale costituisce condizione
sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse ad
impugnare la concessione edilizia.
Vale in proposito richiamare il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, a mente del quale la “vicinitas”,
intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato,
costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare
l’interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la
conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall’atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (cfr.
Cons. Stato, IV, 18.11.2014, n. 5662; IV, 05.03.2015, n.
1116; IV, 12.03.2015, n. 1315); rilevandosi comunque che nel
caso di specie l’appellante principale deduce tra l’altro,
nel contestare il titolo edilizio rilasciato, che la scala
realizzata violerebbe le distanze in tema di vedute rispetto
alla sua proprietà confinante
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.09.2015 n. 4176 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contratto di comodato, intervenuto tra il
proprietario dell’area ed il concessionario, instaura una
relazione stabile (detenzione) con il bene oggetto del
medesimo, sufficiente, come quella del locatario, per
richiedere ed ottenere la concessione edilizia, salva
l’opposizione del proprietario.
---------------
La non conformità dei lavori alla disciplina urbanistica è
elemento che deve essere valutato dall’amministrazione in
sede di rilascio del titolo (e successivamente dal giudice
in sede di ricorso giurisdizionale), onde, ai fini della
legittimazione a richiederne l’autorizzazione, risulta
sufficiente che gli stessi siano in domanda prospettati come
rispettosi della normativa urbanistica.
---------------
E' ben vero che il Comune, al momento del rilascio del
permesso di costruire, deve verificare la sussistenza di un
titolo idoneo al suo rilascio.
E’, peraltro, indubitabile che, esibito un titolo, l’ente
locale non è tenuto a compiere complesse indagini in ordine
alla permanente validità dello stesso ovvero a contestazioni
o controversie che sul punto siano instaurate da terzi,
quando tali situazioni non siano state introdotte nel
procedimento.
Va, invero,
evidenziato che la giurisprudenza afferma che il contratto
di comodato, intervenuto tra il proprietario dell’area ed il
concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione)
con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella
del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione
edilizia, salva l’opposizione del proprietario (cfr. Cons.
Stato, IV, 09.02.2015, n. 648).
Orbene, il contratto di comodato invocato dall’appellante,
stipulato in data 15.07.1995, prevede espressamente
l’autorizzazione da parte del proprietario alla esecuzione
di lavori.
L’articolo 5 recita, infatti, che “eventuali lavori sia
sulla struttura che sugli impianti potranno essere
effettuati dalla ditta Grilli s.a.s. attenendosi alla
legislazione vigente e soltanto dopo aver richiesto ed
ottenuto le eventuali autorizzazioni o concessioni”.
Non coglie nel segno il rilievo dell’appellante, laddove
afferma che la clausola deve essere interpretata nel senso
che l’autorizzazione riguarda solo opere conformi alla
normativa e previamente autorizzate, onde non varrebbe a
legittimare la richiesta di un titolo edilizio per opere
difformi e per lo più originariamente abusive.
Osserva in proposito la Sezione che la non conformità dei
lavori alla disciplina urbanistica è elemento che deve
essere valutato dall’amministrazione in sede di rilascio del
titolo (e successivamente dal giudice in sede di ricorso
giurisdizionale), onde, ai fini della legittimazione a
richiederne l’autorizzazione, risulta sufficiente che gli
stessi siano in domanda prospettati come rispettosi della
normativa urbanistica.
Quanto, poi, all’argomento dell’autorizzazione preventiva
alla esecuzione dei lavori, ritiene il Collegio che la
clausola vada interpretata in conformità al nostro sistema
urbanistico-edilizio, il quale prevede in definitiva la
sanzionabilità dei soli abusi sostanziali, potendo quelli
meramente formali essere ricondotti a legalità mediante
l’istituto dell’accertamento postumo di conformità.
Ne consegue che la clausola contrattuale va letta nel senso
che il comodatario è autorizzato a compiere interventi
conformi alla disciplina urbanistica, i quali però devono
essere supportati da autorizzazione dell’autorità
amministrativa competente.
Potendo quest’ultima intervenire ordinariamente in via
preventiva, ma per gli abusi meramente formali anche in via
successiva di sanatoria, deve ritenersi che il comodatario,
autorizzato dal proprietario alla esecuzione di opere
edilizie regolari sia sostanzialmente che formalmente, è
legittimato a richiedere la concessione in sanatoria,
risultando questo strumento ordinario previsto
dall’ordinamento per ricondurre a legalità, anche sotto il
profilo formale, opere che siano comunque compatibili, da un
punto di vista sostanziale, con la disciplina urbanistica.
Venendo, poi, alla posizione del signor Gr.Al., cui
risulta intestato il titolo edificatorio rilasciato, osserva
la Sezione che è ben vero che il Comune, al momento del
rilascio del permesso di costruire, deve verificare la
sussistenza di un titolo idoneo al suo rilascio.
E’, peraltro, indubitabile che, esibito un titolo, l’ente
locale non è tenuto a compiere complesse indagini in ordine
alla permanente validità dello stesso ovvero a contestazioni
o controversie che sul punto siano instaurate da terzi,
quando tali situazioni non siano state introdotte nel
procedimento.
Sotto tale profilo, pertanto, non risulta viziata da
illegittimità l’attività posta in essere dal Comune, ove si
consideri che alla data del rilascio del titolo edilizio
(06.07.2007), pur essendo già intervenuta la decisione di
annullamento della Corte di Cassazione (06.06.2007), questa
non era dallo stesso conosciuta in relazione al breve lasso
temporale decorso.
D’altra parte, non può revocarsi in dubbio che, pur essendo
venuto meno l’atto giudiziale di trasferimento coattivo (con
questione, peraltro, ancora sub iudice, in relazione
al disposto rinvio alla Corte di Appello), residuava
comunque, in capo al Grilli Alberto, il contratto
preliminare di compravendita, il quale fondava il
ragionevole convincimento che ad esso fosse seguito, come da
dichiarazione resa dal privato (v. concessione del
06.07.2007), il definitivo trasferimento del bene.
Non può, infine, non evidenziarsi come l’articolo 13 della
legge n. 47/1985 legittimi alla richiesta della concessione
in sanatoria “il responsabile dell’abuso” e che
analoga disposizione si rinviene nell’articolo 36 del DPR n.
380/2001, il quale prevede che a richiedere l’accertamento
di conformità possano essere “il responsabile dell’abuso
o l’attuale proprietario dell’immobile”
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.09.2015 n. 4176 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Pulizie,
serve il requisito.
Identico all'oggetto dell'appalto.
È legittimo chiedere per l'ammissione a una gara di appalto
un requisito pregresso identico all'oggetto della gara.
Lo stabilisce il Consiglio di
Stato, Sez. IV con la
sentenza 08.09.2015 n. 4170.
La questione esaminata dai giudici riguardava un contratto
di appalto di servizi (di pulizia) per il quale il
disciplinare di gara prevedeva il possesso di un requisito
di capacità tecnica consistente nell'aver svolto nel
triennio 2010-2012 servizi di pulizia delle aree interne ed
esterne a un aeroporto, nonché servizi specialistici e
accessori.
Il profilo di maggiore rilievo della sentenza riguardava la
legittimità di avere richiesto come requisito di accesso
alla gara un servizio «identico» a quello dell'affidamento.
A tale riguardo, i giudici affermano che al fine di
assicurare la presenza dei requisiti di capacità tecnica ben
può l'amministrazione appaltante richiedere che i
concorrenti abbiano svolto servizi identici a quello oggetto
dell'appalto «sempre che, s'intende, il requisito
dell'identità dei servizi sia chiaramente espresso e
risponda a un precipuo interesse pubblico». In via generale
va segnalato che l'Autorità anticorruzione (già Avcp) in
diversi provvedimenti, non ultimo le linee guida sui servizi
di ingegneria e architettura, aveva censurato la richiesta
di servizi identici, che invece la sentenza pare avallare,
per ragioni di apertura alla concorrenza.
Nello specifico caso esaminato il ricorrente aveva svolto un
contratto di facility management che aveva per oggetto
l'attività di pulizia e manutenzione di impianti antincendio
e facchinaggio per immobili adibiti prevalentemente ad
uffici.
Per i giudici il requisito non poteva essere
legittimamente prodotto perché l'oggetto dell'affidamento
«ancorché rientrante nel genus del servizio di pulizia ha
comunque connotazioni proprie, se è vero le prestazioni di
pulizia in riferimento ai siti previsti (aree interne ed
esterne degli spazi aeroportuali) devono avvenire con
modalità e ausilio di mezzi calibrati ai luoghi».
Emergeva quindi un differenziare delle prestazioni richieste
rispetto al normale servizio di pulizia effettuato
all'interno di immobili adibiti ad ufficio che non
consentiva di ritenere valido il requisito presentato
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).
---------------
MASSIMA
La tesi della ricorrente incidentale merita adesione.
Il bando di gara a proposito delle condizioni di
partecipazione e della situazione personale degli operatori
economici (punto III.2) richiedeva (punto III.2.3) ai
partecipanti alla gara di “aver eseguito nell’ultimo
triennio 2010 - 2011 e 2012 o di avere in corso di
espletamento un appalto per servizi di pulizia di aree
interne ed esterne di spazi aeroportuali con l’indicazione
degli importi, delle date e degli aeroporti per un importo
aggiudicato non inferiore a 10.000.000 euro”.
Quindi il disciplinare di gara a proposito dei requisiti di
carattere speciale (punto 2.2) e cioè quelli relativi alla
capacità economica e finanziaria classificati come 2.2.a e
alla capacità tecnica e professionale rubricati coma 2.2.b
stabiliva espressamente che “in caso di ATI i requisiti
di cui ai punti 2.2 a e 2.2.b dovranno essere dichiarati e
posseduti per almeno il 40% dall’impresa Capogruppo e per la
restante percentuale cumulativamente dalla mandante in
misura non inferiore per ciascuna mandante al 10%. Il totale
deve essere comunque pari al 100% dei requisiti richiesti
alla impresa singola. In ogni caso, ai sensi dell’art. 275,
comma 2, del Regolamento, la mandataria deve possedere i
requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria”
Manutencoop nel dichiarare e comprovare il possesso del
requisito di capacità tecnica di cui al punto 2.2.b del
disciplinare ha fatto riferimento ai seguenti due contratti
di appalto:
- quello con GESAP, soggetto gestore dell’aeroporto “Falcone
Borsellino” di Palermo, avente ad oggetto il servizio di
pulizia (in particolare di immobili destinati
prevalentemente ad uso uffici) per un importo complessivo di
euro 8.200.816.78;
- quello con Sacbo spa soggetto gestore dell’Aeroporto di
Orio al Serio, dell’importo pari ad euro 2.893.435.,44.
Ebbene, nessuno dei predetti contratti è idoneo a dimostrare
il possesso del requisito di partecipazione alla gara
richiesto dalla lex specialis se si osserva che:
- quanto al secondo dei predetti contratti, quello con Sacbo,
esso è stato stipulato il 16/02/2013 e cioè con decorrenza
dal giorno successivo a quello di presentazione della
domanda di partecipazione alla procedura selettiva per cui è
causa (15.02.2013) e se così è, tale rapporto contrattuale
non può annoverarsi tra quelli utili a dimostrare il
possesso del requisito di che trattasi posto che
contrariamente a quanto prescritto dal disciplinare di gara
non si riferisce al precedente triennio 2010 - 2011 e 2012 e
neppure può considerarsi “in corso di espletamento”.
Appare evidente infatti che la condizione di ammissione alla
gara deve essere sussistente al momento di presentazione
della domanda di partecipazione alla procedura selettiva,
momento fondamentale cui ancorare il possesso dei requisiti,
secondo un criterio di certezza delle situazioni giuridiche
soggettive e tenuto comunque conto che al momento della
dichiarazione di possesso del requisito (15/2/2013) il
contratto non era comunque in essere.
Neppure il primo contratto, quello stipulato per
l’aerostazione di Palermo, può ritenersi valido ai fini
della dimostrazione del possesso del requisito di capacità
tecnica nei termini previsti dalla disciplina di gara.
Manutencoop ha stipulato con Gesap una convenzione di
facility management che ha per oggetto l’attività di pulizia
e manutenzione di impianti antincendio e facchinaggio per
immobili adibiti prevalentemente ad uffici, ma l’oggetto
della gara per cui è causa è costituito specificatamente dal
servizio di pulizia di aree interne ed esterne di spazi
aeroportuali (punto III.2.3) che è cosa diversa.
L’oggetto dell’affidamento qui in contestazione ancorché
rientrante nel genus del servizio di pulizia ha
comunque connotazioni proprie, se è vero le prestazioni di
pulizia in riferimento ai siti previsti (aree interne ed
esterne degli spazi aeroportuali) devono avvenire con
modalità ed ausilio di mezzi calibrati ai luoghi, e tanto
vale a differenziare le prestazioni richieste rispetto al
normale servizio di pulizia effettuato all’interno di
immobili adibiti ad ufficio.
E d’altra
parte proprio al fine di assicurare la presenza dei
requisiti di capacità tecnica (sotto tale voce del bando si
colloca l’oggetto del servizio richiesto) ben può
l’Amministrazione appaltante richiedere che i concorrenti
abbiano svolto servizi identici a quello oggetto
dell’appalto sempreché, s’intende, il requisito
dell’identità dei servizi sia chiaramente espresso e
risponda ad un precipuo interesse pubblico, condizioni,
queste, certamente presenti nel caso all’esame
(Cons. Stato Sez. IV 06/10/2003 n. 5823; Sez. V 12/04/2005
n. 1631).
Neppure può sottacersi al riguardo il fatto che
nella specie l’esperienza pregressa per prestazioni
identiche trova la propria giustificazione nelle
caratteristiche tecniche del servizio oggetto di affidamento
(Cons. Stato Sez. V 29/03/2006 n. 1599).
Non v’è identità tra il servizio operato in
precedenza e il servizio che si va a richiedere in relazione
al nuovo affidamento e tale discrasia fa venir meno il
possesso del requisito specifico prescritto dalla lex
di gara.
Conclusivamente, i contratti allegati da Manutencoop non
sono validamente idonei a comprovare il possesso del
requisito di capacità tecnica imprescindibilmente richiesto
dalla lex specialis e tale non conformità alla
normativa disciplinate l’accesso alla gara avrebbe dovuto
comportare l’esclusione dalla procedura selettiva di
Manutencoop, come fondatamente eccepito dalla
controinteressata La Cascina con il gravame incidentale di
prime cure.
Questo conduce a riformare la sentenza di primo grado che ha
obliterato l’esame del ricorso incidentale che invece
avrebbe dovuto essere oggetto di disamina giudiziale ed
altresì essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza consolidata, ove un’area edificabile sia
successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata e,
qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i
vari proprietari dei diversi terreni in cui sia stato
frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la
volumetria residua, in proporzione alle rispettive quote di
proprietà.
Infatti, poiché nella volumetria assentibile sono da
ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni ed in particolare il
frazionamento del fondo da parte di un unico precedente
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e, pertanto, restano
edificabili nei soli limiti della volumetria residua.
Ne consegue che la volumetria assentibile sull’area
frazionata da una porzione di immobile di proprietà
esclusiva di uno dei condomini può esser computata entro i
soli limiti della volumetria residua ad esso spettante pro
quota sulla parte di proprietà esclusiva. Tale regola viene
ricavata dai principi generali che regolano l’uso della
comune ex artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 c.c., sulla base dei
quali la volumetria residua disponibile resta di pertinenza
dei diversi proprietari in proporzione alle rispettive
quote: il tutto, salvo un eventuale asservimento delle parti
in comproprietà degli altri condomini, con atto che esige il
consenso di tutti i condomini.
Passando ora al secondo motivo, con lo stesso la ricorrente
lamenta che la cubatura residua del lotto originario (part.lla
n. 318 del fg. n. 32) avrebbe dovuto essere imputata in
proporzione a tutti i fondi derivanti dal frazionamento di
tale lotto: nel caso di specie, tuttavia, nulla di tutto ciò
sarebbe stato valutato dal Comune, il quale avrebbe
rilasciato un permesso di costruire illegittimo.
In base a
detto titolo, infatti, la E.C. Immobiliare S.r.l. starebbe
utilizzando per l’intervento edilizio volumetria non
esistente sul fondo frazionato (in specie: mc. 363 di cui la
part.lla n. 712 sarebbe priva, spettando ad essa mc. 245 e
non i mc. 608 utilizzati dalla citata società, né i mc. 597
che la P.A. pare riconoscere a quest’ultima a seguito della
relazione dell’08.03.2011).
La doglianza è fondata e meritevole di accoglimento.
Ed invero, per giurisprudenza consolidata, ove un’area
edificabile sia successivamente frazionata in più parti tra
vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata e,
qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i
vari proprietari dei diversi terreni in cui sia stato
frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la
volumetria residua, in proporzione alle rispettive quote di
proprietà (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 08.05.2012, n. 2642; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.09.2013, n. 2296; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 31.03.2011, n. 210).
Infatti, poiché nella volumetria assentibile sono da
ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni ed in particolare il
frazionamento del fondo da parte di un unico precedente
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e, pertanto, restano
edificabili nei soli limiti della volumetria residua (cfr.
C.d.S., Sez. V, 10.02.2000, n. 749; id., 16.02.1987, n. 97).
Ne consegue che la volumetria assentibile
sull’area frazionata da una porzione di immobile di
proprietà esclusiva di uno dei condomini può esser computata
entro i soli limiti della volumetria residua ad esso
spettante pro quota sulla parte di proprietà esclusiva. Tale
regola viene ricavata dai principi generali che regolano
l’uso della comune ex artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 c.c.,
sulla base dei quali la volumetria residua disponibile resta
di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione alle
rispettive quote (v. C.d.S., Sez. V, n. 2642/2012, cit.): il
tutto, salvo un eventuale asservimento delle parti in
comproprietà degli altri condomini, con atto che esige il
consenso di tutti i condomini (C.d.S., Sez. V, 28.06.2000, n. 3637)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 08.09.2015 n. 601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Immobili,
no a Tasi per pochi. Non si possono escludere le altre unità
della categoria.
Tar Lombardia: la scelta del comune di tassare
solo una tipologia è irrazionale.
La Tasi non può essere applicata solo a un tipo di immobile
escludendo tutte le altre unità immobiliari appartenenti
alla stessa categoria. In particolare, un comune non può
scegliere di assoggettare a imposizione solo le centrali
idroelettriche presenti sul suo territorio esonerando gli
altri immobili destinati alle attività produttive e inclusi
nella stessa categoria «D». La scelta di tassare solo una
tipologia di immobile, solo perché fornisce un gettito
elevato, è del tutto irrazionale.
È questo il principio affermato dal TAR Lombardia-Milano,
Sez. III, con la
sentenza
02.09.2015 n. 1927.
Per evitare equivoci ed eliminare dubbi interpretativi sorti
nelle amministrazioni comunali in merito alle delibere
adottate sulle aliquote Tasi, va chiarito che i giudici
amministrativi non hanno stabilito che i comuni non possono
tassare solo alcune categorie di immobili, ma che
l'imposizione non può essere limitata a un solo immobile,
specificamente individuato (centrale idroelettrica)
inquadrato catastalmente in una categoria, escludendo tutti
gli altri fabbricati destinati a attività commerciali e
industriali. È stata giudicata «illegittima la scelta di
azzerare l'aliquota del tributo per tutti i settori
produttivi diversi da quello in cui opera la società
ricorrente».
In questo modo il provvedimento di carattere
generale di definizione delle aliquote si traduce «in una
determinazione riferita ad un unico soggetto». Secondo il
Tar, considerato che l'imposta colpisce coloro che fruiscono
dei servizi indivisibili, «non appare legittimo sottrarre
del tutto una categoria di soggetti che fruiscono di tali
servizi alla loro incisione da parte del tributo». Nel caso
in esame, si legge nella pronuncia, l'esercizio del potere
comunale appare «manifestamente irragionevole».
I limiti alle scelte comunali. Com'è noto, è lasciato ai
comuni il potere di manovrare l'aliquota Tasi, la cui soglia
massima non può superare il 2,5 per mille, fino ad
azzerarla. Tuttavia le scelte, come chiarito dai giudici
amministrativi, non possono essere irrazionali. In caso
contrario, i Tar hanno il potere di annullare gli atti
generali, vale a dire delibere e regolamenti.
Anche per il 2015 può essere superata l'aliquota massima
fino al 3,3 per mille, a condizione però che il comune
conceda detrazioni d'imposta o altre agevolazioni per gli
immobili adibiti a abitazione principale. Le amministrazioni
locali, inoltre, possono concedere riduzioni e esenzioni
senza alcun tetto massimo, che tengano anche conto del
reddito familiare.
Va ricordato che sono obbligati al pagamento della Tasi sia
proprietari che inquilini. L'articolo 1, commi 671 e 681,
della legge di Stabilità 2014 (147/2013), individua come
distinti soggetti passivi possessori e detentori degli
immobili. Al riguardo, va posto in rilievo che è privo di
effetti giuridici qualsiasi eventuale accordo in base al
quale il carico tributario viene traslato da uno all'altro
dei soggetti passivi.
Il titolare dell'immobile non può impegnarsi, anche se
l'accordo viene manifestato all'ente attraverso la
dichiarazione fiscale, a versare la quota a carico
dell'inquilino che va dal 10 al 30% del tributo
complessivamente dovuto, a seconda della scelta
regolamentare fatta dall'ente. Del resto, il titolare non è
tenuto neppure a pagare la quota che il comune pone a carico
del detentore, nel caso in cui quest'ultimo non versi
l'imposta dovuta. Solo in caso di occupazione temporanea,
non superiore a 6 mesi, è obbligato al versamento del
tributo colui che risulti possessore dell'immobile.
La Tasi,
che è diretta a recuperare i costi che l'amministrazione
comunale sostiene per garantire i servizi indivisibili
(trasporto, illuminazione pubblica e così via), che devono
essere espressamente individuati nel regolamento comunale e
per i quali è imposto l'obbligo di specificare i relativi
costi, è in parte a carico dell'occupante dell'immobile che
fruisce dei servizi stessi, sempre che la detenzione
dell'immobile non sia di breve durata.
---------------
Immobili soggetti al prelievo.
Sono soggetti all'imposta sui servizi indivisibili, oltre
alle aree edificabili, i fabbricati in generale. Quindi,
anche i titolari di immobili adibiti a prima casa. L'imposta
è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo
fabbricati e aree edificabili. La base di calcolo è la
stessa dell'Imu.
Quindi, occorre fare riferimento al valore
del fabbricato derivante dalla rendita catastale o a quello
di mercato dell'area edificabile al metro quadro. A
differenza dell'Imu, però, il tributo sui servizi
indivisibili lo paga anche l'inquilino, o comunque
l'occupante dell'immobile, nella misura che varia dal 10 al
30% stabilita con regolamento comunale.
Al prelievo sono soggetti tutti i fabbricati, comprese le
abitazioni principali per le quali è dovuta l'imposta
municipale, vale a dire quelli che rientrano nel novero
degli immobili di pregio iscritti nelle categorie catastali
A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli).
Anche i
titolari di fabbricati rurali non sono esonerati dal
pagamento della Tasi. Tuttavia, solo per quelli strumentali
l'articolo 1, comma 678, della legge di Stabilità (147/2013)
assicura un trattamento agevolato. I comuni, infatti, non
possono applicare un'aliquota superiore all'1 per mille. Ex lege, invece, non è riconosciuto alcun beneficio ai
fabbricati destinati a abitazione di tipo rurale.
Sono considerati fabbricati rurali strumentali quelli
diretti alla manipolazione, trasformazione e vendita dei
prodotti agricoli.
L'esonero per questi fabbricati, però, non spetta nonostante
il richiamo nella disciplina Tasi dell'articolo 13 del dl
201/2011, che è limitato alla determinazione della base
imponibile, la quale è analoga a quella dell'Imu. Quindi,
mentre per l'Imu è stabilita espressamente l'esenzione per
gli immobili strumentali all'attività agricola, per la Tasi
il beneficio è limitato all'aliquota agevolata nella misura
massima dell'1 per mille
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.09.2015). |
APPALTI: Sulla
responsabilità precontrattuale.
Come è stato condivisibilmente affermato
dalla giurisprudenza, deve escludersi la sussistenza di un
rapporto di antinomia e comunque di interferenza tra l'art.
109 del D.P.R. n. 554/1999 e l'art. 1337 c.c., dal momento
che la disposizione regolamentare non esclude affatto la
configurabilità di ipotesi di responsabilità
precontrattuale per fatto illecito, disciplinando
piuttosto le sole conseguenze patrimoniali dell'esercizio
della facoltà di non addivenire alla stipulazione del
contratto.
---------------
Chiarito che la domanda formulata dalla ricorrente va
qualificata in termini di responsabilità precontrattuale,
istituto che trova la propria regolamentazione nel Codice
civile, il quale, all'art. 1337, sancisce l'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento
delle trattative e nella formazione del contratto, va
rammentato che tale ipotesi di responsabilità è ormai
pacificamente riferibile anche alla Pubblica Amministrazione
laddove, con il proprio comportamento, violi i doveri di
correttezza e di buona fede che gravano su un qualunque
soggetto nel corso delle trattative.
La responsabilità precontrattuale, infatti, è una
responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che
incide non sull’interesse legittimo pretensivo
all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla
libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire
ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Dunque, in seno ad un procedimento ad evidenza pubblica può
configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per
lesione dell'interesse legittimo, derivante dalla
illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al
procedimento amministrativo di scelta del contraente, una
responsabilità di tipo precontrattuale per violazione di
norme imperative che pongono "regole di condotta", da
osservarsi durante l'intero svolgimento della procedura di
evidenza pubblica.
Le predette regole "di validità" e "di condotta", come
ribadito più volte dalla giurisprudenza amministrativa,
operano su piani distinti: non è necessaria la violazione
delle regole di validità per aversi responsabilità
precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole
di condotta può non determinare l'invalidità della procedura
di affidamento.
---------------
Non è necessario, ai fini della verifica di tale
responsabilità, accertare la legittimità o meno del rifiuto
di stipulare il contratto, avendo la giurisprudenza ormai
chiarito che la responsabilità precontrattuale è
configurabile anche nell'ipotesi di svolgimento di attività
amministrativa legittima, che, tuttavia, ben può essere
lesiva del principio di affidamento e buona fede.
Nel caso di specie la violazione degli obblighi di buona
fede emerge se si considera che l’Amministrazione comunale
ha definitivamente manifestato la propria volontà di non
addivenire alla stipulazione del contratto a due anni di
distanza dall’aggiudicazione definitiva, con una nota
piuttosto laconica quanto alla motivazione del ripensamento
(“per nuove situazioni intervenute che richiedono una
diversa valutazione dell’esigenza di ristrutturazione del
Palazzo Municipale”), nonostante diversi solleciti
dell’aggiudicataria (precisamente in data 22.11.2001,
17.06.2002 e 24.06.2003).
Tale comportamento, ad avviso del Collegio, concreta la
violazione degli obblighi di buona fede e correttezza di cui
all’art. 1337 c.c..
---------------
Il danno risarcibile a titolo di responsabilità
precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un
contratto d'appalto è limitato all’interesse negativo e
comprende sia le spese sostenute dall'impresa per aver
partecipato alla gara (danno emergente), sia la perdita, se
adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di
stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente
vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente
interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato
guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed
esecuzione del contratto non concluso.
Si è infatti in
presenza della lesione dell'interesse giuridico al corretto
svolgimento delle trattative. La differenza in negativo del
patrimonio attiene all'interesse a non essere coinvolti in
trattative inutili e dispendiose, non già all'interesse alla
positiva esecuzione dei doveri contrattuali.
In relazione alla dimostrazione del danno, nei limiti delle
poste ammissibili sopra precisate, deve preliminarmente
rammentarsi che la regola generale dell'onere probatorio,
secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e
provare i fatti su cui fonda la propria pretesa, trova
integrale applicazione nel giudizio risarcitorio davanti al
giudice amministrativo. In tal giudizio infatti non ricorre
quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e
privato che giustifica, nel giudizio di legittimità,
l'applicazione del principio dispositivo con metodo
acquisitivo.
Con il ricorso proposto l’impresa aggiudicataria
dell’appalto per i lavori di ristrutturazione del palazzo
municipale ha chiesto il risarcimento del danno dipendente
dalla mancata sottoscrizione del contratto.
Sul punto ha dedotto che l’Amministrazione avrebbe
esercitato il diritto di recesso dal contratto, ai sensi
dell’art. 122 del DPR 554/1999, applicabile ratione temporis.
Ciò determinerebbe, ad avviso della parte ricorrente,
l’obbligo dell’Amministrazione di pagare i lavori eseguiti e
il valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre
al decimo dell'importo delle opere non eseguite.
A tale tesi si contrappone quella della difesa del Comune,
secondo cui nel caso di specie non potrebbe trovare
applicazione l’art. 122 del DPR 554/1999, non essendo mai
stato stipulato il contratto, bensì dovrebbe farsi
riferimento all’art. 109 dello stesso DPR 554/1999, secondo
cui l’Amministrazione avrebbe sessanta giorni di tempo per
addivenire alla stipulazione del contratto, decorsi i quali
l’impresa può ritenersi sciolta da ogni impegno. In tal caso
l’aggiudicatario non avrebbe diritto ad alcun compenso o
indennizzo, salvo il rimborso delle spese contrattuali e la
restituzione della cauzione versata (adempimento
quest’ultimo eseguito dal Comune in data 21.08.2003).
L’Amministrazione ha inoltre dedotto che, nel caso di
specie, il verbale di aggiudicazione atteneva esclusivamente
all’importo economico dell’appalto, tenuto conto del ribasso
di gara offerta dalla ricorrente, cui avrebbe dovuto seguire
la presentazione di un progetto esecutivo per la conseguente
valutazione definitiva e per la stipulazione del contratto,
circostanza che tuttavia non si sarebbe verificata.
Ad avviso del Collegio è necessario qualificare
correttamente la domanda alla luce dei suoi elementi
essenziali, di seguito evidenziati, e tenuto conto che il
petitum espressamente formulato (si vedano le conclusioni
dell’atto introduttivo del giudizio) consiste in una domanda
risarcitoria.
Ora, successivamente all’aggiudicazione definitiva
dell’appalto il Comune non ha proceduto alla conseguente
stipulazione del contratto e alla consegna dei lavori. Va
precisato che, diversamente da quanto sembra sostenere
l’Amministrazione resistente, l’aggiudicazione, di cui alla
determina n. 874 del 24.07.2001, non è sospensivamente
condizionata ad alcun adempimento da parte del contraente,
in particolare alla presentazione del progetto esecutivo.
Invero, secondo quanto previsto dal disciplinare di gara, la
stipulazione del contratto era subordinata, esclusivamente,
“al positivo esito delle procedure previste dalla normativa
vigente in materia di lotta alla mafia”.
Inoltre, con nota prot. n. 16200 del 07.08.2001, l’Amministrazione ha
richiesto, ai fini della predisposizione del contratto, la
consegna della cauzione definitiva, la ricevuta di
versamento dei diritti di segreteria, la corresponsione
dell’importo pari alla tassa di registrazione del contratto
e le relative marche da bollo. Si tratta in altri termini di
adempimenti materiali –strettamente funzionali alla
stipulazione del contratto- che, peraltro, l’impresa
aggiudicataria, con la nota del 22.11.2011, si è
dichiarata disponibile ad eseguire previa fissazione della
data di stipulazione del contratto stesso. Tuttavia il
contratto non è mai stato stipulato e, a distanza di due
anni dall’aggiudicazione, il Comune ha rappresentato la
propria volontà di non procedere, non volendo più dar corso
all’esecuzione dell’appalto.
A fronte di tali elementi, la questione sottoposta all’esame
del Collegio non è qualificabile come recesso da un
contratto, ai sensi dell’art. 122 del DPR 554/1999, non
essendo mai stato stipulato l’atto negoziale, ma è
riconducibile ad un’ipotesi di responsabilità
precontrattuale, ai sensi dell’art. 1337 c.c..
In tal senso
quindi deve essere qualificata l’azione proposta, ai sensi
dell’art. 32, comma 2, c.p.a., in relazione alla quale
sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sia
proprio in ragione della non intervenuta stipulazione (da
ritenersi la linea ideale di confine tra fase procedimentale
autoritativa e fase contrattuale da cui origina un rapporto
di natura paritetica tra contraenti) sia in quanto la
domanda, così come riqualificata dal Tribunale, è volta alla
tutela risarcitoria di una posizione giuridica soggettiva
che ha natura di interesse legittimo in quanto si esplica in
una fase –quella antecedente alla stipulazione del
contratto– governata dal potere autoritativo
dell’Amministrazione.
Deve precisarsi che, ad avviso del Collegio, non trova
applicazione, nella fattispecie di cui è causa, neppure la
disposizione di cui all’art. 109 del citato DPR 554/1999,
invocato dall’Amministrazione resistente.
La norma infatti dispone che, decorso il termine previsto
per la stipulazione del contratto, l'impresa può, mediante
atto notificato alla stazione appaltante sciogliersi da ogni
impegno; in caso di mancata presentazione dell'istanza,
all'impresa non spetta alcun indennizzo. Si tratta in
sostanza di un diritto potestativo posto in capo
all’aggiudicataria.
Ora, nella vicenda all’esame non risulta che l’impresa
esercitato tale diritto. Infatti non solo non ha notificato
all’Amministrazione la propria determinazione di sciogliersi
dal vincolo nascente dall’aggiudicazione, ma anzi –come si
dirà in seguito– ha più volte sollecitato la stazione
appaltante ad addivenire alla stipulazione del contratto,
manifestando quindi una volontà di segno nettamente
contrario a quella di ritenersi “liberata”.
Va ulteriormente precisato che la non applicabilità del
disposto di cui all’art. 109 del DPR 554/1999 non preclude
di configurare nella specie un’ipotesi di responsabilità
precontrattuale.
Come è stato condivisibilmente affermato dalla
giurisprudenza (cfr. TAR Napoli sez. VIII 05.06.2012,
n. 2646), infatti, deve escludersi la sussistenza di un
rapporto di antinomia e comunque di interferenza tra l'art.
109 del D.P.R. n. 554/1999 e l'art. 1337 c.c., dal momento
che la disposizione regolamentare non esclude affatto la
configurabilità di ipotesi di responsabilità precontrattuale
per fatto illecito, disciplinando piuttosto le sole
conseguenze patrimoniali dell'esercizio della facoltà di non
addivenire alla stipulazione del contratto.
Chiarito che la domanda formulata dalla ricorrente va
qualificata in termini di responsabilità precontrattuale,
istituto che trova la propria regolamentazione nel Codice
civile, il quale, all'art. 1337, sancisce l'obbligo delle
parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento
delle trattative e nella formazione del contratto, va
rammentato che tale ipotesi di responsabilità è ormai
pacificamente riferibile anche alla Pubblica Amministrazione
laddove, con il proprio comportamento, violi i doveri di
correttezza e di buona fede che gravano su un qualunque
soggetto nel corso delle trattative (Cons. Stato, sez. VI,
n. 633 del 2013 ; Cons. Stato sez. IV, n. 744/2014 e n.
4674/2014).
La responsabilità precontrattuale, infatti, è una
responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che
incide non sull’interesse legittimo pretensivo
all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla
libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire
ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Dunque, in seno ad un procedimento ad evidenza pubblica può
configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per
lesione dell'interesse legittimo, derivante dalla
illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al
procedimento amministrativo di scelta del contraente, una
responsabilità di tipo precontrattuale per violazione di
norme imperative che pongono "regole di condotta", da
osservarsi durante l'intero svolgimento della procedura di
evidenza pubblica.
Le predette regole "di validità" e "di condotta", come
ribadito più volte dalla giurisprudenza amministrativa,
operano su piani distinti: non è necessaria la violazione
delle regole di validità per aversi responsabilità
precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole
di condotta può non determinare l'invalidità della procedura
di affidamento.
Orbene, ciò detto, ritiene il Collegio sussistente, nella
vicenda di cui è causa, la responsabilità precontrattuale
dell’Amministrazione comunale.
Non è necessario, ai fini della verifica di tale
responsabilità, accertare la legittimità o meno del rifiuto
di stipulare il contratto (accertamento peraltro non
richiesto dalla parte ricorrente), avendo la giurisprudenza
ormai chiarito che la responsabilità precontrattuale è
configurabile anche nell'ipotesi di svolgimento di attività
amministrativa legittima, che, tuttavia, ben può essere
lesiva del principio di affidamento e buona fede (cfr. Ad.
Plen. n. 6/2005).
Nel caso di specie la violazione degli obblighi di buona
fede emerge se si considera che l’Amministrazione comunale
ha definitivamente manifestato la propria volontà di non
addivenire alla stipulazione del contratto a due anni di
distanza dall’aggiudicazione definitiva, con una nota
piuttosto laconica quanto alla motivazione del ripensamento
(“per nuove situazioni intervenute che richiedono una
diversa valutazione dell’esigenza di ristrutturazione del
Palazzo Municipale”), nonostante diversi solleciti
dell’aggiudicataria (precisamente in data 22.11.2001,
17.06.2002 e 24.06.2003).
Tale comportamento, ad avviso del Collegio, concreta la
violazione degli obblighi di buona fede e correttezza di cui
all’art. 1337 c.c..
Il danno risarcibile a titolo di responsabilità
precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un
contratto d'appalto è limitato all’interesse negativo e
comprende sia le spese sostenute dall'impresa per aver
partecipato alla gara (danno emergente), sia la perdita, se
adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di
stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente
vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente
interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato
guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed
esecuzione del contratto non concluso.
Si è infatti in
presenza della lesione dell'interesse giuridico al corretto
svolgimento delle trattative. La differenza in negativo del
patrimonio attiene all'interesse a non essere coinvolti in
trattative inutili e dispendiose, non già all'interesse alla
positiva esecuzione dei doveri contrattuali.
In relazione alla dimostrazione del danno, nei limiti delle
poste ammissibili sopra precisate, deve preliminarmente
rammentarsi che la regola generale dell'onere probatorio,
secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e
provare i fatti su cui fonda la propria pretesa, trova
integrale applicazione nel giudizio risarcitorio davanti al
giudice amministrativo. In tal giudizio infatti non ricorre
quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e
privato che giustifica, nel giudizio di legittimità,
l'applicazione del principio dispositivo con metodo
acquisitivo.
Ciò posto, la parte ricorrente non ha dato dimostrazione del
danno subito né in termini di danno emergente né di lucro
cessante. Quanto a tale secondo profilo nessuna allegazione
è stata fornita in ordine ad eventuali occasioni perse
durante la pendenza delle trattative, ovvero nell’attesa di
stipulare il contratto. Quanto alle spese sostenute, secondo
quanto risulta dalla documentazione prodotta in giudizio, la
cauzione provvisoria è stata restituita.
In relazione alla
polizza fideiussoria presentata a garanzia degli obblighi
inerenti la partecipazione alla gara, di cui è stata
prodotta copia, non è stata data dimostrazione dei premi
corrisposti, mediante idonea documentazione, riportando,
invero, la copia della polizza predetta l’importo della rata
iniziale del premio, ma non essendo stata fornita
dimostrazione dell’effettivo pagamento della stessa ed
eventualmente delle rate successive.
Nessuna allegazione è stata poi fornita in relazione a
possibili ulteriori voci di danno.
In conclusione la domanda, così come sopra qualificata, deve
essere respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.09.2015 n. 1918 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Sul
rapporto tra VIA e AIA.
I procedimenti di VIA e AIA sono rimasti
distinti dopo l’introduzione di quest’ultima, tuttavia, come
già sottolineato in casi analoghi, tendono ormai a formare
un unicum.
La VIA precede il rilascio dell’AIA e ne condiziona il
contenuto (v. art. 208, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006), ma
è evidente che l’ampiezza dell’esame svolto in sede di AIA
si riflette poi sul giudizio di VIA favorevole, in relazione
al quale assumono necessariamente rilievo anche gli studi
effettuati in vista del rilascio dell’AIA.
L’impatto ambientale di un’opera o di un impianto non
potrebbe infatti essere compiutamente inquadrato senza
prendere in considerazione gli approfondimenti tecnici che
giustificano il rilascio dell’AIA, e neppure senza tenere
conto delle prescrizioni collegate all’AIA e finalizzate a
prevenire o rimuovere gli effetti disturbanti e inquinanti.
Esiste quindi una retroazione dell’AIA sulla procedura di
VIA, nel senso che la prima, benché cronologicamente
successiva, conferma e precisa l’oggetto della seconda.
In altri termini, la decisione sulla VIA in parte anticipa
le conclusioni della procedura di AIA, e in parte rinvia
(del tutto legittimamente) agli studi successivi, da cui
potranno arrivare conferme o limitazioni. Reciprocamente, la
posizione acquisita dal privato con il giudizio di VIA
favorevole è reversibile nella procedura di AIA.
Lo specifico della VIA è quindi l’inquadramento generale
sulla localizzazione dell’opera o dell’impianto. Si tratta
in sostanza di una condizione di procedibilità dell’AIA, in
quanto accerta la sussistenza dei presupposti minimi per
svolgere studi più approfonditi in relazione a una
determinata area. La conseguenza è che le impugnazioni
contro il giudizio di VIA favorevole non possono limitarsi a
lamentare profili di incompletezza dell’istruttoria o figure
simili, essendo evidente che l’istruttoria non è ancora
conclusa.
Per ottenere il risultato di bloccare immediatamente l’opera
o l’impianto i ricorrenti devono invece dimostrare che vi è
una radicale incompatibilità con il sito prescelto, tale da
non poter essere rimediata attraverso prescrizioni o con
l’adozione delle migliori tecniche disponibili (BAT).
La compatibilità ambientale non è infatti un concetto
naturalistico, ma una condizione di equilibrio tra
l’idoneità dei luoghi a ospitare un’attività impattante e le
prescrizioni limitative poste alla medesima attività.
Graduando e aggiornando le limitazioni è quindi possibile
migliorare l’equilibrio e confermare nel tempo il giudizio
di compatibilità.
Un ruolo decisivo sotto questo profilo è svolto, da un lato,
dai controlli sulla diffusione degli inquinanti, e
dall’altro dall’applicazione delle BAT sopravvenute. In
questo quadro, anche le verifiche successive alla messa in
esercizio dell’impianto si possono considerare come la
normale e necessaria prosecuzione dell’originaria
valutazione di compatibilità ambientale.
Si osserva che integrare attraverso l’AIA, e quindi a
posteriori, le valutazioni svolte in sede di VIA non è in
contrasto con le indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza comunitaria. Nel caso di mancata previa
effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità
l’omissione comporta, in generale, la sospensione o
l’annullamento dell’autorizzazione, salvo casi eccezionali
in cui risulti preferibile per l’interesse pubblico che gli
effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero
vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le
conseguenze della violazione del diritto comunitario siano
cancellate.
La sospensione o l’annullamento sono quindi soluzioni
giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire
l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso
l’effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza
(ovvero eseguita con un metodo inidoneo), o in alternativa
attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano
subito pregiudizi a causa dell’omissione.
A maggior ragione, quando la procedura di VIA sia stata
regolarmente eseguita e si sia conclusa con un giudizio
favorevole ma subordinato a ulteriori studi e
approfondimenti, e da integrare mediante le prescrizioni che
saranno formulate in sede di AIA, l’effetto utile del
diritto comunitario appare assicurato. Vi è infatti la
certezza che nessuna conseguenza derivante dalla nuova opera
o dal nuovo impianto in un determinato sito possa sfuggire
al controllo e al potere regolatorio dell’amministrazione.
---------------
Sul rapporto tra VIA e AIA
32. I procedimenti di VIA e AIA sono rimasti distinti dopo
l’introduzione di quest’ultima, tuttavia, come già
sottolineato in casi analoghi (v. TAR Brescia Sez. I 22.01.2010 n. 211), tendono ormai a formare
un unicum. La
VIA precede il rilascio dell’AIA e ne condiziona il
contenuto (v. art. 208, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006), ma è
evidente che l’ampiezza dell’esame svolto in sede di AIA si
riflette poi sul giudizio di VIA favorevole, in relazione al
quale assumono necessariamente rilievo anche gli studi
effettuati in vista del rilascio dell’AIA.
L’impatto
ambientale di un’opera o di un impianto non potrebbe infatti
essere compiutamente inquadrato senza prendere in
considerazione gli approfondimenti tecnici che giustificano
il rilascio dell’AIA, e neppure senza tenere conto delle
prescrizioni collegate all’AIA e finalizzate a prevenire o
rimuovere gli effetti disturbanti e inquinanti. Esiste
quindi una retroazione dell’AIA sulla procedura di VIA, nel
senso che la prima, benché cronologicamente successiva,
conferma e precisa l’oggetto della seconda.
In altri
termini, la decisione sulla VIA in parte anticipa le
conclusioni della procedura di AIA, e in parte rinvia (del
tutto legittimamente) agli studi successivi, da cui potranno
arrivare conferme o limitazioni. Reciprocamente, la
posizione acquisita dal privato con il giudizio di VIA
favorevole è reversibile nella procedura di AIA.
33. Lo specifico della VIA è quindi l’inquadramento generale
sulla localizzazione dell’opera o dell’impianto. Si tratta
in sostanza di una condizione di procedibilità dell’AIA, in
quanto accerta la sussistenza dei presupposti minimi per
svolgere studi più approfonditi in relazione a una
determinata area. La conseguenza è che le impugnazioni
contro il giudizio di VIA favorevole non possono limitarsi a
lamentare profili di incompletezza dell’istruttoria o figure
simili, essendo evidente che l’istruttoria non è ancora
conclusa.
Per ottenere il risultato di bloccare
immediatamente l’opera o l’impianto i ricorrenti devono
invece dimostrare che vi è una radicale incompatibilità con
il sito prescelto, tale da non poter essere rimediata
attraverso prescrizioni o con l’adozione delle migliori
tecniche disponibili (BAT).
34. La compatibilità ambientale non è infatti un concetto
naturalistico, ma una condizione di equilibrio tra
l’idoneità dei luoghi a ospitare un’attività impattante e le
prescrizioni limitative poste alla medesima attività.
Graduando e aggiornando le limitazioni è quindi possibile
migliorare l’equilibrio e confermare nel tempo il giudizio
di compatibilità.
Un ruolo decisivo sotto questo profilo è
svolto, da un lato, dai controlli sulla diffusione degli
inquinanti, e dall’altro dall’applicazione delle BAT
sopravvenute. In questo quadro, anche le verifiche
successive alla messa in esercizio dell’impianto si possono
considerare come la normale e necessaria prosecuzione
dell’originaria valutazione di compatibilità ambientale.
35. Si osserva che integrare attraverso l’AIA, e quindi a
posteriori, le valutazioni svolte in sede di VIA non è in
contrasto con le indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza comunitaria. Nel caso di mancata previa
effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità
l’omissione comporta, in generale, la sospensione o
l’annullamento dell’autorizzazione, salvo casi eccezionali
in cui risulti preferibile per l’interesse pubblico che gli
effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero
vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le
conseguenze della violazione del diritto comunitario siano
cancellate (v. C. Giust. GS 28.02.2012 C-41/11, Inter-Environnement Wallonie, punto 63).
La sospensione o
l’annullamento sono quindi soluzioni giuridiche strumentali,
il cui scopo è consentire l’applicazione del diritto
comunitario, anche attraverso l’effettuazione della
valutazione non eseguita in precedenza (ovvero eseguita con
un metodo inidoneo), o in alternativa attraverso il
risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito
pregiudizi a causa dell’omissione (v. C. Giust. Sez. IV 14.03.2013 C-420/11, Leth, punto 37; C. Giust. Sez. V
07.01.2004 C-201/02, Wells, punto 65).
36. A maggior ragione, quando la procedura di VIA sia stata
regolarmente eseguita e si sia conclusa con un giudizio
favorevole ma subordinato a ulteriori studi e
approfondimenti, e da integrare mediante le prescrizioni che
saranno formulate in sede di AIA, l’effetto utile del
diritto comunitario appare assicurato. Vi è infatti la
certezza che nessuna conseguenza derivante dalla nuova opera
o dal nuovo impianto in un determinato sito possa sfuggire
al controllo e al potere regolatorio dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.07.2015 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piani Particolareggiati e di Piani di
Lottizzazione Convenzionati.
L'approvazione di interventi destinati a
creare nuovi insediamenti in una zona per la quale P.R.G.,
subordina l'attività edificatoria all'adozione di Piani
Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione
Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti
attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità
dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da
rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.
---------------
7. Al fine di meglio lumeggiare i fatti oggetto di esame, è necessario un
breve
inquadramento fattuale della vicenda, necessario per
comprendere le ragioni
della decisione di questa Corte, rilevando peraltro quanto
già deciso da questa
stessa Sezione chiamata in una precedente occasione a
pronunciarsi sui fatti (v., amplius, sentenza n. 5870/2013, del
09/01/2013 - dep. 06/02/2013).
Secondo l'imputazione provvisoria e come è stato
sostanzialmente recepito dal
Tribunale, l'intervento riguardava un preesistente edificio
(uno stabilimento ad
uso industriale per la produzione di paste alimentari,
edificato alla fine del 1800)
e consisteva nella realizzazione di diverse unità, con
destinazione residenziale e
commerciale. Tale intervento, di carattere assenta mente
lottizzatorio richiedeva
un piano particolareggiato e/o di lottizzazione
convenzionata, come, del resto,
previsto dall'art. 32 delle NTA del PRG di Formia.
Questa Corte, pronunciandosi in relazione alla medesima
fattispecie, aveva
chiarito che andava qualificata come lottizzazione
quell'insieme di opere o di atti
giuridici che comportano una trasformazione urbanistica od
edilizia di terreni a
scopo edificatorio intesa quale conferimento all'area di un
diverso assetto
territoriale, attraverso impianti di interesse privato e di
interesse collettivo, tali
da creare una nuova maglia di tessuto urbano (così Sez. 3,
n. 17663 del
03/03/2005 - dep. 11/05/2005, Del Medico, Rv. 231511).
Tanto
che, secondo la
giurisprudenza di legittimità, integra il reato di
lottizzazione abusiva anche la
modifica di destinazione d'uso di una struttura alberghiera
in complesso
residenziale realizzata attraverso la parcellìzzazione
dell'immobile in numerosi
alloggi suscettibili di essere occupati stabilmente pur se
l'area sia urbanizzata e
gli strumenti urbanistici generali consentano una
utilizzabilità alternativa di tipo
alberghiero e residenziale, salvo che le opere già esistenti
siano sufficienti non
solo a soddisfare i bisogni degli abitanti già insediati, ma
anche di quelli da
insediare (Cfr. Sez. 3, n. 27289 del 06/06/2012 - dep.
10/07/2012, Dotta e altri,
Rv. 253147; Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009 - dep.
29/04/2009, P.M. in proc.
Quarta e altri, Rv. 243748).
Il reato di lottizzazione abusiva è, quindi, configurabile,
ove, in difetto degli
strumenti attuativi previsti dal PRG (adozione di piani
particolareggiati o di piani
di lottizzazione convenzionati), siano stati assentiti
interventi edilizi destinati a
creare nuovi insediamenti in area priva di opere di
urbanizzazione primaria; né il
reato è escluso dall'eventuale preesistenza di opere di
urbanizzazione secondaria
(Sez. 3, n. 35880 del 25/06/2008 - dep. 19/09/2008, Mancinelli, Rv. 241031;
Sez. 3, n. 23646 del 12/05/2011 - dep. 13/06/2011, Tarantino
e altri, Rv.
250521).
Invero, "Il reato di lottizzazione abusiva si
integra non soltanto in zone
assolutamente inedificate, ma anche in quelle parzialmente
urbanizzate nelle
quali si evidenzia l'esigenza di raccordo con l'aggregato
abitativo preesistente o
di potenziamento delle opere di urbanizzazione pregresse,
così che per
escluderlo deve essersi verificata una situazione di
pressoché completa e
razionale edificazione della zona, tale da rendere del tutto
superfluo un piano
attuativo" (Sez. 3, n. 20373 del 20/01/2004 - dep.
30/04/2004, Iervolino, Rv.
228447; Sez. 3, n. 3074 del 17/12/2002 - dep. 22/01/2003,
Russo, Rv.
223226).
Pertanto, anche la necessità di una integrazione
delle infrastrutture
primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla
utilizzazione di un singolo
fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete
fognaria, alla rete viaria ed
altre strutture analoghe di modeste dimensioni, rende
necessaria l'approvazione
di un piano di lottizzazione.
Quando, poi, come nel caso di
specie la necessità del
piano di attuazione o di edilizia convenzionata, è richiesta
espressamente dal
PRG, la giurisprudenza amministrativa si è espressa in modo
particolarmente
rigoroso, affermando che "L'esonero dal piano di
lottizzazione previsto in un
piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi
assimilabili a quello del
"lotto intercluso", nel quale nessuno spazio si rinviene per
un'ulteriore
pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di
zone solo parzialmente
urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori
urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il
disordine edificativo in atto" (Cons. Stato, Sez. 5,
01/12/2003, n. 7799, Soc. P.
C. Comune di Roma, in Foro Amm. CDS, 2003, 3742;
sostanzialmente conf. sez.
6, 03.11.2003 n. 6833, Min. Beni Culturali c. Maniviro -
s.r.I.).
Peraltro, è stato
altresì reiteratamente affermato dalla giurisprudenza
amministrativa che l'approvazione del piano di lottizzazione, a differenza del
permesso di costruire,
non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore
generale, ma costituisce
sempre espressione di potere discrezionale dell'autorità
chiamata a valutare
l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello
strumento urbanistico
generale (cfr. Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2004, n. 957;
Cons. Stato, Sez. 4,
02/03/2001, n. 1181).
Appare, pertanto, indubbio, alla luce
degli enunciati principi di diritto, che l'approvazione di
interventi destinati a creare nuovi
insediamenti in una zona per la quale P.R.G., subordina
l'attività edificatoria
all'adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di
Lottizzazione
Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti
attuativi, rende necessaria, ai
fini della legittimità dell'intervento, la prova rigorosa
della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da
rendere del tutto
superfluo lo strumento attuativo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33033 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una consolidata giurisprudenza in tema di
disposizioni dirette a
regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici
ed edilizi, contenute nel
piano regolatore generale, nei piani attuativi o in altro
strumento generale
individuato dalla normativa regionale, occorre tenere distinte
le
prescrizioni che in via
immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio
interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d.
zonizzazione; la
destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici;
la localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo) dalle altre
regole che disciplinano le
modalità dell'esercizio dell'attività edificatoria,
generalmente contenute nelle
norme tecniche di attuazione del piano e nel regolamento
edilizio (disposizioni
sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza
di canoni estetici;
sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali;
regole tecniche
sull'attività costruttiva).
Ciò posto, occorre ritenere che, in generale, al disposto
delle N.T.A. vada
assegnata natura regolamentare. Ed invero, si deve ritenere
che solo i vincoli di
inedificabilità preordinati all'esproprio o quelli di
carattere strumentale, in quanto
incidenti in via diretta e immediata sulle potenzialità
edificatorie di singoli beni,
assumano connotato provvedimentale.
A tal riguardo la giurisprudenza ha infatti chiarito che
"nel caso in cui le N.T.A. di
un P.R.G. stabiliscano che ogni intervento edilizio in una
determinata zona
presuppone la previa approvazione di uno strumento
urbanistico attuativo di
esclusiva iniziativa pubblica, il vincolo gravante sulla
zona è di tipo strumentale e
non con formativo".
Nell'ipotesi di vincolo strumentale
secondo la giurisprudenza
deve trovare applicazione l'art. 2, comma primo, della L. 19.11.1968 n.
1187 (v. oggi l'analogo art. 9 del T.U. sulle espropriazioni
n. 327 del 2001), che
ha fissato entro il limite temporale del quinquennio
l'efficacia delle prescrizioni
dei piani regolatori generali "nella parte in cui incidono
su beni determinati ed
assoggettando i beni stessi a vincoli preordinati
all'espropriazione od a vincoli
che comportino l'inedificabilità".
Tale disposto è infatti
applicabile "non solo con
riferimento ai vincoli preordinati all'esproprio o a quei
vincoli che svuotano il
contenuto del diritto di proprietà, rendendolo
inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ma anche ai vincoli c.d.
"strumentali", a quei vincoli cioè
che subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento
della stessa in un
programma pluriennale, oppure alla formazione di uno
strumento esecutivo".
Le disposizioni delle norme tecniche di attuazione
del piano e del regolamento edilizio, dirette a
regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici
ed edilizi, hanno,
conclusivamente, natura regolamentare, poiché non solo sono
suscettibili di una
ripetuta applicazione, ma possiedono altresì i caratteri
della generalità ed
astrattezza ed hanno validità a tempo indeterminato (ex art.
11 della L. 17.08.1942, n. 1150).
Alla stregua di tali rilievi al disposto delle N.T.A. è da
assegnarsi portata
regolamentare e non provvedimentale.
---------------
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
a mente
dell'art. 9, t.u. ed.
costituisce regola generale ed imperativa, in materia di
governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito
contenute nelle n.t.a.- sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo.
Corollari immediati di tale
principio
fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico
generale prevede
che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che lo
strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace,
ovvero quando è concluso
il relativo procedimento;
b) che in
presenza di una normativa urbanistica generale che preveda
per il rilascio del
titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un
piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo
con l'imposizione di
opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo
dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a
sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali
opere ma non è in grado di
colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti
al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale
possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la
cui indefettibile
approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti
consentiti dal sistema;
e) la
necessità dello strumento attuativo anche in presenza di
zone parzialmente
urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori
urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può
conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
A fronte di tale principio fondamentale e dei suoi
corollari, la prassi
giurisprudenziale ha coniato una deroga eccezionale, dagli
incerti confini, in
presenza di una peculiare situazione di fatto che ha preso
il nome di "lotto
intercluso".
Tale fattispecie si realizza, secondo una
preferibile rigorosa
impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà
del richiedente:
a) sia
l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in
una zona integralmente
interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere
di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli
strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da
un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto
purché si accerti la
sussistenza di una situazione di fatto perfettamente
corrispondente a quella
derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo dì
evitare defatiganti
attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente
pubblico.
Tali essendo la ratio e la natura eccezionale
della regola sottesa al c.d.
"lotto intercluso", deve ritenersi che, in assenza di
strumento attuativo:
a) la
valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione
sia rimessa
all'esclusivo apprezzamento discrezionale del comune;
b) il comune, ove intenda rilasciare
il titolo edilizio, deve
compiere una penetrante istruttoria per accertare che la
pianificazione esecutiva:
I) non conservi una qualche utile funzione, anche in
relazione a situazioni di
degrado che possano recuperare margini di efficienza
abitativa, riordino e
completamento razionale;
II) non sia in grado di esprimere
scelte
programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g.;
c)
incombe sul comune
l'obbligo di puntuale motivazione solo nell'ipotesi in cui
venga rilasciato il
permesso di costruire, essendo in caso contrario sufficiente
il richiamo alla
mancanza del piano attuativo;
d) l'equivalenza fra
pianificazione esecutiva e
stato di sufficiente urbanizzazione della zona ai fini del
rilascio del titolo edilizio
non opera nel procedimento di formazione del silenzio
assenso sulla domanda di
costruzione.
---------------
9. Ritiene il
Collegio necessario procedere alla valutazione della
questione
esaminata in relazione al disposto dell'art. 9, d.P.R. n.
380 del 2001, verificando
quindi se l'Amministrazione abbia correttamente proceduto al
rilascio del p.d.c.
n. 102/2012.
9.1. Ai fini della qualificazione degli interventi edilizi,
occorre prendere le mosse
dalla disciplina contenuta nel D.P.R. 380/2001, in quanto
inderogabile ad opera dei
regolamenti comunali e delle previsioni di P.R.G., secondo
quanto espressamente
sancito dall'art. 3, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, in
forza del quale "le
definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni
degli strumenti
urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Resta ferma
la definizione di
restauro prevista dall'articolo 34 del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490".
Il comma primo del medesimo disposto normativo, alla lettera
d) -come
modificata dall'articolo 1 del D.Lgs. del 27.12.2002,
n. 301 e dall'articolo
30, comma 1, lettera a), del D.L. 21.06.2013, n. 69 ,
convertito, con
modificazioni, dalla Legge 09.08.2013, n. 98- qualifica
gli "interventi di
ristrutturazione edilizia", come "gli interventi rivolti a
trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento
di nuovi elementi ed
impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria
[e sagoma] di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane
fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino
di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente".
Tale disposto normativo si completa con quello dell'art. 10,
comma primo, lett.
c), -lettera integrata dall'articolo 1 del D.Lgs. del 27.12.2002, n. 301 e
successivamente modificata dall'articolo 30, comma 1,
lettera c), del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
Legge 09.08.2013, n.
98 e dall' articolo 17, comma 1, lettera d), del D.L. 12.09.2014, n. 133 ,
convertito con modificazioni dalla Legge 11.11.2014 n.
164- che
disciplina gli interventi di ristrutturazione edilizia
necessitanti di permesso di
costruire, prevedendo che tali siano "c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e
che comportino modifiche della volumetria complessiva degli
edifici o dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee
A, comportino mutamenti della destinazione d'uso nonché gli
interventi che
comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti
a vincoli ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni".
Non v'è dubbio che l'intervento edilizio realizzato, sia
soggetto a p.d.c., essendo
del resto stato assentito dal Comune già nel 2008 con tale
titolo abilitativo,
tenuto conto, poi, che nel 2012 con il p.d.c. adottato in
"riforma" del precedente,
l'Amministrazione abbia autorizzato la ripresa dei lavori
nei limiti del 25% della
variazione delle destinazioni d'uso preesistenti, pari a mq.
1525,04 di
commerciale/direzionale.
9.2. Più complessa si presenta la censura, del pari
sollevata con il primo motivo
di ricorso, secondo cui l'intervento de quo, anche a volerlo
considerare quale
intervento di ristrutturazione edilizia, doveva intendersi
consentito nelle more di
approvazione del piano esecutivo, ai sensi dell'art. 9,
comma secondo, D.P.R. n.
380/01, come già ritenuto dal Comune di Formia.
Secondo il ricorrente, infatti, del tutto immotivatamente il
tribunale del riesame
avrebbe escluso l'applicabilità di tale disposizione
all'intervento edilizio assentito
nel 2012.
9.3. Ai fini della corretta valutazione di tale problematica
occorre previamente
verificare se l'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001
consenta interventi quale
quello di specie, come ritenuto dal Comune.
Al quesito, secondo il ricorrente, dovrebbe darsi risposta
positiva.
Ed invero,
mentre le previsioni di cui al comma primo
dell'art. 9 si riferiscono
solamente alla aree sprovviste dello strumento urbanistico
generale
(consentendo, salvo disciplina più restrittiva ad opera
dalla legislazione
regionale, interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di restauro o risanamento conservativo), il
comma secondo dello stesso art. 9 disciplina in
termini meno restrittivi quelle prive del necessario piano
attuativo, ma dotate di
uno strumento urbanistico generale idoneo a fornire le
coordinate di fondo dello
sviluppo del territorio.
Tali aree non possono pertanto essere propriamente
qualificate quale "zone
bianche", perché esse non sono prive di pianificazione
generale, ma della
disciplina urbanistica di dettaglio richiesta dal P.R.G.
vigente. In questi casi, oltre
agli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria,
restauro e risanamento
conservativo, sono ammessi altresì quelli di
ristrutturazione edilizia, alle
condizioni esplicitate nel medesimo disposto normativo.
9.4. Osserva il Collegio come l'art. 9, comma secondo, del
D.P.R. n. 380/2001
riproduce al riguardo in larga misura il contenuto del
quarto comma dell'art. 27
della legge n. 457/1978 -da ritenersi tuttora vigente in
relazione agli immobili
ricompresi in zone di recupero- estendendone la disciplina
a tutte le aree
sprovviste della pianificazione attuativa prescritta dal
P.R.G. quale condizione per
l'edificazione.
La relazione parlamentare al D.P.R. n.
380/2001 chiarisce, in ordine
all'art. 9 cit. che "il comma 2 riproduce un'estensione
contenuta nel richiamato
art. 27 della legge n. 457, prevedendo che la stessa
disciplina si applichi anche
alle aree nelle quali non siano approvati gli strumenti
urbanistici attuativi previsti
come condizione per l'edificabilità dell'area".
L'art. 9, comma secondo, del D.P.R. n. 380/01, non
diversamente dall'art. 27
legge n. 457 del 1978, prevede la possibilità di intervenire
solo su edifici
esistenti, con opere di manutenzione ordinaria e
straordinaria, restauro e
risanamento conservativo ex art. 3, lettera a), b), c) dello
stesso D.P.R. 380/2001,
senza particolari limitazioni. Lo stesso art. 9 ammette,
inoltre, gli interventi di
ristrutturazione di cui alla lett. d) dell'art. 3, purché
riguardino singole unità
immobiliari o loro parti.
Ove invece, i suddetti interventi
di ristrutturazione
edilizia interessino l'intero fabbricato, o più edifici, la
loro ammissibilità è
subordinata ad una duplice condizione:
1) il mantenimento
delle "destinazioni
preesistenti" almeno nella misura del 75%;
2) il
convenzionamento con il
Comune "limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale" in
ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché
il concorso negli oneri
di urbanizzazione.
Rimangono esclusi per converso tutti gli altri interventi
edilizi.
Dal tenore letterale della norma si evince che
ai fini
dell'ammissibilità
dell'intervento di ristrutturazione non rileva una specifica
destinazione
(la norma
recita infatti: "Tali ultimi interventi sono consentiti
anche se riguardino
globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per
cento delle destinazioni
preesistenti, ..."); si dichiarano infatti ammissibili gli
interventi che modifichino
"fino al 25% delle destinazioni preesistenti"; l'uso del
plurale depone senz'altro
per il riferimento non ad una sola destinazione, ma a tutte
quelle preesistenti.
Infatti, laddove il legislatore ha inteso riferire la
disciplina dell'art. 9, comma
secondo, D.P.R. n. 380/2001 ad una specifica destinazione lo ha
fatto
esplicitamente, ad esempio imponendo il convenzionamento
"limitatamente alla
percentuale mantenuta ad uso residenziale" (art. 27 legge n.
457/1978).
L'art. 9, comma secondo, del T.U. edilizia consente pertanto,
secondo quanto
evidenziato da attenta dottrina, la ristrutturazione
edilizia in mancanza della
pianificazione di dettaglio anche al di fuori delle zone di
recupero, al fine
evidentemente di prevenire i fenomeni di degrado e di
tutelare la proprietà
immobiliare, altrimenti esposta alle conseguenze economiche
negative dei ritardi
della pubblica amministrazione nell'attività di
pianificazione, contenendo peraltro
le trasformazioni funzionali nella misura del 25% in
mancanza di una previa
pianificazione di dettaglio.
In tale contesto, le trasformazioni più rilevanti, eccedenti
la misura del 25% di
tutte le destinazioni d'uso preesistenti, rimangono
assoggettate alla previa
pianificazione attuativa. Tali previsioni, ad esempio,
consentono di modificare
anche la destinazione residenziale prima intangibile, con il
solo limite del
convenzionannento con il Comune limitatamente alla
percentuale mantenuta ad
uso residenziale, in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni
di locazione, nonché il
concorso negli oneri di urbanizzazione.
Alla stregua di tale ricostruzione sembrerebbe -nell'ottica
del ricorrente- che
l'intervento di cui è causa, seppure riferito ad un intero
edificio e non a singole
unità immobiliari o a parti di esso, e ricadente quindi
nella disciplina della
seconda parte dell'art. 9 comma secondo, sia assentibile, in
base alla
prescrizione di legge, secondo quanto a tal riguardo
ritenuto dal Comune di
Formia, in quanto nell'ipotesi di specie si avrebbe comunque
la conservazione
della precedente destinazione, ad uso commerciale,
destinazione questa non
ostativa all'assentibilità degli interventi di
ristrutturazione, secondo quanto
innanzi evidenziato.
Pertanto, alla luce delle suesposte argomentazioni, sarebbe
errata la
interpretazione contenuta nell'impugnata ordinanza, che ha
escluso l'applicabilità
dell'art. 9 citato al caso in esame.
9.6. Tale interpretazione del ricorrente, fatta propria
dall'Amministrazione
all'atto del la "riforma" del p.d.c. del 2012, si noti,
osserva il Collegio, è destinata
ad incidere anche sulla questione relativa alla valutazione
dell'illegittimità del
procedimento per l'annullamento in via di autotutela del
precedente p.d.c.,
ritenuto rilasciato in difformità rispetto alle NTA ed in
assenza della preventiva
redazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione
convenzionata.
Detta valutazione presuppone peraltro la risoluzione di
altra problematica,
ovvero quella della natura delle N.T.A..
Secondo una consolidata giurisprudenza in tema di
disposizioni dirette a
regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici
ed edilizi, contenute nel
piano regolatore generale, nei piani attuativi o in altro
strumento generale
individuato dalla normativa regionale (ex multis, Cons.
Stato, Sez. VI, 08.09.2009, n. 5258), occorre tenere distinte
le
prescrizioni che in via
immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio
interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d.
zonizzazione; la
destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici;
la localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo) dalle altre
regole che disciplinano le
modalità dell'esercizio dell'attività edificatoria,
generalmente contenute nelle
norme tecniche di attuazione del piano e nel regolamento
edilizio (disposizioni
sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza
di canoni estetici;
sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali;
regole tecniche
sull'attività costruttiva).
Ciò posto, occorre ritenere che, in generale, al disposto
delle N.T.A. vada
assegnata natura regolamentare. Ed invero, si deve ritenere
che solo i vincoli di
inedificabilità preordinati all'esproprio o quelli di
carattere strumentale, in quanto
incidenti in via diretta e immediata sulle potenzialità
edificatorie di singoli beni,
assumano connotato provvedimentale.
A tal riguardo la giurisprudenza ha infatti chiarito che
"nel caso in cui le N.T.A. di
un P.R.G. stabiliscano che ogni intervento edilizio in una
determinata zona
presuppone la previa approvazione di uno strumento
urbanistico attuativo di
esclusiva iniziativa pubblica, il vincolo gravante sulla
zona è di tipo strumentale e
non con formativo".
Nell'ipotesi di vincolo strumentale
secondo la giurisprudenza
deve trovare applicazione l'art. 2, comma primo, della L. 19.11.1968 n.
1187 (v. oggi l'analogo art. 9 del T.U. sulle espropriazioni
n. 327 del 2001), che
ha fissato entro il limite temporale del quinquennio
l'efficacia delle prescrizioni
dei piani regolatori generali "nella parte in cui incidono
su beni determinati ed
assoggettando i beni stessi a vincoli preordinati
all'espropriazione od a vincoli
che comportino l'inedificabilità".
Tale disposto è infatti
applicabile "non solo con
riferimento ai vincoli preordinati all'esproprio o a quei
vincoli che svuotano il
contenuto del diritto di proprietà, rendendolo
inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ma anche ai vincoli c.d.
"strumentali", a quei vincoli cioè
che subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento
della stessa in un
programma pluriennale, oppure alla formazione di uno
strumento esecutivo" (cfr.
Consiglio di Stato Sez. IV - sentenza 24.03.2009, n.
1765).
Le disposizioni delle norme tecniche di attuazione
del piano e del regolamento edilizio, dirette a
regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici
ed edilizi, hanno,
conclusivamente, natura regolamentare, poiché non solo sono
suscettibili di una
ripetuta applicazione, ma possiedono altresì i caratteri
della generalità ed
astrattezza ed hanno validità a tempo indeterminato (ex art.
11 della L. 17.08.1942, n. 1150).
Alla stregua di tali rilievi al disposto delle N.T.A. è da
assegnarsi portata
regolamentare e non provvedimentale.
Tuttavia, deve rilevarsi -ed è questa una prima ragione
dell'annullamento
dell'impugnata ordinanza- come la insufficiente descrizione
nel provvedimento
impugnato dei contenuti delle norme N.T.A. applicate (si
legge a pag. 10 del
ricorso solo che "il riferimento al PPE o alle Convenzioni
di lottizzazione,
contenuto nell'art. 32 cit., è volto ad impedire che possano
avvenire lottizzazioni
operate in spregio agli strumenti urbanistici ritenuti
necessari.."), non consente a
questa Corte di verificare se le predette norme N.T.A.
disciplinino in via
immediata le potenzialità edificatorie dell'area de qua e
se, dunque, le stesse
siano idonee a derogare al disposto dell'art. 9, comma
secondo, d.P.R. citato.
Peraltro, come sottolineato, mentre l'art. 9, comma secondo,
del D.P.R. n. 380/2001
consente gli interventi di ristrutturazione edilizia, nei
limiti in precedenza
evidenziati e consentirebbe l'intervento de quo, in quanto
non comportante una
modifica della preesistente destinazione d'uso commerciale,
non è chiaro se le
norme delle N.T.A. precludano tale intervento.
Da qui, dunque, l'annullamento con rinvio dell'impugnata
ordinanza, con rinvio al
tribunale di LATINA al fine di chiarire tale imprescindibile
questione, alla luce
della esegesi giurisprudenziale amministrativa di cui al
paragrafo che segue.
9.7. Una volta acclarata la natura sostanzialmente
regolamentare del disposto
delle N.T.A. invocato dal Comune a sostegno del
provvedimento di autotutela,
deve aversi riguardo alla successiva problematica, relativa
alla derogabilità o
meno del disposto dell'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380
del 2001 ad opera di
disposizioni, come nella specie, di portata regolamentare.
Sul punto, la posizione della giurisprudenza amministrativa
ha subito
un'evoluzione nel corso di questi anni.
La più recente
esegesi (v., Cons. Stato
Sez. IV, sentenza 10.05.2012, n. 2707), è chiara nel
precisare che il
secondo comma della predetta norma, per cui "Nelle aree
nelle quali non siano
stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti
dagli strumenti
urbanistici generali come presupposto per l'edificazione,
oltre agli interventi
indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli
interventi di cui alla lettera d) del primo comma
dell'articolo 3 del presente testo unico...", deve essere
inteso
alla luce del canone teleologico dell'interpretazione della
norma giuridica, nel
senso che alla sua applicazione si fa luogo solo quando,
nella disciplina
urbanistica, manchino del tutto le prescrizioni c.d.
"dirette" aventi natura
conformativa dell'uso della proprietà. Pertanto, si deve
notare che, sotto il profilo
funzionale, il secondo comma dell'art. 9 cit. ha natura di
norma "di chiusura del
sistema", in quanto reca una disciplina per così dire
"minima" delle
trasformazioni ammissibili.
Da ciò discende -secondo tale interpretazione- che
le
prescrizioni del PRG che
disciplinano, in senso più restrittivo rispetto all'art. 9
del D.P.R. n. 380 del 2001,
le possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, in
sede di salvaguardia delle
finalità di riequilibrio territoriale di una zona, devono
ritenersi prevalenti sia
perché dirette ad assicurare un regime di maggiore tutela
dell'area interessata,
sia al fine di stimolare l'iniziativa dei privati a
diventare protagonisti dei processi
di risanamento.
In altri termini, quando le prescrizioni di
piano contengano
specifiche disposizioni destinate al riequilibrio
urbanistico e territoriale dell'area,
le relative norme transitorie -anche in considerazione
della prevalenza del ruolo
dei Comuni in materia urbanistico-edilizia- sono
normalmente destinate ad
evitare che le richieste di modifiche dell'esistente
finiscano per pregiudicare
definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è
finalizzata la
programmazione urbanistica generale.
La pianificazione urbanistica attuale, si osserva, è infatti
diretta sovente a
ricomporre in un quadro omogeneo realtà territoriali spesso
estremamente
variegate e tra loro confliggenti.
In ogni caso, onde
evitare che, nella
temporanea fase antecedente alla concretizzazione dei piani
attuativi, vengano in
essere interventi contrastanti, deve ammettersi la
possibilità, in linea di
principio, di una disciplina transitoria che salvaguardi,
nelle more della sua
attuazione, le destinazioni delle aeree in questione. La
previsione di una
disciplina urbanistica transitoria non configura né un
vincolo preordinato
all'espropriazione, né un'inedificabilità assoluta, ma dà
luogo a vincoli di natura
conformativa, costituenti tipica espressione della potestà
dello strumento
urbanistico generale di individuare i vincoli al fine di
raggiungere le destinazioni
d'uso previste anche attraverso l'iniziativa privata in
regime di economia di
mercato (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n.
3797).
9.8. La giurisprudenza amministrativa, peraltro, ha chiarito
(v., Cons. Stato,
Sez. IV, sentenza 10.06.2010, n. 3699) che a mente
dell'art. 9, t.u. ed.
costituisce regola generale ed imperativa, in materia di
governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito
contenute nelle n.t.a.- sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo (cfr. Cons. St., sez.
IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale
principio
fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico
generale prevede
che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che lo
strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace,
ovvero quando è concluso
il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V,
01.04.1997, n. 300);
b) che in
presenza di una normativa urbanistica generale che preveda
per il rilascio del
titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un
piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV,
03.11.2008, n.
5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo
con l'imposizione di
opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; invero, l'obbligo
dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a
sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali
opere ma non è in grado di
colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. Sr.,
sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302;
Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti
al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale
possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la
cui indefettibile
approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti
consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e) la
necessità dello strumento attuativo anche in presenza di
zone parzialmente
urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori
urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può
conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto
(cfr. Cass. pen., sez. III,
19.09.2008, n. 35880).
A fronte di tale principio fondamentale e dei suoi
corollari, la prassi
giurisprudenziale ha coniato una deroga eccezionale, dagli
incerti confini, in
presenza di una peculiare situazione di fatto che ha preso
il nome di "lotto
intercluso".
Tale fattispecie si realizza, secondo una
preferibile rigorosa
impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà
del richiedente:
a) sia
l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in
una zona integralmente
interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere
di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli
strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da
un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto
purché si accerti la
sussistenza di una situazione di fatto perfettamente
corrispondente a quella
derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo dì
evitare defatiganti
attese per il privato ed inutili dispendi di attività
procedimentale per l'ente
pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268;
sez. V, 03.03.2004,
n. 1013).
Tali essendo la ratio e la natura eccezionale
della regola sottesa al c.d.
"lotto intercluso", deve ritenersi che, in assenza di
strumento attuativo:
a) la
valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione
sia rimessa
all'esclusivo apprezzamento discrezionale del comune (cfr.
Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276);
b) il comune, ove intenda rilasciare
il titolo edilizio, deve
compiere una penetrante istruttoria per accertare che la
pianificazione esecutiva:
I) non conservi una qualche utile funzione, anche in
relazione a situazioni di
degrado che possano recuperare margini di efficienza
abitativa, riordino e
completamento razionale;
II) non sia in grado di esprimere
scelte
programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g. (cfr. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V,
08.07.1997, n. 772);
c)
incombe sul comune
l'obbligo di puntuale motivazione solo nell'ipotesi in cui
venga rilasciato il
permesso di costruire, essendo in caso contrario sufficiente
il richiamo alla
mancanza del piano attuativo;
d) l'equivalenza fra
pianificazione esecutiva e
stato di sufficiente urbanizzazione della zona ai fini del
rilascio del titolo edilizio
non opera nel procedimento di formazione del silenzio
assenso sulla domanda di
costruzione (cfr. Cons. St., sez. V, 14.04.2008, n.
1642).
Orbene, alla luce dei predetti principi, l'impugnata
ordinanza presta il fianco a
censure in relazione al secondo motivo di impugnazione, con
cui il ricorrente
esprimeva le proprie doglianze con riferimento all'erronea
interpretazione da
parte dei giudici del riesame del disposto dell'art. 9
citato in merito al concetto di
fondo intercluso, unica ipotesi, come detto, in relazione
alla quale la
giurisprudenza ha coniato la predetta deroga eccezionale.
E'
ben vero che nel
provvedimento impugnato (pag. 10) v'è un corretto
riferimento alla
giurisprudenza amministrativa (si richiama, in tal senso,
Cons. Stato, n.
790/2001) relativamente al tema della deroga per il c.d.
lotto intercluso, ma è
altrettanto vero che tale richiamo risulta essere fine a se
stesso, non essendo
stata valutata dal giudice del riesame la riconducibilità
dello stato di fatto (che
legittimerebbe, se positivamente riscontrato,
l'applicabilità della predetta regola
eccezionale) alla disciplina del lotto intercluso.
Tale
omissione motivazionale si
risolve, a bene vedere, in un vizio assoluto inquadrabile,
come detto, nel vizio di violazione di legge ex art. 325
cod. proc. pen., giustificando l'accoglimento del
ricorso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33033 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: i residui da demolizione non sono
sottoprodotti.
La demolizione non è mai finalizzata alla produzione di
alcunché, ma all'eliminazione dell'edificio medesimo, quindi
i residui che ne derivano non sono sottoprodotti.
Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione -
Sez. III penale (sentenza 28.07.2015 n. 33028)
secondo cui i materiali derivanti dalla demolizione di un
palazzo sono rifiuti e non un sottoprodotto.
E ciò neanche se la demolizione, come nel caso di specie,
sia finalizzata alla costruzione di un nuovo edificio.
Infatti una delle quatto condizioni per aversi un
sottoprodotto è che «la sostanza o l'oggetto devono trarre
origine da un processo di produzione, di cui costituiscono
parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro
produzione» (art. 184-bis dlgs n. 152/2006). Insomma si
ritorna sulla «vexata quaestio» della definizione di
«processo di produzione» alla cui definizione la
giurisprudenza amministrativa aveva dato un notevole
contributo.
Infatti, già con la sentenza n. 4978 del 06.10.2014, il Consiglio di stato, a distanza di
poco più di un anno dalla sua precedente e innovativa
pronuncia n. 4151/20132 si era affermato la possibile
qualificazione come sottoprodotto del fresato d'asfalto che
ha problematiche del tutto simili a residui di demolizione.
Il Consiglio di stato aveva il merito di aver
inequivocabilmente confermato la possibile natura di
sottoprodotti di tali materiali, che residuano dalla
demolizione della pavimentazione stradale e che vengono
reimpiegati per rifare la pavimentazione stradale in quanto
si tratta di un'attività che configura un «processo di
produzione».
Introducendo, certo, qualche criticabile paletto non
previsto dalla normativa vigente. E cioè che il fresato deve
essere utilizzato in loco e cioè nel luogo di produzione e
non deve essere sottoposto a fasi di stoccaggio e deposito.
Ma la Corte di cassazione è ancora più recisa: nega a
prescindere la natura di processo di produzione all'attività
di demolizione sia pure legata alla costruzione di un nuovo
edificio.
Insomma in via giurisprudenziale vengono aggiunte condizioni
e limitazioni non rinvenibili nelle norme di legge.
Una sorte di «sottospecie di sottoprodotto». Va ricordato
che la nozione di «sottoprodotto» viene introdotta dalla
Corte europea di giustizia che, in ripetute sentenze, ne dà
un quadro definitorio ad iniziare proprio dalle modalità
produttive.
All'evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia
europea segue la Comunicazione interpretativa in materia di
rifiuti e di sottoprodotti (datata 21.02.2007 COM 2007/59)
che, benché antecedente alla Direttiva del 2008, è ancora
attuale e offre spunti di confronto e di riflessione
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti.
La demolizione non è processo di produzione ai fini della
qualificazione del sottoprodotto.
----------------
L'articolo 184-bis del d.lgs. 152/2006 stabilisce che
è sottoprodotto e non
rifiuto ai sensi
dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza
od oggetto che soddisfi
tutte le seguenti condizioni:
-
la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo
di
produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui
scopo primario
non è la loro produzione;
-
deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno
utilizzati, nel corso
dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o
di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
-
la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente
senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica
industriale;
- l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la
sostanza o l'oggetto soddisfa, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la
protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a
impatti
complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
La dizione dell'art. 184, comma 1, lett. a), lascia
chiaramente intendere che
il sottoprodotto deve «trarre origine», quindi provenire
direttamente, da un
«processo di produzione», dunque da un'attività chiaramente
finalizzata alla
realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la
lavorazione o la
trasformazione di altri materiali
(sebbene una simile
descrizione non possa
ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici
possibilità offerte dalla
tecnologia),
tanto è vero che si è da più parti escluso, in
dottrina, che il
riferimento alla derivazione del sottoprodotto dall'attività
produttiva comprenda
le attività di consumo ed in alcuni casi, sebbene con
riferimento alla disciplina
previgente, si è giunti ad analoghe conclusioni per le
attività di servizio).
Dunque
la demolizione di un edificio, che può avvenire per
motivi diversi,
non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì
all'eliminazione dell'edificio
medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da
questa Corte, il
fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione
di un nuovo edificio, che
non può essere considerato il prodotto finale della
demolizione, in quanto tale
attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che
può essere effettuata
anche indipendentemente da precedenti demolizioni.
---------------
L'attività di demolizione di un edificio
non può essere definita un «processo di produzione» quale
quello indicato dall'art. 184-bis, comma 1, lett. a), del
d.lgs. 152/2006, con la conseguenza che i materiali che ne
derivano vanno qualificati come rifiuti e non come
sottoprodotti.
---------------
Il deposito
temporaneo è descritto
nell'articolo 183, lettera nn), del d.lgs. 152/2006, come il
raggruppamento dei rifiuti
effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli
stessi sono prodotti, a
determinate condizioni dettagliatamente specificate:
-
il raggruppamento dei rifiuti deve avvenire nel luogo di
produzione dei
rifiuti medesimi;
-
il deposito temporaneo non può riguardare rifiuti prodotti
da terzi, come
si desume chiaramente dalla legge, ma solo rifiuti propri;
-
i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di
cui al regolamento
(CE) 850/2004 e successive modificazioni devono essere
depositati nel
rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e
l'imballaggio
dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti
conformemente al
suddetto regolamento;
-
sono previsti limiti quantitativi e temporali entro i quali
i rifiuti devono
essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di
smaltimento.
Tali
limiti consentono al produttore di scegliere, in
alternativa, di contenere il
quantitativo dei rifiuti entro un certo volume (30 metri
cubi di cui al
massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi ), superato il
quale deve
recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali
operazioni,
indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, con cadenza
trimestrale.
In
ogni caso, pur rispettando il dato quantitativo appena
indicato:
-
il deposito
non può avere durata superiore ad un anno
(per alcune
categorie di
rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente
e della tutela
del territorio e del mare di concerto con il Ministero per
lo sviluppo
economico, sono fissate specifiche modalità di gestione del
deposito
temporaneo);
-
il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie
omogenee di
rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche,
nonché, per i rifiuti
pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il
deposito delle
sostanze pericolose in essi contenute;
-
devono essere
rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e
l'etichettatura dei rifiuti pericolosi.
L'osservanza di tutte condizioni previste dalla legge per il
deposito
temporaneo solleva il produttore dagli obblighi previsti dal
regime autorizzatorio
delle attività di gestione tranne quelli di tenuta dei
registri di carico e scarico e
per il divieto di miscelazione previsto dall'art. 187.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente osservare che, sebbene
nell'imputazione sia
indicato l'art. 56 del d.lgs. 152/2006, che pure il ricorrente
menziona ripetutamente
in ricorso, risulta evidente, dalla descrizione dei fatti
riportata nell'imputazione
medesima, che si tratta di un mero refuso e che la
contestazione riguarda la
illecita gestione di rifiuti, sanzionata dall'art. 256
d.lgs. 152/2006.
2. Ciò premesso, rileva il Collegio che il giudice del
merito, nel dare atto
della sostanziale ammissione dell'addebito da parte
dell'imputato, non ha posto
in dubbio la natura di rifiuto dei materiali da demolizione
trasportati ed utilizzati
in altro cantiere per la realizzazione di un sottofondo
stradale, dando atto della
distanza tra il luogo di produzione del rifiuto e quello
dell'ultima collocazione,
nonché del fatto che il mezzo utilizzato per il trasporto
non era autorizzato allo
svolgimento di tale attività, avendo l'imputato effettuato,
successivamente al
sequestro, la regolarizzazione mediante comunicazione
all'Albo dei gestori
ambientali.
A fronte di ciò, il ricorrente prospetta in ricorso due
soluzioni interpretative,
tra loro alternative, che sarebbero state, a suo avviso,
tralasciate dal Tribunale e,
nel far ciò, non specifica, tuttavia, in quali termini le
abbia sottoposte
all'attenzione del primo giudice, limitandosi ad osservare
che questi non avrebbe
provveduto ad una corretta applicazione della legge penale.
Le censure mosse in ricorso, in ogni caso, risultano prive
di fondamento per
diverse ragioni.
3. Un primo, determinante, elemento ostativo
all'applicazione, nella
fattispecie, della disciplina dei sottoprodotti o, in
alternativa, del deposito
temporaneo, è data dal fatto che le due discipline cui fa
riferimento il ricorrente
comportano l'applicazione di norme aventi natura eccezionale
e derogatoria
rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con
la conseguenza che, come
più volte affermato da questa Corte, l'onere della prova
circa la sussistenza delle
condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne
richiede l'applicazione (in tema di sottoprodotti v. Sez. 3,
n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385; Sez.
3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3,
n. 41836 del
30/09/2008, Castellano, Rv. 241504. In tema di deposito
temporaneo v. Sez. 3,
n. 15680 del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n.
21587 del
17/03/2004, Marucci, non massimata; Sez. 3, n. 30647 del
15/06/2004,
Dell'Angelo, non massimata. Il principio è stato affermato
anche con riferimento
ad altre ipotesi: si vedano, ad esempio, Sez. 3, n. 6107 del
17/01/2014, Minghini
Rv. 258860 in tema di impianti mobili adibiti alla sola
attività di riduzione
volumetrica e separazione delle frazioni estranee; con
riferimento alle terre e
rocce da scavo, Sez. 3, n. 16078 del 17/04/2015, Fortunato
non ancora
massimata; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone Rv.
244784; Sez. 3, n.
37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n. 9794
del 29/11/2006
(dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto; in tema di
interramento in
sito della posidonia e delle meduse spiaggiate rinvenute in
battigia, art. 39,
undicesimo comma, d.lgs. 152/2006, Sez. 3, n. 3943 del
17/12/2014 dep. (2015),
Aloisio, Rv. 262159).
Più recentemente (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo,
non ancora
massimata) questa Corte ha affermato il principio, che qui
va ribadito, secondo il
quale
i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel
novero dei rifiuti in
quanto oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale
recupero è
condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali
detti materiali vanno
considerati, comunque, cose di cui il detentore ha
l'intenzione di disfarsi;
l'eventuale assoggettamento di detti materiali a
disposizioni più favorevoli che
derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione,
da parte di chi lo
invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti
dalla legge.
Nel caso di specie non risulta in alcun modo che la prova
richiesta sia stata
fornita dall'interessato e ciò basterebbe ad escludere la
fondatezza dei motivi di
ricorso.
4. Nondimeno, la stessa ricostruzione dei fatti in
contestazione effettuata dal
giudice del merito e dallo stesso ricorrente
consentono di
escludere comunque la
possibilità di ricondurre i residui di demolizione per cui è
processo nel novero dei
sottoprodotti o di applicare agli stessi la speciale
disciplina del deposito
temporaneo.
Come si è accennato in precedenza, risulta, dalla sentenza
impugnata e dal
ricorso, che
l'impresa del ricorrente aveva proceduto, in
comune di Paré,
alla
demolizione di un manufatto e che aveva successivamente
trasportato i residui
della demolizione, meglio descritti nell'imputazione, per la
realizzazione di un fondo stradale, definito provvisorio,
per il transito di mezzi pesanti utilizzati per
la realizzazione di fabbricati
residenziali nel comune di Loveno.
Considerati, dunque, tali dati fattuali,
deve certamente
escludersi la natura
di sottoprodotto dei residui da demolizione che viene ad
essi attribuita nel primo
motivo di ricorso.
5. Giova preliminarmente ricordare, a tale proposito, che
l'art. 184, comma
3, lett. b), d.lgs. 152/2006 definisce come rifiuti speciali
quelli derivanti dalle
attività di demolizione e costruzione, nonché i rifiuti che
derivano dalle attività di
scavo, fermo restando, attualmente (poiché, in precedenza,
il riferimento
riguardava l'ormai abrogato art. 186), quanto disposto
dall'articolo 184-bis in
materia di sottoprodotti.
Il richiamo all'art. 184-bis, in questo caso, è
esclusivamente riferito ai
materiali provenienti dalle sole attività di scavo, come
emerge dal tenore
letterale della disposizione e dal richiamo, prima della
modifica ad opera del
d.lgs. 205/2010, all'art. 186, che riguardava le terre e
rocce da scavo.
La collocazione dei materiali derivanti da attività di
demolizione nel novero
dei sottoprodotti si porrebbe dunque in evidente contrasto
con quanto stabilito
dall'art. 184, che li qualifica espressamente come rifiuti.
In ogni caso, tale
collocazione imporrebbe comunque il rispetto di una serie di
condizioni.
6. La categoria dei «sottoprodotti», come è noto, non era
originariamente
contemplata dalla disciplina di settore, lo è ora nell'art.
184-bis d.lgs. 152/2006,
introdotto dal d.lgs. 205/2010 ed è definita dall'articolo
183, lettera qq), del
medesimo d.lgs., il quale si riferisce a «qualsiasi sostanza
od oggetto che
soddisfa le condizioni di cui all'articolo 184-bis, comma 1,
o che rispetta i criteri
stabiliti in base all'articolo 184-bis, comma 2».
L'articolo 184-bis, stabilisce che
è sottoprodotto e non
rifiuto ai sensi
dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza
od oggetto che soddisfi
tutte le seguenti condizioni:
-
la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo
di
produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui
scopo primario
non è la loro produzione;
-
deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno
utilizzati, nel corso
dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o
di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
-
la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente
senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica
industriale;
- l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la
sostanza o l'oggetto soddisfa, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la
protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a
impatti
complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
7. Nel caso sottoposto all'attenzione di questa Corte,
considerata la natura
dei materiali, appare evidente che difetterebbe, in ogni
caso, la prima delle
condizioni richieste, quella concernente l'origine del
sottoprodotto, non potendosi
ritenere che i materiali utilizzati provengano da un
«processo di produzione»
tale non essendo la demolizione di un edificio.
La dizione dell'art. 184, comma 1, lett. a), lascia
chiaramente intendere che
il sottoprodotto deve «trarre origine», quindi provenire
direttamente, da un
«processo di produzione», dunque da un'attività chiaramente
finalizzata alla
realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la
lavorazione o la
trasformazione di altri materiali
(sebbene una simile
descrizione non possa
ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici
possibilità offerte dalla
tecnologia),
tanto è vero che si è da più parti escluso, in
dottrina, che il
riferimento alla derivazione del sottoprodotto dall'attività
produttiva comprenda
le attività di consumo ed in alcuni casi, sebbene con
riferimento alla disciplina
previgente, si è giunti ad analoghe conclusioni per le
attività di servizio, opinione
però non condivisa in una pronuncia di questa Corte (Sez. 3,
n. 41839 del
30/9/2008, Righi, Rv. 241423).
Dunque
la demolizione di un edificio, che può avvenire per
motivi diversi,
non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì
all'eliminazione dell'edificio
medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da
questa Corte, il
fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione
di un nuovo edificio, che
non può essere considerato il prodotto finale della
demolizione, in quanto tale
attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che
può essere effettuata
anche indipendentemente da precedenti demolizioni
(Sez. 3,
n. 42342 del 09/07/2013 RG. in proc. Massucco, Rv. 258329. V. anche Sez. 3,
n. 3202 del 02/10/2014 (dep. 2015), Giaccari, Rv. 262128; Sez. 3, n.
17823 del 17/01/2012,
Celano, Rv. 252617, ove si è esclusa la riconducibilità dei
residui da demolizione
alla categoria dei sottoprodotti, seppure senza prendere
direttamente in
considerazione la qualificazione dell'attività di
demolizione come «processo
produttivo»).
8. Va conseguentemente affermato che
l'attività di
demolizione di un
edificio non può essere definita un «processo di produzione»
quale quello indicato dall'art. 184-bis, comma 1, lett. a),
del d.lgs. 152/2006, con
la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno
qualificati come
rifiuti e non come sottoprodotti.
9. Riconosciuta la natura di rifiuto dei materiali indicati
nell'imputazione,
deve comunque escludersi che, nella fattispecie, possa
ritenersi configurata
un'ipotesi di deposito temporaneo come sostenuto nel secondo
motivo di ricorso.
10. Deve a tale proposito ricordarsi che
il deposito
temporaneo è descritto
nell'articolo 183, lettera nn), del d.lgs. 152/2006, come il
raggruppamento dei rifiuti
effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli
stessi sono prodotti, a
determinate condizioni dettagliatamente specificate:
-
il raggruppamento dei rifiuti deve avvenire nel luogo di
produzione dei
rifiuti medesimi;
-
il deposito temporaneo non può riguardare rifiuti prodotti
da terzi, come
si desume chiaramente dalla legge, ma solo rifiuti propri;
-
i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di
cui al regolamento
(CE) 850/2004 e successive modificazioni devono essere
depositati nel
rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e
l'imballaggio
dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti
conformemente al
suddetto regolamento;
-
sono previsti limiti quantitativi e temporali entro i quali
i rifiuti devono
essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di
smaltimento.
Tali
limiti consentono al produttore di scegliere, in
alternativa, di contenere il
quantitativo dei rifiuti entro un certo volume (30 metri
cubi di cui al
massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi ), superato il
quale deve
recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali
operazioni,
indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, con cadenza
trimestrale.
In
ogni caso, pur rispettando il dato quantitativo appena
indicato:
-
il deposito
non può avere durata superiore ad un anno
(per alcune
categorie di
rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente
e della tutela
del territorio e del mare di concerto con il Ministero per
lo sviluppo
economico, sono fissate specifiche modalità di gestione del
deposito
temporaneo);
-
il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie
omogenee di
rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche,
nonché, per i rifiuti
pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il
deposito delle
sostanze pericolose in essi contenute;
-
devono essere
rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e
l'etichettatura dei rifiuti pericolosi.
L'osservanza di tutte condizioni previste dalla legge per il
deposito
temporaneo solleva il produttore dagli obblighi previsti dal
regime autorizzatorio
delle attività di gestione tranne quelli di tenuta dei
registri di carico e scarico e
per il divieto di miscelazione previsto dall'art. 187.
11. Dalla mera disamina delle condizioni richieste dalla
legge per il deposito
preliminare appare di tutta evidenza che, nella fattispecie,
tale speciale disciplina
non avrebbe potuto trovare applicazione.
Il deposito temporaneo dei rifiuti, come chiaramente si
desume dalla norma,
è prodromico alla loro raccolta per l'avvio al recupero o
allo smaltimento mentre,
nella fattispecie, i rifiuti erano stati utilizzati come
sottofondo stradale per il
transito di mezzi pesanti.
Inoltre, come si è detto in precedenza, i rifiuti sono stati
prodotti in un
comune e collocati in un comune diverso, difettando così il
requisito del
raggruppamento nel luogo stesso di produzione, a nulla
rilevando che l'area in
cui i rifiuti sono stati collocati fosse comunque nella
disponibilità dell'imputato
non prevedendo la legge alcuna eccezione, fatto salvo quanto
disposto dallo
stesso art. 183, lett. nn) e dall'art. 193, comma 9-bis, per
gli imprenditori
agricoli.
Infine, l'utilizzazione con le modalità descritte evidenzia
anche il mancato
rispetto delle norme tecniche ed il raggruppamento per
categorie omogenee.
La sentenza impugnata risulta, pertanto, del tutto immune da
censure (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2015 n. 33028 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In area paesaggisticamente vincolata, per l'occupazione temporanea con
strutture mobili,
tipo chioschi bar, non superiore a 120 gg. occorre
l'autorizzazione paesaggistica semplificata, la cui mancanza, al pari
dell'autorizzazione
paesaggistica ordinaria, configura il reato previsto
dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di
Nuoro ricorre per
cassazione impugnando l'ordinanza emessa in data 26.08.2014 con la quale
il tribunale della libertà ha annullato il decreto di
sequestro preventivo emesso
dal Gip presso il medesimo tribunale per la violazione degli
articoli 44, comma 1,
lettera c), del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 e 181, comma 1-bis, decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 in relazione ad un
chiosco bar costituito da tre
moduli prefabbricati adibiti a servizi igienici, locale di
lavoro e bar, di superficie
totale pari a 35 mq. e altezza di metri 2,70, collegati ad
una rete di
urbanizzazione primaria, rete idrica fognaria ed elettrica
realizzate in condotte
interrate.
2. Per la cassazione dell'impugnata ordinanza il ricorrente
deduce la
violazione dell'articolo 146 del decreto legislativo n. 42
del 2004, dell'articolo 1,
comma 1, d.p.r. n. 139 del 2010, con riferimento
all'articolo 181, comma 1-bis,
decreto legislativo n. 42 del 2004 e dell'articolo 10, comma
1, lettera a), d.p.r.
n. 380 del 2001 in relazione all'articolo 44, lettera c),
stesso decreto [articolo 606,
comma 1, lettera b), codice di procedura penale].
Assume il ricorrente come il tribunale abbia erroneamente
sostenuto che
non fosse necessario, nel caso di specie, il rilascio
dell'autorizzazione
paesaggistica per la realizzazione delle opere sequestrate
sul rilievo della loro
amovibilità e siccome destinate ad essere utilizzate per un
tempo inferiore a 120
giorni, con ciò interpretando erroneamente l'articolo 1,
comma 1, d.p.r. 139 del
2010 che, all'allegato I del suo punto n. 38, prevede
solamente per le strutture
ivi indicate, da installare per un periodo superiore a 120
giorni, un'autorizzazione
paesaggistica semplificata. Tale semplificazione tuttavia
non esclude, secondo il
ricorrente, la necessità dell'autorizzazione paesaggistica
neppure per strutture
che comportano, come nel caso in esame, una occupazione del
suolo inferiore a
120 giorni, essendo pacifico che l'opera fosse collegata ad
una rete di
urbanizzazione primaria, alla rete idrica fognaria ed
elettrica sicché l'esistenza di
tali opere primarie conferiva alla struttura carattere di
stabilità e, di
conseguenza, tutta l'opera doveva considerarsi nuova
costruzione ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera e.5), del d.p.r. 380 del
2001 e, come tale,
necessitava del titolo abilitativo rappresentato dal
permesso di costruire ai sensi
dell'articolo 10 d.p.r. 380 del 2001, la cui inosservanza è
presupposto di
applicazione della legge penale e quindi dell'articolo 44,
lettera c), d.p.r. 380 del
2001.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle
considerazioni che
seguono.
2. Il tribunale della libertà ha sostenuto che le opere non
richiedessero
l'autorizzazione paesaggistica, quantunque semplificata, in
quanto tale
procedimento sarebbe richiesto soltanto per gli interventi
di lieve entità e sempre
che questi comportino una alterazione dei luoghi o
dell'aspetto esteriore degli
edifici, indicati nell'elenco di cui all'allegato I (d.P.R.
09.07.2010, n. 139
Regolamento recante procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica
per gli interventi di lieve entità, a norma dell'articolo
146, comma 9, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive
modificazioni).
Escluso che l'intervento richiesto dall'indagato avesse in
qualsiasi modo
comportato un'alterazione dello stato dei luoghi e
dell'aspetto esteriore degli
edifici, il tribunale cautelare ha affermato che il
procedimento semplificato di
autorizzazione amministrativa può applicarsi esclusivamente
alle "occupazioni
temporanee su suolo privato, pubblico o di uso pubblico, con
strutture mobili,
chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni",
con la conseguenza che
lo stesso procedimento non era pertanto necessario nel caso
di specie in quanto
l'occupazione da parte della società amministrata
dall'indagato era prevista
soltanto per un periodo di tempo non superiore a 120 giorni
e ciò avrebbe
comportato la perfetta legittimità della condotta posta in
essere dalla società del
Palau per la realizzazione della struttura nei tempi
previsti.
3. La questione posta con il gravame del pubblico ministero
-sebbene
attraverso una diversa interpretazione della normativa che
regola la materia e
con una causa petendi ulteriore quanto al collegamento degli
interventi con le
opere di urbanizzazione primaria- è se, con riferimento a
detti interventi, fosse o
meno necessaria l'autorizzazione paesaggistica, sia pure in
forma semplificata.
Il tribunale cautelare ha escluso tale eventualità sulla
base di
un'interpretazione del punto 38 dell'allegato I del d.P.R.
n. 139 del 2010 secondo
il quale sono assoggettati a procedimento semplificato di
autorizzazione
paesaggistica, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 146,
comma 9, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive
modificazioni, gli interventi di
lieve entità, da realizzarsi su aree o immobili sottoposti
alle norme di tutela della parte III del Codice dei beni
culturali e del paesaggio, sempre che comportino
un'alterazione dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli
edifici e tra questi
interventi è compresa (al punto 38 dell'allegato I)
"l'occupazione temporanea di
suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, con strutture
mobili, chioschi e simili,
per un periodo superiore a 120 giorni".
Da ciò il tribunale cautelare ha tratto il convincimento
che, necessitando gli
interventi de quibus di in un lasso temporale inferiore ai
120 giorni, per essi non
occorreva alcuna autorizzazione paesaggistica, ancorché in
forma semplificata,
essendo quest'ultima necessaria solo per le occupazioni
temporanee superiori ai
120 giorni, con la conseguenza che al di sotto di tale
limite temporale l'attività
(nella specie: chiosco bar realizzato dalla società Lu.
e costituito da tre
moduli prefabbricati adibiti a servizi igienici, locale di
lavoro e bar, di superficie
totale pari a 35 mq. e altezza di metri 2,70, collegati ad
una rete di
urbanizzazione primaria, rete idrica fognarie ed elettrica
realizzate in condotte
interrate) sarebbe del tutto "libera".
4. Tale interpretazione, sebbene apparentemente confortata
dalla lettera
della legge, non appare condivisibile per le seguenti
ragioni.
Scrutinando, senza particolare approfondimento, il dato
letterale
dell'allegato I, punto 38 del d.p.r. 09.07.2010, n.
139, tale disposizione,
in applicazione dell'articolo 146, comma 9, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, sembra prevedere la procedura diretta al
conseguimento
dell'autorizzazione paesaggistica semplificata solo in caso
di "occupazione
temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico,
con strutture mobili,
chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni",
con la conseguenza che,
oltre tale termine, sarebbe richiesta l'autorizzazione
paesaggistica semplificata
mentre l'occupazione temporanea di durata inferiore al
predetto termine
(inferiore cioè ai 120 giorni) non sarebbe soggetta ad
alcuna autorizzazione,
configurandosi perciò come intervento paesaggisticamente
"libero", così come ha
in effetti ritenuto, nel caso in esame, il tribunale
cautelare.
Va subito chiarito che per l'occupazione temporanea con
strutture mobili,
tipo chioschi bar, non è applicabile il punto 39
dell'allegato I che, senza alcun
riferimento a limiti temporali, assoggetta alla procedura
semplificata le "strutture
stagionali non permanenti collegate ad attività turistiche,
sportive o del tempo
libero, da considerare come attrezzature amovibili" e ciò in
quanto le strutture,
tipo chioschi, sono espressamente elencate nel punto 38.
La ragione di fondo per la quale non è sostenibile
l'interpretazione secondo
cui l'autorizzazione paesaggistica non sarebbe necessaria
per le occupazioni di
durata inferiore ai 120 giorni risiede nel fatto che
esclusivamente l'art. 149 del
d.lgs. 42 del 2004, con norma di principio, elenca i casi in
cui l'autorizzazione paesaggistica non è necessaria (ossia:
1. per gli interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di
restauro conservativo che
non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli
edifici;
2. per gli
interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie ed altre
opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere
che non alterino l'assetto
idrogeologico del territorio;
3. per il taglio colturale, la
forestazione, la
riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di
conservazione da eseguirsi
nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma
1, lettera g, purché
previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia).
All'ambito di operatività dell'art. 149 del Codice sono
dunque sottratte le
nuove costruzioni di durata temporanea che sono perciò
soggette senza alcun
dubbio all'autorizzazione paesaggistica.
L'allegato al d.p.r. 139 del 2010 non poteva ampliare gli
interventi
paesaggisticannente "liberi", oltre la previsione di legge
contenuta nell'articolo
149 del Codice, perché l'art. 146 del Codice, che è norma di
sistema quanto alla
disciplina dell'autorizzazione paesaggistica, al comma 9
rinviava ad un
regolamento (emanato appunto con il d.P.R. n. 139 del 2010)
di stabilire le
"procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione
in relazione ad
interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento
e concentrazione dei
procedimenti".
Perciò, l'allegato I al d.P.R. 139 del 2010, individuando
gli interventi di lieve
entità al fine di semplificare il procedimento per
conseguire l'autorizzazione
paesaggistica, non poteva estendere ai casi non previsti
dall'art. 149 del Codice,
e quindi ulteriori rispetto alla previsione legislativa (il
d.P.R. n. 139 del 2010 è un
regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2, della
legge 23.08.1988, n. 400 quindi una fonte - atto di rango secondario),
gli interventi
paesaggisticamente "liberi", con la conseguenza che tutti
gli interventi in zone
paesaggisticamente vincolate che non rientrano nel campo dì
applicazione del
d.p.r. 139 del 2010 (che prevede i casi in cui è possibile
fare ricorso
all'autorizzazione semplificata) e nel campo di applicazione
dell'articolo 149 del
codice (che prevede i casi di attività paesaggisticamente
libera) sono soggetti al
procedimento autorizzatorio ordinario, con il risultato
paradossale che,
assoggettate ad autorizzazione semplificata le strutture
mobili di durata
superiore a 120 giorni, deriverebbe che per quelle di durata
inferiore si dovrebbe
richiedere la procedura ordinaria, pervenendosi in tal modo
ad una conclusione
del tutto illogica ed in contrasto con l'articolo 146, comma
9, del codice, in
quanto la procedura più onerosa sarebbe richiesta per
l'occupazione di durata più
ristretta.
E' stato correttamente sostenuto che evidenti ragioni di
coerenza logica e
giuridica vorrebbero che fossero soggette a procedura
semplificata l'occupazione
di suolo avente durata non superiore a 120 giorni, termine
oltre il quale
dovrebbe essere esperito il procedimento ordinario.
Peraltro, come è stato
osservato, la lettura dei singoli punti dell'allegato al
d.p.r. 139 del 2010
conferma tale approdo: i numeri 1, 7, 8, 9, 13, 19, 23, 24,
25, 26, 34, 35, 37
prevedono espressamente che gli interventi ivi contemplati
devono rispettare un
limite previsto per ciascuno di essi "non superiore a ..."
una determinata misura,
oltre la quale l'intervento non può considerarsi di lieve
entità e richiede il regime
autorizzatorio ordinario. Anche i punti 15 e 30 esprimono
diversamente il
rispetto di un limite massimo imponendo per i rispettivi
interventi "dimensioni
inferiori a 18 mq." e "fino a 4". In nessun caso, oltre a
quello considerato,
l'allegato prevede interventi superiori a uno specifico
parametro.
Pertanto è stato ipotizzato che, per mero errore materiale
nella formulazione
del punto 38 dell'allegato I del regolamento 139 del 2010,
sia stato omesso
l'avverbio "non" e che conseguentemente la norma assume
perciò un significato
diametralmente opposto a quello effettivamente voluto dal
legislatore.
Sul punto, va osservato come, volendo rimanere ancorati alla
lettera della
norma e al significato stesso delle parole utilizzate nella
disposizione, non sia
corretto valorizzare nell'economia della fattispecie
esclusivamente il dato
cronologico di riferimento (120 giorni) sottostimando il
segno linguistico
"occupazione temporanea", che costituisce il vero contenuto
precettivo della
fattispecie e che per ciò stesso esclude ogni possibilità di
ricorso ad interventi
"incertus quando" perché senza uno sbarramento circa il
termine finale (dies ad
quem) l'occupazione, contrariamente all'intento del
legislatore, può assumere
connotati di non temporaneità e quindi non rientrare nel
novero degli interventi
lievi, i soli che giustificano il ricorso ad una procedura
semplificata, il che dà il
senso di una antinomia interna alla fattispecie che consente
una interpretazione
conforme al sistema (come in precedenza delineato)
riportando alla coerenza la
disposizione, nel senso che l'autorizzazione paesaggistica
semplificata sarebbe
consentita per le occupazioni temporanee inferiori a 120
giorni mentre per quelle
superiori sarebbe necessario il ricorso alla procedura
ordinaria.
Deve ribadirsi -in conformità ad una giurisprudenza più che
consolidata di
questa Corte regolatrice- che quando l'interpretazione
letterale di una norma sia
sufficiente a esprimere un significato chiaro e univoco,
l'interprete non deve
ricorrere all'interpretazione logica, specie se attraverso
questa si tenda a
modificare la volontà della legge chiaramente espressa,
mentre quando il
significato proprio delle parole, secondo la connessione di
esse, non sia, come
nella specie, chiaro e univoco tanto da rifiutare una
diversa e contrastante
interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico: ciò
al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione
del fondamento della norma, la precisa
"intenzione del legislatore", avendo cura, però, di
individuarla quale risulta dal
singolo testo che è oggetto di esame.
Ne consegue che il criterio di interpretazione teleologica,
previsto dall'art. 12
delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione
letterale nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico
risultante dalla
formulazione della disposizione normativa sia incompatibile,
situazione nella
specie sussistente, con il sistema normativo (Sez. L, n.
3495 del 13/04/1996,Rv.
497000; Sez. 3, n. 9700 del 21/05/2004, Rv. 572999).
5. Il tribunale cautelare ha rinunciato a percorrere un
siffatto approccio
esegetico ed è pervenuto all'erronea conclusione che, nel
caso di specie, non
occorresse alcuna autorizzazione paesaggistica, vertendosi
al cospetto di
un'attività, a tal fine, libera, laddove invece
era
necessario munirsi di
un'autorizzazione semplificata, la cui mancanza, al pari
dell'autorizzazione
paesaggistica ordinaria, configura il reato previsto
dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004.
E' ovvio che, ai fini della sussistenza del fumus criminis
ed in particolare
dell'integrazione dell'elemento soggettivo, va considerato,
in relazione agli
aspetti del caso concreto, come non sia possibile esigere
dal privato cittadino
una corretta interpretazione della normativa di per sé
intrinsecamente ed
oggettivamente antinomica, con la conseguenza che va
accertato quale ricaduta
abbia avuto il testo normativo su un eventuale comportamento
assunto in
"buona fede" da parte dell'indagato circa la mancata
richiesta dell'autorizzazione
semplificata, impregiudicate le misure di carattere
amministrative a tutela degli
interessi paesaggistici, posto che "la buona fede" è
predicabile ove la mancata
coscienza della illiceità del fatto derivi da un elemento
positivo, cioè da una
circostanza che induce nella convinzione della sua liceità,
come un
comportamento o un provvedimento dell'autorità
amministrativa, una
precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una
equivoca
formulazione del testo della norma (Sez. 3, n. 6160 del
08/03/1989, Greco, Rv.
181118).
Dal testo del provvedimento impugnato risulta infine come
fosse pacifica la
circostanza, che il ricorrente sostanzialmente deduce, ossia
che il chiosco bar
fosse costituito da tre moduli prefabbricati adibiti a
servizi igienici, locale di
lavoro e bar, collegati ad una rete di urbanizzazione
primaria, rete idrica fognarie
ed elettrica realizzate in condotte interrate, senza che, al
cospetto di tale
evidenza, il tribunale cautelare abbia motivato
(concretizzando la violazione di
legge denunciata) sulla riconducibilità o meno, nel caso di
specie, di tali
interventi nel novero di quelli subordinati al rilascio del
permesso di costruire perché qualificabili come interventi
di nuova costruzione (ex art. 3, comma 1,
lett e.5) in relazione all'art. 10 d.p.r. 380 del 2001) e
dunque connotati da una
tipica stabilità inconcepibile con la temporaneità
dell'invocata occupazione,
dovendosi, a tal fine, considerare che, in materia edilizia,
ai fini del riscontro del
connotato della precarietà e della relativa esclusione della
modifica dell'assetto
del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche
costruttive, i materiali
impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze
temporanee alle quali l'opera
eventualmente assolva (Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009,
Frank, Rv. 243710).
Non rileva la pronuncia incidentale del Tar Sardegna non
essendo la stessa
vincolante ai fini della presente delibazione.
6. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio
per nuovo esame
ed il giudice del rinvio si atterrà ai principi di diritto
in precedenza enunciati (ai
paragrafi 4 e 5 del considerato in diritto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2015 n. 29080). |
EDILIZIA PRIVATA: Entrambe
le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano
rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali
trattandosi di opere interrate o che comunque non si
innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente
inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare
dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità
dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze
legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose
intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e
luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è
inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente
interrato quale una piscina, in quanto i piani interrati
devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze
legali.
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione
affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e
dalle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi
opera non completamente interrata avente i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo,
anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento
fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal
materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua
destinazione”.
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 7/2009
per la realizzazione di una piscina e relative pertinenze.
...
Con ricorso notificato il 05.06.2009 e depositato il
03.07.2009 Ma.Pi., Pa. e Gi.Pi. del Ve. hanno impugnato il
permesso di costruire in sanatoria n. 7/2009 rilasciato dal
Comune di Pignataro Maggiore a Lu.Ar..
I ricorrenti hanno esposto di essere comproprietari del
terreno composto dalle particelle 84 e 122 del Foglio 5 del
Comune di Pignataro Maggiore, confinante con il suolo di
proprietà di Lu.Ar.; quest’ultimo aveva avviato in assenza
di permesso di costruire i lavori per la realizzazione di
una piscina, un pergolato ed altri locali e, a seguito
dell’esposto presentato dai ricorrenti e del sopralluogo dei
tecnici comunali, aveva richiesto ed ottenuto il permesso di
costruire in sanatoria impugnato.
...
Quanto alle distanze minime dal confine e dalla strada
comunale, oggetto del terzo e quarto motivo di
ricorso, l’istruttoria svolta nel corso del giudizio ha
evidenziato l’insussistenza delle violazioni lamentate.
Il Servizio Tecnico comunale ha precisato, in particolare,
che le zone E2, quale quella in cui insistono le opere in
contestazione, sono disciplinate dall’art. 22 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G., e destinate “prevalentemente
ad attività agricola”; in tale quadro risulta consentita
la realizzazione di opere costituenti pertinenze o impianti
tecnologici al servizio di edifici già esistenti, quale può
essere considerata la piscina di modeste dimensioni al
servizio del fabbricato del controinteressato.
Con riferimento ai locali al servizio della piscina,
inoltre, nella relazione dei tecnici comunali si rileva che
gli stessi sono completamente interrati e che i locali
interrati, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento Edilizio
comunale, non sono considerati a fini volumetrici se hanno
un’altezza inferiore a m. 2,50.
È stato chiarito altresì che l’art. 22 citato non prevede
per le zone E2 distanze minime né dai confini, né dalle
strade vicinali, né può essere applicata la distanza minima
di m. 10 dalle strade vicinali di tipo “F” prevista
dall’art. 26 del D.P.R. 495/1992 trattandosi di area
ricompresa nel perimetro del centro abitato; l’intervento
risulta invece rispettoso delle distanze previste dal codice
civile (la cui violazione non è stata peraltro nemmeno
contestata).
In ogni caso, poi, entrambe le opere (piscina e annessi vani
tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione
delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che
comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con
conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a
creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità
dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze
legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose
intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e
luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è
inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente
interrato quale una piscina (TAR Lombardia, Milano,
20.12.1988 n. 428), in quanto i piani interrati devono
ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali (TAR
Puglia, Lecce, sez. III 30.12.2014 n. 3200).
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione
affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e
dalle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi
opera non completamente interrata avente i caratteri della
solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo,
anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento
fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o
preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed
elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo
aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal
materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua
destinazione” (Cassazione civile sez. II 06.05.2014 n.
9679).
Infine deve rilevarsi che il pergolato non è ricompreso tra
le opere sanate in quanto il permesso impugnato contiene
l’espressa prescrizione dell’esclusione di tale opera ed il
controinteressato ha rinunciato alla sua realizzazione.
In conclusione il ricorso va respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3520 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
classificazione e
disciplina comunale di tunnel adibiti a serre
(tunnel-serra). Si tratta di strutture formate da archi di
tubolare metallico infissi nel terreno e non cementati,
collegati longitudinalmente da una barra metallica. La
copertura è assicurata da teli in materiale plastico,
fissati al tubolare con anelli elastici e trattenuti alla
base da un riporto di terra. L’altezza è di circa 4 metri,
la larghezza di circa 7,5 metri, mentre la lunghezza varia
da 30 a 100 metri.
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Sulla classificazione dei tunnel-serra
I tunnel-serra
collocati e progettati dalla ricorrente, pur essendo
sprovvisti di strutture in muratura e di fondazioni in
cemento, non possono essere qualificati come serre mobili
stagionali ex art. 6, comma 1-e, del DPR 380/2001, e dunque
non ricadono nella fattispecie dell’attività edilizia
libera.
L’ostacolo principale è rappresentato dalla nozione di
stagionalità, che non deve necessariamente essere intesa in
senso naturalistico, ma implica comunque una sospensione
dell’attività al termine del ciclo produttivo. Tale
sospensione è rilevante sul piano edilizio, perché consente
la rimozione del manufatto, o quantomeno della copertura che
crea il volume e l’ingombro visivo.
In questo modo,
essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo
stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato,
analogamente a quanto avviene con le vere e proprie
costruzioni destinate a durare solo per una frazione
dell’anno solare.
Applicando le categorie edilizie attualmente codificate
a livello legislativo, se un tunnel-serra non può essere
considerato una serra mobile stagionale, dovrebbe essere
assimilato alle serre fisse disciplinate dall’art. 59, commi
4 e 4-bis, della LR 12/2015, che hanno un impatto sul
territorio molto vicino a quello degli edifici produttivi.
Tuttavia, è evidente che una piena assimilazione alle
serre fisse non riuscirebbe a catturare il carattere
specifico dei tunnel-serra utilizzati per la produzione
agricola di IV gamma, che nell’attuale processo di
industrializzazione dell’agricoltura sono essenzialmente dei
luoghi di lavoro all’aperto, dotati di copertura leggera e
direttamente insistenti sul terreno.
La separazione
dall’intorno è costituita appunto dalla copertura in
materiale plastico, che rileva sotto il profilo del
drenaggio delle acque meteoriche, mentre le pareti frontali
sono aperte per consentire le lavorazioni delle macchine
operatrici.
La qualificazione preferibile è pertanto quella ex art.
3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001 (manufatti leggeri utilizzati
come ambienti di lavoro). L’inquadramento in questa nicchia
classificatoria lascia inalterato l’obbligo di permesso di
costruire, ma attribuisce margini significativi alla
pianificazione comunale per l’introduzione di una disciplina
di favore, ossia meno restrittiva di quella prevista per le
serre fisse e per i fabbricati agricoli produttivi.
In
particolare, possono essere superati i limiti di copertura
previsti dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, a
condizione che vi siano adeguate garanzie idrologiche e
ambientali.
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Sulla disciplina comunale delle serre
Per i tunnel-serra o serre mobili (che, come si è visto
sopra, sono luoghi di lavoro in ambito agricolo) è quindi
preferibile accantonare il concetto di stagionalità e
parlare di temporaneità o reversibilità del titolo edilizio.
Poiché un luogo di lavoro è collegato alle esigenze
produttive di una determinata azienda, che variano nel
tempo, è possibile (e preferibile dal punto di vista
ambientale) che i titoli edilizi siano provvisori, purché
siano anche sufficientemente ampi da consentire una
ragionevole programmazione dell’attività.
Alla scadenza del
titolo, il privato dispone soltanto di un’aspettativa al
rinnovo, che sarà valutata dall’amministrazione verificando
la continuità dell’azienda (non le specifiche esigenze
produttive, che ricadono nella libertà di iniziativa
economica) e la sostenibilità ambientale. Il carattere
leggero e facilmente amovibile dei manufatti è compatibile
con un titolo edilizio temporaneo.
1. La ricorrente Azienda Agricola Ca.Ag. & C. è una
società agricola con sede nel Comune di Mairano,
specializzata nella produzione di ortaggi. I fondi coltivati
sono in gran parte di proprietà di terzi.
2. Per lo svolgimento dell’attività orticola la ricorrente
utilizza tunnel adibiti a serre (tunnel-serra). Si tratta di
strutture formate da archi di tubolare metallico infissi nel
terreno e non cementati, collegati longitudinalmente da una
barra metallica. La copertura è assicurata da teli in
materiale plastico, fissati al tubolare con anelli elastici
e trattenuti alla base da un riporto di terra. L’altezza è
di circa 4 metri, la larghezza di circa 7,5 metri, mentre la
lunghezza varia da 30 a 100 metri.
3. Il Comune con ordinanza del responsabile dell’Area
Tecnica n. 558 del 07.04.2008 ha ingiunto la demolizione
di 54 tunnel-serra con le caratteristiche sopra descritte,
realizzati abusivamente sui mappali n. 33-39-77. L’area dove
sono collocate queste strutture si trova in parte in zona
agricola e in parte in zona di rispetto ambientale.
Nell’ordinanza di demolizione le strutture sono qualificate
come serre permanenti ai sensi dell’art. 59, comma 4, della LR
11.03.2005 n. 12, come tali subordinate a permesso di
costruire e ammissibili con un rapporto di copertura massimo
del 40% della superficie aziendale (48% per le aziende
esistenti alla data di prima approvazione del PGT).
4. Contro questo provvedimento la ricorrente ha proposto
impugnazione con atto notificato il 10.06.2008 e
depositato il 16.06.2008 (ricorso n. 614/2008).
La tesi
della ricorrente è che i tunnel-serra, utilizzati per la
produzione agricola di IV gamma, costituirebbero coperture
stagionali, esonerate dal permesso di costruire ai sensi
dell’art. 33, comma 2-d, della LR 12/2015 nel testo in vigore
all’epoca (v. ora il comprensivo rinvio all’art. 6 del DPR 06.06.2001 n. 380 inserito nell’art. 33, comma 1, della LR
12/2015 dall'art. 12, comma 1-h, della LR 21.02.2011 n.
3).
5. In seguito, il Comune è intervenuto nuovamente nei
confronti della ricorrente. In particolare, (a) il
responsabile dell’Area Tecnica con ordinanza n. 631 del 20.02.2010 ha ingiunto la demolizione di 153 tunnel
realizzati abusivamente sui mappali n. 332, n. 159-160-161,
n. 162-163, n. 147 (foglio 11), n. 17, n. 147 (foglio 12),
tutti in zona agricola di salvaguardia o comunque in ambiti
inedificabili, e (b) ancora il responsabile dell’Area
Tecnica con ordinanza n. 635 del 16.03.2010 ha ingiunto
una seconda volta la demolizione dei 54 tunnel realizzati
abusivamente sui mappali n. 33-39-77.
6. Poiché la ricorrente non ha ottemperato, il segretario
comunale con decreto prot. n. 4373 del 27.08.2010 ha
accertato la mancata esecuzione dell’ordinanza n. 631 del 20.02.2010, e con decreto prot. n. 4491 del
03.09.2010 ha accertato la mancata esecuzione dell’ordinanza n.
635 del 16.03.2010.
In entrambi i casi è stata disposta
l’immissione nel possesso delle aree, finalizzata alla
demolizione d’ufficio dei manufatti abusivi.
7. Contro questi provvedimenti la ricorrente ha proposto
impugnazione con atto notificato il 03.05.2010 e
depositato il 14.05.2010, integrato con motivi aggiunti
(ricorso n. 483/2010). Anche in questo caso la tesi del
ricorso è che, in mancanza di un ancoraggio in cemento, i
tunnel-serra non dovrebbero essere qualificati come serre
fisse ma come strutture stagionali (intendendo la
stagionalità in senso economico: per gli ortaggi di IV gamma
i sottocicli produttivi hanno una durata pari a circa due
mesi).
8. In data 03.04.2013 la ricorrente ha chiesto il
permesso di costruire per la realizzazione di 21 tunnel
mobili e di 7 tunnel mobili stagionali. Tutte le strutture
avrebbero dovuto essere posizionate sul mappale n. 29,
classificato in zona agricola. La tipologia dei tunnel è
stata poi variata con istanza del 18.06.2013 (i 7 tunnel
mobili stagionali sono stati sostituiti da serre fisse).
Nella relazione allegata a questa seconda istanza si precisa
che a quella data la superficie aziendale coperta da tunnel
mobili (identificabili con i tunnel-serra) era pari al
41,46% del totale, e che con il titolo edilizio richiesto la
predetta superficie coperta sarebbe passata al 46,17%, a cui
si sarebbe aggiunto un ulteriore 2% rappresentato dalla
superficie coperta da tunnel fissi.
9. Il Comune con provvedimento del responsabile dell’Area
Tecnica prot. n. 4234 del 21.10.2013 ha negato il
titolo edilizio, in quanto il progetto contrasterebbe con le
norme del PGT, che impongono una distanza minima di 10 metri
tra le serre in zona agricola strategica (v. art. 3, punto 16,
e art. 27, punto a3.2, delle NTA).
10. Contro il diniego la ricorrente ha presentato
impugnazione con atto notificato il 13.12.2013 e
depositato il 07.01.2014 (ricorso n. 25/2014). È stata
censurata l’interpretazione degli art. 3 e 27 delle NTA
fatta propria dagli uffici comunali, e in subordine la
stessa disciplina urbanistica, di cui è chiesto
l’annullamento nella parte in cui fissa la distanza minima
tra le serre.
La tesi del ricorso è che sarebbe
irragionevole imporre un corridoio di 10 metri tra i
tunnel-serra (al posto della distanza di circa 2,2 metri
indicata nel progetto) come se si trattasse di edifici con
pareti finestrate.
11. Il Comune si è costituito in giudizio in tutti i
ricorsi, chiedendone la reiezione. Con identica richiesta si
è costituito il signor Gi.Ar., titolare
dell’azienda agricola Ag. e proprietario di un fondo
confinante con l’area dei tunnel-serra.
12. Vista l’omogeneità della materia contenziosa trattata
nei tre ricorsi, questo TAR con ordinanza n. 990 del 15.09.2014 ha disposto la riunione, che viene confermata
in questa sede.
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla classificazione dei tunnel-serra
14. In primo luogo, occorre sottolineare che i tunnel-serra
collocati e progettati dalla ricorrente, pur essendo
sprovvisti di strutture in muratura e di fondazioni in
cemento, non possono essere qualificati come serre mobili
stagionali ex art. 6, comma 1-e, del DPR 380/2001, e dunque
non ricadono nella fattispecie dell’attività edilizia
libera.
15. L’ostacolo principale è rappresentato dalla nozione di
stagionalità, che non deve necessariamente essere intesa in
senso naturalistico, ma implica comunque una sospensione
dell’attività al termine del ciclo produttivo. Tale
sospensione è rilevante sul piano edilizio, perché consente
la rimozione del manufatto, o quantomeno della copertura che
crea il volume e l’ingombro visivo.
In questo modo,
essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo
stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato,
analogamente a quanto avviene con le vere e proprie
costruzioni destinate a durare solo per una frazione
dell’anno solare.
16. Applicando le categorie edilizie attualmente codificate
a livello legislativo, se un tunnel-serra non può essere
considerato una serra mobile stagionale, dovrebbe essere
assimilato alle serre fisse disciplinate dall’art. 59, commi
4 e 4-bis, della LR 12/2015, che hanno un impatto sul
territorio molto vicino a quello degli edifici produttivi.
17. Tuttavia, è evidente che una piena assimilazione alle
serre fisse non riuscirebbe a catturare il carattere
specifico dei tunnel-serra utilizzati per la produzione
agricola di IV gamma, che nell’attuale processo di
industrializzazione dell’agricoltura sono essenzialmente dei
luoghi di lavoro all’aperto, dotati di copertura leggera e
direttamente insistenti sul terreno.
La separazione
dall’intorno è costituita appunto dalla copertura in
materiale plastico, che rileva sotto il profilo del
drenaggio delle acque meteoriche, mentre le pareti frontali
sono aperte per consentire le lavorazioni delle macchine
operatrici.
18. La qualificazione preferibile è pertanto quella ex art.
3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001 (manufatti leggeri utilizzati
come ambienti di lavoro). L’inquadramento in questa nicchia
classificatoria lascia inalterato l’obbligo di permesso di
costruire, ma attribuisce margini significativi alla
pianificazione comunale per l’introduzione di una disciplina
di favore, ossia meno restrittiva di quella prevista per le
serre fisse e per i fabbricati agricoli produttivi.
In
particolare, possono essere superati i limiti di copertura
previsti dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, a
condizione che vi siano adeguate garanzie idrologiche e
ambientali.
Sulla disciplina comunale delle serre
19. Il Comune ha in effetti utilizzato lo spazio concesso
dalla legislazione nazionale per introdurre nel PGT una
disciplina speciale sulle serre. L’art. 27, punto a3.2, delle NTA distingue (1) le serre fisse, sottoposte ai limiti degli
art. 59 e 60 della LR 12/2015, (2) le serre mobili per
l’attività ortofrutticola e florovivaistica, con
“stagionalità massima di anni sei” e un rapporto di
copertura non superiore al 70% dell’area interessata dalla
coltivazione, e (3) le serre mobili stagionali, sottoposte a
semplice comunicazione, con “stagionalità massima di mesi
sei” e un rapporto di copertura non superiore al 70%
dell’area interessata dalle coltivazioni stagionali.
Per
tutte le tipologie di serre è stabilito il limite di
copertura complessivo del 40% della superficie aziendale “al
fine di non procurare danni di carattere idrogeologico,
saturando i corsi d’acqua durante i periodi di pioggia”.
Tra
le serre mobili non stagionali e le abitazioni deve esservi
una distanza minima di 100 metri, salvo deroghe autorizzate
dall’ARPA. Sono previsti inoltre distacchi minimi dal
cimitero e dal depuratore (50 metri), nonché dal reticolo
idrico minore e dalle strade (5 metri). In via generale è
poi fissata una distanza minima di 10 metri tra le singole
serre, fisse e mobili.
20. I tunnel-serra della ricorrente ricadono nella categoria
delle serre mobili. La regolamentazione comunale fa
riferimento alla stagionalità lunga, fino a sei anni, ma la
denominazione appare impropria, perché l’arco temporale è
molto ampio e all’interno dello stesso non sono previste
sospensioni dell’attività (in effetti, queste serre sono
anche definite non stagionali, in contrapposizione a quelle
propriamente stagionali, sottoposte al limite dei sei mesi).
Per i tunnel-serra o serre mobili (che, come si è visto
sopra, sono luoghi di lavoro in ambito agricolo) è quindi
preferibile accantonare il concetto di stagionalità e
parlare di temporaneità o reversibilità del titolo edilizio.
Poiché un luogo di lavoro è collegato alle esigenze
produttive di una determinata azienda, che variano nel
tempo, è possibile (e preferibile dal punto di vista
ambientale) che i titoli edilizi siano provvisori, purché
siano anche sufficientemente ampi da consentire una
ragionevole programmazione dell’attività.
Alla scadenza del
titolo, il privato dispone soltanto di un’aspettativa al
rinnovo, che sarà valutata dall’amministrazione verificando
la continuità dell’azienda (non le specifiche esigenze
produttive, che ricadono nella libertà di iniziativa
economica) e la sostenibilità ambientale. Il carattere
leggero e facilmente amovibile dei manufatti è compatibile
con un titolo edilizio temporaneo.
21. In questo quadro, le indicazioni contenute nell’art. 27,
punto a3.2, delle NTA circa il rapporto di copertura devono
intendersi come limiti derogabili a parità di garanzie
idrologiche e ambientali. La finalità delle prescrizioni sul
rapporto di copertura è esplicitata direttamente nel testo
della norma. Se dunque attraverso uno studio del drenaggio
delle acque meteoriche e di quelle irrigue non utilizzate
viene dimostrata la sostenibilità di un rapporto di
copertura più elevato, anche applicando le cautele imposte
dal principio di precauzione, non vi sono ragioni per negare
l’approvazione del progetto o la sanatoria delle
installazioni abusive. Quando invece non si raggiunga un
livello di sicurezza adeguato, è legittima la riduzione del
rapporto di copertura al di sotto della previsione del PGT.
22. Per le altre indicazioni contenute nell’art. 27, punto
a3.2, delle NTA, riguardanti le distanze minime, l’unica
interpretazione possibile è invece quella letterale. Alcune
prescrizioni sono senz’altro ragionevoli (distacchi dal
cimitero, dal depuratore, dal reticolo idrico minore, dalle
strade), in quanto il limite all’iniziativa economica è
quello strettamente necessario a evitare interferenze
pericolose o moleste. Altre prescrizioni impongono
limitazioni più gravose, e dunque sono ragionevoli solo se
accompagnate dal potere di deroga, come è previsto per la
distanza dalle abitazioni.
23. Vi è poi la prescrizione che impone una distanza minima
tra le serre (fisse e mobili) pari a 10 metri. Si tratta di
un vincolo che per le serre mobili è palesemente
sproporzionato. Non vi sono infatti elementi di analogia con
la distanza tra pareti finestrate prevista dall’art. 9 del
DM 02.04.1968 n. 1444, non solo per la mancanza di finestre
ma anche per il fatto che i tunnel-serra sono strutture
produttive progettate per utilizzare in modo razionale tutta
la superficie agricola disponibile.
Non è neppure possibile individuare la giustificazione della
norma nella prevenzione di criticità legate al drenaggio
delle acque meteoriche, perché questo problema è valutato
sotto il profilo del rapporto di copertura, come si è visto
sopra. La prescrizione della distanza minima di 10 metri,
per quanto riguarda le serre mobili, deve quindi essere
annullata.
Sui tunnel-serra realizzati o progettati dalla ricorrente
24. Una volta definito il contesto normativo, possono essere
esaminati i singoli provvedimenti oggetto di impugnazione.
25. Per quanto riguarda gli ordini di demolizione e i
provvedimenti consequenziali, deve essere riconosciuta come
fondata l’aspettativa della ricorrente a regolarizzare i
tunnel-serra abusivi, ad eccezione di quelli situati nelle
fasce di rispetto sopra descritte (cimitero, depuratore,
reticolo idrico minore, strade).
Per la regolarizzazione, trattandosi di opere ex art. 3,
comma 1-e.5, del DPR 380/2001, è applicabile la procedura
stabilita dall’art. 36 del medesimo testo normativo. In
proposito, possono essere fissati i seguenti criteri
interpretativi:
(a) nelle zone agricole la regolarizzazione è sempre
possibile, con la precisazione che in quelle di salvaguardia
o di rispetto ambientale gli uffici comunali potranno
stabilire limitazioni riferite a criticità sito-specifiche,
da motivare adeguatamente;
(b) la distanza minima dalle abitazioni non può costituire
un ostacolo alla regolarizzazione, qualora l’ARPA riconosca
i presupposti per la deroga (in mancanza di una pronuncia
dell’ARPA dovrà essere interpellata la ASL, per affinità di
competenza tecnica);
(c) poiché la distanza minima tra i tunnel-serra non è più
applicabile a causa dell’annullamento della relativa
prescrizione, il problema dei distacchi dovrà essere
esaminato all’interno dello studio circa la sostenibilità
del rapporto di copertura.
26. Sulla base degli stessi criteri potranno essere
autorizzati, in tutto o in parte, i tunnel-serra oggetto
dell’istanza del 03.04.2013 e successive modifiche.
27. Qualora i procedimenti di sanatoria o di autorizzazione
siano definiti in senso favorevole alla ricorrente, gli atti
finali, essendo titoli edilizi temporanei, dovranno
stabilire anche il periodo di efficacia nel limite di 6 anni
previsto dal PGT, ferma restando la possibilità di rinnovo
alla scadenza.
Conclusioni
28. I ricorsi riuniti devono pertanto essere accolti, con le
precisazioni e le limitazioni sopra indicate.
29. Questa decisione determina l’annullamento degli atti
impugnati, compreso l’art. 27, punto a3.2, delle NTA, nella
parte in cui prevede una distanza minima tra le serre mobili
pari a 10 metri.
30. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune
a rideterminarsi tramite provvedimenti di regolarizzazione o
di autorizzazione, secondo le indicazioni sopra esposte. Il
termine ragionevole per questi adempimenti è fissato in 120
giorni, rispettivamente dalla presentazione della domanda di
regolarizzazione per quanto riguarda i tunnel-serra abusivi,
e dal deposito della presente sentenza per quanto riguarda
l’autorizzazione delle nuove strutture.
La ricorrente ha l’onere di chiedere la regolarizzazione dei
tunnel-serra abusivi entro 60 giorni dal deposito della
presente sentenza, esponendosi altrimenti alla riedizione
del potere comunale di repressione degli abusi edilizi.
31. La complessità di alcune questioni consente l’integrale
compensazione delle spese in tutti i ricorsi.
32. Il contributo unificato, in tutti i ricorsi, è a carico
del Comune ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR
30.05.2002 n. 115
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.06.2015 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.09.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
Dal TAR Lazio-Roma una "bomba Nimby"
(acronimo
inglese per
Not In My Back Yard, lett. "Non
nel mio cortile"): |
LAVORI PUBBLICI: I
giudici hanno rilevato nella delibera con cui il comune
revocava il bando di project financing “alcuni profili
inerenti una nuova valutazione dell’interesse pubblico” vale
a dire “la manifestazione da parte della popolazione del
comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e
l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni
manifestati dalla stessa popolazione”.
Per il tribunale “tale motivazione rende prevalenti le
ragioni di opportunità della nuova scelta, con conseguente
conferma della qualificazione del provvedimento in termini
di revoca”.
---------------
Nella delibera di Giunta (e nella
conseguente determina dirigenziale) sono evidenziati alcuni
profili inerenti una nuova valutazione dell’interesse
pubblico (la manifestazione da parte della popolazione del
Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e
l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni
manifestati dalla stessa popolazione).
Tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità
della nuova scelta, con conseguente conferma della
qualificazione del provvedimento in termini di revoca. Nel
caso di specie, la già citata motivazione del provvedimento
di revoca è costituita appunto da una nuova valutazione
dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del c.d.
jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a
fondamento della revoca non sia affetta da vizi di
legittimità.
---------------
La giurisprudenza, ancora, ha
precisato che “la mancata liquidazione dell’indennizzo
unitamente alla disposta revoca non costituisce un vizio
dell’atto di autotutela, ma consente al privato di agire per
ottenere l’indennizzo”.
---------------
nell’ordinamento precedente
all’introduzione dell’art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990,
l’orientamento prevalente era nel senso di escludere
qualsiasi indennizzo per il soggetto nei cui confronti
intervenisse la revoca in modo legittimo di un precedente
provvedimento amministrativo vantaggioso per il privato
o per lo meno un indennizzo veniva ammesso solo in
casi particolari.
Dopo l’introduzione del menzionato art.
21-quinquies nella legge generale del procedimento
amministrativo, ad opera dell’art. 14 l. 11.02.2005, n. 15,
come integrato dal comma 1-bis introdotto dall’art. 13 d.l.
31.01.2007, n. 7, (convertito dalla l. 02.04.2007, n. 40),
ha fatto ingresso la c.d. responsabilità della p.a. per atti
legittimi.
Nel caso che occupa, dunque, la domanda
risarcitoria, deve essere interpretata –secondo i canoni di
effettività della tutela– come contenente in sé quella di
indennizzo.
Peraltro, l’indennizzo ex art.
21-quinquies, l. n. 241 del 1990 non spetta in caso di
revoca di atti ad effetti instabili ed interinali, ma solo
in caso di revoca di atti definitivamente attributivi di
vantaggi. Deve quindi escludersi che spetti un indennizzo,
ex art. 21-quinquies cit., per revoca
(come nella specie) di una dichiarazione di
pubblico interesse della proposta di progetto di finanza.
Tale dichiarazione non attribuisce,
infatti, all’interessato una posizione giuridica definitiva,
ben potendo l’Amministrazione dar luogo o meno a successiva
procedura di affidamento della concessione o non dare corso
affatto alle proposte che pure abbia ritenuto di pubblico
interesse. Pur differenziando, in vero, tale dichiarazione
di p.i. la posizione del proponente,
essa non assicura al promotore alcune diretta,
definitiva ed immediata ultilità.
Né nella specie la posizione della
ricorrente potrebbe avere assunto maggiore consistenza
dall’indizione della gara che è stata infatti revocata prima
ancora della partecipazione dell’istante stessa ed atteso
che il rimborso spese, in caso di gara, spetta a favore del
promotore solo ove questo non risulti aggiudicatario della
concessione quando la gara stessa si sia peraltro conclusa.
----------------
... per l'annullamento:
- della delibera di G.C. n. 67 del 04.08.2014, con cui era
revocata la precedente deliberazione n. 40 del 2014 avente
ad oggetto la dichiarazione di pubblica utilità e
l’individuazione del soggetto promotore per la costruzione e
gestione economico funzionale di un impianto di cremazione
per salme con annessa sala del commiato presso il cimitero
comunale;
- e della determina dirigenziale n. 371 dell’08.08.2014,
resa pubblica con avviso pubblico dell’08.08.2014 sul
portale del Comune, con cui era revocata la precedente
determinazione n. 316 del 2014 avente ad oggetto la
determina a contrarre relativa al predetto affidamento e,
per l’effetto, era revocata la procedura di gara indetta;
- di tutti gli atti e provvedimenti consequenziali o
comunque connessi;
...
FATTO
Con il ricorso indicato in epigrafe, la Società Altair
s.r.l., in proprio e quale mandataria della ATI “ALTAIR”,
esponeva che ad esito del procedimento di valutazione della
proposta di project financing della ricorrente
medesima, conclusosi con la motivata dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera e con l’individuazione dell’ATI
ALTAIR come promotore il Comune di Borgorose avviava la
procedura di gara per l’affidamento in concessione della
progettazione, realizzazione e successiva gestione economico
funzionale di un impianto di cremazione; del tutto
inaspettatamente, dunque, mentre la ricorrente si accingeva
e partecipare alla seconda fase della procedura, il Comune,
tuttavia, revocava il precedente provvedimento di pubblica
utilità e la conseguente gara.
...
DIRITTO
I - L’oggetto del giudizio è costituito dalla contestazione,
da parte dell’ATI costituenda, della legittimità
dell’esercizio del potere di autotutela in ordine a un
provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità di una
proposta di project financing e di avvio della
procedura di affidamento di pubblici lavori da parte della
p.a. e dalle connesse pretese patrimoniali, di carattere
risarcitorio o indennitario.
II - Con un primo gruppo di censure la parte
ricorrente contesta la competenza della Giunta a disporre la
revoca di atti posti in essere dal Consiglio comunale.
Tale assunto è smentito per tabulas; infatti, la
Giunta si è limitata a revocare un proprio atto ed il
dirigente, lo stesso. Mentre successivamente è intervenuto
l’atto consiliare di revoca della precedente delibera del
Consiglio, atto gravato anch’esso con i motivi aggiunti.
Risulta, dunque, rispettato il principio del contrarius
actus. E neanche le competenze consiliari risultano, di
fatto, violate.
Anche ove si volesse considerare la necessità della previa
deliberazione dell’Assemblea consiliare a modifica del
precedente deliberato, si può con sicurezza affermare
l’effetto sanante del successivo provvedimento, che ha
inciso esplicitamente sulle scelte e la valutazione del
pubblico interesse.
III – Con un ulteriore gruppo di censure, la parte
istante si duole della mancanza dei presupposti per
esercitare il potere di revoca con riguardo all’assenza di
ragioni di pubblico interesse, alla omessa valutazione
dell’affidamento delle parti destinatarie del provvedimento
da rimuovere e del tempo trascorso, all’obbligo di
motivazione.
Essa ha certamente interesse a dimostrare l’illegittimità
del potere di autotutela esercitato dall’amministrazione per
ottenere il pieno risarcimento dei danni. Infatti la parte
ricorrente chiede la condanna dell’Amministrazione alla
reintegra della posizione compromessa e, in via subordinata,
il risarcimento dei danni patiti.
Il gravame è, dunque, teso a contestare la legittimità del
potere di revoca esercitato al fine di ottenere il
risarcimento dei danni, quanto meno a titolo di danno
emergente.
IV - Passando, dunque, all’esame della fattispecie, nel caso
che occupa, la Giunta ha revocato –con la delibera n. 67 del
2014- la precedente delibera n. 40 del 2014 avente ad
oggetto l’approvazione del progetto preliminare e la
dichiarazione di p.u. ed il responsabile del servizio –con
la determina n. 371 del 2014– ha annullato la precedente
determina dirigenziale n. 316 del 2014 contenente il parere
di regolarità tecnica e l’attestazione della copertura
finanziaria, e conseguentemente la procedura di gara
indetta.
Nella delibera di Giunta (e nella
conseguente determina dirigenziale) sono evidenziati alcuni
profili inerenti una nuova valutazione dell’interesse
pubblico (la manifestazione da parte della popolazione del
Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e
l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni
manifestati dalla stessa popolazione).
Tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità
della nuova scelta, con conseguente conferma della
qualificazione del provvedimento in termini di revoca. Nel
caso di specie, la già citata motivazione del provvedimento
di revoca è costituita appunto da una nuova valutazione
dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del c.d.
jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a
fondamento della revoca non sia affetta da vizi di
legittimità.
Nella specie, peraltro, l’Amministrazione non ha
espressamente valutato la spettanza di un qualche
indennizzo.
Tuttavia, va rilevato, che specie nel caso che occupa si era
unicamente svolta la progettazione –ovvero la prima fase
della procedura, mentre la ricorrente– soggetto promotore,
non aveva ancora maturato alcune affidamento in ordine
all’assegnazione dell’opera, né aveva ancora prodotto
domanda di partecipazione alla gara.
Peraltro, non primo di rilevanza è il breve termine occorso
tra la delibera di n. 40 (05.06.2014) e l’avviso di revoca
dell’08.08.2014.
La giurisprudenza, ancora, ha precisato che
“la mancata liquidazione dell’indennizzo unitamente alla
disposta revoca non costituisce un vizio dell’atto di
autotutela, ma consente al privato di agire per ottenere
l’indennizzo”
(Cons. Stato, Sez., n. 2244 del 2010).
V – Orbene, nel caso di legittimità del
provvedimento di autotutela viene meno il presupposto su cui
è stata fondata la domanda risarcitoria, costituito appunto
dall’illegittimità provvedimentale.
Va precisato che anche in caso di revoca
legittima si può ipotizzare che al privato derivino danni
risarcibili, e non meramente indennizzabili, ma ciò discende
dal fatto che tali danni conseguono non già direttamente
dall’atto di revoca, ma da altre illegittimità
(procedimentali o di altro tipo) commesse
dall’Amministrazione.
Nella specie, devono essere respinte le ulteriori censure
mosse dalla parte ricorrente in ordine ai profili
partecipativi e procedimentali. Infatti, è evidente come
l’eventuale partecipazione della ricorrente non avrebbe in
alcun modo potuto incidere sulla decisione
dell’Amministrazione che si appalesa di carattere
eminentemente discrezionale.
Del resto i già evidenziati profili di
tempestività dell’esercizio dell’autotutela non consentono
di riscontrare alcuno degli addebiti mossi
all’Amministrazione sotto il profilo della correttezza della
condotta.
Ciò comporta che l’Amministrazione non è
tenuta a corrispondere l’integrale risarcimento del danno.
VI – Le valutazioni sin qui svolte non possono che valere
anche per i successivi motivi aggiunti, per i medesimi
motivi evidenziati.
VII – Il Consiglio di Stato (cfr. sentenza n. 7334 del 2010)
ha avuto modo di rilevare che
nell’ordinamento precedente all’introduzione dell’art.
21-quinquies, l. n. 241 del 1990, l’orientamento prevalente
era nel senso di escludere qualsiasi indennizzo per il
soggetto nei cui confronti intervenisse la revoca in modo
legittimo di un precedente provvedimento amministrativo
vantaggioso per il privato
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.1969, n. 266)
o per lo meno un indennizzo veniva ammesso solo in
casi particolari
(Cass. S.U. 02.04.1959, n. 672).
Dopo l’introduzione del menzionato art.
21-quinquies nella legge generale del procedimento
amministrativo, ad opera dell’art. 14 l. 11.02.2005, n. 15,
come integrato dal comma 1-bis introdotto dall’art. 13 d.l.
31.01.2007, n. 7, (convertito dalla l. 02.04.2007, n. 40),
ha fatto ingresso la c.d. responsabilità della p.a. per atti
legittimi. n.
5266).
Nel caso che occupa, dunque, la domanda
risarcitoria, deve essere interpretata –secondo i canoni di
effettività della tutela– come contenente in sé quella di
indennizzo.
Peraltro, l’indennizzo ex art.
21-quinquies, l. n. 241 del 1990 non spetta in caso di
revoca di atti ad effetti instabili ed interinali, ma solo
in caso di revoca di atti definitivamente attributivi di
vantaggi. Deve quindi escludersi che spetti un indennizzo,
ex art. 21-quinquies cit., per revoca
(come nella specie) di una dichiarazione di
pubblico interesse della proposta di progetto di finanza.
Tale dichiarazione non attribuisce,
infatti, all’interessato una posizione giuridica definitiva,
ben potendo l’Amministrazione dar luogo o meno a successiva
procedura di affidamento della concessione o non dare corso
affatto alle proposte che pure abbia ritenuto di pubblico
interesse. Pur differenziando, in vero, tale dichiarazione
di p.i. la posizione del proponente
(Ad. Plen. N. 1/12), essa non assicura al
promotore alcune diretta, definitiva ed immediata ultilità.
Né nella specie la posizione della
ricorrente potrebbe avere assunto maggiore consistenza
dall’indizione della gara che è stata infatti revocata prima
ancora della partecipazione dell’istante stessa ed atteso
che il rimborso spese, in caso di gara, spetta a favore del
promotore solo ove questo non risulti aggiudicatario della
concessione quando la gara stessa si sia peraltro conclusa
(cfr. Cons. Stato n. 3237 del 26.06.2015) (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 08.09.2015 n. 11098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Sulla "dirompente" sentenza si leggano alcuni
commenti: |
LAVORI PUBBLICI: G. Comin,
Come
combattere la disinformazione dei NoTutto (dopo la
bomba Nimby del Tar)
(13.09.2015 - link a
http://www.formiche.net). |
LAVORI PUBBLICI:
Le
proteste giustificano il blocco dell’opera. Tar Lazio. Per i
giudici le manifestazioni legittimano la marcia indietro dei
Comuni.
L’effetto Nimby entra nella giurisprudenza. La
rivolta popolare può, infatti, legittimare la revoca della
decisione di un comune.
L’indicazione arriva
da una sentenza del Tar del Lazio, chiamato a pronunciarsi
su un impianto per servizi alla popolazione. È un principio
consolidato, a livello normativo e giurisprudenziale, quello
per cui alla Pa è consentito revocare i propri provvedimenti
per effetto di una nuova (cioè rinnovata) valutazione
dell’interesse pubblico. Così come è pacifico che,
nell’esercizio di questo potere di ripensamento,
l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità.
Ora, con la
sentenza 08.09.2015 n. 11098
del
TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
viene chiarito che «deve ritenersi che la manifestazione da
parte della popolazione del Comune della contrarietà alla
realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a
rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione,
costituiscano espressione di una nuova valutazione
dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del
cosiddetto jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a
fondamento della revoca non sia affetta da vizi di
legittimità». Se il principio di fondo non è nuovo,
fortemente innovativo è invece il riferimento espresso alla
contrarietà della popolazione locale come fattore di
legittimazione della revoca.
La decisione spinge a due considerazioni. La prima è che la
sentenza è sul piano formale da ritenere corretta (anche
nella parte in cui nega l’indennizzo richiesto dal
proponente riguardo al project financing rimasto, per
effetto del «legittimo» ripensamento, solo a metà del
guado). La seconda considerazione è che, tuttavia, nel
momento in cui si ammette la legittimità della revoca dei
provvedimenti (nel caso di specie, di quelli intermedi
nell’ambito dell’iter di realizzazione dell’opera pubblica)
in nome, apertamente, della «manifestazione da parte della
popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione
dell’opera», assumendo che essa fonda «l’interesse primario
... a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa
popolazione», ciò fa riesplodere l’irrisolto problema
dell’effetto Nimby e della sua incidenza come freno a
crescita e sviluppo.
Tema spinoso e difficile, schiacciato
com’è fra spinte contrapposte: crisi di credibilità delle
istituzioni rappresentative (per colpe oggettive e
antipolitica), evidente insufficienza strutturale dello
strumento asettico del procedimento amministrativo a
comporre conflitti, diffidenze e incomprensioni fra opposti
punti di vista (specie su questioni e aspetti a forte
connotazione tecnica), carenze di completezza e obiettività
delle fonti di informazione e dei processi di comunicazione
utilizzati dall’apparato burocratico.
Per uscirne, appare
essenziale cambiare metodo, sul piano legislativo. Per
evitare questi conflitti a posteriori che disseminano il
Paese di opere iniziate e non finite (con corredo di onerosi
indennizzi dovuti ai privati delusi nei loro legittimi
affidamenti, in molti casi) occorre istituire la verifica “a
monte”, prima ancora di fare il progetto preliminare, della
reale “fattibilità di contesto” di un’opera di livello
medio/grande.
Confrontando (e se necessario, opponendo)
argomenti tecnici, economici e sociali a controargomenti
della stessa natura, nel contraddittorio –ove occorra– fra
esperti di parte.
È lo schema del debat public alla
francese, all’attenzione del Senato (AS 980, 1724 e 1845),
che prova a conciliare il dovere di non prendere
decisioni contro la volontà popolare con la
necessità di evitare che un territorio resti
ostaggio di minoranze ben organizzate (articolo Il Sole 24 Ore
del 12.09.2015). |
LAVORI PUBBLICI:
G. Zapponini,
Caro Renzi, attento alla bomba Nimby del Tar. Parla Chicco
Testa (11.09.2015 - link a
http://www.formiche.net). |
LAVORI PUBBLICI:
G. Zapponini,
Il Tar del Lazio sgancia una bomba Nimby
(10.09.2015
- link a http://www.formiche.net). |
|
IN EVIDENZA |
Sull'adesione di un comune ad una SPA per affidarle
[direttamente (ed illegittimamente):
“in house providing”]
il servizio di gestione dei rifiuti urbani e
assimilati: |
APPALTI SERVIZI: La giurisprudenza comunitaria
è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione,
ancorché in percentuale minima, di soggetti privati alle
società in house e tale posizione è stata ripetutamente
confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza
Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione
giurisprudenziale, che il requisito della totalità della
proprietà pubblica del capitale della società "in house"
debba sussistere in termini assoluti.
Invero, l'affidamento diretto (in house) di un servizio
pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente
pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di
fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società
esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti
caratteristiche tali da poterla qualificare come una
"derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti,
in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo
la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che
la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al
capitale di una società, alla quale partecipi anche
l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che
tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri
servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte
dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal
diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente
consentito che una quota del capitale sociale, anche
minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il
consiglio di amministrazione della società deve essere privo
di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico
controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri
maggiori rispetto a quelli che il diritto societario
riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa
non deve acquisire una vocazione commerciale che renda
precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente
apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino
all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e
all'estero; le decisioni più importanti devono essere
sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della
cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il
rapporto di stretta strumentalità fra le attività
dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante
è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi
terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve
considerarsi come uno dei servizi propri
dell'Amministrazione stessa.
Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di
legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che
vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione
privata al capitale sociale.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE,
che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione
indiretta dei privati alle società in house, non risulta
ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può
considerare self executing, sia per la sua natura, che
richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale,
sia perché non è ancora scaduto il termine per il
recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei
privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non
può essere considerata una società di “in house providing”,
per cui risulta illegittima la delibera impugnata di
adesione a detta società e di affidamento alla stessa del
servizio di raccolta rifiuti.
... per l'annullamento:
- della delibera consiliare n. 25 dd. 26.05.2014, che
dispone l'adesione ad Ambiente Servizi spa per affidarle il
servizio di gestione dei rifiuti urbani ed assimilati a
partire dal 01.07.2014;
- della delibera giuntale n. 96 dd. 19.06.2014, che
autorizza il Segretario Generale alla sottoscrizione degli
atti necessari a dare attuazione alla deliberazione
consiliare n. 25/2014;
- della delibera consiliare n. 33 dd. 16.06.2014,
relativa ad "approvazione Piano finanziario per l'esercizio
2014" (costi di gestione dei rifiuti);
...
Oggetto del presente ricorso è la delibera consiliare n. 25
del 26.05.2014 del comune di Spilimbergo che dispone
l'adesione alla Ambiente servizi per affidarle il servizio
di gestione dei rifiuti urbani e assimilati nonché la
conseguente delibera giuntale che autorizza alla
sottoscrizione degli atti necessari a dare attuazione alla
citata delibera consiliare.
Occorre innanzitutto farsi carico dell'eccezione di
tardività del ricorso, in quanto asseritamente proposto
tardivamente contro le deliberazioni di costituzione di
Ambiente servizi nonché contro la deliberazione 152 del 31.10.2013 di conferma delle gestioni in essere.
L'eccezione così come prospettata non risulta fondata, in
quanto la lesione per la ditta ricorrente si è concretata
unicamente con la delibera in questa sede impugnata, con cui
si provvede direttamente all’adesione e affidamento alla
Ambiente servizi della gestione dei rifiuti, senza
provvedere ad alcuna gara, e quindi non consentendo alla
ditta attuale ricorrente di parteciparvi e di poter gestire
il servizio. Prima della delibera in questa sede impugnata
non vi era alcun interesse della ditta ricorrente a
contestare la creazione di Ambiente servizi nonché la
proroga delle sue gestioni in essere.
Sempre in via preliminare va osservato come la legge
regionale 14 del 2012 all'articolo tre consente la
prosecuzione delle forme di cooperazione in essere tra enti
locali ma non le impone affatto, ammettendo anche la
possibilità dell'indizione di apposite gare ad evidenza
pubblica ovvero la gestione in house providing.
Ciò premesso ed entrando nel merito, va innanzitutto
osservato come le motivazioni addotte dal comune per aderire
all'Ambiente servizi nonché i contenuti della relazione
allegata alla delibera in questa sede impugnata vengono
contestate dalla ditta odierna ricorrente per motivi di
merito, non suscettibili di riesame in sede di giudizio di
legittimità. Si tratta di scelte strategiche effettuate da
parte del consiglio comunale che sono sindacabili solo in
caso di manifesta illogicità o palese incongruenza, non
rinvenibili nel caso in esame.
Va invece considerata fondata la censura relativa al fatto
che di Ambiente servizi facciano parte, sia pure in
posizione minoritaria, anche soggetti privati. Infatti, il
maggiore azionista dell'ambiente servizi è il consorzio
Z.I.P.R. di cui fanno parte 40 società tra cui alcune
indubbiamente private.
Orbene, la giurisprudenza comunitaria
è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione,
ancorché in percentuale minima, di soggetti privati alle
società in house e tale posizione è stata ripetutamente
confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza
Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione
giurisprudenziale, che il requisito della totalità della
proprietà pubblica del capitale della società "in house"
debba sussistere in termini assoluti.
Invero, l'affidamento diretto (in house) di un servizio
pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente
pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di
fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società
esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti
caratteristiche tali da poterla qualificare come una
"derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti,
in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo
la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che
la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al
capitale di una società, alla quale partecipi anche
l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che
tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri
servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte
dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal
diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente
consentito che una quota del capitale sociale, anche
minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il
consiglio di amministrazione della società deve essere privo
di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico
controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri
maggiori rispetto a quelli che il diritto societario
riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa
non deve acquisire una vocazione commerciale che renda
precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente
apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino
all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e
all'estero; le decisioni più importanti devono essere
sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della
cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il
rapporto di stretta strumentalità fra le attività
dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante
è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi
terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve
considerarsi come uno dei servizi propri
dell'Amministrazione stessa (TAR Puglia-Bari
02.04.2013
n 458).
Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di
legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che
vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione
privata al capitale sociale (CSGAS
09.02.2009 n 48; TAR
Puglia Bari 14.05.2010 n 1891; confronta anche Corte
conti FVG 08.05.2009 n. 55).
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE,
che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione
indiretta dei privati alle società in house, non risulta
ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può
considerare self executing, sia per la sua natura, che
richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale,
sia perché non è ancora scaduto il termine per il
recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei
privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non
può essere considerata una società di “in house providing”,
per cui risulta illegittima la delibera impugnata di
adesione a detta società e di affidamento alla stessa del
servizio di raccolta rifiuti.
Ai fini della presente
controversia, a nulla rileva poi la definizione contenuta
nella normativa regionale della società come ente pubblico
economico.
Per quanto fin qui evidenziato e per la fondatezza del
motivo da ultimo esaminato il ricorso va accolto con
annullamento degli atti impugnati
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 04.12.2014 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Sentenza del
TAR confermata dal Consiglio di Stato: |
APPALTI SERVIZI: Solo la partecipazione totalitaria
delle amministrazioni pubbliche, e la totale assenza di
soggetti privati nella compagine sociale, consentono di
ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al
cosiddetto “controllo analogo”.
L'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato ha inoltre
affermato espressamente che esula dal sistema dell’“in
house providing” il diverso fenomeno del cosiddetto “partenariato
pubblico–privato” al quale sembra riconducibile
l’assetto della s.p.a. appellante.
Il principio affermato dall’Adunanza Plenaria è applicabile
al caso che ha originato la presente controversia, nel quale
è pacifico che le amministrazioni che l’hanno costituita non
esercitano, sulla s.p.a. appellante, un controllo
totalitario, in quanto fra di esse se ne trova una
partecipata, all’epoca, da soggetti privati.
---------------
Il legislatore comunitario
ha individuato un termine per il recepimento della direttiva
2014/24 nei diversi ordinamenti nazionali, e tale
termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai
legislatori nazionali una sfera di discrezionalità
nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi
principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario
coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi
acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti
nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno
immediatamente applicabili (ove suscettibili di
utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente
specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva
appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati”
devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative
nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie,
tale ulteriore condizione non sussiste.
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo del Friuli
Venezia Giulia, S.N.U.A. s.r.l. impugnava la deliberazione
n. 25 in data 26.05.2014 con la quale il Consiglio comunale
di Spilimbergo aveva deciso l’adesione del Comune ad
Ambiente Servizi s.p.a. per affidarle il servizio di
gestione dei rifiuti urbani ed assimilati a partire dal
01.07.2014; l’impugnazione era estesa alla delibera n. 96 in
data 19.06.2014 con la quale la Giunta comunale di
Spilimbergo aveva autorizzato il Segretario comunale a
sottoscrivere gli atti necessari a dare attuazione alla
predetta delibera ed alla delibera consiliare n. 33 in data
16.06.2014 concernente l’approvazione del piano finanziario
per l’esercizio 2014 (costi di gestione dei rifiuti).
La ricorrente deduceva i seguenti motivi:
1) difetto di motivazione e falsa rappresentazione della
realtà;
2) difetto di istruttoria in quanto la deliberazione
consiliare principalmente impugnata è stata assunta sulla
base di una relazione istruttoria inficiata da numerose
carenze;
3) la diversità dei servizi offerti dalla ricorrente e da
Ambiente Servizi non sono comparabili, anche in relazione
alla diversità dei tempi di somministrazione delle
prestazioni richieste; manca la convenienza economica ed al
Consiglio comunale non è stata adeguatamente prospettata la
scelta alternativa;
4) mancato rispetto dei principi comunitari in tema di “in
house providing” per la genericità delle finalità di
Ambiente Servizi e per la partecipazione di privati al suo
capitale sociale.
La ricorrente chiedeva quindi l’annullamento dei
provvedimenti impugnati.
Con la sentenza in epigrafe, n. 629 in data 04.12.2014, il
Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia
accoglieva il ricorso, per l’effetto annullando gli atti
impugnati.
2. Avverso la predetta sentenza propongono appello Ambiente
Servizi s.p.a. (ricorso n. 2037/2015) ed il Comune di
Spilimbergo (ricorso n. 2040/2015), contestando gli
argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la
sua riforma ed il rigetto del ricorso di primo grado.
In entrambi i giudizi si è costituita SNUA s.r.l., chiedendo
che gli appelli vengano dichiarati improcedibili per
sopravvenuta carenza di interesse ovvero respinti nel merito
ovvero ancora, in caso di accoglimento dell’appello, venga
dichiarata la nullità della delibera n. 25/2014 per difetto
assoluto di attribuzione; in estremo subordine, chiede
l’accoglimento delle censure assorbite dal primo giudice e
riproposte nel presente grado.
Gli appellanti hanno depositato memoria.
I ricorsi sono stati congiuntamente discussi e assunti in
decisione alla pubblica udienza del 09.07.2015.
3. Gli appelli in epigrafe devono essere riuniti onde
definirli con unica sentenza in quanto sono rivolti avverso
la stessa sentenza di primo grado.
3.a. Non può essere accolta l’eccezione di improcedibilità
sollevata dalla parte appellata.
Il primo giudice ha accolto l’impugnazione proposta
dall’odierna appellata affermando che Ambiente Servizi
s.p.a. non può essere affidataria diretta di appalti, in
questo caso di servizi in quanto manca il requisito del
cosiddetto “controllo analogo” da parte
dell’Amministrazione di riferimento che legittima il ricorso
a tale sistema di attribuzione degli appalti della Pubblica
Amministrazione secondo i principi dell’“in house
providing”.
Nella compagine della predetta Società è infatti ricompreso
il Consorzio per la Zona Industriale Ponte Rosso del quale
–il dato è pacifico– all’epoca facevano parte soggetti
privati.
L’appellata riferisce che dopo la pubblicazione della
sentenza di primo grado la s.p.a. appellante ha proceduto
all’acquisto delle azioni di proprietà del suddetto
Consorzio, con un notevole esborso, in tal modo dimostrando
la volontà di modificare la propria compagine per adeguarla
ai principi dettati dalla sentenza oggetto degli appelli ora
in trattazione.
Tale ragionamento, come anticipato, non può essere
condiviso.
In primo luogo, l’accoglimento dell’appello escluderebbe la
proponibilità di azioni risarcitorie da parte
dell’appellata, e tale profilo è di per sé sufficiente a
fondare l’interesse alla proposizione del gravame.
In secondo luogo, la riforma della sentenza di primo grado
consentirebbe agli appellanti di procedere ad una nuova
attribuzione di quote al suddetto Consorzio e ad un nuovo
affidamento diretto dell’appalto alla s.p.a. appellante
secondo lo schema dell’“in house providing”.
Inoltre, la delibera 29.12.2014, n. 78, con cui il Comune ha
proceduto alla riapprovazione dell’affidamento e dei
relativi atti, è stata impugnato dalla Snua s.r.l. con
ricorso al TAR, la cui udienza di discussione risulta
fissata il 07.10.2015.
Gli appelli devono pertanto essere esaminati nel merito.
3.b. Gli stessi sono peraltro infondati.
Gli appellanti sostengono in primo luogo che il ricorso di
primo grado doveva essere dichiarato inammissibile in quanto
l’atto effettivamente lesivo degli interessi dell’odierna
appellata è costituito da quello con il quale è stata
costituita la s.p.a. Ambiente Servizi, ovvero dalla
deliberazione con la quale l’assemblea di coordinamento
intercomunale ha stabilito la prosecuzione delle gestioni
affidate alla predetta Società fino al 31.12.2030.
La tesi non può essere condivisa.
La controversia ora sottoposta al Collegio riguarda
esclusivamente la gestione dei rifiuti urbani del Comune di
Spilimbergo, affidata alla s.p.a. appellante solo con la
deliberazione di quel Consiglio Comunale n. 25 in data 26.05.2014, tempestivamente impugnata.
Deve quindi essere condiviso l’orientamento del primo
giudice, il quale ha sottolineato come alla ricorrente non
potesse essere accollato l’onere di impugnare atti non
direttamente incidenti sull’affidamento del servizio alla
cui gestione aspira e di cui ora si tratta.
3.c. Vanno poi condivise le argomentazioni del primo
giudice, che rileva come la presenza di un socio privato
nell’ambito della compagine sociale della s.p.a. appellante
esclude che nei suoi confronti la stazione appaltante
eserciti un controllo analogo a quello che esercita nei
confronti dei propri uffici.
La tesi del primo giudice è, invero, conforme a
giurisprudenza sostanzialmente pacifica.
C. di S., A.P., 03.03.2008, n. 1, che il Collegio condivide,
ha infatti affermato che solo la partecipazione totalitaria
delle amministrazioni pubbliche, e la totale assenza di
soggetti privati nella compagine sociale, consentono di
ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al
cosiddetto “controllo analogo” (l’orientamento
consacrato dall’Adunanza Plenaria è pacificamente seguito
dalla giurisprudenza successiva: da ultimo, C. di S., III,
27.04.2015, n. 2154).
La stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria ha inoltre
affermato espressamente che esula dal sistema dell’“in
house providing” il diverso fenomeno del cosiddetto “partenariato
pubblico–privato” al quale sembra riconducibile
l’assetto della s.p.a. appellante.
Il principio affermato dall’Adunanza Plenaria è applicabile
al caso che ha originato la presente controversia, nel quale
è pacifico che le amministrazioni che l’hanno costituita non
esercitano, sulla s.p.a. appellante, un controllo
totalitario, in quanto fra di esse se ne trova una
partecipata, all’epoca, da soggetti privati.
Le parti appellanti obiettano, sulla base del parere della
Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato 30.01.2015, n.
298, che il principio affermato dall’Adunanza Plenaria non è
ulteriormente applicabile in quanto l’art. 12, par. 1, della
direttiva 2014/24 ammette l’esistenza del controllo analogo
anche in casi in cui il soggetto che opera in regime
privatistico è partecipato da soggetti privati, purché tale
partecipazione sia ristretta nei limiti ivi stabiliti.
Ad avviso della Seconda Sezione, fatto proprio dagli
appellanti, il richiamato art. 12, par. 1, avendo contenuto
sufficientemente preciso, è immediatamente applicabile nel
nostro ordinamento.
L’orientamento espresso dalla Seconda Sezione non è
condiviso dal Collegio che condivide, invece, quanto
diversamente affermato dalla Sesta Sezione con la sentenza
26.05.2015, n. 2660.
Osserva, infatti, il Collegio che il legislatore comunitario
ha individuato un termine per il recepimento della suddetta
direttiva nei diversi ordinamenti nazionali, e che tale
termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai
legislatori nazionali una sfera di discrezionalità
nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi
principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario
coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi
acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti
nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno
immediatamente applicabili (ove suscettibili di
utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente
specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva
appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati”
devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative
nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie,
tale ulteriore condizione non sussiste.
Il ragionamento degli appellanti non può, in conclusione,
essere condiviso.
4. Gli appelli devono, di conseguenza, essere respinti; deve
essere assorbito l’esame degli ulteriori profili proposti
nel presente grado dalla parte appellata.
Le spese di entrambi i gradi del giudizio devono essere
integralmente compensate fra le parti, in ragione della
complessità della controversia e degli elementi di dubbio
introdotti dal richiamato parere della Seconda Sezione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.09.2015 n. 4253 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
LAVORI DI SOMMA URGENZA: |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 31.12.2014 abbiamo approfondito la
questione in ordine al soggetto che li può ordinare
e come si regolarizzano dal punto di vista
contabile.
Ebbene, una recentissima sentenza della Corte dei Conti
ritorna sull'argomento con
interessanti princìpi
circa la responsabilità erariale in relazione al
modus procedendi operato dai funzionari/amministratori comunali
e relativi soggetti coinvolti.
Come sempre,
prestate molta attenzione, molta... (se non volete
rispondere col proprio portafoglio). |
LAVORI PUBBLICI:
Sull'esecuzione dei c.d. "lavori di somma urgenza":
gli affidamenti illegittimi (di lavori e forniture) non
vincolano l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto
obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore.
Ergo, sono forieri di danno erariale.
----------------
Nella
vicenda in esame si ravvisano tutti i presupposti
necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione
amministrativo-contabile.
Con la delibera di riconoscimento di debiti
fuori bilancio in esame l’Amministrazione ha valutato la
sussistenza dei presupposti sostanziali di riconoscibilità
del debito, tra i quali il riconoscimento dell’utilità della
prestazione e dell’arricchimento dell’Ente ex art. 194, 1°
comma, lett. e), del D.Lgs. 267/2000.
Tutto questo si è svolto in presenza di
indici di illegittimità, sia sotto il profilo contabile
sia sotto il profilo della mancata applicazione delle
procedure previste in tema di “lavori d’urgenza”.
---------------
La violazione, da parte
di tutti i soggetti convenuti e non,
degli obblighi di servizio
se non caratterizzata da animus doloso sicuramente
integra la cd. colpa grave, sottoposta al sindacato di
questa Corte.
Ciò premesso, le norme violate attengono
alla disciplina della procedura dei lavori d’urgenza, così
come era dettata dagli artt. 146 e 147 del D.P.R. n.
554/1999, all’epoca vigenti.
---------------
Gli affidamenti
illegittimi di lavori e forniture non vincolano
l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto
obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore.
Nel caso di specie le acquisizioni
documentali provano che gli affidamenti dei tre lavori in
esame sono avvenuti su presupposti
assolutamente non attendibili sì da violare i principi di
imparzialità e di trasparenza dell’azione
amministrativa nonché il criterio del confronto
concorrenziale, sancito dalla normativa di settore di
cui al D.Lgs. 163/2006.
In buona sostanza nella fattispecie sussiste l’incompletezza
e l’inattendibilità della contabilità dei lavori reperita,
l’inattendibilità di quanto attestato in ordine alla reale
tempistica di esecuzione dei lavori nonché degli atti
redatti e firmati, con le relative certificazioni su fatti
ed eventi, da parte dei soggetti istituzionalmente
competenti.
Sussistono anche gravi profili critici in ordine ai costi
effettivamente sostenuti dall’azienda affidataria dei
lavori, per l’esecuzione dei lavori di cui trattasi.
Risulta, infine, disatteso quanto normativamente stabilito
in materia di procedure amministrativo-contabili, stante che
all’ordine di esecuzione di lavori non è seguita la
deliberazione autorizzativa con la quale si sarebbe dovuto
provvede anche alla copertura della spesa.
---------------
Il Collegio condivide la
tesi di parte attrice per la quale sono chiamati a
rispondere dei fatti i convenuti:
- il Direttore
dei Lavori e Tecnico incaricato per gli asseriti lavori di
somma urgenza, considerato che dagli atti risulta che egli
avrebbe provveduto ad effettuare il sopralluogo di verifica
dei lavori di cui trattasi, a sottoscrivere il verbale di
consegna dei lavori, a redigere il computo metrico nello
stesso giorno del sopralluogo, ad attestare, quale Direttore
dei lavori, che i lavori erano stati ultimati nelle date del
07-14-18.04.2008, certificandone poi l'avvenuta esecuzione “a
regola d'arte e in conformità alle prescrizioni contrattuali”
solo nelle date del 05-24.11.2008, momento posteriore al
riconoscimento di debito (30.09.2008);
- il Segretario generale che
ha assistito alla seduta consiliare del 30.09.2008, ed in
relazione alle funzioni di assistenza giuridico
amministrativa avrebbe dovuto rilevare la carente
documentazione o quantomeno la violazione di quanto
normativamente previsto in tema di regolarizzazione
dell’ordinazione fatta a terzi, con i correlati limiti
oggettivi relativi al riconoscimento della legittimità dei
debiti fuori bilancio;
- l’Assessore, relatore della
proposta di riconoscimento del debito che, in considerazione
degli specifici obblighi di sovrintendenza che fanno carico
all’assessore delegato dal Sindaco per il settore di sua
specifica competenza, non ha, quantomeno, rilevato che, alla
data del 30.09.2008, la documentazione agli atti dell’Ente
non consentiva di asserire che la somma complessiva di euro
225.737,00 (IVA inclusa) fosse correlata ad una accertata e
dimostrata utilità ed arricchimento per l’Ente, requisiti
normativamente richiesti al fine del riconoscimento di un
debito fuori bilancio.
---------------
Per quanto
riguarda la richiesta risarcitoria deve essere
integralmente accolta sia pure non nelle percentuali
indicate dalla Procura.
In particolare il Collegio ritiene che l’apporto causale del
Responsabile del procedimento e Dirigente del Servizio
responsabile del parere di regolarità tecnica
sia meritevole di una potenziale condanna pari al 40%,
misura maggiore di quella indicata dalla Procura (35%),
il tutto in quanto ha apposto il proprio
visto sui verbali di regolare esecuzione, sul computo
metrico degli stessi e sui consuntivi di spesa ed ha,
altresì, istruito la delibera di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio.
Per quanto concerne la posizione del Tecnico incaricato
della Direzione lavori il Collegio valuta
di elevare la percentuale di responsabilità al 45%, rispetto
al 40% della tesi attorea, alla luce del fatto che
il medesimo avrebbe redatto i verbali di somma urgenza,
datati senza alcun numero di protocollo di riferimento, il
giorno dopo l’evento atmosferico in uno con i verbali di
consegna dei lavori nonché con il computo metrico dei lavori
stessi.
Considerato che si sarebbe trattato di ben tre affidamenti
distinti la contemporanea formazione di tutti questi atti
tecnici di relativa complessità non pare plausibile, da qui
la maggior responsabilità del convenuto.
Diversamente la responsabilità del Segretario Generale e dell’Assessore ai Lavori pubblici e
relativa esecuzione sig. Fa.Br. deve essere
ridimensionata rispettivamente nel 10% e nel 5%
in considerazione della loro partecipazione alla
delibera in esame sulla quale non hanno espresso alcuna
riserva pur trattandosi di una procedimento “a sanatoria”
che avrebbe meritato opportuna ponderazione da parte dei
convenuti che, pur non avendo partecipato alla formazione
degli elaborati tecnici, ne hanno, sia pure in parte minima
avallato gli effetti.
---------------
FATTO
Con l’atto di citazione in esame la Procura regionale ha
convenuto in giudizio i nominati per sentirli condannare “al
pagamento, della complessiva somma di euro 58.690,00
ciascuno nella misura suindicata, in favore del Comune di
Massa, salva ogni diversa valutazione da parte del Collegio,
oltre rivalutazione, interessi legali e spese di giudizio”.
Nel merito dei fatti, dalle allegazioni processuali risulta
che con deliberazione n. 69 del 30.09.2008, il Consiglio
comunale di Massa, udita la relazione dell’Assessore Fa.Br.,
sulla base del documento istruttorio predisposto dal
responsabile del procedimento arch. La.Me., riconosceva “la
legittimità del debito fuori bilancio derivante
dall’esecuzione dei lavori di somma urgenza per la messa in
sicurezza dei cimiteri urbani e frazionali a seguito del
fortunale abbattutosi nel Comune di Massa il 05.03.2008 per
un importo complessivo di € 225.737,00 I.V.A. compresa”.
Dalla lettura della citata deliberazione emerge che veniva
rappresentato all’organo consiliare che “i lavori sono
stati affidati esclusivamente per motivi improcrastinabili
ai sensi dell’art. 147 del DPR n. 554/1999 (Regolamento
d’attuazione della legge 11.02.1994, n. 109 legge quadro in
materia di lavori pubblici) e che ad oggi gli interventi
…sono stati completati” e che l’esecuzione degli
interventi “si sono rivelati essenziali per
l’Amministrazione, garantendo agli utenti dei cimiteri la
possibilità di usufruire in sicurezza e senza pericoli per
l’incolumità pubblica e igienico sanitari”.
La deliberazione veniva assunta con il parere favorevole di
regolarità tecnica reso dal dott. La.Me., di regolarità
contabile reso dal dott. Ma.To. e con il visto di conformità
all’azione amministrativa reso dal Segretario generale dott.
Ca.Fe..
Nei verbali di somma urgenza -allegati alla deliberazione-
che sarebbero stati redatti in data 06.03.2008 (privi però
di protocollo) da Gi.Be., in qualità di tecnico incaricato
dal dirigente del settore, veniva affermata la necessità di
tali interventi, atteso che per le eccezionali avverse
condizioni atmosferiche si erano verificati distacchi di
vari materiali dalle coperture dei tetti delle strutture dei
cimiteri di Turano e Mirteto nonché dei cimiteri frazionali
di Canevara, Casette, Forno, Casania, Resceto, Pariana,
Altagnana e Antona.
Pertanto, il tecnico delegato Be. dichiarava che per
l’esecuzione dei lavori ivi menzionati, da dettagliarsi
nella perizia giustificativa, ricorrevano gli estremi della
somma urgenza ex art. 147 del DPR n. 554/1999.
La delibera di riconoscimento di debito di cui sopra è stata
poi trasmessa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23,
comma 5, della legge 27.12.2002 n. 289, alla competente
Procura cui è pervenuta in data 27.10.2008.
In relazione a quanto sopra, la Procura erariale delegava la
Guardia di Finanza Nucleo di Polizia Tributaria Massa
Carrara –Sezione Tutela Finanza Pubblica– a svolgere
accertamenti istruttori.
...
DIRITTO
A parere di questo Collegio, nella vicenda
in esame si ravvisano tutti i presupposti necessari e
sufficienti per l’esercizio dell’azione
amministrativo-contabile.
In primo luogo è indubitabile che all’epoca degli eventi le
parti convenute erano direttamente legate all’Ente erogante
da un rapporto funzionale di servizio o perché dipendenti di
ruolo della Amministrazione locale (Tecnico ufficio lavori)
o perché inseriti nella struttura, sia pure temporaneamente,
(Assessore e Segretario generale) come figure funzionali
all’azione amministrativa dell’Ente.
Altrettanto evidente è il nesso causale tra la condotta
delle parti convenute e l’evento dannoso.
Con la delibera di riconoscimento di debiti
fuori bilancio in esame l’Amministrazione ha valutato la
sussistenza dei presupposti sostanziali di riconoscibilità
del debito, tra i quali il riconoscimento dell’utilità della
prestazione e dell’arricchimento dell’Ente ex art. 194, 1°
comma, lett. e), del D.Lgs. 267/2000.
Tutto questo si è svolto in presenza di
indici di illegittimità, sia sotto il profilo contabile
sia sotto il profilo della mancata applicazione delle
procedure previste in tema di “lavori d’urgenza”.
A questo punto rilevanti nella fattispecie sono l’indagine
sull’elemento soggettivo e la individuazione della
posta di danno azionabile.
Elemento soggettivo
Come già accennato la violazione, da parte
di tutti i soggetti convenuti e non
(nella specie, risultando medio-tempore deceduto il
Responsabile del procedimento e Dirigente del settore Arch.
Me., non è stato ravvisato l’illecito arricchimento degli
aventi causa), degli obblighi di servizio
se non caratterizzata da animus doloso sicuramente
integra la cd. colpa grave, sottoposta al sindacato di
questa Corte.
Ciò premesso, le norme violate attengono
alla disciplina della procedura dei lavori d’urgenza, così
come era dettata dagli artt. 146 e 147 del D.P.R. n.
554/1999, all’epoca vigenti.
In base alla citata normativa, l’esecuzione di lavori in
economia determinata dalla necessità di provvedere d’urgenza
doveva risultare da un verbale, nel quale dovevano essere
indicati i motivi dello stato di urgenza, le cause che lo
avevano provocato e i lavori necessari per rimuoverlo (art.
146, 1° comma).
Il verbale doveva poi essere compilato dal responsabile del
procedimento o da un tecnico all’uopo incaricato e,
unitamente alla perizia estimativa, andava trasmesso alla
stazione appaltante, per la copertura della spesa e
l’autorizzazione dei lavori (art. 146, 2° comma).
Per altro verso, l’art. 147, 1° comma, disponeva che: “In
circostanze di somma urgenza che non consentono alcun
indugio, il soggetto fra il responsabile del procedimento e
il tecnico che si reca prima sul luogo, può disporre,
contemporaneamente alla redazione del verbale di cui
all’articolo 146, l'immediata esecuzione dei lavori entro il
limite di 200.000 Euro o comunque di quanto indispensabile
per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità.”
Pertanto, l’esecuzione dei lavori di cui trattasi può essere
affidata in forma diretta ad una o più imprese individuate
dal responsabile del procedimento o dal tecnico, da questi
incaricato.
Ai sensi poi dell’art. 147, 4° comma, “il responsabile
del procedimento o il tecnico incaricato compila entro dieci
giorni dall’ordine di esecuzione dei lavori una perizia
giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al
verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che
provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei
lavori.”
Sotto il profilo prettamente contabile, ex art. 191 del
D.Lgs. 267/2000, “1. Gli enti locali possono effettuare
spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul
competente intervento o capitolo del bilancio di previsione
e l'attestazione della copertura finanziaria di cui
all'articolo 153, comma 5...
3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal
verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile,
l'ordinazione fatta a terzi è regolarizzata, a pena di
decadenza, entro trenta giorni e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente alla regolarizzazione.
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e
servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e
3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi
dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato
fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che
hanno consentito la fornitura.”.
In estrema sintesi gli affidamenti
illegittimi di lavori e forniture non vincolano
l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto
obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore.
Nel caso di specie le acquisizioni
documentali provano che gli affidamenti dei tre lavori in
esame, di cui in narrativa, sono avvenuti su presupposti
assolutamente non attendibili sì da violare i principi di
imparzialità e di trasparenza dell’azione
amministrativa nonché il criterio del confronto
concorrenziale, sancito dalla normativa di settore di
cui al D.Lgs. 163/2006.
In buona sostanza nella fattispecie sussiste l’incompletezza
e l’inattendibilità della contabilità dei lavori reperita,
l’inattendibilità di quanto attestato in ordine alla reale
tempistica di esecuzione dei lavori nonché degli atti
redatti e firmati, con le relative certificazioni su fatti
ed eventi, da parte dei soggetti istituzionalmente
competenti.
Sussistono anche gravi profili critici in ordine ai costi
effettivamente sostenuti dall’azienda affidataria dei
lavori, per l’esecuzione dei lavori di cui trattasi.
Risulta, infine, disatteso quanto normativamente stabilito
in materia di procedure amministrativo-contabili, stante che
all’ordine di esecuzione di lavori non è seguita la
deliberazione autorizzativa con la quale si sarebbe dovuto
provvede anche alla copertura della spesa
(per inciso intervenuta il 24.11.2008 dopo la delibera di
riconoscimento di debito del 30.09.2008).
Quanto sopra risulta dalle esaurienti acquisizioni
istruttorie che, distinte per i singoli affidamenti,
conseguono a specifici verbali di accesso effettuati dal
Nucleo di Polizia tributaria di Massa-Carrara, nel mese di
settembre 2013, presso le Ditte aggiudicatarie.
Tutto ciò premesso il Collegio condivide la
tesi di parte attrice per la quale sono chiamati a
rispondere dei fatti i convenuti:
- geom. Gi.Be., nella qualità di Direttore
dei Lavori e Tecnico incaricato per gli asseriti lavori di
somma urgenza, considerato che dagli atti risulta che egli
avrebbe provveduto ad effettuare il sopralluogo di verifica
dei lavori di cui trattasi, a sottoscrivere il verbale di
consegna dei lavori, a redigere il computo metrico nello
stesso giorno del sopralluogo, ad attestare, quale Direttore
dei lavori, che i lavori erano stati ultimati nelle date del
07-14-18.04.2008, certificandone poi l'avvenuta esecuzione “a
regola d'arte e in conformità alle prescrizioni contrattuali”
solo nelle date del 05-24.11.2008, momento posteriore al
riconoscimento di debito (30.09.2008);
- del Segretario generale dott. Ca.Fe. che
ha assistito alla seduta consiliare del 30.09.2008, ed in
relazione alle funzioni di assistenza giuridico
amministrativa avrebbe dovuto rilevare la carente
documentazione o quantomeno la violazione di quanto
normativamente previsto in tema di regolarizzazione
dell’ordinazione fatta a terzi, con i correlati limiti
oggettivi relativi al riconoscimento della legittimità dei
debiti fuori bilancio;
- dell’Assessore Fa.Br., relatore della
proposta di riconoscimento del debito che, in considerazione
degli specifici obblighi di sovrintendenza che fanno carico
all’assessore delegato dal Sindaco per il settore di sua
specifica competenza, non ha, quantomeno, rilevato che, alla
data del 30.09.2008, la documentazione agli atti dell’Ente
non consentiva di asserire che la somma complessiva di euro
225.737,00 (IVA inclusa) fosse correlata ad una accertata e
dimostrata utilità ed arricchimento per l’Ente, requisiti
normativamente richiesti al fine del riconoscimento di un
debito fuori bilancio.
Sussisterebbero, quindi, presupposti oggettivi per ritenere
che le condotte omissive e commissive poste in essere dai
soggetti suindicati abbiano determinato un pregiudizio
patrimoniale al Comune di Massa, in relazione agli oneri
accollati al bilancio comunale nella misura di cui infra.
Danno azionabile
Venendo al profilo della stima del danno, secondo la Procura
regionale, emerge che “una quota parte quantomeno pari al
40% della somma accollata al bilancio comunale costituisca
una spesa priva di utilità ed in quanto tale un danno
patrimoniale per il Comune di Massa”.
Tale condivisibile riduzione in via equitativa conseguirebbe
al non computo dell’utile di impresa pari
al 10% (che non spetterebbe in caso di affidamenti
illegittimi), del
risparmio non conseguito dall’Ente per mancato ricorso al
mercato concorrenziale nonché della non applicazione delle
penali per tardiva esecuzione dei lavori.
Al riguardo il tenore dei verbali di consegna ed ultimazione
dei lavori, tutti privi di protocollo, sono contraddetti
dalle fatture e dai documenti di trasporto acquisiti dalla
GdF.
Risultano noleggi di macchinari industriali e consegne di
materiali in data anteriore alla affidamento ufficiale dei
lavori nonché in data posteriore alla dichiarazione di
ultimazione degli stessi, tutti fatti idonei a dubitare del
tenore degli atti tecnici redatti dalla Amministrazione.
Da qui la sostanziale riduzione dell’utilitas della
spesa nei termini prospettati dalla Procura e, pertanto,
della spesa sostenuta pari nel totale ad €. 225.737,00 il
40% della stessa pari ad €. 90.294,80 sarebbe danno
azionabile e di questo, sempre secondo la Procura, il 35%
andrebbe (teoricamente) attribuito al de cuis Me., il
40% al Tecnico incaricato della Direzione lavori, il 15%
all’Assessore proponente ed il 10% al Segretario generale,
in ragione della diversa incidenza causale delle singole
condotte fonte del danno oggi azionato, parametrate in
relazione alle funzioni intestate nell’ambito
dell’Amministrazione comunale.
Ciò premesso in primo luogo deve essere disattesa
l’eccezione di prescrizione avanzata in quanto, dalle
acquisizioni istruttorie del Nucleo di polizia tributaria di
Massa-Carrara della GdF disposte nel settembre 2013, emerge
che tutti gli importi di cui trattasi sono stati oggetto di
mandati di pagamento (n. 145 del 20.01.2009 e n. 328 del
26.01.2009) emessi nell’arco quinquennale di prescrizione,
decorrente dalla notifica degli inviti a dedurre (dicembre
2013).
Per quanto sopra la richiesta risarcitoria deve essere
integralmente accolta sia pure non nelle percentuali
indicate dalla Procura.
In particolare il Collegio ritiene che l’apporto causale del
Responsabile del procedimento e Dirigente del Servizio
responsabile del parere di regolarità tecnica arch. La.Me.
sia meritevole di una potenziale condanna pari al 40%,
misura maggiore di quella indicata dalla Procura (35%),
il tutto in quanto ha apposto il proprio
visto sui verbali di regolare esecuzione, sul computo
metrico degli stessi e sui consuntivi di spesa ed ha,
altresì, istruito la delibera di riconoscimento dei debiti
fuori bilancio.
Per quanto concerne la posizione del Tecnico incaricato
della Direzione lavori geom. Gi.Be. il Collegio valuta
di elevare la percentuale di responsabilità al 45%, rispetto
al 40% della tesi attorea, alla luce del fatto che
il medesimo avrebbe redatto i verbali di somma urgenza,
datati senza alcun numero di protocollo di riferimento, il
giorno dopo l’evento atmosferico in uno con i verbali di
consegna dei lavori nonché con il computo metrico dei lavori
stessi.
Considerato che si sarebbe trattato di ben tre affidamenti
distinti la contemporanea formazione di tutti questi atti
tecnici di relativa complessità non pare plausibile, da qui
la maggior responsabilità del convenuto.
Diversamente la responsabilità del Segretario Generale
dr. Ca.Fe. e dell’Assessore ai Lavori pubblici e
relativa esecuzione sig. Fa.Br. deve essere
ridimensionata rispettivamente nel 10% e nel 5%
in considerazione della loro partecipazione alla
delibera in esame sulla quale non hanno espresso alcuna
riserva pur trattandosi di una procedimento “a sanatoria”
che avrebbe meritato opportuna ponderazione da parte dei
convenuti che, pur non avendo partecipato alla formazione
degli elaborati tecnici, ne hanno, sia pure in parte minima
avallato gli effetti.
In tali termini percentuali deve essere disposta la
condanna.
Detti importi dovranno, inoltre, essere maggiorati di
interessi e rivalutazione monetaria dalla data di emissione
dei relativi mandati di pagamento.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono
dovuti, infine, gli interessi nella misura del saggio legale
fino al momento del saldo;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la
Regione Toscana, definitivamente pronunciando sul giudizio
n. 59846/R e respinta ogni contraria istanza ed eccezione,
in parziale conformità delle conclusioni del Pubblico
ministero,
CONDANNA
le parti convenute, in relazione alla richiesta risarcitoria
di €. 90.294,00 e preso atto della non azionabilità della
percentuale del 40% a carico di La.Me. medio-tempore
deceduto, al pagamento in favore della Amministrazione
comunale di Massa, senza vincolo di solidarietà, del residuo
importo di €. 54.176,40 nelle seguenti percentuali:
- Gi.Be. – 45%;
- Ca.Fe. – 10%;
- Fa.Br. – 5%,
oltre interessi e rivalutazione come esposto in motivazione.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono
dovuti gli interessi, nella misura del saggio legale, fino
alla data di effettivo pagamento
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 08.09.2015 n. 177). |
18.09.2015
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Se, in caso di incarico di posizione organizzativa (P.O.),
conferito dal Dirigente di un Ente locale a un dipendente
inquadrato nella categoria D, ai sensi degli artt. 8 e 9 del
CCNL 31.08.1999, per la durata di un anno, l'Ente debba,
alla scadenza del termine, motivare il mancato rinnovo.
- l'istituzione delle posizioni
organizzative in parola costituisce una facoltà e non un
obbligo del datore di lavoro pubblico;
- il conferimento di tali posizioni organizzative è a tempo
determinato e va disposto con atto scritto e motivato;
- il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una
facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di
provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto
scritto e motivato;
- al titolare della posizione organizzativa competono la
retribuzione di posizione e quella di risultato;
- l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza
richiede anch'essa un atto scritto e motivato e può essere
disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento
di risultati negativi;
- la revoca comporta la perdita delle retribuzioni di
posizione e di risultato e la restituzione del dipendente
alle funzioni del profilo di appartenenza;
- la valorizzazione delle alte professionalità di cui
all'art. 10 CCNL 2002-2005 avviene nell'ambito della
disciplina dell'art. 8, comma 1, lett. b) e c), CCNL
31.03.1999 e nel rispetto delle disposizioni dell'art. 9 del
medesimo CCNL e, quindi, contempla comunque, per la parte
datoriale pubblica, la facoltà e non l'obbligo del rinnovo
degli incarichi già conferiti.
---------------
- l'incarico conferito di P.O. cessato alla sua naturale
scadenza non comporta una qualsivoglia motivata
determinazione da parte dell'Amministrazione, necessaria
invece qualora l'incarico stesso fosse stato revocato prima
della scadenza;
- l'Amministrazione non ha alcun obbligo di rinnovare
l'incarico di P.O., indipendentemente dai risultati positivi
dal medesimo soggetto conseguiti e dal fatto che abbia
ritenuto di rinnovare le altre posizioni organizzative
istituite;
- la valorizzazione dell'alta professionalità posseduta
dalla P.O. può, eventualmente, assumere rilievo soltanto se
l'Amministrazione conferisce il medesimo incarico ad altro
dipendente in violazione dei criteri di cui all'art. 10,
comma 3, CCNL 2002-2005.
---------------
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
All'esito dell'espletata fase cautelare, Sc.Cl. convenne in
giudizio la Provincia Regionale di Enna (qui di seguito, per
brevità, indicata anche come Provincia) chiedendo che
venissero dichiarati:
- il suo diritto ad espletare l'attività professionale di
avvocato, quale responsabile dell'Ufficio Contenzioso Lavoro
e quale difensore dell'Ente, in posizione di staff e alle
dirette dipendenze del Presidente della Provincia;
- l'illegittimità delle disposizioni di servizio n. 3126 del
16.03.2004 e n. 3381 del 19.03.2004 e di qualsiasi
intromissione realizzata dal Dirigente del Settore Personale
della Provincia nella sua attività professionale legale;
- il suo diritto ad essere inquadrato nel profilo di
Avvocato (cat. D3);
- l'illegittimità della mancata proroga dell'incarico di
titolarità della posizione organizzativa, con condanna della
Provincia al pagamento delle relative indennità a decorrere
dal 01.04.2004.
...
MOTIVI DELLA DECISIONE
...
3. Con il quinto motivo, denunciando violazione di
disposizioni di legge e di CCNL, la ricorrente principale si
duole che la Corte territoriale abbia ritenuto, in relazione
alla mancata proroga della posizione organizzativa a favore
dello Sc., l'obbligo della motivazione al riguardo da parte
dell'Amministrazione e la violazione, in concreto, dei
canoni di correttezza e buona fede.
A conclusione del motivo è stato formulato il seguente
quesito di diritto: "Se, in caso di
incarico di posizione organizzativa, conferito dal Dirigente
di un Ente locale (la Provincia di Enna) a un dipendente
inquadrato nella categoria D, ai sensi degli artt. 8 e 9 del
CCNL 31.08.1999, per la durata di un anno, l'Ente debba,
alla scadenza del termine, motivare il mancato rinnovo o
applicare i principi di correttezza e buona fede, oppure non
debba, come ritiene la Provincia, odierna ricorrente,
semplicemente, secondo le fonti contrattuali, restituire il
dipendente al profilo di appartenenza".
3.1 Il motivo, contrariamente all'assunto del
controricorrente, deve ritenersi ammissibile, sia perché
affronta specificamente le argomentazioni svolte dalla Corte
territoriale, a cui, in termini pertinenti, contrappone
criticamente l'interpretazione asseritamente corretta della
normativa pattizia di riferimento, sia perché il quesito di
diritto è coerente con la regula iuris che viene
espressa a fondamento del motivo.
3.2 L'allegato al CCNL 1998-2001 - Comparto del personale
delle regioni e delle autonomie locali, CCNL per la
revisione del sistema di classificazione del personale,
prevede, per quanto qui rileva, che:
- "Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che
richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità
di prodotto e di risultato: (...) b) lo svolgimento di
attività con contenuti di alta professionalità e
specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole
universitarie e/o all'iscrizione ad albi professionali;
(...)" (art. 8, comma 1);
- "Tali posizioni (...) possono essere assegnate
esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D,
sulla base e per effetto d'un incarico a termine conferito
in conformità alle regole di cui all'ad. 9" (art. 8,
comma 2);
- "Gli incarichi relativi all'area delle posizioni
organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo
massimo non superiore a 5 anni, previa determinazione di
criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e
motivato e possono essere rinnovati con le medesime
formalità" (art. 9, comma 1);
- "Per il conferimento degli incarichi gli enti tengono
conto -rispetto alle funzioni e attività da svolgere- della
natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, dei
requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della
capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale
della categoria D" (art. 9, comma 2);
- "Gli incarichi possono essere revocati prima della
scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a
intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di
specifico accertamento di risultati negativi" (art. 9,
comma 3);
- "La revoca dell'incarico comporta la perdita della
retribuzione di cui all'art. 10 da parte del dipendente
titolare. In tal caso il dipendente resta inquadrato nella
categoria di appartenenza e viene restituito alle funzioni
del profilo di appartenenza" (art. 9, comma 5);
- "Il trattamento economico accessorio del personale
della categoria D titolare delle posizioni di cui all'ad. 8
è composto dalla retribuzione di posizione e dalla
retribuzione di risultato. (...)" (art. 10, comma 1).
Il CCNL Comparto del personale delle regioni e delle
autonomie locali, quadriennio normativo 2002-2005, prevede
che:
- "Gli enti valorizzano le alte professionalità del
personale della categoria "D" mediante il conferimento di
incarichi a termine nell'ambito della disciplina dell'ad. 8,
comma 1, lett. b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di
quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL"
(art. 10, comma 1);
- "Gli incarichi del comma 1 sono conferiti dai soggetti
competenti secondo gli ordinamenti vigenti:
(a) ipotesi comma 1, lett. b), dell'ad. 8 citato: per
valorizzare specialisti portatori di competenze elevate e
innovative, acquisite, anche nell'ente, attraverso la
maturazione di esperienze di lavoro in enti pubblici e in
enti e aziende private, nel mondo della ricerca o
universitario rilevabili dal curriculum professionale e con
preparazione culturale correlata a titoli accademici (lauree
specialistiche, master, dottorati di ricerca e altri titoli
equivalenti) anche, per alcune delle suddette alte
professionalità, da individuare da parte dei singoli enti,
con abilitazioni o iscrizioni ad albi; (...)" (art. 10,
comma 2);
- "Gli enti adottano atti organizzativi di diritto
comune, nel rispetto del sistema di relazioni sindacali
vigente:
(a) per la preventiva disciplina dei criteri e delle
condizioni per la individuazione delle competenze e
responsabilità di cui al precedente comma 2, lett. a) e b) e
per il relativo affidamento; (...)" (art. 10, comma 3).
3.3 In applicazione dei canoni ermeneutici di cui agli art.
1362 e 1363 cc deve pertanto convenirsi che:
- l'istituzione delle posizioni
organizzative in parola costituisce una facoltà e non un
obbligo del datore di lavoro pubblico;
- il conferimento di tali posizioni organizzative è a tempo
determinato e va disposto con atto scritto e motivato;
- il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una
facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di
provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto
scritto e motivato;
- al titolare della posizione organizzativa competono la
retribuzione di posizione e quella di risultato;
- l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza
richiede anch'essa un atto scritto e motivato e può essere
disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento
di risultati negativi;
- la revoca comporta la perdita delle retribuzioni di
posizione e di risultato e la restituzione del dipendente
alle funzioni del profilo di appartenenza;
- la valorizzazione delle alte professionalità di cui
all'art. 10 CCNL 2002-2005 avviene nell'ambito della
disciplina dell'art. 8, comma 1, lett. b) e c), CCNL
31.03.1999 e nel rispetto delle disposizioni dell'art. 9 del
medesimo CCNL e, quindi, contempla comunque, per la parte
datoriale pubblica, la facoltà e non l'obbligo del rinnovo
degli incarichi già conferiti.
3.4 Da quanto sopra discende che:
- l'incarico conferito allo Sc. è cessato alla sua naturale
scadenza (del 31.03.2004), senza che ciò
dovesse comportare una qualsivoglia motivata determinazione
da parte dell'Amministrazione, necessaria invece qualora
l'incarico stesso fosse stato revocato prima della scadenza;
- l'Amministrazione non aveva alcun obbligo
di rinnovare l'incarico allo Sc., indipendentemente dai
risultati positivi dal medesimo conseguiti e dal fatto che
avesse ritenuto di rinnovare le altre posizioni
organizzative istituite;
- la valorizzazione dell'alta
professionalità posseduta dallo Sc. avrebbe potuto,
eventualmente, assumere rilievo soltanto se
l'Amministrazione avesse conferito il medesimo incarico ad
altro dipendente in violazione dei criteri di cui all'art.
10, comma 3, CCNL 2002-2005; il che però non si è verificato,
avendo la Corte territoriale irretrattabilmente accertato in
punto di fatto che la posizione organizzativa relativa al
Contenzioso Lavoro era rimasta vacante;
- la cessazione dell'incarico ha comportato il venir meno
del diritto alle connesse retribuzioni di posizione e di
risultato.
Essendosi la Corte territoriale discostata da tali principi,
il motivo all'esame deve essere accolto (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 10.07.2015 n. 14472). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - VARI:
Associazioni Sportive Dilettantistiche: come fare per non
sbagliare (Agenzia delle Entrate, Direzionale
Regionale del Piemonte, luglio 2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto del Ministero dell’Interno 03.08.2015,
“Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai
sensi dell'articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006,
n. 139” (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei
Vigili del Fuoco, Del Soccorso Pubblico e della difesa
Civile - Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Avellino,
nota 11.09.2015 n. 10297 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Durc on-line – chiarimenti. Istruttoria imprese
non iscritte alla Cassa Edile (ANCE di Bergamo,
circolare 11.09.2015 n. 189). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Applicazione art. 266, comma 4, d.lgs. 152/2006
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
nota 30.06.2015 n. 7692 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
17.09.2015 n. 216 "Definizione delle tabelle di
equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai
contratti collettivi relativi ai diversi comparti di
contrattazione del personale non dirigenziale" (D.P.C.M.
26.06.2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Società in house. Condannate le assunzioni
«vietate» dall’ente socio.
L’assunzione di personale in una società in house in
violazione delle direttive dell’ente locale socio che
impongono un divieto assoluto comportano danno erariale
imputabile agli amministratori della partecipata.
La Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Sicilia,
con la
sentenza
01.09.2015 n. 778, condanna gli
amministratori di una società affidataria diretta di
servizi, partecipata dalla Regione, a rifondere il danno
causato (circa 180mila euro) dalle assunzioni effettuate
dalla società violando un esplicito divieto posto
dall’amministrazione regionale socia, con specifico atto di
indirizzo rivolto alle società da essa controllate, ma anche
non considerando il riscontro negativo del comitato per il
controllo analogo.
Il cda della società in house aveva deliberato in merito al
reclutamento di alcune risorse umane, in sostituzione di
alcuni dipendenti deceduti, pur avendo conoscenza del
divieto di assunzioni stabilito da un atto della Regione
Sicilia (socio controllante), a fini di contenimento della
spesa: consapevole di questo limite, il cda aveva deciso di
dar corso alle assunzioni solo dopo riscontro dal comitato
di controllo analogo (previsto dallo statuto sociale).
Questo organismo, tuttavia, aveva negato sostanzialmente la
possibilità di assunzione, indicando al cda di rimettere la
decisione all’assemblea, nella quale la Regione, come socio,
avrebbe potuto eventualmente disporre deroghe in relazione a
presupposti particolari.
Uno degli amministratori della
società ha invece deciso di dar corso alle procedure di
assunzione prima che ciò avvenisse e pur a fronte di altri
atti della Regione confermativi del divieto di reclutamento.
Rispetto a questa decisione, il presidente del cda non è
intervenuto, non esercitando i doveri a lui assegnati dagli
obblighi di vigilanza.
La sentenza evidenzia che il divieto di assunzione, previsto
all’evidente fine di raggiungere determinati obiettivi di
finanza pubblica (a loro volta derivanti dalla legge e dalla
Costituzione) costituisce il mero mezzo che è stato
individuato quale strumento per raggiungere il fine del
contenimento dei costi: conseguentemente la violazione del
divieto finisce col sortire effetti pregiudizievoli sul
superiore vincolo di finanza pubblica che sta sullo sfondo.
Inoltre i giudici rilevano che la cogenza di quel vincolo
nei confronti degli amministratori della partecipata fa
parte dell’ordinamento della stessa, proprio perché questa è
una società in house, i cui amministratori non possono
invocare l’autonomia gestionale generalmente prevista per le
ordinarie società commerciali.
La sentenza stabilisce quindi che la spesa sostenuta per
remunerare i lavoratori assunti in violazione di
quell’espresso divieto assoluto deve ritenersi inutile, con
la conseguenza che essa costituisce danno erariale, con
esclusione della possibilità di valutare eventuali vantaggi
comunque conseguiti dalla società di appartenenza.
La pronuncia evidenzia indirettamente l’importanza degli
atti di indirizzo che gli enti locali soci devono assumere,
in base all’articolo 18, comma 2-bis, della legge 133/2008,
nei confronti delle partecipate, per specificare entro quali
limiti esse possono operare assunzioni (potendo stabilire
anche divieti assoluti), per perseguire il contenimento dei
costi del personale.
Proprio questi atti di indirizzo consentono la definizione
di deroghe per società che svolgono particolari attività (si
pensi al ciclo integrato dei rifiuti in caso di cambiamento
del modello di raccolta), ma secondo motivazioni che devono
rendere evidenti queste peculiarità (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'ESPERTO RISPONDE/L'interrogativo di una
docente, ma la legge non è cambiata.
Permessi straordinari per 104, il dirigente non può
sindacare. Salvo non sussistano gravi e documentati motivi.
Domanda
Usufruisco della legge 104/1992 per assistere mio marito
disabile. Il 7 agosto ho presentato domanda di un permesso
straordinario nel periodo 21/30.10.2015. Il dirigente
scolastico si è riservato di accogliere o respingere la
domanda motivandola con le modifiche introdotte recentemente
alla predetta legge.
Vorrei sapere quali sono i termini delle modifiche alla 104;
che discrezionalità ha il dirigente nel concedere i giorni
di permesso e a quanti giorni corrispondono esattamente i
due anni di congedo straordinario.
Risposta
La risposta che di seguito si fornisce parte dal
presupposto che suo marito sia stato riconosciuto
dall'apposita commissione medica handicappato in situazione
di gravità e non sia ricoverato in una struttura sanitaria a
tempo pieno. Ai sensi del comma 5 e seguenti dell'articolo
42 del decreto legislativo 151/2001, per assistere suo
marito lei ha diritto, nell'arco della vita lavorativa, a un
periodo di congedo retribuito fino ad un massimo di due anni
(730 giorni di calendario) da fruire anche in modo non
continuativo.
In relazione alla sua domanda il dirigente scolastico non
può esercitare alcun potere discrezionale, può solo
accoglierla. A meno che non sussistano gravi e documentati
motivi, neppure il periodo da lei richiesto può essere messo
in discussione dal dirigente.
Le assicuro che le più recenti modifiche apportate alla
legge 104/1992 non hanno inciso in alcun modo sull'istituto
di cui al citato articolo 42
(articolo ItaliaOggi
del 15.09.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
L'assessore non subentra.
L'ex membro della giunta decade dal consiglio.
Il primo dei non eletti voleva prendere il posto di un
consigliere deceduto.
Un consigliere comunale, risultato primo dei non eletti alle
ultime consultazioni amministrative, può subentrare, in
qualità di componente del consiglio comunale, a un
consigliere eletto nella medesima lista e successivamente
deceduto?
Nella fattispecie in esame, il primo dei non eletti di una
lista ha chiesto al sindaco e al presidente del consiglio
dell'ente di riconoscere il proprio diritto a subentrare, in
qualità di componente del consiglio comunale, a un
consigliere eletto nella medesima lista e successivamente
deceduto.
Già in precedenza il consiglio comunale aveva
provveduto a deliberare la surroga di altro consigliere
eletto sempre nella medesima lista e che lo stesso
richiedente, in tale circostanza, non è stato tenuto in
considerazione ai fini della surroga, in quanto, pur
risultando primo dei non eletti, era stato nominato
assessore del medesimo ente.
Essendosi successivamente
dimesso dalla carica assessorile, il predetto ha chiesto di
poter subentrare al consigliere deceduto in qualità di
surrogante, atteso che, a suo avviso, nei suoi confronti non
avrebbe spiegato effetti l'art. 64, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000 che prevede, per i comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti, la cessazione
dalla carica del consigliere che abbia accettato la nomina
ad assessore della rispettiva giunta.
Ciò in considerazione
della circostanza che non sarebbe mai stato «proclamato
eletto» e pertanto, non avrebbe acquisito lo status di
consigliere comunale.
Ai sensi del citato art. 64, comma 2, nei comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti, «qualora un
consigliere comunale o provinciale assuma la carica di
assessore nella rispettiva giunta, cessa dalla carica di
consigliere all'atto dell'accettazione della nomina, ed al
suo posto subentra il primo dei non eletti».
Il Consiglio di stato, sezione prima, con parere n. 2755 del
13.07.2005, reso in ordine all'art. 64 del decreto
legislativo n. 267/2000, a suo tempo diramato dal ministero
dell'interno con circolare n. 5 del 13.09.2005, ha
evidenziato che, per i comuni con popolazione superiore a
15.000 abitanti, la cessazione dalla carica di consigliere
costituisce un effetto legale automatico, cui segue, sempre
ex lege, la sostituzione del consigliere nominato assessore
con il consigliere risultato primo dei non eletti nella
medesima lista.
Nella vicenda prospettata, l'avvenuta accettazione
dell'incarico di assessore da parte del primo degli eletti
nella lista, nelle ultime consultazioni elettorali, ha
determinato, ex lege, l'acquisizione dello status
di consigliere da parte dello stesso. Tuttavia, la nomina
contestuale di quest'ultimo a membro della giunta ha
determinato automaticamente la decadenza dello stesso dalla
carica di consigliere comunale
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità
delle sedute del consiglio comunale? Se tra la fonte
statutaria e quella regolamentare si determina un contrasto,
quale delle due disposizioni dovrebbe essere applicata?
L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti
dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri
necessario per la validità delle sedute», con il limite che
detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia
del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente,
senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della
provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel
senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei
consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali hanno
evidenziato un contrasto tra la previsione recata dello
statuto comunale e il regolamento sul funzionamento del
consiglio del citato ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede la
presenza della metà dei consiglieri assegnati al fine della
validità delle sedute (cinque componenti); mentre, ai sensi
della norma regolamentare, il consiglio potrebbe validamente
deliberare con la presenza di «almeno sette consiglieri». Si
sarebbe, pertanto, determinato un contrasto tra la fonte
statutaria e quella regolamentare.
In base al principio della gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo
n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la
citata disposizione regolamentare dovrebbe essere
disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
Tuttavia, appare opportuna la revisione delle disposizioni
statuarie e regolamentari che disciplinano i quorum e le
maggioranze necessarie per il funzionamento del consiglio,
al fine di comporre la discrasia evidenziata tra le
disposizioni richiamate e consentire il corretto adeguamento
alle disposizioni di legge che hanno innovato in merito alla
riduzione del numero dei componenti del consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
APPALTI:
Diritto di accesso agli atti di una procedura negoziata.
Questioni inerenti la sussistenza o meno dell'interesse
all'accesso e decorrenza dei termini per la conclusione del
procedimento di accesso.
1) Il soggetto che ha partecipato alla
procedura concorsuale è titolare di un interesse qualificato
e differenziato alla regolarità della procedura che, come
tale, concretizza quell'interesse personale e concreto per
la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che in
puntuale applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è
richiesto quale presupposto necessario per il riconoscimento
del diritto di accesso.
2) Il procedimento di accesso deve concludersi nel termine
di trenta giorni decorrenti dalla presentazione della
richiesta all'ufficio competente. Qualora la richiesta di
accesso, relativa alla documentazione presentata dalla ditta
aggiudicataria, abbia ad oggetto documenti 'non esistenti'
in quanto l'amministrazione non ha ancora ultimato la
procedura di aggiudicazione, vi è l'impossibilità di far
decorrer i termini come indicati dal legislatore e
l'amministrazione dovrebbe disporre il differimento dello
stesso al momento della aggiudicazione definitiva.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito ad
un'istanza di accesso agli atti pervenutagli da una ditta
che era stata invitata a partecipare ad una procedura
negoziata indetta dall'Ente ai sensi dell'articolo 30 del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163. [1]
Più in particolare, precisa di avere, in prima battuta,
pubblicato un avviso di indagine volto ad individuare le
imprese da invitare e di avere, successivamente, invitato
tutte le ditte che avevano manifestato il loro interesse in
tal senso. Riferisce, altresì, che l'indicata ditta, che non
ha presentato nei termini la propria offerta, ha richiesto 'copia
integrale dei verbali di gara e della documentazione
amministrativa presentata dalla ditta aggiudicataria';
tale richiesta è stata inoltrata al Comune lo stesso giorno
in cui si è tenuta la seduta pubblica destinata all'apertura
dei plichi di gara. [2]
A sostegno della propria istanza di diritto di accesso la
ditta ha addotto le seguenti motivazioni: 'tutela del
proprio legittimo diritto alla verifica dell'esistenza di
eventuali vizi procedurali, di vizi nella documentazione di
gara, nonché manifesta illogicità nelle previsioni della lex
specialis' e 'aggiornamento delle proprie anagrafiche
commerciali'. Attesa la fattispecie descritta l'Ente
desidera sapere:
1) se sussista il diritto del richiedente ad ottenere
l'accesso alla documentazione;
2) da quando decorre il termine di trenta giorni entro cui
deve chiudersi il procedimento di accesso.
In via preliminare, si ricorda che compito dello scrivente
Ufficio è fornire consulenza giuridico-amministrativa nelle
materie di interesse per gli enti locali. Non spetta allo
scrivente assumere decisioni o compiere valutazioni che
competono unicamente al Comune che ha posto il quesito. Di
conseguenza, di seguito, si forniscono una serie di
considerazioni generali che possano orientare l'Ente nelle
decisioni da assumere in relazione alla fattispecie
concreta.
In termini generali, si osserva che l'articolo 22, comma 1,
della legge 07.08.1990, n. 241, precisa, alla lettera a),
che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto
degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di
documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per 'interessati'
debbano intendersi «tutti i soggetti privati, compresi
quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che
abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
Al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente
rilevante, il soggetto deve, pertanto, dimostrare che esiste
una correlazione tra la propria situazione giuridica
soggettiva e l'utilità di conoscere il bene o la vicenda,
oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui
chiede visione o copia. La domanda di accesso deve, quindi,
essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse
giuridico di cui il richiedente è portatore.
Come rilevato dalla giustizia amministrativa, si osserva, in
particolare, che 'deve pur sempre sussistere un legame
tra finalità dichiarata e documento richiesto, con la
conseguenza che il titolare deve esternare non solo le
ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui
realizzazione il diritto di accesso è preordinato.'
[3]
Ed, invero, per la giurisprudenza, l'articolo 22, legge
241/1990, lungi dall'aver introdotto una forma di azione
popolare, diretta a consentire una sorta di verifica diffusa
dell'attività amministrativa, 'deve correlarsi ad un
interesse qualificato, che giustifichi la cognizione di
determinati documenti, onde l'accesso agli atti della p.a. è
consentito soltanto a coloro cui gli atti stessi,
direttamente o indirettamente, si rivolgano e che se ne
possano eventualmente avvalere per la tutela di una
posizione soggettiva la quale, anche se non assurta alla
consistenza dell'interesse legittimo o del diritto
soggettivo, deve comunque essere giuridicamente tutelata,
non essendo consentito identificarla con il generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento
dell'attività amministrativa (v. art. 97, Cost.)'.
[4]
Che non possano ritenersi ammissibili istanze di accesso
preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle
pubbliche amministrazioni è, del resto, sancito anche dalla
legge 241/1990, all'articolo 24, comma 3, nella versione
introdotta dalla legge 11.02.2005, n. 15.
Con riferimento alle procedure di gara occorre segnalare
l'orientamento giurisprudenziale che sostiene come 'il
soggetto che abbia partecipato alla procedura concorsuale è
titolare di un interesse qualificato e differenziato alla
regolarità della procedura che, come tale, concretizza
quell'interesse personale e concreto per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti che in puntuale
applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è richiesto
quale presupposto necessario per il riconoscimento del
diritto di accesso'. [5]
Circa la possibilità di applicare tale principio alla
fattispecie in esame, caratterizzata dal fatto che la ditta
che ha avanzato la richiesta di accesso agli atti, benché
abbia manifestato il proprio interesse alla gara nel corso
dell'indagine di mercato svolta dal Comune, non ha,
successivamente, seppur invitata a partecipare, presentato
la propria offerta, [6]
si riportano i contributi giurisprudenziali espressi
sull'argomento.
In un caso concernente una ditta che aveva partecipato alle
fasi di prequalificazione di una gara a procedura ristretta,
ma che, benché ammessa alla fase finale, a causa della
complessità del progetto, non aveva presentato la propria
offerta, [7]
il giudice amministrativo ha ritenuto sussistere il diritto
all'accesso ai documenti della fase finale della gara.
[8]
A sostegno di un tanto ha affermato che: 'Anche ove si
volesse interpretare la comunicazione dell'impresa di non
essere in grado di formulare un'offerta come rinuncia alla
gara, non vi è da dubitare che l'interesse alla regolarità
di questa permanesse e fosse qualificato e specifico. [...]
In primo luogo, [...] la procedura concorsuale in questione
è unica, anche se suddivisa in due fasi le quali, a
determinati fini, possono anche rispondere a norme e
principi diversi, senza che per ciò venga meno l'unicità
della gara. [9]
In secondo luogo, ed in conseguenza del primo punto,
l'interesse della richiedente deve essere giudicato tenendo
conto che essa è una partecipante alla gara stessa, vale a
dire è un operatore del settore con un interesse concreto e
specifico a quella determinata gara, al quale la
giurisprudenza, come è noto, ha riconosciuto ormai una
molteplicità di interessi. Oltre a quello tradizionale alla
legittimità e regolarità della gara cui partecipa, anche
alla demolizione della gara stessa quando ciò conduca alla
non aggiudicazione del contratto ed alla sua ripetizione.
[...]'.
Si ritiene interessante riportare anche le considerazioni di
altra giurisprudenza [10]
che, con riferimento ad un caso similare
[11] a quello in
esame ha affermato: 'In primo luogo non vi è alcuna
necessità di esternare nella istanza di accesso alla
documentazione di una gara pubblica le ragioni giuridiche
sottese alla richiesta stessa, l'accesso si giustifica con
il diritto di chi alla gara ha partecipato di conoscere le
modalità di svolgimento della procedura e le determinazioni
prese dall'Amministrazione. [...] Non è, poi, dubbio,
neanche per il primo giudice, [12]
che la richiesta di partecipazione, seguita dall'invito
dell'Amministrazione a presentare la propria offerta,
integri una posizione di legittimazione all'accesso agli
atti della gara che non è esclusa dalla circostanza della
mancata presentazione dell'offerta. Da altra angolazione si
deve rilevare che nel caso di specie vi era stato un
contraddittorio, tra la Società appellante ed il Comune di
XX, in ordine alle caratteristiche tecniche dell'opera da
realizzare [...]. Era, infatti, ben chiaro
all'Amministrazione Comunale il motivo che induceva la
Società attuale appellante a verificare le condizioni di
realizzazione del parcheggio per tutelarsi eventualmente in
sede giurisdizionale per il pregiudizio subito per non aver
potuto partecipare alla gara in forza delle carenze
progettuali di cui aveva rappresentato l'esistenza. Nella
fattispecie qui considerata sussiste in modo evidente, ad
avviso del Collegio, l'interesse diretto alla tutela di
«situazioni giuridicamente rilevanti» che a tenore dell'art.
22, primo comma, della legge 07.08.1990, n. 241, consente
l'accesso ai documenti amministrativi da parte dei privati'.
[13]
In conclusione, su tale aspetto, si osserva che le pronunce
sopra riportate hanno riconosciuto l'esistenza del diritto
di accesso a tutta la documentazione di gara in capo a
quelle imprese che, benché non presentatrici dell'offerta,
avevano preso parte alla fase precedente di
prequalificazione (o preselezione). Caratteristica comune ai
casi giurisprudenziali citati, tuttavia, era l'avvenuta
comunicazione o l'intervenuto scambio di note, da parte
delle indicate imprese alla P.A. appaltante, concernenti le
motivazioni a sostegno della non presentazione dell'offerta
e consistenti nella paventata esistenza di carenze o
complessità progettuali dell'opera da realizzare.
[14]
Passando a trattare della seconda questione posta, sempreché
si ritenga esistente l'interesse all'accesso da parte del
richiedente lo stesso, si forniscono le seguenti
considerazioni.
Il D.P.R. 12.04.2006, n. 184, 'Regolamento recante
disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi',
all'articolo 6, comma 4, recita: 'Il procedimento di
accesso deve concludersi nel termine di trenta giorni, ai
sensi dell'articolo 25, comma 4, della legge,
[15]
decorrenti dalla presentazione della richiesta all'ufficio
competente o dalla ricezione della medesima nell'ipotesi
disciplinata dal comma 2'.
Il medesimo regolamento, all'articolo 2, comma 2, prevede,
altresì, che: 'Il diritto di accesso si esercita con
riferimento ai documenti amministrativi materialmente
esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa
data da una pubblica amministrazione, di cui all'articolo
22, comma 1, lettera e), della legge, nei confronti
dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo o a
detenerlo stabilmente. La pubblica amministrazione non è
tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di
soddisfare le richieste di accesso'.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta evidente
che la richiesta di accesso ha ad oggetto documenti 'non
esistenti' ciò in quanto l'amministrazione non ha ancora
ultimato la procedura di aggiudicazione con impossibilità di
individuazione degli atti richiesti. Di qui l'impossibilità
di far decorrere i termini come indicati dal legislatore.
A fronte della situazione prospettata, e nell'impossibilità
di dare seguito alla richiesta di accesso agli atti,
l'amministrazione dovrebbe disporre il differimento dello
stesso al momento della aggiudicazione definitiva. In tal
senso depone, infatti, l'articolo 24, comma 4, della legge
241/1990 il quale recita: 'L'accesso ai documenti
amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente
fare ricorso al potere di differimento'.
---------------
[1] L'articolo 30 del d.lgs. 163/2006 rubricato
'Concessione di servizi', al comma 3 prevede che: 'La scelta
del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi'.
[2] L'Ente precisa, altresì, che tale seduta è stata sospesa
non avendo un concorrente prodotto correttamente tutta la
documentazione richiesta e che, pertanto, non essendosi
proceduto all'apertura di tutte le buste, si procederà in
tal senso in fase di riapertura della seduta stessa.
[3] In tal senso si legga TAR Ancona, sentenza del
30.03.2005, n. 274.
[4] TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del
09.02.2010, n. 52.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del
05.08.2013, n. 861; TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza
del 24.06.2013, n. 1408; TAR Lazio, Roma, sez. II, sentenza
del 24.10.2012, n. 8772; TAR Lazio, Roma, sez. III, sentenza
dell'08.07.2008, n. 6450.
[6] Si precisa che l'indicata ditta ha comunicato
all'Amministrazione che si trovava nell'impossibilità di
formulare un'offerta a causa di impegni precedentemente
presi, che saturavano la sua attuale disponibilità.
[7] Si precisa che la ditta in questione aveva, dapprima,
chiesto una proroga del termine di consegna dell'offerta
formulando una serie di quesiti connessi alla complessità
del progetto e, successivamente, 'presentava alla stazione
appaltante una nota in ordine all'impossibilità, alla luce
delle tecniche richieste, di prestare una qualsiasi offerta,
impegnandosi, tuttavia, a formulare tale offerta in caso di
gara deserta'.
[8] Cons. Giust. Amm., sentenza del 05.12.2007, n. 1087.
[9] Sul tema del rapporto intercorrente tra la trattativa
privata vera e propria e la c.d. indagine di mercato si
veda, anche, TAR Veneto, sez. I, sentenza del 04.11.2002, n.
6199.
[10] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 10.05.2005, n.
2340.
[11] Più in particolare, si trattava di una società che
aveva presentato una richiesta di partecipazione alla gara
cui aveva fatto seguito la lettera di invito del Comune; la
medesima società non aveva, tuttavia, successivamente
presentato l'offerta. Nel caso di specie vi era stato, tra
l'altro, un contraddittorio tra la società e il Comune
instaurato con un duplice scambio di note avente ad oggetto
le perplessità esternate dalla impresa sulla progettazione
dell'opera e sugli eventuali rischi idraulici derivanti
dalla realizzazione della stessa secondo le modalità
progettate.
[12] Si osserva, più precisamente, che il giudice di primo
grado ha ricordato il principio che vede la legittimazione
all'accesso documentale da parte della ditta ammessa ad una
gara ma non offerente correlandolo, tuttavia, all'ulteriore
requisito, presente nel caso esaminato dal giudice
amministrativo, della contestazione da parte dell'impresa
del comportamento di non collaborazione della pubblica
amministrazione, il quale radicherebbe in capo alla stessa
un interesse giuridicamente rilevante a conoscere gli
ulteriori atti del procedimento di gara.
[13] Per completezza espositiva, si riportano le
considerazioni espresse sempre dalla magistratura
amministrativa (TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, sentenza del
10.05.2011, n. 4081) in ordine ad una fattispecie relativa
ad un'impresa che, benché non partecipante alla gara (non
essendovi stata alcuna fase prodromica all'espletamento
della procedura concorsuale vera e propria) aveva motivato
di essere titolare di un interesse qualificato all'accesso,
'in qualità di primaria operatrice nel settore della
locazione a lungo termine di veicoli senza conducente,
aspirando, attraverso l'impugnativa di tali atti, alla
rinnovazione della procedura concorsuale ed alla
partecipazione a seguito di rinnovazione della gara'.
Il caso, benché differente nei suoi presupposti dalla
fattispecie in esame, si ritiene interessante nel punto in
cui il giudice, nel negare la sussistenza del diritto
all'accesso, afferma che: 'Con riferimento ai fatti in
controversia, la ricorrente afferma di avere una posizione
giuridica differenziata in quanto mira alla riedizione della
procedura concorsuale di cui si tratta, ancorché la medesima
non vi abbia preso parte, né abbia lamentato l'impossibilità
di prendervi parte a causa della apposizione di clausole del
bando impeditive o limitative della partecipazione alla
gara. [...] Ritiene il Collegio che il diritto di accesso
agli atti amministrativi non può estendersi ad un sindacato
generalizzato dell'intera attività nell'ambito di una
procedura concorsuale cui si è rimasti volontariamente
estranei, attraverso l'enunciazione di un interesse
meramente esplorativo, e privo dell'indicazione di alcun
principio di prova in ordine alle illegittimità che si
sarebbero perpetrate [...]'.
[14] Per completezza espositiva, si segnala come utile il
riferimento alla previsione di cui all'articolo 13, del
D.Lgs. 163 benché lo stesso non sia direttamente applicabile
alla fattispecie in esame atteso il disposto di cui
all'articolo 30, comma 1, del Codice dei contratti pubblici
il quale recita: 'Salvo quanto disposto nel presente
articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle
concessioni di servizi'. Tale articolo, concernente 'Accesso
agli atti e divieti di divulgazione', al comma 2, lett. b),
prevede che il diritto di accesso sia differito 'nelle
procedure ristrette e negoziate, e in ogni ipotesi di gara
informale, in relazione all'elenco dei soggetti che hanno
fatto richiesta di invito o che hanno segnalato il loro
interesse, e in relazione all'elenco dei soggetti che sono
stati invitati a presentare offerte e all'elenco dei
soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza
del termine per la presentazione delle offerte medesime
[...]'.
Al riguardo merita segnalare che, impregiudicata la
questione sull'esistenza del diritto ad accedere alla
documentazione presentata dalla ditta aggiudicataria, la
legge riconosce l'esistenza del diritto all'accesso ai
documenti ivi indicati ma con differimento della loro
ostensione al momento della scadenza del termine per la
presentazione delle offerte. Come affermato dalla
giurisprudenza la ratio della norma va individuata 'nell'esigenza
che, per quanto possibile, le imprese si presentino alla
gara non sulla base di accordi più o meno sotterranei, ma
sulla base delle regole dettate dal principio della
concorrenza, dato che la suindicata disposizione è orientata
non tanto alla tutela della sfera di riservatezza delle
imprese partecipanti al pubblico incanto o aspiranti
all'invito alla gara (ristretta o informale), quanto alla
garanzia della correttezza e trasparenza dei comportanti
connessi alla presentazione delle offerte o degli inviti
alla gara'. Così, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza del 12.04.2005, n. 1678; TAR Puglia Lecce, sez. I,
sentenza del 03.09.2002, n. 3827.
[15] L'articolo 25, comma 4, della legge 241/1990 prevede
che 'decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta,
questa si intende respinta [...]' (25.08.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
A.N.AC. (ex
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi
sotto i fari Anac. I responsabili corruzione spesso non
vigilano.
In un report al governo l'Authority chiede
correttivi al dlgs 39/2013.
Incarichi p.a. sotto la tutela dell'Anac. Dovranno essere
concentrati in capo all'Autorità nazionale anticorruzione,
presieduta da Raffaele Cantone, i poteri di vigilanza,
accertamento, ordine e sanzione in materia di incarichi
pubblici, perché le norme del dlgs 39/2013 hanno fallito.
Si è rivelato, infatti, illusorio pensare che il
responsabile per la prevenzione della corruzione (Rpc),
soggetto attorno a cui ruota tutto il sistema di controlli
disegnato dalla normativa del 2013, potesse svolgere un
efficace ruolo preventivo e di accertamento visto che è
nominato dagli stessi soggetti che dovrebbe controllare.
I responsabili corruzione degli enti, invece che dichiarare
tempestivamente la nullità degli incarichi irregolari,
spesso hanno «procrastinato nel tempo la dichiarazione»
soprattutto perché la nullità del contratto porta come
automatica conseguenza la sospensione per tre mesi dal
conferimento di nuovi incarichi. Una sanzione, questa, che
però nella sua automaticità va rivista. Meglio sarebbe una
sanzione amministrativa, di natura pecuniaria, da irrogare
ai componenti degli organi di indirizzo delle
amministrazioni e da graduare in rapporto al grado di
partecipazione alla condotta.
In un report, depositato il 14 settembre e inviato al
governo e al parlamento, Raffaele Cantone ha illustrato le
possibili proposte di modifica al dlgs 39, dopo aver
evidenziato nel precedente atto di segnalazione (n. 4 del 10
giugno) tutte le criticità rilevate in due anni di
applicazione della normativa. Due anni, in cui, sottolinea
l'Anac, molte cose sono cambiate. A cominciare proprio dai
poteri dell'Autorità che sono stati rafforzati e ora ne
impongono un maggiore coinvolgimento.
«Se nel 2013 il legislatore non aveva ancora costruito
l'allora Civit/Anac come vera autorità indipendente e la
stessa Commissione non era sicuramente in grado di fare
fronte a questi adempimenti», scrive Cantone, «ora la
situazione è radicalmente mutata, grazie soprattutto al dl
90/2014. L'Autorità, se chiamata a svolgere il ruolo di
vigilanza e sanzione, può oggi garantire un corretto e
imparziale svolgimento di questi compiti, considerato che,
rafforzando soprattutto la fase di controllo preventivo,
anche il numero dei procedimenti potrebbe ridursi
sensibilmente».
Oltre all'eliminazione del carattere automatico della
sanzione in caso di conferimenti di incarichi dichiarati
nulli, l'Anac chiede di svolgere un «ampio potere
suppletivo» qualora i responsabili della prevenzione
della corruzione non si attivino. Con la possibilità di
procedere a un proprio accertamento (con dichiarazione di
nullità) «quando agisca su segnalazione dei cittadini,
d'ufficio o su richiesta degli stessi Rpc».
Anche il procedimento sanzionatorio, secondo Cantone,
potrebbe essere affidato all'Anac «perché non è credibile
che esso sia svolto dal Rpc dell'amministrazione».
Ma soprattutto bisognerà puntare sulla prevenzione. Perché
con l'attuale sistema i Rpc non svolgono un'attenta verifica
sull'insussistenza delle cause di inconferibilità degli
incarichi, fidandosi delle dichiarazioni degli interessati
che spesso, osserva l'Authority nell'Atto
di segnalazione 09.09.2015 n. 5, risultano
fuorvianti, non perché ci sia dolo, «ma perché fondate su
personali interpretazioni sulla sussistenza o meno dell'inconferibilità»
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Anac,
dalla nomina nulla responsabilità alla Giunta.
Anticorruzione. Gli assessori rispondono economicamente.
Uno stop di tre mesi
per il Presidente della Regione Calabria da parte
dell’Autorità nazionale anticorruzione.
Galeotta è stata la
nomina a commissario straordinario dell’Asp di Reggio
Calabria di un candidato a sindaco al comune di Seminara.
Una scelta che non poteva essere fatta in base al Dlgs
39/2013 (articolo 8).
Ciò in quanto il precetto interessato chiarisce che gli
incarichi di direttore generale, direttore sanitario e
amministrativo nelle aziende sanitarie, locali e
ospedaliere, non possono essere conferiti a chi è stato
candidato in precedenti elezioni europee, nazionali e
regionali ma anche in Comuni ricadenti nella medesima
provincia dell’azienda di competenza. Così com’è, per
l’appunto, quello di Seminara (Reggio Calabria).
Un errore che si paga (Cantone dixit) con l’interdizione dei
componenti dell’organo che l’ha adottata che, al netto degli
assessori che c’erano e che non ci sono più, conta come
saldo solo il presidente Mario Oliverio.
La vicenda, da una parte, sa di incredibile, dal momento che
nessuna perplessità e/o eccezione al riguardo è stata fatta
presente alla Giunta all’epoca deliberante, che appare
essere stata ignara dell’evento impeditivo per non essere
stata neppure informata dell’eventualità dalla dirigenza
preposta. Dall’altra, che la misura contenuta nella
delibera
02.09.2015 n. 66 dell’Anac comporta, in base all’articolo 17 del
Dlgs 39/2013, la nullità dell’originario atto di nomina e
del relativo contratto di lavoro successivamente stipulato
(articolo 17).
Non solo. Sancisce la responsabilità di tutti
i componenti della Giunta sulle conseguenze economiche
derivanti dagli atti adottati. Insomma, un chiaro esempio di
responsabilità contabile punitiva che, nel caso di specie,
rischia di apparire sproporzionato, anche perché mette in
gioco valori economici consistenti. Ciò per due ordini di
motivi. Prioritariamente, perché nella fattispecie esaminata
dall’Anac si tratta di nomina a commissario straordinario e
non anche a direttore generale dell’Asp reggina. In
proposito, prescindendo dalle assimilazioni rintracciabili
in una certa giurisprudenza ad esse favorevoli, ve ne sono
altre dalle quali si desume l’esatto contrario, avallate
pure da una eminente dottrina.
La particolarità della
provvisorietà e dell’urgenza di procedere a nomine
commissariali straordinarie, indispensabili per sopperire a
vuoti di gestione pericolosi per la salute dell’utenza e
l’economia pubblica, dovrebbe costituire una buona
motivazione per non assimilarle a nomine definitive, con
previsioni contrattuali della durata minima di un triennio,
del tipo quelle esplicitamente codificate nella norma di
riferimento.
Ciò vale anche in relazione alla responsabilità “erariale”
che il Dlgs 39/2013 attribuisce agli organi trasgressori.
Una sanzione che, proprio perché derivante dalla nullità
della nomina interviene ex tunc su tutti gli atti
conseguenti, potrebbe raggiungere entità economiche
sproporzionate. Sanzioni che non dovrebbero trovare alcun
positivo riscontro, da parte della magistratura contabile,
per una colpa grave non affatto riscontrabile nel caso di
specie.
Quanto alle nomine che urgono, occorre in ogni caso
un’attenzione particolare nel determinarle per evitare di
incappare in nullità sopravvenienti e conseguenti ulteriori
responsabilità, anche economiche (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
LAVORI PUBBLICI: Opere, niente varianti. Modifiche solo con gara.
Anac: affidamenti negoziati in casi urgenti per evitare
danni.
In un appalto pubblico è illegittimo ricorrere alla variante
in corso d'opera se cambia lo stato dei luoghi dopo
l'aggiudicazione del contratto e occorre rinnovare la
procedura di gara. È, invece, ammesso l'affidamento dei
lavori a trattativa privata per prevenire ulteriori danni.
È
quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione con
il
parere sulla normativa 22.07.2015 - rif. AG 52/2015/AP
che delinea con
precisione i limiti per l'applicazione dell'istituto della
variante in corso d'opera.
Il caso esaminato dall'Autorità
su richiesta di parere della stazione appaltante riguardava
la possibilità di procedere alla stipula di un contratto
d'appalto integrato, avviando immediatamente dopo, con
ordine di servizio da impartire all'aggiudicataria, le
procedure della variante progettuale in corso d'opera
nell'ambito della somma aggiudicata. Era accaduto che la
stipula del contratto era stata ritardata da un contenzioso
maturato a valle dell'aggiudicazione e nel frattempo era
avvenuto un crollo che aveva modificato lo stato dei luoghi.
L'idea della stazione appaltante era stata quella di
proporre all'aggiudicatario una variante al progetto
originario da fare rientrare nel prezzo del contratto che si
sarebbe dovuto stipulare.
L'Autorità, preliminarmente, ha
ricostruito il quadro normativo all'interno del quale è
ammesso il ricorso alla variante in corso d'opera che è
possibile (ai sensi dell'articolo 132 del codice dei
contratti pubblici) per introdurre in un progetto in corso
di esecuzione variazioni non previste dal contratto e che
danno luogo ad alterazioni del prezzo d'appalto.
La
normativa circoscrive le fattispecie di variante perché le
modifiche o le estensioni apportate all'oggetto del
contratto dopo l'aggiudicazione o dopo la stipula sono
illegittime per violazione delle direttive comunitarie e
delle norme nazionali che dispongono l'obbligo della gara
pubblica a garanzia della concorrenza.
Nel caso di specie, quindi, la stazione appaltante non
poteva ordinare una variante in primo luogo perché l'evento
era sopravvenuto prima della stipula del contratto e perché
tale circostanza aveva reso il contratto non più coerente,
in ragione delle circostanze sopravvenute, con lo stato di
fatto alla base del progetto e, dunque, non più rispondente
alle esigenze dell'amministrazione. In secondo luogo,
l'Autorità ritiene che il ricorso alla variante non sia
possibile anche perché le variazioni al progetto posto a
base di gara, dopo il crollo, non erano di scarsa entità.
In sostanza la presenza di modifiche progettuali di non
scarsa importanza, idonee con ogni probabilità a condurre a
un esito diverso della procedura selettiva (diverso
aggiudicatario e diverso prezzo di aggiudicazione),
imponevano anche ai sensi della giurisprudenza comunitaria,
la rinnovazione della procedura di gara.
L'Anac ha riconosciuto invece alla stazione appaltante, per
fare fronte con estrema urgenza a una situazione che
appariva avviata a un progressivo deterioramento, senza
potere attendere i tempi imposti dai termini delle procedure
delle gare, la possibilità di affidamento tramite procedura
negoziata senza previa pubblicazione di bando. Ma per il
resto occorreva ricominciare con una nuova gara
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
NEWS |
APPALTI:
Riforma
appalti, niente regolamento. Edilizia. Delrio conferma la
semplificazione.
Via al recepimento tramite il Codice, senza
transitare dal regolamento. E più poteri alle linee guida
dell’Anac di Raffaele Cantone, che saranno però sottoposte a
un parere (non vincolante) del Parlamento.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri in
commissione Ambiente alla Camera si è per la prima volta
pronunciato sulle modifiche che il Governo ha intenzione di
portare al Ddl delega di recepimento delle direttive appalti
(Atto
Camera n. 3194).
Tutto ruota attorno a un emendamento che cancellerà il
regolamento dai radar della riforma e che sarà presentato
all’inizio della prossima settimana. Anche se non è il solo
intervento in preventivo: qualcosa cambierà sul fronte dei
lavori in house delle concessionarie.
Il presidente dell’ottava commissione, Ermete Realacci fa il
punto sul calendario. «È evidente che non possiamo far
proseguire i lavori senza la proposta di modifica del
Governo». Il riferimento è all’emendamento annunciato
ieri formalmente da Delrio: cancellazione del regolamento di
attuazione del Codice, con un ruolo più pesante per le linee
guida dell’Anac. A monitorare il lavoro dell’Autorità ci
sarà il Parlamento. Alcuni dettagli dell’intervento, però,
sono oggetto di limature. In attesa di questi aggiustamenti,
la commissione starà ferma. «Tra lunedì e martedì
-prosegue Realacci- aspettiamo le proposte del Governo. Le
votazioni partiranno lunedì 28 settembre». Sul piatto
non c’è solo il tema del regolamento. Dal Governo è attesa
una proposta anche sul tema dei lavori in house delle
concessionarie.
A completare il quadro ci saranno alcune proposte della
maggioranza e della relatrice, Raffaella Mariani. Che ieri
in una giornata di studi sugli appalti, organizzata da Tor
Vergata e ospitata dall’Antitrust, ha confermato anche la
scelta di spostare sui controlli il bonus del 2%
riconosciuto ai progettisti della Pa. Norme più stringenti
arriveranno anche per facilitare l’accesso agli appalti da
parte delle Pmi, come chiesto ieri dal presidente della
Piccola Industria di Unindustria Angelo Camilli.
Dall’Antitrust sono arrivate la proposta di una patente a
punti per valutare la reputazione delle imprese e la
richiesta di stringere le maglie sugli appalti in house,
limitando questa possibilità alle società a capitale
interamente pubblico. Vero che le direttive su questo punto
aprono alla presenza di privati. «Ma si tratta di una
norma a recepimento volontario», ha chiarito Valentina
Guidi, dirigente del dipartimento Politiche europee di
palazzo Chigi (articolo Il Sole 24 Ore
del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Sono ancora fuorilegge i semafori troppo moderni.
Devono ancora restare spenti i diffusi semafori laser in
grado di attivarsi all'arrivo di veicoli troppo veloci. E
non possono neanche essere posizionati regolarmente i
tabelloni luminosi che evidenziano all'utente il tempo
residuo di accensione delle lanterne semaforiche.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere
n. 3805/2015.
Un comune friulano ha richiesto indicazioni sulle nuove
opportunità tecnologiche introdotte dall'art. 60 della legge
120/2010, ovvero sulla possibilità di installare ai semafori
sistemi avanzati in grado di misurare la velocità dei
veicoli e variare conseguentemente il ciclo delle lanterne.
Oppure semplicemente posizionare tabelloni luminosi agli
incroci per evidenziare agli utenti in transito la durata
residua dei cicli semaforici.
Al momento resta tutto invariato ovvero vietato, ha
specificato il ministero. L'art. 60 della legge di riforma
stradale dell'agosto 2010 rinvia infatti ad un decreto
ministeriale la definizione delle caratteristiche per
l'omologazione e per l'installazione di questi ingegnosi
dispositivi.
Questo decreto, anche se in fase di completamento, non è
però ancora stato emanato, specifica il parere centrale, e
peraltro diventerà efficace solo dopo 6 mesi dalla sua
emanazione. I dispositivi di count down, specifica la
nota, non dovranno interferire con alcun sistema di
controllo del traffico e nemmeno con il ciclo semaforico.
Inoltre secondo il ministero non sarà possibile installare
dispositivi che variano il ciclo delle lanterne in relazione
alla velocità dei veicoli, nonostante le diverse indicazioni
della legge 120/2010. Sul territorio nazionale sono state
effettuate sperimentazioni ma ancora nessun congegno è stato
omologato e può essere utilizzato. In pratica allo stato
attuale i semafori più o meno intelligenti restano fuori
legge.
L'unica funzione ammessa dalla normativa per gli impianti
semaforici è ancora quella prevista dall'art. 158 del
regolamento stradale, ovvero regolare i flussi del traffico
senza interferenze tecnologicamente troppo sviluppate. Tutte
le postazioni attive e troppo creative non sono pertanto
conformi alla normativa stradale e vanno spente
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Diplomati
tecnici in forse. Accesso al tirocinio a misura di
professione.
Le posizioni delle categorie in attesa di
chiarimenti di Miur e Giustizia.
Nuovi diplomati tecnici appesi a un
filo. O meglio, in balia dei ministeri della giustizia e
dell'istruzione.
Dopo la circolare con cui il Miur ha fissato nel IV livello
di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate dal
nuovo titolo di istruzione tecnica, i ragazzi che a luglio
scorso sono entrati in possesso del diploma stanno andando
incontro a sorti differenti (si veda ItaliaOggi del
28.08.2015).
A seconda della categorie interessate (periti industriali,
geometri, periti agrari e agrotecnici) le soluzioni proposte
per le iscrizioni ai tirocini cambiano. Almeno per ora. Il
22 settembre prossimo, infatti, presso il Miur è in
programma un incontro interlocutorio tra i presidenti delle
categorie e i funzionari che si stanno occupando della
vicenda nella speranza che anche il dicastero del ministro
Andrea Orlando si faccia sentire. In attesa, però, che la
politica faccia il suo corso le categorie hanno dovuto
scegliere quale strada percorre.
Divisi tra coloro che ritengono che il contenuto della
circolare non imponga alcun tipo di restrizione e coloro che
invece ritengono che la circolare metta un punto ad una
questione su cui il Miur aveva sempre taciuto, in ballo c'è
il futuro di migliaia di ragazzi in fila per le iscrizioni.
E se i neodiplomati in questione sono aspiranti periti
agrari la risposta che si sentiranno dare è un «forse».
Come, infatti, ha sottolineato il presidente del Centro
studi Aspera (Associazione periti agrari) Andrea Bottaro, «è
necessario che i ragazzi abbiano pazienza. Posto che secondo
noi i neodiplomati non hanno effettivamente i requisiti per
l'accesso al tirocinio in quanto, di fatto, non in possesso
del titolo di periti agrari perché il nuovo diploma non lo
prevede, stiamo mettendo in piedi una confronto con il
ministero della giustizia affinché questi giovani possano
usufruire dell'equivalenza del titolo», ha spiegato
Bottaro, «così facendo, in un secondo momento potremo,
prima farli iscrivere al tirocinio e, successivamente, fare
arrivare i ragazzi ad un livello di preparazione tale da
permettergli di fare l'esame finale». Per ora, quindi,
tutti in fila in attesa. Situazione diversa, invece, quella
dei periti industriali che ritengono che la circolare non
lascia dubbi di sorta circa l'impossibilità di far accedere
i ragazzi al tirocinio.
«Al momento abbiamo dato l'input ai nostri uffici di non
accettare le iscrizioni dei neodiplomati», ha spiegato a
ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale dei periti
industriali e dei periti industriali Laureati, Giampiero
Giovannetti, «fino a che non arriveranno chiarimenti dai
ministeri le porte sono chiuse. Non possiamo, infatti,
correre il rischio di far iscrivere dei ragazzi e poi dover
dire loro a percorso iniziato che non possono più avere
accesso all'esame perché privi dei requisiti necessari».
Strade percorribili, quindi, o l'iscrizione all'università o
un percorso presso gli istituti tecnici superiori, con tutte
le conseguenze del caso. Ipotesi diametralmente opposta,
quella di geometri e agrotecnici. Per entrambi, infatti, se
pur con motivazioni differenti non sussistono dubbi di sorta
circa la possibilità di fare iscrivere i ragazzi
neodiplomati.
«Per quanto riguarda la nostra categoria», ha
spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale
geometri e geometri laureati Maurizio Savoncelli, «i
riferimenti normativi sono chiari ( dpr 328/2010 e legge
75/1985) e ci danno la possibilità di far iscrivere senza
nessun problema i ragazzi al praticantato. Esiste, infatti,
raccordo normativo tra il vecchio e il nuovo diploma».
Per gli aspiranti geometri, quindi, nessun problema e
iscrizioni aperte. Stessa sorte, infine, anche per gli
aspiranti agrotecnici
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Riforma
appalti, progetti della Pa senza bonus 2%. Delrio in
commissione per sciogliere il nodo regolamento.
Contratti pubblici. Semplificazioni sul subappalto tra gli
emendamenti della relatrice Mariani.
Sarà Graziano Delrio
oggi in commissione Ambiente della Camera a sciogliere gli
ultimi nodi sulla riforma degli appalti (Atto
Camera n. 3194). Primo fra tutti quello della
normativa secondaria che dovrà attuare il nuovo codice degli
appalti: il ministro delle Infrastrutture confermerà la sua
posizione, che si può fare a meno del regolamento generale,
per fare posto a una soft law guidata dall'Anac di
Raffaele Cantone.
Il ministro dovrà anche spiegare che tipo di soft law
ha in mente e dovrà in sostanza anticipare i contenuti
dell'emendamento che i suoi uffici stanno ancora
predisponendo e che dovrebbe essere presentato fra domani e
l'inizio della prossima settimana.
Intanto la relatrice del disegno di legge in commissione,
Raffaella Mariani (Pd), ha pronti alcuni emendamenti che
dovrebbero riformulare parzialmente alcuni dei criteri di
delega contenuti nel testo approvato a Palazzo Madama.
Sul subappalto, per esempio, Mariani è orientata a
semplificare la procedura di gara spostando l'obbligo di
presentazione della terna di subappaltatori per ogni
tipologia di lavorazione (prevista dalla lettera LLL) dal
momento della presentazione dell'offerta in gara a quello
dell'aggiudicazione.
L'altra questione che si dovrebbe risolvere, con un
emendamento della relatrice, è l'incentivo del 2% dato ai
dipendenti pubblici o alle strutture della PA che effettuano
progettazioni. Una vecchia questione fortemente distorsiva
del mercato della progettazione in termini di concorrenza e
di qualità del risultato finale. L'emendamento Mariani
dovrebbe lasciare l'incentivo del 2% alle strutture interne
delle amministrazioni, ma dovrebbe essere sposato su
attività che la Pa svolge effettivamente in esclusiva, come
la programmazione o l'esecuzione contrattuale.
Quella dell'eliminazione del regolamento e del tipo di
soft law che dovrebbe sostituirlo è l'ultima grande
questione aperta del nuovo codice appalti, ma non è affatto
secondaria. Non a caso sta bloccando i lavori della
commissione Ambiente che ha sul tavolo già dai primi di
agosto gli emendamenti dei gruppi.
«Non ha senso riprendere i lavori per affrontare aspetti
marginali quando abbiamo davanti questa questione
fondamentale da affrontare», dice il presidente della
commissione Ambiente, Ermete Realacci. «La correttezza e
la trasparenza del passaggio parlamentare -aggiunge-
richiede questa condizione. C'è accordo con il ministro che
la discussione debba riprendere da questo emendamento, anche
perché i gruppi e i relatori avranno poi la possibilità di
presentare subemendamenti».
Il primo obiettivo che l'abolizione del regolamento vuole
ottenere è una grande semplificazione della struttura
normativa che governa il settore. Il secondo, non meno
importante nella decisione iniziale di procedere su questa
strada, è consentire realisticamente il recepimento delle
direttive europee 23, 24 e 25 del 2014 entro il termine del
18 aprile con l'approvazione del solo codice senza dover
approvare contemporaneamente anche il regolamento, come
aveva previsto il testo del Senato (ma non quello originario
del Governo).
L'altro aspetto per cui si attende da Delrio un'indicazione
è come debba essere prodotta la «soft law», a quale
condizione essa possa procedere senza trovare ostacoli di
legittimità generale e come possa essere ricondotta a
coerenza l'enorme mole di poteri affidati all'Autorità
nazionale anticorruzione, che, dopo i poteri di vigilanza,
acquisirà quelli fondamentali di regolazione del settore e
ora anche di regolamentazione.
La scuola di pensiero che oggi sembra prevalere è che il
regolamento dovrebbe essere sostituito da una o più linee
guida generali dell'Anac, approvate subito dopo l'entrata in
vigore del codice. Una sorta di regolamento semplificato e
flessibile che poi sarebbe a sua volta attuato con
linee-guida di settore.
Non è escluso che i tempi lunghi dell'emendamento
governativo siano dati anche dalla necessità di stabilire un
coordinamento con l'Autorità Anticorruzione che ha fatto già
sapere di essere in grado di far fronte al nuovo compito, ma
ha bisogno di conoscere anche le modalità in cui esso sarà
esercitato (articolo Il Sole 24 Ore
del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Verbali
stradali, salgono le spese.
Notifiche, da oggi via agli aumenti.
Da oggi, le spese di accertamento e notifica sui verbali di
violazione al codice della strada, accertate dalla Polizia
Stradale, passano a 15,23 euro. Somme che, a seguito di
intervenute modifiche normative o sulla base di maggiori o
minori costi di accertamento, potranno essere rideterminate
con successivi provvedimenti.
È quanto si prevede nel testo del dm Interno 08.07.2015
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 214 di ieri con cui
si determinano i nuovi importi a carico dei trasgressori di
norme del Codice della strada, quando tali violazioni sono
accertate dal personale della Polizia di stato.
Pertanto, a partire dal 16.09.2015, i verbali di
accertamento conteranno, oltre all'importo della sanzione
amministrativa, anche la somma di 15,23 euro quale spesa di
notifica, i cui costi sono anticipati da Poste Italiane. Il
dm specifica, altresì, che entro il 30 novembre e il 31
maggio di ogni anno il Servizio Polizia Stradale provvede a
verificare le spese di accertamento e di notifica dei
verbali di contestazione dovute a Poste, così da assicurare
l'idonea copertura economica delle suddette attività.
Con tali somme, si leggo e nel decreto, si rimborsa la
società Poste Italiane per la fornitura degli adeguamenti
dei software, già nella disponibilità della Polizia
Stradale, nonché per i costi relativi all'hardware e al
software di base necessari a supportare tali applicativi.
Sotto questo profilo, il dm in osservazione, prevede inoltre
che i vertici della Polstrada potranno segnalare una
rideterminazione degli importi dovuti a titolo di spese di
notifica, alla luce di intervenute modifiche normative,
ovvero sulla base dei maggiori o minori costi di
accertamento per il responsabile del pagamento, derivanti
dalle innovazioni tecnologiche e dall'applicazione di nuove
soluzioni informatiche ai servizi resi da Poste Italiane
alla stessa Polizia Stradale
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Disabili,
nuovi contrassegni.
Niente sanzioni.
Da ieri non si possono più utilizzare i vecchi contrassegni
arancioni che agevolano la circolazione e la sosta delle
persone invalide. Ma i comuni che non hanno ancora adeguato
la segnaletica stradale con i nuovi simboli blu europei non
rischiano sanzioni. Purché gli impianti siano ancora
dignitosi e comprensibili.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere
n. 3630/2015.
Il dpr 151/2012 ha introdotto novità per i veicoli al
servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art.
381 del regolamento stradale. Il nuovo contrassegno, di
colore blu, deve essere esposto sempre in originale nella
parte anteriore del veicolo in modo chiaramente visibile per
consentire i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per
l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei
casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità
di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del
contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un
autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di
non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato
accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per
gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino
già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a
pagamento gestite in concessione, un numero di posti
destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di
contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni
cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili.
Per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce
che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il
simbolo della carrozzella diventa blu. La sostituzione del
vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica
dovevano però completarsi entro il 14.09.2015. Per questo
motivo un comune ritardatario ha richiesto chiarimenti al
ministero.
A parere dell'organo centrale è consentito mantenere in
opera, temporaneamente, anche la segnaletica obsoleta purché
ancora comprensibile. In buona sostanza il comune non
rischia multe
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
Madia firma il decreto sulla mobilità.
Ora il testo andrà alla corte conti e poi in g.u..
Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha
firmato il decreto ministeriale sulla mobilità del personale
delle province. Il provvedimento sarà quindi inviato alla
Corte dei conti per poi essere pubblicato in Gazzetta
Ufficiale. E a quel punto scatterà il cronoprogramma,
fissato dal provvedimento, che porterà i 18 mila dipendenti
provinciali in sovrannumero ad accasarsi presso altri enti (in
primis regioni e comuni, ma anche enti del Servizio
sanitario nazionale, mentre per quanto riguarda le
amministrazioni statali il principale ricettore dei
dipendenti provinciali sarà il ministero della giustizia).
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov»
gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni
dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti
pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i
posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre
decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa
rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i dipendenti in sovrannumero (compreso il
personale di polizia provinciale e i dipendenti della Croce
rossa italiana) avranno 30 giorni di tempo per presentare le
istanze di mobilità in relazione all'offerta di posti,
compilando il modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov».
Al fine di favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo
schema di decreto prevede una serie di criteri.
I dipendenti in comando o fuori ruolo verranno
prioritariamente assegnati alle amministrazioni in cui
prestano servizio. Analogamente, la polizia provinciale
verrà prioritariamente destinata ai comuni con funzione di
polizia locale, mentre al ministero delle infrastrutture
andranno coloro che nelle province si occupavano della
gestione degli albi provinciali degli autotrasportatori.
A parte questi criteri particolari, regola generale sarà
l'assegnazione dei dipendenti in sovrannumero alle regioni e
agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e
quelli del Ssn. Per i lavoratori della Croce rossa, la
mobilità sarà verso le amministrazioni statali con priorità
per il ministero della giustizia. Sul piano individuale sarà
favorito chi gode dei benefici della legge 104/1992 e chi ha
figli fino a tre anni di età.
Sul provvedimento, come si ricorderà, non è stata raggiunta
l'intesa in Conferenza unificata. Ma ciononostante il 4
settembre scorso il consiglio dei ministri ha deciso di «autorizzare»
ugualmente il ministro Madia «a dare corso alla
definizione dei criteri per la mobilità del personale
dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta
dichiarati in sovrannumero»
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Accensione caldaie per zone.
Deroghe con i contabilizzatori che consentono di regolare la
temperatura.
Impianti. Entro poche settimane in funzione in buona parte
d’Italia con vincoli di orari giornalieri.
Tra un mese,
in buona parte d’Italia, si accenderanno le caldaie nei condomìni con impianto centralizzato. Un appuntamento
fondamentale per l’economia, dato che uno studio della Ue
sul piano di efficienza energetica 2011 ha sottolineato che
gli immobili rappresentano il 40% del consumo finale di
energia dell’Unione. Inoltre, gli edifici sono stati
ritenuti fondamentali per conseguire l'obiettivo dell’Unione
di ridurre dell’80-95% le emissioni di gas serra entro il
2050 rispetto al 1990.
Presso ogni impianto termico centralizzato, che serva quindi
almeno due unità immobiliari residenziali e assimilate, il
proprietario o l'amministratore devono esporre una tabella
contenente:
-
l’indicazione del periodo annuale di esercizio dell'impianto
termico e dell'orario di attivazione giornaliera prescelto;
-
le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto
termico;
-
il codice dell’impianto assegnato dal Catasto territoriale
degli impianti termici istituito dalla Regione o Provincia
autonoma.
Non in tutta Italia è possibile mettere in funzione
l'impianto di riscaldamento nello stesso giorno. Il
legislatore ha infatti suddiviso l’Italia in sei zone
climatiche (si veda la scheda qui a lato). E per ciascuna di
esse è stata stabilita la durata giornaliera di accensione.
La maggioranza del territorio ricade, nel Centro-Nord, in
zona E o D, mentre al Sud in zona B e C; in zona F è l’arco
alpino e in zona A pochi Comuni delle isole meridionali.
Al di fuori di tali periodi, gli impianti termici possono
essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche
che ne giustifichino l'esercizio e, comunque, con una durata
giornaliera non superiore alla metà di quella consentita in
via ordinaria. I sindaci, con propria ordinanza, possono
ampliare o ridurre, a fronte di comprovate esigenze, i
periodi annuali di esercizio e la durata giornaliera di
attivazione, nonché stabilire riduzioni di temperatura
ambiente massima consentita sia nei centri abitati sia nei
singoli immobili.
Nell’arco temporale indicato, i condomìni possono scegliere
gli orari di funzionamento purché lo stesso sia compreso tra
le ore 5 e le ore 23.
È però consigliabile non interrompere il funzionamento. Il
maggior dispendio di energia (e quindi il maggior costo) si
ha infatti con l’accensione per portare l'acqua alla
temperatura utile. Per il resto della giornata vi è dunque
solo la necessità di mantenere tale temperatura. Lo
spegnimento della caldaia durante il giorno per alcune ore
non porta quindi a un risparmio ma a un maggior costo.
Negli edifici a uso residenziale, sono però ammesse deroghe
al funzionamento dell’impianto di riscaldamento per quanto
riguarda la durata giornaliera. Tra le principali vengono
indicate le seguenti:
se il calore proviene da centrali di cogenerazione oppure se
vi siano pannelli radianti incassati nell'opera muraria;
se vi è un gruppo termoregolatore pilotato da una sonda di
rilevamento della temperatura esterna con programmatore che
consenta la regolazione almeno su due livelli della
temperatura ambiente nell'arco delle 24 ore; la temperatura
negli ambienti deve essere pari a 16°C + 2°C di tolleranza
nelle ore al di fuori della durata giornaliera;
se in ogni unità immobiliare sia installato un sistema di
contabilizzazione del calore e un sistema di
termoregolazione della temperatura con un programmatore che
consenta la regolazione almeno su due livelli della
temperatura nell'arco delle 24 ore;
se l’impianto termico è condotto mediante “contratto di
servizio energia” purché la temperatura negli ambienti,
durante le ore al di fuori della durata di legge, non siano
superiori ai 16°C + 2°C di tolleranza.
Si consideri, infine, che entro il 31.12.2016 tutti
gli edifici nei quali vi è un impianto centralizzato, ove
tecnicamente possibile e se vi sia un buon rapporto
costi/benefici, dovranno essere dotati di sistemi di
contabilizzazione e termoregolazione.
---------------
Non si possono superare i 22 gradi.
Comfort. Nulle le delibere in contrasto.
Negli edifici
a carattere residenziale, durante il funzionamento
dell'impianto di riscaldamento (prodotto da impianti sia
centralizzati sia autonomi), la media delle temperature
dell'aria, misurate nei singoli ambienti riscaldati di
ciascuna unità immobiliare, non deve superare i 20°C + 2°C
di tolleranza (si veda la scheda nella pagina).
È nulla (quindi impugnabile in ogni tempo) la delibera
condominiale che dovesse decidere di tenere una temperatura
più elevata.
L’impianto termico condominiale, quindi, deve essere in
grado di erogare tale calore. In caso contrario, il
condòmino che non riuscisse ad avere la temperatura di legge
nella propria unità immobiliare, può provocare una delibera
attinente agli eventuali interventi necessari per la piena
funzionalità dell’impianto. Nel caso in cui l’assemblea non
deliberasse le opere necessarie, può rivolgersi direttamente
all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che
obblighi il condominio ad adottare quanto necessario per
sopperire guasti o deficienze dell’impianto ed
eventualmente, ove ne ricorrono i presupposti, richiedere il
risarcimento del danno.
Nel frattempo, però, non può sospendere il pagamento degli
oneri condominiali lamentando il disservizio. Il condominio,
d’altro canto, non può pretendere che per ovviare al
malfunzionamento il condomino stesso sia tenuto ad
effettuare interventi a proprie spese nella suo appartamento
(Cassazione sentenza 19616/2012).
La norma, però, non va intesa nel senso che anche i
condòmini siano costretti a tenere questa temperatura nelle
proprie unità immobiliari. Le leggi in materia di
contenimento dei consumi energetici e di riduzione dello
scarico in atmosfera dei prodotti della combustione (gas ad
effetto serra) incentivano la riduzione della temperatura
negli ambienti.
Il Dlgs 04.07.2014 n. 102, all’articolo
9, comma 5, prevede che ciascuno sia tenuto a contribuire ai
costi per il riscaldamento solo per il calore che
effettivamente ha prelevato dai termosifoni (oltre a una
quota fissa riferita alle dispersioni e alle spese generali
per la manutenzione dell’impianto). Ne consegue che per
risparmiare danari o perché l’alloggio non è abitato, i
condomini potranno tenere le valvole termostatiche
parzialmente o totalmente chiuse, con conseguente minore
temperatura nell’appartamento.
I condomini confinanti che devono prelevare maggior calore
dai propri termosifoni per compensare quel calore che viene
ceduto agli alloggi freddi, non possono pretendere nulla né
dal vicino né nei confronti del condominio in sede di
ripartizione della spesa complessiva del riscaldamento
mediante l’adozione dei cosiddetti coefficienti correttivi.
Questi, infatti, sono vietati dalla legge, anche per quegli
appartamenti posti all’ultimo piano o a Nord.
Nemmeno un regolamento avente natura contrattuale (allegato
al primo atto di vendita e richiamato per accettazione in
tutti i successivi) potrà prevedere “compensazioni” o
obblighi di tenere una determinata temperatura negli
alloggi. Lo stesso, infatti, sarebbe contrario a norme
imperative.
Nel caso in cui in un’unità immobiliare dovessero passare le
tubazioni della rete di distribuzione che porta il calore
negli altri alloggi, non potrà essere richiesto alcun
pagamento al condomino. Infatti, l’attraversamento della
proprietà individuale non determina alcuna appartenenza, ma
semmai implica una servitù a carico dell’appartamento
interessato (Tribunale Milano, sezione XIII, sentenza del 26.01.2012) (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuova
«pagella verde» per gli immobili. Dal primo ottobre cambiano
calcoli e documenti per misurare i consumi.
Efficienza energetica. Ape obbligatorio per affittare o
vendere l’immobile ma i vecchi certificati sono validi se
non si eseguono lavori.
Dopo tre mesi di
rodaggio, per adeguarsi al sistema, il
nuovo modello di
attestato energetico per gli immobili è pronto a entrare in
vigore: dal 1° ottobre cambiano le modalità per la
compilazione dell’attestato di prestazione energetica (o
Ape) degli edifici e delle unità immobiliari.
La normativa di riferimento, che modifica il Dlgs 192/2005 e
attua in Italia la direttiva europea 2010/31/Ue, è contenuta
nelle linee guida emanate dal ministero dello Sviluppo
economico lo scorso 26 giugno (pubblicate sulla Gazzetta n.
162/2015). Il nuovo «certificato» che attesta i consumi
energetici dell’immobile è composto da cinque pagine,
suddivise in due parti: una prima più generica, di facile
comprensione per tutti, dove viene indicata la classe
energetica dell’immobile, l’indice di prestazione energetica
globale (da energia non rinnovabile e rinnovabile) e dove
sono riportate le raccomandazioni per migliorare
l’efficienza dell’edificio attraverso gli interventi più
significativi ed economicamente convenienti. Nella seconda
parte si trovano informazioni più di dettaglio e di maggior
contenuto tecnico, utili agli addetti al lavori per una
conoscenza più approfondita dell’edificio o
dell’appartamento.
Cosa cambia
Anche se nella denominazione l’attestato di prestazione
energetica ha sostituito ormai da due anni il vecchio
attestato di certificazione energetica (Ace) fino ad oggi,
di fatto, le modalità di compilazione erano rimaste ferme al
passato. Ora si cambia. Innanzitutto, aumenta il numero dei
servizi energetici presenti in casa che vengono presi in
considerazione ai fini dell’esame di efficienza: oltre alla
climatizzazione invernale e alla produzione di acqua calda
sanitaria, vengono esaminati –se presenti– la
climatizzazione estiva e la ventilazione meccanica.
Per gli edifici terziari si tiene conto anche
dell’illuminazione e dei servizi di trasporto a persone o
cose (ascensori e montacarichi). Non solo. Dal 1° ottobre,
la performance del fabbricato o dell’alloggio è ricavata
confrontando l’unità con il cosiddetto edificio standard, un
fabbricato “ombra” in tutto e per tutto analogo al progetto
reale, ma progettato in condizioni ottimali. Come in
passato, il giudizio finale è espresso in classi di merito
identificate da lettere, dalla A (la più virtuosa) alla G.
I livelli complessivi sono 10 (prima erano sette): i primi
quattro fanno tutti riferimento alla lettera A, con quattro
gradazioni, da A4 (il più efficiente) ad A1.
Ultima novità di rilievo è che decadono i sistemi regionali
per il calcolo delle prestazioni dell’edificio. Pregio della
nuova norma, infatti, è essere riuscita infatti a far
dialogare le Regioni, riportando la metodologia di esame
delle prestazioni a un unico sistema nazionale, con poche
eccezioni.
Per chi è obbligatorio
La nuova targa energetica è composta secondo le nuove regole
in tutti i casi di nuova costruzione o risanamento di uno
stabile già esistente. Nei casi di vendita o affitto
dell’unità immobiliare l’attestato è prodotto secondo il
nuovo modello solo se non è già presente un vecchio Ape o
Ace ancora in corso di validità (il documento ha una vita di
10 anni, salvo lavori di ristrutturazione tali da modificare
le prestazioni energetiche del fabbricato).
Per chi dovrà rifare l’Ape (non a fronte di lavori di
recupero, ma per naturale scadenza), uno dei risvolti (forse
non graditi) nel passaggio dal sistema regionale a quello
unico nazionale sarà la possibilità che si verifichino
“declassamenti”. In pratica, la casa, che magari era stata
venduta come performante e in classe A secondo la scala
adottata dal territorio di riferimento, potrebbe finire
bruscamente in classe B.
Le sanzioni
Se in passato la verifica sugli attestati è sempre stata
blanda, dal prossimo mese i controlli scatteranno d’obbligo
da parte delle Regioni almeno sul 2% degli Ape, a partire da
quelli che dichiarano classi più efficienti. Se manca
l’attestato per gli edifici di nuova costruzione e per
quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il
costruttore o il proprietario sono puniti con una sanzione
amministrativa che parte da un minimo di tremila euro, ma
può arrivare fino a 18mila.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il
venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e
i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel
secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la
nullità dell’atto di trasferimento dell’immobile o del
contratto di affitto.
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L’attestato trova lo standard unico.
L’iter. Stop ai diversi sistemi regionali.
Una delle
principali novità che scatteranno con l’entrata in vigore
del nuovo attestato di prestazione energetica sarà il
ritorno a un sistema di calcolo unico, nazionale, per
arrivare alla definizione delle performance energetiche
dell’edificio e dunque all’attribuzione delle classi di
merito.
Il lavoro per il ritorno all’omogeneità, anche dove erano
stati sviluppati negli anni passati sistemi regionali di
certificazione, è partito da settimane: la prospettiva è una
semplificazione per i cittadini che devono far redigere la
targa energetica.
Dal 1° ottobre, ad esempio, il modello di Ape sarà conforme
a quello nazionale anche in Lombardia, la Regione che più di
altre aveva tenuto in passato una linea autonoma. A
stabilirlo è una delibera, la n. 3868 del 16.07.2015.
L’attestato –che in questa Regione è necessario anche per
gli immobili senza impianti– sarà ritenuto valido tuttavia
solo se prodotto attraverso l’utilizzo del software
Cened+2.0 (la versione beta è già disponibile online) o di
un software commerciale che però abbia ricevuto il via
libera da parte di Infrastrutture Lombarde (la società che
gestisce l’accreditamento locale). Ogni targa energetica
continuerà, inoltre, a prevedere un costo di emissione di 50
euro. Infine, sul territorio amministrato dalla Giunta
Maroni, continueranno a poter rilasciare gli Ape solo le
persone fisiche e non le società.
Nessuna differenza fra il sistema nazionale e quello
regionale, invece, in Emilia Romagna, dove la Regione ha
recepito in estate le linee guida con la Dgr 967 del 20.07.2015. Stessa linea quella che dovrebbe essere
adottata dal Piemonte, dove da qualche tempo è stata
abrogata la legge 13/2007, che dettava la metodologia per la
certificazione energetica degli edifici e dove sta per
uscire una delibera di recepimento del Decreto del 26 giugno
scorso.
L’unica eccezione a un quadro di generale uniformità arriva
dalle Province autonome. La Provincia di Bolzano, che con il
sistema Casaclima ha dimostrato da tempo di aver recepito
interamente la direttiva comunitaria 2010/31/Ue, potrà
mantenere attivo (come prescrive lo stesso decreto di
giugno) un proprio sistema, che pur deve essere il più
possibile reso vicino a quello statale. Ciò significa che,
in Alto Adige, gli Ape continueranno a seguire il sistema
locale, che già tiene conto per il residenziale delle
performance dell’edificio per la climatizzazione estiva
dell’immobile e della ventilazione meccanica dello stesso.
In Provincia di Trento, dove il metodo di calcolo da sempre
è quello nazionale della norma Uni, è infine in corso una
verifica per capire se sia possibile o meno mantenere un
sistema peculiare di attribuzione delle classi, che (come
già in passato) si basa sul consumo effettivo di energia,
anziché sul raffronto con l’edificio tipo. «Una riflessione
–spiegano dagli uffici tecnici– che è in corso e che
presto definiremo» (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
sul personale niente risparmi nel 2015. Senza la
ridefinizione delle funzioni in tutte le Regioni non partono
gli elenchi nominativi degli «esuberi».
Riforma Delrio. Gli enti che hanno stanziato solo parte
delle risorse in previsione dei trasferimenti devono
rivedere i conti per garantire gli stipendi.
Quali speranze
hanno i dipendenti della provincia di vedere la conclusione
della loro vicenda? Potranno trovarsi, un giorno,
tranquilli, anche se presso un diverso datore di lavoro?
I dubbi sono oggi più che legittimi in quanto, rispetto alla
tabella di marcia disegnata dal Governo, i tempi si stanno
allungando parecchio. Uno dei primi passi per poter dar
corso all’incontro fra domanda e offerta di lavoro
prospettato dalla Funzione pubblica è rappresentato
dall’atto, adottato dalle amministrazioni provinciali, con
il quale vengono individuati nominativamente i dipendenti da
considerare in soprannumero. Ma quale è il dirigente che si
prende la responsabilità, oggi, di adottare questa
determina?
Tuttora, ci sono elementi che incidono su questa
scelta e che non risultano delineati. Per poter procedere
alla compilazione dell’elenco nominativo è necessario che
vengano individuate le funzioni che restano in capo agli
enti di area vasta, siano esse fondamentali oppure delegate
dalle regioni. In sostanza, serve la legge regionale con la
quale si individuano i compiti che le stesse amministrazioni
si riservano di svolgere direttamente e quelle che invece
scelgono di ri-delegare agli enti di area vasta. In questo
modo, sono quantificati i dipendenti che vengono trasferiti
e quelli che restano nei ruoli delle ex Province.
Molte
regioni non hanno ancora provveduto in tal senso, e per
questa ragione il processo è bloccato. Anche nell’ipotesi in
cui questa fase dovesse subire un’improvvisa accelerazione,
magari per effetto delle sanzioni introdotte dal decreto
enti locali per le Regioni che non chiuderanno la procedura
entro fine ottobre, lo stop verrebbe dalla mancanza dei
criteri sulla mobilità, previsti dal comma 423 della legge
di stabilità 2015. Infatti, mentre è stato approvato il
decreto con il quale sono fissate le tabelle di
equiparazione fra le categorie dei diversi comparti
pubblici, il provvedimento sui criteri è stato esaminato in
sede di conferenza unificata (e anticipato sul Sole 24 Ore
del 15 luglio), ma non ha ancora visto il varo definitivo. È
evidente che, in assenza di regole, la procedura non può
essere portata a termine.
Ne consegue che il calendario delle operazioni
inevitabilmente slitta. Ma questo procrastinarsi non è del
tutto indolore. Sorge, innanzitutto, il problema di dare
certezza allo stipendio dei dipendenti ex provinciali. Le
norme garantiscono loro, in caso di mobilità, il trattamento
fondamentale e il salario accessorio, limitatamente alle
voci con carattere di generalità e natura fissa e
continuativa. Stante l’assenza di una definizione, a livello
sia normativo sia contrattuale, di tali caratteristiche, la
battaglia sarà inevitabile. Ancora, questo salario
accessorio non ha trovato, ad oggi, un suo pacifico e
condiviso finanziamento, a causa delle incertezze che le
norme di riferimento hanno creato sul tema.
Superate anche queste perplessità, la bozza di provvedimento
sui criteri della mobilità disegna un cronoprogramma che,
nella migliore delle ipotesi, di pubblicazione del decreto
nei prossimi giorni, vede la conclusione del processo alla
fine dell’anno, bruciando, di fatto, la prima annualità del
biennio 2015-2016 a disposizione. Questo significa che, per
l’anno corrente, gli stipendi di tutti i dipendenti delle ex
Province, compresi quelli dichiarati in soprannumero, devono
trovare spazio nei bilanci degli enti di area vasta.
E non è
così scontato che questi bilanci reggano. Gli input che
provenivano dalla Funzione pubblica a inizio anno avevano
fatto ipotizzare che i trasferimenti del personale in
esubero potessero avvenire attorno alla fine del primo
semestre 2015 o, al massimo, in autunno. L’aver previsto la
spesa solo per una parte dell’anno, magari per poter far
quadrare un bilancio che sopportava tagli non indifferenti,
mette a rischio le casse degli enti di area vasta.
Inevitabili sono, quindi, interventi che, da un lato,
aumentino gli stanziamenti di bilancio per gli stipendi dei
dipendenti e dall’altro, allarghino l’arco temporale dal
biennio al triennio, includendo anche il 2017. Forse non a
caso, la scorsa primavera, la Funzione pubblica ha chiesto
alle singole amministrazione anche le cessazioni dal
servizio del 2016.
Una cosa è certa: la storia insegna che, spesso, le proroghe
sono state il viatico per far naufragare ovvero posticipare
sine die intere operazioni (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’impasse
blocca anche i Comuni. Effetto domino. Le conseguenze
dell’obbligo di riservare gli spazi assunzionali agli ex
provinciali.
I Comuni e le Regioni possono effettuare
pochissime assunzioni a tempo indeterminato nel 2015; ciò
sta determinando problemi assai pesanti in numerosi municipi
di piccola e media dimensione dove si sono avute cessazioni
di personale che occupava posizioni strategiche (quali ad
esempio i responsabili dei settori finanziari, dei lavori
pubblici, dei servizi sociali) e che non possono
rimpiazzarli se non a tempo determinato.
Le assunzioni del 2015 e del 2016 sono dalla legge di
stabilità 2015 riservate al personale degli enti di area
vasta collocati in sovrannumero. Ma sono pochissime le
realtà in cui queste dichiarazioni sono state rese.
Lo schema di Dpcm sui criteri dei trasferimenti che doveva
essere approvato entro la scorsa primavera è stato adottato
nei giorni scorsi dal Governo.
Ma ciononostante ci vuole del tempo alle Province delle
regioni che legifereranno (forse, visto che la norma statale
solleva dubbi di legittimità costituzionale) nelle prossime
settimane, per individuare il personale in eccedenza.
E dal momento in cui il Dpcm sui trasferimenti sarà
pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» ci vogliono almeno
quattro mesi perché il personale in sovrannumero degli enti
di area vasta possa essere effettivamente trasferito ai
Comuni oppure alle Regioni.
Con il Dl 78/2015 le assunzioni a tempo indeterminato di
vigili urbani sono bloccate in attesa della messa in
disponibilità di quelli provinciali.
È in discussione che si possano effettuare assunzioni in
mobilità, anche di personale delle Province. Per la Funzione
Pubblica e gli Affari Regionali (circolare n. 1/2015) le
mobilità volontarie possono essere effettuate, fino a che
non sarà stata attivata l’apposita piattaforma telematica,
purché riservate al personale degli enti di area vasta.
Ma la successiva deliberazione n. 19/2015 della sezione
Autonomie della Corte dei Conti ha limitato questa
possibilità solamente al personale degli enti di area vasta
collocato in esubero. Il che produce, in pratica, l’effetto
che questo strumento può essere utilizzato in misura molto
limitata.
Lo strumento di maggiore rilievo che rimane ai Comuni è
l’utilizzazione per assunzioni con procedure ordinarie dei
risparmi derivanti dalle cessazioni degli anni dal 2011 al
2014 che non sono stati già spesi per finanziare nuove
assunzioni.
Questa possibilità si può considerare acquisita sulla base
delle indicazioni del Dl 78/2015 e del parere della sezione
Autonomie della Corte dei Conti n. 26/2015, ma produce
effetti solamente per un numero ridotto di amministrazioni
locali.
I Comuni possono inoltre dare corso ad assunzioni di
personale in possesso di specifici titoli abilitanti da
destinare ai servizi educativi e scolastici, per profili non
esistenti tra quelli degli enti di area vasta. Questa
possibilità si può, sulla base del parere della sezione
autonomie della Corte dei Conti n. 19/2015, estendere a
tutti i profili che non esistono negli enti di area vasta.
Le ultime possibilità di assunzione che restano ai Comuni e
alle Regioni sono le seguenti due.
In primo luogo, l’assunzione di personale appartenente alle
categorie protette per coprire le quote minime obbligatorie.
E infine, possibilità ammessa implicitamente dal parere n.
26/2015 della sezione autonomie della Corte dei Conti, di
trasformazione a tempo pieno del personale assunto su posti
in part-time. Cioè, tutto sommato, assunzioni in misura
assai ridotta (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per la
polizia trasferimenti automatici in deroga ai vincoli su
spese e ingressi. Decreto enti locali. Da rispettare i
limiti di fabbisogno e organici.
La mobilità dei dipendenti degli enti
territoriali è ormai un concetto estremamente flessibile. Se
fino a qualche mese fa i casi si potevano ricondurre al
massimo a tre fattispecie, l’obbligo di riassorbimento dei
dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta ha
mescolato le carte e gli enti si trovano in un vero e
proprio labirinto.
Alla luce delle diverse interpretazioni, come la circolare
n. 1/2015 della Funzione pubblica o le deliberazioni n. 19 e
26 della Corte dei conti Sezione Autonomie, non si riesce,
ad esempio, a conciliare il concetto di «nuova assunzione»
con il principio di «neutralità» da sempre posto in capo
alle procedure di mobilità. Ma non solo. L’evoluzione
dell’istituto transita anche da trasferimenti forzati come
nel caso della polizia locale, destinate ad accogliere
obbligatoriamente i dipendenti della polizia provinciale.
Entro il 31 ottobre prossimo, infatti, le Province hanno
l’obbligo di individuare quali lavoratori appartenenti al
corpo rimarranno a propria disposizione per altre attività;
dopo questo termine i dipendenti in soprannumero o non
individuati transiteranno presso gli enti locali,
all’interno delle funzioni di polizia locale. Si tratta, di
un’ulteriore complicazione rispetto alla già difficile
partita da giocarsi sull’articolo 1, comma 424, della legge
190/2014.
Questa disposizione chiede ai Comuni di vincolare
la capacità assunzionale per gli anni 2015 e 2016 a favore
dei dipendenti degli enti di area vasta. Prima di attivare
le procedure concorsuali o di scorrere le graduatorie per
assumere gli idonei, è necessario utilizzare il turn-over
per il riassorbimento dei lavoratori di Province e Città
metropolitane.
Per la polizia locale, però, la questione si fa più
drastica. Infatti, fino a quando non vi sarà il totale
passaggio dei dipendenti della polizia provinciale, è fatto
divieto agli enti locali di procedere ad assunzione di
qualsiasi tipo per la medesima funzione, fatta eccezione per
le esigenze di stagionalità valutata per un massimo di
cinque mesi per anno solare. Con un’aggravante: per la
polizia locale non sarà neppure possibile attingere ai
“resti” della capacità assunzionale degli anni precedenti,
che la Corte dei Conti Sezione Autonomie, con la
deliberazione n. 26/2015 ha sdoganato rendendoli liberi da
ogni vincolo.
Siamo così di fronte all’ennesimo trasferimento di mobilità
imposto dal legislatore. Per la polizia locale, questa
procedura potrà avvenire nel rispetto della dotazione
organica e del fabbisogno di personale, ma in deroga alle
disposizioni in materia di limitazioni alle spese e alle
assunzioni di personale.
Riassumendo: le procedure di mobilità volontaria possono
essere attivate in tutti i settori dell’ente (polizia locale
esclusa), esclusivamente nei confronti dei dipendenti in
soprannumero degli enti di area vasta erodendo, a questo
punto, capacità assunzionale; è possibile, come indicato
dalla nota 20506/2015 della Funzione pubblica, la mobilità
per interscambio e questa dovrebbe rimanere «neutra»; i
dipendenti della polizia provinciale in soprannumero
transiteranno obbligatoriamente negli enti locali in barba
ad ogni regola su spese e assunzioni.
Il nodo mobilità, quindi, non è per niente risolto e neppure
il decreto con le tabelle di equiparazione viene in aiuto. I
tempi, peraltro si allungano, ed è difficile credere che le
cose si sistemeranno entro il 2016 come prevede la
normativa (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ciascun
rifiuto ha una gestione. Focus su toner, Raee, pile, parti
di veicoli e vegetali.
Precisazioni da Minambiente, Arpa e Corte di cassazione su
regole per specifici residui.
Dalla gestione dei toner aziendali esauriti alla raccolta in
aree urbane di residui vegetali, passando per il commercio
di oggetti in disuso ad alto potenziale d'impatto
ambientale.
Arrivano da Ministero dell'ambiente, Agenzia regionale per
la protezione ambientale della Toscana e Corte di cassazione
gli ultimi chiarimenti in merito alle norme che disciplinano
particolari categorie di rifiuti.
Toner esauriti.
Affinché un'azienda sia esonerata dagli oneri imposti dal
Codice ambientale per la gestione dei toner esauriti delle
proprie stampanti occorre che essa affidi a terzi tramite
regolare contratto l'intero ciclo della manutenzione delle
apparecchiature, dalla sostituzione delle cartucce al loro
ritiro e trasporto, senza procedere a deposito in loco.
Diversamente, essa azienda soggiace agli obblighi formali e
sostanziali previsti dal dlgs 152/2006 in funzione delle
attività poste in essere su tali rifiuti speciali e alla
natura pericolosa o meno degli stessi, obblighi che possono
andare dal tracciamento dei residui tramite scritture
ambientali al rispetto delle regole sul loro deposito (anche
se effettuato con i noti «ecobox»).
È quanto si evince dalla
nota 30.06.2015 n. 7692 di prot. elaborata dal Minambiente in
risposta a un quesito sulla portata dell'articolo 266, comma
4, del citato decreto, a mente del quale: «I rifiuti
provenienti da attività di manutenzione ( ) si considerano
prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che
svolge tali attività», norma che consente dunque in via di
principio al titolare delle apparecchiature da cui detti
rifiuti derivano di spostare su terzi i citati oneri
ambientali.
Al riguardo il dicastero indica come le
condizioni per invocare l'applicazione della norma siano:
l'esistenza di un valido contratto stipulato tra committente
e terzo manutentore; l'essere l'attività commissionata
svolta esclusivamente e interamente dai tecnici dall'impresa
di manutenzione; il comprendere tale attività sia il
mantenimento delle stampanti (sostituzione delle cartucce
compresa) che il contestuale trasporto dei rifiuti
coincidenti con i toner esauriti verso la destinazione di
trattamento. Rispettate tali condizioni, chiarisce il
dicastero, nella documentazione per il trasporto dei rifiuti
dovrà dunque essere indicato quale produttore l'impresa di
manutenzione, evidenziando nelle note il luogo in cui si è
svolta fisicamente l'attività.
È utile in tale contesto
ricordare come alla luce della riformulata definizione di
«produttore di rifiuto» ex dlgs 152/2006 in vigore dallo
scorso luglio (e in base alla quale è tale anche «il
soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta
produzione») sia altresì diventata condizione necessaria per
evitare di concorrere nell'eventuale reato di gestione
illecita di rifiuti posta in essere dal soggetto affidatario
della manutenzione la verifica da parte dell'azienda
committente sia sulla sussistenza in capo a quest'ultimo
delle necessarie autorizzazioni ambientali che sul buon fine
della destinazione finale dei residui.
Commercio ambulante.
Batterie usate, apparecchiature elettriche ed elettroniche
non funzionanti, parti meccaniche di veicoli così come
oggetti in disuso anche presumibilmente contenenti sostanze
pericolose non possono essere raccolti e trasportati dai
cosiddetti «robivecchi» senza onorare gli obblighi previsti
dal Codice ambientale.
Con la
sentenza 17.08.2015 n. 34917 la Corte di
Cassazione, Sez. III penale ha, infatti, precisato come per tali
materiali non valga il regime derogatorio previsto
dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, in base al
quale: «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e
212 (obblighi di denuncia annuale rifiuti, tenuta dei
registri di carico/scarico, formulario di trasporto,
iscrizione all'Albo gestori ambientali, ndr) non si
applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti
effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle
attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai
rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Il giudice
di legittimità ha sottolineato come tale deroga sia infatti
giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la
salute e per l'ambiente operata dal legislatore in relazione
alle attività in parola e non può dunque essere applicata
alla gestione di materiali (come i citati) oggetto di
puntuale disciplina. Per questi, specifica la Corte, non
solo vanno osservate le regole direttamente richiamate
dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, ma anche tutte
le altre disposizioni dettate dalle speciali norme di
settore (come il dlgs 49/2014 sui Raee, il dlgs 188/2008
sulle pile, quelle dello stesso Codice ambientale sui
rifiuti pericolosi e quelle sui veicoli fuori uso previste
dal dlgs 152/2006 unitamente al dlgs 209/2003). Dalla
sentenza della Suprema corte appare altresì evincibile come
tali oggetti non possano dunque essere eventualmente offerti
in vendita tal quali dagli stessi soggetti tramite
bancarelle o banchi dei propri negozi.
L'abilitazione di cui
parla il citato articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006 è,
infatti, quella prevista dal dlgs 114/1998 che ammette il
commercio ambulante esclusivamente nell'ambito del commercio
al dettaglio, ossia indirizzato ai consumatori, i quali
(essendo diversi dai professionisti) non dispongono della
necessaria autorizzazione al trattamento dei rifiuti.
Residui naturali da eventi atmosferici.
Nelle aree urbane, sia pubbliche che private, è possibile
gestire fuori dal regime dei rifiuti la raccolta di legno e
altri residui naturali generati da particolari eventi di
origine non antropica.
È l'Agenzia regionale per protezione
ambientale della Toscana con un
comunicato pubblicato il 27.08.2015 sul proprio portale internet a dare alcuni utili
chiarimenti sul regime di favore introdotto nel 2014
nell'articolo 183, comma 1, lettera n), del Codice
ambientale, nel tenore del quale «Non costituiscono attività
di gestione dei rifiuti le operazioni di prelievo,
raggruppamento, cernita e deposito preliminari alla raccolta
di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi
atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene,
anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica
effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario,
presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno
depositati».
L'Arpa ha individuato quali condizioni per
l'applicazione dell'istituto in parola le seguenti: deposito mono-materiale dei residui naturali identificati tramite la
preliminare cernita (separato dunque da quello degli
eventuali materiali di origine antropica, che restano
rifiuti, e identificabile quale deposito temporaneo ex dlgs
152/2006); rispetto della tempistica prevista dal Codice
ambientale, eventualmente declinata dagli Enti pubblici di
competenza per determinate fattispecie (come
l'organizzazione per la rimozione dei materiali depositatisi
su spiagge a causa di mareggiate o prima dell'inizio della
stagione balneare). Non è contemplata, ricorda infine
l'Arpa, la possibilità di abbruciamento di tali residui
legnosi in situ.
Ciò evidentemente, in quanto le descritte
disposizioni derogatorie ex articolo 183, comma 1, lettera
n) del Codice ambientale si pongono come regime fondato su
presupposti (si pensi alla possibile presenza di materiale
antropico nei residui) e scopi (di ripristino dei luoghi
interessati dai fenomeni atmosferici) diversi rispetto a
quelli sottesi alle apparentemente analoghe regole di favore
per gli scarti vegetali previste dalle altre disposizioni
del dlgs 152/2006.
Le ipotesi di deroga previste
dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 per la gestione dei
residui verdi da aree agricole e forestali, così come quelle
per la combustione degli analoghi scarti vegetali ex
articoli 182, comma 6-bis, e 256-bis dello stesso Codice sono
infatti giustificate dalla natura a monte esclusivamente
naturale dei materiali e dalla finalità del loro riutilizzo
nello stesso ambito produttivo
(articolo ItaliaOggi Sette
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province,
a fine anno le liste per la mobilità. Enti locali. Pronto il
decreto sui passaggi da una Pa all’altra.
Entro l’anno il ministero della Pubblica
amministrazione elaborerà gli elenchi del personale delle
Province in esubero e le liste dei posti liberi nelle altre
Pa, a partire da Regioni e Comuni.
A prevederlo è la
bozza del decreto sui criteri per la mobilità negli enti di
area vasta (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 15 luglio) che
sta ancora aspettando la registrazione della Corte dei conti
e che verrà emanato nonostante il mancato accordo in
conferenza unificata.
Al momento la prima scadenza è fissata per il 31 ottobre
quando le Province dovranno fornire i dati sui dipendenti in
soprannumero. Entro la stessa data infatti le Regioni
dovranno avere definito le leggi con cui decidono le
funzioni, e quindi i dipendenti, delle Province da assorbire
in attuazione della riforma Delrio. Quanti non hanno trovato
una collocazione nel passaggio devono essere quindi inseriti
in elenchi ad hoc, da spedire al portale dedicato alla
mobilità (www.mobilità.gov.it).
A quel punto tutte le altre Pa, centrali e locali, avranno
tempo fino a fine novembre per indicare quanti e quali posti
mettono a disposizione. Serviranno infine altri 30 giorni, e
arriviamo così a fine 2015, al ministero della Pubblica
amministrazione per pubblicare i posti a disposizione e
l’elenco nominativo del personale in soprannumero. Personale
che dovrà esprimere le sue preferenze entro fine gennaio.
Altrimenti la Funzione pubblica a procedere unilateralmente (articolo Il Sole 24 Ore
del 13.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, esuberi ancora al palo.
I trasferimenti dei dipendenti in sovrannumero delle
province restano ancora al palo.
Il dpcm 26.06.2015,
contenente la «Definizione delle tabelle di equiparazione
fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti
collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione
del personale non dirigenziale» registrato dalla Corte dei
conti e ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, non è in grado di risolvere i problemi posti
dalla riforma delle province, che restano tutti sul tappeto
e, anzi, si aggravano.
Mobilità al palo. Il Dpcm che tra breve entrerà in vigore da
molti è considerato la chiave per aprire le procedure di
mobilità intercompartimentale e sbloccare, quindi, la
situazione dei circa 20 mila dipendenti provinciali in
sovrannumero. Le cose non stanno così. Il Dpcm è utile solo
per le tabelle di equiparazione nel caso di trasferimenti
tra diversi comparti della p.a., ma di per sé non fornisce
alcuna spinta al complicatissimo processo di ricollocazione
dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Del resto, in attesa che si avvii la piattaforma telematica
per gestire la mobilità prevista da un altro Dpcm ancora
fermo per l'opposizione delle regioni, i dipendenti
provinciali avrebbero potuto senza alcuna necessità di
tabelle di equiparazione passare a comuni e regioni, che
fanno parte del medesimo comparto. Le mobilità tra province
e altri enti locali, invece, ci sono state col contagocce,
anche perché la gran parte delle province non ha formalmente
approvato liste nominative dei propri dipendenti in
sovrannumero.
Trattamento economico. Il Dpcm sulle tabelle di
equiparazione garantisce ai dipendenti che passino da
un'amministrazione all'altra «il trattamento economico
fondamentale e accessorio ove più favorevole - limitatamente
alle voci con carattere di generalità e natura fissa e
continuativa».
Non si rispetta, per quanto riguarda i
provinciali, la previsione di cui all'articolo 1, comma 96,
lettera a), della legge 56/2014, che invece garantisce ai
dipendenti provinciali l'intero trattamento economico,
ponendone il finanziamento a carico delle province. Il
governo ha inserito questa clausola che modifica l'assetto
normativo consapevole che la legge 190/2014, avendo imposto
un prelievo forzoso di 3 miliardi a regime alle province non
consente di prelevare da esse le risorse per finanziare
anche integralmente il personale da trasferire (la cifra si
aggira intorno agli 840 milioni).
Tuttavia, è evidente che
non essendo stato abolito l'articolo 1, comma 96, della
legge Delrio ciascun dipendente ha un diritto fondato dalla
legge a non vedersi decurtato lo stipendio e potrebbe
rivolgersi giudizialmente avverso la provincia, per ottenere
da questa il trasferimento delle risorse che finanziano il
trattamento economico verso l'ente di destinazione. Anche in
questo caso il rischio di un contenzioso incontrollabile è
enorme e altrettanto grande è la probabilità di un salasso
per le province.
Bandi in corso. C'è poi il problema dei bandi di mobilità in
corso, quelli che ai sensi della circolare 1/2015 della
Funzione pubblica si sono considerati legittimi se riservati
ai dipendenti provinciali in sovrannumero.
Di particolare delicatezza è quello per 1031 posti presso il
ministero della giustizia, la cui procedura si avvicina
verso i colloqui selettivi. Oltre a non essere stato
interamente riservato ai dipendenti provinciali, il bando e
la connessa procedura sono particolarmente delicati perché
hanno partecipato moltissimi dipendenti provinciali e di
città metropolitane non formalmente inseriti nelle liste dei
soprannumerari
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi
da parte dell’organo preposto, è titolare di un interesse
legittimo all’esercizio dei detti poteri e può pretendere,
se non vengano adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla
successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente.
---------------
Se anche il proprietario finitimo può utilmente invocare
l’esercizio, da parte degli organi preposti, dei poteri di
accertamento e repressivi di abusi edilizi, a maggior
ragione può farlo colui che vanta un diritto di proprietà
sull’area interessata da questi ultimi, quand’anche detto
diritto sia oggetto di contestazione, nella competente sede
giurisdizionale civile.
Del resto un abuso edilizio (ove, in ipotesi, accertato) non
perde certamente tale sua connotazione, per il solo fatto
che esso sia stato realizzato dal proprietario dell’area,
oggetto di una controversia giudiziaria.
Il soggetto –che agisce per l’affermazione del proprio
diritto di proprietà, sulla medesima area– ben può, quindi,
quale titolare di uno specifico interesse, tutelato
dall’ordinamento, legittimamente diffidare i competenti
organi amministrativi, e segnatamente gli uffici comunali,
deputati al controllo dell’uso del territorio, a effettuare
i dovuti accertamenti al riguardo, e conseguentemente ad
adottare –ove gli abusi realmente sussistano– i
provvedimenti repressivi, idonei allo scopo.
... per l’annullamento del silenzio, serbato
dall’Amministrazione Comunale in ordine all’atto di diffida,
con contestuale specificazione, del 19.12.2014, prot. n.
19035/2014, con cui si chiedeva, previo accertamento,
d’adottare gli opportuni provvedimenti di competenza,
nell’ambito della gestione dell’assetto urbanistico del
territorio;
...
Il ricorso è fondato.
Vale, nella specie, il richiamo all’orientamento
giurisprudenziale consolidato, secondo il quale: “Il
proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi
da parte dell’organo preposto, è titolare di un interesse
legittimo all’esercizio dei detti poteri e può pretendere,
se non vengano adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla
successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 17/01/2014, n. 233).
Il principio è sicuramente applicabile alla specie, a nulla
rilevando, in contrario, la circostanza, riferita dallo
stesso ricorrente, della pendenza di una controversia, in
sede civile, circa la proprietà dell’area, sulla quale gli
abusi edilizi sarebbero stati posti in essere.
Se, infatti, anche il proprietario finitimo può utilmente
invocare l’esercizio, da parte degli organi preposti, dei
poteri di accertamento e repressivi di abusi edilizi, a
maggior ragione può farlo colui che vanta un diritto di
proprietà sull’area interessata da questi ultimi,
quand’anche detto diritto sia oggetto di contestazione,
nella competente sede giurisdizionale civile.
Del resto un abuso edilizio (ove, in ipotesi, accertato) non
perde certamente tale sua connotazione, per il solo fatto
che esso sia stato realizzato dal proprietario dell’area,
oggetto di una controversia giudiziaria.
Il soggetto –che agisce per l’affermazione del proprio
diritto di proprietà, sulla medesima area– ben può, quindi,
quale titolare di uno specifico interesse, tutelato
dall’ordinamento, legittimamente diffidare i competenti
organi amministrativi, e segnatamente gli uffici comunali,
deputati al controllo dell’uso del territorio, a effettuare
i dovuti accertamenti al riguardo, e conseguentemente ad
adottare –ove gli abusi realmente sussistano– i
provvedimenti repressivi, idonei allo scopo.
Ne deriva, quanto al caso concreto –stante la pacifica
assenza di qualsivoglia risposta, da parte dell’U.T.C. di
Roccapiemonte, alla diffida del ricorrente –l’ordine, da
parte del Tribunale, rivolto all’Amministrazione Comunale,
di fornire esplicito e motivato riscontro circa l’esposto–
diffida di cui in epigrafe, nel termine perentorio di giorni
trenta, decorrente dalla comunicazione in via
amministrativa, ovvero, se anteriore, dalla notificazione, a
cura di parte, della presente sentenza.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale
inottemperanza, da parte del detto Comune, ai dettami della
presente decisione, di nominare, su istanza di parte, un
commissario ad acta, che a tanto provveda in vece
dell’Amministrazione inadempiente (TAR Campania-Napoli, SEz.
I,
sentenza 14.09.2015 n. 2019 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: E'
fondata la censura con la quale il ricorrente lamenta
l’illegittima utilizzazione del potere straordinario di
ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per
affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto,
costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità,
per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi
apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in
presenza di un preventivo accertamento della situazione,
fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali
presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa
fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente
nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la
situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti
apprestati dall'ordinamento.
E’ impugnata l’epigrafata ordinanza con la quale il Sindaco
del Comune di Leverano ha intimato al ricorrente di “provvedere,
con immediatezza, allo spostamento dei cani di sua proprietà
in modo da impedire loro l’accesso nell’area a ridosso
dell’abitazione della sig. Z., nonché di installare, al
confine con la proprietà di quest’ultima, una barriera
idonea ad attutire la rumorosità procurata dall’abbaiare dei
suddetti animali entro dieci giorni”.
A sostegno del ricorso sono dedotte le seguenti censure:
Violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 54, comma
4, del d.lgs. n. 267/2000, così come modificato dall’art. 6
del D.L. n. 92/2008.
Eccesso di potere e sviamento di potere – travisamento dei
fatti – contraddittorietà e illogicità della motivazione.
Violazione e falsa applicazione art. 7 ss. L. 241/1990.
Con ordinanza n. 704/2009 la Sezione ha accolto l’istanza
cautelare presentata dal ricorrente.
Nella pubblica udienza del 21.05.2015 la causa è stata
introitata per la decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
In particolare, è fondata la censura con la quale il
ricorrente lamenta l’illegittima utilizzazione del potere
straordinario di ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per
affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto,
costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità,
per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi
apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in
presenza di un preventivo accertamento della situazione,
fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali
presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa
fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente
nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la
situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti
apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata è stata adottata
sul presupposto della presenza di due cani all’interno di
una proprietà privata a cagione del loro abbaiare nelle
vicinanze di una proprietà privata “quando gli stessi si
rendevano conto della presenza di estranei”.
Appare quindi evidente che la stessa non è stata adottata al
fine di tutelare la salute e incolumità pubblica, bensì il
disturbo di un vicino, peraltro accertato solo ove si
verifichi la presenza di estranei, e quindi una circostanza
non rientrante nella eccezionalità e imprevedibilità (dato
che è piuttosto normale che i cani abbaino in presenza di
estranei) ben superabile con altri rimedi apprestati
dall’ordinamento.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e
conseguentemente annullato l’atto impugnato (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 10.09.2015 n. 2684 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la prevalente giurisprudenza formatasi in relazione al
disposto dell’art. 6 D.P.R. 380/2001 vigente ratione
temporis, non è necessario il permesso di costruire
solamente per la realizzazione di modeste opere di
pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere
murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato
il terreno, (TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 26.08.2009, n.
299, con la quale è stato ritenuto non soggetto al
preventivo rilascio del permesso di costruire un intervento
di pavimentazione con plotte forate, per permettere la
crescita dell’erba, di una parte del terreno di pertinenza
di un condominio, destinato anche ad area di parcheggio per
autovetture).
Occorre invece il permesso di costruire, quando le opere di
pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e
dei materiali utilizzati determinino una irreversibile
trasformazione dello stato dei luoghi.
----------------
Per costante giurisprudenza l’ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Del pari la P.A. nell’irrogare la sanzione demolitoria delle
opere realizzate sine titulo non deve motivare sulla
conformità delle opere medesime alla normativa urbanistica
ed edilizia, sussistendo tale onere solo a fronte di istanze
di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001.
Irrilevante poi, ai fini dell’annullamento dell’atto
gravato, si appalesa la censura fondata sulla dedotta
violazione dell’art. 7 l. 241/1990, in quanto vertendosi in
tema di attività vincolata ed essendo risultato all’esito
del giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso, ben può farsi
applicazione del disposto sanate dell’art. 21-octies, comma
2, prima parte, l. 241/1990.
... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di
opere edili n. 59 Reg. Ord/10 (1177/AB) del 24.05.2010 a
firma del Funzionario Direttivo della Quinta Unità
Organizzativa del Comune di S. Agnello, con cui è stata
ingiunta la demolizione delle opere abusive consistenti
nella realizzazione di un viale interpoderale in getto di
cls. per una lunghezza complessiva di circa ml. 91.00 con
larghezza media di m. 3.50, con esecuzione delle relative
murature di delimitazione e/o cordoletti, nonché nella
pavimentazione, esternamente al fabbricato e sul lato sud-est e per. circa mq. 74.30 con murature di contenimento del
terrapieno parte in pietra calcarea e parte in conci di tufo
per complessivi m. 25.50 con altezze di m 1.00;
b) di ogni atto antecedente, susseguente o comunque
connesso, tra cui la relazione dell’Ufficio Tecnico Comunale
redatta a seguito di sopralluogo effettuato in data
19.10.2007, richiamata nel provvedimento impugnato sub a).
...
6. Il ricorso è infondato.
7. Preliminarmente va osservato che del tutto inappropriato
risulta il richiamo operato da parte ricorrente al disposto
dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 non avendo il Comune fatto
applicazione di tale disposto normativo, ma correttamente
del combinato disposto normativo degli artt. 27, 29 e 33
D.P.R. 380/2001, venendo in rilievo opere (da qualificarsi
quali opere di ristrutturazione) eseguite in difformità dal
permesso di costruire, in zona tra l’altro gravata da
vincolo paesaggistico e senza il previo permesso di
costruire (nonché dell’autorizzazione paesaggistica).
Pertanto correttamente il Comune ha preannunciato, in
ipotesi di inottemperanza, non l’acquisizione al patrimonio
comunale, conseguente all’inottemperanza dell’ordinanza ex
art. 31 D.P.R. 380/2001, ma la demolizione in danno.
8. Ciò posto la censura con cui parte ricorrente contesta
che le opere oggetto del provvedimento impugnato siano
soggette al preventivo rilascio del permesso di costruire
risulta destituita di fondamento in quanto, secondo la
prevalente giurisprudenza formatasi in relazione al disposto
dell’art. 6 D.P.R. 380/2001 vigente ratione temporis,
non è necessario il permesso di costruire solamente per la
realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove
non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde
preesistente, ovvero urbanizzato il terreno, (TAR Trentino
Alto Adige Bolzano, 26.08.2009, n. 299, con la quale è stato
ritenuto non soggetto al preventivo rilascio del permesso di
costruire un intervento di pavimentazione con plotte forate,
per permettere la crescita dell’erba, di una parte del
terreno di pertinenza di un condominio, destinato anche ad
area di parcheggio per autovetture), ipotesi questa non
ravvisabile nella fattispecie.
Occorre invece il permesso di costruire, quando le opere di
pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e
dei materiali utilizzati determinino una irreversibile
trasformazione dello stato dei luoghi (TAR Campania Napoli,
Sez. VII, 21.04.2009, n. 2084; TAR Piemonte Torino, Sez. I,
02.02.2005, n. 208; TAR Lombardia Milano, Sez. II,
20.11.2002, n. 4514).
8.1. Inoltre parte ricorrente non ha offerto alcun principio
di prova, come sarebbe stato suo onere, in ordine alle
preesistenza delle opere murarie di contenimento.
9. Parimenti da disattendere è la censura, peraltro
formulata solo in rubrica, circa il difetto di motivazione
della gravata ordinanza, atteso che per costante
giurisprudenza (fra le tante Cons. Stato, sez. V,
09.09.2013, n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II,
26.06.2013, n. 649/13; sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; sez. IV,
15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718; sez. IV,
02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n.
33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330; Consiglio
di Stato, sez. V, sent. 28/04/2014 n. 2196) l’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori
edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Del pari la P.A. nell’irrogare la sanzione demolitoria delle
opere realizzate sine titulo non deve motivare sulla
conformità delle opere medesime alla normativa urbanistica
ed edilizia, sussistendo tale onere solo a fronte di istanze
di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001
(istanza che nella specie peraltro non risulta essere stata
presentata, nonostante quanto preannunciato dalla parte).
10. Irrilevante poi, ai fini dell’annullamento dell’atto
gravato, si appalesa la censura fondata sulla dedotta
violazione dell’art. 7 l. 241/1990, in quanto vertendosi in
tema di attività vincolata ed essendo risultato all’esito
del giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso, ben può farsi
applicazione del disposto sanate dell’art. 21-octies, comma
2, prima parte, l. 241/1990.
11.Il ricorso va dunque rigettato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 07.09.2015 n. 4373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R.
06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in
modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2 del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero
ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli
appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al
contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il
passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in
giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R.
06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in
modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI,
04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per
ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali
proprietari pretendono la salvezza incondizionata della
propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile
abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte,
rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva
conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi
soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di
affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla
presentazione delle istanze di condono, attestanti una non
veritiera data di ultimazione del manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di condono edilizio, il
silenzio-assenso si forma laddove si presuppone
l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti
dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso
non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia
indicato una situazione difforme da quella reale.
---------------
Circa il pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti
per effetto del ritardo nella risposta all’istanza di
condono non costituisce elemento di illegittimità del
diniego e dei conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito
agli interessati di permanere nell’indebito godimento di un
immobile realizzato senza titolo.
B) Quanto a
quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei lavori,
successiva al 01.10.1983), è sufficiente richiamare il
contenuto dei verbali di sopralluogo sopra citati, dai quali
emerge che fino al 09.01.1984 esisteva solo una recinzione
sul lotto poi interessato dall’edificazione, poi attestata
nell’aprile 1984.
Da tale circostanza, neppure contestata dagli interessati,
deriva l’infondatezza delle censure attinenti alla
formazione del preteso silenzio-assenso, formazione che
presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i
presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza
che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui
l'interessato abbia indicato una situazione difforme da
quella reale (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n.
876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il
pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per
effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono
non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei
conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli
interessati di permanere nell’indebito godimento di un
immobile realizzato senza titolo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
posa in opera di sei containers utilizzati quali spogliatoi
al servizio degli atleti che fruiscono del Circolo sportivo.
I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario (nel caso di
specie: container) non risulta in concreto deputato ad un
suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un
utilizzo destinato ad essere protratto nel tempo.
La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula
infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene
e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti,
ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati
a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati
a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello
proposto da una società che gestisce in Roma un impianto
sportivo (campo di calcio) su area di proprietà comunale
avverso la sentenza del TAR del Lazio con cui è stato
respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il
competente dirigente comunale ha ordinato la rimozione di
alcuni container destinati ad uso spogliatoio (container per
i quali, nel 2003, era stato assentito “l’utilizzo
temporaneo”).
2. L’appello è infondato.
2.1. Risulta del tutto centrale ai fini del decidere
stabilire se l’installazione e il mantenimento in loco di
sei (degli otto) containers inizialmente collocati sull’area
al servizio delle opere di cantierizzazione finalizzate al
ripristino funzionale dell’impianto siano riconducibili:
- alla previsione di cui all’art. 6, co. 2, lett. b), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (secondo cui rientrano
nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ “le opere
dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità e, comunque, entro un termine non superiore
a novanta giorni” (si tratta della tesi sostenuta
dall’appellante), ovvero
- alla previsione di cui costituisce intervento di ‘nuova
costruzione’ (inter alia) “e.5) l'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro,
oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo
che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo,
all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità
alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il
soggiorno di turisti”.
Va qui segnalato che, a seguito del passaggio in decisione
del presente ricorso, la Corte costituzionale, con sentenza
24.07.2015, n. 189 ha dichiarato la (parziale)
illegittimità costituzionale della disposizione da ultimo
richiamata per violazione dell’art. 117, terzo e quarto
comma, Cost..
Si osserva, tuttavia, che (anche prescindendo da qualunque
rilievo in ordine agli effetti di una pronuncia di
incostituzionalità intervenuta all’indomani del passaggio in
decisione di un ricorso nel cui ambito si faccia –appunto–
questione dell’applicazione della disposizione dichiarata
illegittima), la richiamata pronuncia di incostituzionalità
non determina effetti ai fini del presente giudizio in
quanto la declaratoria di incostituzionalità ha riguardato
una parte della disposizione (quella che va dalle parole “e
salvo che” fino a “turisti”) che non rileva ai fini della
presente decisione.
2.2. Ad avviso del Collegio, al fine di impostare in modo
corretto la soluzione della vicenda di causa occorre in
primo luogo domandarsi se sussistano in atti sufficienti
indizi i quali depongono nel senso che i sei containers in
questione fossero effettivamente utilizzati quali spogliatoi
al servizio degli atleti che fruiscono del Circolo sportivo
e, in caso di risposta affermativa, quali siano le
conseguenze ai fini della corretta qualificazione
urbanistico-edilizia di tale cambiamento di destinazione
d’uso.
2.3. Ebbene, per quanto riguarda il primo dei richiamati
quesiti il Collegio ritiene che sussistano agli atti di
causa elementi i quali dimostrano in modo inequivoco
l’effettivo utilizzo dei richiamati containers quali
spogliatoi al servizio degli atleti. Si ritiene, infatti,
che costituiscano indici del tutto persuasivi (e
difficilmente confutabili) in tal senso:
- la circostanza per cui, nel rilasciare un’autorizzazione
in deroga alle previsioni di cui all’art. 3 del d.P.R. 380
del 2001 (atto in data 11.07.2012) il Presidente del V
Municipio ebbe espressamente ad affermare che tale
autorizzazione fosse –appunto- volta a consentire
l’utilizzo dei baraccamenti di cantiere “a funzione di
spogliatoi sportivi”;
- la circostanza per cui, nel richiedere tale
autorizzazione, la stessa società appellante (e con valenza
sostanzialmente confessoria) avesse in effetti chiesto
“[l’]utilizzo temporaneo di una parte dei baraccamenti di
cantiere situati nell’impianto sportivo monotematico di via
degli Alberini a funzione di spogliatoi sportivi”;
- la circostanza per cui, nel rendere la propria relazione
alla Procura della Repubblica in data 30.11.2012, i
tecnici comunali geomm. Ro. e Sc. avessero –appunto–
rilevato che i sei containers in questione fossero
“allestiti ed accessoriati con panchine appendiabiti, w.c. e
docce, idonei all’uso di spogliatoi”. Vero è che,
nell’ambito di tale relazione si riferisce che “nel corso
dei sopralluogo non è stato possibile verificare il cambio
di destinazione d’uso dei containers da spogliatoi a
servizio dei campi sportivi, in quanto i suddetti containers
risultavano liberi da persone e cose, vestiario e
suppellettili varie”.
Tuttavia, quanto nell’occasione
riferito non assume affatto la valenza definitivamente
liberatoria invocata dalla società appellante. Ed infatti,
la relazione dei tecnici comunali -per un verso– conferma
l’assoluta idoneità funzionale e strutturale dei containers
in parola a fungere da spogliatoi per gli atleti; per altro
verso si limita ad attestare che, al momento degli accessi,
non fossero presenti gli atleti e le loro suppellettili.
Tale circostanza è stata del tutto plausibilmente
ricostruita dal Funzionario di P.L. della Sezione di P.G.
nella sua relazione al Sostituto procuratore in data 15.01.2013 (‘relazione Acquistucci’).
Nell’occasione il
F.P.L. ha osservato che la verifica al cui esito non era
stata riscontrata la presenza di atleti nei containers “ha
avuto luogo, presumibilmente, previo accordo intercorso col
suddetto concessionario che, probabilmente, al fine di
ovviare all’inconveniente di incorrere negli stessi addebiti
che, a suo tempo, sono stati constatati dal locale Comando
del V Gruppo (…), ha provveduto, per tempo, a interdire
l’accesso e/o a rimuovere qualsivoglia elemento che
avrebbero potuto indurre i tecnici a dare una diversa
valutazione circa il loro uso”;
- dalla circostanza (richiamata a pag. 5 della ‘relazione Acquistucci’ e che non è stata puntualmente smentita
dall’appellante) secondo cui, nell’informativa in data 21.05.2012 resa dagli Operatori comunali del V Gruppo
all’esito del sopralluogo ispettivo del precedente 15
maggio, era emerso che “i lavori erano fermi e non v’era
alcun operaio nel cantiere sopra indicato, parimenti,
all’interno di alcuni containers, presumibilmente, gli
stessi avventori dei campi di calcio, avevano collocato
sulle panche e sugli appendiabiti presenti, svariati capi di
abbigliamento e varie borse sportive, tutte riportanti la
dicitura ‘ASD Torsapienza’, ritenendo, per tale motivo, che
detti locali fossero utilizzati dai vari atleti”.
2.4. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle appena
tracciate può giungersi in relazione al fatto che il
provvedimento impugnato in primo grado abbia descritto i
containers in questione come poggianti “su una serie di
plinti prefabbricati in cemento” (e non, come affermato
dall’appellante, su una serie di manufatti in c.a.v. –pozzetti per cavidotti-).
Il Collegio si soffermerà nel prosieguo sul se tale diversa
prospettazione in fatto possa incidere sulla corretta
individuazione del carattere di contingenza e temporaneità
dei containers in questione.
Ciò che interessa qui osservare è che tale circostanza non
apporta alcun elemento effettivo in ordine alla circostanza,
che qui rileva, relativa all’effettivo utilizzo dei
containers in questione quali spogliatoi per gli atleti.
2.5. Ma una volta rilevato (lo si ripete, sulla base di
elementi univoci e difficilmente confutabili) che i
containers in questione fossero stati effettivamente
destinati (e per un periodo senz’altro lungo –almeno dal
luglio 2012-) alla diversa destinazione di spogliatoi per
gli atleti, il Collegio ritiene che la fattispecie in esame
sia stata correttamente inquadrata, da parte del Dirigente
tecnico del IV Municipio (già V Municipio), nell’ambito
applicativo dell’arti. 3, comma 1, lett. e.5) del d.P.R. 380 del 2001 (il quale, come si è già rilevato,
ascrive alla nozione di ‘nuove costruzioni’ e assoggetta
all’obbligo di permesso di costruire “[i] manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e [le] strutture di qualsiasi genere,
quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che
siano utilizzati come (…) ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee (…)”.
E il fatto che i manufatti in questione non fossero
destinati a soddisfare “esigenze meramente temporanee”
risulta confermato dal diuturno utilizzo in questione e
dalla circostanza per cui, secondo quanto rilevato dalla
stessa appellante, tale utilizzo è destinato a perdurare
fino a quando non sarà possibile completare le opere di
ripristino funzionale del complesso (anche attraverso il
completamento dei nuovi spogliatoi).
Tuttavia, è la stessa appellante a riferire che al momento
non si dispone di alcuna certezza in ordine a tale
tempistica, anche a causa della mancata erogazione dei
necessari finanziamenti (erogazione che, a sua volta, viene
resa difficoltosa dalle complesse vicende amministrative e
giudiziarie che hanno caratterizzato la vicenda).
Ma al di là di qualunque valutazione di merito, il Collegio
ritiene che il complesso di circostanze appena richiamate
confermi ancora una volta il fatto che l’utilizzo dei
containers quali spogliatoi per gli atleti non risulti
certamente finalizzato a soddisfare “esigenze meramente
temporanee”, in tal modo rendendo inapplicabile la
previsione di cui all’art. 6, comma 2, lett. b) del
richiamato d.P.R. 380 del 2001 (il quale richiama, al
contrario, “opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee”).
Al riguardo si ritiene di richiamare l’orientamento secondo
cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario (nel caso di
specie: container) non risulta in concreto deputato ad un
suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un
utilizzo destinato ad essere protratto nel tempo.
La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula
infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene
e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti,
ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati
a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati
a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante (in tal senso: Cons.
Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842).
2.6. Pertanto, deve essere qui confermata la tesi secondo
cui gli interventi per cui è causa fossero riconducibili
alla previsione di cui all’art. 3, co. 1, punto e.5), e non
anche a quella di cui all’art. 6, comma 2, lett. b),
del d.P.R. 380 del 2001.
Ciò esime il Collegio dall’esame dell’ulteriore argomento
dell’appellante (invero, non persuasivo) secondo cui la
disposizione in questione non riferirebbe il termine di
novanta giorni alla durata complessiva delle “esigenze
contingenti e temporanee”, bensì al tempus necessario per la
rimozione delle opere una volta venute meno le richiamate
esigenze.
2.7. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle sin qui
delineate può giungersi in considerazione degli esiti dei
due procedimenti penali avviati a carico del legale
rappresentante dell’appellante a fronte dell’attività
edilizia che qui viene in rilievo (si tratta dei
procedimento numm. 13236/12 e 29031/12).
L’appellante ha a più riprese sottolineato che il Sostituto
Procuratore presso il Tribunale penale di Roma abbia chiesto
l’archiviazione del procedimento ritenendo in ambo i casi
che si trattasse di interventi di straordinaria manutenzione
soggetti a semplice D.I.A. (e risulta in atti che almeno per
il primo dei richiamati procedimenti sia in effetti stata
disposta l’archiviazione).
Al riguardo il Collegio si limita ad osservare il
consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui
l'efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile
solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata
esclusa ai sensi dell'art. 530, comma 1, cod. proc. pen.,
vale a dire quando all'esito del dibattimento è stata
raggiunta la prova positiva dell'insussistenza dei fatti o
della loro non attribuibilità all'imputato (in tal senso –ex multis-: Cass. civ., Sez. II, 30.08.2004, n. 17401; Sez. III,
09.03.2010, n. 5676, 30.10.2007, n. 22883, 20.09.2006, n. 20235; Sez. III, 19.05.2003, n. 7765;
Sez. lav., 11.02.2011, n. 3376; Sez. VI, ord. 13.11.2013, n. 25538).
Si tratta di un’ipotesi che, evidentemente, non ricorre nel
caso in esame, in cui risulta disposta l’archiviazione
all’esito delle indagini preliminari.
Pertanto, le richieste formulate dal P.M. e le statuizioni
adottate dal G.I.P. non sortiscono alcun effetto vincolante
ai fini della definizione della presente vicenda né per
quanto riguarda la qualificazione giuridica dei fatti e
degli istituti pertinenti, né per quanto riguarda la
valutazione complessiva delle circostanze in atti.
3. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve
essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Cauzione
soltanto con la fideiussione.
Non c'è potere di regolarizzazione.
Qualora la cauzione provvisoria sia priva dall'impegno
incondizionato di un fideiussore a presentare cauzione
definitiva in caso di aggiudicazione, la stazione appaltante
è tenuta a escludere la stessa dalla gara, senza che possa
residuare alcun potere di regolarizzazione.
È quanto hanno ribadito i giudici della
IV Sez. del
TAR Lombardia-Milano con la
sentenza
03.09.2015 n. 1936.
Si premette che nessuna disposizione vieta a una
stazione appaltante di richiedere, nell'ambito di una
procedura di affidamento mediante cottimo fiduciario, le
garanzie previste dalla normativa applicabile agli
affidamenti di maggiore importo, come peraltro espressamente
statuito dall'autorità nazionale anticorruzione.
I giudici
amministrativi milanesi hanno, altresì, evidenziato che la
ratio sottesa alla richiesta di un impegno al rilascio della
cauzione definitiva proveniente da un fideiussore si può
facilmente rinvenire nella necessità di assicurare alla
stazione appaltante una garanzia volta a tutelare la stessa
da eventuali inadempimenti dell'appaltatore, il quale,
ovviamente, avrà interesse a non volere, o a non potere,
rispondere degli eventuali danni cagionati, ciò che, per
l'appunto, giustifica la richiesta di tale garanzia a un
soggetto terzo, contrattualmente tenuto per tale
eventualità.
Pertanto, una dichiarazione avente a oggetto
l'impegno a rilasciare la cauzione definitiva da parte del
concorrente non può essere oggetto di regolarizzazione in
sede di gara, poiché risulta «ontologicamente e
funzionalmente diversa da quella proveniente da un
fideiussore, infatti richiesta dalla normativa, dovendosi
pertanto dare luogo alla sua esclusione nel caso in cui,
come avvenuto nella fattispecie, tale sanzione fosse stata
espressamente prevista dalla lex specialis».
Nella sentenza in commento si è poi richiamato un costante
orientamento giurisprudenziale secondo cui non sarebbe
affetta da nullità la clausola della lex specialis nella
parte in cui preveda, a pena di esclusione, la costituzione
della cauzione, in quanto espressiva di un interesse
rilevante e qualificato dell'amministrazione aggiudicatrice,
non violando pertanto il principio di tassatività delle
cause di esclusione (si vedano: C.s., sez. IV, 21.10.2014 n.
5192; C.g.a., 18.06.2014 n. 327, C.s., sez. V, 22.01.2015 n.
278)
(articolo ItaliaOggi Sette
del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Il presente ricorso è infondato nel merito, potendo pertanto
prescindersi dallo scrutinio dell’eccezione di
inammissibilità del medesimo sollevata dalla resistente.
I) Con il primo motivo la ricorrente evidenzia che la
procedura di che trattasi è un cottimo fiduciario,
conseguentemente disciplinato solo dagli artt. 125 del
codice dei contratti pubblici e dall’art. 334 del relativo
regolamento di esecuzione, da cui conseguirebbe
l’illegittimità del provvedimento impugnato, incentrato
invece sulla mancanza, nella cauzione provvisoria, della
dichiarazione prevista dall’art. 75, c. 8, del D.Lgs. cit..
Osserva in contrario il Collegio che detta norma è stata
tuttavia espressamente richiamata dal punto 1.3.1 del
disciplinare di gara, il quale ha previsto l’obbligo, in
capo ai partecipanti, di corredare la propria offerta con
una dichiarazione di un fideiussore, contenente l’impegno a
rilasciare la cauzione definitiva, e che, in particolare,
tale adempimento era espressamente previsto a pena di
esclusione.
Conseguentemente, a prescindere dalla questione
dell’applicabilità del citato art. 75 alla procedura di che
trattasi, in forza di quanto previsto dalla lex specialis,
i concorrenti erano chiamati a produrre, a pena di
esclusione, la vista dichiarazione di impegno al rilascio
della cauzione definitiva proveniente da un fideiussore, a
cui tuttavia, come detto, la ricorrente non ha provveduto,
dovendo pertanto essere esclusa.
La stessa giurisprudenza citata dalla
ricorrente a supporto delle proprie ragioni conferma
peraltro l’operato della stazione appaltante, laddove la
stessa afferma che il citato art. 75, c. 8, non è
applicabile, ex se, ai cottimi fiduciari, e non
dunque nei casi in cui, come avvenuto nel caso di specie, la
lex specialis vi operi un richiamo espresso.
II) Con il secondo ed il quarto motivo la ricorrente deduce
l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in
cui il medesimo ha ritenuto che la descritta carenza
documentale fosse “essenziale”, non potendosi
pertanto applicarsi alla fattispecie l’istituto del soccorso
istruttorio di cui agli artt. 38, c. 2-bis, e 46, c. 1-ter,
del D.Lgs. n. 163/2006.
II.1) Il motivo è infondato atteso che, contrariamente a
quanto affermato dalla ricorrente, qualora
la cauzione provvisoria sia priva dall’impegno
incondizionato di un fideiussore a presentare cauzione
definitiva in caso di aggiudicazione, la stazione appaltante
è tenuta ad escludere la stessa dalla gara, senza che possa
residuare alcun potere di regolarizzazione
(C.S., Sez. V, 03.06.2015 n. 2717).
Nella fattispecie per cui è causa non si
sarebbe peraltro trattato di integrare un documento
incompleto, ciò che effettivamente costituisce l’oggetto
della regolarizzazione, quanto invece di autorizzare la
produzione tardiva di una dichiarazione ab origine
mancante, peraltro proveniente da un soggetto terzo, ciò che
tuttavia esula dall’ambito di tale istituto
(TAR Campania, Napoli, Sez. I, 13.04.2015 n. 2088, C.S.,
Sez. V, 25.02.2015 n. 927).
II.2) La ricorrente evidenzia in particolare, nel quarto
motivo, che il proprio rappresentante legale “si è
impegnato personalmente a rilasciare la garanzia ai sensi
dell’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006, assolvendo in tal modo
all’interesse della stazione appaltante di vedersi garantita
anche nella fase di esecuzione del contratto” (pag. 16),
ciò che, dimostrando la sostanziale mancanza di conseguenze
pregiudizievoli derivanti dalla violazione commessa, avrebbe
dovuto comportare l’applicazione del soccorso istruttorio.
Ritiene il Collegio che l’erroneità delle premesse da cui
muovono detti argomenti, e cioè che l’interesse della
stazione appaltante sia garantito dall’impegno del
concorrente stesso al rilascio della garanzia definitiva,
comporti conseguentemente l’inconsistenza delle stesse
conclusioni, dovendosi pertanto confermare, anche sotto tale
aspetto, la doverosità dell’esclusione in questa sede
impugnata.
La ratio sotteso alla richiesta di
un impegno al rilascio della cauzione definitiva proveniente
da un fideiussore è infatti di assicurare alla stazione
appaltante una garanzia volta a tutelare la stessa da
eventuali inadempimenti dell’appaltatore, il quale,
ovviamente, tenderà a non volere, o a non potere, rispondere
degli eventuali danni cagionati, ciò che, per l’appunto,
giustifica la richiesta di tale garanzia ad un soggetto
terzo, contrattualmente tenuto per tale eventualità.
In conclusione, una dichiarazione avente ad
oggetto l’impegno a rilasciare la cauzione definitiva da
parte del concorrente non può essere oggetto di
regolarizzazione in sede di gara, essendo ontologicamente e
funzionalmente diversa da quella proveniente da un
fideiussore, infatti richiesta dalla normativa, dovendosi
pertanto dare luogo alla sua esclusione nel caso in cui,
come avvenuto nella fattispecie, tale sanzione fosse stata
espressamente prevista dalla lex specialis.
III) Con il terzo motivo la ricorrente, in via subordinata,
deduce la nullità del disciplinare di gara nella parte in
cui il medesimo disponeva l’esclusione del concorrente nel
caso di mancata presentazione dell’impegno al rilascio della
cauzione definitiva da parte di un fideiussore, per
contrasto con l’art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Il motivo è infondato atteso che, in
generale, per giurisprudenza costante, non è affetta da
nullità la clausola della lex specialis nella parte
in cui preveda a pena di esclusione la costituzione della
cauzione, in quanto espressiva di un interesse rilevante e
qualificato dell'Amministrazione aggiudicatrice, non
violando pertanto il principio di tassatività delle cause di
esclusione (C.S.,
Sez. IV, 21.10.2014 n. 5192; C.G.A., 18.06.2014 n. 327, C.S.
Sez. V, 22.01.2015 n. 278).
Conseguentemente, non possono essere
considerate nulle le clausole preordinate alla costituzione
della stessa garanzia,
tra cui quella che rileva nella fattispecie per cui è causa,
la cui violazione,
per le ragioni già evidenziate nel precedente punto II.2,
non garantisce alla stazione appaltante l’effettiva
disponibilità della stessa.
IV) Con l’ultimo motivo la ricorrente sostiene che la sua
esclusione sarebbe stata determinata dalla scarsa chiarezza
della lex specialis che inoltre,
contraddittoriamente, ha aggravato la procedura di che
trattasi, richiedendo ai concorrenti adempimenti estranei
alla disciplina semplificata del cottimo fiduciario di cui
all’art. 125, il quale infatti non prevede che i
partecipanti alla stessa producano la cauzione provvisoria.
Osserva il Collegio che detta censura, peraltro
genericamente formulata, è infondata atteso che, in primo
luogo, il tenore della lex specialis era in realtà
sufficientemente chiaro e comprensibile (“ai sensi
dell’art. 75 c. 8 del D.Lgs. n. 163/2006 l’operatore
economico deve allegare copia firmata digitalmente di
dichiarazione espressa di un fideiussore, contenente
l’impegno a rilasciare al cauzione definitiva di cui
all’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006”).
Inoltre, nessuna disposizione vieta ad una
stazione appaltante di richiedere, nell’ambito di una
procedura di affidamento mediante cottimo fiduciario, le
garanzie previste dalla normativa applicabile agli
affidamenti di maggior importo, come peraltro espressamente
statuito dall’Autorità Nazionale Anticorruzione
(parere n. 41 del 08.03.2012). |
PATRIMONIO:
Paletti selvaggi. Sul passo carraio l'ufficio
risponde entro un mese.
Il passo carrabile del palazzo è prigioniero del parcheggio
selvaggio nella strada stretta e il comune non può far finta
di niente: deve rispondere entro un mese all'istanza dei
condomini che chiedono l'istallazione di paletti o di un
divieto di sosta all'altezza del numero civico in modo da
poter entrare e uscire dal palazzo usando anche loro la
macchina. E se la p.a. locale non provvede in tempo arriva
il commissario indicato dal prefetto.
Lo stabilisce il
TAR Campania-Napoli, Sez.
I, con la
sentenza 02.09.2015 n. 4280.
Illegittimo il silenzio-rifiuto serbato dall'ente locale. La
grana scoppia perché uno dei condomini in preda a una colica
non può uscire dal cancello con l'auto per essere
accompagnato al pronto soccorso. La polizia municipale
conferma: lo spazio di manovra davanti al passo carrabile è
troppo angusto anche a causa delle macchine parcheggiate sul
marciapiede. E in caso di emergenza un'ambulanza avrebbe
difficoltà a intervenire in zona.
L'amministrazione locale, dunque, non può rimanere inerte:
ha un preciso obbligo di vigilanza sulle strade e sulle
relative pertinenze in quanto proprietaria delle
infrastrutture, ne deve garantire «la destinazione
pubblica e il pacifico utilizzo da parte degli utenti».
È lo stesso codice della strada a imporre al comune di
installare la segnaletica stradale a partire dal divieto di
sosta (art. 37) e i paletti dissuasori autorizzati dai
Trasporti da «utilizzare come impedimento materiale alla
sosta abusiva» dei veicoli (articolo 42)
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015). |
PATRIMONIO: Il Comune deve tutelare l’accesso di casa.
Tar Campania. Condannato il municipio di Napoli che non
aveva risposto all’istanza dei condòmini per l’installazione
di paletti contro la sosta selvaggia.
Se i condòmini
di un caseggiato che si affaccia sulla pubblica via, agendo
a tutela del proprio diritto al libero accesso al
fabbricato, chiedono all’autorità comunale l’installazione
di paletti dissuasori per impedire la sosta indiscriminata
di veicoli privati, il Comune è tenuto ad adottare le misure
concretamente richieste.
È questo il
principio affermato dal
TAR Campania-Napoli, Sez.
I, con la
sentenza 02.09.2015 n. 4280.
I condòmini di un caseggiato, al fine di impedire la sosta
indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati
che ostacolavano le manovre carrabili di accesso e uscita
dall’edificio, richiedevano all’amministrazione comunale di
installare paletti dissuasori e segnaletica orizzontale con
divieto di sosta nel tratto antistante il portone del
caseggiato.
Anche la polizia municipale constatava il disagio per i
residenti e richiedeva al comune la messa in opera di
paletti o, in alternativa, l’apposizione di segnaletica
verticale di divieto di sosta. L’autorità comunale, però,
rimaneva totalmente inerte.
Di conseguenza i condomini si vedevano costretti a impugnare
il silenzio–rifiuto davanti al Tar Napoli, cui chiedevano la
condanna dell’amministrazione comunale ad assumere una
decisione, con richiesta di nomina di un commissario ad acta
in caso di perdurante inerzia.
Il Tar Napoli ha dichiarato l’illegittimità del silenzio
serbato dal Comune che, dopo la diffida della collettività
condominiale, avrebbe dovuto pronunciarsi in merito al
problema.
Come hanno notato i giudici amministrativi, infatti, spetta
all’amministrazione vigilare sulle strade di cui è
proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i
marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali
deve garantire la destinazione pubblica ed il corretto
utilizzo da parte degli utenti.
Di conseguenza, rientra certamente nella competenza del
comune proprietario della strada, l’apposizione e la
manutenzione della segnaletica stradale e l’installazione di
paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli
privati (che devono però essere autorizzati dal ministero
delle Infrastrutture e dei trasporti e posti in opera previa
ordinanza comunale).
Alla luce di queste considerazioni, il Tar ha accolto il
ricorso e condannato il Comune a pronunciarsi espressamente
sull’istanza dei condomini con un provvedimento motivato
(entro e non oltre giorni 30 dalla comunicazione o dalla
notificazione della sentenza).
In ogni caso, nella stessa sentenza è stato nominato un
commissario ad acta che, in caso di perdurante inerzia
dell’autorità comunale, provvederà entro i successivi 30
giorni a trovare una soluzione (previa presentazione di
apposita nuova istanza dei condomini) (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.09.2015). |
APPALTI:
Dichiarazioni pure per affitti d'azienda.
Lo ha
ribadito il Consiglio di stato.
Ai fini della partecipazione alle gare d'appalto la
fattispecie dell'affitto di azienda rientra tra quelle che
soggiacciono all'obbligo di rendere le dichiarazioni di cui
all'art. 38, comma 1, lett. c, del Codice degli appalti,
riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici
dell'impresa cedente, nel caso in cui sia intervenuta
un'operazione di cessione d'azienda in favore del
concorrente nell'anno anteriore alla pubblicazione del
bando.
Lo hanno ribadito i giudici della IV Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
01.09.2015 n. 4100.
Inoltre i giudici di palazzo Spada hanno
sottolineato che nel caso delle gare pubbliche, al fine
della definizione del cosiddetto «soccorso istruttorio» si
renderà opportuno distinguere tra i concetti di
«regolarizzazione documentale» e «integrazione documentale»:
la linea di demarcazione discende naturaliter dalle
qualificazioni stabilite ex ante nel bando di gara, nel
senso che il principio del «soccorso istruttorio» si dovrà
considerare inoperante ogni volta che vengano in rilievo
omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali
richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara (specie
se si è in presenza di una clausola univoca), dato che la
sanzione scaturisce automaticamente dalla scelta operata a
monte dalla legge, senza che si possa ammettere alcuna
possibilità di esercizio del «potere di soccorso»; e
pertanto, come logica conseguenza, l'integrazione non sarà
consentita, risolvendosi in un effettivo vulnus del
principio di parità di trattamento.
Sarà consentita, invece,
la mera regolarizzazione, che attiene a circostanze o
elementi estrinseci al contenuto della documentazione e che
si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e
refusi.
Quindi, qualora ci si trovi in presenza di un obbligo
dichiarativo ex lege, non potrà trovare spazio
l'ipotizzata regolarizzazione documentale, altrimenti
violandosi la par condicio dei concorrenti, poiché non può
ritenersi consentita la produzione tardiva della
dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa.
Infine, i giudici amministrativi, all'interno di una
sentenza molto articolata, hanno posto l'attenzione sulla
necessità degli obblighi dichiarativi, sconfessando, allo
stato, la teoria del cosiddetto «falso innocuo» (si
parla di teoria sostanzialistica), sostenendo che nessuno
spazio può esservi per un rinvio pregiudiziale su questo
profilo, nonché sugli obblighi dichiarativi in materia di
cessione e affitto d'azienda
(articolo ItaliaOggi Sette
del 14.09.2015).
---------------
MASSIMA
2. Quanto al primo versante di indagine, esso è in
realtà piuttosto semplice: il quesito cui rispondere è il
seguente: alla strega delle prescrizioni
normative (d.Lgs. n. 163/2006, art. 38, lett. c) e di quelle
contenute nella lex specialis, l’aggiudicataria ed
odierna appellante avrebbe –o meno- dovuto rendere la
dichiarazione ex art. 38 TUCP relativa alla compagine
imprenditoriale della quale aveva affittato l’azienda?
Ove la risposta al quesito fosse positiva, occorrerebbe
ulteriormente chiedersi se –riscontrata sul punto una
omissione di dichiarazione- essa sarebbe stata (o meno)
sanabile attraverso il c.d. “soccorso istruttorio”
(tematica, quest’ultima, è forse superfluo evidenziarlo, che
lambisce quello che dovrà essere il secondo versante di
scrutinio demandato al Collegio).
2.1.Quanto al primo profilo, si osserva schematicamente che:
a) l’art. 38 del d. Lgs. n. 163/2006, alla lett. c) così
prevede: “nei cui confronti è stata pronunciata sentenza
di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo
444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità
professionale; è comunque causa di esclusione la condanna,
con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di
partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione,
frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari
citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18;
l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il
decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del
direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei
soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in
nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore
tecnico se si tratta di società in accomandita semplice;
degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o
del direttore tecnico o del socio unico persona fisica,
ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno
di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o
consorzio. In ogni caso l'esclusione e il divieto operano
anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica
nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di
gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata
completa ed effettiva dissociazione della condotta
penalmente sanzionata; l’esclusione e il divieto in ogni
caso non operano quando il reato è stato depenalizzato
ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando
il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero
in caso di revoca della condanna medesima”;
b) il bando di gara era stato pubblicato il 09.06.2014 e
quindi antecedentemente alla entrata in vigore del d.L.
24-6-2014 n. 90: ne discendeva che per l’espresso dettato di
cui al comma 3 dell’art. 39 del D.L. 24.06.2014 n. 90.
(“Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano alle
procedure di affidamento indette successivamente alla data
di entrata in vigore del presente decreto.”) la
disposizione di cui al comma 1 del predetto art. 39 del D.L.
24.06.2014 n. 90, nella parte in cui aveva inserito il comma
2-bis in seno all’art. 38 del d. Lgs. n. 163/2006 (“La
mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato
causa al pagamento, in favore della stazione appaltante,
della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in
misura non inferiore all'uno per mille e non superiore
all'uno per cento del valore della gara e comunque non
superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla
cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci
giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le
dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i
soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non
essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di
dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non
ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione.
In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo
periodo il concorrente è escluso dalla gara. Ogni variazione
che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia
giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai
fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte»”)
non poteva trovare applicazione alla presente vicenda
contenziosa;
c) la costante e condivisibile giurisprudenza amministrativa
-pienamente condivisa dal Collegio – ha, ancora in epoca
assai recente, ribadito che (Cons. Stato Sez. V, 05.11.2014,
n. 5470) “ai fini della partecipazione
alle gare d'appalto la fattispecie dell'affitto di azienda
rientra tra quelle che soggiacciono all'obbligo di rendere
le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. c),
D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), riguardante anche
gli amministratori e direttori tecnici dell'impresa cedente
nel caso in cui sia intervenuta un'operazione di cessione
d'azienda in favore del concorrente nell'anno anteriore alla
pubblicazione del bando".
Alla stregua delle superiori emergenze processuali, appare
palese che, nel merito, l’appellante doveva essere esclusa
dalla gara avendo del tutto omesso di allegare alla propria
offerta anche le dichiarazioni ex art. 38 degli "amministratori
muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o
del socio unico persona fisica, ovvero del socio di
maggioranza in caso di società con meno di quattro soci"
della Newtec System S.r.l..
E’ poi evidente, che non doveva essere impugnata (da parte
della originaria ricorrente ed odierna appellata) alcuna
prescrizione del bando (nella parte in cui non sanzionava
con l’esclusione detta violazione) trattandosi di
conseguenza discendente dalla legge.
2.3. Quanto all’ulteriore profilo il cui esame si rende
necessario a cagione delle critiche esposte nell’atto di
appello (id est: suscettibilità di regolarizzazione
della predetta omissione totale), non si può che richiamare
il consolidato approdo giurisprudenziale, (ribadito assai di
recente: Cons. Stato Sez. V, 22.01.2015, n. 278) secondo cui
"Nelle gare pubbliche per definire il
perimetro del "soccorso istruttorio" è necessario
distinguere tra i concetti di "regolarizzazione documentale"
ed "integrazione documentale": la linea di demarcazione
discende naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante
nel bando, nel senso che il principio del "soccorso
istruttorio" è inoperante ogni volta che vengano in rilievo
omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali
richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara (specie
se si è in presenza di una clausola univoca), dato che la
sanzione scaturisce automaticamente dalla scelta operata a
monte dalla legge, senza che si possa ammettere alcuna
possibilità di esercizio del "potere di soccorso";
conseguentemente, l’integrazione non è consentita,
risolvendosi in un effettivo vulnus del principio di parità
di trattamento; è consentita, invece, la mera
regolarizzazione, che attiene a circostanze o elementi
estrinseci al contenuto della documentazione e che si
traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e
refusi.”
Pare, poi, opportuno al Collegio richiamare un passo della
sentenza prima richiamata (Cons. Stato Sez. V, 05.11.2014,
n. 5470) che appare plasticamente traslabile alla presente
vicenda contenziosa. Ivi, è stato osservato che “per
quanto riguarda il terzo motivo d'appello formulato ove si
lamenta la mancanza di obblighi dichiarativi nella lex
specialis, con conseguente preteso obbligo di ricorso al
potere/dovere di soccorso istruttorio da parte della
Stazione appaltante ex art. 46, D.Lgs. n. 163 del 2006,
nonché la mancata applicazione della teoria sostanzialistica
(o c.d. del falso innocuo), quest'ultima legata al terzo
motivo esso è da ritenersi privo fondamento".
Infatti, la gara in oggetto è stata bandita nell'aprile del
2013, a distanza di quasi un anno dalle citate pronunce
dell'Adunanza Plenaria richiamate, n. 10 e n. 21 del 2012,
ove è stato chiarito che l'obbligo dichiarativo in questione
scaturisce direttamente dalla legge.
Pertanto, in presenza di un obbligo
dichiarativo ex lege, non può trovare spazio
l'ipotizzata regolarizzazione documentale, altrimenti
violandosi la par condicio dei concorrenti,
come peraltro chiarito di recente dal Consiglio di Stato,
Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9, non essendo
consentita la produzione tardiva della dichiarazione
mancante o la sanatoria della forma omessa.
Tale ultima pronuncia, inoltre, ha posto l'accento sulla
necessità degli obblighi dichiarativi, sconfessando, allo
stato, la teoria del cd. "falso innocuo" (id est,
la teoria sostanzialistica); pertanto, nessuno spazio può
esservi per un rinvio pregiudiziale su questo profilo,
nonché sugli obblighi dichiarativi in materia di cessione ed
affitto d'azienda (cfr., anche, sul punto, la citata
pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.
21/2012; cfr., anche, Consiglio di Stato, Sez. III,
06.02.2014, n. 583, ove si è chiarito che
il valore della completezza delle dichiarazioni da fornire
in sede di offerta, insito nell'art. 38 cit., corollario di
principi di matrice comunitaria come quelli di trasparenza,
par condicio e proporzionalità, non si pone in contrasto con
l'art. 45 della Direttiva 2004/18/CE).
2.4. Nulla ritiene il Collegio vi sia da aggiungere sul
punto: sulla questione di merito, la sentenza di primo grado
è corretta ed immune da mende. |
LAVORI PUBBLICI:
Il project financing è impugnabile dall'inizio.
Project financing impugnabile fin dalle prime battute. E
basta un parametro fuori posto rispetto al bando di gara per
far scattare l'esclusione del progetto presentato
dall'aspirante promotore.
È quanto emerge dalla
sentenza 31.08.2015 n. 4035, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di Stato.
Interesse pubblico - Accolto solo parzialmente il ricorso di
un'azienda in un mega progetto romano.
Quando la stazione appaltante chiude la prima fase di
selezione di una proposta da porre a fondamento della
successiva gara, l'atto conclusivo ben può essere impugnato
dalle imprese che hanno presentato proposte concorrenti
sulla stessa opera pubblica da realizzare.
E ciò perché la scelta della proposta migliore ritenuta di
pubblico interesse avviene comune sulla base di una
valutazione di idoneità tecnica: l'atto risulta insomma
sindacabile dal giudice amministrativo, anche perché con
esso termina il primo subprocedimento nel quale si articolo
l'iter della finanza di progetto. Con questo step si
identifica il promotore finanziario, il quale si vede dunque
attribuire un vantaggio. E soprattutto solo così sorge in
capo all'amministrazione il vincolo che l'obbliga a
procedere alla gara e dunque a realizzare l'opera.
La stazione appaltante comunque è tenuta a selezionare non
la proposta migliore ma quella che più va nella direzione
dell'interesse pubblico: ecco perché, allora, per escludere
il progetto di una società promotrice basta la valutazione
negativa su uno dei parametri indicati dal bando
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La mostra diventa moschea, la Scia non basta.
Tar Venezia. Se c’è culto, la segnalazione non esime dalle
autorizzazioni.
La Scia non
può essere una scorciatoia amministrativa: lo sottolinea il
TAR Veneto - Sezz. unite (ordinanza 27.08.2015 n. 346), esaminando
il caso di uno spazio espositivo in una ex chiesa, che con
una Scia era diventato una moschea con attività di culto.
La
Scia, indirizzata al Comune, si riferiva solo a una «mostra
in area privata», intervento temporaneo nell’ambito di una
biennale d’arte che, proprio perché «attività libera» sotto
l’aspetto urbanistico (articolo 3, lettera e.5 e articolo 6,
comma 2, lettera b, del Dpr 380/2001) sembrava realizzabile
con mera segnalazione al Comune. Accentuando invece l’uso
religioso, la manifestazione ha perso il carattere
“artistico” ed è tornata soggetta alle norme urbanistiche,
che prevedono la possibilità di realizzare luoghi di culto
solo in zone per «attrezzature religiose».
Mancando la conformità urbanistica, il Comune di Venezia ha
annullato la Scia, imponendo il ripristino dei luoghi.
Questo è un esempio di uso azzardato della Scia, basato
sull’incerto confine tra esposizione d’arte (urbanisticamente
neutra) e destinazione a «servizi di culto» (che utilizzano
i luoghi artistici).
La soluzione adottata dal Comune di Venezia (e condivisa dal
Tar) è la stessa che impedisce, ai venditori ambulanti di
padelle o attrezzi da cucina, di vendere i prodotti cucinati
a fine dimostrativo con le attrezzature commercializzate.
Con questo principio generale, la moschea realizzata «a fini
artistici» è stata riclassificata come luogo di culto
effettivo, sulla base di taluni dettagli caratterizzanti,
quali la presenza del mihrab (una sorta di abside) orientato
verso la Mecca o l’utilizzo di un lavatoio per abluzioni
rituali.
La Scia in generale è oggetto della legge 124/2015, che dal
28 agosto incentiva l’utilizzo della segnalazione
confermando la possibilità di un inizio immediato
dell’attività e limitando a 30 giorni (salvo annullamento,
entro 18 mesi) la possibilità per il Comune di opporsi
all’intervento. La Scia ha ancora zone incerte: ad esempio,
in materia di manifestazioni e spettacoli, la disciplina
urbanistica consente di realizzare palchi con la procedura
di Scia (articoli 3 e 6, Dpr 380/2001).
Ma se la
manifestazione che usa il palco ha necessità di verifiche da
parte della Commissione prefettizia di vigilanza, la Scia
inviata al Comune non basta più: va corredata dal parere
della Commissione (circolare ministero dell’Interno 21.05.2015).
Problemi analoghi hanno gli home restaurant, cioè le
residenze dove si preparano cibi e bevande per invitati (a
pagamento): se l’attività è svolta in zone tutelate (quali i
centri storici), la Scia vale solo se vi è compatibilità
urbanistica e igienico-sanitaria, poiché la somministrazione
prevale sulla mera attività conviviale (risoluzione
ministero dello Sviluppo economico 10.04.2015, n. 50481)
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.09.2015).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
della comunicazione prot. n. 225016/2015 del 21/05/2015,
della comunicazione prot. 189901 del 29.04.2015 e della
comunicazione prot. n. 202447 del 07.05.2015.
...
- Considerato come, a prescindere da ogni valutazione sulla
ammissibilità della procura rilasciata tardivamente al
difensore della ricorrente, risulta
sussistente l’inadempimento alle prescrizioni imposte dal
Comune di Venezia in relazione alla SCIA presentata avente a
oggetto una mostra espositiva in area privata, nell’ambito
della manifestazione “Biennale Arte”
(cfr. contratto di locazione uso immobile, art. 2),
consistente in allestimento riproducente una
moschea, laddove invece gli accessi superlocali effettuati
hanno acclarato un uso anche religioso dello spazio de
quo (significativo appare, per esempio l’utilizzo in
concreto del lavatoio per le abluzioni), legittimandosi per
tal modo l’adozione del provvedimento inibitorio contestato;
- considerato peraltro che lo spazio espositivo resta
comunque utilizzabile per uso conforme a una nuova SCIA
eventualmente presentata secondo le indicate prescrizioni... |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti, il comune può istituire tariffe differenziate per i
B&B.
Il comune può del tutto legittimamente, ai fini delle
determinazione delle tariffe Tarsu, se lo ritenga opportuno,
stabilire una differenziazione tra l'attività di bed and
breakfast (B&B), svolta in una civile abitazione, rispetto
alla tariffa ordinariamente dovuta da quest'ultima.
Questa è la massima di una recente sentenza della Corte di
Cassazione, Sez. V civile (sentenza 19.08.2015 n. 16972), che inerisce la Tarsu, che come è noto, è stata ormai sostituita prima dalla
Tares e poi, attualmente dalla Tari, istituita con l'art. 1,
c. 639, della legge 147/2013.
La giurisprudenza in esame riguarda il ricorso avverso
l'avviso di accertamento di un ente locale, di un
contribuente che, nell'immobile censito al catasto come
civile abitazione, dove risiede esercita congiuntamente
l'attività di bed and breakfast: tale attività consiste
nell'erogazione dei servizi di alloggio e nell'erogazione
della prima colazione, includendo in essa anche la
biancheria, la conseguente pulizia dei locali e la fornitura
dei beni di consumo, inclusi i beni igienico-sanitari e
alimentari messi a disposizione degli avventori, da parte
del proprietario che le gestisce avvalendosi della normale
organizzazione dei propri familiari.
La Cassazione ricorda che il comune può istituire, ai sensi
dell'art. 49 del dlgs n. 22 del 1997, tariffe differenziate
per fasce di utenza che distinguano l'uso domestico e quello
non domestico, previo accertamento dell'uso effettivo dei
relativi immobili, essendo irrilevante la classificazione
catastale (cfr. Cass. sez. 5, sentenza n. 18501 del
10/08/2010).
L'applicazione della tassa smaltimento rifiuti di cui al
dlgs n. 507/1993, come ricordano i giudici della Cassazione,
è disciplinata dal regolamento comunale in materia e dai
provvedimenti allo stesso correlati, con particolare
riferimento alla determinazione del costo complessivo del
servizio, della percentuale di copertura del medesimo,
nonché alla individuazione e strutturazione delle categorie
di contribuenza e alla loro specificazione, e quindi alle
valutazioni e accertamenti effettuati in merito alla
effettiva produzione dei rifiuti, che risultano
differenziati in relazione alle peculiari caratteristiche di
ciascun territorio comunale.
Ricordando che l'attività esercitata di B&B non necessita di
una modifica di destinazione d'uso dell'immobile in cui
detta attività è esercitata, i giudici hanno ritenuto che
quindi sarebbe illegittima una tassa relativa ai B&B
determinata con le stesse modalità di quella dovuta dagli
alberghi, in quanto le due fattispecie non sono assimilabili
a tali fini, in quanto i bed & breakfast, svolgendo attività
ricettiva in maniera occasionale e priva di carattere
imprenditoriale, non possono, per espressa previsione
normativa, essere equiparati alle strutture ricettive che
svolgono l'attività professionalmente come alberghi, hotel
ecc.
Invece ciò che risulta effettivamente rilevante ai fini di
cui trattasi sono le qualità e quantità di rifiuti prodotti
e non la destinazione d'uso dell'immobile.
Infatti le attività di accoglienza ricettiva esercitate da
privati che, in via occasionale o saltuario, senza carattere
di imprenditorialità e avvalendosi della organizzazione
familiare utilizzano parte della propria abitazione fino a
un numero massimo di camere o posti letto, fornendo ai
turisti alloggio e prima colazione sono classificate come
B&B.
Deve, quindi, ritenersi legittimo da parte del comune
istituire, pur nell'ambito della destinazione a civile
abitazione, una tariffa differenziata per l'uso che si fa di
un immobile, a prescindere dalla destinazione catastale,
verificando l'utilizzo in concreto da parte del proprietario
di servizi come il cambio della biancheria, la pulizia dei
locali, la fornitura del materiale di consumo a fini
igienico-sanitari, la manutenzione ordinaria degli
impianti e gli altri analoghi, quando tali servizi non siano
riferibili solo al proprietario, ma anche ai clienti della
struttura adibita a bed & breakfast.
Essendo l'imposta correlata alla capacità produttiva di
rifiuti (come ricordato anche dalla giurisprudenza europea),
deve ritenersi legittima la determinazione, assunta con la
delibera commissariale citata, di prevedere una
sottocategoria con valori e coefficienti di quantità e
qualità intermedi tra le sottocategorie di civile abitazione
e alberghi che tenga conto della promiscuità tra l'uso
normale abitativo e la destinazione ricettiva a terzi.
Non si ravvisano, quindi, profili di illegittimità nella
delibera dell'ente locale, che possa tener conto dei
principi illustrati dalla Cassazione e finora illustrati
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
'avvenuta realizzazione abusiva di: 1) realizzazione di una parete
in muratura al piano terra lato sud dell’immobile, a
chiusura di un preesistente patio aperto sul lato sud, con
realizzazione di un vano abitativo di mq. 9,00 circa con
copertura in legno e tegole;
2) realizzazione sul fronte
dell’ingresso lato sud e parzialmente sul lato est, di una
tettoia in legno e tegole di mt. lineari 11,00 circa sul
lato sud e di mt. 5,00 circa sul lato est, della lunghezza
di mt. 2,50 circa;
3) realizzazione al primo piano lato sud,
di un balcone di mt. 5.50 di lunghezza e mt. 1,00 circa di
larghezza, con trasformazione di una finestra a porta di
accesso al balcone;
4) chiusura di un preesistente patio al
piano terra lato nord con ricavo di un vano abitativo di mq.
14,00 circa;
5) realizzazione al primo piano lato nord (sul
vano di cui al punto 4) di un vano ex novo di mq. 14,00
circa con antistante balcone della lunghezza di mt. 9,50
circa e di larghezza di mt. 1,00 circa, nonché l’apertura di
due nuovi vani porta di accesso al balcone”,
osserva il Collegio:
- che per la realizzazione delle opere prese in
considerazione nell’ordinanza suddetta, sarebbe
effettivamente occorso il previo rilascio di un permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10 DPR 380/2001, trattandosi
di un unitario intervento (non valutabile perciò in modo
parcellizzato) di ristrutturazione edilizia con modifiche
essenziali quanto al volume, alle superfici, alla sagoma e
ai prospetti preesistenti, ed in conseguenza del quale
l’organismo edilizio è risultato essere ben diverso dal
precedente;
- che, in particolare, hanno determinato aumento di volume e
superfici, le chiusure di due patii (così da ricavare due
ulteriori ed ampi vani abitabili, non qualificabili come
volumi tecnici in assenza di prova circa l’impossibilità di
allocare impianti tecnici all’interno della parte
preesistente del fabbricato), la realizzazione di una grande
tettoia (come tale avente incidenza urbanistica e non
qualificabile come pertinenza, stante anche l’assenza di
autonomia rispetto al resto dell’edificio; e incidenza sui
prospetti anche le modifiche di finestre e balconi;
- che, anche se tale tipologia di interventi può essere
realizzata ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001 tramite DIA, ciò non esclude il potere-dovere del
Comune di ordinare la demolizione dato che, per espressa
previsione di legge, gli artt. 31 e 33, d.P.R. n. 380 del
2001 si applicano anche agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'art. 22, comma 3, eseguiti in assenza di
denuncia di inizio attività o in totale difformità dalla
stessa;
- che trattandosi di un intervento edilizio realizzato in
assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di
demolizione costituisce atto doveroso e vincolato nel
contenuto, e, peraltro, il provvedimento appare dotato di
adeguata motivazione, consistente nel richiamo alle norme
violate e nella descrizione delle opere abusive, non
occorrendo nella specie alcuna specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati;
- che l’evidenziata natura di atto doveroso e vincolato nel
contenuto dell’ordinanza in questione, fa sì che la stessa
non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del
relativo procedimento, anche in considerazione della
conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell’art.
21-octies L. 241/1990.
Il presente giudizio è incentrato sull’impugnazione
dell’ordinanza n. 145 del 30.04.2009, con la quale il
dirigente dell’Ufficio Abusivismo del Comune di Castel
Volturno, richiamato il contenuto dell’informativa di reato
n. 48/PM del 06.04.2009 del Comando di Polizia Municipale (a
sua volta recettiva della relazione prot. n. 15771/2009 del
02.04.2009, riguardante l’esito del sopralluogo eseguito dal
tecnico comunale unitamente a personale della Polizia
Municipale), ha ingiunto alla proprietaria B.P. di demolire, nel termine di gg. 90 dalla notifica
dell’atto, una serie di opere da lei poste in essere alla
località Baia Verde – via ... n. 32,
qualificate come abusive in quanto in assenza del prescritto
permesso di costruire (nonché prive dell’autorizzazione
paesaggistica, necessaria per essere la zona sottoposta a
vincolo paesaggistico-ambientale ai sensi del Decr. Leg.vo
42/2004), e così descritte: “1) realizzazione di una parete
in muratura al piano terra lato sud dell’immobile, a
chiusura di un preesistente patio aperto sul lato sud, con
realizzazione di un vano abitativo di mq. 9,00 circa con
copertura in legno e tegole;
2) realizzazione sul fronte
dell’ingresso lato sud e parzialmente sul lato est, di una
tettoia in legno e tegole di mt. lineari 11,00 circa sul
lato sud e di mt. 5,00 circa sul lato est, della lunghezza
di mt. 2,50 circa;
3) realizzazione al primo piano lato sud,
di un balcone di mt. 5.50 di lunghezza e mt. 1,00 circa di
larghezza, con trasformazione di una finestra a porta di
accesso al balcone;
4) chiusura di un preesistente patio al
piano terra lato nord con ricavo di un vano abitativo di mq.
14,00 circa;
5) realizzazione al primo piano lato nord (sul
vano di cui al punto 4) di un vano ex novo di mq. 14,00
circa con antistante balcone della lunghezza di mt. 9,50
circa e di larghezza di mt. 1,00 circa, nonché l’apertura di
due nuovi vani porta di accesso al balcone”.
Il gravame è affidato a nove articolati motivi,
specificamente descritti nella parte in fatto.
Resiste il Comune intimato, contestando la fondatezza delle
avverse censure, ed in particolare evidenziando come, per le
opere in discussione, non sia stata presentata alcuna
istanza di sanatoria.
Ciò così sommariamente delineato l’ambito della
controversia, osserva il Collegio:
- che per la realizzazione delle opere prese in
considerazione nell’ordinanza suddetta, sarebbe
effettivamente occorso il previo rilascio di un permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10 DPR 380/2001, trattandosi
di un unitario intervento (non valutabile perciò in modo
parcellizzato) di ristrutturazione edilizia con modifiche
essenziali quanto al volume, alle superfici, alla sagoma e
ai prospetti preesistenti, ed in conseguenza del quale
l’organismo edilizio è risultato essere ben diverso dal
precedente;
- che, in particolare, hanno determinato aumento di volume e
superfici, le chiusure di due patii (così da ricavare due
ulteriori ed ampi vani abitabili, non qualificabili come
volumi tecnici in assenza di prova circa l’impossibilità di
allocare impianti tecnici all’interno della parte
preesistente del fabbricato), la realizzazione di una grande
tettoia (come tale avente incidenza urbanistica e non
qualificabile come pertinenza, stante anche l’assenza di
autonomia rispetto al resto dell’edificio – cfr. Cons. di
Stato sez. VI, n. 319 del 26.1.2015; TAR Campania-Napoli n.
6425 del 09.12.2014; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; Cass.
Pen. Sez. III, n. n. 30564 del 16.05.2014); e incidenza sui
prospetti anche le modifiche di finestre e balconi;
- che, anche se tale tipologia di interventi può essere
realizzata ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001 tramite DIA, ciò non esclude il potere-dovere del
Comune di ordinare la demolizione dato che, per espressa
previsione di legge, gli artt. 31 e 33, d.P.R. n. 380 del
2001 si applicano anche agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'art. 22, comma 3, eseguiti in assenza di
denuncia di inizio attività o in totale difformità dalla
stessa (cfr. TAR Campania-Napoli n. 6382 del 05.12.2014);
- che trattandosi di un intervento edilizio realizzato in
assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di
demolizione costituisce atto doveroso e vincolato nel
contenuto, e, peraltro, il provvedimento appare dotato di
adeguata motivazione, consistente nel richiamo alle norme
violate e nella descrizione delle opere abusive, non
occorrendo nella specie alcuna specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2529 del
27.04.2004; TAR Emilia Romagna-Parma n. 154 del 25.05.2011;
TAR Campania-Napoli n. 16526 dell’01.07.2010; TAR Campania-Napoli n. 13422 del
07.10.2008);
- che l’evidenziata natura di atto doveroso e vincolato nel
contenuto dell’ordinanza in questione, fa sì che la stessa
non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del
relativo procedimento, anche in considerazione della
conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990 (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2227 del
10.04.2009; Cons. di Stato sez. IV, n. 4659 del 26.09.2008;
Cons. di Stato sez. V, n. 4530 del 19.09.2008; TAR
Piemonte n. 752 del 16.03.2009; TAR Campania-Napoli n.
1376 dell’11.03.2009; TAR Basilicata n. 44 del 06.02.2009)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 17.08.2015 n. 4252 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Progettisti senza requisiti.
Nei raggruppamenti temporanei.
Negli appalti integrati di lavori, i progettisti indicati
non assumono la qualità di concorrenti e non sono tenuti
alla dimostrazione dei requisiti e agli adempimenti
prescritti per i raggruppamenti temporanei.
Lo stabilisce il
TAR Piemonte, Sez. II, con la
sentenza 14.08.2015
n. 1335 rispetto a un ricorso nel quale si eccepiva che il
raggruppamento di progettisti indicato dall'impresa
partecipante a un appalto integrato di progettazione e
costruzione, non fosse in possesso dei requisiti di capacità
previsti dal disciplinare di gara per i raggruppamenti di
progettisti indicato dalle imprese.
I giudici hanno respinto il ricorso affermando che le norme
del regolamento del codice (dpr 207/2010) «si riferiscono ai
soggetti che presentano l'offerta in associazione temporanea
e che assumono la qualifica di concorrenti (prima) e di
contraenti (poi, in caso di aggiudicazione) con la stazione
appaltante».
La sentenza chiarisce che se i progettisti indicati non
assumono la qualità di concorrenti, non sono tenuti alla
dimostrazione dei requisiti e agli adempimenti prescritti
dalla normativa vigente per i raggruppamenti temporanei. Da
ciò discende, dice la sentenza, che le regole sulla
conformazione interna dei raggruppamenti e sulla
qualificazione in misura maggioritaria del progettista
capogruppo risultano direttamente applicabili soltanto ai
veri e propri raggruppamenti temporanei di progettisti. E
non possono essere estese in modo cogente alle ipotesi in
cui la concorrente si avvalga, per l'appalto integrato, di
uno staff di progettisti indicati in sede di offerta, ai
quali non può imporsi il rispetto di determinate forme
organizzative.
Per i progettisti indicati, secondo i giudici, la stazione
appaltante ha lasciato libertà organizzativa, limitandosi a
richiedere il possesso globale e cumulativo delle
qualificazioni nelle classi e categorie di progettazione,
senza imporre percentuali minime o maggioritarie di
fatturato per il capogruppo e per i mandanti.
Ancora di più è legittimo che il giovane professionista
(obbligatorio nei raggruppamenti di progettisti) non abbia
indicato alcun servizio utile alla qualificazione, in
considerazione della peculiarità delle figura all'interno
del raggruppamento e dello scopo perseguito dal legislatore
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
alla distanza di 5 metri dalla strada, il Collegio osserva
che essa è pubblica.
Dalle foto, difatti, si rileva agevolmente che su di essa
insistono gli impianti della pubblica illuminazione nonché
la numerazione civica, e se ne deduce quindi la destinazione
pubblica con conseguente presunzione di pubblicità della
medesima.
---------------
Il Collegio rileva che, laddove le pertinenze abbiano
dimensioni trascurabili, esse secondo giurisprudenza
condivisibile devono non rispettare la disciplina in materia
di distanze né sono soggette a permesso di costruire.
In particolare, è stato ritenuto pertinenza un deposito
agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori
rispetto ad un immobile principale, con conseguente
insussistenza dei presupposti per la demolizione non
trattandosi di opera soggetta a concessione edilizia o
permesso di costruire.
Nel caso di specie, dalla produzione fotografica, emerge
che, per la destinazione, le ridotte dimensioni, i materiali
utilizzati e l’oggettiva destinazione, sia il cd. deposito
per attrezzi (che impegna un’area di mt. 4,30 di profondità,
8,10 di lunghezza e 2,40 di altezza) sia la tettoria adibita
a copertura dei posti auto presentano i caratteri della
pertinenza edilizia.
Il Collegio, difatti, condivide la Giurisprudenza secondo
cui la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed
edilizi ha connotati diversi e peculiari rispetto a quelli
civilistici, avendo rilievo determinante non tanto e non
solo il legame materiale tra pertinenza e immobile
principale, quanto che la prima non abbia autonoma
destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la
propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico; e assume inoltre rilievo la circostanza che si
tratti di opere di modeste dimensioni, inidonee, quindi, ad
alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
1.- I ricorrenti chiedono l’annullamento del provvedimento
con il quale il Comune di Cepagatti ha rigettato la
richiesta di sanatoria per una tettoia in legno adibita a
parcheggio coperto e di una rimessa per attrezzi.
Il provvedimento impugnato è motivato, quanto alla sola
rimessa per attrezzi, con riferimento al mancato rispetto
della distanza minima di 5 metri dal ciglio di una strada
pubblica prevista dalle NTA del Prg; per entrambi i
manufatti, con la circostanza che, in ogni caso, non è stato
prodotto l’atto pubblico, registrato e trascritto, per la
deroga alla distanza minima di 5 metri dal confine di
proprietà (quindi anche per il deposito ad attrezzi,
qualora, come sostenuto dai ricorrenti, detta strada dovesse
ritenersi privata e non pubblica); che non è stata allegata
alla domanda di sanatoria l’attestazione di avvenuto
deposito presso l’Amministrazione provinciale di Pescara,
servizio sismico, di quanto previsto ai sensi della legge
regionale n. 138 del 1996.
I ricorrenti espongono che innanzitutto si tratta di opere
pertinenziali (quantomeno con riferimento alla rimessa per
attrezzi) e quindi non sarebbe necessario il permesso di
costruire.
La strada in questione inoltre avrebbe natura di strada
privata in quanto attualmente ancora catastalmente intestata
all’originario proprietario il quale avrebbe peraltro
costituito in favore dei vicini il diritto di servitù di
passaggio su di essa; inoltre non avrebbe le caratteristiche
dimensionali previste dalla legge per una strada pubblica;
la mera inclusione nell’elenco delle strade pubbliche poi
non sarebbe ragione sufficiente per determinarne la natura
pubblica; mancherebbero le opere di urbanizzazione tipiche
di una strada pubblica.
L’articolo 14 della legge regionale n. 138 del 1996 poi non
si applicherebbe al caso di specie, atteso che l’attestato
di avvenuto deposito degli atti prescritti da detta legge
sarebbe previsto solo al momento dell’inizio dei lavori.
Quanto alla richiesta dell’atto pubblico trascritto, ai fini
della deroga della distanza minima di 5 metri dal confine di
proprietà, i ricorrenti osservano che la disciplina di cui
all’articolo 49.3 del regolamento edilizio non ne impone
l’allegazione ai fini della improcedibilità della domanda di
permesso di costruire, ma potrebbe semmai avere efficacia
simile ad una condizione sospensiva dell’efficacia del
permesso, anche in virtù del principio di proporzionalità
(declinato nella specie come divieto di aggravamento) che
impone di non gravare i privati di incombenti eccessivi
rispetto alla funzione perseguita.
E a tal proposito i ricorrenti allegano al ricorso una
dichiarazione del proprietario del lotto confinante con la
quale questi si dice disposto a ad autorizzare dette opere
mediante atto notarile.
1.2.- I ricorrenti chiedono, in via subordinata alla
condanna, l’adozione di un provvedimento di accoglimento,
nonché il risarcimento del danno ingiusto.
1.3.- All’udienza del 25.06.2015 la causa è passata in
decisione.
2. - Il Comune eccepisce preliminarmente che vi è stato già
un primo diniego di sanatoria (in data 09.08.2012) ed una
conseguente ordinanza di demolizione (del 27.02.2013).
Il diniego sulla seconda istanza di sanatoria, qui
impugnato, sarebbe pertanto un atto meramente confermativo,
con la conseguente inammissibilità del ricorso, rafforzata
peraltro dalla circostanza che i ricorrenti hanno omesso di
impugnare la precedente ordinanza di demolizione, che non
può dirsi divenuta inefficace, a fronte di una nuova
identica domanda di sanatoria cui sarebbe appunto conseguito
un diniego meramente confermativo del precedente.
L’eccezione appare infondata, in quanto dagli atti emerge
che il primo diniego conteneva anche ragioni ulteriori, che
poi sono state superate in risposta alla seconda istanza,
sicché non può sostenersi che quest’ultima sia stata
presentata al solo fine strumentale di ottenere la
sospensione di efficacia della ordinanza di demolizione.
E’ la stessa Amministrazione che, nel secondo diniego qui
impugnato, afferma che le ragioni impeditive al rilascio del
permesso in sanatoria “in buona parte sussistono ancora”,
con ciò ammettendosi appunto che a seguito di una rinnovata
istruttoria esse sono venuto in parte meno (cfr. Tar Molise,
sentenza, n. 406 del 2014).
3.- Nel merito il ricorso è fondato.
3.1.- Quanto alla distanza di 5 metri dalla strada, il
Collegio osserva che essa è pubblica.
Dalle foto, difatti, si rileva agevolmente che su di essa
insistono gli impianti della pubblica illuminazione nonché
la numerazione civica, e se ne deduce quindi la destinazione
pubblica con conseguente presunzione di pubblicità della
medesima (cfr. Cassazione civile sentenza n. 23733 del 2012;
Consiglio di Stato, sentenza n. 7504 del 2009; Tar
Catanzaro, sentenza n. 643 del 2008).
3.2.- Quanto alla mancanza del previsto accordo tra privati
per la deroga alla distanza dalla proprietà privata, ad
avviso del Collegio, la posizione dell’Amministrazione non
appare eccessivamente formalistica, vista l’esigenza di
garantire la stabilità delle scelte edilizie nonché la
circostanza che nel caso di specie ci si trova in una fase
successiva alla realizzazione delle opere, sicché l’onere
imposto al privato non è preventivo, ma successivo
all’intervento.
3.3.- Quanto al regime delle distanze dai confini, si rileva
dal provvedimento impugnato che tale disciplina sarebbe
prevista dal regolamento edilizio comunale, ed essa risulta
censurata con il rilievo secondo cui normalmente le
pertinenze non soggiacciono alle distanze previste per le
opere principali.
A tal proposito, il Collegio rileva che, laddove le
pertinenze abbiano dimensioni trascurabili, esse secondo
giurisprudenza condivisibile devono non rispettare la
disciplina in materia di distanze (cfr. Cassazione civile,
sentenza n. 72 del 2013) né sono soggette a permesso di
costruire.
In particolare, è stato ritenuto pertinenza un deposito
agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori
rispetto ad un immobile principale, con conseguente
insussistenza dei presupposti per la demolizione non
trattandosi di opera soggetta a concessione edilizia o
permesso di costruire (cfr. Tar Genova, sentenza n. 137 del
2015).
Nel caso di specie, dalla produzione fotografica, emerge
che, per la destinazione, le ridotte dimensioni, i materiali
utilizzati e l’oggettiva destinazione, sia il cd. deposito
per attrezzi (che impegna un’area di mt. 4,30 di profondità,
8,10 di lunghezza e 2,40 di altezza) sia la tettoria adibita
a copertura dei posti auto presentano i caratteri della
pertinenza edilizia.
Il Collegio, difatti, condivide la Giurisprudenza secondo
cui la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed
edilizi ha connotati diversi e peculiari rispetto a quelli
civilistici, avendo rilievo determinante non tanto e non
solo il legame materiale tra pertinenza e immobile
principale, quanto che la prima non abbia autonoma
destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la
propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico; e assume inoltre rilievo la circostanza che si
tratti di opere di modeste dimensioni, inidonee, quindi, ad
alterare in modo significativo l'assetto del territorio
(cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 3178 del 2014 e Tar
Bologna sentenza n. 301 del 2014)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 11.08.2015 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per i proprietari. Violazioni del conduttore,
inerzia pericolosa.
In caso di abuso costa cara l'inerzia al proprietario anche
se a violare il regolamento edilizio è il conduttore. Il
comune acquisisce al suo patrimonio l'immobile per demolire
le opere contro legge: non risulta infatti che il locatore
abbia diffidato l'inquilino a mettersi in regola né che
abbia minacciato altrimenti la risoluzione del contratto
d'affitto. Affinché il primo possa dirsi estraneo alla
condotta del secondo, è necessario che ponga in essere
condotte che puntano davvero alla tutela dell'abuso.
È quanto emerge dal
Consiglio di Stato -Sez.
VI- nella
sentenza 07.08.2015 n. 3897.
Tutta colpa delle videolottery: il proprietario
dell'immobile affittato alla sala giochi si vede portar via
i locali dal comune per l'attività illecita compiutavi dal
conduttore. E ciò perché l'installazione delle Vlt risulta
contraria alla variazione del regolamento edilizio, mentre
il contratto di locazione risulta peraltro anteriore alla
modifica.
Il punto è che l'affitto viene sottoscritto con obbligo di
adeguamento alle esigenze e il proprietario del cespite ben
poteva rendersi conto che l'utilizzo attivato dal locatario
nell'immobile commerciale non era consentito. Per chiamarsi
fuori dall'illecito compiuto dall'inquilino il proprietario
deve dimostrare di avergli intimato di cessarlo con toni
ultimativi.
Non basta dunque dissociarsi dall'abuso del conduttore
quando il comune ha notificato la comunicazione di avvio del
procedimento oltre che all'inquilino allo stesso
proprietario, il quale però non ha ritenuto di depositare
alcuna memoria difensiva. Spese compensate per la
peculiarità della vicenda
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio osserva che potrebbe condividersi la prima parte
della doglianza, secondo cui eventuali dissidi con i
confinanti non possono costituire ragione sufficiente per
negare un permesso di costruire o per annullarlo in
autotutela dopo il suo rilascio.
Tuttavia, l’Amministrazione deve invece spingersi oltre,
individuando la ragione del dissidio e valutando se questa
possa influire sui presupposti per il rilascio del titolo
quali, ad esempio, la disponibilità del bene o la sua
legittimazione ad essere trasformato attraverso l’attività
edilizia successiva.
1. Con il ricorso introduttivo del giudizio viene impugnato
il provvedimento del 09.04.2014 prot. n. 4056 con cui veniva
annullato, in autotutela, il permesso di costruire n. 31 del
14.10.2013 rilasciato in deroga alle distanze, ai sensi
dell’art. 79 del DPR n. 380/2001, per l’installazione di un
ascensore esterno finalizzato all’abbattimento di barriere
architettoniche.
Le ragioni dell’annullamento vengono individuate nella falsa
attestazione, resa in sede di domanda, secondo cui sarebbe
stata risolta la vertenza con i confinanti riguardante
l’area interessata dai lavori, oltre all’esigenza di non
interferire nell’esecuzione della sentenza del Tribunale
Civile di Ascoli Piceno n. 79/2013 che disponeva la
demolizione del manufatto su cui tale ascensore avrebbe
dovuto appoggiare, dovendosi quindi provvedere attraverso
soluzioni alternative. Il Comune si determinava inoltre sul
rilievo che, alla data di adozione del provvedimento
impugnato, i lavori non erano iniziati.
Si è costituita in giudizio la sola contro interessata per
dedurre eccezioni in rito e per contestare, nel merito, le
deduzioni di parte ricorrente chiedendone il rigetto.
Propone, inoltre, ricorso incidentale avverso il permesso di
costruire n. 31 del 14.10.2013 per ragioni analoghe a quelle
che hanno determinato l’annullamento d’ufficio, chiedendo
infine l’adempimento alle sentenze del giudice civile nn.
53/2002 e 79/2003.
2. Il ricorso introduttivo del giudizio è infondato, per cui
il Collegio ritiene di soprassedere dall’esame
dell’eccezione preliminare.
3. Con il primo motivo viene dedotta violazione degli artt.
78 e 79 del DPR n. 380/2001 nonché eccesso di potere per
carenza di presupposti e di istruttoria, poiché la deroga di
cui all’art. 79 deve essere concessa indipendentemente dai
rapporti tra confinanti. Rientra poi nei rapporti
privatistici anche l’esecuzione della sentenza del giudice
ordinario. In ogni caso deve prevalere il diritto del
ricorrente all’eliminazione delle barriere architettoniche.
Al riguardo il Collegio osserva che potrebbe condividersi la
prima parte della doglianza, secondo cui eventuali dissidi
con i confinanti non possono costituire ragione sufficiente
per negare un permesso di costruire o per annullarlo in
autotutela dopo il suo rilascio.
L’Amministrazione deve invece spingersi oltre, individuando
la ragione del dissidio e valutando se questa possa influire
sui presupposti per il rilascio del titolo quali, ad
esempio, la disponibilità del bene o la sua legittimazione
ad essere trasformato attraverso l’attività edilizia
successiva.
Nel caso specifico ricorre quest’ultima circostanza.
La sentenza n. 53/2002 del Tribunale Civile di Ascoli
Piceno, confermata dalla Corte d’Appello di Ancona con
sentenza n. 79/2013, influisce sulla realizzabilità del
progetto, poiché l’ascensore verrebbe appoggiato su un
manufatto che deve essere demolito per ordine del giudice
(ma anche dell’autorità amministrativa, come si vedrà meglio
di seguito).
Non è quindi solo una questione circoscritta ai rapporti
interprivati, ma riguarda la legittimazione dello stato di
fatto su cui il progetto dell’ascensore si inserisce e ne
determina una trasformazione definitiva, incompatibile con
il suo adeguamento allo stato di diritto.
Sarebbe come chiedere il permesso di costruire per
sopraelevare un edificio completamente abusivo e di cui ne è
stata ordinata la demolizione.
La mera sussistenza di conflitti di vicinato risulta inoltre
esclusa dal fatto che il manufatto, su cui dovrebbe
appoggiare il realizzando ascensore, era stato anche oggetto
di ordinanza di demolizione emessa dal Comune in
applicazione dei poteri di vigilanza sull’attività edilizia
(poiché realizzato senza titolo); ordinanza impugnata
davanti a questo Tribunale e oggetto di misura cautelare
sospensiva, ma con ricorso poi estinto per perenzione, con
conseguente ripristino dell’efficacia del provvedimento
amministrativo qualora non superato da atti e provvedimenti
successivi.
Il diritto del ricorrente all’eliminazione delle barriere
architettoniche non può quindi prevalere fino al punto di
rendere irrilevanti provvedimenti legittimamente adottati
dell’autorità giudiziaria e dall’autorità amministrativa.
Nel caso di specie va osservato che anche qualora non
esistessero soluzione alternative, l’installazione
dell’ascensore potrebbe comunque essere rivalutata una volta
rimossa l’opera abusiva che avrebbe servito da basamento
(TAR Marche,
sentenza 24.07.2015 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va applicato l’indirizzo, ripetutamente affermato
dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui laddove
intercorra un breve lasso temporale tra il rilascio del
premesso di costruire (che è avvenuto in data 14.10.2013) e
la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento
(effettuata in data 08.03.2014), previa sospensione dei
lavori in data 26.11.2013 (con opera quindi mai iniziata), è
da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio
del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della
legalità ed una motivazione che faccia unicamente
riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun
legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento
alla conservazione di un titolo che non ha prodotto alcun
effetto.
4. Con il secondo motivo viene dedotta violazione ed errata
applicazione dell’art. 21-nonies della Legge n. 241/1990,
nonché eccesso di potere per difetto di motivazione.
Nello
specifico il ricorrente lamenta l’omessa indicazione
dell’interesse pubblico all’annullamento da compararsi con
l’interesse privato alla conservazione del provvedimento.
Rimarca inoltre la doglianza già dedotta con il motivo
precedente, secondo cui l’interesse all’eliminazione delle
barriere architettoniche prevale sull’interesse pubblico
all’esecuzione di una sentenza.
Anche tale censura va disattesa.
Al riguardo va applicato l’indirizzo, ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui
laddove, come nel caso all’esame, intercorra un breve lasso
temporale tra il rilascio del premesso di costruire (che è
avvenuto in data 14.10.2013) e la comunicazione di avvio del
procedimento di annullamento (effettuata in data 08.03.2014),
previa sospensione dei lavori in data 26.11.2013 (con opera
quindi mai iniziata), è da ritenersi sufficiente, quale
presupposto per l'esercizio del potere di autotutela,
l'esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione
che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun
legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento
alla conservazione di un titolo che non ha prodotto alcun
effetto (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 04.05.2012 n.
772; idem, Milano, Sez. IV, 13.04.2011 n. 971; TAR Lecce,
Sez. III, 06.06.2008 n. 1680; TRGA, Bolzano, 07.10.2006 n. 379;
TAR Lombardia, Brescia, 04.06.2004 n. 609)
(TAR Marche,
sentenza 24.07.2015 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Project financing, limiti agli enti.
L'autotutela della p.a., se la società fallisce, va
circoscritta.
Per il Consiglio di stato il comune non può appropriarsi dei
beni dell'azienda.
Dal Consiglio di stato arriva uno stop per gli enti pubblici
concedenti all'esercizio di poteri di natura pubblicistica
nell'ambito delle concessioni di lavori pubblici realizzate
in project financing.
Con la
sentenza
21.07.2015 n. 3631, i giudici di
palazzo Spada -Sez. V- hanno esaminato il ricorso presentato dalla
curatela fallimentare di una società mista incaricata della
realizzazione e gestione di un parcheggio in finanza di
progetto contro il provvedimento con il quale il comune
concedente, nonché socio di maggioranza della società,
esercitando i poteri di autotutela demaniale ex articolo 826
codice civile, acquisiva l'area su cui insiste il parcheggio
al proprio patrimonio indisponibile.
La società mista concessionaria, al momento del fallimento,
risultava titolare di due distinte concessioni: una avente
ad oggetto la costruzione e gestione di un parcheggio
multipiano e una avente ad oggetto esclusivamente la
gestione di aree pubbliche di sosta. In seguito al
fallimento, il comune procedeva a dichiarare la società
decaduta da entrambe le concessioni e, con provvedimento
successivo, accertava la caducazione automatica di tutti gli
accordi accessori alle concessioni, tra i quali il contratto
di cessione del diritto di superficie sulle aree adibite ai
parcheggi, ordinandone, di conseguenza, lo sgombero e
disponendone l'acquisizione al proprio patrimonio
indisponibile.
Nell'accogliere le motivazioni su cui si basa l'impugnativa
al Consiglio di stato da parte degli organi del fallimento,
i giudici richiamano la precedente sentenza n. 1600 del 14.04.2008, con la quale viene chiarito che la distinzione
tra concessione di lavori pubblici e concessione di pubblico
servizio si fonda su un criterio di tipo «funzionale», oltre
a quello della «prevalenza economica».
Di conseguenza, si
configura una concessione di lavori pubblici qualora la
gestione del servizio si renda strumentale alla costruzione
dell'opera, in quanto funzionale al reperimento dei mezzi
finanziari necessari alla sua realizzazione; d'altra parte,
una concessione si qualifica di servizio pubblico nei casi
in cui la realizzazione dei lavori è necessaria a garantire
la gestione di un servizio, il cui funzionamento è comunque
assicurato da un'opera esistente.
Nel caso in questione,
quindi, la concessione per la realizzazione e gestione del
parcheggio si inquadra nell'ambito delle concessioni di
lavori pubblici: il parcheggio multipiano interrato,
infatti, aumentando la capacità di spazi di sosta sul
territorio comunale, si configura come opera di pubblica
utilità, la cui costruzione non è imposta da alcuna norma di
legge e per la cui realizzazione mediante project financing
viene fatto ricorso principalmente a capitali di origine
privata. Viceversa, la concessione per la gestione delle
aree pubbliche di sosta risulta essere strumentale alla
gestione di un servizio previsto dal Codice della strada,
quello della riscossione dei proventi dei parcheggi a
pagamento, afferendo così alla categoria delle concessioni
di servizio pubblico.
Sulla base della suddetta distinzione, i giudici
amministrativi procedono a chiarire le diverse conseguenze
del fallimento della società sulle due concessioni in
essere.
Sebbene venga riconosciuta la legittimità da parte del
comune a dichiarare la decadenza di entrambe le concessioni,
solo relativamente alla concessione di servizio pubblico,
ovvero quella consistente nella gestione delle aree
pubbliche di sosta, l'ente concedente può procedere, al fine
di far fronte all'interruzione di pubblico servizio,
all'acquisizione in autotutela delle aree in concessione.
Viceversa, per quanto riguarda la concessione per la
costruzione e gestione del parcheggio multipiano, la riacquisizione delle aree al proprio patrimonio
indisponibile comporterebbe l'appropriazione illegittima da
parte del comune di un bene privato, essendo il parcheggio
realizzato su un'area concessa dal comune con diritto di
superficie alla società concessionaria, che ne risulta
pertanto proprietaria ai sensi dell'articolo 952 codice
civile.
A questa conclusione si giunge anche nel caso in
oggetto, in cui l'amministrazione comunale possiede la
maggioranza nella società mista fallita: non appare,
infatti, ammissibile che il Comune possa sollevarsi dal
rischio di impresa implicitamente assunto al momento della
costituzione della società, ricorrendo alle prerogative
proprie degli enti pubblici, quali l'esercizio
dell'autotutela demaniale.
I giudici di Palazzo Spada, accogliendo le istanze della
curatela, rilevano anche la violazione del principio della
par condicio creditorum, dal momento che l'amministrazione
comunale, soddisfacendo le proprie ragioni di credito
derivanti dal fallimento tramite l'esercizio dei propri
poteri autoritativi, sottrae alla massa passiva dei
creditori l'unico cespite patrimoniale caduto nella
procedura concorsuale.
Infine, l'impossibilità per il comune di agire in autotutela
emerge anche in merito alla realizzazione delle opere
tramite project financing: infatti, dal momento che il
ritorno per i finanziatori del progetto è garantito
esclusivamente dai flussi finanziari derivanti
dall'investimento stesso, appare necessario prevedere forme
di garanzia patrimoniale che consentano a questi di mitigare
gli effetti negativi di un eventuale default del
concessionario.
In conclusione, il ricorso da parte del Comune ai propri
poteri di autotutela al fine di riacquisire le aree adibite
alla costruzione del parcheggio multipiano in finanza di
progetto, non solo risulta essere in conflitto con la natura
privata del bene, ma lede anche il principio della par
condicio creditorum e indebolisce il sistema di garanzie a
tutela dei finanziatori, minando pericolosamente le basi
stesse del project financing
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
relazione agli articoli 31 e 34 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, dette norme, nella parte in cui prevedono la
“rimozione” delle difformità rilevate, rispetto al progetto
assentito, debbono trovare lettura conforme ai principi –di
rilevanza anche comunitaria– di proporzionalità e
ragionevolezza.
In base a tali principi, ove sussista un manufatto
regolarmente assentito ed autonomamente utilizzabile,
l’esecuzione di altre opere, che comportino la realizzazione
di un “quid novi”, ugualmente suscettibile di utilizzazione
autonoma, comporta applicazione del citato art. 31 solo per
quanto abusivamente realizzato, quando lo “scorporo” della
parte assentita sia materialmente possibile (come nel caso
in esame, potendosi riportare il terreno al livello
originario,con ripristino del carattere di fondazione della
parte interrata).
Per le difformità parziali della parte regolarmente
edificata, invece, la sanzione deve essere pure di tipo
demolitorio, ma ai sensi dell’art. 34 del medesimo d.P.R. n.
380, per quanto riguarda il volume aggiuntivo, ricavato con
mere tamponature del porticato autorizzato ed eventuale
sanzione pecuniaria per altre difformità minori, ove non
eliminabili “senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità” (come sembra ipotizzabile per il modesto eccesso
di altezza e di superficie, fatto salvo in ogni caso anche
il ripristino della destinazione d’uso, a suo tempo
assentita).
Deve infatti ritenersi che la demolizione di un intero
fabbricato, realizzato in parte con regolare titolo
abilitativo, sia ammessa solo quando gli interventi abusivi
risultino tali, da rendere non più identificabile e
ripristinabile quanto regolarmente edificato: situazione che
non si ravvisa nel caso di specie e che, soprattutto, non
appare adeguatamente valutata da parte del Comune, con
immotivata e, a tal punto, sproporzionata compromissione
degli interessi del proprietario dell’immobile, che potrebbe
salvare il valore della proprietà, nella esatta misura
corrispondente all’edificazione già assentita, senza alcuna
lesione dell’’interesse pubblico al rispetto delle regole
per la trasformazione del territorio, tenuto conto anche dei
vincoli gravanti sullo stesso.
...
il Collegio rileva l’illegittimità dell’ordine di
demolizione, impugnato in primo grado, sotto il duplice
profilo del già accennato travisamento, circa la natura
degli interventi effettuati, nonché della falsa applicazione
degli articoli 31e 34 del citato d.P.R. 06.06.2001, n.
380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia).
Dette norme infatti, nella parte in cui prevedono la
“rimozione” delle difformità rilevate, rispetto al progetto
assentito, debbono trovare lettura conforme ai principi –di
rilevanza anche comunitaria– di proporzionalità e
ragionevolezza.
In base a tali principi, ove sussista un
manufatto regolarmente assentito ed autonomamente
utilizzabile, l’esecuzione di altre opere, che comportino la
realizzazione di un “quid novi”, ugualmente suscettibile di
utilizzazione autonoma, comporta applicazione del citato
art. 31 solo per quanto abusivamente realizzato, quando lo
“scorporo” della parte assentita sia materialmente possibile
(come nel caso in esame, potendosi riportare il terreno al
livello originario,con ripristino del carattere di
fondazione della parte interrata).
Per le difformità
parziali della parte regolarmente edificata, invece, la
sanzione deve essere pure di tipo demolitorio, ma ai sensi
dell’art. 34 del medesimo d.P.R. n. 380, per quanto riguarda
il volume aggiuntivo, ricavato con mere tamponature del
porticato autorizzato ed eventuale sanzione pecuniaria per
altre difformità minori, ove non eliminabili “senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità” (come sembra
ipotizzabile per il modesto eccesso di altezza e di
superficie, fatto salvo in ogni caso anche il ripristino
della destinazione d’uso, a suo tempo assentita).
Deve infatti ritenersi che la demolizione di un intero
fabbricato, realizzato in parte con regolare titolo
abilitativo, sia ammessa solo quando gli interventi abusivi
risultino tali, da rendere non più identificabile e
ripristinabile quanto regolarmente edificato: situazione che
non si ravvisa nel caso di specie e che, soprattutto, non
appare adeguatamente valutata da parte del Comune, con
immotivata e, a tal punto, sproporzionata compromissione
degli interessi del proprietario dell’immobile, che potrebbe
salvare il valore della proprietà, nella esatta misura
corrispondente all’edificazione già assentita, senza alcuna
lesione dell’’interesse pubblico al rispetto delle regole
per la trasformazione del territorio, tenuto conto anche dei
vincoli gravanti sullo stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.06.2015 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comune non può disapplicare una norma del PRG/PGT
palesemente illegittima ma, semmai, provvedervi in
autotutela.
Il tema centrale nella fattispecie non è quello della
legittimità o meno della citata normativa di cui all’art.
178 delle N.T.A. che, come si è visto, collide frontalmente
con la cogente disciplina nazionale.
Il nocciolo della questione attiene alla diversa tematica
della possibilità o meno da parte del Comune di disapplicare
la propria norma di pianificazione o, meglio, la possibilità
di un organo tecnico del Comune di disapplicare una
disciplina urbanistica adottata dall’organo consiliare del
Comune stesso. E tale potere è palesemente in contrasto con
l’ordinamento.
In questo senso il Comune non ha il potere di disapplicare
una propria disposizione cogente, per quanto questa sia
pacificamente in contrasto con l’ordinamento, ma ha, al più,
il dovere di agire in autotutela, autoannullandola, e ciò
non certamente tramite l’intervento di un organo tecnico,
carente di competenze in tema pianificatorio, ma attraverso
l’azione dello stesso strumento consiliare deputato
all’adozione della disciplina urbanistica.
3. - Con il primo motivo di appello, viene lamentata
violazione dell’art. 12, comma 3, del Testo unico
dell’edilizia e dell’art. 10, comma 5, della legge
urbanistica, quali principi generali di governo del
territorio. Seguendo la posizione del Comune, la norma de
qua non potrebbe essere applicata in quanto in palese
contrasto con la cogente normativa nazionale in tema di
efficacia delle misure di salvaguardia a seguito di adozione
di variante urbanistica.
La detta censura è poi sviluppata, sotto un diverso profilo,
con il secondo motivo di appello, che si riferisce ad una
diversa interpretazione dottrinale della disciplina de qua.
3.1. - La censura, come articolata in entrambi i motivi, va
respinta in quanto inconferente.
Come correttamente evidenziato dalla difesa della parte
appellata, il tema qui in esame non è quello della
legittimità della norma di cui all’art. 178 delle N.T.A. del
Comune di Cesenatico, atteso che nessuna delle parti può
proporre censure sotto questo aspetto (non il Comune, che
tale disposizione ha adottato e che, non potendo
disapplicarla, può solo autoannullarla; né la controparte,
che di tale disciplina vuole giovarsi), ma quello diverso
della possibilità o meno che la stessa norma possa essere
applicata al caso concreto, dove l’applicabilità è vicenda
diversa e più complessa, di cui la vantata illegittimità
costituisce uno, ma non l’unico, dei parametri di
riferimento.
Partendo proprio dall’esame della disciplina vigente nel
Comune di Cesenatico ed applicabile alla situazione in
scrutinio, non vi sono dubbi che la disposizione in esame
sia del tutto configgente con la disciplina nazionale in
tema di misure di salvaguardia, come già evidenziato dal
primo giudice.
La fattispecie è, infatti, regolata, nell’ambito degli
strumenti urbanistici applicabile ratione temporis, dalla
disciplina dell’articolo 178 delle N.T.A., il quale dispone
che “i procedimenti relativi all’attività edilizia in corso
alla data di adozione di nuovi strumenti di pianificazione
territoriale ed urbanistica… per i quali non sia stato
possibile garantire la partecipazione degli interessati al
procedimento di formazione degli strumenti medesimi, come
previsto dall’articolo 8, comma terzo della legge regionale
n. 20 del 24.03.2000, sono conclusi secondo la normativa
previgente”.
Si tratta in concreto della disciplina valevole alla data
della presentazione della domanda di rilascio del titolo
edilizio da parte della società ricorrente e perciò
applicabile alla fattispecie, in quanto il procedimento
amministrativo era già in corso nel momento in cui sono
sopravvenuti i nuovi strumenti urbanistici ostativi.
Tuttavia, pur muovendo da una concordante valutazione del
fatto, deve però ritenersi errata la ricostruzione del primo
giudice sulla coerenza di tale disciplina comunale con
quella nazionale in quanto, al contrario di quanto da questi
ritenuto, la normativa in esame è palesemente in contrasto
con l’art. 12 del D.P.R. 380/2001 e con la corrispondente
disposizione, di analogo tenore, della legge regionale n. 20
del 2000.
Infatti, il comma 3 del citato art. 12 “Presupposti per il
rilascio del permesso di costruire” così recita: “In caso di
contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso
di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici
adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla
domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi
tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico,
ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento
urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione
competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione
della fase di pubblicazione.”
Quindi, mentre la norma nazionale impedisce, sospendendola,
l’ulteriore attività di rilascio dei titoli abilitativi, la
norma comunale la permette, sebbene con alcune precisazioni.
Il contrasto tra le disposizioni è quindi frontale.
Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, la
norma tecnica attuativa contrastava con il disposto delle
norme nazionali, seguendo proprio i principi già evocati in
giudizio (rinviando per brevità alle citate decisioni
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2008
e della Corte Costituzionale 29.05.2013, n. 102 in
merito al rapporto tra il potere normativo nazionale e
regionale evidenziando che la disciplina dell’articolo 12
così come le ulteriori disposizioni del D.P.R. 380 del 2001
contengono principi fondamentali della materia non
derogabili dalla normativa regionale).
L’ipotesi ricostruttiva proposta in sentenza, quella per cui
il Comune, in una situazione di tale cogenza, possa adottare
una norma derogatoria, di carattere dispositivo e
integrabile dalla pianificazione urbanistica, è quindi
assolutamente non condivisibile, essendosi qui in presenza
di una norma dal marcato carattere dell’illegittimità.
Il tema centrale nella fattispecie non è tuttavia quello
della legittimità o meno della citata normativa di cui
all’art. 178 delle N.T.A. che, come si è visto, collide
frontalmente con la cogente disciplina nazionale. Il
nocciolo della questione attiene alla diversa tematica della
possibilità o meno da parte del Comune di disapplicare la
propria norma di pianificazione o, meglio, la possibilità di
un organo tecnico del Comune di disapplicare una disciplina
urbanistica adottata dall’organo consiliare del Comune
stesso. E tale potere è palesemente in contrasto con
l’ordinamento.
In questo senso (per le diverse declinazioni
dell’impossibilità dell’amministrazione di disattendere i
propri atti vincolanti, si veda da ultimo Consiglio di
Stato, sez. V, 23.09.2014 n. 3150, in merito alle
regole dei bandi di gara; Consiglio di Stato, sez. VI, 16.09.2011 n. 5178, sull’efficacia dell’atto illegittimo
e sulla possibilità di rilievo di tale vizio con i soli
rituali strumenti previsti dall'ordinamento, e non tramite
la disapplicazione; in senso conforme Consiglio di Stato,
sez. V, 17.02.2010 n. 934), il Comune non aveva il
potere di disapplicare una propria disposizione cogente, per
quanto questa fosse pacificamente in contrasto con
l’ordinamento, ma avrebbe dovuto al più agire in autotutela, autoannullandola, e ciò non certamente tramite l’intervento
di un organo tecnico, carente di competenze in tema
pianificatorio, ma attraverso l’azione dello stesso
strumento consiliare deputato all’adozione della disciplina
urbanistica.
In concreto, come già correttamente affermato dal primo
giudice, essendo del tutto pacifico che il progetto
presentato dalla società ricorrente fosse in contrasto con
la variante agli strumenti urbanistici sopravvenuti ed
approvati dal comune, la parte ha chiesto di giovarsi di una
norma esistente nello strumento urbanistico e il Comune,
ossia lo stesso soggetto che aveva imposto tale
disposizione, non aveva alcun potere per eludere la sua
stessa normativa.
Conclusivamente, pur in presenza di una palese violazione
dell’ordinamento urbanistico, il Comune era vincolato a dare
attuazione alla disciplina che esso stesso aveva adottato.
Il motivo di appello va quindi respinto, seppure con una
motivazione diversa dal giudice di prime cure
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la legittimità di un intervento edilizio di sopraelevazione
di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione
paesaggistica rilasciata e la D.I.A. presentata, la
legittimazione della parte è fondata sull’esistenza della vicinitas.
Osserva la Sezione come, sulla sufficienza di tale solo
requisito, siano registrabili orientamenti giurisprudenziali
difformi.
Secondo una tesi
più ampliativa, la legittimazione a impugnare un titolo
edilizio non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra
gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità,
senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la
sussistenza di un interesse qualificato alla tutela
giurisdizionale.
Per una concezione più limitativa, ai fini
dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione
della vicinitas andrebbe ponderata in base ad un giudizio
che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera
realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni
urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo
insediamento sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole
rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera.
Ritiene tuttavia la Sezione di doversi rifare
all’orientamento ampliativo prima indicato, in ragione del
diverso atteggiarsi della prova del requisito ulteriore,
come è andata evolvendosi in tempi recenti.
Infatti, l’evoluzione delle tematiche connesse alla
pianificazione territoriale ha trasferito nel campo
urbanistico temi prima ad esso estranei (come la
salvaguardia dei valori ambientali o culturali),
determinando una ricerca più puntuale in questi settori di
ulteriori fatti di legittimazione.
Appare quindi necessario ribadire, in tale contesto
evolutivo, il principio della maggiore tutelabilità di
quegli interessi che, contrastando una nuova edificazione,
mirano a preservare le condizioni dell'area, il pregiudizio
in capo alla proprietà preesistente e anche l'assetto
edilizio ed urbanistico ed ambientale della zona. E ciò può
aversi riconoscendo ad essi, forse in modo più intenso che
nel passato, il connotato della legittimazione in relazione
alla sola vicinanza, senza ulteriori qualificazioni che,
invece, ben si addicono a forme di tutela di maggiore
ampiezza e più difficile esperibilità.
3. - Con il primo motivo di appello, viene riproposta
l’eccezione di inammissibilità dell’impugnativa per difetto
di interesse, in relazione alla circostanza
dell’insufficienza del criterio della vicinitas per radicare
il potere di impugnativa.
3.1. - La censura va respinta.
Come evidenziato, la controversia in scrutinio concerne la
legittimità di un intervento edilizio di sopraelevazione di
immobile esistente, attraverso l’autorizzazione
paesaggistica rilasciata e la D.I.A. presentata.
La
legittimazione della parte è fondata sull’esistenza della vicinitas, visto che non è oggetto di contestazione la
circostanza che gli immobili siano distanti solo pochi
metri, che appartengano allo stesso contesto urbanistico
territoriale e si pongano ai lati della medesima strada.
Osserva la Sezione come, sulla sufficienza di tale solo
requisito, siano registrabili orientamenti giurisprudenziali
difformi (per l’esame di alcuni profili della questione si
veda Consiglio di Stato, sez. IV, 29.11.2012 n. 6081;
id., sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
Secondo una tesi
più ampliativa, la legittimazione a impugnare un titolo
edilizio non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra
gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità,
senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la
sussistenza di un interesse qualificato alla tutela
giurisdizionale (Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2010,
n. 1535).
Per una concezione più limitativa, ai fini
dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione
della vicinitas andrebbe ponderata in base ad un giudizio
che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera
realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni
urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo
insediamento sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole
rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera (Consiglio
di Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2849).
Ritiene tuttavia la Sezione di doversi rifare
all’orientamento ampliativo prima indicato, in ragione del
diverso atteggiarsi della prova del requisito ulteriore,
come è andata evolvendosi in tempi recenti.
Infatti,
l’evoluzione delle tematiche connesse alla pianificazione
territoriale ha trasferito nel campo urbanistico temi prima
ad esso estranei (come la salvaguardia dei valori ambientali
o culturali), determinando una ricerca più puntuale in
questi settori di ulteriori fatti di legittimazione (si
veda, in materia di impugnazione di titoli che incidano su
interessi ambientali, da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV,
21.11.2013 n. 5528).
Appare quindi necessario ribadire, in tale contesto
evolutivo, il principio della maggiore tutelabilità di
quegli interessi che, contrastando una nuova edificazione,
mirano a preservare le condizioni dell'area, il pregiudizio
in capo alla proprietà preesistente e anche l'assetto
edilizio ed urbanistico ed ambientale della zona. E ciò può
aversi riconoscendo ad essi, forse in modo più intenso che
nel passato, il connotato della legittimazione in relazione
alla sola vicinanza, senza ulteriori qualificazioni che,
invece, ben si addicono a forme di tutela di maggiore
ampiezza e più difficile esperibilità.
Nel caso di specie, non sono in dubbio né il tema della
vicinanza né quello dell’identità del contesto territoriale
ed urbanistico, rendendo quindi insostenibile l’eccezione de
qua
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2861 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista
dall'art. 9 del decreto 02.04.1968, n. 1444,
deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le
pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela
Nel computo delle distanze vanno
considerati tutti gli elementi costruttivi aventi i
caratteri della solidità, della stabilità e della
immobilizzazione; pertanto vanno ricompresi tra i manufatti
rilevanti a fini di distanze, anche i muri di contenimento
quale quello in questione.
4. - Con il
secondo motivo di appello, vengono sollevate censure in
relazione al motivo che ha determinato l’accoglimento del
ricorso da parte del TAR, lamentando erroneità della
sentenza per travisamento, perplessità, difetto di
motivazione e contraddittorietà; violazione e falsa
applicazione dell’art. 117 della Costituzione, dell’art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968, dell’art. 3 della L.R. Liguria n.
49 del 2009 e dell’art. 100 c.p.c.; mancato giudizio di
inammissibilità.
Nel dettaglio, si evidenzia (punto a) la derogabilità degli
standard di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 e
(punto b) la presenza della distanza minima di dieci metri
tra le costruzioni.
4.1. - Entrambi i profili del motivo sono infondati.
In relazione alla derogabilità o meno degli standard
previsti dall’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, va rimarcato
come il tema della loro cogenza abbia avuto una conferma
espressa, in senso diametralmente opposto a quanto voluto
dalla parte appellante, proprio con la disciplina di cui
all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotta
dall'articolo 30, comma 1, del D.L. 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n.
98).
La detta disposizione ha attribuito ex novo un potere
di predisporre deroghe in materia di limiti di distanza tra
fabbricati, “ferma restando la competenza statale in materia
di ordinamento civile con riferimento al diritto di
proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle
disposizioni integrative”, alle regioni ed alle province
autonome che potranno fruire di tale opportunità tramite
“proprie leggi e regolamenti”, confermando quindi l’esigenza
di una positiva ed espressa valutazione dei modi di deroga
alla disciplina generale di cui al decreto del Ministro dei
lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, e quindi negando una
recessività sui generis della norma.
Peraltro, proprio l’ipotesi di deroghe allo stesso D.M. era
stata vagliata dalla Corte costituzionale, con sentenza del
23.01.2013 n. 6, nella quale si è evidenziato che la
legislazione regionale che interviene in tema “è legittima
solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere
urbanistico” e che “le norme regionali che, disciplinando le
distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono
illegittimamente nella materia «ordinamento civile»,
riservata alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato.”
Enunciando un principio del tutto valevole nel caso
in esame, il giudice delle leggi ha quindi affermato “Il
punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in
materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato dalla
Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di
«efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012;
ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest'ultima disposizione consente che siano fissate
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe
all'ordinamento civile delle distanze tra edifici sono,
dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio.”
È quindi evidente che, nel caso in esame, non vertendosi in
alcuna delle eccezioni sopra vagliate, correttamente il
primo giudice ha ritenuto la disciplina ministeriale del
tutto inderogabile.
Venendo poi al secondo punto, attinente alla questione della
distanza tra i fabbricati, va evidenziato che non è qui in
contestazione il fatto oggettivo, ma la sua applicabilità
alla vicenda in esame, in relazione ai presupposti
esistenti. Infatti, la parte appellante contesta che la
disciplina sia applicabile alla fattispecie sia perché la
nuova edificazione “non dista meno di dieci metri da alcun
fabbricato di proprietà dell’attuale appellata (che risiede
nell’appartamento a piano terra del civico 8 di via privata
Giovo)” sia perché la distanza di dieci metri, come
computata dal TAR, è riferita al muro di contenimento frontistante la via privata Giovo e quindi non è riferibile
ad una parete finestrata.
Le questioni sono però inconferenti.
Iniziando dal secondo dei profili di doglianza, va notato,
come correttamente notato dal TAR, che “nella specie
appaiono pacifici i dati di fatto: l’intervento comporta un
nuovo volume (con parete finestrata) in altezza del
preesistente edificio, rispetto al quale il limite dei dieci
metri non viene rispettato in confronto al muro di
contenimento frontistante del fabbricato di via privata
Giovo n. 6 e per una porzione nei confronti dell’edificio
della stessa via privata nn. 3a e 3b posto in posizione
latistante.”
Infatti, è incontestabile l’esistenza di una
parete finestrata, che è quella dell’edificio che si andrà a
realizzare (fatto peraltro rinvenibile dall’esame dei
progetti presentati a corredo della D.I.A. e inserito al n.
7 dei documenti presentati dalla ricorrente Galli al TAR
e, peraltro, non contestato dalla parte appellante, che
evidenzia la natura di immobile non finestrato del muro di
contenimento, senza mai accennare alla condizione
dell’immobile che sarà realizzato).
La doglianza è quindi smentita in fatto (e peraltro, nemmeno
aggredita dalla parte che, si ripete, fa riferimento solo ad
uno dei due manufatti contrastanti, trascurando
completamente quello che essa stessa andrà a realizzare).
In merito poi alle modalità di calcolo della distanza
predicabile, il primo giudice ha fatto buon governo delle
precedenti decisioni in tema, evidenziando: che la distanza
di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9 del decreto 02.04.1968, n. 1444,
deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le
pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909); che nel computo delle distanze vanno
considerati tutti gli elementi costruttivi aventi i
caratteri della solidità, della stabilità e della
immobilizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996,
n. 268); che pertanto vanno ricompresi tra i manufatti
rilevanti a fini di distanze, anche i muri di contenimento
quale quello in questione (da ultimo, Cassazione civile,
sez. VI, 13.09.2012 n. 15391).
Anche in questo caso, il primo giudice ha valutato la
fattispecie correttamente.
I rilievi appena svolti consentono di respingere il motivo
anche in relazione al primo profilo, dove la parte fondava
le proprie affermazioni sulla disaggregazione del concetto
di edificio, ritenendo che l’abitazione della parte
appellante non comprendesse anche il muro di contenimento,
ricostruzione del tutto infondata, come appena visto.
Il motivo di appello è quindi infondato e va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2861 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR n. 06.06.2001, n.
380 può essere chiesta solo per interventi realizzati in
assenza o in difformità della denuncia di inizio attività
prevista dall'art. 22, commi 1 e 2, e non è estensibile
anche agli interventi assoggettati a permesso di costruire
per i quali trova applicazione la procedura di accertamento
di conformità di cui all'art. 36.
Nel caso di specie i lavori modificano la sagoma
dell’edificio e, ai sensi dell’art. 22, comma 2, nel testo
vigente prima delle modifiche apportate dall'articolo 30,
comma 1, lettera e), del decreto legge 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98
applicabile ratione temporis alla fattispecie all’esame, gli
interventi comportanti modifica alla sagoma non erano
autorizzabili con denuncia di inizio attività.
Ne consegue che, rispetto agli abusi realizzati, non può
trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 37 del
DPR 06.06.2001, n. 380 e, in mancanza dei requisiti minimi
per ritenere efficace la denuncia di inizio attività, la
sanatoria non può ritenersi accolta per silenzio-assenso.
...
per l'annullamento:
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico
del Comune di Albaredo d’Adige del 28.07.2006 n. 9074., con
il quale è stata negata la D.I.A. presentata in data 25.05.2006 per la variante in sanatoria al permesso di
costruire del 19.09.2005 n. 3839;
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico
del 03.10.2006 n. 11279, con il quale è stato negato il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria domandato
con istanza del 03.08.2006;
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico
del 27.10.2003 n. 12292, con il quale è stata ordinata la
rimozione delle opere in difformità;
- del verbale di sopralluogo ed accertamento redatto dal
Comando di polizia municipale in data 11.04.2006 n. 4703 e
l’ordinanza di sospensione lavori del 12.04.2006 n. 4768.
...
1. Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase
cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere
respinto.
Il primo motivo con il quale i ricorrenti lamentano la
tardività del diniego dell’istanza di sanatoria presentata
con denuncia di inizio attività ai sensi degli artt. 22, 23
e 37 del DPR 06.06.2001, n. 380, con conseguente formarsi
dell’accoglimento della medesima per silenzio-assenso, deve
essere respinto.
Infatti la sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR n. 06.06.2001, n. 380, può essere chiesta solo per interventi
realizzati in assenza o in difformità della denuncia di
inizio attività prevista dall'art. 22, commi 1 e 2, e non è
estensibile anche agli interventi assoggettati a permesso di
costruire per i quali trova applicazione la procedura di
accertamento di conformità di cui all'art. 36 (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873).
Nel caso di specie i lavori modificano la sagoma
dell’edificio e, ai sensi dell’art. 22, comma 2, nel testo
vigente prima delle modifiche apportate dall'articolo 30,
comma 1, lettera e), del decreto legge 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013,
n. 98 applicabile ratione temporis alla fattispecie
all’esame, gli interventi comportanti modifica alla sagoma
non erano autorizzabili con denuncia di inizio attività.
Ne consegue che, rispetto agli abusi realizzati, non può
trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 37 del
DPR 06.06.2001, n. 380 e, in mancanza dei requisiti
minimi per ritenere efficace la denuncia di inizio attività,
la sanatoria non può ritenersi accolta per silenzio-assenso.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2015 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune ha apposto un’espressa prescrizione, da
ritenersi prevalente sulla indicazione di massima delle
altezze riportate negli elaborati grafici, secondo la quale
“l’altezza del muro della parte di fabbricato adibito a
ripostiglio–cantina sui prospetti nord e sud non dovrà
superare quella media esistente, ai fini del rispetto della
distanza dal confine”.
Poiché il permesso di costruire specificava che
l’accoglimento della domanda doveva ritenersi subordinato ad
una modifica progettuale necessaria al fine di rispettare le
altezze preesistenti, la consistenza delle opere
abusivamente realizzate deve essere valutata in rapporto
all’altezza preesistente, e non a quella prevista
dall’elaborato grafico.
Pertanto, poiché l’altezza media del tetto originario era di
m 2,97, e l’altezza realizzata arriva a circa m 3,35, non è
configurabile una violazione riconducibile ad una mera
“tolleranza di cantiere”, e risulta posta in essere una vera
e propria sopraelevazione che ha natura di nuova costruzione
e richiede il rispetto delle distanze.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano che, se si
tengono in considerazione, quale parametro di riferimento,
gli elaborati grafici allegati al permesso di costruire, che
prevedono altezze dell’edificio superiori a quelle
precedenti, e se si calcolano le altezze alla gronda come
prescrive lo strumento urbanistico, non vi è un sostanziale
aumento delle altezze, o comunque gli scostamenti rientrano
nella c.d. tolleranza di cantiere.
La doglianza è infondata.
L’utilizzo degli elaborati grafici quale parametro di
riferimento non è corretto.
Infatti nel caso di specie al fine di semplificare al
procedura, anziché respingere il progetto che avrebbe
altrimenti dovuto essere rivisto dagli istanti, secondo una
modalità la cui legittimità è ammessa dalla giurisprudenza
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.06.2013, n. 3447;
Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 02.11.2010, n. 4520),
il Comune ha apposto un’espressa prescrizione, da ritenersi
prevalente sulla indicazione di massima delle altezze
riportate negli elaborati grafici, secondo la quale
“l’altezza del muro della parte di fabbricato adibito a
ripostiglio–cantina sui prospetti nord e sud non dovrà
superare quella media esistente, ai fini del rispetto della
distanza dal confine”.
Poiché il permesso di costruire specificava che
l’accoglimento della domanda doveva ritenersi subordinato ad
una modifica progettuale necessaria al fine di rispettare le
altezze preesistenti, la consistenza delle opere
abusivamente realizzate deve essere valutata in rapporto
all’altezza preesistente, e non a quella prevista
dall’elaborato grafico.
Pertanto, poiché l’altezza media del tetto originario era di
m 2,97, e l’altezza realizzata arriva a circa m 3,35, non è
configurabile una violazione riconducibile ad una mera
“tolleranza di cantiere”, e risulta posta in essere una vera
e propria sopraelevazione che ha natura di nuova costruzione
e richiede il rispetto delle distanze (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4501; Consiglio di
Stato, Sez. IV 31.03.2009, n. 1998).
Tale considerazione, contrariamente a quanto dedotto dai
ricorrenti, comporta anche la violazione delle norme
tecniche di attuazione allegate al piano regolatore che
ammettono che possano essere non rispettate le distanze in
caso di demolizione e ricostruzione sullo stesso sedime, ma
alla condizione implicita, nel caso di specie violata, del
rispetto dei precedenti limiti planovolumetrici.
Le censure di cui al secondo motivo devono pertanto essere
respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2015 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come noto, in
costanza di approvazione del piano regolatore generale …, è
consentito il rilascio del permesso di costruire solo
qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento
urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione.
In caso contrario grava a carico del Comune l’onere di
sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva
approvazione del piano in itinere.
In materia di
pianificazione urbanistica, la normativa relativa alle
misure di salvaguardia non determina l'anticipata vigenza
degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale, ma ha
lo scopo di inibire il rilascio di concessioni edilizie in
contrasto con il nuovo strumento urbanistico in itinere …
---------------
La censura di ingiustizia manifesta evoca le motivazioni che
hanno condotto all’elaborazione della cosiddetta “sanatoria
giurisprudenziale”, che “risponde ad una chiara esigenza di
economicità e di buon andamento dell'azione amministrativa,
giudicandosi illogico demolire manufatti non più in
contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne
eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma
e consistenza”.
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria
giurisprudenziale era stata sostenuta dal Consiglio di
Stato, ma deve tuttavia osservarsi che è si è ormai
largamente affermata la conclusione opposta, secondo cui
“l’art. 36 del T.U. Edilizia non ha recepito, nonostante
l’auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001
dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato,
l’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel vigore
dell’art. 13 della L. 47/1985, il quale consentiva il
rilascio della concessione in sanatoria per gli interventi
edilizi che fossero conformi alla sola pianificazione in
vigore al momento della domanda di sanatoria (cosiddetta
“sanatoria giurisprudenziale”); ne consegue che il permesso
di costruire in sanatoria, in quanto provvedimento tipico
oggetto di una disciplina puntuale ed esaustiva nell’art. 36
Testo Unico dell’Edilizia, è insuscettibile di ampliamento
in via interpretativa, e il suo rilascio postula la
conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella
in vigore alla data della presentazione della domanda”.
In termini analoghi atri pronunciamenti, evidenziandosi che
il dato letterale e il principio di legalità escludono
l’operatività dell’istituto, peraltro in conflitto con la
funzione deterrente del regime sanzionatorio in materia
edilizia, suscettibile di essere frustrata dall’applicazione
generalizzata della sanatoria di origine pretoria.
Costituisce oggetto di impugnazione l’ordinanza con cui è
stato negato permesso di costruire in sanatoria ed è stata
contestualmente disposta la demolizione di quanto
abusivamente costruito, consistente nell’ampliamento di un
fabbricato con realizzazione di un nuovo piano destinato a
civile abitazione.
Il Comune ha rigettato la domanda di sanatoria sul rilievo
che le opere, seppur conformi alla disciplina urbanistica
vigente, non lo erano rispetto a quella ancora in vigore
all’epoca della loro realizzazione, risultando così carente
il requisito della “doppia conformità” di cui all’art. 36
t.u. edilizia.
Il Collegio -chiarito che il diniego, dopo comunicazione del
rituale preavviso, è contenuto nel medesimo atto con cui è
ingiunta la demolizione- ritiene innanzitutto di
disattendere la censura in cui si sostiene che, in realtà,
la costruzione era conforme anche allo strumento urbanistico
allora vigente.
I ricorrenti evidenziano che la costruzione fu realizzata
“sul finire dell’anno 2006” (asserzione di cui l’ordinanza
prende atto) e che il PRG fu approvato con deliberazione CC
n. 7 del 28.03.2007 (BURA del 18.04.2007), dopo che con del. CC n. 10 del 14.07.2006 era stata accolta la
loro osservazione con conseguente attribuzione all’area
della destinazione “zona residenziale B3 di completamento”,
in conformità ai cui parametri la costruzione è stata poi
eseguita.
Trattandosi di previsione del piano adottato (e
che sarebbe stato approvato di lì a pochi mesi) si deduce
quindi la conformità delle opere a tale strumento in
itinere, ritenendosi consentito il rilascio di permessi
edilizi con esso conformi e conseguente sussistenza del
doppio requisito richiesto per ottenere la sanatoria.
Tali deduzioni vanno disattese in quanto, come osservano gli
stessi ricorrenti (pag. 7, con riferimento a Cons. St., IV,
09.10.2012 n. 5257), fino all’approvazione del nuovo PRG
l’attività edificatoria rimane regolata dallo strumento
urbanistico vigente (salvo l’impedimento al rilascio di
permessi edilizi conformi a tale strumento, ma in contrasto
con le norma del piano in attesa di approvazione) non
essendo prevista l’efficacia anticipata delle previsioni del
piano adottato.
Va infatti evidenziato che “come noto, in
costanza di approvazione del piano regolatore generale …, è
consentito il rilascio del permesso di costruire solo
qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento
urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione.
In caso contrario grava a carico del Comune l’onere di
sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva
approvazione del piano in itinere. In materia di
pianificazione urbanistica, la normativa relativa alle
misure di salvaguardia non determina l'anticipata vigenza
degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale, ma ha
lo scopo di inibire il rilascio di concessioni edilizie in
contrasto con il nuovo strumento urbanistico in itinere …”
(TAR Campania, Napoli, IV, 13.11.2006 n. 9463).
La legge regionale 18 del 1983 conteneva una previsione in
tal senso [Art. 15 -Efficacia del P.R.G. e del P.R.E. in
attesa di approvazione- "Salva l'applicazione obbligatoria
delle misure di salvaguardia …, le previsioni e prescrizioni
del P.R.G. e del P.R.E. sono immediatamente efficaci dal
momento della loro trasmissione per l'approvazione,
limitatamente: … - alle autorizzazioni e concessioni
edilizie relative ad aree comprese in settori del territorio
comunale parzialmente edificati e integralmente provvisti
delle opere di urbanizzazione primaria, nei limiti di 1,5 mc/mq
di edificabilità fondiaria …”], tuttavia abrogata dall’art.
59 della L.R. 27.04.1995, n. 70 (fatta salva la
disciplina a carattere transitorio di cui all’art. 58 della
medesima L.R. 70/1995, che non interessa il caso di specie).
La tesi che sia consentito il rilascio di permessi edilizi
sulla base del piano in attesa di approvazione, ma in
contrasto con quello vigente, non trova perciò alcuna
conferma ed è anzi smentita dall’abrogazione della norma
regionale che in tal senso disponeva, nonché dall’esplicita
previsione dell’art. 43, comma 2, L.R. 11/1999 (“L'efficacia
degli atti di pianificazione urbanistica comunale è
subordinata alla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale
della Regione Abruzzo dell'avviso della loro approvazione”).
Posto che il PRG le cui previsioni si assumono rispettate ha
pacificamente acquisito efficacia in epoca successiva a
quella in cui l’intervento è stato realizzato, risulta
evidente la insussistenza della “doppia conformità” di cui
all’art. 36 t.u. edilizia.
Parte ricorrente sostiene che ritenere la non sanabilità
dell’opera ed ordinarne la demolizione sarebbe
manifestamente ingiusto, considerata l’epoca di costruzione
in rapporto all’entrata in vigore del nuovo PRG e la
sostanziale conformità alle relative previsioni.
Seppure non richiamate espressamente, la censura di
ingiustizia manifesta evoca le motivazioni che hanno
condotto all’elaborazione della cosiddetta “sanatoria
giurisprudenziale”, che “risponde ad una chiara esigenza di
economicità e di buon andamento dell'azione amministrativa,
giudicandosi illogico demolire manufatti non più in
contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne
eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma
e consistenza” (Tar Sardegna, II, 17.03.2010, n. 314;
sulla questione la sentenza 11.05.2007 n. 534 di questa
Sezione: oltre alla concessione edilizia in sanatoria di cui
all'art. 13, della L. 47 del 1985, sostituito ora dall'art.
36 del DPR 380 del 2001 deve ritenersi consentita anche la
cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, in virtù della quale
può sanarsi un'opera abusivamente realizzata qualora ne
risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al
momento del rilascio del titolo abilitativo, rinvenendo tale
orientamento la sua ratio nell'esigenza di non imporre la
demolizione di un'opera prima di ottenere la concessione per
realizzarla nuovamente).
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria
giurisprudenziale era stata sostenuta dal Consiglio di Stato
(sez. V, 28.05.2004 n. 3431; id., 21.10.2003, n.
6498; sez. VI, 07.05.2009 n. 2835), ma deve tuttavia
osservarsi che è si è ormai largamente affermata la
conclusione opposta, secondo cui “l’art. 36 del T.U.
Edilizia non ha recepito, nonostante l’auspicio in tal senso
espresso nel parere del 29.03.2001 dell’Adunanza generale
del Consiglio di Stato, l’orientamento giurisprudenziale
affermatosi nel vigore dell’art. 13 della L. 47/1985, il
quale consentiva il rilascio della concessione in sanatoria
per gli interventi edilizi che fossero conformi alla sola
pianificazione in vigore al momento della domanda di
sanatoria (cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”); ne
consegue che il permesso di costruire in sanatoria, in
quanto provvedimento tipico oggetto di una disciplina
puntuale ed esaustiva nell’art. 36 Testo Unico
dell’Edilizia, è insuscettibile di ampliamento in via
interpretativa, e il suo rilascio postula la conformità
dell’intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al
momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla
data della presentazione della domanda” (Cons. St., IV, 26.04.2006 n. 2306).
In termini analoghi Cons. St., V, 27.05.2014 n. 2755; 17.03.2014 n. 1324; 11.06.2013
n. 3220; 06.07.2012 n. 3961; sez. IV, 08.01.2013, n.
32, evidenziandosi che il dato letterale e il principio di
legalità escludono l’operatività dell’istituto, peraltro in
conflitto con la funzione deterrente del regime
sanzionatorio in materia edilizia, suscettibile di essere
frustrata dall’applicazione generalizzata della sanatoria di
origine pretoria (cfr. Tar Lazio, Roma, II-ter, 11.06.2013, n. 5832; Tar Campania, Napoli, sezione VII, 26.11.2012, n. 4976 nonché, tra le più recenti, TAR
Molise, 13.03.2015 n. 110; TAR Umbria, 03.12.2014 n.
590, con riferimento anche alla manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale relativa alla
mancata previsione dell’istituto, ma con la precisazione che
non sarebbe peraltro “escludibile a priori, in nome dei
richiamati principi di ragionevolezza ed economia dei mezzi
giuridici, la possibilità per l’Amministrazione di valutare
discrezionalmente, in sede sanzionatoria, la possibilità di
applicare misure alternative alla demolizione”; TAR Campania-Napoli, VIII, 20.03.2014 n. 1690, con ampia
trattazione dell’argomento; TAR Valle d'Aosta, 11.03.2014
n. 13)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.05.2015 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta
all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla
pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative, non si ricade
nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p..
Tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette
all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell'esercizio della propria istituzionale attività
amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente
sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, L. n. 241 del
1990.
Ne consegue come l’Amministrazione ora costituita non
avrebbe che potuto negare l’accesso agli atti del fascicolo
in questione in virtù del combinato disposto di cui all’art.
24 della L. n. 241/1990 e dell’art. 329 c.p.p..
---------------
Sono infondate anche le argomentazioni con le quali si
sostiene l’erroneità dell’interpretazione dell’art. 22,
comma 3, del Decreto del Ministro del Lavoro e delle
politiche sociali del 15/01/2014 (denominato codice di
comportamento ad uso degli ispettori del lavoro), nella
parte in cui detto decreto prevede l’obbligo per il
personale ispettivo, sia nel corso dell’ispezione sia nelle
fasi successive, di garantire la segretezza della fonte
della denuncia e/o degli atti che hanno dato origine
all’accertamento.
Al fine di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni
dedotte, non solo è possibile richiamare quanto sopra
evidenziato circa l’applicabilità al caso di specie
dell’art. 329 del c.p.p., ma nel contempo è necessario
ricordare che un orientamento giurisprudenziale ha sancito
che, al fine di ottenere l’accesso a specifici atti non è
sufficiente richiamare -magari anche genericamente- le
necessità difensive riconducibili ai principi tutelati
dall'art. 24 della Costituzione, risultando necessario poter
evincere un’effettiva necessità di tutela di interessi che
si assumano lesi e, ciò, specie nei casi in cui si tratti di
acquisire la conoscenza di documenti, contenenti "dati
sensibili e giudiziari".
Si è, altresì, sostenuto che vada sottratta al diritto di
accesso la documentazione acquisita dagli ispettori del
lavoro nell'ambito dell'attività di controllo loro affidata
e, ciò, qualora il datore di lavoro-richiedente non abbia
dimostrato in base a quali argomentazioni o elementi gli sia
indispensabile accedere alle dichiarazioni dei lavoratori.
Si consideri, infatti, che il ricorrente non ha esplicitato
le ragioni in relazione alle quali ha la necessità di
acquisire le dichiarazioni dei lavoratori, limitandosi ad
affermare “genericamente” la necessità di esperire il
proprio diritto alla difesa avverso gli accertamenti sopra
citati.
Si è affermato, infatti, della necessità di effettuare una
valutazione "caso per caso", che potrebbe talvolta
consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive in
questione (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/2008 del
29.07.2008, che ammette l'accesso al contenuto delle
dichiarazioni di lavoratori agli ispettori del lavoro, ma
"con modalità che escludano l'identificazione degli autori
delle medesime") e che, nel contempo, non possa affermarsi
in modo aprioristico una generalizzata recessività
dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile
informazione, per finalità di controllo della regolare
gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori,
a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al
diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad
ispezione.
A norma dell' art. 24, comma 4, l. n. 241/1990 e dell'art. 8
del dPR n. 352/1992 sono, infatti, le singole
amministrazioni che in sede di emanazione dei regolamenti
volti ad individuare i documenti sottratti all'accesso
debbono concretamente valutare se l'accesso ai documenti
possa arrecare pregiudizio a tali interessi.
...
per l'annullamento
della nota della Direzione Territoriale del Lavoro di
Treviso prot. n. 3179 del 04.02.2015 con cui è stato denegato
il diritto di accesso azionato con istanza depositata in
data 28.01.2015.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Non sono condivisibili le argomentazioni sostenute nel primo
e nel quarto motivo, nell’ambito del quale si asserisce la
lesione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Cost.
e, nel contempo, che l’attività posta in essere dagli
ispettori del lavoro non doveva considerarsi esperita
nell’ambito dei poteri di polizia giudiziaria,
interpretazione che avrebbe impedito di applicare
l’esclusione del diritto di accesso riconducibile all’art.
329 del cpp.
Sul punto è dirimente constatare come l’accertamento posto
in essere dagli ispettori del Lavoro ha avuto ad oggetto la
violazione dell’art. 18 del D.Lgs. 276/2003, nella parte in
cui sanziona i casi di illegittima somministrazione di mano
d’opera.
E’, altresì, evidente che ai sensi dell’art. 8 del Dpr
529/1995, dell’art. 15 del D.Lgs. 124/2004 l’attività posta
in essere dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro,
diretta com’è a contestare violazioni di carattere penale,
costituisce esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria,
sussistendo, tra l’altro l’obbligo dell’organo di vigilanza
di riferire al pubblico ministero l’eventuale notizia di
reato.
Si consideri, inoltre, che l’art. 8 del Dpr 19/03/1955 n.
520 ha qualificato gli ispettori del lavoro quali ufficiali
di polizia giudiziaria.
Costituisce, peraltro, orientamento consolidato (Cons. Stato
Sez. VI, Sent., 29/01/2013, n. 547) quello in base al quale
“non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta
all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla
pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative, non si ricade
nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia
se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità
giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio
della propria istituzionale attività amministrativa, ma
nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria
specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza
di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che,
come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi
dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti
all'accesso ai sensi dell'art. 24, L. n. 241 del 1990 (in
tal senso: Cons. Stato, VI, 09.12.2008, n. 6117)".
Ne consegue come l’Amministrazione ora costituita non
avrebbe che potuto negare l’accesso agli atti del fascicolo
in questione in virtù del combinato disposto di cui all’art.
24 della L. n. 241/1990 e dell’art. 329 c.p.p..
Sono infondate anche le argomentazioni contenute nel secondo
e terzo motivo con le quali si sostiene l’erroneità
dell’interpretazione dell’art. 22, comma 3, del Decreto del
Ministro del Lavoro e delle politiche sociali del 15/01/2014
(denominato codice di comportamento ad uso degli ispettori
del lavoro), nella parte in cui detto decreto prevede
l’obbligo per il personale ispettivo, sia nel corso
dell’ispezione sia nelle fasi successive, di garantire la
segretezza della fonte della denuncia e/o degli atti che
hanno dato origine all’accertamento.
Al fine di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni
dedotte, non solo è possibile richiamare quanto sopra
evidenziato circa l’applicabilità al caso di specie
dell’art. 329 del c.p.p., ma nel contempo è necessario
ricordare che un orientamento giurisprudenziale ha sancito
che, al fine di ottenere l’accesso a specifici atti non è
sufficiente richiamare -magari anche genericamente- le
necessità difensive riconducibili ai principi tutelati
dall'art. 24 della Costituzione, risultando necessario poter
evincere un’effettiva necessità di tutela di interessi che
si assumano lesi e, ciò, specie nei casi in cui si tratti di
acquisire la conoscenza di documenti, contenenti "dati
sensibili e giudiziari".
Si è, altresì, sostenuto che vada sottratta al diritto di
accesso la documentazione acquisita dagli ispettori del
lavoro nell'ambito dell'attività di controllo loro affidata
e, ciò, qualora il datore di lavoro-richiedente non abbia
dimostrato in base a quali argomentazioni o elementi gli sia
indispensabile accedere alle dichiarazioni dei lavoratori.
Si consideri, infatti, che il ricorrente non ha esplicitato
le ragioni in relazione alle quali ha la necessità di
acquisire le dichiarazioni dei lavoratori, limitandosi ad
affermare “genericamente” la necessità di esperire il
proprio diritto alla difesa avverso gli accertamenti sopra
citati.
Si è affermato, infatti, della necessità di effettuare una
valutazione "caso per caso", che potrebbe talvolta
consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive in
questione (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/2008 del
29.07.2008, che ammette l'accesso al contenuto delle
dichiarazioni di lavoratori agli ispettori del lavoro, ma
"con modalità che escludano l'identificazione degli autori
delle medesime") e che, nel contempo, non possa affermarsi
in modo aprioristico una generalizzata recessività
dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile
informazione, per finalità di controllo della regolare
gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori,
a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al
diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad
ispezione.
A norma dell'art. 24, comma 4, l. n. 241/1990 e dell'art. 8
del dPR n. 352/1992 sono, infatti, le singole amministrazioni
che in sede di emanazione dei regolamenti volti ad
individuare i documenti sottratti all'accesso debbono
concretamente valutare se l'accesso ai documenti possa
arrecare pregiudizio a tali interessi.
Nel caso di specie, il Ministero del lavoro, con d.m. 04.11.1994, n. 757, ha individuato all'art. 2, comma 1,
lett. c), tra le categorie di atti sottratte all'accesso in
relazione all'esigenza di salvaguardare la riservatezza
delle persone anche quella dei «documenti contenenti notizie
acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla
loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o
indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi». Lo stesso regolamento ha anche cura di stabilire la
durata del divieto di accesso, «finché perduri il rapporto
di lavoro».
In presenza di siffatta, compiuta disciplina, in cui si è
tenuto conto di tutti i contrapposti interessi, e in
mancanza di un’espressa motivazione sottostante la richiesta
di accesso, il diniego opposto dall'amministrazione appare
pienamente giustificato, potendo l’esigenza di difesa
riconducibile all’art. 24 della Costituzione essere
ampiamente soddisfatta dalla semplice conoscenza del verbale
ispettivo nel quale sono riportati tutti gli elementi di
fatto sui quali è basata l'ispezione.
Analogamente va evidenziato come non sussista nemmeno la
violazione, né l’illegittimità dell’art. 22, comma 3, del
Decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali
del 15/01/2014 nella parte in cui prevede che il personale
ispettivo garantisca la segretezza delle ragioni che hanno
dato origine all’accertamento.
Detta disposizione nell’integrare il contenuto di una
disposizione di principio non ha un carattere assoluto e
preclusivo di una qualunque istanza di accesso, rinviando a
specifiche disposizioni che circoscrivano i singoli la cui
ostensione è esclusa.
Le censure sopra citate sono, pertanto, da respingere
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 25.05.2015 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2015 |
ã |
R.U.P. nei LL.PP.:
tutti
coloro che "ambiscono" a svolgere le mansioni
di Responsabile Unico del Procedimento, in
relazione alle molteplici responsabilità personali
in materia di sicurezza del lavoro (D.Lgs. n.
81/2008), devono prestare molta attenzione, molta...
Ergo: se non si vuol finire in "galera" per
colpa di altri, bisogna presenziare assiduamente il
cantiere edile, e non stare comodamente seduti
dietro la scrivania
poiché -tanto- ci pensa il "Direttore
dei Lavori" ovvero il "coordinatore
per l'esecuzione dei lavori"!! |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
Ai sensi del d.PR. n. 554 del 1999, art.
7, comma 2 (regolamento di attuazione della legge
Quadro dei Lavori Pubblici), il responsabile del
procedimento (RUP) provvede a creare le condizioni
affinché il processo realizzativo dell’intervento
risulti condotto nei tempi e costi preventivati e
nel rispetto della sicurezza e della salute dei
lavoratori, in conformità a qualsiasi altra
disposizione di legge in materia.
Inoltre egli, ai sensi dell’art. 8, lett. f), deve
coordinare le attività necessarie alla redazione del
progetto definitivo ed esecutivo, verificando che
siano rispettate le indicazioni contenute nel
documento preliminare alla progettazione e nel
progetto preliminare, nonché alla redazione del
piano di sicurezza e di coordinamento e del piano
generale di sicurezza.
Inoltre, ai sensi dell’art. 8, comma 3, egli vigila
sulla attività, valuta il piano di sicurezza e di
coordinamento e l’eventuale piano generale di
sicurezza e il fascicolo predisposti dal
coordinatore per la progettazione.
In sostanza a carico del RUP (responsabile unico del
procedimento) grava una posizione di garanzia
connessa ai compiti di sicurezza, non solo nella
fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i
piani di sicurezza, ma anche durante il loro
svolgimento, fase nella quale vige l’obbligo di
sorvegliarne la corretta attuazione, controllando
anche l’adeguatezza e la specificità dei piani di
sicurezza rispetto alla loro finalità, preordinata
alla incolumità dei lavoratori.
Con sentenza del 03.03.2010 il Tribunale di Sassari
condannava Ch.G.B.F. e altri in ordine al reato di
cui all'articolo 590, co. 1, 2 e 3, c.p. alla pena
di mesi due di reclusione, concesse le attenuanti
generiche con giudizio di equivalenza rispetto
all'aggravante contestata, con i benefici della
sospensione condizionale della pena e della non
menzione ex art. 175 c.p..
All'imputato, nella sua qualità di responsabile del
procedimento e dell'esecuzione dei lavori, era stato
contestato di avere cagionato per colpa generica e
specifica lesioni personali comportanti una malattia
di durata superiore ai quaranta giorni all'operaio
C.R. (costituito parte civile nel processo), che il
25.07.2002, a Siligo, era stato colpito
violentemente alla testa dall'entrata della pompa di
una betoniera erogante calcestruzzo.
In particolare al Ch., quale coordinatore in fase di
progettazione e di esecuzione dei lavori (per conto
della committente Amministrazione comunale di Siligo)
era stato contestato di avere omesso di far
applicare all'impresa esecutrice il piano di
sicurezza e di coordinamento (P.S.C.), ai sensi
dell'art. 5, 1 co., lett. b), d.lgs. 494/1996.
...
Va premesso che la responsabilità del Ch. è stata
ritenuta sulla base della sua qualità di "responsabile
del procedimento" e "responsabile dei lavori".
Sul responsabile dei lavori incombe, ai sensi del
d.PR. n. 494 del 1996, art. 6, l'obbligo della
verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in
attuazione dei relativi piani (art. 4 e art. 5,
comma 1, lett. a) d.PR. citato).
Orbene, ciò premesso, deve ricordarsi che ai sensi
del d.PR. n. 554 del 1999, art. 7, comma 2
(regolamento di attuazione della legge Quadro dei
Lavori Pubblici), il responsabile del procedimento
provvede a creare le condizioni affinché il processo
realizzativo dell'intervento risulti condotto nei
tempi e costi preventivati e nel rispetto della
sicurezza e della salute dei lavoratori, in
conformità a qualsiasi altra disposizione di legge
in materia. Inoltre egli, ai sensi dell'art. 8,
lett. f), deve coordinare le attività necessarie
alla redazione del progetto definitivo ed esecutivo,
verificando che siano rispettate le indicazioni
contenute nel documento preliminare alla
progettazione e nel progetto preliminare, nonché
alla redazione del piano di sicurezza e di
coordinamento e del piano generale di sicurezza.
Inoltre, ai sensi dell'art. 8, comma 3, egli vigila
sulla attività, valuta il piano di sicurezza e di
coordinamento e l'eventuale piano generale di
sicurezza e il fascicolo predisposti dal
coordinatore per la progettazione.
In sostanza a carico del RUP (responsabile unico del
procedimento) grava una posizione di garanzia
connessa ai compiti di sicurezza, non solo nella
fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i
piani di sicurezza, ma anche durante il loro
svolgimento, fase nella quale vige l'obbligo di
sorvegliarne la corretta attuazione, controllando
anche l'adeguatezza e la specificità dei piani di
sicurezza rispetto alla loro finalità, preordinata
alla incolumità dei lavoratori (cfr, Cass., sez. 4,
sent. n. 7597 dell'08.11.2013, Rv. 259123; Cass.,
sez. 4, sent. n. 41993 del 14.06.2011, Rv. 251925).
Orbene, nel caso di specie, come correttamente
rilevato dal giudice di merito, il Ch. è venuto meno
all'adempimento degli oneri gravanti a suo carico. I
giudici della Corte territoriale hanno infatti
evidenziato a tal proposito che i compiti
dell'imputato non potevano esaurirsi nella mera
redazione del P.S.C., dovendo egli anche svolgere
l'indispensabile opera di coordinatore che prevedeva
innanzitutto il controllo che il sub-appaltatore Fe.
avesse a sua volta predisposto il P.O.S e lo avesse
a sua volta portato a conoscenza dei lavoratori
interessati. Egli inoltre avrebbe dovuto accertarsi
che in cantiere sussistesse una buona coordinazione
tra appaltatore (E. s.r.l.), sub-appaltatore
(impresa individuale Fe.) e ditta incaricata del
solo gettito del calcestruzzo.
Le predette attività demandate al Ch. erano state da
lui omesse e tale omissione è collegata con nesso di
causalità all'evento lesivo per cui è giudizio.
La difesa ha sostenuto che la sentenza impugnata non
aveva spiegato da dove il Ch. avrebbe dovuto trarre
la conoscenza di un sub-appalto in favore del Fe. e
soprattutto della sua ritualità. Sul punto si
osserva che si tratta di una questione di fatto non
introdotta in appello e comunque entrambe le
sentenze, sia quella di primo, sia quella di secondo
grado, hanno ritenuto di non porre in dubbio la
conoscenza da parte del ricorrente del subappalto.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il
ricorrente condannato al pagamento delle spese
processuali (massima tratta da http://renatodisa.com
- Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 04.08.2015 n. 34088). |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
P. Stoja,
Individuazione di obblighi e responsabilità penale
in tema di sicurezza sul lavoro nell’ambito degli
appalti pubblici: aspetti problematici (03.02.2015
- tratto da www.giustizia.lazio.it). |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
M. Trapè,
I compiti del responsabile unico del procedimento in
materia di sicurezza dei cantieri dopo l’entrata in
vigore del regolamento sui contratti pubblici
(01.09.2014 - link a www.studiocataldi.it). |
LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza: RUP deve sorvegliare anche durante la
fase di svolgimento dei lavori.
A
carico del responsabile unico del procedimento grava
una posizione di garanzia connessa ai compiti di
sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori,
laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma
anche durante il loro svolgimento, ove è previsto
che debba svolgere un'attività di sorveglianza del
loro rispetto.
E’ questo il
principio ribadito dalla Suprema Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, con la
sentenza 15.11.2011 n. 41993.
Nel caso di specie il giudice di prime cure
condannava per il delitto di cui all’art. 589 c.p.
per omicidio colposo, il responsabile del
procedimento amministrativo di lavori pubblici e
responsabile dei lavori, il coordinatore in materia
di sicurezza e il titolare della ditta
subappaltatrice, rispettivamente a 6 mesi di
reclusione il primo e a 5 mesi di reclusione gli
altri due con l’ulteriore risarcimento danni in
favore della parte civile.
Ai tre, infatti, era stato addebitato di avere
consentito, in violazione degli obblighi di
sicurezza a loro carico gravanti, che un operaio,
intento alla posa in opera della copertura di una
piscina, lavorasse in totale assenza delle opere di
protezione collettiva previste dal piano di
sicurezza e senza precauzioni atte ad evitare la
caduta dall'alto. In tale frangente l’operaio cadeva
da un'altezza di circa 10 m. decedendo per gravi
lesioni al capo.
La situazione viene confermata anche in secondo
grado, ad eccezione del titolare della ditta
dichiarando l'estinzione del reato a suo carico per
morte dell'imputato. Il ricorso per cassazione
procede solo per il responsabile del procedimento
amministrativo di lavori pubblici, in quanto quello
presentato dal coordinatore in materia di sicurezza
è dichiarato inammissibile per presentazione
tardiva.
Sul responsabile dei lavori, ai sensi dell'art. 6
del d.p.r. 494 del 1996, incombe l’obbligo delle
verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in
attuazione dei relativi piani (art. 4 ed art. 5, co.
1, lett. a) d.p.r. cit.). Inoltre, il responsabile
del procedimento provvede a creare le condizioni
affinché il processo realizzativo dell'intervento
risulti condotto nei tempi e costi preventivati e
nel rispetto della sicurezza e la salute dei
lavoratori, in conformità a qualsiasi altra
disposizione di legge in materia.
Sommando i diversi compiti a carico del responsabile
deriva quella posizione di garanzia ai compiti di
sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori,
laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma
anche durate il loro svolgimento, ove è previsto che
debba svolgere un'attività di sorveglianza del loro
rispetto.
Da ciò ne consegue che in ogni caso era onere del
RUP, a fronte di modifiche progettuali, in
adempimento degli obblighi sopra richiamati,
controllare la adeguatezza dei piani di sicurezza
alla salvaguardia dell'incolumità dei lavoratori.
Né il lamentato comportamento negligente della
persona offesa (che non avrebbe utilizzato le
cinture), può escludere la rilevanza causale della
condotta omissiva dell'imputato. Infatti, «la
condotta colposa del lavoratore infortunato non
assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a
produrre l'evento quando sia comunque riconducibile
all'area di rischio propria della lavorazione svolta».
La vittima ha subito l'infortunio mentre svolgeva,
senza alcuna abnormità di condotta, la sua ordinaria
attività di lavoro. Da qui il rigetto del ricorso da
parte dei giudici del Palazzaccio e la condanna al
pagamento delle spese processuali
(Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 15.11.2011 n. 41993 - link a
www.altalex.com). |
LAVORI
PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità del RUP e
posizione di garanzia nei lavori pubblici.
Responsabilità per omicidio colposo occorso ad un
lavoratore.
Furono imputati del reato il responsabile del
procedimento amministrativo di lavori pubblici e
responsabile dei lavori, il coordinatore in materia
di sicurezza, il titolare della ditta
subappaltatrice, per aver consentito, in violazione
degli obblighi di sicurezza a loro carico gravanti,
che il lavoratore, intento alla posa in opera della
copertura di una piscina, lavorasse in totale
assenza delle opere di protezione collettiva
previste dal piano di sicurezza e senza precauzioni
atte ad evitare la caduta dall'alto e in tale
frangente cadeva da un'altezza di circa 10 mt.,
decedendo per gravi lesioni al capo.
Condannati in primo grado, la Corte di Appello di
Genova confermava la pronuncia di condanna per il
Responsabile del Procedimento e del coordinatore per
la sicurezza, dichiarando l'estinzione del reato a
carico del titolare della ditta subappaltatrice per
morte dell'imputato.
Ricorso in Cassazione
- Il ricorso proposto dal coordinatore per la
sicurezza è inammissibile perché tardivo; La Corte
rigetta invece il ricorso del Responsabile del
procedimento amministrativo.
"La Corte afferma che va premesso che la sua
responsabilità è stata ritenuta sulla base della
qualità di "Responsabile del procedimento
amministrativo" e responsabile dei lavori, figura
che nei lavori pubblici rappresenta il committente.
Sul responsabile del lavori incombe, ai sensi
dell'art. 6 del d.P.R. 494 del 1996, l'obbligo della
verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in
attuazione dei relativi piani (art. 4 ed art. 5, co.
1, lett. a), d.P.R. cit.).
Orbene ciò premesso, deve ricordarsi che ai sensi
dell'art. 7, co. 2°, del d.P.R. 554 del 1999
(Regolamento di attuazione della Legge Quadro dei
Lavori Pubblici), il "Responsabile del procedimento"
provvede a creare le condizioni affinché il processo
realizzativo dell'intervento risulti condotto nei
tempi e costi preventivati e nel rispetto della
sicurezza e la salute dei lavoratori, in conformità
a qualsiasi altra disposizione di legge in materia."
... In sostanza a carico del RUP (responsabile unico
del procedimento) grava una posizione di garanzia
connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase
genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani
di sicurezza, ma anche durate il loro svolgimento,
ove è previsto che debba svolgere un'attività di
sorveglianza del loro rispetto.
Orbene, nel caso di specie, come correttamente
rilevato dal giudice di merito, l'imputato è venuto
meno all'adempimento degli oneri a suo carico
gravanti.
Per quanto detto, va ribadito che la radicata
posizione di garanzia in capo all'imputato, rende
rilevante causalmente la sua negligente condotta
omissiva, non avendo l'imputato controllato
l'adeguatezza e specificità dei piani di sicurezza
rispetto alle loro finalità; nonché non avendo
vigilato sulla loro corretta attuazione.
Né il lamentato comportamento negligente della
persona offesa (che non avrebbe utilizzato le
cinture), può escludere la rilevanza causale della
condotta omissiva dell'imputato.
Nel caso di specie la vittima ha patito l'infortunio
mentre svolgeva, senza alcuna abnormità di condotta,
la sua ordinaria attività di lavoro nel pozzo
citato, che era privo di presidi anticaduta (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 15.11.2011 n. 41993 - link a
http://olympus.uniurb.it). |
Ed altra questione sempre attinente al R.U.P.: |
LAVORI PUBBLICI: Condannato
per danno erariale il RUP che non applica la penale
di contratto.
Anche
il Giudice di primo grado ha, motivatamente, escluso
la responsabilità del Dirigente tecnico, ing. Te.,
che delegò al Ca. le funzioni di RUP responsabile
unico del procedimento. Non si tratta di delega di
poteri, ma di nomina, di assegnazione di funzioni a
soggetto sottoposto e fornito dei titoli.
Il Te. era il dirigente, quindi ben poteva nominare
il RUP e il Ca. non può affermare di essere stato un
mero esecutore, perché era un ingegnere, non un
impiegato di mero ordine.
L’articolo 10, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (Codice
dei contratti pubblici) così definisce il RUP: "Il
responsabile del procedimento deve possedere titolo
di studio e competenza adeguati in relazione ai
compiti per cui è nominato. Per i lavori e i servizi
attinenti all'ingegneria e all'architettura deve
essere un tecnico. Per le amministrazioni
aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo.
In caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo
in possesso di professionalità adeguate, le
amministrazioni aggiudicatrici nominano il
responsabile del procedimento tra i propri
dipendenti in servizio".
Nell’atto con cui il suo dirigente gli conferiva
l’incarico specifico erano indicati i compiti tra
cui proprio il problema delle eventuali penali. La
Sezione territoriale ha correttamente individuato il
nesso di causalità tra il comportamento del Ca., in
relazione ai compiti attribuitigli, e il danno, con
particolare riferimento al parere reso al Consiglio
di amministrazione (CdA) sulla penale da applicare
al Gr. che aveva maturato lunghissimi ritardi
nell’esecuzione dell’attività di progettazione
commessagli (oltre 900 giorni).
---------------
Afferma l’appellante che l’incarico affidato al Gr.
venne modificato (ampliato) e, pertanto, non era
applicabile la clausola penale.
Si tratta di difesa già svolta in primo grado e su
cui la Sezione territoriale ha correttamente deciso,
con motivazione congrua e priva di vizi logici,
rilevando che l’ing. Gr. non chiese neppure la
modifica dei termini contrattuali per la consegna
degli elaborati e, comunque, il ritardo accumulato,
si può aggiungere, supera qualsiasi tolleranza e
possibilità di giustificazione con la maggiore
ampiezza dell’oggetto contrattuale.
---------------
L’appellante deduce che il danno non gli è
imputabile, perché imputabile a decisione del CdA.
A parte che il Ca. espresse il proprio parere al CdA
il quale sospese l’applicazione della penale proprio
sulla scorta del parere reso dall’appellante, resta
da dire che ha ragione il PG quando afferma che
-sulla base del principio di separazione tra potere
di indirizzo e potere di gestione– che spettava al
Ca., nella sua qualità di RUP di provvedere
all’applicazione della penale; il CdA si sarebbe
assunto la responsabilità della sospensione; ma nel
caso di specie è il Ca. che ha mancato, gravemente,
ai suoi doveri professionali.
---------------
Con la sentenza impugnata l’appellante, in parziale
accoglimento delle domande avverso lo stesso
proposte dalla Procura contabile territoriale, è
stato condannato (con altra persona) a pagare
–individualmente- alla società C.I.I.P. S.p.A. la
somma di euro 2.117,08 oltre la rivalutazione
monetaria dal 14.02.2008 e fino alla data di
pubblicazione della sentenza con gli interessi
legali decorrenti dalla data del deposito della
sentenza e fino al pagamento; oltre le spese del
giudizio, liquidate in complessivi euro 2.940,74.
Il Ca. propone appello per i seguenti motivi.
1) Errore di fatto e di diritto su un punto decisivo
del giudizio. Inderogabilità dell’ordine legale
delle competenze.
2) Inesistenza del danno erariale, inapplicabilità
della clausola penale.
3) Non imputabilità all’ing. Ca. della
responsabilità per non aver applicato all’ing.
Am.Gr. la sanzione prevista nel contratto di
affidamento dell’incarico.
Conclusioni dell’appellante: riforma della sentenza
impugnata, con assoluzione dell’ing. Ca. da ogni
addebito di responsabilità contestata, il tutto con
il favore delle spese di giudizio come per legge.
...
L’appello non merita accoglimento e la sentenza
impugnata deve essere confermata.
La Procura regionale ha contestato all’odierno
appellante (e ad altri due soggetti, uno dei quali
assolto e l’altro condannato, ma che non risulta
abbia appellato) il danno consistente nella mancata
applicazione della penale contrattuale nei confronti
del professionista (tale ingegner Gr.) incaricato
della progettazione del consolidamento dei Ponti
Tubo della rete di distribuzione idrica dei tratta
Pescara d’Arquata Sibillini, per il ritardo
nell’adempimento della prestazione.
Preliminarmente il Collegio osserva che l’atto
d’appello è proposto con insolita formula “e con”,
nei confronti degli altri soggetti evocati nel
giudizio di primo grado, in quanto “controinteressati”
(così, il difensore presente in udienza all’atto del
deposito della relazione di notifica nei loro
confronti); il Collegio osserva che nei confronti di
costoro non è proposta domanda alcuna e che il
giudizio di responsabilità amministrativa si
differenzia dal giudizio amministrativo, nel quale è
prevista la figura del controinteressato cui deve
essere partecipato il giudizio. Inoltre manca la
vocatio in ius anche nei confronti dell’altra
parte (necessaria) del giudizio e cioè il
Procuratore generale.
Tanto premesso, il Collegio può affrontare l’esame
del primo motivo d’appello.
Il motivo è infondato e anche il Giudice di primo
grado ha, motivatamente, escluso la responsabilità
del Dirigente tecnico, ing. Te., che delegò al Ca.
le funzioni di RUP responsabile unico del
procedimento. Non si tratta di delega di poteri, ma
di nomina, di assegnazione di funzioni a soggetto
sottoposto e fornito dei titoli.
Il Te. era il dirigente, quindi ben poteva nominare
il RUP e il Ca. non può affermare di essere stato un
mero esecutore, perché era un ingegnere, non un
impiegato di mero ordine.
L’articolo 10, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (Codice
dei contratti pubblici) così definisce il RUP: "Il
responsabile del procedimento deve possedere titolo
di studio e competenza adeguati in relazione ai
compiti per cui è nominato. Per i lavori e i servizi
attinenti all'ingegneria e all'architettura deve
essere un tecnico. Per le amministrazioni
aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo.
In caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo
in possesso di professionalità adeguate, le
amministrazioni aggiudicatrici nominano il
responsabile del procedimento tra i propri
dipendenti in servizio".
Nell’atto con cui il suo dirigente gli conferiva
l’incarico specifico erano indicati i compiti tra
cui proprio il problema delle eventuali penali. La
Sezione territoriale ha correttamente individuato il
nesso di causalità tra il comportamento del Ca., in
relazione ai compiti attribuitigli, e il danno, con
particolare riferimento al parere reso al Consiglio
di amministrazione (CdA) sulla penale da applicare
al Gr. che aveva maturato lunghissimi ritardi
nell’esecuzione dell’attività di progettazione
commessagli (oltre 900 giorni).
Per quanto esposto, il motivo deve essere respinto.
Con il secondo motivo d’appello si eccepisce
l’inesistenza del danno per inapplicabilità della
clausola penale.
Afferma l’appellante che l’incarico affidato al Gr.
venne modificato (ampliato) e, pertanto, non era
applicabile la clausola penale.
Si tratta di difesa già svolta in primo grado e su
cui la Sezione territoriale ha correttamente deciso,
con motivazione congrua e priva di vizi logici,
rilevando che l’ing. Gr. non chiese neppure la
modifica dei termini contrattuali per la consegna
degli elaborati e, comunque, il ritardo accumulato,
si può aggiungere, supera qualsiasi tolleranza e
possibilità di giustificazione con la maggiore
ampiezza dell’oggetto contrattuale.
La sentenza della Corte di Cassazione citata
dall’appellante afferma che la clausola penale non
opera se, variata quantitativamente la prestazione,
la clausola penale viene meno se non viene fissato
un nuovo termine; nel caso di specie il termine
rimase immutato, ma un termine esisteva e doveva
essere rispettato nell’ipotesi, come nel caso di
specie in cui il contraente (ing. Gr.) non ebbe a
richiedere un nuovo diverso termine per
l’adempimento delle sue obbligazioni progettuali.
Con un terzo motivo, l’appellante deduce che
il danno non gli è imputabile, perché imputabile a
decisione del CdA.
A parte che il Ca. espresse il proprio parere al CdA
il quale sospese l’applicazione della penale proprio
sulla scorta del parere reso dall’appellante, resta
da dire che ha ragione il PG quando afferma che
-sulla base del principio di separazione tra potere
di indirizzo e potere di gestione– che spettava al
Ca., nella sua qualità di RUP di provvedere
all’applicazione della penale; il CdA si sarebbe
assunto la responsabilità della sospensione; ma nel
caso di specie è il Ca. che ha mancato, gravemente,
ai suoi doveri professionali.
Conclusivamente, per quanto esposto, il Collegio
respinge l’appello
(Corte dei Conti, Sez. I Centrale d'Appello,
sentenza 20.07.2015 n. 441). |
Ed un'altra ancora attinente al R.U.P. che risulta
essere anche responsabile dell'U.T.C.
(e quante se ne leggono di determinazioni "illegittime"
pubblicate all'albo pretorio comunale qua e là... E
NESSUNO CONTROLLA!!): |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
pagamento in favore del responsabile dell'ufficio
del compenso incentivante -che lo stesso si è
auto-attribuito- deve considerarsi alla stregua di
un pagamento indebito e, pertanto, produttivo di
danno erariale.
Invero, il responsabile dell'ufficio non può
procedere all’auto-liquidazione dei compensi
incentivanti poiché sussiste l’evidente vulnus
al principio dell’imparzialità dell’amministrazione
(art. 97 Cost.) conseguente alla determinazione
adottata in palese conflitto di interessi.
---------------
A'
termini dell’art. 1, secondo comma, della L. 20/1994, il
diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso
in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato
il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del
danno, dalla data della sua scoperta.
Nella specie, dovendosi escludere che vi sia stato
occultamento doloso del danno, reputa la Sezione che, in
conformità all’insegnamento delle SS.RR., debba assumersi,
quale dies a quo del termine prescrizionale, la data del
pagamento.
---------------
Nel caso di specie il responsabile dell'ufficio
non poteva procedere
all’auto-liquidazione dei compensi incentivanti, sicché appare assorbente il rilievo dell’evidente vulnus al
principio dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97
Cost.) conseguente alle censurate determine adottate in
palese conflitto di interessi.
In proposito si osserva che il D.M. P.C.M. - Dip. funz.
pubbl. 28.11.2000 (recante il “codice di comportamento dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, più di recente
sostituito dal D.P.R. 16.04.2013 n. 62, ma applicabile ratione temporis ai fatti che ne occupano) prevedeva,
all’art. 6 (rubricato “obbligo di astensione”), che “il
dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi
propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o
conviventi…..”, secondo un principio parimenti desumibile
dall’art. 51, primo comma, n. 1 c.p.c., che prevede che il
giudice abbia l’obbligo di astenersi “se ha interesse nella
causa”, dall’art. 78, secondo comma, D.Lgs. 267/2000 che
prevede che gli amministratori locali debbano “astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o
affini sino al quarto grado”, dall’art. 53, settimo comma, D.Lgs. 165/2001 che prevede che, ai fini dell’autorizzazione di incarichi retribuiti, l'amministrazione
verifichi “l'insussistenza di situazioni, anche potenziali,
di conflitto di interessi” nonché dalla previsione del reato
di abuso d’ufficio di cui l’art. 323 c.p.c. [cfr. inoltre,
l’ art. 6-bis. della L. 241/1990 , introdotto dall’articolo 1,
comma 41, della legge n. 190/2013, che stabilisce che “il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche,
gli atti endo-procedimentali ed il provvedimento finale,
devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”
nonché l’art. 7 del D.P.R. 62/2013 (Regolamento recante
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma
dell'art. 54 del D.Lgs. 165/2001) che stabilisce che
i
dipendenti pubblici devono astenersi dal partecipare
all'adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di loro parenti, affini
entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi ed in
ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di
convenienza].
Sulla base della definizione di cui all’art. 3 della L.
215/2004 (recante “norme in materia di risoluzione dei
conflitti di interessi”) -che, ancorché dettata con
riferimento ai titolari di cariche di governo, è
evidentemente suscettibile di generale applicazione- deve
ritenersi che sussista “situazione di conflitto di interessi
… quando il titolare …..partecipa all'adozione di un atto,
anche formulando la proposta …… quando l'atto o l'omissione
ha un'incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del
titolare…..”.
Non può revocarsi in dubbio che l’autoliquidazione del
compenso incentivante da parte del SA. abbia un
incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio dello
stesso SA., ciò che evidentemente esclude che lo stesso
potesse adottare tale determinazione.
In proposito si osserva che l’art. 1395 cod.civ. -applicabile, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., con il limite
della compatibilità, agli atti unilaterali fra vivi aventi
contenuto patrimoniale- contempla il “contratto con se
stesso” prevedendo che lo stesso possa ammettersi, e cioè
non sia viziato, solo quando il soggetto in conflitto di
interessi sia stato “autorizzato specificatamente” ovvero
“il contenuto del contratto sia determinato in modo da
escludere la possibilità di conflitto d'interessi”.
Sennonché, in disparte il rilievo che né la delibera
n. 20/2005 né la successiva delibera n. 306/2006, recano alcun
autorizzazione, né tam poco, alcuna autorizzazione specifica
al SA., ad auto-attribuirsi ed auto-liquidarsi il
compenso incentivante, appare assorbente la considerazione
che, in ragione dell’inderogabilità della disciplina in
materia di obbligo di astensione, deve, comunque, escludersi
che, quando, come nella specie, si verta in ipotesi di
esercizio di pubbliche funzioni, un’autorizzazione, ancorché
specifica, dell’organo di governo dell’amministrazione o
ente, possa legittimare il dipendente o amministratore
pubblico ad adottare provvedimenti incidenti in senso
favorevole sulla propria sfera giuridica, in presenza di un
conflitto di interessi.
D’altro canto, solo la predeterminazione dettagliata e
puntuale -tale da escludere qualsiasi discrezionalità in
sede applicativa- dei criteri di ripartizione ed
attribuzione del compenso incentivante, attraverso
l’adozione, da parte della Giunta comunale -competente in
materia di ordinamento degli uffici ai sensi dell’art. 48,
terzo comma, D.Lgs. 267/2000- di un apposito regolamento
e/o sulla base di accordi collettivi decentrati/integrativi,
avrebbe consentito di escludere la configurabilità, in capo
al SA., di un conflitto di interessi.
Non v’è chi non veda, infatti, che solo ove l’attribuzione e
la liquidazione del compenso incentivante si fosse risolta
in un’attività scevra da scelte e valutazioni discrezionali
ma meramente e meccanicamente ricognitiva degli elementi che
-sulla base di una “griglia” di predefiniti parametri
oggettivi- consentissero di determinare in modo automatico
l’importo che potesse eventualmente spettare, a tale titolo,
al Dirigente, il SA. avrebbe potuto legittimamente auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Sennonché, considerato che di una tale disciplina
regolamentare e/o collettiva non vi è menzione nelle
determinazioni di liquidazione del compenso incentivante,
deve ritenersi che non ve ne fosse alcuna presso
l’Amministrazione comunale di Cerignola, per cui deve
escludersi che il SA. potesse auto-liquidarsi il
compenso incentivante.
Il comportamento del SA. che, in palese conflitto di
interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato il compenso
incentivante deve, pertanto, qualificarsi non iure.
D’altro canto, se è vero che
non è sufficiente l’illegittimità del
comportamento per ritenerne, altresì, l’illiceità, e cioè
che il comportamento stesso sia causativo di danno erariale,
non è men vero che, nella specie, non può revocarsi in
dubbio che, in dipendenza del comportamento del SA., il
Comune abbia subito un danno patrimoniale pari
all’ammontare dei compensi incentivanti auto-liquidati.
---------------
Reputa inoltre, la Sezione che debba
essere disattesa l’istanza di “oscuramento” dei dati
proposta dal convenuto.
L’art. 52 del D.Lgs. 196/2003 dopo aver previsto, al primo
comma, che l'interessato possa chiedere “per motivi
legittimi”, che sia apposta a cura della cancelleria o
segreteria, sull'originale della sentenza o del
provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di
riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi
forma, per finalità di informazione giuridica su riviste
giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di
comunicazione elettronica, la indicazione delle generalità e
di altri dati identificativi del medesimo interessato
riportati sulla sentenza o provvedimento, dispone al
successivo secondo comma, che sulla suddetta richiesta “provvede
in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità
che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento”.
E’ evidente, pertanto, come l’adozione
dell’invocato provvedimento di oscuramento sia subordinato
alla sussistenza ed all’allegazione di motivi legittimi
sindacabili dal giudice, cui compete valutare
comparativamente le ragioni addotte a fondamento
dell’istanza proposta con l’interesse generale alla
conoscibilità del contenuto integrale dei provvedimenti
giurisdizionali, quale strumento di democrazia e di
informazione giuridica.
E’, del pari, evidente come la prevalenza
dell’interesse dell’istante sul suddetto interesse generale
possa essere assicurata, disponendo l’oscuramento dei dati
personali, solo in presenza di circostanze particolari e
cioè quando dalla diffusione completa della sentenza o di
altro provvedimento giurisdizionale possa derivare un
pericolo di grave pregiudizio per i diritti
dell’interessato.
Di converso, deve escludersi che l’invocato
provvedimento di “anonimizzazione” possa essere
adottato, quando, come nella specie, venga allegato, senza
dedurre alcuna circostanza idonea ad attribuirgli
particolare rilevanza, il mero interesse al riserbo del
convenuto nel giudizio di responsabilità amministrativa che,
anche in considerazione dell’oggetto del giudizio -relativo
al pregiudizio arrecato alle finanze di una pubblica
amministrazione- deve considerarsi recessivo rispetto
all’interesse generale a conoscere il contenuto integrale
del provvedimento giurisdizionale.
---------------
2. Con la comparsa di risposta il convenuto SA. ha eccepito
la prescrizione quinquennale per quanto concerne il danno
conseguente alla determina dirigenziale n. 1079 del
04.12.2008, messa in esecuzione in data 11.12.2008, “data
in cui con il pagamento il presunto danno patrimoniale è
divenuto per il Comune di Cerignola concreto ed attuale”.
Reputa la Sezione che, in detti limiti, l’eccezione di
prescrizione sia fondata e meriti accoglimento.
E’ appena il caso di premettere che a
termini dell’art. 1, secondo comma, della L. 20/1994, il
diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso
in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato
il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del
danno, dalla data della sua scoperta.
Nella specie, dovendosi evidentemente
escludere che vi sia stato occultamento doloso del danno,
reputa la Sezione che, in conformità all’insegnamento delle
SS.RR. (cfr.
sentenza n. 7/200/Q.M.) debba assumersi,
quale dies a quo del termine prescrizionale, la data
del pagamento e
cioè, avuto riguardo alla suddetta determina n. 1079 del
04.12.2008, la data dell’11.12.2008, indicata dal convenuto
con allegazione non contestata dall’organo requirente (cfr.
art. 115, primo comma, c.p.c. come mod. dalla L. 69/2009).
Considerato che, in difetto della prova di precedenti atti
interruttivi, nemmeno allegati dall’organo requirente, il
primo atto interruttivo della prescrizione è costituito
dall’invito a dedurre, espressamente formulato anche a fini
di costituzione in mora, ai sensi degli artt. 1219 e 2943
cod. civ. (cfr. SS.RR. 20.12.2000 n. 14/2000/Q.M. e
20.03.2003 n. 06/2003/Q.M.), notificato al SA. in data
27.01.2014, è evidente che il corso della prescrizione deve
considerarsi tempestivamente interrotto con riferimento ai
danni verificatisi successivamente al 26.01.2009, mentre
deve considerarsi prescritto il credito risarcitorio dedotto
in giudizio con riferimento ai danni verificatisi
anteriormente al quinquennio antecedente alla suddetta data
del 27.01.2014.
Ne consegue che, in accoglimento dell’eccezione proposta dal
convenuto, il credito risarcitorio deve essere dichiarato
prescritto, limitatamente al danno conseguente alla
determina dirigenziale n. 1079 del 04.12.2008.
3. Passando all’esame, nel merito, della domanda proposta,
occorre premettere, ai fini di una piana esposizione dei
termini della controversia, che l’art. 3, 57° comma, della
L. 23.12.1996 n. 662 ha previsto che “una percentuale del
gettito dell'imposta comunale sugli immobili può essere
destinata al potenziamento degli uffici tributari del comune”.
L’art. 59 (rubricato “Potestà regolamentare in materia di
imposta comunale sugli immobili”) del D.Lgs. 15.12.1997
n. 446 ha poi disposto che, con il regolamento adottato a
norma del precedente art. 52, i comuni possano: “….p)
prevedere che ai fini del potenziamento degli uffici
tributari del comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 57,
della legge 23.12.1996, n. 662, possono essere attribuiti
compensi incentivanti al personale addetto”.
In applicazione delle summenzionate disposizioni normative,
l’art. 19 (rubricato “potenziamento degli uffici ed
incentivi per il personale addetto”) del regolamento per
la disciplina dell’I.C.I., approvato con deliberazione C.C.
n. 11 del 19.04.2004, prevede, al primo comma, che “ai sensi
dell’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 e ai sensi
dell’art. 59, lett. p), del D.Lgs. 446/1997, una percentuale
del gettito dell’I.C.I., nella misura determinata dalla
Giunta comunale, è destinata alla copertura delle spese
relative al potenziamento degli uffici tributari del Comune
e ai collegamenti con banche dati utili” e, al secondo
comma, che “ai sensi dell’art. 59, lett. p), del D.Lgs.
446/1997, informate le OO.SS., è attribuito un compenso
incentivante in aggiunta agli istituti previsti in sede di
contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, nella
misura determinata dalla Giunta comunale, per l’attività
espletata dagli uffici e per progetti specifici che
impegnino direttamente il personale addetto e quello
coinvolto nel progetto, sulla base dell’individuazione
effettuata dall’organo competente”.
Con delibera n. 20 del 28.01.2005, la Giunta comunale ha
deliberato, al punto 1) del dispositivo, di “destinare per
le finalità di cui all’art. 19, comma 1, del regolamento
comunale ICI una percentuale del gettito ordinario dell’I.C.I.
pari all’1% dell’incassato a competenza”, al punto 2), di
“destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma 2, del
suddetto regolamento, una percentuale del gettito ordinario
dell’I.C.I. pari allo 0,50% dell’incassato a competenza e
una percentuale pari al 3% del gettito dell’I.C.I. derivante
da attività tese al perseguimento dell’evasione tributaria e
dall’attività di controllo”, prevedendo, inoltre, al punto
3), che l’incentivo di cui al punto 2) sia “ripartito e
liquidato dal Dirigente del Settore Servizi Finanziari con
proprio provvedimento sulla base dell’ impegno individuale e
dei risultati raggiunti anche nell’attività di recupero
dell’imposta evasa e sulla base di appositi progetti da
sottoporre alla preventiva approvazione della Giunta
comunale”.
Deve ritenersi che la quota percentuale del gettito ICI
destinato al compenso incentivante dovesse confluire fra le
“risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e
per la produttività”, di cui all’art. 15 del C.C.N.L.
01.04.1999 (CCNL normativo 1998–2001 economico 1998–1999) del comparto del personale delle regioni-autonomie
locali, che, al primo comma, prevede che “presso ciascun
ente, a decorrere dal 01.01.1999, sono annualmente destinate”
oltre che “all’attuazione della nuova classificazione del
personale, fatto salvo quanto previsto nel comma 5, secondo
la disciplina del CCNL del 31.03.1999”, anche “a sostenere le
iniziative rivolte a migliorare la produttività,
l’efficienza e l’efficacia dei servizi”, le risorse ivi
elencate sub lett. da a) ad n), nel novero delle quali
figurano, sub lett. k), “le risorse che specifiche
disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di
prestazioni o di risultati del personale, da utilizzarsi
secondo la disciplina dell’art. 17”, che, a sua volta
prevede, al primo comma, che “le risorse di cui all’art. 15
sono finalizzate a promuovere effettivi e significativi
miglioramenti nei livelli di efficienza e di efficacia degli
enti e delle amministrazioni e di qualità dei servizi
istituzionali mediante la realizzazione di piani di attività
anche pluriennali e di progetti strumentali e di risultato
basati su sistemi di programmazione e di controllo quali-quantitativo dei risultati” (primo comma) ed, al
secondo comma, che in relazione a dette finalità, “le
risorse di cui all’art. 15 sono utilizzate”, inter alios,
“per:…… g) incentivare le specifiche attività e prestazioni
correlate alla utilizzazione delle risorse indicate
nell’art. 15, comma 1, lettera k)”.
L’art. 4 dello stesso C.C.N.L. (rubricato “contrattazione
collettiva decentrata integrativa a livello di ente”)
prevede, al primo comma, che “in ciascun ente, le parti
stipulano il contratto collettivo decentrato integrativo
utilizzando le risorse di cui all’art. 15 nel rispetto della
disciplina, stabilita dall’art. 17” e, al primo cpv., che “in
sede di contrattazione collettiva decentrata integrativa
sono regolate” le materie ivi elencate sub lett. da a) ad
m), fra le quali figurano, sub lett. a) “i criteri per la
ripartizione e destinazione delle risorse finanziarie,
indicate nell’art. 15, per le finalità previste dall’art.
17, nel rispetto della disciplina prevista dallo stesso
articolo 17” e, sub lett. h), “i criteri delle forme di
incentivazione delle specifiche attività e prestazioni
correlate alla utilizzazione delle risorse indicate
nell’art. 15, comma 1, lettera k)”.
Il C.C.N.L. del 22.02.2006 dell’area della dirigenza del
comparto regioni e autonomie locali per il quadriennio
normativo 2002-2005 e il biennio economico 2002-2003 reca
“dichiarazione congiunta n. 4” con la quale le parti
stipulanti hanno congiuntamente dichiarato che “le risorse
per il finanziamento della retribuzione di posizione e di
risultato derivanti dall’art. 26, comma 1, lett. e), del CCNL
del 23.12.1999, ricomprendono, oltre quelle già
espressamente indicate e sempre a titolo meramente
esemplificativo, anche quelle derivanti dall’applicazione:
dell’art. 3, comma 57, della legge n. 662 del 1996 e
dell’art. 59, comma 1, lett. p), del D.Lgs. n. 446/1997
(recupero evasione ici); dell’art. 12, comma 1, lett. b) del
D.L. n. 437 del 1996, convertito nella legge n.556 del 1996”
(e cioè i compensi liquidati in favore dell’ente locale nel
processo tributario).
Il richiamato art. 26 (rubricato “finanziamento della
retribuzione di posizione e di risultato”) del C.C.N.L.
23.12.1999 (C.C.N.L. normativo 1998-2001 ed economico 1998-1999 dell’area della dirigenza del comparto regioni-enti
locali) prevede che “a decorrere dall’anno 1999, per il
finanziamento della retribuzione di posizione e della
retribuzione di risultato sono utilizzate” le risorse ivi
elencate nel novero delle quali figurano, sub lett. e), “le
risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano
alla incentivazione della dirigenza….”.
L’art. 4 del cit. C.C.N.L. 23.12.1999, disciplina la
contrattazione collettiva decentrata integrativa a livello
di ente, demandandole, fra l’altro, sub lett. f), i “criteri
delle forme di incentivazione delle specifiche attività e
prestazioni correlate all’utilizzo delle risorse indicate
nell’art. 26, lett. e)”.
Con delibera n. 306 del 26.10.2006, la Giunta comunale ha
deliberato di prendere atto delle disposizioni del nuovo
C.C.N.L. 22.02.2006 dell’Area Dirigenziale Regione e
Autonomie Locali e, conseguentemente, di riconoscere i
compensi di cui all’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 ed
all’art. 59, comma 1, lettera p), del D.Lgs. 446/1997 anche
al Dirigente del Settore competente (Area finanziaria), di
modificare il punto 1 della delibera G.C. n. 20/2005 nel
senso di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma
1, del regolamento comunale ICI una percentuale del gettito
ordinario dell’I.C.I. pari all’0,50% dell’incassato”, di
modificare il punto 2 della delibera G.C. n. 20/2005, nel
senso di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma
2, del regolamento comunale ICI, una percentuale del gettito
ordinario dell’I.C.I. pari allo 1% dell’incassato e una
percentuale pari al 3% del gettito dell’I.C.I. derivante da
attività tese al perseguimento dell’evasione tributaria e
dall’attività di controllo” e di mantenere invariati gli
altri punti della già cit. delibera G.C. n. 20/ 2005.
L’art. 20, secondo comma, C.C.N.L. 02.02.2010, del Personale
Dirigente del comparto Regioni e autonomie locali (Area II),
relativo al quadriennio normativo 2006-2009 ed al biennio
economico 2006-2007, ha, quindi, previsto che “in aggiunta
alla retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti
possono essere erogati direttamente, a titolo di
retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da
specifiche disposizioni di legge, come espressamente
recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione
collettiva nazionale e secondo le modalità da queste
stabilite”, nel novero dei quali figurano i compensi di cui
all’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 e art. 59, comma 1,
lett. p), del D.Lgs. 446/1997 (recupero evasione ICI) e che
l'ente definisca “l'incidenza delle suddette erogazioni
aggiuntive sull'ammontare della retribuzione di risultato
sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione
sindacale, ai sensi dell'art. 6 del CCNL del 22.02.2006”.
Premesso quanto innanzi, si osserva che, con l’atto di
citazione, la Procura regionale ha dedotto, a fondamento
della domanda risarcitoria proposta, mercé richiamo del
summenzionato precedente della Sezione, che
la gravità della
colpa del SA., “si individua in tutta la sua evidenza
nell’essersi autonomamente liquidato con propri atti
dirigenziali” i suddetti importi, sottraendoli, “così,
indebitamente al fondo dell’amministrazione e non
consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di
incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della
retribuzione di risultato”.
Reputa la Sezione che, salvi gli effetti dell’eccepita
prescrizione con riferimento al danno conseguente alla
suddetta determina n. 1079/2008, la domanda sia fondata e
meriti accoglimento.
In proposito si osserva che se è vero che con delibera G.C.
n. 20 del 28.01.2005, la Giunta comunale aveva previsto che
l’incentivo fosse “ripartito e liquidato dal Dirigente del
Settore Servizi Finanziari con proprio provvedimento sulla
base dell’ impegno individuale e dei risultati raggiunti
anche nell’ attività di recupero dell’imposta evasa e sulla
base di appositi progetti da sottoporre alla preventiva
approvazione della Giunta comunale”, in un contesto,
peraltro, che ancora non prevedeva che il Dirigente avesse
titolo a fruirne, e che la successiva delibera n. 306 del
26.10.2006, con la quale nel prendere atto delle
disposizioni del nuovo C.C.N.L. 22.02.2006 dell’Area
Dirigenziale Regione e Autonomie Locali, nel riconoscere,
conseguentemente, il detto compenso anche al Dirigente del
Settore competente (Area finanziaria) e nel modificare le
percentuale di gettito da destinare per le finalità di cui
alla cit. delibera G.C. n. 20/2005, ne ha mantenuto fermi gli
altri punti e pertanto anche la suddetta attribuzione di
competenza in capo al Dirigente in ordine alla ripartizione
e liquidazione dell’incentivo, non è men vero che detta
attribuzione di competenza deve essere intesa in conformità
ai principi dell’ordinamento che illuminano la conclusione
nel senso che la stessa non è riferibile alla attribuzione
ed alla liquidazione del compenso incentivante che potesse
eventualmente spettare allo stesso Dirigente.
Occorre osservare che mentre l’art. 45 del D.Lgs. 165/2001,
che disciplina il trattamento economico fondamentale ed
accessorio della generalità dei pubblici dipendenti
prevedendo che lo stesso sia definito dai contratti
collettivi, stabilisce che “i dirigenti sono responsabili
dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori”,
analoga attribuzione di competenza e responsabilità non è
prevista dall’art. 24 dello stesso decreto legislativo, che
disciplina il trattamento economico del personale con
qualifica dirigenziale.
Il cit. art. 24 D.Lgs. 165/2001 stabilisce, infatti, che la
retribuzione del personale con qualifica di dirigente sia
determinata dai contratti collettivi per le aree
dirigenziali prevedendo che il trattamento economico
accessorio sia correlato alle funzioni attribuite (nonché -a seguito della novella di cui al D.Lgs. 150/2009- alle
connesse responsabilità e ai risultati conseguiti) e che la
graduazione delle funzioni e responsabilità ai fini del
trattamento sia definita con provvedimenti degli organi di
governo dell’amministrazione o ente.
Sennonché, nel senso che il SA. non potesse procedere
all’auto-liquidazione dei compensi incentivanti appare nella
specie assorbente il rilievo dell’evidente vulnus al
principio dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97
Cost.) conseguente alle censurate determine adottate in
palese conflitto di interessi.
In proposito si osserva che il D.M. P.C.M. - Dip. funz.
pubbl. 28.11.2000 (recante il “codice di comportamento dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, più di recente
sostituito dal D.P.R. 16.04.2013 n. 62, ma applicabile ratione temporis ai fatti che ne occupano) prevedeva,
all’art. 6 (rubricato “obbligo di astensione”), che “il
dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi
propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o
conviventi…..”, secondo un principio parimenti desumibile
dall’art. 51, primo comma, n. 1 c.p.c., che prevede che il
giudice abbia l’obbligo di astenersi “se ha interesse nella
causa”, dall’art. 78, secondo comma, D.Lgs. 267/2000 che
prevede che gli amministratori locali debbano “astenersi dal
prendere parte alla discussione ed alla votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o
affini sino al quarto grado”, dall’art. 53, settimo comma, D.Lgs. 165/2001 che prevede che, ai fini dell’autorizzazione di incarichi retribuiti, l'amministrazione
verifichi “l'insussistenza di situazioni, anche potenziali,
di conflitto di interessi” nonché dalla previsione del reato
di abuso d’ufficio di cui l’art. 323 c.p.c. [cfr. inoltre,
l’ art. 6-bis. della L. 241/1990 , introdotto dall’articolo 1,
comma 41, della legge n. 190/2013, che stabilisce che “il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche,
gli atti endo-procedimentali ed il provvedimento finale,
devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”
nonché l’art. 7 del D.P.R. 62/2013 (Regolamento recante
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma
dell'art. 54 del D.Lgs. 165/2001) che stabilisce che
i
dipendenti pubblici devono astenersi dal partecipare
all'adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di loro parenti, affini
entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi ed in
ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di
convenienza].
Sulla base della definizione di cui all’art. 3 della L.
215/2004 (recante “norme in materia di risoluzione dei
conflitti di interessi”) -che, ancorché dettata con
riferimento ai titolari di cariche di governo, è
evidentemente suscettibile di generale applicazione- deve
ritenersi che sussista “situazione di conflitto di interessi
… quando il titolare …..partecipa all'adozione di un atto,
anche formulando la proposta …… quando l'atto o l'omissione
ha un'incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del
titolare…..”.
Non può revocarsi in dubbio che l’autoliquidazione del
compenso incentivante da parte del SA. abbia un
incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio dello
stesso SA., ciò che evidentemente esclude che lo stesso
potesse adottare tale determinazione.
In proposito si osserva che l’art. 1395 cod.civ. -applicabile, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., con il limite
della compatibilità, agli atti unilaterali fra vivi aventi
contenuto patrimoniale- contempla il “contratto con se
stesso” prevedendo che lo stesso possa ammettersi, e cioè
non sia viziato, solo quando il soggetto in conflitto di
interessi sia stato “autorizzato specificatamente” ovvero
“il contenuto del contratto sia determinato in modo da
escludere la possibilità di conflitto d'interessi”.
Sennonché, in disparte il rilievo che né la delibera
n. 20/2005 né la successiva delibera n. 306/2006, recano alcun
autorizzazione, né tam poco, alcuna autorizzazione specifica
al SA., ad auto-attribuirsi ed auto-liquidarsi il
compenso incentivante, appare assorbente la considerazione
che, in ragione dell’inderogabilità della disciplina in
materia di obbligo di astensione, deve, comunque, escludersi
che, quando, come nella specie, si verta in ipotesi di
esercizio di pubbliche funzioni, un’autorizzazione, ancorché
specifica, dell’organo di governo dell’amministrazione o
ente, possa legittimare il dipendente o amministratore
pubblico ad adottare provvedimenti incidenti in senso
favorevole sulla propria sfera giuridica, in presenza di un
conflitto di interessi.
D’altro canto, solo la predeterminazione dettagliata e
puntuale -tale da escludere qualsiasi discrezionalità in
sede applicativa- dei criteri di ripartizione ed
attribuzione del compenso incentivante, attraverso
l’adozione, da parte della Giunta comunale -competente in
materia di ordinamento degli uffici ai sensi dell’art. 48,
terzo comma, D.Lgs. 267/2000- di un apposito regolamento
e/o sulla base di accordi collettivi decentrati/integrativi,
avrebbe consentito di escludere la configurabilità, in capo
al SA., di un conflitto di interessi.
Non v’è chi non veda, infatti, che solo ove l’attribuzione e
la liquidazione del compenso incentivante si fosse risolta
in un’attività scevra da scelte e valutazioni discrezionali
ma meramente e meccanicamente ricognitiva degli elementi che
-sulla base di una “griglia” di predefiniti parametri
oggettivi- consentissero di determinare in modo automatico
l’importo che potesse eventualmente spettare, a tale titolo,
al Dirigente, il SA. avrebbe potuto legittimamente auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Sennonché, considerato che di una tale disciplina
regolamentare e/o collettiva non vi è menzione nelle
determinazioni di liquidazione del compenso incentivante,
deve ritenersi che non ve ne fosse alcuna presso
l’Amministrazione comunale di Cerignola, per cui deve
escludersi che il SA. potesse auto-liquidarsi il
compenso incentivante.
Il comportamento del SA. che, in palese conflitto di
interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato il compenso
incentivante deve, pertanto, qualificarsi non iure.
D’altro canto, se è vero che –come evidenziato dal
convenuto- non è sufficiente l’illegittimità del
comportamento per ritenerne, altresì, l’illiceità, e cioè
che il comportamento stesso sia causativo di danno erariale,
non è men vero che, nella specie, non può revocarsi in
dubbio che, in dipendenza del comportamento del SA., il
Comune di Cerignola abbia subito un danno patrimoniale pari
all’ammontare dei compensi incentivanti auto-liquidati.
Considerato, infatti, che la stessa insorgenza di un
ipotetico credito del SA. a tale titolo era
integralmente subordinata sia nell’an che nel quantum a
valutazioni e scelte ampiamente discrezionali riservate alla
Giunta comunale (sulla base degli eventuali accordi
sindacali decentrati/integrativi), che, pertanto, assumono
valenza costitutiva del credito, deve escludersi che, in
difetto delle stesse, il SA. potesse considerarsi
titolare di alcun credito nei confronti dell’
Amministrazione.
Non può revocarsi in dubbio, invero, che all’Amministrazione
e, per essa, ai suoi organi di governo, competeva valutare
l’apporto del Dirigente sia singolarmente sia in confronto
ed il relazione al contributo del restante personale
(unitariamente considerato atteso che alla ripartizione fra
gli altri dipendenti interessati del compenso incentivante
spettante loro ben poteva procedere il Dirigente SA.),
così come all’Amministrazione, e per essa ai suoi organi di
governo, competeva valutare l’incidenza del compenso
incentivante che potesse eventualmente spettare al
Dirigente, sull’ammontare della retribuzione di risultato,
avuto altresì riguardo ai “criteri generali oggetto di
previa concertazione sindacale” di cui all’art. 20, secondo
comma, C.C.N.L. 02.02.2010.
Deve, pertanto, ritenersi che il SA. vantasse una mera
aspettativa a fruire del suddetto incentivo se e nella
misura in cui lo stesso fosse risultato dovuto all’esito
delle scelte e valutazioni discrezionali innanzi menzionate.
E’ appena il caso di osservare che il SA., che poteva
vantare un legittimo interesse all’esercizio, da parte del
Comune di Cerignola, del proprio potere discrezionale in subiecta materia, non risulta che ne abbia mai sollecitato
l’esercizio né che abbia dedotto detto interesse in giudizio
al fine di ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’
amministrazione di provvedere, ma ha preferito auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Considerato che, nella specie, le suddette scelte e
valutazioni discrezionali non sono state operate dall’amministrazione, deve escludersi, come innanzi rilevato, che
il SA. potesse vantare alcun credito a tale titolo.
Ne consegue che il pagamento in favore del SA. del
compenso incentivante che lo stesso si è auto-attribuito deve
considerarsi alla stregua di un pagamento indebito e,
pertanto, produttivo di danno erariale.
Le considerazioni innanzi esposte illuminano la conclusione
nel senso che il diritto e la misura del compenso
incentivante che potesse eventualmente spettare al SA.
non può essere stabilita da questo giudice; la previsione di
cui all’art. 1, primo comma, della L. 20/1994, che fa
espressamente salva l'insindacabilità nel merito delle
scelte discrezionali, comporta, quale logico corollario, che
il giudice non può sostituirsi all’amministrazione
nell’operare valutazioni discrezionali alla stessa
riservate, in ordine all’eventuale spettanza ed
all’ammontare del suddetto emolumento.
Sicché evidentemente, non essendovi stato il riconoscimento
e la quantificazione, da parte dei competenti organi
dell’Amministrazione, del compenso incentivante che potesse
eventualmente spettargli, deve ritenersi che l’intero
importo che il SA. si è auto-liquidato, a tale titolo,
costituisca danno ingiusto per il Comune di Cerignola.
La difesa del SA. ha allegato che non sarebbe
configurabile il dedotto danno erariale “in quanto la
valutazione dello stesso non può che essere legata
all'ipotesi di un maggior esborso sostenuto dall'ente,
ipotesi non dimostrata o dimostrabile atteso ché la spesa
sostenuta dall'Ente civico per tale fattispecie è stata
liquidata in modo inequivocabile entro quella prevista dal
regolamento e solo ed esclusivamente al raggiungimento degli
obiettivi desumibili dal conto consuntivo” in quanto “con
regolamento approvato con Delibera G.C. n. 20 del 28.01.2005
l'amministrazione ha deliberato di destinare, per le
finalità di cui al comma 2 dell'articolo 19, una percentuale
pari al 3% per gli importi derivanti da gettito pregresso”.
Sennonché lo stesso SA. ha evidenziato, a pag. 17 della
comparsa di costituzione, che gli importi dallo stesso
SA. complessivamente liquidati per il 2007, il 2008 ed
il 2009 sono stati notevolmente inferiori agli importi
maturati “in base a tali aliquote e in base ai risultati
ottenuti a consuntivo”, ciò che dimostra come la spesa
“prevista dal regolamento” costituisse solo un limite o
“tetto” massimo da non superare.
E’ evidente, pertanto, che dalla circostanza che l’ammontare
dei compensi liquidati fosse contenuta entro il limite
previsto dal regolamento non possono inferirsi illazioni nel
senso dell’ insussistenza del danno.
Si duole il convenuto che la domanda attorea non terrebbe
“conto, come invece imposto dall’art. 1, comma 1–bis,
della L. 20/1994, dei cospicui vantaggi conseguiti dal
Comune di Cerignola”, presumibilmente in termini di gettito
e recupero dell’I.C.I. evasa.
Reputa questo giudice che debba escludersi che ricorrano
nella specie i presupposti per l’applicazione dell’invocata
disposizione normativa.
Giusto il consolidato orientamento della Cassazione civile
(cfr. ex multis, Sez. III, 22.06.2005 n. 13401, Sez. II,
12.05.2003 n. 7269), l'operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno postula che tanto il pregiudizio
quanto l'incremento patrimoniale siano conseguenza immediata
e diretta del medesimo fatto.
Avuto riguardo al caso di specie, ove anche si ipotizzasse
che il Comune di Cerignola abbia conseguito i dedotti
cospicui vantaggi, essi non deriverebbero certamente
dall’illecito contestato e cioè dall’abusiva
autoliquidazione da parte del SA. del compenso
incentivante.
Inoltre, il conseguimento del gettito dei tributi comunali,
e quindi anche dell’ I.C.I., ed il recupero della relativa
evasione, costituiscono precipui compiti e doveri sia del
Dirigente preposto che del personale addetto all’ufficio
tributi così come, più in generale, di tutti i dipendenti
dell’ amministrazione, che, pertanto, anche a prescindere
dall’incentivo, avrebbero dovuto, comunque, provvedervi.
Nella specie, non vi è, inoltre, prova che i risultati che
sarebbero stati conseguiti dal Comune di Cerignola siano
dipesi dall’apporto del dirigente SA. anziché
dall’apporto dei dipendenti, considerato, altresì, che,
mentre l’apporto dei dipendenti è stato valutato dal
Dirigente, l’apporto di quest’ultimo non è stato valutato
dall’amministrazione.
In proposito, si osserva che evidentemente inconferente si
palesa il “nulla osta” del Nucleo di Valutazione di cui è
menzione nella delibera G.C. n. 142 del 17.04.2008, nella
delibera del C.S. n. 79 del 10.08.2009 e nella delibera C.S.
n. 96 del 23.03.2010 di liquidazione della retribuzione di
risultato in favore dei dirigenti, ivi compreso il SA.,
nonché del segretario generale, per, rispettivamente, gli
esercizi 2007, 2008 e 2009, considerato che dalla menzione
del suddetto “nulla osta” non si evince alcunché in ordine
al concreto contributo del SA. al conseguimento dei
risultati in termini di gettito e recupero evasione ICI.
E’, d’altro canto, appena il caso di osservare come le
summenzionate delibere della G.C. e del C.S. di
liquidazione, con riferimento a ciascuno dei suddetti anni,
della retribuzione di risultato, non rechino alcuna
valutazione dell’ incidenza del compenso incentivante
“sull'ammontare della retribuzione di risultato sulla base
criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale,
ai sensi dell'art.6 del CCNL del 22.02.2006”, come previsto
dall’art. 20, secondo comma, C.C.N.L. 22.02.2010 dell’area
dirigenziale; valutazione che, oltre tutto, non sarebbe
stata nemmeno possibile dal momento che, come evidenziato
dal SA., le suddette delibere di liquidazione della
retribuzione di risultato sono precedenti all’assunzione e/o
all’ esecuzione delle determine con le quali, con
riferimento agli stessi anni, il SA. ha liquidato e si
è auto-liquidato il compenso incentivante.
Deve essere, inoltre, disatteso, siccome infondato,
l’assunto del SA. per cui il danno deve “essere
quantificato al netto delle ritenute fiscali e previdenziali
al fine di evitare un’indebita locupletazione della finanza
generale”.
Quanto alle ritenute previdenziali, occorre osservare come
le stesse abbiano incrementato la posizione contributiva del
convenuto, per cui, a fronte di dette ritenute, non vi è
stata alcuna “indebita locupletazione della finanza
generale”. Di converso sarebbe il SA. -che, come
risulta dalle determinazioni de quibus, con il proprio
comportamento ha dato, altresì, causa al pagamento, a carico
dell’Amministrazione comunale di Cerignola, oltre che dell’IRAP, anche degli “oneri riflessi”, e cioè dei contributi
previdenziali per la parte a carico del datore di lavoro
(voci di danno estranee alla domanda attorea)- a trarne
ulteriore indebita locupletazione ove l’importo del danno
fosse determinato al netto anziché al lordo delle ritenute
previdenziali stesse.
Quanto alle ritenute fiscali operate, a titolo di acconto,
sugli emolumenti corrisposti, reputa la Sezione che, nel
senso che l’importo del danno debba essere assunto al lordo
e non al netto delle ritenute stesse, depone univocamente la
natura sostanzialmente restitutoria dell’azione di danno
esercitata dalla Procura regionale con l’atto di citazione
in epigrafe.
In proposito, si osserva che, da un lato, la disposizione di
cui alla lett. d-bis (aggiunta dall'art. 5, D.Lgs. 314/1997)
dell'art. 10 (oneri deducibili) del testo unico delle
imposte sui redditi (D.P.R. 917/1986), annovera, fra gli
oneri deducibili, “le somme restituite al soggetto
erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni
precedenti”, con previsione evidentemente applicabile
all’ipotesi di restituzione di emolumenti indebiti,
dall’altro, la disposizione di cui al successivo art. 51
dello stesso testo unico nel disciplinare la determinazione
del reddito di lavoro dipendente prevede, al secondo comma
lett. h), che non concorrino alla relativa formazione, fra
le altre, le somme trattenute al dipendente per oneri di cui
all'articolo 10 e alle condizioni ivi previste, ivi
comprese, pertanto, “le somme restituite al soggetto
erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni
precedenti”.
Non può revocarsi in dubbio che, per effetto delle
summenzionate disposizioni normative, gli effetti fiscali
conseguenti all’erogazione di emolumenti indebiti siano
sostanzialmente sterilizzati, per cui evidentemente priva di
fondamento è la richiesta del convenuto di quantificazione
dell’importo dallo stesso dovuto in restituzione al netto
delle ritenute fiscali.
Quanto all’ulteriore deduzione difensiva per cui
occorrerebbe “considerare che il dott. SA. comunque
conserverebbe il diritto alla percezione degli incentivi ai
sensi del comb. disp. di cui agli artt. 3, comma 57, della
L. 662/1996 e 59, lett. p), L.446/1997 con obbligo del
Comune di Cerignola di effettuarne il relativo
riconoscimento”, si osserva che la questione relativa
all’eventuale configurabilità, alla data odierna, nonostante
il tempo trascorso, di un ipotetico obbligo in tal senso (rectius:
dell’obbligo di valutare l’ eventuale apporto del SA.
al conseguimento del gettito ed al recupero dell’evasione
ICI nonché l’incidenza del compenso incentivante che
potesse, in ipotesi, spettargli “sull'ammontare della
retribuzione di risultato, sulla base criteri generali
oggetto di previa concertazione sindacale”) da parte dell’amministrazione datrice di lavoro esula dall’oggetto del
presente giudizio, siccome evidentemente irrilevante, per le
ragioni innanzi esposte, ai fini della quantificazione dei
danni che ne occupano.
Alla luce delle suesposte considerazioni, reputa la Sezione
che in dipendenza del comportamento del SA.,
l’Amministrazione comunale di Cerignola abbia subito una deminutio patrimonii pari all’intero importo che il SA.
si è auto-liquidato.
Considerato, peraltro, che, come innanzi evidenziato, deve
considerarsi prescritto il danno conseguente alla determina
n. 1079 del 04.12.2008, con il quale il SA. si è auto-liquidato l’importo di €. 20.000,00, il suddetto importo
deve essere detratto dall’ammontare complessivo dei danni
dei quali il SARACINO deve rispondere, che devono essere
conseguentemente rideterminati in complessivi €. 82.821,76.
Non può d’altro canto, revocarsi in dubbio la sussistenza,
nella specie, dell’elemento soggettivo necessario ai fini
dell’integrazione della responsabilità amministrativa,
limitata, ai sensi dell’art. 1, primo comma, L. 20/1994, alle
ipotesi di comportamenti dolosi o gravemente colposi.
Il SA. che, anche in ragione della sua qualifica
dirigenziale, non poteva evidentemente ignorare l’obbligo di
astenersi dall’ assumere provvedimenti nei quali fosse
personalmente interessato e, comunque, in situazione di
conflitto di interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato,
con le determine de quibus, rilevanti importi, a carico
dell’ Amministrazione di appartenenza, a titolo di compensi
incentivanti, con un comportamento che, appare, pertanto,
palesemente connotato, quanto meno, da colpa grave, siccome
improntato a straordinaria negligenza ed imperizia ed a
manifesto disinteresse per gli interessi finanziari dell’
Amministrazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il SA. deve
rispondere dei danni come innanzi quantificati in
€. 82.821,76.
Non ricorrendo i presupposti per l’esercizio del potere
riduttivo, il SA. deve essere, pertanto, condannato al
pagamento, in favore del Comune di Cerignola, del suddetto
importo di €. 82.821,76, oltre rivalutazione, secondo indici
ISTAT – F.O.I.., maturata dal 31.03.2010 (fine del mese
della più recente delle liquidazioni de quibus) sino alla
data di deposito della presente sentenza ed interessi, nella
misura legale, maturandi, sull’importo rivalutato, dalla
data della presente sentenza sino al dì dell’effettivo
soddisfo.
4. Reputa inoltre, la Sezione che debba
essere disattesa l’istanza di “oscuramento” dei dati
proposta dal convenuto.
L’art. 52 del D.Lgs. 196/2003 dopo aver previsto, al primo
comma, che l'interessato possa chiedere “per motivi
legittimi”, che sia apposta a cura della cancelleria o
segreteria, sull'originale della sentenza o del
provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di
riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi
forma, per finalità di informazione giuridica su riviste
giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di
comunicazione elettronica, la indicazione delle generalità e
di altri dati identificativi del medesimo interessato
riportati sulla sentenza o provvedimento, dispone al
successivo secondo comma, che sulla suddetta richiesta “provvede
in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità
che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento”.
E’ evidente, pertanto, come l’adozione
dell’invocato provvedimento di oscuramento sia subordinato
alla sussistenza ed all’allegazione di motivi legittimi
sindacabili dal giudice, cui compete valutare
comparativamente le ragioni addotte a fondamento
dell’istanza proposta con l’interesse generale alla
conoscibilità del contenuto integrale dei provvedimenti
giurisdizionali, quale strumento di democrazia e di
informazione giuridica.
E’, del pari, evidente come la prevalenza
dell’interesse dell’istante sul suddetto interesse generale
possa essere assicurata, disponendo l’oscuramento dei dati
personali, solo in presenza di circostanze particolari e
cioè quando dalla diffusione completa della sentenza o di
altro provvedimento giurisdizionale possa derivare un
pericolo di grave pregiudizio per i diritti
dell’interessato.
Di converso, deve escludersi che l’invocato
provvedimento di “anonimizzazione” possa essere
adottato, quando, come nella specie, venga allegato, senza
dedurre alcuna circostanza idonea ad attribuirgli
particolare rilevanza, il mero interesse al riserbo del
convenuto nel giudizio di responsabilità amministrativa che,
anche in considerazione dell’oggetto del giudizio -relativo
al pregiudizio arrecato alle finanze di una pubblica
amministrazione- deve considerarsi recessivo rispetto
all’interesse generale a conoscere il contenuto integrale
del provvedimento giurisdizionale.
5. Le spese del procedimento seguono la soccombenza e sono
liquidate in dispositivo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz.
Puglia,
sentenza 14.04.2015 n. 203). |
11.09.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Cemento
armato, stop ai geometri.
Parere Consiglio di Stato.
Le costruzioni in cemento armato o in zona sismica non
possono essere progettate in autonomia da un geometra. La
progettazione e la direzione lavori relative alle opere in
cemento armato va affidata all'ingegnere o all'architetto.
Questi ultimi infatti sono in grado di eseguire i calcoli e
di valutare i pericoli per la pubblica incolumità pubblica.
Questo è quanto espresso dal Consiglio di Stato, Sez. II,
nel
parere 04.09.2015 n. 2539
in risposta ad una richiesta del ministero della giustizia.
Il parere del consiglio di stato proprio perché è in
risposta al ministero delle giustizia ha il valore
ricostruire il complicato quadro legislativo e dettare le
linee di carattere generale sulla possibilità da parte dei
geometri di costruire opere in cemento armato. Il
professionista, che svolge la progettazione con l'uso del
cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare
e ad assumersi la responsabilità delle opere in cemento
armato.
I giudici del Cds sottolineano che non si tratta, quindi, di
assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista
delle opere in cemento armato che controfirmi o si limiti ad
eseguire i calcoli. Nel senso appunto che l'incarico non può
essere affidato al geometra, che si avvarrà della
collaborazione dell'ingegnere, ma deve essere fin
dall'inizio affidata a quest'ultimo per la parte di sua
competenza e sotto la sua responsabilità.
Per quanto concerne invece la formazione dei geometri, la
costante giurisprudenza ha sostenuto la inidoneità a
giustificare una competenza professionale, che attiene a
calcoli complessi, i quali specie nelle zone sismiche,
attengono a un gioco di spinte e controspinte e all'ipotizzazione
di sollecitazioni, che esulano dalla specifica preparazione
dei geometri. Del resto, la prova scritto grafica per il
superamento dell'esame per l'abilitazione alla professione
di geometra demanda al candidato di fissare liberamente le
scelte ritenute utili e necessarie per la redazione del
progetto fra le quali anche la struttura in cemento armato,
la natura del terreno di fondazione, sicché anche l'esame
stesso non esige necessariamente che il futuro geometra sia
in grado di affrontare le difficoltà derivanti alle suddette
variabili.
Ai geometri, infatti, «anche se in ipotesi tutte da
dimostrare» risulterebbe concessa la possibilità di
progettare in città piccoli edifici in cemento, mentre nel
campo degli edifici agricoli tale possibilità sarebbe
ridotta a «piccole costruzioni in cemento armato, che non
richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro
destinazione non possono comunque implicare un pericolo per
le persone». L'attività di progettazione e la direzione
lavori , incentrata sugli aspetti architettonici della «modesta»
costruzione civile vanno affidati invece a un geometra
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Cemento
armato, progetti solo a ingegneri e architetti.
Professioni. Il parere del Consiglio di Stato sulle
competenze dei geometri.
Uno schiaffo alla professione. I geometri
non possono progettare le strutture di opere in cemento
armato o costruzioni in zona sismica,
almeno stando a quanto è scritto nel
parere 04.09.2015 n. 2539 del Consiglio di Stato
(II Sez.) a seguito di una questione posta dalla Regione
Toscana.
Il progetto andrà firmato e coordinato da
un ingegnere o da un architetto. Nelle altre zone i geometri
potranno invece effettuare la progettazione architettonica
degli edifici in autonomia ma in ogni caso la firma sarà di
un ingegnere o di un architetto.
Il parere del Consiglio di Stato parte da un dato di fatto
normativo: l’abrogazione dell’articolo 1 del Regio decreto
2229/1939 che riservava a ingegneri e architetti la
possibilità di progettare opere in cemento semplice o
armato: di conseguenza, quanto meno per le “modeste
costruzioni civili”, i geometri potrebbero progettare
con il cemento armato.
Di fatto, sinora le sentenze sulla questione si dividevano:
alcune ritengono che i geometri possono progettare opere in
cemento (se di «modestia della costruzione»), altre «continuano
ad applicare alla professione di geometra il divieto
assoluto di progettazione» di opere in cemento armato.
Una liberalizzazione che per il Consiglio di Stato appare
eccessiva: stando alla lettera della legge, i geometri
possono progettare in città piccoli edifici in cemento,
mentre per gli edifici agricoli dovrebbero limitarsi a
«piccole costruzioni in cemento armato, che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione
non possono comunque implicare un pericolo per le persone».
Per i giudici amministrativi questa situazione sarebbe «al
di fuori di ogni ragionevolezza in relazione alla tutela
della pubblica incolumità». Il Consiglio di Stato, dopo
aver rilevato le due circolari dei consigli nazionali di
geometri e ingegneri che pervengono “a conclusioni
opposte” ha dettato un principio generale, che pende a
favore di architetti e ingegneri.
In sostanza, quando entra in scena il cemento armato negli
edifici civili spetterà a ingegneri e architetti il compito
di calcolare le strutture, mentre il geometra (che non potrà
fare lavori in autonomia) potrà occuparsi di progettazione e
direzione lavori degli aspetti architettonici (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze
geometri vs ingegneri e architetti, il principio regolatore
è la pubblica incolumità.
Anche per le “modeste” costruzioni civili il geometra può
progettare, con l’uso del cemento armato, piccole
costruzioni accessorie, che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e non implichino per destinazione
pericolo per l’incolumità delle persone.
Se ci si domanda, poi, in cosa
consista in dettaglio la competenza di geometri alla
progettazione ed esecuzione di “modeste costruzioni civili”,
vista l’indeterminatezza del requisito della modestia,
modestia che, secondo quanto ripetutamente affermato
dalla giurisprudenza,
va valutata sia sotto l’aspetto
quantitativo che sotto quello qualitativo (con
riferimento ai problemi tecnici che l’opera solleva),
occorre mantenere ferme le limitazioni scaturenti dalla
lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929, ed in
particolare quella del pericolo alla pubblica incolumità,
che nel caso delle costruzioni civili implica sia valutata
secondo criteri di particolare rigore.
Pertanto, se non si può rinunciare alla
competenza tecnica in ordine all’effettuazione dei calcoli
ed alla direzione dei conseguenti lavori per i conglomerati
cementizi, specificamente connessa alla funzionalità statica
delle opere in cemento armato, non può, tuttavia, non essere
mantenuta in capo al geometra la possibilità di procedere
alla semplice progettazione architettonica delle modeste
costruzioni civili, evitando nel contempo, però,
comportamenti elusivi del combinato disposto delle lett. l)
ed m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929.
In tale prospettiva, che si basa anche sul principio
generale della collaborazione tra titolari di diverse
competenze professionali, nulla
impedisce che la progettazione e direzione dei lavori
relativi alle opere in cemento armato sia affidata al
tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di
valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che
l’attività di progettazione e direzione dei lavori,
incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta”
costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra. Non
si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un
ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che
controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la
progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto
essere competente a progettare e ad assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo
riferito alle opere in cemento armato,
nel senso appunto che l’incarico non può
essere affidato al geometra, che si avvarrà della
collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin
dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di
sua competenza e sotto la sua responsabilità.
---------------
Quanto, invece, alle fonti normative riguardanti la
formazione del geometra, va rilevato come la costante
giurisprudenza ne abbia affermato l’assoluta inidoneità a
giustificare una competenza professionale che attiene a
calcoli complessi, i quali, specie nelle zone sismiche,
attengono ad un gioco di spinte e controspinte ed all’ipotizzazione
di sollecitazioni, che esulano dalla specifica preparazione
dei geometri.
Del resto, la prova scritto-grafica per il superamento
dell’esame per l’abilitazione alla professione di geometra
demanda al candidato di fissare liberamente le scelte
ritenute utili e necessarie per la redazione del progetto,
fra le quali anche la struttura in cemento armato, il
calcolo delle sollecitazioni ammissibili dei materiali e la
natura del terreno di fondazione, sicché l’esame stesso non
esige necessariamente (e quindi non garantisce) che il
futuro geometra sia in grado di affrontare le difficoltà
derivanti alle suddette variabili.
---------------
Pur non potendosi accettare nella sua assolutezza la tesi,
per la quale nelle zone sismiche l’edificazione con l’uso
del cemento armato esclude di per sé che la costruzione
civile possa ritenersi “modesta”,
ché, altrimenti, si verrebbe a determinare
un’irrazionale eccezione per le costruzioni rurali e per uso
di industrie agricole– deve ritenersi che il grado di
pericolo sismico della zona, in cui insiste la costruzione,
non può non trovare considerazione nella valutazione di un
progetto relativo alle piccole costruzioni accessorie e alle
“modeste” costruzioni civili, nel senso appunto che ben
possono le Amministrazioni competenti esigere che la
“modestia” di una costruzione, che faccia uso di cemento
armato, sia valutata con particolare rigore, al fine di
considerare con prevalente attenzione la progettazione,
esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche, che
dovrà essere demandata alla responsabilità di un
professionista titolare di specifiche competenze tecniche
all’effettuazione dei calcoli necessari ed alla valutazione
delle spinte, controspinte e sollecitazioni, cui può essere
sottoposta la costruzione.
Sicché la progettazione statica, in questi casi, avrà
prevalenza sulla progettazione architettonica e, se si
vuole, il professionista capofila non potrà che essere
l’ingegnere o l’architetto.
---------------
OGGETTO: Regione Toscana. Limiti delle competenze
professionali dei tecnici geometri per quanto rilevante ai
fini dello svolgimento delle funzioni degli uffici tecnici
regionali (c.d. genio civile) in ambito strutturale.
...
PREMESSO
Il Presidente della Giunta regionale Toscana chiede un
parere sui limiti delle competenze professionali
esercitabili da questa categoria, in riferimento alla
normativa di settore, ed in particolare all’art. 16 del R.D.
11.02.1929, n. 274, recante “Regolamento per la
professione di geometra”, e ciò allo scopo di garantire
il corretto esercizio delle funzioni amministrative degli
uffici tecnici regionali in materia di denunce dei lavori di
opere in conglomerato cementizio armato o da realizzarsi in
zona sismica progettate da geometri.
Come già premesso nel parere interlocutorio del 17.10.2012,
va ricordato che la Regione ha sottoposto una prima
questione relativa alla competenza nella progettazione di
civili costruzioni, che comportino la realizzazione di
strutture in cemento armato, chiedendo se per tale tipo di
costruzioni sia sempre da escludersi la competenza dei
geometri per la progettazione di opere in cemento armato
ovvero se sia ammissibile tale tecnica costruttiva con il
limite della “modestia” dell’opera.
Ritiene, al riguardo, la Regione che la questione potrebbe
essere rivalutata alla luce dell’abrogazione, per effetto
dell’emanazione del d.lgs. 13.12.2010, n. 212, del R.D.
16.11.1939, n. 2229, che riserva all’ingegnere ovvero
all’architetto iscritto all’albo la firma del progetto
esecutivo di ogni opera di conglomerato cementizio semplice
od armato, la cui stabilità possa comunque interessare
l’incolumità delle persone.
Potrebbe, inoltre, costituire –secondo la Regione Toscana–
indizio di un'estensione delle competenze professionali dei
geometri la circostanza che sovente le prove d’esame
somministrate in occasione degli esami di Stato per
l’abilitazione all’esercizio della libera professione di
geometra (che, secondo il D.M. 15.03.1986 pubblicato in G.U.
n. 117 del 22.05.2006, devono attenere alle competenze
professionali dei geometri) menzionino l’uso del cemento
armato e che nella descrizione della tariffa professionale
(art. 57 l. n. 144 del 1949) l’ossatura di cemento armato
compaia esclusa solo per le costruzioni antisismiche a due
piani.
La seconda questione sottoposta riguarda i limiti delle
competenze di progettazione da parte dei geometri in
riferimento alle costruzioni da realizzare in zona sismica
(in cui ricade interamente la Regione Toscana).
In particolare, la Regione chiede se si possa considerare
ammissibile la progettazione da parte di geometri di modeste
costruzioni civili in zona sismica, valorizzando la portata
del secondo comma dell’art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001, che
prevede la presentazione della domanda con allegato il
progetto debitamente firmato “da un ingegnere,
architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei
limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei
lavori” e della già richiamata tariffa nonché
considerando l’avvenuta estensione a tutto il territorio
nazionale, con eccezione della sola Sardegna, della
classificazione come zona sismica.
In conclusione, chiede se i tecnici geometri siano abilitati
a svolgere la progettazione e la direzione di lavori per la
realizzazione di costruzioni civili con strutture di cemento
armato nei limiti della modestia della costruzione e se sia
preclusa qualsiasi attività di progettazione e direzione di
lavori di strutture civili in zona sismica.
...
CONSIDERATO
È opportuno preliminarmente richiamare le disposizioni che
riguardano la materia oggetto della richiesta di parere,
distinguendo tra:
a) quelle disposizioni che, regolando in generale
l’esercizio della professione di geometra, ne disciplinano
le competenze;
b) quelle riguardanti le costruzioni che utilizzano il
conglomerato cementizio;
c) quelle che disciplinano specificamente le opere da
realizzare nelle zone sismiche.
Quanto alla prima categoria, viene innanzitutto in
rilievo l’art. 16 R.D. 11.02.1929, n. 274, recante il
regolamento per la professione di geometra, che recita: “L’oggetto
ed i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono
regolati come segue: …..
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di
costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie
agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per
la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo
per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere
inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza
rilevanti opere d’arte, lavori d’irrigazione e di bonifica,
provvista d’acqua per le stesse aziende e riparto della
spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la
redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed
agraria e relativa direzione;
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili...”.
A tale disposizione si aggiunge l’art. 57 della legge
02.03.1949, n. 11, relativa alla tariffa degli onorari per
le prestazioni professionali dei geometri, che nella
categoria “Costruzioni rurali, modeste costruzioni
civili, edifici pubblici per comuni fino a 10.000 abitanti",
cui si applicano le tabelle H ed I, prevede le costruzioni
per aziende rurali con annessi edifici per la conservazione
dei prodotti o per industria agraria, le case di abitazione
popolari nei centri urbani, gli edifici pubblici, magazzini,
capannoni, rimesse in più locali ad uso di ricovero e di
industrie, case di abitazione comuni ed economiche,
costruzioni asismiche a due piani senza ossatura in cemento
armato o ferro, edifici pubblici etc..
Quanto poi alle norme riguardanti le opere in
conglomerato cementizio semplice ed armato, occorre far
riferimento, sia pure da un punto di vista storico, all’art.
1 R.D. 16.11.1939, n. 2229, che recita: “Ogni opera di
conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità
possa comunque interessare l’incolumità delle persone, deve
essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da
un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell’albo,
nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della L.
24.06.1923, n. 1395, e del R.D. 23.10.1925, n. 2537,
sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di
architetto e delle successive modificazioni”.
Tale disposizione risulta oggi abrogata dal D.lgs.
13.12.2010, n. 212.
Queste disposizioni erano completate dagli artt. 1 e 2 della
L. 05.11.1971, n. 1086, oggi trasfusi all’interno del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, recante il testo unico dell’edilizia,
che reca l’art. 53, che prevede: “1. Ai fini del presente
testo unico si considerano:
a) opere in conglomerato cementizio armato normale, quelle
composte da un complesso di strutture in conglomerato
cementizio ed armature che assolvono ad una funzione
statica;
b) opere in conglomerato cementizio armato precompresso,
quelle composte di strutture in conglomerato cementizio ed
armature nelle quali si imprime artificialmente uno stato di
sollecitazione addizionale di natura ed entità tali da
assicurare permanentemente l’effetto statico voluto;
c) opere a struttura metallica quelle nelle quali la statica
è assicurata in tutto o in parte da elementi strutturali in
acciaio o in altri metalli”.
Il successivo art. 64 disciplina la progettazione,
esecuzione, direzione relative alle opere di conglomerato
cementizio armato, normale e precompresso, stabilendo: “1.
La realizzazione delle opere di conglomerato cementizio
armato, normale e precompresso ed a struttura metallica,
deve avvenire in modo tale da assicurare la perfetta
stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qualsiasi
pericolo per la pubblica incolumità.
2. La costruzione delle opere di cui all’art. 53, comma 1,
deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un
tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti
delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini
e collegi professionali.
3. L’esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la
direzione di un tecnico abilitato, iscritto nel relativo
albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle
leggi sugli ordini e collegi professionali.
4. Il progettista ha la responsabilità diretta della
progettazione di tutte le strutture dell’opera comunque
realizzate.
5. Il direttore dei lavori ed il costruttore, ciascuno per
la parte di sua competenza, hanno la responsabilità della
rispondenza dell’opera al progetto, dell’osservanza delle
prescrizioni di esecuzione del progetto, della qualità dei
materiali impiegati, nonché, per quanto riguarda gli
elementi prefabbricati, della posa in opera”.
Infine, per quanto riguarda le zone sismiche, l’art.
93 del d.P.R. n. 380 del 2001 cit. dispone, riprendendo gli
artt. 17, 18 e 19 L. 02.02.1974, n. 64: “1. Nelle zone
sismiche di cui all’art. 83, chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne
preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a
trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della
regione, indicando il proprio domicilio, il nome e la
residenza del progettista, del direttore dei lavori e
dell’appaltatore.
2. Alla domanda deve essere allegato il progetto, in doppio
esemplare e debitamente firmato da un ingegnere, architetto,
geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei limiti delle
rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori.
3. Il contenuto minimo del progetto è determinato dal
competente ufficio tecnico della regione. In ogni caso il
progetto deve essere esauriente per planimetria, piante,
prospetti e sezioni ed accompagnato da una relazione
tecnica, dal fascicolo dei calcoli delle strutture portanti,
sia in fondazione sia in elevazione, e dai disegni dei
particolari esecutivi delle strutture.
4. Al progetto deve inoltre essere allegata una relazione
sulla fondazione, nella quale devono essere illustrati i
criteri seguiti nella scelta del tipo di fondazione, le
ipotesi assunte, i calcoli svolti nei riguardi del complesso
terreno-opera di fondazione.
5. La relazione sulla fondazione deve essere corredata da
grafici o da documentazioni, in quanto necessari.
6. In ogni comune deve essere tenuto un registro delle
denunzie di lavori di cui al presente articolo.
7. Il registro deve essere esibito, costantemente
aggiornato, a semplice richiesta, ai funzionari, ufficiali
ed agenti indicati nell’articolo 103”.
L’art. 94 seguente prevede inoltre che: “1. Fermo
restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento
edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a
bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui
all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione.
2. L’autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla
richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il
rilascio, per i provvedimenti di sua competenza.
3. Avverso il provvedimento relativo alla domanda di
autorizzazione, o nei confronti del mancato rilascio entro
il termine di cui al comma 2, è ammesso ricorso al
presidente della giunta regionale che decide con
provvedimento definitivo.
4. I lavori devono essere diretti da un ingegnere,
architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei
limiti delle rispettive competenze".
La questione all’attenzione della Sezione,
già in passato ritenuta altamente controversa e non
suscettibile di univoche soluzioni,
si è ulteriormente complicata in seguito all’abrogazione
dell’art. 1 R.D. 16.11.1939, n. 2229 cit., recante norme per
la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio
semplice od armato.
Tale abrogazione, verificatasi in seguito al processo del
c.d. taglia-leggi (D.lgs. 13.12.2010, n. 212), ha consentito
che la questione, oggetto del quesito
principale, trovasse il principio di regolamentazione
nell’art. 64 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 cit., che, dopo aver
stabilito il principio per cui la realizzazione delle opere
di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed
a struttura metallica, deve avvenire in modo tale da
assicurare la stabilità e sicurezza delle strutture e da
evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità,
stabilisce che il progetto esecutivo delle opere debba
essere redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel
relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite
dalle leggi sugli ordini e collegi professionali, prevedendo
che l’esecuzione delle opere debba aver luogo sotto la
direzione di un tecnico abilitato, iscritto al relativo
albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle
leggi sugli ordini e collegi professionale.
Sembra pertanto che, per quanto riguarda le
opere in cemento armato normale o precompresso e di quelle a
struttura metallica, ci si debba riferire alla normativa
riguardante gli ordini professionali: id est, nel
caso in esame, alla specifica normativa contenuta nell’art.
16 R.D. n. 274 del 1929, cui la giurisprudenza civile ed
amministrativa avevano fatto costante ed indiscusso
riferimento (exempli
gratia Cons. Stato, Sez. IV, 09.02.2012, n. 686; Cass.
civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; Cons. Stato, Sez. V,
28.04.2011, n. 2537; Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2010, n.
1457; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2012, n. 6036; TAR
Lombardia (Brescia), Sez. II, 18.04.2013, n. 361).
Salvo che questa disposizione
–così come formulata– si giustificava in
presenza della regola generale, oggi abrogata, dell’art. 1
R.D. n. 2229 del 1939. Infatti, quest’ultima regola
generale, mentre era idonea a porre un limite a quanto
disposto della lett. m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929,
per la quale oggetto e limiti dell’esercizio professionale
del geometra sono costituiti da “progetto, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili”, poteva
tollerare un’eccezione solo per quanto stabilito dalla lett.
l) del medesimo articolo, che contempla “progetto,
direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali
e di edifici per uso di industria agricola, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione
non possono comunque implicare pericolo per la incolumità
delle persone…”
(Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2012, n. 6036).
Ma, una volta abrogata la regola generale, la normativa
introdotta dall’art. 16 appare squilibrata, nel senso che le
modeste costruzioni civili potrebbero essere, in ipotesi
tutta da dimostrare, progettate dai geometri, anche se
implicanti strutture in cemento armato normale o
precompresso, mentre per le costruzioni rurali e per gli
edifici di uso industriale agricolo -certamente implicanti
una ridotta frequentazione da parte di persone- i geometri
potrebbero progettare solo “piccole costruzioni
accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari
operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono
comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone”.
Ciò che era un’eccezione nel senso dell’ampliamento delle
funzioni dei geometri, diverrebbe, oggi, un’eccezione in
senso riduttivo delle funzioni stesse, al di fuori di ogni
ragionevolezza in relazione alla tutela della pubblica
incolumità.
In tale situazione l’interpretazione delle norme ha visto
schierarsi la giurisprudenza su due lati opposti.
Da un lato, vi è chi ritiene che ormai
non sussistano più limiti alla possibilità che i geometri
siano responsabili dei progetti, purché si tratti di modeste
costruzioni civili, e che l’unico limite rinvenibile sia
quello derivante dalla identificazione della c.d. “modestia”
della costruzione
(cfr. exempli gratia, Cons. Stato, Sez. IV,
09.08.1997, n. 784; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 15.05.2013,
n. 1108).
Dall’altro, vi sono, però, pronunce
che, anche dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 212 del
2010 –oltre a non dare a quest’ultima abrogazione efficacia
retroattiva neppure sul piano interpretativo della normativa
precedente (Cass.
civ., sez. II, 30.08.2013, n. 19989)-
continuano ad applicare alla professione di geometra il
divieto assoluto di progettazione, allorché si tratti di
costruzioni civili aventi strutture in cemento armato
(cfr. exempli gratia, Cass. civ., Sez. II,
02.09.2011, n. 18038; 14.02.2012, n. 2153).
La prima soluzione data al problema
non regge, perché trascura quanto disposto dalla lett. l)
dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929
(Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2011, n. 2537)
e perché non considera che quanto disposto dagli artt. 1 e 2
L. 05.11.1971, n. 1086, e 17 l. 02.02.1974, n. 64 faceva
riferimento ad un consolidato sistema di competenze, che
escludeva i geometri dalla progettazione di opere in cemento
(cfr. Cass. Civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; 07.09.2009,
n. 19292).
Essa, inoltre, rinvia ad un limite alquanto indeterminato,
essendo stati finora del tutto diversi ed evanescenti i
criteri secondo i quali la giurisprudenza stabilisce quando
una costruzione civile possa dirsi “modesta” (cfr. in
vario senso, le fattispecie concrete ricordate nella memoria
del Consiglio nazionale dei geometri del 13.12.2012).
L’altra impostazione data al problema
sembra trascurare il dato inoppugnabile nascente
dall’ordinamento positivo, che ha abrogato la riserva in
favore degli architetti ed ingegneri della progettazione ed
esecuzione di “ogni opera di conglomerato cementizio,
semplice o armato, la cui stabilità possa comunque
interessare l’incolumità delle persone”.
Ad avviso della Sezione la strada da percorrere è diversa da
quelle sopra accennate.
Si tratta di individuare innanzitutto un
principio regolatore, che deve sovrintendere all’esercizio
delle competenze dei vari ordini professionali, e di
applicare tale principio regolatore nel delineare la linea
di demarcazione tra le competenze di ingegneri ed
architetti, da un lato, e quelle di geometri o periti
industriali, dall’altro.
Tale principio è senza dubbio ispirato al pubblico e
preminente interesse rivolto alla tutela della pubblica
incolumità (Cass.
civ., Sez. II, 07.09.2009, n. 19292; Cass. civ., Sez. II,
13.01.1984, n. 286; Cons. Stato, Sez. V, 10.03.1997, n. 248;
Sez. IV, 14.03.2013, n. 1526).
Si tratta di un principio espressamente
codificato nell’art. 64, co. 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (e
già prima nell’art. 1, co. 4, l. n. 1086 del 1971) e del
quale l’art. 16, lett. l), R.D. n. 274 del 1929 faceva
puntuale applicazione.
Del resto la stessa L. 02.03.1949, n. 143
(Testo unico della tariffa degli onorari per le prestazioni
professionali dell'ingegnere e dell'architetto),
muove dal presupposto che per le costruzioni
antisismiche a più di un piano l’ossatura in cemento armato
non possa essere progettata da geometri.
Pertanto la lett. l) dell’art. 16 R.D. n.
274 del 1929 esprime un limite intrinseco all’attività
professionale dei geometri, che non può esplicarsi per opere
che fanno uso di conglomerato cementizio, se esse siano tali
da “interessare l’incolumità delle persone”.
Ne deriva che sarebbe illogico non
applicare per analogia, anche con riferimento alle
costruzioni civili, la facoltà di progettazione, che l’art.
16, lett. l), attribuisce ai geometri, per quanto riguarda
l’uso del cemento armato in piccole costruzioni accessorie a
quelle rurali ed agli edifici per uso di industrie agricole,
che non richiedono particolari operazioni di calcolo e non
implichino per destinazione pericolo per l’incolumità delle
persone; il che può esprimersi dicendo che le modeste
costruzioni civili non debbono comportare l’impiego di
conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture
statiche e portanti astrattamente suscettibili di arrecare
pericolo all’incolumità delle persone
(Cass. civ., Sez. II, 13.01.1984, n. 286; Cons. Stato, Sez.
V, 08.06.1998, n. 779).
In altri termini, anche per le “modeste”
costruzioni civili il geometra può progettare, con l’uso del
cemento armato, piccole costruzioni accessorie, che non
richiedano particolari operazioni di calcolo e non
implichino per destinazione pericolo per l’incolumità delle
persone.
Se ci si domanda, poi, in cosa consista in
dettaglio la competenza di geometri alla progettazione ed
esecuzione di “modeste costruzioni civili”, vista
l’indeterminatezza del requisito della modestia
(come riconosciuto dallo stesso Consiglio nazionale dei
geometri nella nota del 25.10.2012),
modestia che, secondo quanto ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza (ex
multis Cons. Stato, Sez. V, 12.11.1985, n. 390; Sez. II,
12.05.1993, n. 202), va valutata sia sotto
l’aspetto quantitativo che sotto quello
qualitativo (con riferimento ai problemi tecnici che
l’opera solleva), occorre mantenere ferme le limitazioni
scaturenti dalla lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929,
ed in particolare quella del pericolo alla pubblica
incolumità, che nel caso delle costruzioni civili implica
sia valutata secondo criteri di particolare rigore.
Pertanto, se non si può rinunciare alla
competenza tecnica in ordine all’effettuazione dei calcoli
ed alla direzione dei conseguenti lavori per i conglomerati
cementizi, specificamente connessa alla funzionalità statica
delle opere in cemento armato, non può, tuttavia, non essere
mantenuta in capo al geometra la possibilità di procedere
alla semplice progettazione architettonica delle modeste
costruzioni civili, evitando nel contempo, però,
comportamenti elusivi del combinato disposto delle lett. l)
ed m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929.
In tale prospettiva, che si basa anche sul principio
generale della collaborazione tra titolari di diverse
competenze professionali, nulla impedisce
che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle
opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di
eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la
pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e
direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti
architettonici della “modesta” costruzione civile,
sia affidata, invece, al geometra. Non si tratta, quindi, di
assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista
delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti
ad eseguire i calcoli
(Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038).
Il professionista, che svolge la
progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto
essere competente a progettare e ad assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo
riferito alle opere in cemento armato
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18.04.2013, n. 361, ed
implicitamente TAR Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559),
nel senso appunto che l’incarico non può essere
affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione
dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato
anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto
la sua responsabilità
(Cass. Civ. Sez. II, 30.08.2013, n. 19989).
Irrilevanti sembrano alla Sezione le ulteriori
considerazioni riportate nella memoria inviata dal Consiglio
Nazionale dei Geometri e dei Geometri laureati. Quanto ai
decreti ministeriali relativi alle opere da eseguire in zone
sismiche, essi si limitano a ripetere la formula dell’art.
64 d.P.R. n. 380 del 2001. Tale formula rinvia, come si è
visto, alle discipline relative alle singole professioni e
pertanto non vuole implicare un’attribuzione di competenza
alla professione dei geometri.
Quanto, invece, alle fonti normative
riguardanti la formazione del geometra, va rilevato come la
costante giurisprudenza ne abbia affermato l’assoluta
inidoneità a giustificare una competenza professionale che
attiene a calcoli complessi, i quali, specie nelle zone
sismiche, attengono ad un gioco di spinte e controspinte ed
all’ipotizzazione di sollecitazioni, che esulano dalla
specifica preparazione dei geometri.
Del resto, la prova scritto-grafica per il superamento
dell’esame per l’abilitazione alla professione di geometra
demanda al candidato di fissare liberamente le scelte
ritenute utili e necessarie per la redazione del progetto,
fra le quali anche la struttura in cemento armato, il
calcolo delle sollecitazioni ammissibili dei materiali e la
natura del terreno di fondazione, sicché l’esame stesso non
esige necessariamente (e quindi non garantisce) che il
futuro geometra sia in grado di affrontare le difficoltà
derivanti alle suddette variabili.
In ordine al secondo quesito formulato dalla Regione
Toscana –pur non potendosi accettare nella
sua assolutezza la tesi, per la quale nelle zone sismiche
l’edificazione con l’uso del cemento armato esclude di per
sé che la costruzione civile possa ritenersi “modesta”
(Cons. Stato, 08.06.1998, n. 779), ché,
altrimenti, si verrebbe a determinare un’irrazionale
eccezione per le costruzioni rurali e per uso di industrie
agricole– deve ritenersi che il grado di pericolo sismico
della zona, in cui insiste la costruzione, non può non
trovare considerazione nella valutazione di un progetto
relativo alle piccole costruzioni accessorie e alle “modeste”
costruzioni civili, nel senso appunto che ben possono le
Amministrazioni competenti esigere che la “modestia”
di una costruzione, che faccia uso di cemento armato, sia
valutata con particolare rigore, al fine di considerare con
prevalente attenzione la progettazione, esecuzione e
direzione dei lavori delle opere statiche, che dovrà essere
demandata alla responsabilità di un professionista titolare
di specifiche competenze tecniche all’effettuazione dei
calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte,
controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la
costruzione.
Sicché la progettazione statica, in questi casi, avrà
prevalenza sulla progettazione architettonica e, se si
vuole, il professionista capofila non potrà che essere
l’ingegnere o l’architetto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 04.09.2015 n. 2539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il ricorrente pone due quesiti e chiede:
►
se le norme sulle competenze professionali dei geometri
vietino la scissione della progettazione architettonica da
quella strutturale ponendo come obbligatorio che sia lo
stesso soggetto a realizzare entrambe;
►
se le norme sulle competenze professionali dei geometri
escludono che tali professionisti possano svolgere
progettazione di modeste costruzioni civili ogni qual volta
sia richiesta l'utilizzazione di strutture, anche molto
semplici, in cemento armato.
---------------
Il successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella
della direzione dei lavori di un tecnico di livello
superiore a quello del redattore del progetto originario,
non può valere a sanare ex post la nullità per
violazione di norme imperative, del contratto d'opera
professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al
momento genetico del rapporto.
Occorre inoltre osservare che
non è consentito neppure al
committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato poiché non possibile
enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte
di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un
architetto; infatti chi non è abilitato a delineare
l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare
forma al corpo che deve esserne sorretto.
L'esclusione del compenso professionale, nel caso
considerato, discende dall'applicazione del disposto
dell'art. 2331, comma primo c.c. che, nei casi in cui
l'esercizio di un'attività professionale sia condizionato
all'iscrizione in un albo o elenco, espressamente nega
l'azione per il pagamento del compenso al professionista non
iscritto.
---------------
La legge n. 1086 del 1971 disciplina le opere di
conglomerato cementizio armato e all'art. 2 stabilisce che
la costruzione di tali opere deve avvenire in base ad un
progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo
albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione
delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un
ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile
iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive
competenze.
La normativa, nel ribadire i "limiti delle rispettive
competenze", chiaramente rinvia, senza introdurre
autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza,
alle previgenti rispettive normative professionali di
riferimento, tra le quali, dunque, per quanto riguarda i
geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta
immutata.
La norma, in altri termini, non incide sull'ambito delle
competenze fissate dalle norme precedenti, ma stabilisce che
ogni qual volta si deve realizzare un'opera in
cemento armato la costruzione deve avvenire in base ad un
progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo
albo e la direzione lavori e l'esecuzione delle opere deve
avere luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto
o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo
albo.
Siccome l'art. 16 r.d. 274/1929 alla lettera l) estende la
competenza del geometra, quanto alle "costruzioni rurali
e di edifici per uso d'industrie agricole di limitata
importanza" alle piccole "costruzioni accessorie in
cemento armato", ma solo a determinate condizioni,
mentre la lettera m) non contiene identica estensione per le
costruzioni civili di modesta importanza,
si deve ritenere che resti confermata l'esclusione della
competenza del geometra per le modeste costruzioni civili in
cemento armato.
Ne consegue che la normativa all'epoca
vigente non consentiva al geometra la progettazione e la
direzione delle costruzioni civili, ancorché modeste, ma in
cemento armato.
---------------
Giusta quanto assolutamente pacifico, in dottrina come in
giurisprudenza, e contrariamente a quanto si invoca da parte
del ricorrente, i requisiti di validità dei contratti sono
regolati dalla legge del tempo in cui essi vengono conclusi.
Alla luce di tale consolidato insegnamento si deve
concludere che il negozio giuridico nullo,
all'epoca della sua perfezione, perché contrario a norme
imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia
per effetto della semplice abrogazione di tali disposizioni,
in quanto, perché questo effetto si determini, è necessario
che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla
qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata
in vigore.
Il ricorrente nella successiva memoria sostiene che la
soluzione da lui patrocinata oggi si imporrebbe in ragione
anche della nuova disposizione contenuta nel D.Lgs. n.
212/010 che disciplinerebbe in modo diverso la materia ed
avrebbe altresì carattere interpretativo di quello
precedente.
La normativa di cui al D.Lgs. 212/2010 ha abrogato il
R.D. n. 2229/1939, introducendo, per quanto qui interessa,
una diversa disciplina e, alla luce della giurisprudenza,
sopra richiamata, deve considerarsi innovativa; la nuova
normativa è inoltre del tutto priva di carattere
interpretativo della disciplina in materia di competenze del
geometra non rinvenendosi in essa alcun dato testuale che
possa portare a questa conclusione. Lo stesso ricorrente,
del resto, non indica alcun elemento in favore della sua
tesi.
Per contro va qui ribadito il principio che
la natura interpretativa di una disposizione
normativa, comportando una deroga al principio della
irretroattività della legge, dal momento che porta ad
applicare la nuova disposizione anche al passato, principio
senz'altro valido anche nel diritto comunitario, deve
risultare chiaramente dal suo contenuto, che deve non solo
enunciare il significato da attribuire ad una norma
precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre
questa interpretazione, escludendone ogni altra.
---------------
In conclusione devono essere confermati, nella
fattispecie, i principi costantemente affermati da questa
Corte secondo i quali:
- ai tecnici solo diplomati (geometri e
periti in edilizia) è consentita soltanto la progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione in ogni caso di opere che prevedano l'impiego di
strutture in cemento armato a meno che non si tratti di
piccoli manufatti accessori, trattandosi di una scelta
inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, i limitati margini di discrezionalità
attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo;
- tale disciplina professionale non è stata modificata dalla
legge 05.11.1971, n. 1086 e dalla legge 02.02.1974, n. 64,
le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a
recepire la previgente ripartizione di competenze né tale
disciplina professionale è stata modificata dalla legge
05.11.1971, n. 1086, e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le
quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a
recepire la previgente ripartizione di competenze;
- resta in ogni caso esclusa la competenza
del geometra per le modeste costruzioni civili che siano
anche in cemento armato.
---------------
Con citazione del 06/06/1992 De L.D. proponeva opposizione
al decreto ingiuntivo con il quale gli era stato ingiunto di
pagare al geometra Vitale Donato un compenso di lire
41.105.604 per attività professionale.
Il D.L. assumeva di avere conferito al V. l'incarico di
progettare la costruzione di un edificio, di averlo altresì
incaricato della direzione lavori, del disbrigo delle
pratiche amministrative e della predisposizione dei calcoli
del cemento armato che il V. aveva fatto redigere, a sue
spese, da un ingegnere; per tutte le prestazioni era stato
convenuto il corrispettivo di lire 12.000.000 oltre lire
4.000.000 per le pratiche di accatastamento e per quelle
necessarie per i certificato di abitabilità ed era stata già
pagata la complessiva somma di lire 16.400.000 senza
emissione di fattura.
...
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio
di motivazione e la violazione dell'art. 2231 c.c. e delle
norme sulla competenza dei geometri e, in particolare, la
violazione del R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, lett. m), e
della L. n. 1086 del 1971, art. 2 (contenente norme per la
disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato).
Il ricorrente censura la ritenuta esclusione della
competenza dei geometri nella progettazione di opere in
cemento armato sostenendo di avere limitato il proprio
intervento alla progettazione architettonica affidando i
compiti relativi alla progettazione strutturale, relativa ai
calcoli delle strutture in cemento armato ad un ingegnere
che, quindi si è assunto le responsabilità sugli aspetti
rilevanti per la pubblica incolumità.
Il ricorrente formulando il quesito di diritto ex art.
366-bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione
temporis,
chiede se le norme sulle competenze
professionali dei geometri vietino la scissione della
progettazione architettonica da quella strutturale ponendo
come obbligatorio che sia lo stesso soggetto a realizzare
entrambe.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce il
vizio di motivazione e la violazione dell'art. 2231 c.c. e
delle norme sulla competenza dei geometri e, in particolare
la violazione del R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, lett.
m), e dell'art. 2 L. n. 1086/1971.
Il ricorrente sostiene che le norme in materia di competenza
professionale dei geometri non sarebbero state correttamente
applicate dalla Corte di Appello che avrebbe escluso la
legittimazione del geometra a progettare e dirigere
costruzioni dotate anche solo parzialmente di cemento
armato, mentre l'art. 2 L. n. 1086/1971 prevede che la
costruzione di opere in conglomerato cementizio possa
avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto anche da
un geometra iscritto nel relativo albo nei limiti delle sue
competenze e, nel caso concreto, la competenza sarebbe
riconosciuta dallo stesso r.d. 274/1929 che, all'art. 16,
lett. m), attribuisce ai geometri la competenza in materia
di progetto, direzione vigilanza di modeste costruzioni
civili.
Il ricorrente formulando il quesito di diritto ex art.
366-bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione
temporis,
chiede se le norme sulle competenze
professionali dei geometri escludono che tali professionisti
possano svolgere progettazione di modeste costruzioni civili
ogni qual volta sia richiesta l'utilizzazione di strutture,
anche molto semplici, in cemento armato.
2. I due motivi devono essere esaminati congiuntamente in
considerazione della loro stretta connessione e
interdipendenza.
3.1 Il primo motivo, che ripropone argomenti già più
volte esaminati e disattesi dalla giurisprudenza civile di
questa Corte, è infondato e il quesito non pertinente
rispetto alla fattispecie.
Il successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella
della direzione dei lavori di un tecnico di livello
superiore a quello del redattore del progetto originario,
non può valere a sanare ex post la nullità per
violazione di norme imperative, del contratto d'opera
professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al
momento genetico del rapporto (v. Cass. 08/04/2009 n. 8543
e, in precedenza, Cass. 467/1976).
Occorre inoltre osservare che
non è consentito neppure al
committente scindere dalla progettazione generale quella
relativa alle opere in cemento armato poiché non possibile
enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte
di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un
architetto; infatti chi non è abilitato a delineare
l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare
forma al corpo che deve esserne sorretto (cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 28.04.2011, n. 2537).
L'esclusione del compenso professionale, nel caso
considerato, discende dall'applicazione del disposto
dell'art. 2331, comma primo c.c. che, nei casi in cui
l'esercizio di un'attività professionale sia condizionato
all'iscrizione in un albo o elenco, espressamente nega
l'azione per il pagamento del compenso al professionista non
iscritto (Cass. 02/09/2011 n. 18038).
Il quesito non è pertinente in quanto non si nega la
astratta possibilità di scindere la progettazione
architettonica da quella strutturale, ma si nega che ciò
possa assumere rilievo alcuno al fine di escludere la
nullità del contratto quando il contratto, nel suo momento
genetico non l'abbia prevista essendo stato, invece,
conferito al geometra, con il contratto, l'incarico di
progettazione e direzione della costruzione.
3.2 Anche il secondo motivo è infondato e al quesito
si deve dare risposta negativa.
L'art. 1 R.D. 16.11.1939 n. 22291 (ora abrogato dal DLVO n.
212/2010) per quanto attiene alle costruzioni civili che
adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste,
prevedeva che ogni competenza dovesse essere riservata agli
ingegneri ed architetti iscritti nell'albo.
L'art. 16 r.d. 274/1929, per quanto interessa ai fini della
presente controversia, così delimita l'ambito delle
competenze professionali dei geometri:
- alla lettera l) prevede la legittimazione del geometra
relativamente a: progetto, direzione, sorveglianza e
liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso
d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura
ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in
cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque
implicare pericolo per la incolumità delle persone;
- al punto m) prevede la legittimazione del geometra
relativamente a: progetto, direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili.
La legge n. 1086 del 1971 disciplina le opere di
conglomerato cementizio armato e all'art. 2 stabilisce che
la costruzione di tali opere deve avvenire in base ad un
progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo
albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione
delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un
ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile
iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive
competenze.
La normativa, nel ribadire i "limiti delle rispettive
competenze", chiaramente rinvia, senza introdurre
autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza,
alle previgenti rispettive normative professionali di
riferimento, tra le quali, dunque, per quanto riguarda i
geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta
immutata (v. Cass. 08/04/2009 n. 8543).
La norma, in altri termini, non incide sull'ambito delle
competenze fissate dalle norme precedenti, ma stabilisce che
ogni qual volta si deve realizzare un'opera in
cemento armato la costruzione deve avvenire in base ad un
progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo
albo e la direzione lavori e l'esecuzione delle opere deve
avere luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto
o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo
albo.
Siccome l'art. 16 r.d. 274/1929 alla lettera l) estende la
competenza del geometra, quanto alle "costruzioni rurali
e di edifici per uso d'industrie agricole di limitata
importanza" alle piccole "costruzioni accessorie in
cemento armato", ma solo a determinate condizioni,
mentre la lettera m) non contiene identica estensione per le
costruzioni civili di modesta importanza,
si deve ritenere che resti confermata l'esclusione della
competenza del geometra per le modeste costruzioni civili in
cemento armato.
Ne consegue che la normativa all'epoca
vigente non consentiva al geometra la progettazione e la
direzione delle costruzioni civili, ancorché modeste, ma in
cemento armato.
Giusta quanto assolutamente pacifico, in dottrina come in
giurisprudenza, e contrariamente a quanto si invoca da parte
del ricorrente, i requisiti di validità dei contratti sono
regolati dalla legge del tempo in cui essi vengono conclusi
(cfr. Cass. 12.10.1979, n. 5349; Cass. 12.04.1980, n. 2370;
Cass. 27/03/2002 n. 4434).
Alla luce di tale consolidato insegnamento si deve
concludere che il negozio giuridico nullo,
all'epoca della sua perfezione, perché contrario a norme
imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia
per effetto della semplice abrogazione di tali disposizioni,
in quanto, perché questo effetto si determini, è necessario
che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla
qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata
in vigore (Cass.
21.02.1995, n. 1877).
3.3 Il ricorrente nella successiva memoria sostiene che la
soluzione da lui patrocinata oggi si imporrebbe in ragione
anche della nuova disposizione contenuta nel D.Lgs. n.
212/010 che disciplinerebbe in modo diverso la materia ed
avrebbe altresì carattere interpretativo di quello
precedente.
3.4 La normativa di cui al D.Lgs. 212/2010 ha abrogato il
R.D. n. 2229/1939, introducendo, per quanto qui interessa,
una diversa disciplina e, alla luce della giurisprudenza,
sopra richiamata, deve considerarsi innovativa; la nuova
normativa è inoltre del tutto priva di carattere
interpretativo della disciplina in materia di competenze del
geometra non rinvenendosi in essa alcun dato testuale che
possa portare a questa conclusione. Lo stesso ricorrente,
del resto, non indica alcun elemento in favore della sua
tesi.
Per contro va qui ribadito il principio che
la natura interpretativa di una disposizione
normativa, comportando una deroga al principio della
irretroattività della legge, dal momento che porta ad
applicare la nuova disposizione anche al passato, principio
senz'altro valido anche nel diritto comunitario, deve
risultare chiaramente dal suo contenuto, che deve non solo
enunciare il significato da attribuire ad una norma
precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre
questa interpretazione, escludendone ogni altra
(cfr. Cass. 23827/2012; Cass. n. 9895 del 2003; Cass. n.
7182 del 1986), aspetti che non si rinvengono nel D.Lgs.
212/2010.
3.5 In conclusione devono essere confermati, nella
fattispecie, i principi costantemente affermati da questa
Corte secondo i quali:
- ai tecnici solo diplomati (geometri e
periti in edilizia) è consentita soltanto la progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione in ogni caso di opere che prevedano l'impiego di
strutture in cemento armato a meno che non si tratti di
piccoli manufatti accessori, trattandosi di una scelta
inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, i limitati margini di discrezionalità
attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo
(v. Cass. 08/04/2009 n. 8543 e la giurisprudenza ivi
richiamata: Cass. 8545/2005, 7778/2005, 6649/2005,
3021/2005, 19821/2004, 5961/2004, 15327/2000, 5873/2000);
- tale disciplina professionale non è stata modificata dalla
legge 05.11.1971, n. 1086 e dalla legge 02.02.1974, n. 64,
le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a
recepire la previgente ripartizione di competenze né tale
disciplina professionale è stata modificata dalla legge
05.11.1971, n. 1086, e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le
quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a
recepire la previgente ripartizione di competenze (cfr.,
ex multis, Cass. 02/09/2011 n. 18038);
- resta in ogni caso esclusa la competenza
del geometra per le modeste costruzioni civili che siano
anche in cemento armato
(con riferimento all'ultimo quesito del secondo motivo).
4. Con il terzo motivo il ricorrente deduce il vizio
di motivazione della sentenza impugnata quanto alla
valutazione delle caratteristiche della costruzione essendo
stato escluso che potesse trattarsi di costruzione modesta.
Il ricorrente sostiene che la Corte di Appello avrebbe
escluso che la costruzione potesse considerarsi di modesta
importanza ai fini della legittimazione del geometra
riconosciuta dal r.d. 274/1929 all'art. 16, lett. m),
secondo un criterio meramente quantitativo, fondato sulle
dimensioni dell'edificio, senza considerare il criterio
tecnico-qualitativo con riferimento alla struttura
dell'edificio e alle relative modalità costruttive.
Invece, secondo il ricorrente, la costruzione, di cubatura
di poco superiore ai 2000 metri cubi fuori terra e,
comunque, di struttura semplice, non richiedeva soluzioni di
particolari problemi tecnici; richiama al riguardo
giurisprudenza del Consiglio di Stato che individua la
soglia della modesta entità dell'opera nei 5000 metri cubi e
una sentenza della Cassazione penale che avrebbe ritenuto
rientrare nella competenza dei geometri la costruzione di un
capannone industriale di 8.200 metri cubi.
3.1 La questione come sopra introdotta con il motivo di
ricorso diventa una questione di puro merito (sulla quale
peraltro la Corte di Appello ha adeguatamente motivato) che
comunque resta assorbita dal rilievo (v. supra) che è
in ogni caso esclusa la competenza del geometra per le
modeste costruzioni civili in cemento armato come, appunto,
quella per la quale è chiesto il compenso (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
30.08.2013 n. 19989). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA -
PUBBLICO IMPIEGO: E'
corruzione l'istruzione delle pratiche edilizie
non secondo il loro ordine cronologico, conclamando
favoritismi connessi all'inversione dell'ordine temporale
della trattazione delle pratiche d'ufficio.
Sono da considerarsi atti contrari ai
doveri di ufficio anche quelli che, se pure formalmente
regolari, siano posti in essere dal pubblico ufficiale
prescindendo volutamente in costanza di trama corruttiva
dall'osservanza dei doveri su di lui incombenti, al fine di
assicurare e promuovere il regolare e più corretto
svolgimento dell'azione pubblica.
E tra tali doveri è compreso certamente quello di cui al
D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, comma 5, che impone al
pubblico funzionario di trattare gli affari attribuiti alla
sua competenza tempestivamente e secondo il loro ordine
cronologico, evitando quindi favoritismi connessi
all'inversione dell'ordine temporale della trattazione delle
pratiche d'ufficio
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 17.01.2006 n. 1777). |
IN EVIDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Impianto di depurazione inefficiente, condannato
il sindaco che omette il controllo analogo sulla società in
house.
La Corte dei Conti, sez. giurisdizionale per il Lazio,
condanna al risarcimento di 900 mila euro il sindaco
che, in qualità di socio unico della partecipata in house,
non esercita i doveri connessi all’esercizio del “controllo
analogo” sulla società comunale, omettendo di
intraprendere le azioni risarcitorie per il recupero dei
costi sostenuti per la realizzazione di un impianto di
depurazione, rivelatosi poi inefficiente e fonte di spreco
del denaro pubblico.
In base al piano industriale approvato, tale impianto doveva
essere autonomo energeticamente per la previsione di coprire
i costi del servizio di depurazione del percolato con
l’apporto di biogas proveniente da un altro impianto di di
un’impresa privata, nei termini disciplinati da un’apposita
convenzione tra quest’ultima e la società pubblica.
Come però talvolta accade, il progetto non raggiunge gli
obiettivi per impreviste difficoltà connesse a problemi
tecnici nel sistema dì estrazione del biogas, peraltro
segnalati tempestivamente al comune con la perizia di un
esperto incaricato dalla partecipata.
Di qui l’avvio dell’istruttoria da parte della procura
contabile nei confronti del sindaco e del responsabile
dell’ufficio tecnico comunale, con la contestazione di un
danno erariale a carico sia della società in house, sia
dell’ente pubblico.
In esito al giudizio la Corte assolve il
tecnico comunale, dacché il capo d’accusa si riferisce alla
condotta omissiva nell’ambito dei rapporti tra il comune e
società in house (quale articolazione organizzativa
soggetta a speciale vigilanza da parte del socio), mentre il
dipendente del comune non è competente nella gestione delle
partecipate, né ha mai fatto parte dell’ufficio del “controllo
analogo”.
La responsabilità di carattere omissivo viene perciò
interamente addebitata al primo cittadino, colpevole di non
aver impartito indirizzi e/o intrapreso azioni risarcitorie
volte a tutelare l’investimento e a scongiurare una perdita
di valore della partecipazione, pur essendo egli a
conoscenza del grave pregiudizio che avrebbe arrecato il
funzionamento inefficiente dell’impianto di depurazione.
In definitiva, trova conferma la circostanza che nelle
partecipate il socio pubblico è tenuto a vagliare e mettere
in atto gli occorrenti rimedi, anche giurisdizionali, per la
tutela degli interessi societari, dato che in caso contrario
è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore
contabile nei suoi confronti, in relazione al pregiudizio
derivante dalla perdita di valore della partecipazione e al
depauperamento del patrimonio pubblico che essa
inevitabilmente comporta (commento tratto da
www.leggioggi.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 06.08.2015 n. 367). |
UTILITA' |
CONDOMINIO -
PATRIMONIO - VARI: Le
locazioni a uso abitativo
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI - VARI: G.U.
09.09.2015 n. 209 "Proroga, con modifica, dell’ordinanza
contingibile e urgente 06.08.2013 concernente la tutela
dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero
della Salute,
ordinanza 03.08.2015). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
G.U. 08.09.2015 n. 208 "Disposizioni in materia di
agricoltura sociale" (Legge
18.08.2015 n. 141). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Aggiornamento della procedura on-line per la
presentazione telematica delle domande di congedo parentale,
anche prolungato in caso di figli con disabilità, per i
periodi fruiti tra gli 8 ed i 12 anni
(INPS,
messaggio 09.09.2015 n. 5626 - link a www.inps.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Indicazioni operative e chiarimenti forniti agli enti
interessati dal Settore Rifiuti e bonifiche dei siti
inquinati della Regione Toscana in merito all'applicazione
dell'articolo 242-bis del D.Lgs. 152/2006.
Il nuovo articolo 242-bis del TU Ambientale D.Lgs 152/2006
introdotto dalla Legge 116/2014 (di conversione del decreto
legge 91/2014 detto “Sblocca Italia”) prevede la
procedura semplificata per le operazioni di bonifica.
L'art. 242-bis consente all’operatore interessato
(responsabile dell'inquinamento - soggetto non responsabile
della potenziale contaminazione) di effettuare, a proprie
spese, interventi di bonifica del suolo con riduzione della
contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai valori di
Concentrazione Soglia di Contaminazione (CSC).
Il Settore Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati della
Regione Toscana ha trasmesso agli enti interessati una nota
condivisa con ARPAT (Oggetto:
Precisazioni in merito all’applicazione dell’articolo
242-bis del d.lgs. 152/2006 - Procedura semplificata per le
operazioni di bonifica) in cui fornisce indicazioni
operative e chiarimenti in merito alla sua corretta
applicazione.
Le precisazioni riguardano sostanzialmente le condizioni
discriminanti per l'applicazione dell'art. 242-bis, le
competenze in materia di bonifiche, la permanenza
dell'obbligo di attivazione del procedimento di cui all'art.
242, le modalità di decorrenza del termine di 45 giorni
previsto per la validazione dei risultati da parte di ARPAT,
le modalità di interruzione della procedura semplificata,
l'utilizzo dell'applicativo SISBON.
Riportiamo in sintesi alcune indicazioni:
Le condizioni discriminanti per l’applicazione dell’articolo
242-bis sono:
1. la matrice da bonificare è il suolo (anche in presenza di
falda contaminata);
2. la bonifica ha come obiettivo i valori di Concentrazione
Soglia di Contaminazione (CSC) relativa alla destinazione
d’uso del sito prevista dallo strumento urbanistico vigente;
3. gli interventi di bonifica devono essere completati entro
18 mesi più eventuali 6 mesi di proroga (salvo motivata
sospensione);
4. l’intervento di bonifica è sottoposto a validazione ex
post dell’avvenuta bonifica da parte di ARPAT.
L’applicazione dell’articolo 242-bis presuppone sempre la
conoscenza dello stato di qualità della falda ma nel caso in
cui risulti contaminata o potenzialmente contaminata:
- resta fermo l’obbligo di adottare le misure di
prevenzione, messa in sicurezza e bonifica delle acque di
falda, se necessarie, secondo le procedure di cui agli
articoli 242 o 252;
- conseguiti i valori di concentrazione soglia di
contaminazione del suolo, il sito può essere utilizzato in
conformità alla destinazione d’uso prevista secondo gli
strumenti urbanistici vigenti, salva la valutazione di
eventuali rischi sanitari per i fruitori del sito derivanti
dai contaminanti volatili presenti nelle acque di falda,
mediante la predisposizione di una specifica analisi di
rischio sanitario.
Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado
di contaminare il sito o all’atto di individuazione di
contaminazioni storiche dovranno essere attuate le “Modalità
applicative della Parte IV, Titolo V del D.Lgs. 152/2006”
così come descritte nella deliberazione della Giunta
Regionale Toscana (DGRT) n. 301/2010 che prevedono la
notifica e le misure di prevenzione e indagini mediante
l'utilizzo di SISBON.
Successivamente all’attivazione del procedimento,
l’operatore interessato potrà optare per l'applicazione
dell’articolo 242-bis.
Il termine dei 45 giorni per la validazione dei dati decorre
dalla presentazione ad ARPAT dei risultati da parte del
soggetto interessato.
L’esecuzione della bonifica deve concludersi nei successivi
18 mesi (salvo 6 mesi di proroga) dalla data di avvio della
bonifica.
Decorso tale termine, salvo proroga motivata, il
procedimento ordinario torna ad essere istruito ai sensi
degli articoli 242 o 252 del D.Lgs. 152/2006.
Ove i risultati del piano di caratterizzazione di collaudo
finale dimostrino che non sono stati conseguiti i valori di
CSC devono essere presentate, entro 45 giorni successivi
alla comunicazione di difformità da parte di ARPAT, le
necessarie integrazioni al progetto di bonifica che torna ad
essere istruito nel rispetto delle procedure ordinarie ai
sensi degli articoli 242 o 252 del D.Lgs. 152/2006 (04.09.2015
- link a
www.arpat.toscana.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
Accesso alla professione di geometra - Articoli pubblicati
sul quotidiano "ItaliaOggi"
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 03.09.2015 n. 10268 di prot.). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Applicazione del D.M. 143/2013: ulteriori
chiarimenti (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 26.08.2015 n. 584).
----------------
Si legga, al riguardo, un commento:
Decreto Parametri, nuovi chiarimenti dal gruppo paritetico
CNAPPC-CNI - Obbligatorietà da parte della stazione
appaltante di dar conto del percorso seguito per la
determinazione del corrispettivo (09.09.2015 -
link a www.casaeclima.com). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: OGGETTO:
Lavoro accessorio. Decreto legislativo 15.06.2015, n. 81
artt. 48; 49; 50: Disciplina organica dei contratti di
lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a
norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10.12.2014, n.
183 (INPS,
circolare 12.08.2015 n. 149 - link a
www.inps.it). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ccnl
integrativi da inviare online.
Accordi da trasmettere ad Aran e Cnel.
Dal 1° ottobre, le p.a. dovranno trasmettere la
contrattazione integrativa all'Aran e al Cnel esclusivamente
per via telematica, grazie all'avvio della nuova «procedura
unificata». Procedura che, con un semplice clic, permetterà
il contemporaneo inoltro della documentazione ai due
soggetti istituzionali. Pertanto, dalla predetta data, non
sarà più possibile l'invio dei contratti tramite altri
canali di comunicazione, inclusa la posta elettronica
certificata.
È quanto evidenzia la
circolare congiunta Aran-Cnel 08.09.2015 n. 21279/2015 di
prot., con cui viene dato risalto alle novità che
coinvolgeranno a breve la p.a. nella trasmissione della
contrattazione di secondo livello.
Novità che eviteranno il doppio invio ai due soggetti
istituzionali sopra menzionati semplificando i successivi
passaggi relativi al monitoraggio, alla catalogazione ed
all'archiviazione della documentazione contrattuale. Per
poter correttamente inoltrare in forma telematica i
contratti integrativi, la circolare ricorda che i
responsabili legali degli enti dovranno preliminarmente
utilizzare le credenziali già in proprio possesso.
Le chiavi di accesso, infatti, sono le stesse che le p.a.
hanno utilizzato nella scorsa primavera per comunicare
on-line la quantificazione delle deleghe sindacali ed i
verbali per l'elezione delle rappresentanze sindacali
unitarie. Il secondo passo richiesto, poi, è che il
responsabile dell'ente nomini, all'interno dell'area utenti
riservata, il soggetto «responsabile della trasmissione
dei contratti integrativi».
Nulla vieta, ammette la circolare, che entrambe le figure
possano essere rivestite dallo stesso soggetto. Effettuato
questo necessario passaggio, l'utente scelto per l'invio
telematico riceverà delle apposite credenziali che dovrà
utilizzare per la specifica procedura. Il responsabile della
trasmissione dovrà compilare un breve modulo, procedere al
caricamento del contratto integrativo, della relazione
illustrativa e della relazione tecnica.
Con la conferma dell'invio, i documenti saranno trasmessi ed
acquisiti contemporaneamente sia dall'Aran che dal Cnel.
Sino al 30/9, l'invio dei contratti integrativi dovrà
avvenire secondo le vecchie regole: per l'Aran tramite
l'inoltro via Pec, per il Cnel attraverso la procedura
indicata sul proprio sito
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2015). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Rotazioni?
Meglio di no. Scambiare gli assessori appesantisce l'ente.
Sono
condivisibili le perplessità manifestate dal Tar della
Puglia.
E' legittima la rotazione nella nomina, da parte del
sindaco, di uno dei due assessori nell'ambito della giunta
municipale del comune?
Nella fattispecie in esame il consiglio comunale ha
specificato, con delibera, che il sindaco «ha deciso di dare
stabilità alla figura del vicesindaco, mentre per l'altro
assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra più
consiglieri, alternandoli». Pertanto il vertice dell'ente,
al termine di ogni seduta di giunta, procede alla revoca
dell'assessore e alla contestuale nomina alla stessa carica
di un diverso consigliere, con riserva di comunicazione al
primo consiglio comunale utile.
In merito, l'articolo 46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, i
componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà
comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva
alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato
dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al
consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai
progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il
comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più
assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
In tema di revoca degli assessori, la giurisprudenza ha
sempre affermato l'obbligo di motivazione del relativo
provvedimento sindacale, in virtù di quanto previsto dal
sopra citato comma 4.
Il Consiglio di stato, sez. V con sentenza 12.10.2009
n. 6253, ha affermato che «l'obbligo di motivazione del
provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo
assessore (o di più assessori) può senz'altro basarsi sulle
più ampie valutazioni di opportunità
politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al
sindaco».
Anche il Tar della Puglia, Bari, sez. I, con
sentenza 29.05.2012 n. 106, ha affermato che è «noto il
consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, secondo cui la natura ampiamente
discrezionale del provvedimento di revoca dell'incarico di
assessore consente di ritenere ammissibile una motivazione
basata sulle più ampie valutazioni di opportunità politica e
amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice
dell'ente locale, in quanto aventi a oggetto un incarico
fiduciario (cfr. Cons. stato, sez. V, 23.02.2012 n.
1053 e i numerosi precedenti ivi richiamati)».
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia
particolare rilevanza l'ordinanza n. 788/2009 del 21/10/2009
con la quale il Tar della Puglia, Lecce, sez. I, ha
affermato che il decreto di revoca della nomina ad assessore
adottato dal sindaco non può certamente trovare
giustificazione nell'accordo in ordine all'alternanza alla
carica di assessore raggiunto in seno a una delle forze
politiche che sostengono il sindaco; inoltre, la validità
di un simile accordo si presenta altamente problematica, in
considerazione dell'innegabile contrasto con interessi
pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon
andamento dell'amministrazione o al rispetto della volontà
del corpo elettorale.
Si condividono, pertanto, le perplessità evidenziate dal Tar
Puglia con la citata ordinanza n. 788/2009, anche in
considerazione del fatto che la giunta, secondo la
previsione dell'articolo 36 del decreto legislativo n.
267/2000, è uno degli organi di governo del comune, e in
quanto tale assume una responsabilità di tipo collegiale di
fronte al consiglio, ai sensi dell'articolo 48 dello stesso
decreto, il quale tra l'altro, al comma 2, assegna a tale
organo compiti di collaborazione con il sindaco
nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio,
rispondendo allo stesso con cadenza annuale in merito alla
propria attività espletata e svolgendo compiti di proposta e
di impulso nei confronti del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo
sempre la conseguente comunicazione al consiglio,
comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure
formali, non agevolerebbe il lavoro collegiale della giunta
e impedirebbe di risalire con chiarezza a eventuali
responsabilità in caso di non corretta gestione degli
assessorati di competenza.
Inoltre nell'eventualità del mancato rispetto del patto
politico all'interno del consiglio, l'eventuale revoca di un
assessore, non supportata da adeguata motivazione nei
termini richiesti dalla giurisprudenza, potrebbe esporre
l'ente a possibili contenziosi
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI SERVIZI:
Non può
essere imposta la tutela degli occupati.
Alle
imprese che subentrano in un appalto pubblico.
La stazione appaltante può prevedere l'obbligo di
assorbimento del personale utilizzato in un contratto di
appalto pubblico, ma soltanto se ciò sia coerente con
l'organizzazione dell'impresa che subentra nel contratto.
Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
parere
sulla normativa 22.07.2015 - rif. AG 58/15/AP in merito a una
procedura di gara per l'affidamento di un appalto pubblico
di servizi (contact center).
La stazione appaltante aveva posto alcuni dubbi in merito
alla legittimità dell'inserimento di una «clausola sociale»
consistente nel vincolo inserito negli atti di gara che si
sostanzia nell'obbligo, per la ditta che subentra in un
contratto, di assorbire e utilizzare il personale già
precedentemente impiegato.
Il punto sul quale il parere
siglato dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, si
sofferma è quello del contemperamento dell'esigenza di
tutela dell'occupazione con quello della libertà
organizzativa dell'impresa subentrante nel contratto.
In particolare l'Autorità sottolinea che la clausola
sociale, anche al fine di garantire la sostenibilità
dell'impresa sul mercato, non può alterare o forzare la
valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento
dell'impresa. Pertanto, se la stazione appaltante può
inserire la clausola sociale negli atti di gara, essa non
può però imporre un obbligo di assorbimento di personale,
senza adeguata considerazione delle condizioni dell'appalto,
del contesto sociale e di mercato o del contesto
imprenditoriale in cui dette maestranze si inseriscono.
Esiste quindi un limite che va individuato nella
compatibilità con l'organizzazione dell'impresa subentrante:
le legittime esigenze sociali devono essere bilanciate da
una adeguata tutela della libertà di concorrenza, anche
nella forma della libertà imprenditoriale degli operatori
economici potenziali aggiudicatari, i quali assumono
l'obbligo subordinatamente alla compatibilità con la loro
organizzazione d'impresa.
L'Autorità suffraga il proprio
orientamento citando, per analogia, la giurisprudenza
costituzionale sul cosiddetto «imponibile di manodopera»
(nel caso specifico reinserimento prioritario in azienda dei
lavoratori messi in mobilità) che è stato comunque ammesso a
condizione che l'impresa si determini effettivamente ad
assumere nuovo personale.
Pertanto anche nel caso dell'appalto pubblico in cui si
prevede la clausola sociale, il vincolo può essere previsto
precisando che scatta «qualora ciò sia coerente con la
organizzazione di impresa». Non ci devono quindi essere
automatismi nell'applicazione dell'istituto e si deve
contemperare espressamente l'obbligo di assunzione con la
condizione che il numero dei lavoratori e la loro qualifica
siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa della
ditta aggiudicataria e con le esigenze tecnico-organizzative
e di manodopera previste.
Soltanto così la clausola può essere ritenuta conforme agli
orientamenti sulle misure atte a favorire condizioni di
concorrenzialità nel mercato e coerente con una lettura
comunitariamente orientata della libertà di iniziativa
economica
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Scarti
agricoli come carburante. Attestati sull'origine dei
residui. Paletti ad hoc sui depositi.
ItaliaOggi anticipa la bozza di decreto del
Minambiente sull'utilizzo dei sottoprodotti.
Gli scarti da lavorazione agricola e alimentare diventeranno
carburante per produrre energia. Sarà necessario disporre di
ampia documentazione tecnica per attestare che il
sottoprodotto è «originato da un processo di produzione di
cui costituisce parte integrante e il cui scopo primario non
è la produzione di tale sostanza o oggetto».
Questo è quanto si legge nella bozza decreto del ministero
dell'ambiente di cui Italia oggi è in grado di anticipare i
contenuti.
Il decreto è attuativo dell'articolo 184-bis, comma 2, del dlgs 152 del 03.04.2006, in merito all'utilizzo energetico
dei sottoprodotti. Un decreto molto atteso dagli operatori
del settore in quanto eliminerebbe ogni interpretazione
soggettiva del testo normativo in vigore, dando certezze
agli stessi. «Il decreto non intende favorire l'uso
energetico dei sottoprodotti rispetto ad altri possibili
impieghi» si legge nell'articolo 1 della bozza di
decreto, segno questo della volontà del ministero
dell'ambiente di mettere paletti ben definiti a questo
specifico settore.
Impiego.
Il detentore del residuo dovrà dimostrare che la sostanza o
l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione
della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti
complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Al fine di consentire la verifica delle caratteristiche del
residuo e la conformità dello stesso con il processo di
destinazione, il produttore, prima dell'utilizzo,
predisporrà, per ciascuna categoria di materiale o sostanza,
una scheda tecnica in base al modello allegato 2 al decreto
in commento. La scheda tecnica sarà conservata, anche su
supporto elettronico, presso l'impianto di produzione per i
tre anni successivi alla produzione e presso l'utilizzatore.
In caso di modifiche del processo di produzione del residuo
tali da comportare variazioni delle informazioni rese
oggetto della relativa scheda tecnica, il produttore
provvede all'emissione di una nuova scheda tecnica. Il
produttore e l'utilizzatore conserveranno presso l'impianto
di produzione o presso la propria sede legale, anche su
supporto elettronico, una copia della dichiarazione di
conformità per tre anni dalla data del rilascio della
stessa, mettendola a disposizione delle autorità di
controllo che la richiederanno.
Deposito.
Nelle fasi che ne precedono l'utilizzo, il residuo sarà
depositato e movimentato nel rispetto delle norme tecniche e
delle regole di buona pratica, evitando spandimenti
accidentali e la contaminazione di aria, acqua, suolo e in
modo da prevenire e minimizzare la formazione di emissioni
diffuse e la diffusione di odori.
L'area di deposito dovrà essere chiaramente individuata,
controllata e, laddove necessario in base alle
caratteristiche del residuo, dotata di idonea pavimentazione
e di copertura adeguata alla tipologia del residuo. Lo
stoccaggio del sottoprodotto dovrà essere distinto e
separato dal deposito di rifiuti, di prodotti e di residui
con differenti caratteristiche chimico fisiche, o destinati
a diversi utilizzi
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per i
congedi parentali la domanda si fa online.
Dal
14 settembre stop al regime provvisorio cartaceo.
A partire da lunedì 14 settembre, le domande per fruire del
congedo parentale, riformato dal Jobs act, saranno accettate
dall'Inps solo se trasmesse per via telematica.
È quanto si legge nel
messaggio 09.09.2015 n. 5626, in cui l'ente di
previdenza comunica la cessazione del regime provvisorio,
valido sino al 13 settembre, durante il quale è stato
possibile presentare domande cartacee.
Di cosa parliamo.
La novità riguarda il dlgs 80/2015, attuativo dell'art. 1,
commi 8 e 9, della legge delega n. 183/2014, che tra l'altro
ha modificato l'art. 32 T.u. maternità, in materia di
congedo parentale. Il provvedimento, in vigore dal 25
giugno, consente ai genitori lavoratori o lavoratrici
dipendenti di fruire dei periodi di congedo parentale fino
ai 12 anni di vita del figlio oppure fino ai 12 anni
dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, in
luogo del precedente limite di 8 anni di vita operativo fino
al 24 giugno.
Il prolungamento dell'astensione facoltativa, ha precisato
l'Inps (messaggio
06.07.2015 n. 4576) è possibile per ora solo con
riferimento ai periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra
il 25 giugno e fino al 31.12.2015.
Fino a 12 anni.
La riforma stabilisce che i periodi congedo parentale fruiti
dai 2 ai 6 anni di vita del figlio (dai 3 e 6 anni
dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato),
sono indennizzati, entro il limite massimo complessivo tra i
due genitori di 6 mesi, in misura del 30% della retribuzione
media giornaliera, a prescindere dal condizioni di reddito.
Anche tale estensione, dice l'Inps, è per ora limitata ai
periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e
il 31.12.2015. I periodi di congedo fruiti tra i 6 e gli 8
anni di vita del bambino (tra i 6 anni e 8 otto anni
dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato)
sono indennizzabili, sempre in misura del 30% della
retribuzione media giornaliera, a condizione che il reddito
del genitore che ne fa richiesta sia inferiore a 2,5 volte
il minimo di pensione (16.312 euro nel 2015).
I periodi di congedo fruiti tra gli 8 anni e i 12 anni di
vita del bambino (tra gli 8 e i 12 anni dall'ingresso in
famiglia del minore adottato o affidato), invece, non sono
mai indennizzabili.
La domanda.
Nelle more dell'adeguamento degli applicativi informatici
usati ai fini della trasmissione online delle domande,
l'istituto ha consentito la presentazione delle richieste in
forma cartacea, utilizzando il modello rinvenibile sul sito
internet, seguendo il percorso: www.inps.it, modulistica, e
digitando nel campo «ricerca modulo» il codice SR23.
Come accennato, con la nota di ieri l'Inps comunica che sono
disponibili le procedure per la presentazione telematica
delle domande, ferma restando la validità delle domande di
congedo presentate in modalità cartacea sino al 13 settembre
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
mobilità per 18mila con rischio blocco.
Enti locali. Dopo il decreto sugli spostamenti tra comparti
in arrivo quello sui criteri generali, con l’opposizione dei
sindacati.
Dopo il decreto sulla mobilità fra i diversi
settori della Pubblica amministrazione, che con il via
libera ottenuto in Corte dei conti aspetta ora solo la
pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale», per la complessa
architettura della riforma delle Province è ora la volta del
decreto sui criteri generali della mobilità, che deve dettar
le regole per gli spostamenti del personale anche nel caso
in cui la nuova destinazione sia rappresentata da Regioni ed
enti locali e quindi non preveda un cambio di contratto.
Venerdì scorso il
consiglio dei ministri ha deciso di andare avanti con il
provvedimento, che (come anticipato sul Sole 24 Ore del 15
luglio) è fondamentale anche perché fissa le scadenze per
avviare le istanze di mobilità e il censimento dei posti
disponibili in organico, anche se non è stata raggiunta
l’intesa con le Regioni in Conferenza Unificata.
Dopo i
tempi lunghi degli ultimi mesi, insomma, il Governo prova ad
accelerare, anche se proprio i mancati accordi con enti
territoriali e sindacati moltiplicano i rischi di blocco
nell’attuazione.
Il punto più delicato è stato confermato dalla
versione
definitiva del decreto di Palazzo Chigi con le «tabelle di
equiparazione», cioè lo strumento (previsto fin dalla
riforma Brunetta ma finora mai attuato) per disciplinare i
passaggi da un comparto all’altro.
Il decreto (si veda anche
Il Sole 24 Ore di ieri) dovrebbe riguardare almeno 8mila
persone, al netto dei prepensionamenti, mette nero su bianco
il fatto che la parte “variabile” dello stipendio che non
rientra nei parametri del nuovo inquadramento sarà garantito
solo per le voci «con carattere di generalità e natura fissa
e continuativa», se l’ente di destinazione trova i fondi
anche a valere sulle risorse assunzionali.
Questa previsione
ha sollevato le proteste sindacali, ed è concreto il rischio
di ricorsi a catena quando le mobilità partiranno davvero:
la prima prova del nove si avrà con le procedure avviate dal
ministero della Giustizia, che secondo l’ultima manovra
(comma 425 della legge 190/2014) dovrebbe assorbire fino a
2mila esuberi provinciali.
Un’incognita analoga riguarda l’altro provvedimento, quello
in arrivo sui criteri generali per la mobilità. Agli
spostamenti interni al comparto di Regioni ed enti locali
sono interessati prima di tutto circa 10mila persone, cioè i
dipendenti dei centri per l’impiego che dovrebbero passare
alle Regioni in attesa del varo dell’agenzia nazionale
prevista dal Jobs Act e una quota dei poliziotti
provinciali, in «transito» verso i Comuni.
A prevederlo è il
decreto enti locali approvato prima della pausa estiva, ma
il compito di questo secondo provvedimento ministeriale è
ancora più ampio perché dà 20 giorni alle Province per
pubblicare l’elenco degli “esuberi” nel Portale
nazionale della mobilità, e 40 giorni a Comuni e Regioni per
inserire nello stesso Portale i posti disponibili in
dotazione organica.
L’incrocio di domanda e offerta
rappresenta ovviamente la condizione indispensabile per
consentire gli spostamenti, ma anche in questo provvedimento
(articolo 10 della bozza) torna la garanzia sulla busta paga
concentrata sulle voci con carattere di generalità e natura
fissa e continuativa.
In ogni caso, saranno poi i dirigenti delle amministrazioni
di destinazione a dire l’ultima parola sugli inquadramenti
dei nuovi arrivi, perché i provvedimenti chiedono loro di
valutare anche titoli e curricula per definire le
collocazioni: un’altra operazione delicata, stretta fra i
rischi di impugnazione da parte dei diretti interessati e le
possibili obiezioni della Corte dei conti quando ci si
discosta dai parametri generali (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
La nuova impresa «sociale» pronta per il debutto.
Agricoltura. Pubblicata ieri in Gazzetta Ufficiale la legge
18.08.2015 n. 141.
Debutta in
Italia l’impresa agricola sociale con la pubblicazione sulla
«Gazzetta Ufficiale» n. 208 di ieri della
Legge 18.08.2015 n. 141.
Si tratta di quei soggetti giuridico che svolgono le
attività agricole previste dall’articolo 2135 del Codice
Civile oppure sotto forma di cooperativa sociale (legge
381/1991) e che procede all’inserimento socio lavorativo di
lavoratori svantaggiati (regolamento Ue 651/2014).
Inoltre
l’impresa agricola sociale può svolgere la prestazione di
attività di servizio per la comunità mediante
l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali
dell’agricoltura, il tutto per promuovere ed accompagnare
azioni che portino allo sviluppo di abilità e capacità
lavorative.
L’impresa agricola sociale è altresì indirizzata
a formare progetti finalizzati all’educazione ambientale e
alimentare, a salvaguardare la biodiversità nonché la
diffusione della conoscenza del territorio attraverso
l’organizzazione di fattorie sociali e didattiche; in
particolare tali servizi dovranno essere rivolti ai bambini
in età prescolare e alle persone in difficoltà fisica e
psichica.
Le modalità di svolgimento di queste attività
saranno indicate da un decreto del ministero delle Politiche
agricole e alimentari da emanare entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge. Tutte queste attività hanno
natura di attività connesse (articolo 2135 del Codice
Civile) e quindi aventi natura agricola. Attività che devono
essere svolte in collaborazione con i servizi socio-sanitari
e con gli enti pubblici competenti per territorio.
Le
regioni e le province autonome sono chiamate a favorire
l’integrazione delle imprese agricole sociali del proprio
territorio. Gli operatori della agricoltura sociale possono
anche costituirsi in organizzazione di produttori (decreto
del 27.05.2005 n. 102).
I locali destinati alle attività di agricoltura sociale
mantengono il riconoscimento della ruralità e pertanto i
fabbricati aventi natura strumentali (D/10) sono esenti da
Imu. Alle queste attività si applicano infine i regimi
fiscali previsti per gli altri imprenditori agricoli (articolo Il Sole 24 Ore del
09.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., va a regime la mobilità obbligatoria tra i
comparti.
La mobilità intercompartimentale, con la prossima
pubblicazione del dpcm registrato nei giorni scorsi dalla
Corte dei conti, andrà a regime.
Saranno operative, infatti, le tabelle di corrispondenza fra
i livelli economici di inquadramento previsti dai contratti
collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione,
che consentiranno i trasferimenti tra gli 11 comparti
pubblici ancora oggi esistenti, in attesa che l'attuazione
del dlgs 150/2009 li riduca a 4.
Il dpcm consentirà alle amministrazioni pubbliche di
equiparare le aree funzionali e le categorie di
inquadramento del personale appartenente ai diversi comparti
di contrattazione, confrontando gli ordinamenti
professionali disciplinati dai rispettivi contratti
collettivi nazionali di lavoro attraverso le tabelle
allegate. Allo scopo di inquadrare correttamente il
personale degli altri comparti, occorrerà tenere conto delle
mansioni, dei compiti, delle responsabilità e dei titoli di
accesso relativi alle qualifiche ed ai profili professionali
indicati nelle declaratorie delle medesime aree funzionali e
categorie.
L'articolo 2, comma 1, del dpcm garantisce espressamente che
le mobilità non pregiudichino, rispetto al requisito del
titolo di studio, le progressioni di carriera legittimamente
acquisite: ciò significa che le progressioni verticali a suo
tempo effettuate anche da parte di chi non possedeva il
titolo di studio necessario all'accesso dall'esterno
mediante concorsi pubblici, saranno fatte salve, purché
legittimamente assegnate. Non è dato capire, tuttavia, con
quali mezzi sarà possibile sindacare sulla legittimità delle
progressioni verticali acquisite.
Sempre l'articolo 2 precisa che «la fascia economica
derivante da progressione economica nel profilo di
appartenenza non può comunque dare luogo all'accesso a
profili professionali con superiore contenuto professionale
per i quali è previsto un più elevato livello di
inquadramento giuridico iniziale»: insomma, la posizione
economica acquisita a seguito di progressioni orizzontali
che risulti maggiore della posizione iniziale della
categoria superiore non può dare diritto a una «promozione»
appunto alla categoria superiore.
Laddove il dipendente trasferito in mobilità
intercompartimentale abbia un profilo professionale di
provenienza caratterizzato da specifiche abilitazioni
professionali, queste condizioneranno anche il profilo di
inquadramento presso l'ente di destinazione.
In quanto al trattamento economico, l'articolo 3 del dpcm
distingue due ipotesi. La prima è quella delle mobilità
volontaria. In questo caso, si applica il comma 2-quinquies
dell'articolo 30 del dlgs 165/2001, ai sensi del quale «a
seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di
destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si
applica esclusivamente il trattamento giuridico ed
economico, compreso quello accessorio, previsto nei
contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa
amministrazione». Insomma, la mobilità volontaria non
garantisce la conservazione di alcun tipo di trattamento
economico in godimento presso l'ente di provenienza.
Nel caso di mobilità «obbligatoria», invece, i
dipendenti trasferiti mantengono il trattamento economico
fondamentale e accessorio ove più favorevole, ma
limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura
fissa e continuativa, mediante assegno ad personam
riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a
qualsiasi titolo conseguiti.
La norma pone il problema di individuare trattamenti
accessori con voci a carattere fisso e continuativo, una
contraddizione in termini. Non solo: se applicata al caso
dei dipendenti in sovrannumero delle province, si pone in
chiaro contrasto con l'articolo 1, commi 92 e 96, lettera
a), della legge 56/2014, oltre che con l'Accordo
stato-regioni dell'11.09.2014, che garantiscono, invece, la
conservazione dell'intero trattamento economico, compreso
quello accessorio, ponendo a carico delle province l'onere
di finanziarlo.
Il dpcm, invece, subordina la solo parziale copertura del
salario accessorio «fisso e continuativo»
esclusivamente laddove «sia individuata la relativa
copertura finanziaria ovvero a valere sulle facoltà
assunzionali». Insomma: gli enti destinatari dei
dipendenti in mobilità obbligatoria potranno finanziare il
loro salario accessorio o con risorse del proprio bilancio,
tratte dal fondo della contrattazione decentrata, oppure
erodendo le risorse da destinare alle assunzioni
(articolo ItaliaOggi del 09.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province,
con la mobilità tagli agli stipendi.
I confini per
le garanzie per gli stipendi dei dipendenti pubblici che
cambieranno comparto si fanno più precisi, ma non arriva la
tutela integrale della busta paga “originaria” chiesta dai
sindacati.
Dopo la registrazione da parte della Corte dei conti, la
Funzione pubblica ha diffuso il
testo definitivo del decreto
con le «tabelle di equiparazione» per la mobilità fra i
comparti del pubblico impiego, indispensabile per regolare i
passaggi da un settore all’altro della Pa e quindi per
avviare un capitolo centrale della riforma delle Province:
quello che per ricollocare 7-8mila dipendenti «in
soprannumero» prevede di spostarli in aree disciplinate da
contratti diversi da quello di Regioni ed enti locali (a
questi ultimi dovrebbero andare invece circa 10mila persone,
in particolare chi lavora nella polizia provinciale e nei
centri per l’impiego).
La questione riguarda “solo” la
mobilità «non volontaria», che rappresenta però il grosso
degli spostamenti in programma nella Pa proprio per
l’esigenza di alleggerire gli organici delle Province; per
quella volontaria, che ogni anno riguarda una manciata di
dipendenti, non c’è discussione, nel senso che chi chiede di
spostarsi accetta il trattamento della Pa di destinazione.
Il punto più delicato, che in occasione del primo confronto
in primavera aveva acceso le accuse sindacali sulla volontà
del Governo di introdurre «tagli d’ufficio agli stipendi»,
si incontra all’articolo 3 del provvedimento. Rispetto alle
bozze iniziali, il testo spende qualche parola in più sulle
garanzie stipendiali per la mobilità, ma non modifica la
sostanza del meccanismo: il dipendente che si sposta in un
comparto pubblico diverso da quello di appartenenza, e che
nel suo posto di lavoro ha uno stipendio superiore a quello
previsto nella nuova destinazione, manterrà il trattamento
fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci con
carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Un sistema di questo genere si spiega anche con
l’impossibilità di replicare voci stipendiali che nella
nuova organizzazione perderebbero di senso. Sarebbe
difficile, per esempio, giustificare un’indennità di
«posizione organizzativa» o per «specifiche responsabilità»
a chi nell’ente di provenienza svolgeva un ruolo di
direzione che nella nuova amministrazione non trova
corrispondenza (il nuovo testo introduce un paracadute in
più per le «progressioni di carriera legittimamente
acquisite»). I nodi, però, non finiscono qui.
La garanzia per le voci fisse e continuative, spiega il
decreto, si attiva «nei casi in cui sia individuata la
relativa copertura finanziaria, ovvero a valere sulle
facoltà assunzionali». Tradotto, significa che l’ente di
destinazione dovrà finanziare con i propri fondi integrativi
il trattamento accessorio da mantenere al nuovo dipendente:
è importante la precisazione in base alla quale alla bisogna
potranno servire gli spazi liberati dal turn-over, che dopo
l’ultima manovra sono in pratica riservati al riassorbimento
degli esuberi delle Province, ma in più di un caso le
amministrazioni di destinazione potrebbero dover
redistribuire le stesse risorse di oggi su una platea
accresciuta.
C’è poi un terzo aspetto caldo: anche nei casi in cui
scattasse la tutela completa sullo stipendio attuale, le
voci in più rispetto a quanto previsto per il nuovo
inquadramento confluirebbero in un «assegno ad personam,
riassorbibile con i successivi miglioramenti economici». La
norma serve a evitare la corsa all’aumento strutturale della
spesa negli enti che accolgono nuovo personale ma, visto che
non si può certo prevedere una dinamica vivace per i
prossimi rinnovi contrattuali pubblici, il meccanismo
finirebbe per congelare a lungo le buste paga.
La questione fondamentale, che può produrre battaglie di
carta bollata in tutti i casi di stipendi a rischio, nasce
dal fatto che la riforma delle Province prevedeva un
meccanismo diverso: in caso di mobilità, spiega infatti il
comma 96 della legge Delrio, il dipendente in uscita delle
Province si sarebbe dovuto portare dietro «le corrispondenti
risorse» necessarie a garantirgli «il trattamento economico
fondamentale e accessorio in godimento all’atto del
trasferimento».
Questo “zainetto”, inserito a suo tempo
proprio per ottenere l’ok sindacale alla riforma, è stato
“superato” dagli eventi anche perché, come spiegato qualche
mese fa in una nota diffusa dalla Funzione pubblica, anche
alla luce dei tagli miliardari chiesti alle Province dalla
manovra «il trasferimento di personale non comporta
trasferimento di risorse finanziarie»; e la stessa
impostazione si incontra anche nelle bozze del decreto sui
criteri generali della mobilità (anticipato sul Sole 24 Ore
del 15 luglio), che riguarda anche chi si sposterà senza
cambiare contratto pubblico.
Se però la legge e i decreti
ministeriali parlano due lingue diverse, il conflitto è
dietro l’angolo soprattutto quando si parla di stipendi (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I giudici danno un taglio ai «finti» locali tecnici.
Tre condizioni per escludere dalla cubatura gli spazi di
servizio.
Urbanistica. Il divieto di classificare mansarde, sottotetti
e vani interrati.
Una delle
problematiche più ricorrenti in materia edilizia, dovuta
anche alla varietà della casistica, è rappresentata dai
volumi tecnici, cioè quelli che non vengono computati nella
cubatura utile di un edificio in occasione del rilascio del
titolo abilitativo per la sua costruzione.
Manca una norma generale che li disciplini e la loro
definizione si rinviene in una vecchia circolare dell’allora
ministero dei Lavori pubblici, la n. 2474 del 1973, secondo
cui si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere
ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti
tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di
parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per
esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi,
trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare
applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non
siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni
caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio
per la validità estetica dell’insieme architettonico»,
La giurisprudenza ha supplito alla carenza legislativa
delineando alcuni punti fermi dell’istituto, recentemente
riassunti dal Tar Campania-Napoli nella sentenza n.
3490/2015, che riafferma i principi già fissati con la
precedente decisione n. 4132/2013 e consolida l’orientamento
espresso anche dai giudici di appello (Consiglio di stato,
sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio
di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014).
Per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto
riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale,
dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria
del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il
secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono
collegati:
-
all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse
all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi
devono essere ubicati solo all’esterno;
-
ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze
edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli
impianti serventi della costruzione principale e devono
essere completamente privi di una propria autonomia
funzionale, anche solo potenziale.
Le esclusioni
In relazione a questi parametri, la nozione di volume
tecnico è stata applicata dalla giurisprudenza in senso
restrittivo. Così, ad esempio, è stato escluso che possa
considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di
abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione
di tamponamento delle finestre, essendo questa «una
operazione in sé talmente semplice, reversibile e
surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca
qualità abitativa» (Consiglio di Stato, sezione VI, n.
2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale
sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano
sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice
rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale,
non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso
ricavati» (Consiglio di giustizia ammnistrativa siciliana,
sentenza n. 207/2014; Consiglio di stato, sezione IV,
sentenza n. 3666/2013; Tar Puglia-Lecce, sezione III, n.
2170/2011).
In questi casi saremmo in presenza di una
mansarda, che deve essere computata «per la determinazione
della superficie lorda di pavimento e della volumetria ai
fini della concessione edilizia».
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi
tecnici anche i vani scala (Consiglio di stato, sezione IV,
sentenza n. 2565/2010), le verande, se di dimensioni
superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una
caldaia (Consiglio di stato, sezione VI, n. 2226/2015; Tar
Campania-Napoli sezione VIII, sentenza n. 4132/2013) ed i
piani interrati, se utilizzati come locali complementari
all’abitazione (Tar Marche, sentenza n. 21/2003).
Le conseguenze
Dalla non configurabilità di un volume tecnico deriva
l’obbligo di dotarsi di titolo abilitativo, in assenza del
quale si configura il correlato reato edilizio, come nel
caso di realizzazione di cisterne interrate di ingombro
rilevante (Cassazione penale, sezione III, n. 38338/2013 e
n.7217/2010) o della trasformazione di sottotetti in
mansarde abitabili (Cassazione penale, sezione III, n.
11956/2010).
Sul piano civilistico la non configurabilità
del volume tecnico comporta l’obbligo di rispettare le
altezze massime (Cassazione civile, sezione II, n.
2566/2011) e le distanze legali dalle altre costruzioni
(Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 20886/2012;
Consiglio di stato, sezione V, sentenza n. 1272/2014).
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la rassegna
01 - AUTORIZZAZIONE
PAESAGGISTICA
Nuove costruzioni
Il divieto di nuove costruzioni, imposto ai fini di tutela
del paesaggio, preclude in ogni caso qualsiasi nuova
edificazione che comporti comunque la creazione di edifici,
senza che sia possibile distinguere tra volumi tecnici,
residenziali, commerciali -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.04.2014 n.
2222
La sopraelevazione
Va escluso che, ai fini dell’accertamento postumo circa la
compatibilità paesaggistica di taluni lavori ai sensi
dell’articolo 167 del Dlgs 22.01.2004 n. 42, possa
parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del
fabbricato che si pongono a sua integrazione, come ad
esempio un vano scale, di cui il torrino rappresenta la
prosecuzione. Il torrino, infatti, è una costruzione che si
eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente
fabbricato e, implicandone la sopraelevazione, determina un
aumento della volumetria precedente -
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2014 n.
1512
La compatibilità
In tema di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, gli interventi che abbiano dato luogo alla
realizzazione di soli volumi tecnici rientrano
nell’accezione di cui all’articolo 167, comma 4, lett. a),
del Dlgs 22.01.2004 n. 42 e sono suscettibili di
accertamento della compatibilità paesaggistica -
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.12.2014 n. 6431
02 - DEFINIZIONE DI LOCALE TECNICO
Il rapporto con gli impianti
Si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né
adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché
strettamente necessario per contenere, senza possibili
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una
costruzione principale e non collocabili all’interno
dell’edificio.
Un tale volume non è di norma computato nella volumetria
massima assentibile.
Tale natura è stata ritenuta ravvisabile per cabine
contenenti impianti idrici, termici, motori dell’ascensore e
simili, nonché per i sottotetti termici, con esclusive
funzioni di isolamento dell’ultimo piano dell’edificio
stesso, purché non utilizzabile per attività connesse
all’uso abitativo, come nel caso di soffitte, stenditoi
chiusi o locali di sgombero -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.01.2015 n.
175
L’uso del sottotetto
Nel campo urbanistico, per volumi tecnici si intendono
quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, mentre non sono tali e sono quindi
computabili ai fini della volumetria consentita, le
soffitte, gli stenditoi chiusi, nonché il piano di copertura
impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà
una mansarda; in particolare, la realizzazione di un locale
sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano
sottostante mediante una scala interna costituisce indice
rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale,
non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso
ricavati -
C.G.A.R.S.,
sentenza 14.04.2014 n. 207
Le condizioni
Rientra nel concetto di volume tecnico l’opera edilizia
priva di autonomia funzionale, anche potenziale, perché
destinata a contenere impianti al servizio di una
costruzione principale, volti esclusivamente a soddisfare
esigenze tecniche e funzionali dell’abitazione e che non
possono essere ubicati all’interno di questa.
Tre sono i
parametri utili per identificare la nozione di volume
tecnico: il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera
che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di
strumentalità necessaria rispetto alla costruzione
principale perché ne consente un migliore e più efficiente
utilizzo; il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel
senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume
tecnico appare l’unica soluzione praticabile per
impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse
e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria
proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale
-
TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.06.2013
n. 1429
03 - DISTANZE
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume
tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione
e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali,
soltanto l’opera edilizia priva di autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione medesima, e tale non
può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera
funzionalità decorativa -
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 13.03.2014, n.
1272
04 - LOCALE INTERRATO
Qualora una disposizione volta alla tutela di beni
paesaggistici preveda il divieto di incremento dei volumi,
il divieto riguarda anche la realizzazione di volumi tecnici
o di garage interrati -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.08.2013 n.
4114
05 - MANSARDA
Una mansarda dotata di rilevante altezza media e una
terrazza da utilizzare quale stenditoio non rientrano nella
nozione di volume tecnico, riferibile soltanto alle opere
edilizie completamente prive di una propria autonomia
funzionale, anche potenziale,
in quanto destinate a contenere impianti serventi una
costruzione principale -
TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.12.2011
n. 2170
06 - SERRE
Costituiscono volumi tecnici -non rientranti nel conteggio
dell’indice edificatorio in quanto
non sono generatori del c.d. carico urbanistico- solo
quelli adibiti alla sistemazione di impianti
o, come previsto dall’articolo 4 lr Lombardia n. 39/2004, le
serre bioclimatiche e le logge addossate od integrate
nell’edificio (opportunamente chiuse e trasformate per
essere utilizzate come serre per lo sfruttamento
dell’energia solare passiva) aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione e
che non possono essere ubicati all’interno della parte
abitativa -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.02.2010 n. 712
07 - SOTTOTETTO
La realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e
comunicanti con il piano sottostante mediante una scala
interna costituisce indice rilevatore dell’intento di
rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare
volumi tecnici i vani in esso ricavati -
C.G.A.R.S., sentenza 14.04.2014 n. 207
08 - TAMPONATURE
La tamponatura delle finestre è un’operazione in sé talmente
semplice, reversibile
e surrettizia da non privare l’ambiente della sua
intrinseca qualità abitativa; e quindi non può considerarsi
volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso
non abitabile con una semplice operazione di tamponamento
delle finestre -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.05.2014 n.
2825
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.09.2015). |
ENTI
LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Più spazio ai voucher con il nuovo limite di 7mila euro
all’anno.
Innalzata la soglia dei compensi netti per singolo
prestatore senza limiti di settore.
Jobs act. Le nuove regole per gli impieghi occasionali.
Il Jobs act ha
reso più accessibile il lavoro accessorio, quello retribuito
con i voucher: il Dlgs 81/2015 di riordino dei contratti ha
aumentato il tetto massimo dei compensi che possono essere
versati allo stesso lavoratore con questa tipologia di
impiego, portandolo a 7mila euro netti all’anno. Questo
intervento potrebbe consolidare il trend di crescita del
ricorso al lavoro accessorio, che già nel primo semestre
2015 ha fatto segnare un record, con 50 milioni di voucher
emessi (+75% sul 2014).
I buoni lavoro, introdotti nel 2008 per le attività
stagionali e come veicolo di emersione del lavoro nero,
hanno visto una estensione progressiva nel tempo e una
generalizzazione in tutti i settori economici, soprattutto
nel commercio e nel turismo. Infatti, le vecchie causali
soggettive e oggettive sono state sostituite già dalla
riforma Fornero con i soli limiti economici. Oggi è dunque
sempre possibile attivare il lavoro accessorio tenendo conto
soltanto del limite di 7mila euro percepiti dal lavoratore
in un anno solare.
In quest’ottica il Dlgs 81/2015, con gli articoli da 48 a
50, ha abrogato e sostituito integralmente gli articoli da
70 a 73 del Dlgs 276/2003, consentendo il ricorso a
prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative
in tutti i settori produttivi e garantendo, nel contempo, la
piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati.
I compensi massimi
L’articolo 48, comma 1, del Dlgs 81/2015 ha innalzato il
limite massimo del compenso che il prestatore può percepire
da 5mila a 7mila euro (rivalutabili annualmente), stabilendo
che «per prestazioni di lavoro accessorio si intendono
attività lavorative che non danno luogo, con riferimento
alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7mila
euro (9.333 euro lordi) nel corso dell’anno solare (dal 1°
gennaio al 31 dicembre), annualmente rivalutati sulla base
della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per
le famiglie degli operai e degli impiegati».
Non cambia, invece, il limite dei 2mila euro per le
prestazioni rese nei confronti del singolo committente
imprenditore o professionista. Con la circolare 149/2015
l’Inps ha chiarito che il valore per il 2015 è pari a 2.020
euro netti ovvero 2.693 euro lordi.
Una disciplina ad hoc si applica nel settore agricolo: le
aziende con volume d’affari oltre 7mila euro netti all’anno
possono impiegare solo pensionati e giovani under 25, se
iscritti a un istituto scolastico o all’università, per
svolgere attività agricole stagionali. Le imprese con
fatturato inferiore possono impiegare invece qualsiasi
soggetto in qualunque tipologia di attività agricola, purché
non sia stato iscritto l’anno precedente nell’elenco dei
lavoratori agricoli.
Percettori di ammortizzatori
L’attuazione del Jobs act ha reso strutturale la possibilità
per i percettori di prestazioni integrative del salario o di
sostegno al reddito di effettuare prestazioni di lavoro
accessorio in tutti i settori produttivi, compresi gli enti
locali, nel limite di 3mila euro (4mila lordi) di compenso
per anno civile.
Con la circolare 149/2015, l’Inps ha
precisato che il limite di 3mila euro, per il 2015, è da
intendersi comprensivo anche delle prestazioni di lavoro
accessorio già rese dal 1° gennaio al 24.06.2015 (giorno
precedente all’entrata in vigore del Dlgs 81/2015).
Acquisto tracciabile
Un’importante novità si registra sull’obbligo, per i
committenti imprenditori e liberi professionisti, di
acquistare esclusivamente con modalità telematiche i buoni
lavoro (procedura FastPoa).
In sostanza, oggi i canali per l’acquisto sono: la procedura
telematica Inps (cosiddetto voucher telematico); i tabaccai
che aderiscono alla convenzione Inps-Fit; il servizio
internet banking Intesa Sanpaolo e le banche popolari
abilitate. I committenti non imprenditori o professionisti
possono continuare ad acquistare i voucher, oltre che
attraverso questi canali, anche presso gli uffici postali.
In pratica, non potranno essere più acquistati buoni lavoro
presso le sedi Inps a eccezione -e comunque fino al 31.12.2015- dei voucher per i servizi di babysitting
introdotti, in via sperimentale, dalla legge 92/2012 per il
triennio 2013-2015 (circolare Inps 169/2014).
L’istituto
previdenziale ha confermato la prassi amministrativa per la
quale, in attesa del decreto ministeriale, il valore
nominale del buono lavoro sarà pari a 10 euro (di cui 7,5
netti al lavoratore e la restante somma suddivisa per il 13%
alla gestione separata Inps, 7% all’Inail e il 5% al
concessionario del servizio). Nel settore agricolo il buono
lavoro sarà pari all’importo della retribuzione oraria delle
prestazioni di natura subordinata individuate dal Ccnl
stipulato dai sindacati più rappresentativi sul piano
nazionale.
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L’autocertificazione mette al riparo da sanzioni.
Controlli. Il lavoratore dichiara il non superamento dei
limiti di reddito per l’anno.
Il sistema dei buoni lavoro consente ai committenti di
beneficiare di prestazioni nella completa legalità, con
copertura assicurativa Inail per eventuali incidenti sul
lavoro, senza rischiare vertenze sulla natura della
prestazione e senza dover stipulare alcun tipo di contratto.
I datori di lavoro, però, dovranno prestare attenzione agli
adempimenti previsti e ai limiti per l’uso dei voucher se
non vorranno incorrere in sanzioni.
Le possibili violazioni della disciplina del lavoro
accessorio riguardano principalmente al superamento dei
limiti quantitativi previsti dalla riforma. Il ministero del
Lavoro, con la circolare 4/2013, ha precisato che il limite
quantitativo diventa elemento «qualificatorio» della
fattispecie e, pertanto, in sede di verifica ispettiva, è
necessario che non sia stato superato l’importo massimo
consentito. Del resto –ha precisato il ministero– è
proprio il modesto apporto economico in capo al lavoratore
che caratterizza l’occasionalità della prestazione. Una
conferma è l’esenzione da ogni imposizione fiscale del
lavoro accessorio o la non incidenza sullo stato di
disoccupazione o inoccupazione del lavoratore.
Dunque, sarà
il sistema informatico dell’Inps che potrà consentire ai
datori di lavoro di verificare le soglie. In attesa del
sistema informatizzato di monitoraggio dell’accredito dei
voucher, il committente potrà richiedere al lavoratore una
dichiarazione sul non superamento degli importi massimi
previsti. Per il ministero (lettera circolare del 18.02.2013) quindi, l’acquisizione
dell’autocertificazione firmata dal lavoratore è sufficiente
a evitare sanzioni.
Invece, se manca l’autocertificazione
del lavoratore,ovvero questa sia falsa, a parte le
conseguenze penalmente rilevanti in capo al lavoratore, il
superamento dei limiti economici determinerà una
trasformazione del rapporto in uno di natura subordinata a
tempo indeterminato, con applicazione delle sanzioni civili
e amministrative.
Questo almeno con riferimento alle ipotesi
in cui le prestazioni siano rese nei confronti di una
impresa o di un lavoratore autonomo e risultino funzionali
all’attività di impresa o professionale. In sostanza, sarà
possibile operare la trasformazione del rapporto
ogniqualvolta le prestazioni del lavoro accessorio siano
verosimilmente fungibili con le prestazioni rese da un altro
lavoratore già dipendente dell’imprenditore o del
professionista (vademecum 22.04.2013).
Il ministero del Lavoro (circolare 4/2013) ha poi precisato
che la mancata denuncia preventiva di utilizzo del lavoro
accessorio, da effettuare per via telematica all’Inps,
comporterà l’applicazione della maxi sanzione per lavoro
nero.
Invece, nel caso in cui la comunicazione sia stata
fatta ma, in sede di controllo, alcune giornate non
risultino retribuite, la mancata erogazione dei voucher non
potrà dar luogo alla maxi sanzione ma –nel caso in cui le
prestazioni siano rese nei confronti di un’impresa o di un
lavoratore autonomo secondo i canoni della subordinazione–
si avrà la conversione in lavoro subordinato a tempo
indeterminato con applicazione delle relative sanzioni
amministrative e civili (nota del ministero del Lavoro del
12.07.2013, n. 37/12695).
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L’utilizzo è escluso in tutti gli appalti.
I divieti. Salvo ipotesi specifiche da individuare.
Con il decreto
di riordino dei contratti (Dlgs 81/2015) è diventato legge
il divieto di usare i voucher nell’esecuzione di appalti.
Infatti, se sino a oggi il divieto era lasciato alla prassi
amministrativa, l’articolo 48, comma 6, del decreto
legislativo 81/2015 prevede espressamente che «è vietato il
ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito
dell’esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve
le specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti
sociali, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore
del presente decreto».
Già la circolare del ministero del lavoro 34/2010 aveva
affermato che le prestazioni di lavoro devono essere svolte
direttamente a favore dell’utilizzatore della prestazione,
senza intermediari. Il ricorso ai buoni lavoro è dunque
limitato al rapporto diretto tra prestatore e utilizzatore
finale, mentre è escluso che una impresa possa reclutare e
retribuire lavoratori per svolgere prestazioni a favore di
terzi come nel caso dell’appalto e della somministrazione
(circolari Inps 88/2009 e 17/2010).
Alla base del
ragionamento ministeriale c’è l’esigenza di escludere
fenomeni di “destrutturazione” di altre tipologie
contrattuali e possibili fenomeni di dumping sociale negli
appalti a sfavore di imprese che ricorrono a contratti più
stabili (circolare del ministero del Lavoro 4/2013).
La somministrazione
Da un confronto tra l’intervento legislativo e la prassi
amministrativa sinora seguita dagli organi di controllo,
sembrerebbe oggi possibile l’utilizzo dei voucher
nell’ambito dei contratti di somministrazione e in tutte le
ipotesi in cui non sia presente un contratto di appalto di
opere e servizi.
Del resto, già il tribunale di Milano con la sentenza
318/2014 aveva affermato che il lavoro accessorio
costituisce una categoria speciale all’interno delle
collaborazioni occasionali, mediante il quale qualsiasi
attività può essere svolta da qualsiasi soggetto, nei limiti
del compenso economico previsto, con la sola eccezione del
settore agricolo in cui talune limitazioni persistono.
«Non
si rinvengono –continua la sentenza– nella normativa
vigente (ante Job act), indicazioni che confinino la liceità
del lavoro accessorio nell’ambito dell’utilizzazione diretta
dei lavoratori da parte dell’utilizzatore con esclusione dei
rapporti di appalto o somministrazione».
I settori in deroga
La norma appare, tuttavia, porre alcuni problemi di
applicazione dove è lasciata alla discrezionalità
amministrativa, seppur nel confronto con le parti sociali,
la possibilità di individuare specifici settori in deroga
per l’utilizzo dei buoni lavoro. Infatti, l’individuazione
di «specifiche ipotesi» di derivazione amministrativa
consentirà al giudice di valutare la legittimità dei
voucher, rischiando di vanificare i principi ispiratori
della riforma.
C’è già un precedente: il decreto
ministeriale 24.02.2010 per il lavoro degli steward
negli stadi di calcio, grazie al quale le società
organizzatrici, gli istituti di vigilanza, le agenzie di
somministrazione e le altre società appaltatrici dei servizi
possono ricorrere a tutte le forme di lavoro subordinato,
compreso il lavoro intermittente e a prestazioni di lavoro
occasionale accessorio (articolo Il Sole 24 Ore del
07.09.2015). |
VARI:
La Provincia di Como (giornale) risarcita per lite
temeraria.
Lite temeraria. Per questo motivo un professionista di Como
è stato condannato a un risarcimento al quotidiano della
città contro cui aveva intentato una causa civile per
diffamazione. Il tribunale ha infatti stabilito che il
professionista aveva agito in giudizio con «evidente colpa
grave».
Alla base della denuncia del professionista, un articolo
della Provincia di Como nel quale si dava notizia della sua
condanna penale e civile nell'ambito di un procedimento che
lo vedeva accusato di truffa.
Il Tribunale ha escluso la diffamazione e nella sentenza i
giudici hanno sottolineato come la libertà «di diffondere
notizie e commenti» è riconosciuta «anche a livello
sovrannazionale dalla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo che, all'art. 10, la consacra come uno tra i più
importanti diritti dell'individuo» e che «secondo la Corte
europea dei diritti dell'uomo detta libertà di diffusione
del pensiero non riguarda solo le informazioni o opinioni
neutre o inoffensive, ma anche tutte quelle che possano
colpire negativamente “essendo ciò richiesto dal pluralismo,
dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali
non si ha una società democratica”».
Secondo il giudice del tribunale di Milano, inoltre, «La
Provincia aveva assunto informazioni frutto di un serio e
diligente lavoro di ricerca» mentre le omissioni
dell'articolo contestate dal professionista erano «di scarso
rilievo e prive di valore informativo».
Da una parte è stata rigettata l'accusa di diffamazione,
dall'altra è stata accolta la domanda di «lite temeraria»,
motivata con «la totale soccombenza dell'attore,
l'inesistenza del diritto vantato, l'allungamento del tempo
generale nella trattazione dei processi (causato dalla
proposizione di una causa solo strumentale), il danno
provocato» al quotidiano.
Il professionista è stato condannato a risarcire 2.500 euro
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2015). |
APPALTI: Centrali
acquisto, caos da scadenze.
In attesa della stretta governativa.
Ennesimo caos sulle centrali uniche di acquisto. In attesa
della nuova stretta (annunciata dal governo come piatto
forte del prossimo ciclo di spending review), occorre fare i
conti con le scadenze previste dalla legislazione vigente,
che dal prossimo 1° novembre inibisce ai comuni non
capoluogo di provincia la contrattazione autonoma in tema di
lavori, servizi e forniture e impone loro di eseguire le
relative procedure di gara in forma aggregata (tramite
unioni e convenzioni, ovvero mediante ricorso ai soggetti
aggregatori o alle province), salvi i casi di acquisti con
procedure telematiche (comprensivi anche degli acquisti
Consip), ancora effettuabili in forma autonoma.
Unica deroga riguarda gli acquisiti per importi fino a 40
mila euro, che potranno continuare a essere effettuati in
proprio, ma solo dai municipi con più di 10 mila abitanti.
Tuttavia, l'Anci ha ribadito in diverse occasioni
l'intenzione di riproporre, nel primo decreto utile,
l'emendamento già presentato durante la conversione del dl
78/2015 e in quella sede non recepito, per estendere la
predetta deroga a tutti i comuni, anche al di sotto di tale
soglia demografica.
Dal canto, suo, invece, la camera ha approvato lo scorso 4
agosto un ordine del giorno che impegna il governo a
valutare la possibilità, nei prossimi provvedimenti
legislativi, di prevedere l'obbligatorietà del ricorso alle
centrali uniche di committenza da parte dei comuni con
popolazione inferiore a 5 mila abitanti solo per l'acquisto
di beni, servizi e lavori di importo superiore a euro 20
mila.
Ove tale atto di indirizzo venisse accolto, tuttavia, si
verrebbe a creare una situazione paradossale, con una sorta
di vincolo a geometria variabile. Infatti, in sostanza,
l'obbligo scatterebbe per i comuni sotto i 5 mila abitanti
per gli acquisti sopra i 20 mila euro, per quelli tra 5 mila
e 10 mila abitanti per qualunque acquisto indipendentemente
dall'importo e per i comuni sopra i 10 mila abitanti per gli
acquisti sopra i 40 mila euro.
L'intera materia, è evidente, richiede un restyling
complessivo, anche tenendo conto dei ritardi fatti
registrare dal parallelo percorso di costruzione delle forme
associative preposte all'esercizio delle funzioni
fondamentali dei piccoli comuni (si veda ItaliaOggi di
ieri).
Proprio in questa prospettiva, un'ulteriore proroga dei
termini pare inevitabile per scongiurare un nuovo blocco
delle gare, come già verificatosi in occasione delle
precedenti scadenze
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Le Cdc?
Saranno 60 in tutto. Ci sarà almeno un ente a regione.
Taglio alle partecipazioni.
ItaliaOggi anticipa contenuti del dlgs attuativo
della riforma Madia. La vigilanza al Mise.
Conferma sulla stretta delle sedi camerali. Dalle attuali
105 sedi si passerà a 60 mediante l'accorpamento di due o
più camere di commercio.
Queste non avranno più una sede per ogni provincia italiana,
ma opereranno «nelle circoscrizioni territoriali esistenti»
con la presenza di almeno una sede «in ciascuna regione».
Vigilanza del ministero dello sviluppo
economico sul registro delle imprese.
Riduzione drastica sulle partecipazioni delle Cciaa a enti,
consorzi e società consortili. Questo il perimetro in cui si
muove una bozza di decreto legislativo a cui sta lavorando
il ministero dello sviluppo economico di cui ItaliaOggi ha
preso visione, atteso per il mese prossimo in consiglio dei
ministri che attua le norme sulla riforma del sistema
camerale previste dal decreto-legge 24.06.2014, n. 90
coordinato con la legge di conversione 11.08.2014, n.
114 recante: «Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari». (c.d. ddl Madia).
Diritto annuale.
L'articolo 28 della legge n. 114/2014 di conversione del
decreto legge «pubblica amministrazione» n. 90/2014 prevede
che il diritto annuale da corrispondere alle camere di
commercio a carico delle imprese sia ridotto del 35% nel
2015, del 40% nel 2016 e del 50% nel 2017. Il diritto
annuale, pari a 865 milioni di euro, costituiva nel 2012 il
68% dei proventi del sistema camerale, cui si sommano
introiti per altri 430 milioni derivanti da altri diritti e
trasferimenti.
L'art. 28 prevede inoltre che le tariffe e i
proventi diversi dal diritto annuale (derivanti dalla
gestione di attività e dalla prestazione di servizi, dai
proventi di natura patrimoniale, dai diritti di segreteria
sull'attività certificativa e sull'iscrizione a elenchi,
registri e albi nonché dai contributi volontari o lasciti)
siano fissati sulla base di costi standard definiti dal
Ministero dello sviluppo economico, sentiti la società per
gli studi di settore e Unioncamere, secondo criteri di
efficienza da conseguire anche attraverso l'accorpamento
degli enti e degli organismi del sistema camerale e lo
svolgimento in forma associata delle funzioni.
Dall'attuazione di tali provvedimenti non devono derivare
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
L'articolo 4
del dlgs di attuazione dell'articolo 28 della legge n.
114/2014 di conversione del decreto legge «pubblica
amministrazione» n. 90/2014 stabilisce che «le
variazioni del diritto annuale conseguenti alla
rideterminazione annuale del fabbisogno» non potranno «in
nessun caso» determinare «almeno fino al 2020, alcun
significativo aumento rispetto agli effetti della riduzione
percentuale dei diritti stabili per l'anno 2016».
Le camere di commercio potranno ottenere nuove risorse
finanziare grazie «al potenziamento dei controlli» e
si concretizzerà nella possibilità di intascare una quota
delle sanzioni pecuniarie «per le materie in cui le
camere di commercio sono individuate quale autorità
competente ad adottare la relativa ordinanza».
Parliamo ad esempio del mancato deposito dei bilanci, dei
verbali assembleari di modifiche di atti costitutivi e del
mancato deposito dell'atto costitutivo societario
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mini-enti, associazionismo flop. Resistenze politiche e
disorganizzazione frenano le gestioni.
Dalle ricognizioni dei prefetti emerge il
fallimento dell'obbligo di mettere insieme le funzioni.
Le gestioni associate comunali sono un flop.
Dopo la Corte dei conti (si veda ItaliaOggi del 21/08/2015),
anche il ministero dell'interno tira le somme della riforma
avviata nel 2010 per aggregare i piccoli comuni attraverso
l'obbligo di conferire le loro funzioni fondamentali a
unioni o convenzioni. E conferma che il bilancio è
pesantemente negativo, a causa di un lungo elenco di
problematiche, puntualmente elencate in un documento
presentato alla Conferenza stato-città e autonomie locali
prima della pausa estiva.
L'analisi è demoralizzante proprio
perché molto accurata, essendo stata realizzata grazie al
lavoro di ricognizione sul territorio svolto dalle
prefetture, che hanno raccolto le segnalazioni di chi si è
cimentato sul campo nella costruzione dei nuovi modelli. Le
difficoltà riguardano quattro principali aspetti:
geografico, organizzativo, politico e normativo. Sotto il
primo profilo, pesa la complessa morfologia dei territori,
con numerosi casi di comuni isolati e talora addirittura
interclusi, ossia confinanti solo con centri maggiori, non
soggetti agli obblighi e poco inclini a collaborare su base
volontaria.
Sul piano organizzativo emergono criticità nella
suddivisione delle risorse, degli oneri e del personale dei
singoli comuni. Specie quest'ultimo aspetto è molto grave,
visti i diffusi problemi concernenti la scarsità delle unità
disponibili, l'età avanzata delle stesse, la mancanza di
effettiva propensione all'innovazione (soprattutto a causa
dei dubbi sulla possibilità di conservare le indennità
acquisite nel comune di appartenenza) e di adeguata
preparazione tecnico-amministrativa.
Dal punto di vista politico, si è registrata la tendenza ad
associarsi per affinità politica e non territoriale, nonché
il perdurante timore di taluni enti di subire un sostanziale
svuotamento della funzione identitaria delle proprie realtà
territoriali. È, inoltre, emersa, in taluni territori, la
scarsa propensione di comuni obbligati finanziariamente
virtuosi ad associarsi con enti in dissesto.
Infine, la stessa normativa che disciplina la materia
risulta assai poco chiara, per quanto concerne, in
particolare, l'esatta perimetrazione delle funzioni da
associare. Alcune di esse, infatti, risultano anche incluse
negli ambiti territoriali ottimali la cui istituzione è
demandata alle regioni, ovvero conferite alle neo costituite
città metropolitane.
Se questa è la diagnosi, la cura non
può che prevedere un radicale ripensamento di tutta la
legislazione statale che si è stratificata in questi anni,
ivi compresa le recente legge Delrio, il cui intervento non
è certo stato risolutivo. Come già evidenziato, tuttavia,
fra gli addetti ai lavori (in primis, fra i sindaci) ci sono
ricette diverse per uscire dall'impasse: alcuni predicano
maggiore flessibilità e spingono per il potenziamento degli
incentivi, altri sono favorevoli ad un rafforzamento dei
vincoli (e delle relative sanzioni) con l'obiettivo di medio
termine delle fusioni.
Tale varietà di schemi tattici si riflette anche nella
normativa regionale, che il documento del Viminale riassume
senza tuttavia riuscire a individuare neppure una linea di
indirizzo condivisa. In pratica, ognuno va per la sua strada
e i risultati si vedono.
Come evidenziato dalla magistratura
contabile (si veda la tabella in pagina), le forme
associative effettivamente operative sono poche e gestiscono
risorse assai limitate, perlopiù trasferite dai comuni
associati, spesso con ritardi pesanti che costringono gli
enti sovracomunali a un ampio ricorso alle anticipazioni di
tesoreria (con annesso pagamento di interessi). In più, esse
vengono frequentemente sciolte o cambiano composizione.
Difficile, in questo modo, farle funzionare davvero e
renderle un volano per conseguire economie di scala e
incrementare gli investimenti (e infatti gestiscono quasi
solo spesa corrente).
La prossima scadenza al momento è fissata al 31/12/2015, ma
un'altra proroga è quasi inevitabile: sarebbe la quinta,
quasi un record
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
APPALTI: La
riforma appalti torna in pista. Entro settembre al Cipe la
nuova lista delle opere prioritarie.
Il provvedimento dovrà essere approvato entro
ottobre, poi toccherà al regolamento attuativo.
Legge delega sugli appalti pubblici da varare entro ottobre;
istituzione di una commissione di inchiesta sugli appalti
pubblici; messa a punto dell'allegato infrastrutture;
programmazione delle risorse Cipe, nuovo allegato
infrastrutture al Def.
Sono questi i principali dossier
relativi agli appalti pubblici che dalla prossima settimana
verranno affrontati in sede governativa e parlamentare.
Senza dubbio uno dei più delicati dal punto di vista
politico è quello della riforma degli appalti pubblici che
dovrebbe portare al recepimento delle direttive europee e
alla contestuale sostituzione del codice dei contratti
pubblici e del regolamento attuativo.
L'esame del testo del disegno di legge delega, già approvato
a giugno dal senato, verrà ripreso dalla commissione
ambiente della camera (relatori Angelo Cera e Raffaella
Mariani) a partire dal 7 settembre. Si tratterà di esaminare
i 480 emendamenti depositati alla vigilia della chiusura dei
lavori prima della pausa estiva. Non sono pochi i punti da
affrontare, anche di un certo rilievo, come la disciplina
dell'appalto integrato, la riforma degli incentivi alla
progettazione di cui ha più volte fatto cenno la relatrice
Mariani e, ancora, la «rivoluzione» voluta dal senato
sull'obbligo di affidare in gara il 100% dei contratti oggi
gestiti «in house» dei concessionari autostradali, tema sul
quale si gioca una importante partita sotto più profili
(concorrenza, investimenti e occupazione).
Il grosso del lavoro è stato svolto al senato (relatore
Stefano Esposito) e non si dovrebbe andare verso uno
stravolgimento del testo ma soltanto verso aggiustamenti su
alcuni punti, fra cui, probabilmente quelli citati.
L'obiettivo è comunque quello di arrivare alla conclusione
rapida dell'esame in commissione per portare il testo entro
i primi di ottobre al varo da parte dell'aula (e poi un
rapido ritorno al senato).
Successivamente si aprirà la partita dell'attuazione della
delega (che riguarderà non solo il nuovo codice ma anche il
nuovo regolamento attuativo che sostituirà il dpr 207/2010)
con la messa a punto dei decreti delegati da parte della
commissione ministeriale di cui al decreto firmato da
ministro Del Rio a luglio, che sarà seguita da una
consultazione pubblica e dai numerosi pareri (Parlamento,
Consiglio di stato, Conferenza unificata).
Diversi altri provvedimenti sono poi all'esame del
parlamento, dal disegno di legge del senato con il quale si
istituirà una commissione di inchiesta sugli appalti
pubblici a quello sui contratti cosiddetti segretati (in
deroga alle ordinarie regole del codice dei contratti
pubblici per ragioni di sicurezza), oltre a quelli sul débat
public e sulla qualità architettonica che però sembrano
sovrapporsi in qualche misura con la delega appalti
pubblici.
Sul fronte governativo l'impegno più rilevante pare essere
quello della programmazione delle risorse derivanti dai
fondi di coesione 2014-2020 che appare però in ritardo visto
che entro il 31 marzo il presidente del consiglio avrebbe
dovuto individuare dove allocare le risorse e, entro il
successivo mese di aprile il Cipe avrebbe dovuto
materialmente ripartire le risorse (si tratterebbe di più di
40 miliardi).
Il Cipe dovrà anche procedere all'assegnazione delle risorse
previste dal decreto «Sblocca Italia» (1,5 miliardi) da
destinare a opere cantierabili (non più entro fine agosto ma
entro fine ottobre).
Infine, il ministero delle infrastrutture dovrà presentare
al Cipe entro fine settembre il nuovo allegato
infrastrutture al Def per il quale si parla già di un taglio
di opere della «Legge Obiettivo» che non verranno più
considerate prioritarie
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
TRIBUTI:
Contribuenti in difficoltà nel pagare i debiti agli enti.
In un periodo di estrema difficoltà economica per i
cittadini, il recupero dei tributi non versati è diventato
sempre più difficoltoso per i comuni. Da una parte la scarsa
liquidità dei debitori, dall'altra norme sempre più caotiche
e mutevoli, comprese quelle relative alla riscossione, la
cui riforma annunciata da tempo non è stata ancora attuata.
In questo contesto è stato accolto con favore da molti
sindaci il «baratto amministrativo», istituito con dl
133/2014, convertito in legge 164/2014, in virtù del quale
viene offerta ai comuni la facoltà di definire i criteri per
la realizzazione di progetti presentati da cittadini e
finalizzati a pulizia strade, manutenzione, abbellimento
aree verdi, decoro urbano, recupero immobili inutilizzati,
ecc., a fronte dei quali riconoscere riduzioni/esenzioni di
tributi.
Nella delibera vanno indicati i tipi di interventi
e la riduzione/esenzione che viene applicata (entità,
tributo, periodo, eventuale limite di Isee). La norma
risulta lodevole dal punto di vista dell'opportunità che
offre al debitore in difficoltà, ma nulla dispone circa il
rapporto «lavorativo» che si instaura tra ente e
soggetto che presta l'intervento, con particolare
riferimento agli aspetti assicurativi e contributivi.
Oltre al sanare la propria posizione debitoria fornendo una
prestazione «in natura», ricordiamo che esistono già
da tempo altri strumenti per agevolare il saldo dei debiti
dei contribuenti nei confronti del comune. Alcuni tendono ad
ottenere sconti sulle sanzioni (ravvedimento operoso,
adesione all'accertamento), altri ad una riduzione della
base imponibile (accertamento con adesione).
Sempre più cittadini ricorrono alla rateizzazione e su
questo tema i comuni devono stabilire regole precise nei
propri regolamenti, fissando il numero massimo di rate
(attenzione ai termini di decadenza per la riscossione
coattiva, in caso di inadempienza), i requisiti, eventuali
garanzie (tenendo presente le attuali difficoltà che
incontrano i debitori nel farsele rilasciare da banche e
assicurazioni).
Prende sempre più piede, inoltre, la compensazione, e anche
in questo caso occorre definire con regolamento casi e
procedure per prevedere compensazioni tra annualità diverse
dello stesso tributo o compensazioni tra tributi comunali
diversi. Molti enti ricorrono altresì alla compensazione tra
debiti tributari e crediti di altra natura vantati dai
medesimi soggetti: in tal caso il comune versa la somma che
spetta al cittadino trattenendo l'importo del tributo non
versato.
Fondamentale è che il debito sia certo, liquido ed esigibile
e che si regolarizzi contabilmente la compensazione,
rendendo palese la correlazione tra mandato di pagamento e
reversale di incasso. Per tutte le procedure esposte è
infine indispensabile che l'ufficio competente organizzi al
meglio la gestione operativa, supportato da strumenti
informatici «elastici», modulistica e creando
sinergia con l'ufficio contabile
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
In caso in cui il bando di gara non contenga una
comminatoria espressa, l’omessa indicazione nell’offerta
dello scorporo matematico degli oneri per la sicurezza per
rischio specifico non comporta di per sé l’esclusione dalla
gara ma rileva solo ai fini dell’anomalia del prezzo
Quanto all’obbligo di indicazione nella offerta economica
degli oneri di sicurezza le argomentazioni reiettive del Tar
devono essere confermate atteso che nessuna comminatoria di
esclusione era stata prevista dal bando di gara in caso di
mancata indicazione degli oneri di sicurezza, né la mancata
indicazione è prevista tra le cause di esclusione indicate
dall’art. 46, co. 1-bis, del codice degli appalti.
Si richiamano i precedenti specifici di questo Consiglio in
materia in cui si è evidenziato che in caso in cui il bando
non contenga una comminatoria espressa, l’omessa indicazione
nell’offerta dello scorporo matematico degli oneri per la
sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé
l’esclusione dalla gara ma rileva solo ai fini dell’anomalia
del prezzo (Cons. Stato III, 1030/2014; VI n. 3964/ 2014; V
n. 4907/2014)
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 07.09.2015 n. 4132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di
ammissione alla gara per l'affidamento di un contratto di
appalto di lavori pubblici o di servizi, in ordine alla
dichiarazione di sopralluogo, occorre distinguere tra dichiarazione a cura
del partecipante e verbale di sopralluogo a cura
della stazione appaltante; pertanto, si considera
sufficiente, ai fini dell'ammissione alla gara, la
dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità
con cui esso sia stato eseguito, a meno che non sia
espressamente richiesto anche uno specifico verbale di
sopralluogo sulle relative modalità.
3. - Del pari
non meritevole di accoglimento è il terzo motivo di appello,
riproduttivo del motivo del ricorso incidentale in primo
grado, con cui veniva censurata la mancata effettuazione del
sopralluogo da parte del dottor Va. che si sarebbe
avvalso per l’adempimento di altro soggetto.
Dall’esame della documentazione versata in atti si evinceva
che effettivamente il sopralluogo, richiesto al punto 5.7
del bando di gara, era stato effettuato da un soggetto
diverso dall’istante, ma che tale soggetto era stato
espressamente delegato dal ricorrente a prendere visione
degli elaborati progettuali e del contesto urbano dove
avrebbe trovato spazio la nuova farmacia, e che il
ricorrente aveva fatto propria l’attività del delegato
mediante la produzione agli atti di gara di una
dichiarazione sostitutiva di notorietà e certificazione,
dichiarando espressamente di aver preso visione degli
elaborati progettuali e di conoscere il luogo presso cui
sarebbe stata insediata la nuova sede farmaceutica,
ottemperando, dunque, alle prescrizioni del suddetto punto
5.7..
Rilevava esattamente il Tar che in tema di ammissione alla
gara per l'affidamento di un contratto di appalto di lavori
pubblici o di servizi, in ordine alla dichiarazione di
sopralluogo, occorre distinguere tra dichiarazione a cura
del partecipante e verbale di sopralluogo a cura della
stazione appaltante; pertanto, si considera sufficiente, ai
fini dell'ammissione alla gara, la dichiarazione di
sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia
stato eseguito, a meno che non sia espressamente richiesto
anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relative
modalità (Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3729)
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 07.09.2015 n. 4132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La "sanatoria giurisprudenziale" non esiste più.
Predicare l’operatività della regola pretoria
della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per
premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto,
premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura
neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in
quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore.
In proposito, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di
un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno
contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n.
592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n.
3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n.
5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara,
11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008,
n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover
escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo
dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da
trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V,
25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n.
6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870;
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI,
04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n.
17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n.
24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n.
36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d.
doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
loro esecuzione sia al momento della presentazione della
domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti
interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze
n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e
n. 1690 del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei
termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale
proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e
inequivoco nel riferire il requisito della conformità
urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia”
al momento della sua realizzazione “sia” al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al
Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da
Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità
sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla
possibile variazione in peius della disciplina
urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti
che riducano o escludano, appunto, lo ius aedificandi
sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe
ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius
superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo
della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente
abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione
dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi,
contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse
unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle
conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta
modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia
dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento
di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento
testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco
temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio
commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato
per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti
peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere
su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti
restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel
provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l.
28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato,
discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad.
gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di
codificare la regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale
previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è
pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente
che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia,
soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente
contrario contenute nel parere espresso dalla Camera”
(relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota,
vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della
regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato
introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del
regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel
senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire
la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire
di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro
requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il
necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Il rilascio di quest’ultimo in esito
ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo
al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del
tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario
permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab
origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità,
bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei
limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia
applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’
significherebbe anche introdurre surrettiziamente
nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato
dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius
superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa
condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle
ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato,
derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati
sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure
ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile
di applicazione analogica né di una interpretazione
riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore
letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo
strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta
l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e
derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa
prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia
dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data
della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in
favore della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla
pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di
controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon
andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost..
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei
manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base
della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione (il successivo procedimento
amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera
abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia
ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la
nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata
nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi,
nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i
principi di legalità e di buon andamento della pubblica
amministrazione, con assegnazione della prevalenza a
quest'ultimo, in nome di una presunta logica
‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.).
In altri termini, lungi
dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può
esservi rispetto del buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo,
rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio
fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua,
individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla
demolizione le opere che risultino rispettose della
disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non
solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria,
ma anche di quella vigente all'epoca della loro
realizzazione (e ciò in applicazione del principio di
legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi
dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme
disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività
edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006,
n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n.
5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato,
nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e
sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire
violazioni sostanziali della normativa del settore, quali
rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere
per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver
riguardo al momento della realizzazione dell'opera per
valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di
buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che
l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso
del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla
stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a
modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per
incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni
interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di
manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di
conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina
del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa
dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede
(anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di
‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del
territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’
agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria
della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per
premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto,
premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura
neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza,
in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione
di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La norma del PRG che dispone “Le zone residenziali contermini al centro
storico, caratterizzate da un’edificazione intensiva
soprattutto in termini di occupazione dei lotti, hanno
esaurito qualsiasi potenzialità edificatoria e sono da
considerarsi sature. In esse è possibile procedere alla
ristrutturazione dell’edilizia esistente. Il p.r.g. si attua
mediante piani particolareggiati … Fino all’approvazione del
piano particolareggiato sono consentiti interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, sempreché non vi
siano aumenti di superficie, di volumi, di altezze dei
fabbricati”
non è sottesa alla definitiva ablazione del diritto di
proprietà ovvero al totale svuotamento del ius aedificandi,
ma pone un limite parziale all’esercizio di quest’ultimo
–dacché circoscritto ai soli interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria–, fino all’emanazione
dell’obbligatorio strumento urbanistico attuativo.
Trattasi, dunque, non già di vincolo espropriativo, bensì di
vincolo meramente ‘procedimentale’, non assoggettato, come
tale, a decadenza ex artt. 2, comma 1, della l. n. 1187/1968
e 38, comma 1, della l.r. Campania n. 16/2004.
---------------
A conclusioni più favorevoli per il ricorrente nemmeno
sarebbe possibile addivenire, ove, per assurdo, si
accreditasse la propugnata decadenza del vincolo di
(parziale) inedificabilità gravante sul lotto de quo.
Ed invero, in tale ipotesi, l’area di intervento
soggiacerebbe pur sempre ai parametri dettati dall’art. 9,
comma 1, lett. a, del d.p.r. n. 380/2001 (dovendosene
inferire –alla luce della documentazione in atti–
l’ubicazione entro il perimetro del centro abitato) ed
applicabile alle c.d. zone divenute ‘bianche’, ossia rimaste
sprovviste di apposita disciplina urbanistica generale.
Cosicché su di essa sarebbero assentibili unicamente gli
interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a, b e c, del
d.p.r. n. 380/2001, e cioè unicamente gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria di singole unità
immobiliari o parti di esse, nonché di restauro e di
risanamento conservativo, dai quali esula, di certo, la
ristrutturazione edilizia mediante demolizione,
ricostruzione e ampliamento posta in essere dal ricorrente.
In realtà, in mancanza della prescritta pianificazione di
dettaglio, deve considerarsi operante la disciplina all’uopo
dettata dall’art. 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001: “Nelle
aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti
urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici
generali come presupposto per l'edificazione –recita la
disposizione richiamata–, oltre agli interventi indicati al
comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui
alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente
testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti
di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se
riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino
al 25% delle destinazioni preesistenti, purché il titolare
del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del
comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare,
limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione
concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di
urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del
presente titolo”.
La norma in parola ammette, dunque, per le zone sprovviste
dei prescritti strumenti urbanistici attuativi, oltre alle
opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché di
restauro e di risanamento conservativo, anche le opere di
ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d, del
d.p.r. n. 380/2001 (nella versione applicabile, ratione
temporis, al caso dedotto in giudizio), ivi comprese quelle
eseguite mediante demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma originaria; e considera, altresì,
assentibili le ristrutturazioni edilizie riguardanti interi
edifici e comportanti modifiche (fino al 25%) delle
destinazioni preesistenti, condizionandole all’impegno del
titolare a praticare, limitatamente alla percentuale
mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di
locazione concordati con il comune ed a concorrere negli
oneri di urbanizzazione.
3. Non è, poi,
ravvisabile la dedotta decadenza del vincolo di inedificabilità imposto dall’art. 20 delle n.t.a. del p.r.g.
del Comune di San Cipriano d’Aversa sulla zona “satura” BR.
La richiamata disposizione urbanistica stabilisce, in
particolare, che: “Le zone residenziali contermini al centro
storico, caratterizzate da un’edificazione intensiva
soprattutto in termini di occupazione dei lotti, hanno
esaurito qualsiasi potenzialità edificatoria e sono da
considerarsi sature. In esse è possibile procedere alla
ristrutturazione dell’edilizia esistente. Il p.r.g. si attua
mediante piani particolareggiati … Fino all’approvazione del
piano particolareggiato sono consentiti interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, sempreché non vi
siano aumenti di superficie, di volumi, di altezze dei
fabbricati”.
All’evidenza, essa non è sottesa alla definitiva ablazione
del diritto di proprietà ovvero al totale svuotamento del
ius aedificandi, ma pone un limite parziale all’esercizio di
quest’ultimo –dacché circoscritto ai soli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria–, fino
all’emanazione dell’obbligatorio strumento urbanistico
attuativo (la cui eventuale omissione da parte
dell’amministrazione comunale sarebbe, comunque,
rimediabile, in via giurisdizionale, ai sensi degli artt. 31
e 117 cod. proc. amm. ovvero, in via sostitutiva, ai sensi
dell’art. 39 della l.r. Campania n. 16/2004).
Trattasi, dunque, non già di vincolo espropriativo, bensì di
vincolo meramente ‘procedimentale’, non assoggettato, come
tale, a decadenza ex artt. 2, comma 1, della l. n. 1187/1968
e 38, comma 1, della l.r. Campania n. 16/2004 (cfr. TAR
Calabria, Catanzaro, sez. II, 09.02.2010, n. 122; TAR
Molise, Campobasso, 24.09.2010, n. 1096; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 11.12.2013, n. 1492; TAR Sicilia,
Catania, sez. I, 13.05.2015, n. 1256).
4. A conclusioni più favorevoli per il ricorrente nemmeno
sarebbe possibile addivenire, ove, per assurdo, si
accreditasse la propugnata decadenza del vincolo di
(parziale) inedificabilità gravante sul lotto in proprietà
del D’Al..
Ed invero, in tale ipotesi, l’area di intervento
soggiacerebbe pur sempre ai parametri dettati dall’art. 9,
comma 1, lett. a, del d.p.r. n. 380/2001 (dovendosene
inferire –alla luce della documentazione in atti–
l’ubicazione entro il perimetro del centro abitato) ed
applicabile alle c.d. zone divenute ‘bianche’, ossia rimaste
sprovviste di apposita disciplina urbanistica generale (per
intervenuta decadenza dei vincoli espropriativi da questa
imposti su di esse: cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.03.2001,
n. 1596; sez. IV, 17.07.2002, n. 3999; sez. V, 03.03.2003, n. 1172; 18.03.2003, n. 1443;
09.05.2003, n.
2449; sez. IV, 28.05.2005, n. 3437; TAR Veneto, Venezia,
sez. II, 08.10.2003, n. 5156; TAR Sicilia, Catania, sez.
I, 11.02.2004, n. 201; TAR Campania, Napoli, sez. II,
21.05.2009, n. 2810).
Cosicché su di essa sarebbero
assentibili unicamente gli interventi di cui all’art. 3,
comma 1, lett. a, b e c, del d.p.r. n. 380/2001, e cioè
unicamente gli interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria di singole unità immobiliari o parti di esse,
nonché di restauro e di risanamento conservativo, dai quali
esula, di certo, la ristrutturazione edilizia mediante
demolizione, ricostruzione e ampliamento posta in essere dal
ricorrente (cfr. relazione tecnica illustrativa allegata
alla domanda di sanatoria, prot. n. 7495, del 13.07.2010).
5. In realtà, in mancanza della prescritta pianificazione di
dettaglio, deve considerarsi operante la disciplina all’uopo
dettata dall’art. 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001:
“Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli
strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti
urbanistici generali come presupposto per l'edificazione –recita la disposizione richiamata–,
oltre agli interventi
indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli
interventi di cui alla lettera d) del primo comma
dell'articolo 3 del presente testo unico che riguardino
singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi
interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente
uno o più edifici e modifichino fino al 25% delle
destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso
si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura
e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla
percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita
e canoni di locazione concordati con il comune ed a
concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo”.
La norma in parola ammette, dunque, per le zone sprovviste
dei prescritti strumenti urbanistici attuativi, oltre alle
opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché di
restauro e di risanamento conservativo, anche le opere di
ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d, del
d.p.r. n. 380/2001 (nella versione applicabile, ratione
temporis, al caso dedotto in giudizio), ivi comprese
quelle eseguite mediante demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma originaria; e considera, altresì,
assentibili le ristrutturazioni edilizie riguardanti interi
edifici e comportanti modifiche (fino al 25%) delle
destinazioni preesistenti, condizionandole all’impegno del
titolare a praticare, limitatamente alla percentuale
mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di
locazione concordati con il comune ed a concorrere negli
oneri di urbanizzazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte pianificatorie effettuate
dall’amministrazione costituiscono apprezzamento di merito,
connotato da ampia discrezionalità e, quindi, sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da
macroscopici vizi di arbitrarietà, illogicità o travisamento
fattuale, risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dello strumento urbanistico ovvero siano apertamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio.
---------------
L’imposizione, ad opera dello strumento urbanistico
sovraordinato, dell’emanazione di una disciplina di
dettaglio, propedeutica al rilascio di titoli abilitativi
edilizi ed alle conseguenti attività di trasformazione del
territorio, riflette una direttiva generale
dell’ordinamento, emergente dagli artt. 13 ss. della l. n.
1150/1942 e 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001.
La ratio di tale regola generale risiede in ciò: soltanto
attraverso l’intermediazione della pianificazione esecutiva
è assicurata quell’adeguatezza e quella proporzionalità
delle infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature,
reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, ecc.) rispetto all’aggregato urbano
formatosi, la quale è idonea a soddisfare le esigenze della
collettività, in misura pari agli standards urbanistici
minimi prescritti, ed esime, quindi, da ulteriori interventi
per far fronte all’aggravio derivante da nuove costruzioni.
Gli strumenti attuativi hanno, cioè, lo scopo di garantire
che all'edificazione del territorio a fini residenziali
corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta,
garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli
permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti.
La pianificazione esecutiva, richiesta dallo strumento
urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non
ammette, pertanto, equipollenti, nel senso che, in sede
amministrativa o giurisdizionale, non possono essere
effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente
possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del
legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto
del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato
con i mezzi apprestati dal sistema.
E ciò anche nelle ipotesi di zone edificate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto;
zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di
raccordare armonicamente le nuove costruzioni col
preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di
urbanizzazione esistenti e nelle quali la preventiva
redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo
abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come
imprescindibile.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate.
Il principio giurisprudenziale secondo il quale nelle zone
già urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello
strumento attuativo può, dunque, trovare applicazione solo
nel caso, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata
una situazione di fatto che consenta con sicurezza di
prescindere dalla pianificazione di dettaglio, in quanto
oggettivamente non più necessaria, essendo stato pienamente
raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di
infrastrutture, primarie e secondarie, previste dal piano
regolatore) cui è finalizzata.
Per l’applicazione del principio, insomma, è necessario che
lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere
assolutamente superflui gli strumenti attuativi.
Tale situazione, del tutto peculiare, deve riguardare
l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale
per gli strumenti attuativi e deve concernere le
urbanizzazioni primarie e secondarie in relazione
all’assetto definitivo dell’intero ambito territoriale di
riferimento.
Ogni altra soluzione avrebbe evidentemente il torto di
trasformare il piano esecutivo in un atto sostanzialmente
facoltativo, non più necessario ogni qual volta, a causa di
precedenti abusi edilizi sanati, di preesistenti
edificazioni ovvero del rilascio di singoli permessi di
costruire illegittimi, il comprensorio abbia già subito una
qualche urbanizzazione, anche se non appieno soddisfacente i
parametri del piano regolatore.
6. Fermo
restando che, le scelte pianificatorie effettuate
dall’amministrazione costituiscono apprezzamento di merito,
connotato da ampia discrezionalità e, quindi, sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da
macroscopici vizi di arbitrarietà, illogicità o travisamento
fattuale, risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dello strumento urbanistico ovvero siano apertamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 08.05.2000, n. 2639;
01.03.2001, n. 1145; 06.02.2002, n.
664; 04.03.2003, n. 1191; 26.05.2003, n. 2827; 25.11.2003, n. 7771; 24.02.2004, n. 738; 13.04.2004, n. 1743; 21.05.2004, n. 3316; 22.06.2004, n.
4466; sez. V, 19.04.2005, n. 1782; sez. IV, 14.10.2005, n. 5713; e n. 5716; 19.02.2007, n. 861; 21.05.2007, n. 2571; 11.10.2007, n. 5357; 27.12.2007, n. 6686; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
04.07.2002, n. 3109; TAR Abruzzo, Pescara, 19.09.2005, n.
498; 28.08.2006, n. 445; 07.03.2007, n. 215; TAR
Toscana, Firenze, sez. I, 30.01.2007, n. 146; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 10.07.2007, n. 817; 13.03.2008, n. 292; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.03.2008,
n. 279; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 06.02.2009, n. 206;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.01.2009, n. 135), osserva,
a questo punto, il Collegio che, a dispetto degli assunti di
parte ricorrente, il censurato art. 20 delle n.t.a. del
p.r.g del Comune di San Cipriano d’Aversa si rivela
tutt’altro che illogico, nella misura in cui, in sostanziale
convergenza col richiamato art. 9, comma 2, del d.p.r. n.
380/2001, (non vieta tout court, bensì) limita, fino
all’approvazione dei prescritti strumenti urbanistici
attuativi, l’edificabilità nella zona “satura” BR ai soli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
In effetti, l’imposizione, ad opera dello strumento
urbanistico sovraordinato, dell’emanazione di una disciplina
di dettaglio, propedeutica al rilascio di titoli abilitativi
edilizi ed alle conseguenti attività di trasformazione del
territorio, riflette una direttiva generale
dell’ordinamento, emergente dagli artt. 13 ss. della l. n.
1150/1942 e 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625) e recepita dagli
artt. 22, comma 2, lett. b, 27 e 28 della l.r. Campania n.
16/2004.
La ratio di tale regola generale risiede in ciò: soltanto
attraverso l’intermediazione della pianificazione esecutiva
è assicurata quell’adeguatezza e quella proporzionalità
delle infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature,
reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, ecc.) rispetto all’aggregato urbano
formatosi, la quale è idonea a soddisfare le esigenze della
collettività, in misura pari agli standards urbanistici
minimi prescritti, ed esime, quindi, da ulteriori interventi
per far fronte all’aggravio derivante da nuove costruzioni.
Gli strumenti attuativi hanno, cioè, lo scopo di garantire
che all'edificazione del territorio a fini residenziali
corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta,
garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli
permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.03.2004, n. 1013).
La pianificazione esecutiva, richiesta dallo strumento
urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non
ammette, pertanto, equipollenti, nel senso che, in sede
amministrativa o giurisdizionale, non possono essere
effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente
possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del
legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto
del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato
con i mezzi apprestati dal sistema (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 03.03.2004, n. 1013; 10.12.2003, n. 7799; sez. IV,
19.02.2008, n. 531).
E ciò anche nelle ipotesi di zone edificate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone
nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare
armonicamente le nuove costruzioni col preesistente
aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione
esistenti e nelle quali la preventiva redazione di un piano
esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si
ponga, in definitiva, come imprescindibile (cfr. TAR Veneto,
Venezia, sez. II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006,
n. 2893; TAR Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n.
8463).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471; 10.06.2010, n. 3699; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Il principio giurisprudenziale secondo il quale nelle zone
già urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello
strumento attuativo può, dunque, trovare applicazione solo
nel caso, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata
una situazione di fatto che consenta con sicurezza di
prescindere dalla pianificazione di dettaglio, in quanto
oggettivamente non più necessaria, essendo stato pienamente
raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di
infrastrutture, primarie e secondarie, previste dal piano
regolatore) cui è finalizzata.
Per l’applicazione del principio, insomma, è necessario che
lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere
assolutamente superflui gli strumenti attuativi.
Tale situazione, del tutto peculiare, deve riguardare
l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale
per gli strumenti attuativi e deve concernere le
urbanizzazioni primarie e secondarie in relazione
all’assetto definitivo dell’intero ambito territoriale di
riferimento.
Ogni altra soluzione avrebbe evidentemente il torto di
trasformare il piano esecutivo in un atto sostanzialmente
facoltativo, non più necessario ogni qual volta, a causa di
precedenti abusi edilizi sanati, di preesistenti
edificazioni ovvero del rilascio di singoli permessi di
costruire illegittimi, il comprensorio abbia già subito una
qualche urbanizzazione, anche se non appieno soddisfacente i
parametri del piano regolatore (cfr. TAR Campania, Napoli,
sez. II, 18.05.2005 n. 6538)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La comunicazione ex art. 10-bis della l.
n. 241/1990 è assimilabile alla comunicazione di avvio del
procedimento di cui al precedente art. 7, in quanto entrambi
gli atti hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto
tra l’amministrazione e i privati anteriormente all’adozione
di un provvedimento negativo, in modo che non siano
trascurati elementi istruttori utili alla decisione finale.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente,
l’identità di funzione consente, quindi, di affermare che
anche la mancanza della comunicazione ex art. 10-bis cit.
incide sulla validità dell’atto conclusivo del procedimento
nei soli limiti previsti dal successivo art. 21-octies,
comma 2, ossia qualora abbia determinato un deficit
istruttorio; il che non si verifica, qualora il contenuto
dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, ossia quando
la denunciata violazione formale non abbia inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo provvedimento
impugnato.
8. Il
ricorrente neppure può fondatamente lamentare che i motivi
ostativi all’accoglimento della propria domanda di
sanatoria, prot. n. 7495, del 13.07.2010 non gli
sarebbero stati preannunciati ai sensi dell’art. 10-bis
della l. n. 241/1990.
A smentita di tale assunto milita, innanzitutto, la
circostanza che, alla stregua della documentazione
depositata in giudizio dall’amministrazione resistente il 23.07.2011, il preavviso di rigetto della richiesta
sanatoria risulta regolarmente rivolto al D’A. con
nota del 09.09.2010, prot. n. 9451.
Peraltro, la comunicazione ex art. 10-bis della l. n.
241/1990 è assimilabile alla comunicazione di avvio del
procedimento di cui al precedente art. 7, in quanto entrambi
gli atti hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto
tra l’amministrazione e i privati anteriormente all’adozione
di un provvedimento negativo, in modo che non siano
trascurati elementi istruttori utili alla decisione finale.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente,
l’identità di funzione consente, quindi, di affermare che
anche la mancanza della comunicazione ex art. 10-bis cit.
incide sulla validità dell’atto conclusivo del procedimento
nei soli limiti previsti dal successivo art. 21-octies,
comma 2, ossia qualora abbia determinato un deficit
istruttorio; il che non si verifica, qualora il contenuto
dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, ossia quando
la denunciata violazione formale non abbia inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo provvedimento impugnato
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; sez. III, 27.01.2009, n. 7; sez. V, 19.06.2009, n. 4031;
TAR Lombardia, Milano, sez. I, 10.05.2006, n. 1183;
Brescia, 20.08.2008, n. 862; TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 15.06.2007, n. 5503; sez. II-bis,
03.05.2007, n.
3917; TAR Molise, Campobasso, 02.04.2008, n. 113; TAR
Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 03.04.2008, n. 1245; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 25.03.2009, n. 1611).
Ebbene, nella specie, alla luce della disamina compiuta
retro, sub n. 2-7, il contenuto del gravato diniego di
sanatoria si è rivelato immune dai vizi sostanziali
lamentati dal ricorrente; per modo che non può ricollegarsi
portata infirmante alla dedotta omissione del preavviso di
rigetto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio non ignora che la
preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la
successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non
essersi l’amministrazione comunale preventivamente
pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo
accoglimento, a privare le opere del loro carattere di
abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire
l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente
sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo
restando che, anche in caso di diniego della richiesta
sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi, l’esecuzione della misura
repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa
definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere,
ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle
opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il
mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e
determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per
poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a
nuovo titolo abilitativo edilizio.
---------------
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da
adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione,
allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati, l’individuazione delle
violazioni accertate e della normativa applicata.
---------------
L’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri
accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato,
non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il
quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua
iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in
ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato.
---------------
In disparte il rilievo, di per sé dirimente, che le opere
riguardate dal provvedimento di demolizione impugnato
risultano compiutamente identificate nella loro
localizzazione territoriale e spaziale, il Collegio osserva
che la lamentata omissione dell’area di sedime gratuitamente
acquisibile al patrimonio comunale non costituisce causa di
illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo
indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale.
9. Venendo ora
a scrutinare i motivi di impugnazione avverso l’ordinanza di
demolizione n. 11 del 17.05.2011, priva di pregio si
rivela la censura secondo cui illegittimamente
l’amministrazione comunale intimata avrebbe avviato l’iter repressivo-ripristinatorio prima di aver definito il
procedimento di sanatoria instaurato con la domanda del 13.07.2010, prot. n. 7495.
Al riguardo, il Collegio non ignora che la preesistenza
della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva
irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi
l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla
domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a
privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in
caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere
repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità
e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di
previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato:
difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della
richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una
nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi
termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa
definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere,
ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle
opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il
mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e
determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per
poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a
nuovo titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 02.12.2005, n. 5851; 16.01.2007,
n. 226; 06.07.2009, n. 4335; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.05.2005, n. 3400; sez. I,
01.12.2005, n. 12727; 24.06.2005, n. 5254; 11.01.2006, n. 230;
08.06.2006, n. 4388; sez. II, 05.09.2007, n. 8575; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 14.06.2005, n. 3402; sez. III, 07.07.2008, n. 2056; 29.03.2010, n. 878; TAR Campania,
Napoli, sez. VI, 10.01.2006, n. 223; Salerno, sez. II,
04.05.2006, n. 597; Napoli, sez. IV, 02.10.2006, n.
8429; 06.12.2006, n. 10434: sez. VI, 28.03.2007, n.
312; sez. III, 21.05.2007, n. 5425; 06.06.2007, n.
5961; sez. IV, 08.10.2007, n. 9123; 21.03.2008, n.
1461; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; sez. IV, 03.04.2008, n. 2846; sez. VI, 30.04.2008, n. 3070 sez. VII,
07.05.2008, n. 3517; sez. IV, 06.03.2009, n. 1305; sez. VI, 13.07.2009; TAR Basilicata, Potenza,
03.03.2007,
n. 137; TAR Liguria, Genova, sez. I, 16.05.2007, n. 785;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 06.12.2007, n. 1937;
TAR Piemonte, Torino, sez. I, 17.12.2007, n. 3704).
10. Infondato
è pure l’ordine di doglianze in base al quale, in difetto di
motivazione, la misura demolitoria sarebbe stata irrogata
senza aver compiutamente valutato la tipologia di abuso
contestato, l’applicabilità della sanzione alternativa
pecuniaria (trattandosi asseritamente di opere eseguite in
parziale difformità dal progetto assentito) e le deduzioni
fornite dall’interessato in sede di contraddittorio
procedimentale, nonché senza aver individuato l’area di
sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
10.1. Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua
natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da
ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed
autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto,
nella specie, e a dispetto di quanto asserito da parte
ricorrente– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati (cfr. retro, in narrativa, sub
n. 2.2 e 2.5), l’individuazione delle violazioni accertate
(opere eseguite in totale difformità dalla d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, nonché in assenza di permesso di
costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001) (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez.
V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n.
4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI,
09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556;
sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008,
n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II,
07.10.2008, n. 13456; sez. IV,
29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n.
18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564;
02.12.2008, n. 20794; sez. VI,
17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV,
06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009,
n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez.
I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117;
06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
10.2. Ciò posto, giova, poi, chiarire che gli abusi
accertati a carico del D’A. si sono sostanziati
nell’ampliamento (per una volumetria complessivamente pari a
circa mc. 630,00) del manufatto preesistente, demolito e
ricostruito, il quale è risultato eseguito in totale
difformità dalla la d.i.a. del 11.06.2007, prot. n.
5418, e per il quale, stante la relativa natura e
consistenza, ossia trattandosi di intervento comportante la
creazione di un organismo edilizio integralmente diverso da
quello originario –anziché di parziali difformità, come,
invece, erroneamente inferito da parte ricorrente–, si
imponeva il preventivo rilascio di apposito permesso di
costruire (sul punto, cfr., TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
04.07.2013, n. 3427).
Ebbene, l’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui risulta
senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (opere
eseguite in assenza di permesso di costruire), non contempla
l'irrogazione di una sanzione diversa da quella demolitoria
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n.
4899).
La sanzione alternativa pecuniaria è, infatti, prevista
unicamente per le diverse ipotesi di opere di
ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova
costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31
cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire.
“Il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri
termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore,
non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla
sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere
repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per
il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua
rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009,
n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645).
10.3. Con riguardo al profilo di censura incentrato
sull’omessa considerazione delle deduzioni fornite in sede
di contraddittorio procedimentale dall’interessato con nota
del 04.04.2011 (prot. n. 3035), è agevole obiettare che
l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri
accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato,
non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il
quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua
iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in
ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez.
VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n.
5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI,
08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII,
09.05.2007, n.
4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV,
06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n.
16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367;
21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207;
sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n.
5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR
Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR
Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008,
n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
20.09.2008, n. 2651).
Si aggiunga che l'obbligo di motivazione ex art. 3 della l.
n. 241/1990 non avrebbe potuto tradursi –a discapito dei
principi di efficacia e celerità dell’agire amministrativo–
in un interminabile confronto dialettico e in una analitica
replica alle osservazioni del 04.04.2011 (prot. n. 3035)
(cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, 26.07.2004, n. 836; sez. I,
06.06.2007, n. 285; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste,
14.05.2005, n. 459; TAR Liguria, Genova, sez. II, 07.07.2005, n. 1022; TAR Sicilia, Palermo, sez. II,
07.04.2006, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.08.2006,
n. 6950; 14.09.2007, n. 8951), avendo esso per
oggetto i presupposti fattuali che, all’esito
dell’istruttoria procedimentale, avevano evidenziato, in
logica e insuperata antitesi alle anzidette osservazioni,
nonché in senso confermativo delle preannunciate
determinazioni, la legittimità della divisata irrogazione
della sanzione demolitoria.
10.4. Infine, il D’A. neppure può fondatamente
lamentare l’omessa individuazione dell’area di sedime
gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
Sul punto, in disparte, il rilievo, di per sé dirimente, che
le opere riguardate dal provvedimento impugnato risultano
compiutamente identificate nella loro localizzazione
territoriale e spaziale (cfr. retro, in narrativa, sub n.
2.2 e 2.5), il Collegio osserva che la lamentata omissione
non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo
atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R.
06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in
modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
---------------
In materia di condono edilizio, la formazione del
silenzio-assenso presuppone l’esistenza di tutte le
condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con
l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può
formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una
situazione difforme da quella reale.
per la riforma
- quanto al ricorso n. 5148 del 2015,
della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n.
744/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego
condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al
patrimonio indisponibile del Comune;
- quanto al ricorso n. 5149 del 2015,
della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n.
745/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego
condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al
patrimonio indisponibile del Comune.
...
A) Un primo gruppo di doglianze si incentra sulla
incolpevolezza degli appellanti rispetto alla realizzazione
delle opere abusive e all’estraneità alle ordinanze di
demolizione, indirizzate, come si è detto, al padre Edmondo
e al fratello Salvatore.
Esse sono infondate.
Giova innanzitutto puntualizzare che le pronunce in sede
penale intervenute a carico degli attuali appellanti hanno
accertato la prosecuzione degli abusi edilizi per i quali
erano stati assolti per prescrizione il padre e il fratello,
e che per tale ragione in data 10.10.2014 l’Ufficio
esecuzioni penali e misure di sicurezza presso la Procura
della Repubblica di Cagliari ha incaricato, come si è
ricordato, il Sindaco di Cagliari di provvedere alla
demolizione del fabbricato abusivo e al ripristino dell’area
su cui esso insiste.
E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero
ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli
appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al
contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il
passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in
giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla
quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per
ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali
proprietari pretendono la salvezza incondizionata della
propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile
abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte,
rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva
conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi
soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di
affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla
presentazione delle istanze di condono, attestanti una non
veritiera data di ultimazione del manufatto.
B) Quanto a quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei
lavori, successiva al 01.10.1983), è sufficiente
richiamare il contenuto dei verbali di sopralluogo sopra
citati, dai quali emerge che fino al 09.01.1984 esisteva
solo una recinzione sul lotto poi interessato
dall’edificazione, poi attestata nell’aprile 1984.
Da tale
circostanza, neppure contestata dagli interessati, deriva
l’infondatezza delle censure attinenti alla formazione del
preteso silenzio-assenso, formazione che presuppone
l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti
dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso
non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia
indicato una situazione difforme da quella reale (per tutte,
Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il
pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per
effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono
non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei
conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli
interessati di permanere nell’indebito godimento di un
immobile realizzato senza titolo.
C) Le considerazioni che precedono sono ampiamente
sufficienti ad evidenziare l’infondatezza dell’appello, dal
momento che i provvedimenti impugnati in primo grado si
manifestano correttamente motivati anche solo in base ad
esse.
Per completezza, il Collegio ritiene di aggiungere che anche
l’ulteriore censura, relativa alla pretesa inconferenza del
richiamo al Piano territoriale pesistico Molentargius Monte
Urpinu e alle connesse esigenze di tutela, pure richiamate
dal Comune nella motivazione dei provvedimenti di rigetto
delle istanze di condono, non è fondata.
Sostengono gli appellanti che alla data di presentazione
delle domande di condono (giugno 1986) il suddetto piano non
era ancora entrato in vigore, essendo stato pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale solo in data 24.12.1992.
La tesi non ha pregio poiché tale piano, approvato con
decreto regionale 12.01.1979, è stato pubblicato sul
Bollettino Ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS)
il 16.01.1979, e tale pubblicazione ne costituisce la
condizione di efficacia legale, avendo il dPR 22.05.1975, n. 480 trasferito alla Regione Sardegna le funzioni
relative all’adozione e all’approvazione dei piani
territoriali paesistici, con i connessi adempimenti e
conseguenze (cfr. Cass. civ. sez. I, 09.04.2015, n. 7139)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività edilizia deve essere compatibile con
le destinazioni impresse sull’area dagli strumenti
urbanistici.
L’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone,
inoltre, che: «Costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a
permesso di costruire: a) gli interventi di nuova
costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di
affermare, per definire l’ambito applicativo della norma
riportata, che:
i) «manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del
carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non
precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti,
ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato
nel tempo in quanto stagionale»;
ii) «non vi è dubbio sulla assenza della natura
pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un
nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio essendo
ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o
un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico',
confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali
da non alterare in modo significativo l'assetto del
territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato».
5.2.– Con il secondo e terzo motivo si deduce, in primo
luogo, l’erroneità della sentenza per avere il Tribunale
affermato che le opere contestate avrebbero determinato il
cambio di destinazione dell’area da agricola ad industriale.
La circostanza che il sig. Ca. sia socio e presidente di una
attività di autotrasporto e che impieghi l’area in questione
anche per parcheggiare sulla stessa gli automezzi di sua
proprietà non potrebbe essere sufficiente a dimostrare il
contestato mutamento di destinazione. Le opere, indicate
nell’ordinanza di demolizione, si aggiunge, sarebbero tutte
compatibili con l’attività agricola.
In secondo luogo, si assume come gli interventi edilizi
singolarmente considerati avrebbero valenza precaria e in
quanto tali per la loro esecuzione non sarebbe necessario il
previo rilascio del permesso di costruire.
Infine, si deduce come, anche in relazione al motivo accolto
dal primo giudice relativo alla recinzione, il Tribunale non
avrebbe dovuto affermare che la recinzione non è conforme
alla autorizzazione edilizia n. 11 del 1985 ma si sarebbe
dovuto limitare, in conformità alla domanda, a rilevare
come, in presenza di tale tipologia di interventi soggetti a
denuncia di inizio attività, non si può adottare un ordine
di demolizione.
I motivi non sono fondati.
L’attività edilizia deve essere compatibile con le
destinazioni impresse sull’area dagli strumenti urbanistici.
L’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone,
inoltre, che: «Costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a
permesso di costruire: a) gli interventi di nuova
costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di
affermare, per definire l’ambito applicativo della norma
riportata, che:
i) «manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del
carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non
precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti,
ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato
nel tempo in quanto stagionale» (Cons. Stato, sez. IV,
03.06.2014, n. 2842);
ii) «non vi è dubbio sulla assenza della natura
pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un
nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio essendo
ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti:
a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o
un porticato aperto da tre lati;
b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico',
confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali
da non alterare in modo significativo l'assetto del
territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato» (Cons. Stato, sez.
VI, 29.01.2015, n. 406).
Nella fattispecie in esame il terreno su cui sono state
realizzati gli interventi ha natura agricola.
La valutazione contestuale della natura dell’attività svolta
dal sig. Ca., dell’impiego di parte dell’area per il
parcheggio degli automezzi, della natura di altre opere
(descritte nei successivi punti) inducono a ritenere, avuto
riguardo alle fotografie prodotte in giudizio, che di fatto
si sia realizzato il cambio di destinazione ritenuto
abusivo. La circostanza che alcune delle opere realizzate
sarebbero compatibili con la natura agricola dell’area non è
comunque in grado di inficiare la legittimità della
valutazione complessiva opera dall’autorità comunale.
Quanto esposto sarebbe già di per sé a ritenere abusivi gli
interventi compiuti.
A ciò si aggiunga come, anche a volere considerare tali
interventi singolarmente, gli stessi sono comunque illeciti
perché non sorretti dal necessario titolo abilitativo.
In particolare, le opere contestate sono le seguenti:
ampliamento del fabbricato condonato esistente modificato
mediante realizzazione di una veranda chiusa con vetri,
utilizzata quale ufficio; prefabbricato in pannelli di
alluminio coibentati dotato di porta e finestra in alluminio
e vetro ad uso spogliatoio e ricreativo, appoggiato su
traversine in cemento; buca in calcestruzzo per la
riparazione dei mezzi di trasporto, avente profondità di
circa 1,5 metri; servizio igienico prefabbricato ancorato al
suolo; sei strutture tipo box, in lamiera e legno,
appoggiati su una platea in calcestruzzo; tre porticati
adiacenti alle baracche, appoggiati o ancorati a platea in
calcestruzzo; tre container in lamiera, usati come deposito
e appoggiati anch’essi ad una platea in calcestruzzo;
serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia appoggiata su
un basamento in cemento; pavimentazione in ghiaia rullata e
cemento di vasta parte del compendio.
E’ sufficiente la descrizione delle opere per comprendere
come si tratti di interventi che, contrariamente a quanto
sostenuto dall’appellante, non possono definirsi né precari
né pertinenziali, con conseguente necessità del permesso di
costruire per la loro realizzazione.
Per quanto attiene, infine, alla censura relativa alla
recinzione, è sufficiente rilevare come l’affermazione,
contenuta nella sentenza impugnata, circa la non conformità
di tale recinzione all’autorizzazione edilizia abbia
costituito una mera argomentazione motivazionale. Non
sussiste, pertanto, interesse alla sua contestazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Non
può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di
vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che
sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al
transito dei pedoni), dei quali deve garantire la
destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli
utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della
strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed
attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione
delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che,
agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al
fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di
provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania,
quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta
indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di
segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella
competenza del Comune proprietario della strada, con
specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica
stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione
alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del
codice della strada e all’art. 180 del regolamento di
esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento
materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del
citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa
ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Con ricorso notificato il 28.04.2015 e depositato il 7
maggio successivo, i nominati in epigrafe, residenti in
Sant’Antimo alla via Catania n. 16 impugnano il silenzio–rifiuto serbato dall’intimato ente locale in ordine
all’istanza acquisita al protocollo il 19.02.2015.
Con tale richiesta, i ricorrenti invitavano
l’amministrazione comunale ad installare paletti dissuasori
alla sosta ovvero apposita segnaletica orizzontale con
divieto di sosta nel tratto di via Catania antistante il
portone del proprio fabbricato al fine di impedire la sosta
indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati la
cui presenza, considerate le ridotte dimensioni della
carreggiata, ostacola le manovre carrabili di accesso ed
uscita dall’edificio, ivi compresi i mezzi di soccorso ed
emergenza.
Gli esponenti lamentano il pregiudizio derivante
dall’ostruzione dell’area di manovra specificando che, in
un’occasione, è stato impedito al Sig. C.V. di
recarsi presso il pronto soccorso dell’Ospedale di Frattamaggiore -benché afflitto da colica renale come da
documentazione sanitaria in atti- proprio a causa della
sosta ostruttiva di veicoli privati: all’esito di specifico
sopralluogo conseguente ad un esposto degli istanti, il
Comando di Polizia Municipale di Sant’Antimo ha constatato
il disagio per i residenti ed ha richiesto al Comune la
messa in opera di palettatura lungo la corsia di sinistra o,
in alternativa, l’apposizione di segnaletica verticale di
divieto di sosta.
Tanto premesso, gli esponenti propongono ricorso ex artt. 31
e 117 c.p.a. e chiedono la condanna dell’amministrazione
comunale alla conclusione del procedimento di cui all’epigrafata
istanza, con richiesta di nomina di un commissario ad acta
in caso di perdurante inerzia.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato
dal Comune in ordine alla istanza di cui in premessa dal
momento che, benché diffidato dalla parte ricorrente, l’ente
non ha adottato alcuna determinazione conclusiva.
Non può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di
vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che
sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al
transito dei pedoni), dei quali deve garantire la
destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli
utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della
strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed
attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione
delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che,
agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al
fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di
provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania,
quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta
indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di
segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella
competenza del Comune proprietario della strada, con
specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica
stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione
alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del
codice della strada e all’art. 180 del regolamento di
esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento
materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del
citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa
ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Le considerazioni svolte conducono, in definitiva,
all’accoglimento del ricorso con conseguente condanna del
Comune a pronunciarsi espressamente sull’istanza dei privati
con un provvedimento motivato entro e non oltre giorni 30
dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione
della presente sentenza.
In caso di perdurante inerzia si nomina sin d’ora
commissario ad acta il Sig. Prefetto di Napoli –con facoltà
di delega ad un funzionario del proprio ufficio– il quale
provvederà, previa presentazione di apposita istanza di
parte ricorrente (da notificare al Comune), entro i
successivi 30 giorni.
Il compenso del commissario ad acta sarà liquidato con
separato provvedimento ad avvenuto espletamento
dell’incarico (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 02.09.2015 n. 4280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata notifica alla parte
interessata dell’atto con il quale l’amministrazione abbia
accertato l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione
non produce necessariamente effetti vizianti sulla procedura
di repressione degli abusi edilizi. Va sottolineato, per un
verso, come correttamente eccepito dalla difesa dell’ente
resistente, che la legge collega l’effetto acquisitivo
dell’opera abusiva al mero inutile decorso del termine di 90
giorni assegnato all’interessato per mezzo dell’ordinanza
ingiunzione di demolizione.
È chiaro sul punto il dettato normativo, laddove prescrive
che “se il responsabile dell’abuso non provvede alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di 90 giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di
sedime, nonché quella necessaria secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del Comune” (art. 31, D.P.R.
380/2001).
Ne consegue che il verbale di accertamento di tale
inottemperanza -del quale il ricorrente lamenta oggi la
mancata notifica- ha valore di atto meramente dichiarativo,
con il quale l’amministrazione verifica allo scadere del
termine di 90 giorni la permanenza dello stato di fatto
accertato con l’ingiunzione di demolizione (“Il verbale di
accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione ha
valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle
successive determinazioni dell'Ente locale e ha efficacia
meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla
Polizia Municipale”).
Secondo la previsione normativa, realizzatosi ipso iure
l’effetto acquisitivo della proprietà del bene, la notifica
del citato verbale alla parte privata costituisce solo
titolo per l’immissione nel possesso (ossia, per
l’acquisizione materiale dell’immobile da parte
dell’amministrazione), e per la trascrizione nei registri
immobiliari (ossia, per la pubblicizzazione di
quell’acquisto già verificatosi precedentemente).
Il Collegio non ignora il dato normativo (art. 31, co. 4,
del D.P.R. 380/2001) a tenore del quale l’atto ricognitivo
della mancata demolizione debba essere preventivamente
notificato alla parte; tuttavia, osserva anche che -come già
rilevato- tale adempimento procedimentale assume solo una
funzione ricognitiva, volta ad accertare se la demolizione
sia stata eseguita o meno.
L’omessa notifica del verbale di accertamento al soggetto
passivo del procedimento repressivo può, quindi, assumere
effetto invalidante dell’intera procedura solo se ed in
quanto lo stesso soggetto abbia provveduto a demolire
l’abuso (contrariamente a quanto “accertato” dall’ufficio),
ovvero voglia far valere delle ragioni che gli hanno
impedito di ottemperare a tale obbligo.
In tutte le altre ipotesi, l’omissione procedimentale
risulta ex se priva di rilevanza, e non incide sulla
validità dell’acquisizione della proprietà del bene al
patrimonio comunale, come ha chiarito in fattispecie analoga
la giurisprudenza: “L'accertamento dell'inottemperanza
all'ingiunzione a demolire ha il solo scopo di verificare
l'adempimento della parte intimata rispetto al termine
assegnato; in caso di inerzia rispetto all'intimata
demolizione si verifica ope legis l'acquisizione del bene al
patrimonio comunale e di fronte a questa sequenza
procedimentale l'unico intervento in funzione dialettica che
la parte può validamente effettuare è quello volto a
dimostrare che la demolizione sia stata effettivamente
realizzata dal destinatario del provvedimento e ove ciò non
venga dimostrato l'eventuale vizio procedimentale della
omessa o inesatta notificazione dell'accertamento di
inottemperanza costituirebbe una irregolarità non
invalidante, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del
1990, in quanto il provvedimento non potrebbe assumere un
diverso contenuto”.
---------------
Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la
demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un
lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore «contra legem».
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 85 del 07.07.2014
con la quale il Dirigente del Settore Urbanistica del Comune
di S. Giovanni La Punta ha acquisito al patrimonio comunale
le opere abusive eseguite da I.G. nell’immobile sito in via
... ;
...
Sulla base di una più attenta lettura degli atti il Collegio
ritiene che -contrariamente a quanto affermato in sede
cautelare- il ricorso sia infondato e debba essere respinto.
1.- Infatti, in relazione al primo motivo, va rilevato come
la mancata notifica alla parte interessata dell’atto con il
quale l’amministrazione abbia accertato l’inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione non produce necessariamente
effetti vizianti sulla procedura di repressione degli abusi
edilizi. Va sottolineato, per un verso, come correttamente
eccepito dalla difesa dell’ente resistente, che la legge
collega l’effetto acquisitivo dell’opera abusiva al mero
inutile decorso del termine di 90 giorni assegnato
all’interessato per mezzo dell’ordinanza ingiunzione di
demolizione (Tar Palermo 2898/2014 e 2760/2014).
È chiaro sul punto il dettato normativo, laddove prescrive
che “se il responsabile dell’abuso non provvede alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di 90 giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di
sedime, nonché quella necessaria secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del Comune” (art. 31, D.P.R.
380/2001).
Ne consegue che il verbale di accertamento di tale
inottemperanza -del quale il ricorrente lamenta oggi la
mancata notifica- ha valore di atto meramente dichiarativo,
con il quale l’amministrazione verifica allo scadere del
termine di 90 giorni la permanenza dello stato di fatto
accertato con l’ingiunzione di demolizione (Tar Napoli,
3067/2014: “Il verbale di accertamento di inottemperanza
all'ordine di demolizione ha valore di atto
endoprocedimentale, strumentale alle successive
determinazioni dell'Ente locale e ha efficacia meramente
dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia
Municipale”).
Secondo la previsione normativa, realizzatosi ipso iure
l’effetto acquisitivo della proprietà del bene, la notifica
del citato verbale alla parte privata costituisce solo
titolo per l’immissione nel possesso (ossia, per
l’acquisizione materiale dell’immobile da parte
dell’amministrazione), e per la trascrizione nei registri
immobiliari (ossia, per la pubblicizzazione di
quell’acquisto già verificatosi precedentemente).
Il Collegio non ignora il dato normativo (art. 31, co. 4,
del D.P.R. 380/2001) a tenore del quale l’atto ricognitivo
della mancata demolizione debba essere preventivamente
notificato alla parte; tuttavia, osserva anche che -come già
rilevato- tale adempimento procedimentale assume solo una
funzione ricognitiva, volta ad accertare se la demolizione
sia stata eseguita o meno.
L’omessa notifica del verbale di accertamento al soggetto
passivo del procedimento repressivo può, quindi, assumere
effetto invalidante dell’intera procedura solo se ed in
quanto lo stesso soggetto abbia provveduto a demolire
l’abuso (contrariamente a quanto “accertato”
dall’ufficio), ovvero voglia far valere delle ragioni che
gli hanno impedito di ottemperare a tale obbligo.
In tutte le altre ipotesi, l’omissione procedimentale
risulta ex se priva di rilevanza, e non incide sulla
validità dell’acquisizione della proprietà del bene al
patrimonio comunale, come ha chiarito in fattispecie analoga
la giurisprudenza: “L'accertamento dell'inottemperanza
all'ingiunzione a demolire ha il solo scopo di verificare
l'adempimento della parte intimata rispetto al termine
assegnato; in caso di inerzia rispetto all'intimata
demolizione si verifica ope legis l'acquisizione del bene al
patrimonio comunale e di fronte a questa sequenza
procedimentale l'unico intervento in funzione dialettica che
la parte può validamente effettuare è quello volto a
dimostrare che la demolizione sia stata effettivamente
realizzata dal destinatario del provvedimento e ove ciò non
venga dimostrato l'eventuale vizio procedimentale della
omessa o inesatta notificazione dell'accertamento di
inottemperanza costituirebbe una irregolarità non
invalidante, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del
1990, in quanto il provvedimento non potrebbe assumere un
diverso contenuto” (Tar Catania 3234/2011).
Si può quindi concludere, che la mancata notifica del
verbale di accertamento lamentata col motivo di ricorso in
esame non costituisca vizio della procedura di acquisizione
del bene, e segnatamente dell’atto oggi impugnato con il
quale l’amministrazione ha solo confermato e formalizzato
l’effetto traslativo, indicando compiutamente l’area
acquisita.
Né può assumere rilievo l’evidenziata circostanza che sia
trascorso un ampio lasso di tempo dall’accertamento
dell’abusività dell’opera fino all’irrogazione della
sanzione acquisitiva. Infatti, per un verso, l’iter è stato
rallentato legittimamente a causa della presentazione di
un’istanza di sanatoria (cui è seguito un fitto scambio
procedimentale tra le parti, poi definitivamente respinta
con provvedimento non contestato); per altro verso, il
trascorrere del tempo non può ingenerare affidamenti in capo
al privato in ordine al mancato esercizio della potestà di
repressione degli abusi che compete in materia ai Comuni.
In proposito, la prevalente giurisprudenza (condivisa dalla
Sezione) è solita affermare che “Non sussiste alcuna
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto
abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra
l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione
dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore «contra legem»” (da
ultimo Cons. Stato, VI, 13/2015, ma anche ex multis
Tar Napoli 1329/2015, Tar Lecce 2127/2014, Tar Torino
237/2014, Cons. Stato, IV, 3182/2013) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.09.2015 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Stop agli affidamenti senza verifica Ue.
Per il Consiglio di Stato sempre obbligatoria l’analisi
sulla conformità alla disciplina comunitaria.
Società. I giudici sanciscono la decadenza automatica per le
modalità di gestione che non sono state adeguate entro il 31.12.2014.
L’affidamento
avvenuto con modalità confliggenti con l’ordinamento
comunitario prima del 2012 doveva essere adeguato entro il
31.12.2014, e in caso di impossibile esperimento di
tale soluzione si determina la cessazione della gestione
esistente.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
31.08.2015 n. 4041 chiarisce nel dettaglio il meccanismo
previsto dai commi 20 e 21 dell’articolo 34 della legge
221/2012, evidenziando come per gli affidamenti già in
essere al momento dell’entrata in vigore delle norme le
amministrazioni locali erano tenute ad effettuare
un’accurata analisi della coerenza del modulo a suo tempo
scelto con l’attuale quadro dei principi comunitari.
Nel richiedere la verifica di conformità degli affidamenti
esistenti ai requisiti previsti dalla normativa europea il
comma 21 dell’articolo 34 non intende fare riferimento alle
norme dell’epoca in cui gli stessi affidamenti sorsero, ma
alla disciplina attuale.
La norma quindi non si fonda su un giudizio d’illegittimità
in senso tecnico dei relativi atti di affidamento, ma su una
valutazione di coerenza dell’assetto da essi instaurato
rispetto alle regole del presente.
Nella sentenza viene rilevato inoltre che la normativa del
comma 21 prescinde dalle soglie di rilevanza comunitaria,
per fare invece perno sulla valorizzazione dei principi
concorrenziali invalsi nella relativa disciplina, secondo
una prospettiva legislativa che intende rimettere in
discussione assetti concessori preesistenti il più delle
volte da tempo cristallizzati per porre nuovamente sul
mercato i relativi servizi, e promuovere così dinamiche di
sviluppo dell’economia. Pertanto eventuali valori limitati
degli affidamenti non comportavano l’esclusione dall’ambito
applicativo della norma.
La disposizione, tuttavia, non ha determinato una cessazione
immediata delle gestioni esistenti, ma ha obbligato le
amministrazioni a svolgere una verifica puntuale, nella
consapevolezza che le criticità dei singoli affidamenti
concreti rispetto alla normativa europea potessero
atteggiarsi di volta in volta in modo diverso, ed essere
talora sanabili (ad esempio, in caso di un irregolare
affidamento in house mediante un adeguato mutamento
organizzativo).
Qualora l’amministrazione abbia invece rilevato un conflitto
insanabile con i principi comunitari (ad esempio un
affidamento diretto senza gara a un operatore economico
privato) l’intervento si traduce in un accertamento
vincolato, stante l’impraticabilità di un adeguamento
dell’affidamento, con conseguente immediata cessazione della
gestione esistente.
Questo percorso doveva essere completato entro il 31.12.2014 (in considerazione del differimento del
termine originario operato dall’articolo 13 del Dl 150/2013)
e non poteva subire deroga, nemmeno a fronte di investimenti
recenti effettuati dall’affidatario.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha evidenziato come
nell’ambito di un affidamento di servizio pubblico
l’elemento del riequilibrio economico-finanziario degli
investimenti dell’affidatario (valorizzato dalle previsioni
degli articoli 30 e 143 del Dlgs 163/2006) sia connesso al
momento costitutivo della concessione.
Qualora, invece, si verifichi il mancato raggiungimento del
punto di equilibrio in prossimità della cessazione naturale
del rapporto, questo non determina un prolungamento dello
stesso, ma costituisce presupposto per la quantificazione
del giusto indennizzo.
Pertanto il recupero degli investimenti non ammortizzati in
conseguenza della cessazione dell’affidamento va ricondotto
a una regolazione del tutto autonoma dell’aspetto
patrimoniale (con l’eventuale assunzione dell’onere da parte
dell’affidatario subentrante), ma non può influire sulla
durata dell’affidamento, a rischio di andare a ridurre il
“rischio operativo” che invece l’affidatario deve sopportare
(anche in forza di quanto espressamente previsto in tal
senso dalla direttiva 23/2014/Ue) (articolo Il Sole 24 Ore del
07.09.2015).
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MASSIMA
4 L’appello è infondato.
5 Con il suo primo motivo viene ripresa la tesi
dell’inapplicabilità alla materia oggetto di controversia
della disciplina generale per i servizi pubblici locali di
rilevanza economica recata dai commi 20 e 21 dell’art. 34
del d.l. n. 179/2012.
5a La tesi si ricollega alle previsioni specificamente
dettate per l’illuminazione votiva dal comma 26 dello stesso
articolo 34, che ai fini di tale particolare materia
porrebbe i detti due commi fuori causa, mancando di
richiamarsi ad essi e limitandosi a richiamare il d.lgs. n.
163/2006.
L’appellante assume, in particolare, che la concatenazione,
rinvenibile nel comma 26, tra la modifica del D.M.
31.12.1983, da un lato, e l’applicabilità al servizio di
illuminazione votiva della disciplina di cui all’art. 30 del
d.lgs. n. 163/2006, dall’altro, denoterebbe la volontà
legislativa di sottrarre il peculiare servizio oggetto di
causa alla disciplina dedicata ai servizi pubblici locali
dai commi 20 e 21.
Diversamente opinando, viene detto, la seconda parte del
comma 26 risulterebbe inutiliter data: la soggezione
all’art. 30 del Codice dei contratti pubblici
dell’illuminazione votiva, così come della generalità dei
servizi locali soggetti ai commi 20-22, dovrebbe infatti
reputarsi ovvia.
Una simile scelta legislativa non presenterebbe, inoltre,
profili d’irragionevolezza, stanti le particolari
caratteristiche dell’illuminazione votiva, e soprattutto la
modesta consistenza economica della gran parte degli
affidamenti di settore.
Infine, la previsione di una cessazione anticipata di questi
ultimi finirebbe per restringere, invece che ampliare, la
concorrenza nello specifico mercato, in quanto l’onere di
corrispondere un indennizzo al concessionario uscente (per
la perduta proprietà dell’impianto) si tradurrebbe in una
barriera all’ingresso per gli aspiranti nuovi concessionari.
5b Il Collegio è dell’avviso che queste pur approfondite
argomentazioni non possano trovare adesione, meritando
conferma l’interpretazione seguita dal Giudice di prime
cure.
Il comma 26 del già citato art. 34 non interferisce con il
campo di applicazione dei commi 20-21 del medesimo articolo,
ma si pone rispetto ad essi su un piano diverso.
Il comma 21, in particolare, si occupa degli affidamenti di
servizi pubblici locali di rilevanza economica in corso
all’entrata in vigore del decreto legge n. 179/2012, e della
necessità di adeguarli con sollecitudine ai parametri
concorrenziali di derivazione europea.
Il comma 26, per converso, si occupa essenzialmente della
disciplina applicabile alle nuove procedure da indire nel
futuro per gli affidamenti del servizio d’illuminazione
votiva, senza stabilire alcunché per quelli in corso.
E’ immediato, pertanto, operare una lettura coordinata delle
previsioni dei due commi dell’articolo, ritenendo
applicabile il comma 21 anche all’illuminazione
votiva.
Tale servizio, del resto, è annoverato da
una giurisprudenza consolidata tra i servizi pubblici locali
di rilevanza economica
(cfr. ad es. C.d.S., V, 27.05.2014, n. 2716, nonché
23.10.2012, n. 5409, e ulteriori citazioni ivi):
sicché esso per sua natura soggiace alle previsioni
dei commi 20-21, la cui portata generale ha fatto sì che non
vi fosse bisogno di richiamarli nel corpo del comma 26.
Quando il legislatore, d’altra parte, ha voluto escludere
l’applicazione a particolari settori economici dei commi
20-21 è stato univoco, come si desume dalla lettura del
comma 25 dello stesso art. 34.
Se si considera, inoltre, che la ratio
espressa della disciplina del comma 26 si identifica nel “fine
di aumentare la concorrenza nell’ambito delle procedure di
affidamento in concessione del servizio di illuminazione
votiva”, deve convenirsi che una simile ratio può
essere efficacemente perseguita solo a condizione di
coordinare il comma 26 al 21
(collocando perciò anche l’illuminazione votiva nel novero
dei servizi i cui affidamenti in corso sono soggetti a
possibile cessazione anticipata), e non già
seguendo l’opposta lettura patrocinata dalla ricorrente.
Questa seconda interpretazione, infatti,
lasciando tutti gli affidamenti in atto alle loro naturali
scadenze, limiterebbe considerevolmente l’impatto
proconcorrenziale della disciplina innovativa del comma 26;
e, come ha fatto osservare la difesa comunale, “spostando
il momento di ingresso del servizio nel mercato nega la
finalità stessa della disciplina d’urgenza introdotta nel
2012.”
5c Sarebbe poi paradossale se il servizio in rilievo, pur
soggetto per sua natura alla disciplina dei commi 20-21
dell’art. 34 cit., dovesse risultare sottratto
all’applicazione dei medesimi, e rimanere governato da
concessioni di lunga durata che rischiano di ingessare il
relativo mercato, solo a causa di una norma speciale quale
il predetto comma 26, che si presenta tuttavia come
espressione di una finalità pro-competitiva proprio per il
settore dell’illuminazione votiva.
E quand’anche la sottrazione all’illuminazione votiva delle
caratteristiche del servizio “a domanda individuale”,
che è stata stabilita dal primo periodo del comma 26,
dovesse tradursi in un mutamento de futuro della sua natura
giuridica, neppure tale circostanza potrebbe comunque essere
valorizzata per sottrarre il detto servizio all’impero dei
citati commi 20-21, dal momento che una simile
interpretazione contraddirebbe, appunto, la finalità “di
aumentare la concorrenza nel settore” che sorregge e
qualifica l’intero comma 26.
5d A conferma dell’interpretazione seguita
dal Tribunale si può aggiungere:
- che non esiste alcuna incompatibilità, come ha già
rilevato lo stesso TAR, tra i commi 20-21 dell’art. 34 d.l.
cit. e l’art. 30 d.lgs. n. 163/2006;
- che il richiamo del comma 26 a quest’ultimo articolo non è
superfluo, avendo – tra l’altro, anche - la funzione di
chiarire che, almeno nella prospettiva legislativa,
l’innovazione apportata dal primo periodo del comma 26 non
farebbe venire meno la configurazione concessoria degli
affidamenti del servizio in questione, pur avendo esso
perduto la connotazione del servizio “a domanda
individuale”.
Non persuadono, infine, gli argomenti dell’appellante
imperniati sulla modestia della consistenza economica della
gran parte degli affidamenti di settore, come pure sul
possibile effetto di barriera all’ingresso del mercato che
potrebbe venire dalla necessità di indennizzare i
concessionari uscenti, giacché simili deduzioni, alla luce
delle considerazioni già svolte sull’interpretazione da dare
alla normativa in esame, possono valere al più a segnalare
degli eventuali aspetti d’inopportunità o inefficacia della
scelta legislativa, senza poter tuttavia influire sull’esito
del presente giudizio di legittimità.
5e Poiché, dunque, il comma 21 dell’art. 34 d.l. cit. si
conferma applicabile anche al servizio di illuminazione
votiva, il primo motivo di appello deve essere respinto.
6 Con il secondo mezzo si deduce che, anche a ritenere
applicabili al caso concreto i suddetti commi 20 e 21, la
deliberazione comunale n. 137/2013 sarebbe ugualmente
illegittima.
6a Tanto essenzialmente per le seguenti ragioni.
L’affidamento concesso a EPIS non confliggerebbe con il
diritto comunitario: la sua ultima proroga risale al 1999,
quando l’affidamento delle concessioni di servizi senza
procedura a evidenza pubblica doveva considerarsi ancora
perfettamente legittimo anche sotto il profilo comunitario.
E la successiva evoluzione della normativa europea non
potrebbe incidere retroattivamente sugli affidamenti
pregressi.
La deliberazione comunale impugnata meriterebbe quindi
censura, anche alla luce del canone del tempus regit
actum, per avere disposto la cessazione anticipata di
una concessione che non recherebbe alcun aspetto di
contrarietà all’ordinamento comunitario.
La ricorrente assume inoltre che il comma 26 dell’art. 34
d.l. cit., con il suo richiamo all’art. 125 d.lgs. n.
163/2006, tuttora consentirebbe la possibilità di un
affidamento diretto, in forza del comma 11 di questo secondo
articolo, per le gestioni di dimensione ridotta, ossia non
superiori a un valore di 40mila euro per anno. E poiché il
servizio della EPIS presenterebbe un valore limitato a circa
12mila euro annui, il suo affidamento diretto sarebbe ancora
oggi perfettamente legittimo.
Sotto altro profilo, la ricorrente deduce che i commi 20-21
dell’art. 34 d.l. cit. non imporrebbero la cessazione
anticipata della generalità degli affidamenti diretti in
corso: eventualità che farebbe di tali norme, oltretutto,
una nuova reiterazione dell’art. 23-bis del d.l. n.
112/2008, abrogato a suo tempo dal referendum popolare,
esponendole pertanto a una censura d’incostituzionalità per
violazione dell’art. 75 Cost. sulla scia di quanto già
deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
199/2012.
L’adeguamento ai requisiti della normativa europea previsto
dai detti commi si limiterebbe a riguardare i “contenutispecifici
degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale” e
le relative “compensazioni economiche”. In difetto,
quindi, di una norma nazionale di cessazione anticipata
degli affidamenti diretti in atto le concessioni in itinere,
oltretutto legittimamente conferite in base alle norme
dell’epoca, dovrebbero essere conservate.
6b Nemmeno queste deduzioni possono trovare consenso, poiché
costituiscono espressione di un’interpretazione non
condivisibile del più volte citato comma 21.
6c Il Collegio deve subito osservare che il
detto comma, nel richiamarsi agli affidamenti “non
conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea”,
non intende fare riferimento alle norme dell’epoca in cui
gli stessi affidamenti sorsero, come la ricorrente invece
sostiene, bensì alla disciplina attuale.
La norma in esame non riposa quindi su un giudizio
d’illegittimità in senso tecnico dei relativi atti di
affidamento (che postulerebbe, appunto, una loro valutazione
secondo la legge del tempo), bensì su una valutazione di
coerenza dell’assetto da essi instaurato rispetto alle
regole del presente.
Come la difesa comunale ha rilevato, infatti, la relazione
prevista dal comma 20 dell’art. 34 d.l. cit. deve essere
calibrata senza dubbio sulla disciplina europea attualmente
vigente. Sicché il comma 21, nell’esigere anche ai propri
fini “la relazione prevista al comma 20”, è alla
disciplina attuale che chiede di avere riguardo, e non a
quella dell’epoca di origine dell’affidamento.
Senza dire che, come la stessa difesa ha fatto notare,
avrebbe ben poco senso oggi prescrivere alle Amministrazioni
concedenti -per giunta, mediante lo strumento della
decretazione d’urgenza- di svolgere un controllo di
legittimità alla stregua di parametri normativi ormai
superati.
Per quanto precede, anche il richiamo di parte ricorrente al
canone del tempus regit actum e al principio di
irretroattività si rivela fuori fuoco.
6d Dopo la precisazione appena fatta circa la rilevanza
della sola disciplina vigente, occorre passare a
sottolineare che la ricorrente non ha introdotto in giudizio
alcuna puntuale deduzione tesa a sostenere la conformità
all’attuale disciplina europea dell’affidamento in via
diretta di un servizio pubblico, sì da poter avversare la
posizione del TAR nel senso che “I principi comunitari
impongono l’apertura al mercato e il superamento di tutte le
situazioni di affidamento diretto fuori dagli specifici casi
di in house providing.”
La parte, al riguardo, si è limitata ad allegare la modesta
consistenza economica del proprio servizio, del valore
annuale di 12mila euro, che ne farebbe un quid irrilevante
dal punto di vista dell’ordinamento comunitario.
Il fatto è che la normativa del comma 21 dell’art. 34 d.l.
cit. risulta prescindere dalle soglie di rilevanza
comunitaria, per fare invece perno sulla valorizzazione dei
principi concorrenziali invalsi nella relativa disciplina
guardando ad essi nella loro consistenza intrinseca per la
positività dei loro effetti per la vitalità del sistema
economico.
La prospettiva legislativa, infatti, è quella di rimettere
in discussione assetti concessori preesistenti il più delle
volte da tempo cristallizzati per porre nuovamente sul
mercato i relativi servizi, e promuovere così dinamiche di
sviluppo dell’economia. Sicché da tale angolazione il valore
dei singoli affidamenti diventa un elemento di valenza
recessiva.
Né può accedersi all’idea che sarebbe il diritto interno a
rendere tuttora possibile l’affidamento diretto di un
servizio come quello della ricorrente.
L’art. 125 d.lgs. n. 163/2006, richiamato dal comma 26
dell’art. 34 d.l. cit., al suo comma 11 stabilisce quanto
segue: “Per servizi o forniture di importo pari o
superiore a quarantamila euro e fino alle soglie di cui al
comma 9, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene
nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità
di trattamento, previa consultazione di almeno cinque
operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti
idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero
tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla
stazione appaltante. Per servizi o forniture inferiori a
quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da
parte del responsabile del procedimento.”
L’affidamento della ricorrente non rientra, però, in
quest’ultima ipotesi.
Per stabilire, infatti, se si versi in un caso di “servizi
o forniture inferiori a quarantamila euro”, occorre fare
applicazione dell’art. 29 dello stesso decreto, secondo il
quale per gli appalti pubblici di servizi la base di calcolo
del valore stimato dell'appalto si identifica, giusta il suo
comma 12, considerando: “b.1) se trattasi di appalti di
durata determinata pari o inferiore a quarantotto mesi, il
valore complessivo stimato per l'intera loro durata;
b.2) se trattasi di appalti di durata indeterminata o
superiore a quarantotto mesi, il valore mensile moltiplicato
per quarantotto.”
Ciò posto, poiché il servizio della EPIS presenta un valore
di circa 12mila euro annui, l’applicazione di quest’ultima
previsione porta al superamento della soglia dei
quarantamila euro di valore.
Ne deriva che anche un affidamento di tal fatta richiede la
“previa consultazione di almeno cinque operatori
economici”, e pertanto una forma di gara.
6e Le precedenti considerazioni conducono a ritenere,
dunque, che l’affidamento diretto di cui la EPIS ha
beneficiato rientri nella materia soggetta all’applicazione
del menzionato comma 21. Rimangono però da individuare le
conseguenze che ciò comporta.
6f A questo riguardo, il Collegio non ha difficoltà a
riconoscere che il testo del comma possa risultare a tutta
prima ambiguo. Esso riposa su un enigmatico concetto di “adeguamento”
alla normativa europea, e la cessazione anticipata degli
affidamenti in corso al 31.12.2013 viene costruita dal
legislatore come conseguenza del mancato adempimento degli
obblighi tesi proprio a tale adeguamento.
E’ vero, in particolare, che il comma non reca una diretta
previsione espressa tesa a disporre sic et simpliciter
l’anticipata cessazione delle gestioni in atto in forza di
affidamenti diretti.
Ciò si spiega, però, per l’ampiezza della prospettiva in cui
il legislatore si è mosso, nella consapevolezza che le
criticità dei singoli affidamenti concreti rispetto alla
normativa europea potessero atteggiarsi di volta in volta in
modo diverso, ed essere talora sanabili (ad es., in caso di
un irregolare affidamento in house, mediante un adeguato
mutamento organizzativo).
Questo non è però certo il caso dell’affidamento concesso
senza alcuna gara, in presenza del quale, come ha obiettato
la resistente difesa, il Comune, in applicazione del d.l. n.
179/2012, non poteva che disporre la cessazione anticipata
del servizio. L’intervento dell’Amministrazione interessata,
pur richiesto dal comma 21, in casi simili si traduce,
infatti, in un accertamento vincolato, stante
l’impraticabilità altrimenti di un “adeguamento”
dell’affidamento. E le perentorie prescrizioni del comma
sulla necessità di adeguamento entro il termine previsto,
nonché sulla cessazione degli affidamenti alla stessa
scadenza in caso di mancato adeguamento, confermano la
natura vincolata della cessazione anticipata, natura la
quale rende in simili casi recessivo il profilo valutativo
della “economicità della gestione”, pur previsto in
via generale tra le materie suscettibili di disamina in
occasione della relazione prevista dal comma 20.
A far definitiva chiarezza sull’appartenenza anche degli
affidamenti diretti al campo di applicazione del comma 21
vale la previsione speciale del comma 22, dalla quale si
desume, a contrario, che gli affidamenti diretti non
rientranti nell’ambito applicativo di quest’ultima norma
debbano ricadere nello spettro della precedente.
Che poi il meccanismo delineato dal comma 21 possa e debba
sfociare, alle condizioni stabilite, in una cessazione
anticipata dell’affidamento risulta testualmente dall’ultimo
periodo dello stesso comma. E il dato è ribadito dal
posteriore art. 13 del d.l. n. 150/2013, che denota con
chiarezza, nel differire i termini fissati dal comma 21,
come nella valutazione legislativa le regole del comma
stesso postulino, per lo meno nella normalità dei casi, in
presenza di difformità dalla normativa europea, l’avvio di
una nuova procedura di affidamento.
6g Né la norma nazionale presta il fianco, se così intesa,
al dubbio di legittimità costituzionale prospettato dalla
ricorrente sotto il profilo della violazione dell’art. 75
della Carta.
Tale dubbio risulta infatti manifestamente infondato.
L’iniziativa referendaria richiamata dalla ricorrente è
stata dalla Corte Costituzionale così connotata (sentenza
26.01.2011, n. 24).
“Come si è già osservato, l'abrogazione richiesta
riguarda una normativa generale … che è diretta
sostanzialmente a restringere, rispetto alle regole
concorrenziali minime comunitarie, le ipotesi di affidamento
diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica. … l'obiettiva ratio
del quesito n. 1 va ravvisata … nell'intento di escludere
l'applicazione delle norme, contenute nell'art. 23-bis, che
limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di
affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in
house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di
rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico).”
Tale essendo il proprium dell’iniziativa
referendaria, si può quindi rilevare l’estraneità ad esso
dello specifico punto della cessazione anticipata ex lege
degli affidamenti in corso.
Tale punto, nell’economia complessiva dell’art. 23-bis d.l.
n. 112/2008, costituiva solo una premessa servente rispetto
all’introduzione delle regole proprie del regime alla cui
instaurazione era in concreto collegata e strumentale.
Di riflesso la Consulta, con il suo intervento sfociato
nella successiva decisione n. 199/2012, non ha censurato, in
se stessa, la possibilità di un simile meccanismo di
cessazione degli affidamenti preesistenti, né tantomeno
precluso l’impiego legislativo di un analogo meccanismo in
correlazione con discipline a regime dall’orientamento
diverso, com’è il caso di quella che mette capo all’art. 34
d.l. n. 179/2012.
La questione prospettata si conferma perciò manifestamente
infondata.
7 Il terzo mezzo dell’appello reitera la censura dell’omessa
comunicazione alla ricorrente dell’avvio del procedimento
teso all’elaborazione della relazione prevista dai commi
20-21 dianzi citati, e culminato nella conseguente
deliberazione di Giunta.
Il primo Giudice ha disatteso il rilievo in considerazione
della natura vincolata dell’attività compiuta
dall’Amministrazione. Il TAR ha formulato l’ulteriore
notazione che “l’omissione della comunicazione di avvio
del procedimento, … in ogni caso non potrebbe condurre
all’annullamento della deliberazione giuntale impugnata (e
della relazione presupposta), atteso che parte ricorrente
non ha evidenziato … alcuno specifico profilo che avrebbe
potuto condurre l’Amministrazione a ravvisare l’opportunità
di mantenere la concessione in essere. L’art. 21-octies
esclude, quindi, l’annullabilità del provvedimento in
ragione del suddetto vizio meramente formale.”
La ricorrente contesta le argomentazioni appena riassunte.
Il Collegio, tuttavia, ha avuto modo già in precedenza, nel
paragr. 6f, di porre in luce la natura effettivamente
vincolata rivestita nel caso concreto dall’applicazione del
comma 21 dell’art. 34 d.l. cit.: da qui l’inevitabile
rigetto anche di questo mezzo.
8a Con il quarto e ultimo motivo la ricorrente torna a fare
riferimento all’elemento del riequilibrio
economico-finanziario degli investimenti del concessionario,
valorizzato dalle previsioni degli artt. 30 e 143 del d.lgs.
n. 163/2006, lamentando che il TAR non le abbia ritenute
applicabili alla fattispecie benché il primo di tali
articoli richiami il secondo proprio ai fini delle
concessioni di servizio pubblico.
I provvedimenti comunali sarebbero pertanto illegittimi
anche da questa angolazione, per avere disposto la scadenza
anticipata della concessione senza tenere conto della
necessità del suddetto riequilibrio, che pure aveva indotto
alle proroghe accordate dallo stesso Comune nel tempo.
Il Tribunale, sul punto, ha fatto però già correttamente
notare come le norme invocate dalla ricorrente esprimano la
necessità di avere riguardo al perseguimento dell’equilibrio
economico-finanziario del rapporto concessorio solo con
riferimento alla fase della sua impostazione costitutiva (e
questo vale anche per l’art. 143, comma 7, del d.lgs. n.
163/2006, richiamato dall’art. 30, comma 7, della stessa
fonte).
Da parte della EPIS non viene dunque offerto alcun elemento
che possa indurre a ritenere che una simile esigenza, nel
silenzio serbato al riguardo dal comma 21, possa integrare
un impedimento all’applicazione del meccanismo di estinzione
anticipata delineato dallo stesso comma.
Si rivela pertanto condivisibile la considerazione del primo
Giudice che “il mancato raggiungimento dello stesso (n.d.r.:
riequilibrio del sinallagma) a causa dell'imminente
cessazione del rapporto concessorio, se può rilevare in
termini di quantificazione del giusto indennizzo, non può,
però, precludere gli effetti voluti dal legislatore, come
già evidenziato più sopra.”
Questo anche in coerenza con una conclusione simile che la
Sezione ha già raggiunto con la decisione 11.08.2010, n.
5620, in cui occorreva del pari applicare una norma di legge
che comportava la cessazione anticipata di un analogo
affidamento, ed è stato osservato che quello del recupero
degli investimenti non ammortizzati in conseguenza della
risoluzione anticipata integrava un aspetto patrimoniale del
tutto autonomo, privo di incidenza sulla legittimità della
cessazione anticipata.
Come ha osservato la difesa comunale, in altre parole, “ogni
esigenza di riequilibrio economico-finanziario risulta nella
vicenda in esame assorbita dalla previsione contrattuale
dell’indennizzo, la cui quantificazione dovrà tenere conto
degli investimenti … non ammortizzati nel periodo pregresso
del rapporto gestorio.”
8b Dalla ricorrente viene inoltre nuovamente sottolineata la
modesta consistenza economica dell’affidamento in
controversia, che ne farebbe un quid irrilevante dal
punto di vista dell’ordinamento comunitario. Anche da questo
punto di vista emergerebbe l’impossibilità di giustificare
la cessazione anticipata della concessione con la sua
presunta non conformità all’ordinamento comunitario.
Si è però già esposto nei paragr. 5d e 6d come la tenuità
del valore del servizio della EPIS non possa assurgere a
motivo di deroga o esimente rispetto alla sua soggezione al
più volte citato comma 21: soluzione coerente, del resto,
anche con l’interpretazione giurisprudenziale che include
l’illuminazione votiva tra i servizi pubblici locali di
rilevanza economica anche in presenza di utili irrisori
(Sez. V, 23.10.2012, n. 5409).
8c L’appellante riprende anche l’assunto che il proprio
affidamento riguarderebbe una concessione di servizi a terzi
ai sensi del comma 5 dell’art. 30 d.lgs. n. 163/2006. Questa
precisazione definitoria non vale tuttavia in alcun modo a
superare le considerazioni che sono state svolte in
precedenza, nei paragr. 5b e segg., per illustrare come
anche il servizio per cui è causa venga in rilievo quale
servizio pubblico locale di rilevanza economica, e come tale
sia pertanto soggetto alla disciplina dei più volte citati
commi 20-21.
9 Con riferimento, infine, ai contenuti della memoria di
discussione di parte ricorrente s’impongono le seguenti
osservazioni conclusive.
Occorre ricordare che la ricorrente ha agito in giudizio al
fine di preservare il proprio affidamento nella durata
stabilita, ossia fino al 31.05.2030, da proroghe accordatele
a fronte degli investimenti da essa effettuati
sull’impianto; ha domandato l’accertamento del proprio
diritto a mantenere la concessione proprio al fine del
riequilibrio economico-finanziario del rapporto; è tornata a
lamentare anche in questo grado di giudizio che
l’Amministrazione non avrebbe tenuto conto della necessità
di assicurare il riequilibrio economico-finanziario degli
investimenti del concessionario.
Alla stregua di tanto, la stessa ricorrente non può dunque
ora, senza cadere in patente contraddizione, lamentarsi
dell’interpretazione data dal TAR ai commi 20-21 dell’art.
34 d.l. cit. sotto l’innovativo profilo che gli indennizzi
da corrispondere al concessionario colpito da una cessazione
anticipata del rapporto, all’opposto, annullerebbero il
rischio operativo voluto in capo al gestore dalla nuova
direttiva europea “Concessioni” n. 2014/23/UE, poiché
finirebbero per “attribuirgli oggi ciò che non sarebbe
stato sicuro di ottenere domani” (memoria cit., pag.
20).
La Sezione, di conseguenza, non può seguire le
sollecitazioni di parte a valorizzare le previsioni di tale
direttiva per addivenire a un’interpretazione dei commi più
volte citati diversa da quella prescelta.
Oltre tutto, la tematica degli indennizzi da riconoscere
alla ricorrente esorbita dalla presente controversia. E
questo è già sufficiente a disattendere anche l’ulteriore
argomento dell’EPIS per cui l’interpretazione normativa da
essa avversata “potrebbe” costituire un aiuto di
Stato per la ragione che “alle imprese concessionarie
come Epis s.r.l. non verrebbe solo attribuito un indennizzo
per l’esproprio degli impianti di illuminazione, ma si
dovrebbe necessariamente remunerare l’investimento
effettuato nel servizio”. Prospettazione che si
presenta, del resto, di ben dubbia conciliabilità con gli
interessi della stessa parte.
Ne consegue anche l’insussistenza dei presupposti per
rimettere alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il
quesito sulla non conformità al diritto europeo dei commi
20-22 dell’art. 34 del d.l. n. 179/2012, così come richiesto
dall’appellante nella memoria depositata il 05.06.2015. |
APPALTI SERVIZI:
La
concorrenza va garantita anche sui mezzi da usare. Tar
Genova. Limiti alla discrezionalità dell’appaltante.
Vìola i principi di libera concorrenza e parità
d’accesso delle imprese il bando di gara che obbliga la
ditta esecutrice dell’appalto a utilizzare solo i mezzi
estremamente costosi prodotti da un unico fornitore anziché
quelli «equivalenti» a prezzi più bassi.
L’ha stabilito il TAR Liguria, Sez. II, nella
sentenza 27.08.2015 n. 727, annullando un bando
di un servizio comunale di raccolta integrata di rifiuti.
Tra le contestazioni, la ricorrente aggiudicataria riteneva
che la gara violasse i dettami del Codice degli appalti
pubblici in tema di “specifiche tecniche” (articolo
68, Dlgs n. 163/2006) avendo prescritto l’uso esclusivo di
attrezzature robotizzate (presa bilaterale dall’alto) e
contenitori speciali venduti, come accertato, da un solo
produttore nazionale a prezzi doppi rispetto a quelli di
altre tecnologie accessibili sul mercato anche europeo e in
grado di svolgere lo stesso servizio.
Accogliendo il ricorso, il Tar ha chiarito che anche se «in
generale la stazione appaltante esercita una discrezionalità
tecnica nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento
di un appalto e più in generale nell’imposizione di
specifiche tecniche, tale discrezionalità incontra i limiti
di cui all’articolo 68, comma 2, Dlgs 163/2006».
Limiti costituiti «dal rispetto della parità di accesso
agli offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli
ingiustificati alla concorrenza», posto che tali “specifiche”,
in base alle stesse norme (comma 13, articolo 68), «non
possono menzionare una fabbricazione o provenienza
determinata o un procedimento particolare né far riferimento
a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a
una produzione specifica che avrebbero come effetto di
favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti».
Come affermato dal collegio, in tali casi la Pubblica
amministrazione appaltante deve «congruamente motivare le
ragioni dell’imposizione di simili specifiche tecniche»
e non limitarsi, come nel caso in esame, a giustificarla in
termini generali «dall’esigenza di operare anche nella
strade a senso unico e di riduzione e di ottimizzazione
degli spazi di occupazione del suolo pubblico».
In assenza di “idonee” motivazioni della Pa e poiché
nella fattispecie si è «dimostrato come la stessa
esigenza di razionalizzazione e di ottimizzazione degli
spazi potesse essere agevolmente perseguita anche mediante
l’utilizzo di altre attrezzature», i giudici hanno
quindi annullato il capitolato di gara per aver imposto «condizioni
eccessivamente onerose per la formulazione dell’offerta»
e concluso come «il prezzo particolarmente elevato dei
mezzi e delle attrezzature determina una significativa
restrizione delle possibilità concorrenziali» vietata
dal Codice appalti (articolo Il Sole 24 Ore del
10.09.2015).
---------------
MASSIMA
Alla luce delle evenienze successive allo svolgimento
della camera di consiglio il Collegio ritiene che il proprio
orientamento debba essere rimeditato.
Occorre premettere che in generale la
stazione appaltante esercita una discrezionalità tecnica
nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento di un
appalto e più in generale nell’imposizione di specifiche
tecniche. Peraltro tale discrezionalità tecnica incontra i
limiti di cui all’art. 68, comma 2, d.lgs. 163/2006
costituiti dal rispetto della parità di accesso agli
offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli
ingiustificati alla concorrenza.
L’imposizione di specifiche tecniche particolarmente gravose
e sproporzionate rispetto all’oggetto dell’appalto può
risolversi, infatti, in una lesione della concorrenza.
Nella specie è contestato l’art. 35 del capitolato di gara
che impone che il servizio sia effettuato mediante
l’utilizzo di 650 contenitori a carico bilaterale e due
mezzi robotizzati a carico bilaterale con presa verticale
dall’alto. Secondo la prospettazione della ricorrente tali
modalità sarebbero irragionevoli e lesive della concorrenza
in quanto tali attrezzature sono commercializzate in Italia
da una unica società la No.En. e avrebbero un costo
pressoché doppio rispetto ad analoghe attrezzature a presa
bilaterale senza presa verticale dall’alto.
Il motivo è fondato.
La ricorrente ha dimostrato tramite due successive perizie
(07.05.2015 e 11.06.2015) che le specifiche imposte dal
capitolato, in particolare presa bilaterale dall’alto
mediante processo robotizzato, possono essere soddisfatte
esclusivamente da un unico produttore presente sul mercato
italiano mentre sul mercato europeo sono presenti sistemi
che, tuttavia, non consentono la piena robotizzazione del
processo ovvero sono ancora a livello prototipale (perizia
07.05.2015).
Tale circostanza, in uno con il prezzo particolarmente
elevato dei mezzi e delle attrezzature determina una
significativa restrizione delle possibilità concorrenziali.
L’amministrazione, pertanto, avrebbe dovuto congruamente
motivare le ragioni dell’imposizione di simili specifiche
tecniche.
Le motivazioni rinvenibili a giustificazione di tale scelta
sono costituite dall’esigenza di operare anche nella strade
a senso unico (art. 35 del capitolato) e dall’esigenza di
riduzione e di ottimizzazione degli spazi di occupazione del
suolo pubblico (pag. 93 dell’allegato 2 al capitolato
speciale di gara).
La prima esigenza non appare idonea ad imporre una così
drastica limitazione della concorrenza in assenza di una
dimostrazione puntuale dell’impossibilità di una ubicazione
dei contenitori tale da rendere gli stessi movimentabili
mediante presa laterale.
Quanto alla seconda esigenza la ricorrente ha impugnato gli
atti presupposti di approvazione del progetto di esecuzione
del servizio e ha dimostrato come la stessa esigenza di
razionalizzazione di ottimizzazione degli spazi potesse
essere agevolmente perseguita anche mediante l’utilizzo di
altre attrezzature (perizia 11.06.2015) e che anzi l’impiego
di queste ultime consentirebbe una migliore ottimizzazione
degli spazi.
Tali affermazioni non sono state adeguatamente confutate
dalla resistente onde possono essere poste a fondamento
della decisione.
Pertanto gli atti di gara e i presupposti atti di
approvazione del progetto si appalesano affetti quantomeno
da un vizio di difetto di motivazione e devono essere
annullati. |
EDILIZIA PRIVATA: La difformità non osta alla sanatoria.
In linea generale la difformità dell'opera dalle previsioni
degli strumenti urbanistici non può ritenersi causa ostativa
al rilascio della sanatoria. Ciò accade solo qualora la
tipologia di utilizzazione dell'immobile che l'intervento ha
reso possibile sia incompatibile con le tipologie d'uso
ammesse dagli strumenti urbanistici in una determinata zona
venendo a compromettere la ripartizione funzionale operata
dal p.r.g..
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Toscana con la
sentenza
24.08.2015 n. 1182.
Nel caso sottoposto all'attenzione del tribunale
amministrativo Tizio aveva presentato al comune un'istanza
di sanatoria per la trasformazione di un annesso agricolo in
locali destinati a uso residenziale.
Il comune opponeva diniego alla predetta istanza sulla base
del presupposto che il regolamento urbanistico prevedrebbe
l'ammissibilità del cambio d'uso in zona agricola solo in
collegamento con abitazioni preesistenti con ciò presumendo
l'esistenza, solo in tal caso, di opere di urbanizzazione.
I giudici amministrativi fiorentini hanno, invece, osservato
che il regolamento urbanistico ammetteva che in zona
agricola accanto alle attività agricole potessero coesistere
civili abitazioni e attività ricettive, mentre poneva dei
limiti più stringenti per le destinazioni d'uso di tipo
commerciale.
Pertanto in base al predetto strumento urbanistico, la
realizzazione, anche mediante mutamento di destinazione
d'uso, di una civile abitazione non può considerarsi in
contrasto con le destinazioni d'uso ammesse in zona
agricola.
E a nulla rileverebbe il fatto che il medesimo regolamento
urbanistico preveda che gli annessi agricoli possano essere
trasformati in abitazioni solo se facenti parte del resede
di unità abitative esistenti.
Tale norma, infatti, detta una disciplina di dettaglio dei
singoli interventi e non attiene, invece, alla disciplina
tipologica delle destinazioni d'uso ammesse in zona agricola
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015).
---------------
MASSIMA
I ricorrenti hanno presentato al Comune di S. Giuliano
Terme una istanza di sanatoria ex L.R. 53/2004 per la
trasformazione di un annesso agricolo in locali destinati ad
uso residenziale.
Il comune di S. Giuliano termine ha opposto diniego alla
predetta istanza sulla base del presupposto che il
regolamento urbanistico prevedrebbe la ammissibilità del
cambio d’uso in zona agricola solo in collegamento con
abitazioni preesistenti con ciò presumendo l’esistenza, solo
in tal caso, di opere di urbanizzazione come da circolare
della Regione Toscana n. 1158/2004.
...
Il ricorso è fondato.
L’art. 1, comma 1, della L.R. 53 del 2004 ammette a
sanatoria gli interventi sottoposti a concessione edilizia
ai sensi della L. R. 52 del 1999 “anche se non conformi
agli strumenti urbanistici”.
Il comma 2 del medesimo articolo fra le condizioni ostative
al rilascio del condono include anche l’ipotesi in cui
l’intervento abusivo sia in contrasto con le destinazioni
d’uso ammesse, nella zona interessata, dagli strumenti
urbanistici vigenti.
Il combinato disposto delle due norme deve essere
interpretato in base al rapporto fra regola ed eccezione.
In linea generale la difformità dell’opera
dalle previsioni degli strumenti urbanistici non può
ritenersi causa ostativa al rilascio della sanatoria. Ciò
accade solo qualora la tipologia di utilizzazione
dell’immobile che l’intervento ha reso possibile sia
incompatibile con le tipologie d’uso ammesse dagli strumenti
urbanistici in una determinata zona venendo a compromettere
la ripartizione funzionale operata dal p.r.g..
Nel caso di specie l’art. 27 del regolamento urbanistico del
comune di S. Giuliano terme ammette che in zona agricola
accanto alle attività agricole possano coesistere civili
abitazioni e attività ricettive, mentre pone dei limiti più
stringenti per le destinazioni d’uso di tipo commerciale.
Sicché, in base al predetto strumento urbanistico, la
realizzazione, anche mediante mutamento di destinazione
d‘uso, di una civile abitazione non può considerarsi in
contrasto con le destinazioni d’uso ammesse in zona
agricola.
A nulla rileva il fatto che il medesimo regolamento
urbanistico preveda all’art. 29 che gli annessi agricoli
possano essere trasformati in abitazioni solo se facenti
parte del resede di unità abitative esistenti.
Tale norma, infatti, detta una disciplina di dettaglio dei
singoli interventi e non attiene, invece, alla disciplina
tipologica delle destinazioni d’uso ammesse in zona
agricola, l’unica che rileva ai sensi dell’art. 1 della L.R.
53 del 2004 per stabilire se la sanatoria può essere o meno
rilasciata.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto con assorbimento dei
restanti motivi. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Impugnazione impossibile per gli atti di diffida dell’ente.
Giustizia. Manca l’interesse perché l’atto non è
direttamente lesivo.
La mera
diffida dell’ente pubblico (locale) –nella fattispecie ad
eseguire alcuni lavori sulla rete fognaria asservita a un
condominio– non essendo atto immediatamente lesivo della
sfera giuridica del soggetto intimato non integra
l’interesse a ricorrere come invece accade nell’ipotesi, del
tutto diversa, dell’ordinanza amministrativa emanata
dall’ente.
Così si è pronunciata la V Sez. del Consiglio di
Stato nella
sentenza
20.08.2015 n. 3955.
La vicenda trae origine dal contenzioso attivato da un
condominio che aveva impugnato l’atto dell’ente locale, con
il quale gli era stato ordinato di effettuare alcuni lavori
necessari a eliminare le infiltrazioni d’acqua presenti nei
locali condominiali.
All’esito delle verifiche tecniche
disposte nel corso del primo grado si era poi accertato che
con ogni probabilità le infiltrazioni erano derivanti da un
area più ampia di quella presa in esame e comunque non
addebitabili a responsabilità del condominio ricorrente.
Contro la sentenza di primo grado –che aveva accolto il
ricorso- ha proposto appello l’ente locale sostenendo
l’inammissibilità del ricorso per difetto di lesività
dell’atto impugnato, in quanto recante una mera diffida.
La sezione ha invece rimarcato la fondatezza dell’appello
proposto, condividendo l’eccezione sollevata dal Comune
appellante circa l’inammissibilità del ricorso; così
evidenziando una sostanziale differenza, in termini di
presupposti per l’azione giudiziale, tra l’impugnazione di
una mera diffida (come nel caso in questione) o di
un’ordinanza contingibile e urgente.
Nel caso specifico, gli atti del Comune, considerati dal
condominio come immediatamente lesivi dell’interesse da
tutelare attraverso la proposizione del ricorso, facevano
riferimento a un fonogramma da parte degli uffici comunali
competenti diretto alla Polizia municipale con cui si
intimava di diffidare l’amministratore e i proprietari del
condominio a eseguire i lavori di cui sopra e a un
successivo verbale con cui la Polizia municipale diffidava
il condominio a eseguire le opere.
Sia il primo atto (interno tra uffici amministrativi) sia il
secondo, costituente la formale diffida, non sono
considerabili come un’ordinanza contingibile ed urgente,
tanto più che il primo atto doveva intendersi come atto
interno tra due diversi uffici comunque riconducibili al
Comune.
La mera diffida non può pertanto essere equiparata
all’ordinanza sindacale disciplinata dall’articolo 54 del
Testo unico degli enti locali, il quale prevede, tra le
competenze del sindaco, anche quella di emanare
provvedimenti «contingibili ed urgenti, al fine di prevenire
e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana».
Ciò che rileva, pertanto, è
la diretta lesività dell’atto, che nella fattispecie non
sussiste quanto alla lettera di diffida impugnata. (si veda
anche Consiglio di Stato, n. 1206/2015), che peraltro
difetta anche dei requisiti di «provenienza e motivazione»
(propri dell’ordinanza sindacale) dell’atto impugnato.
Non può soccorrere le ragioni del condominio il mero
richiamo all’articolo 54 del Tuel contenuto nell’atto
interno tra i due uffici amministrativi, trattandosi di
riferimento semmai da intendere in prospettiva prodromica di
ulteriori e diverse iniziative dell’ente.
Ne consegue che
avverso atti –quali la diffida e l’atto interno ad essa
allegato come nella vicenda esaminata– in quanto atti del
tutto preliminari (e preparatori di possibili ulteriori
atti del Comune) non lesivi della sfera giuridica del
soggetto intimato, risulta inammissibile qualunque ricorso
giurisdizionale (articolo Il Sole 24 Ore del
07.09.2015).
---------------
MASSIMA
4 L’appello è fondato.
Merita adesione, infatti, l’eccezione comunale, trascurata
dal TAR ma riproposta in questo grado, di inammissibilità
dell’originario ricorso del Condominio per difetto di
lesività dell’atto impugnato, in quanto recante una mera
diffida e non già un’ordinanza contingibile e urgente.
4a Gli atti complessivamente assunti nella vicenda dal
Comune di Napoli sono stati a ben vedere due, vale a dire:
- l’atto n. 3056 del 05.06.2003, ossia un fonogramma diretto
dal Servizio sicurezza abitativa al Servizio di Polizia
municipale, con il quale il primo incaricava il secondo di
diffidare amministratore e proprietari del Condominio a
eseguire a vista le opere di assicurazione dei dissesti
accertati e le verifiche degli impianti idrici e fognari
privati;
- il verbale di diffida del successivo 07.06.2003, con il
quale la Polizia municipale dava seguito al fonogramma
diffidando, appunto, il Condominio a eseguire gli interventi
appena detti, e consegnando nell’occasione una copia della
precedente nota n. 3056/2003.
4b Per quanto appena detto, la Sezione deve escludere che
quest’ultimo atto integrasse un’ordinanza contingibile e
urgente. La nota n. 3056/2003 non era
diretta al Condominio, ma aveva quale unico destinatario la
Polizia municipale: era, quindi, un semplice atto interno,
con il quale i Vigili urbani erano stati incaricati
solamente di “diffidare” il Condominio a eseguire le
opere e verifiche indicate. E la Polizia municipale, dal
canto suo, si è limitata a dare seguito alla richiesta
pervenutale dal Servizio sicurezza abitativa, formulando la
diffida in conformità allo schema ricevuto.
4c Risulta pertanto fondata l’eccezione con
la quale la difesa comunale ha fatto notare che il ricorso
proposto in primo grado dal Condominio non era stato
esperito avverso un’ordinanza sindacale assunta ai sensi
dell’art. 54 T.U.EE.LL., bensì contro una mera diffida a
eseguire le opere di assicurazione ritenute necessarie, e
perciò contro un atto non lesivo
(cfr. da ultimo C.d.S., IV, 10.03.2015, n. 1206).
Il ricorso del Condominio a base di tutti i propri motivi
poneva l’erronea qualificazione come “ordinanza
contingibile e urgente” della nota n. 3056, che si è
però appena visto costituire solo un atto interno (del
resto, dagli stessi motivi dell’originario gravame si
desumeva che la nota non possedeva, dell’ordinanza extra
ordinem, né la provenienza, né la motivazione).
Se è vero, inoltre, che la nota n. 3056 recava un
riferimento all’art. 54 T.U. cit., non è meno vero,
tuttavia, che tale richiamo, per il contesto in cui
s’inquadrava, si giustificava unicamente in una prospettiva
prodromica, dal momento che la diffida in questione aveva,
appunto, una valenza (soltanto) preparatoria rispetto ad una
futura ed eventuale ordinanza contingibile e urgente.
Per quanto precede, l’impugnativa condominiale aveva dunque
complessivamente investito atti di natura soltanto
preliminare rispetto alla successiva ordinanza sindacale,
aventi quale scopo quello di promuovere un adempimento
spontaneo del diffidato, mediante la rimozione da parte sua
delle cause del pericolo emerso.
L’atto impugnato non era allora immediatamente lesivo della
sfera giuridica del Condominio, in quanto integrava un mero
atto preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto
all’adozione della successiva ordinanza contingibile e
urgente, la quale sarebbe seguita solo in caso
d’inosservanza spontanea della diffida.
Né si può ovviare alla carenza del requisito della lesività
dell’atto impugnato richiamandosi, come ha fatto la difesa
condominiale, alla piena possibilità di un interesse a
ricorrere anche solo di tipo strumentale. Anche la mera
utilità consistente nel “rimettere in discussione” il
rapporto controverso in vista di un nuovo esercizio del
potere amministrativo presuppone, infatti, che in origine un
atto amministrativo lesivo sia stato emesso, e vale
unicamente a denotare che il relativo annullamento
giurisdizionale non deve necessariamente essere subito
satisfattivo del bene della vita perseguito da chi ricorre.
4d Stante la mancanza di lesività dell’atto impugnato il
ricorso di primo grado risulta, quindi, integralmente
inammissibile. Conseguentemente non vi è ragione per
esaminare i motivi assorbiti dal primo giudice, riproposti
dal Condominio appellato.
5 Per le ragioni esposte l’appello deve essere accolto, in
virtù della fondatezza del suo primo, assorbente mezzo.
Il ricorso di primo grado va pertanto dichiarato
inammissibile. |
LAVORI PUBBLICI: Progettista, non contraente.
Il principio ribadito dal Tar Piemonte.
Negli appalti integrati di lavori, i progettisti indicati
non assumono la qualità di concorrenti (poi contraenti) e
non sono tenuti alla dimostrazione dei requisiti e agli
adempimenti prescritti dalla normativa vigente per i
raggruppamenti temporanei.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Piemonte, con la
sentenza
14.08.2015 n. 1335.
Nella medesima sentenza in commento, i giudici
amministrativi torinesi hanno poi citato una recentissima
determinazione dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac,
determinazione 08.01.2015 n. 1) secondo cui: «( )
l'obbligo dichiarativo in ordine alle quote di
partecipazione al Rti non sussiste più per i servizi e le
forniture ma permane esclusivamente per i lavori, in forza
del novellato art. 92 del decreto del presidente della
repubblica n. 207/2010 (così come modificato dall'art. 12,
comma 9, della legge da ultimo citata). L'omissione di tale
tipo di dichiarazione o eventuali carenze e/o incompletezza
della stessa si ritiene che possano essere sanate, dietro
pagamento della prevista sanzione».
Pertanto, per i raggruppamenti temporanei, l'omessa
indicazione delle quote di partecipazione ed esecuzione
risulta ormai sanabile, sulla base di quanto previsto dagli
artt. 38 e 46 del codice (nel testo successivo alle
modifiche apportate dal dl n. 90 del 2014, temporalmente
applicabile al procedimento in esame).
E secondo il tribunale amministrativo piemontese anche per i
raggruppamenti temporanei non ancora costituiti, deve
giungersi a uguale conclusione, ma come è ovvio nell'ipotesi
di omessa allegazione dell'atto di impegno di cui all'art.
37, ottavo comma, del codice.
Si tratta, infatti, sottolineano i giudici, «di
dichiarazione “essenziale” prescritta da una specifica norma
di legge che, proprio come tale, rientra nell'ampio spettro
delle incompletezze documentali suscettibili di sanatoria
con le modalità stabilite dall'art. 46, comma 1-ter, del
Codice»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
2.1. Con il primo motivo, la società ricorrente afferma
che all’aggiudicataria sarebbe stato illegittimamente
concesso di integrare talune dichiarazioni essenziali, con
il pagamento della sanzione pecuniaria prevista dagli artt.
38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del Codice dei contratti
pubblici.
In particolare, il soccorso istruttorio avrebbe consentito
di regolarizzare la posizione del raggruppamento di
professionisti indicati dall’a.t.i. C.S. Costruzioni s.r.l.
per l’attività di progettazione, per il quale non erano
stati prodotti l’atto di impegno a conferire mandato
collettivo speciale al capogruppo e la dichiarazione delle
parti di prestazioni che ciascun professionista associato
avrebbe eseguito.
Il motivo è infondato.
Per i raggruppamenti temporanei, l’omessa
indicazione delle quote di partecipazione ed esecuzione
risulta ormai sanabile, sulla base di quanto previsto dagli
artt. 38 e 46 del Codice
(nel testo successivo alle modifiche apportate dal d.l. n.
90 del 2014, temporalmente applicabile al procedimento in
esame).
In questo senso si è già espressa l’Autorità nazionale
anticorruzione, affermando: “(…) Allo
stato attuale, tenuto conto sia delle modifiche introdotte
al comma 13 del citato art. 37, ad opera del decreto-legge
06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, n. 135 -che aveva limitato ai soli lavori
la corrispondenza tra la quota di partecipazione al RTI e la
quota di esecuzione- ma soprattutto dell’intervenuta
abrogazione dell’intero comma, ad opera del decreto-legge
28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla
legge 23.05.2014, n. 80, le indicazioni sopra richiamate
devono ritenersi in parte superate. Infatti, l’obbligo
dichiarativo in ordine alle quote di partecipazione al RTI
non sussiste più per i servizi e le forniture ma permane
esclusivamente per i lavori, in forza del novellato art. 92
del decreto del Presidente della Repubblica n. 207/2010
(così come modificato dall’art. 12, comma 9, della legge da
ultimo citata). L’omissione di tale tipo di dichiarazione o
eventuali carenze e/o incompletezza della stessa si ritiene
che possano essere sanate, dietro pagamento della prevista
sanzione”
(cfr. Anac, determinazione 08.01.2015 n. 1).
Ad uguale conclusione deve giungersi, per i
raggruppamenti temporanei non ancora costituiti,
nell’ipotesi di omessa allegazione dell’atto di impegno di
cui all’art. 37, ottavo comma, del Codice. Si tratta,
infatti, di dichiarazione “essenziale” prescritta da
una specifica norma di legge che, proprio come tale, rientra
nell’ampio spettro delle incompletezze documentali
suscettibili di sanatoria con le modalità stabilite
dall’art. 46, comma 1-ter, del Codice.
2.2. E’ infondato anche il secondo motivo, con cui la
ricorrente lamenta che il raggruppamento di progettisti
indicato dall’aggiudicataria non avrebbe i requisiti di
capacità previsti dall’art. 12.2 del disciplinare di gara. A
suo dire: il capogruppo ing. To. non possiederebbe in misura
maggioritaria i requisiti attinenti al “fatturato”,
ai “servizi” ed al “personale”; il mandante
ing. Be. non concorrerebbe in alcun modo al requisito dei “servizi”.
Ciò integrerebbe la violazione della lex specialis di
gara e del principio sancito, per i raggruppamenti
temporanei di professionisti, dall’art. 261, settimo comma,
del d.P.R. n. 207 del 2010, per il quale il mandatario
possiede in ogni caso i requisiti di qualificazione in
misura percentuale superiore rispetto a ciascun mandante.
In contrario, deve convenirsi con le argomentazioni
difensive di S.C.R. e della controinteressata.
L’art. 261 del Regolamento e tutte le restanti disposizioni
invocate dalla ricorrente si riferiscono ai soggetti che
presentano l’offerta in associazione temporanea e che
assumono la qualifica di concorrenti (prima) e di contraenti
(poi, in caso di aggiudicazione) con la stazione appaltante.
Nella specie, l’a.t.i. costituenda è formata dalla C.S.
Costruzioni s.r.l. (capogruppo) e dalla C.I.E.T. Impianti
s.r.l. (mandante).
Il raggruppamento di professionisti è stato invece indicato
per l’attività di progettazione, a norma dell’art. 53, terzo
comma, del Codice, senza entrare a comporre l’a.t.i.
aggiudicataria. Secondo la norma richiamata,
quando il contratto ha per oggetto anche la
progettazione “gli operatori economici devono possedere i
requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di
progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o
partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per
la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per
i progettisti, secondo quanto previsto dal capo IV del
presente titolo (progettazione e concorsi di progettazione),
e l’ammontare delle spese di progettazione comprese
nell’importo a base del contratto”.
Negli appalti integrati di lavori, i
progettisti indicati non assumono la qualità di concorrenti
(poi contraenti) e non sono tenuti alla dimostrazione dei
requisiti ed agli adempimenti prescritti dalla normativa
vigente per i raggruppamenti temporanei
(cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 04.06.2015 n. 2737;
Id., sez. IV, 19.03.2015 n. 1425; Id., sez. VI, 21.05.2014
n. 2622; Avcp, determinazione 15.01.2014 n. 1; Id., parere
22.05.2013 n. 91).
Le regole sulla conformazione interna dei
raggruppamenti e sulla qualificazione in misura
maggioritaria del progettista capogruppo, ai sensi dell’art.
261, settimo comma, del Regolamento, risultano direttamente
applicabili soltanto ai veri e propri raggruppamenti
temporanei di progettisti e non possono essere estese in
modo cogente alle ipotesi in cui la concorrente si avvalga,
per l’appalto integrato, di uno staff di progettisti
indicati in sede di offerta, ai quali non può imporsi il
rispetto di determinate forme organizzative
(cfr. su questione analoga: Cons. Stato, sez. VI, 14.07.2014
n. 3663).
Ciò perché la ratio del precetto
risiede nell’esigenza di assicurare all’amministrazione che
il soggetto capogruppo del raggruppamento temporaneo
contraente sia, in concreto, quello più qualificato in
rapporto all’oggetto dell’appalto. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
versamento di oneri di urbanizzazione riferibile ad opere
assentite ma non realizzate diventa rimborsabile nel momento
in cui matura la certezza che le opere stesse non saranno
più realizzate e si può concordare sul fatto che, in linea
di principio, in mancanza di un espresso atto di rinuncia
alla realizzazione delle opere da parte dell’interessato,
tale momento si può e si deve far coincidere con la scadenza
del termine di efficacia del titolo edilizio -dovendosi in
tal caso qualificare l’eventuale richiesta di rinnovo del
titolo, presentata dopo la scadenza di esso, quale atto
giuridico che fa rivivere l’obbligo del pagamento degli
oneri di urbanizzazione e che pertanto legittima
l’amministrazione comunale a ritenere quelli già percepiti e
riferibili alle opere assentite (nuovamente) in sede di
rinnovo del titolo edilizio.
Anche in giurisprudenza è già stato affermato che il diritto
al rimborso di oneri di urbanizzazione versati in relazione
ad opere mai iniziate può essere fatto valere dalla scadenza
del termine annuale entro il quale i lavori devono avere
inizio, e tale affermazione deve appunto correlarsi al
principio per cui il mancato inizio dei lavori entro l’anno
dal rilascio del permesso di costruire comporta la perdita
di efficacia del medesimo.
Mutatis mutandis alla medesima conclusione si deve pervenire
laddove le opere, benché iniziate tempestivamente, non siano
ultimate entro il triennio.
17.1.4. Si deve a questo punto rilevare che il versamento di
oneri di urbanizzazione riferibile ad opere assentite ma non
realizzate diventa rimborsabile nel momento in cui matura la
certezza che le opere stesse non saranno più realizzate e si
può concordare sul fatto che, in linea di principio, in
mancanza di un espresso atto di rinuncia alla realizzazione
delle opere da parte dell’interessato, tale momento si può e
si deve far coincidere con la scadenza del termine di
efficacia del titolo edilizio -dovendosi in tal caso
qualificare l’eventuale richiesta di rinnovo del titolo,
presentata dopo la scadenza di esso, quale atto giuridico
che fa rivivere l’obbligo del pagamento degli oneri di
urbanizzazione e che pertanto legittima l’amministrazione
comunale a ritenere quelli già percepiti e riferibili alle
opere assentite (nuovamente) in sede di rinnovo del titolo
edilizio-: anche in giurisprudenza è già stato affermato che
il diritto al rimborso di oneri di urbanizzazione versati in
relazione ad opere mai iniziate può essere fatto valere
dalla scadenza del termine annuale entro il quale i lavori
devono avere inizio (TAR Bologna, sez. II, n. 489/2013), e
tale affermazione deve appunto correlarsi al principio per
cui il mancato inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio
del permesso di costruire comporta la perdita di efficacia
del medesimo.
Mutatis mutandis alla medesima conclusione si deve
pervenire laddove le opere, benché iniziate tempestivamente,
non siano ultimate entro il triennio
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 14.08.2015 n. 1327 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Fabbricati D, rendite retroattive.
Vale la richiesta di accatastamento e non l'attribuzione.
Un sentenza della Corte di cassazione sul calcolo dell'Ici.
Stessa regola per Imu e Tasi.
Per i fabbricati delle imprese, l'Ici deve essere calcolata
sul valore risultante dalle scritture contabili fino alla
richiesta di accatastamento e non già fino all'attribuzione
della rendita catastale. Dal momento in cui viene presentata
l'istanza, il titolare del fabbricato ha diritto a
quantificare l'imposta sul valore catastale e se ha pagato
più del dovuto in base al valore contabile ha diritto al
rimborso. La stessa regola vale per l'Imu e Tasi.
È quanto
ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
12.08.2015 n. 16742.
Le imprese, dunque, devono pagare l'Ici sul valore
contabile fino alla richiesta di accatastamento dei
fabbricati iscritti nella categoria «D» e non fino
all'attribuzione della rendita catastale. Quindi, durante il
periodo che va dall'istanza di accatastamento all'emanazione
del provvedimento attributivo della rendita catastale, se
l'impresa ha pagato più del dovuto ha diritto al rimborso
dell'imposta.
Con la pronuncia in esame i giudici di
legittimità ribadiscono il principio in base al quale il
metodo di determinazione della base imponibile collegato
alle iscrizioni contabili per i fabbricati classificabili
nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, interamente
posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, fino
all'anno nel quale i medesimi sono iscritti in catasto con
attribuzione di rendita, «vale sino a che la richiesta di
attribuzione della rendita non viene formulata, mentre, dal
momento in cui fa la richiesta, il proprietario, pur
applicando ormai in via precaria il metodo contabile,
diventa titolare di una situazione giuridica nuova derivante
dall'adesione al sistema generale della rendita catastale,
sicché può essere tenuto a pagare una somma maggiore (ove
intervenga un accertamento in tali sensi), o avere diritto
di pagare una somma minore, potendo, quindi, chiedere il
relativo rimborso nei termini di legge».
La rendita
catastale retroagisce ai fini del calcolo dell'Ici, ma lo
stesso vale per Imu e Tasi, alla data dell'istanza di
accatastamento.
L'orientamento della giurisprudenza. In passato non era
stata univoca la posizione della giurisprudenza, sia di
legittimità che di merito, sugli effetti che produce la
rendita catastale. E cioè se una volta attribuita ai
fabbricati di categoria D avesse carattere costitutivo o
dichiarativo, e quindi retroattivo.
Ormai da diversi anni si
è formato sulla materia un consolidato orientamento della
Cassazione, la quale ha fissato la regola che il
provvedimento di attribuzione della rendita catastale ha
natura dichiarativa e non costitutiva, con efficacia
retroattiva e applicazione anche ai periodi precedenti, fino
all'epoca della presentazione dell'istanza di
accatastamento.
È stato, infatti, riconosciuto il diritto a
richiedere il rimborso dell'imposta versata sulla base delle
scritture contabili, sin dal momento in cui i contribuenti
hanno fatto l'istanza di accatastamento. Sulla questione
sono intervenute anche le sezioni unite (sent. 3160/2011).
I
giudici di piazza Cavour hanno ritenuto che dalla data della
richiesta di accatastamento da parte del proprietario la
base imponibile dell'immobile deve essere determinata
attraverso la capitalizzazione della rendita attribuita e se
questa comporta un esborso del tributo inferiore a quello
calcolato sul valore contabile, sorge per il
proprietario-contribuente il diritto a ottenere il rimborso
di quanto versato in eccesso entro il termine di decadenza
quinquennale fissato dalla legge.
Per i fabbricati posseduti
delle imprese classificabili nella categoria D, infatti,
l'imposta si paga sul valore contabile, fino a quando non
viene richiesto l'accatastamento, e la base imponibile è
costituita dai costi di acquisizione e incrementativi
contabilizzati, ai quali vanno applicati dei coefficienti
stabiliti annualmente con decreto del ministro delle
finanze. Le regole su questi immobili, a destinazione
speciale, sono contenute nell'art. 5, c. 3, del dlgs
504/1992.
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Rilevano anche i macchinari imbullonati.
Anche i macchinari imbullonati concorrono alla
determinazione della rendita per i fabbricati iscritti nel
gruppo catastale «D».
Lo ha stabilito la Sez. tributaria
della Corte di Cassazione, con la
sentenza 18.02.2015 n. 3166, che ha richiamato le disposizioni contenute
nella legge di stabilità 2015 (190/2014) sui criteri di
calcolo della rendita catastale degli immobili a
destinazione industriale.
Nella stima rientrano il
carroponte e tutte le componenti impiantistiche che
assicurano all'unità immobiliare un'autonomia funzionale e
reddituale. Quindi, di fatto, anche i macchinari sono
soggetti a imposizione fiscale e al pagamento di Ici, Imu e
Tasi.
Secondo la Cassazione, in virtù della combinazione della
normativa fiscale e di quella codicistica, tutte le
componenti che contribuiscono in via ordinaria ad assicurare
a un immobile una specifica autonomia funzionale e
reddituale, stabile nel tempo, sono da considerare elementi
idonei a descrivere l'unità stessa e incidono sulla
quantificazione della relativa rendita catastale.
Ciò trova
conferma anche nella norma d'interpretazione autentica
contenuta nell'articolo 1, comma 244, della legge 190/2014.
Concorrono, dunque, alla determinazione della rendita
catastale un complesso di elementi, ritenuti funzionalmente
collegati, costituiti da impianti, macchine, generatori di
corrente e relativi motori.
Con il recente intervento normativo, che proprio in questi
giorni viene messo in discussione, il legislatore ha
indicato le modalità tecnico-estimative per la
determinazione della rendita catastale delle unità
immobiliari destinate alle attività industriali. Il citato
articolo 1, comma 244, ha stabilito, dopo un acceso
dibattito politico sul riconoscimento dell'esenzione Imu per
queste tipologie di immobili, che nelle more dell'attuazione
delle disposizioni relative alla revisione della disciplina
del sistema estimativo del catasto dei fabbricati,
l'articolo 10 del regio decreto legge 652/1939 si applica in
base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con
la circolare 6/2012.
Con questa circolare sono state dettate le linee guida per
individuare e valutare le componenti impiantistiche aventi
rilevanza catastale. Tuttavia, per l'Agenzia gli impianti
che devono essere valutati per il calcolo della rendita
hanno carattere esemplificativo, poiché gli immobili a uso
produttivo sono caratterizzati da una costante evoluzione
tipologica e tecnologica
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015). |
APPALTI:
No passoe,
no multa.
Per malfunzionamento informatico.
La mancata produzione del «passoe» in una procedura di
appalto pubblico non costituisce una carenza documentale
essenziale assoggettabile sanzioni.
È quanto afferma il TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis, con
la
sentenza
07.08.2015 n. 10753 che prende in
considerazione gli effetti della mancata produzione in fase
di gara del cosiddetto «passoe», previsto nell'ambito della
procedura di verifica dei requisiti nelle gare di appalto
pubbliche di cui al sistema Avcpass gestito dall'Autorità
nazionale anticorruzione.
La materia è disciplinata dall' articolo 6-bis, comma 1, del
codice dei contratti pubblici il quale, dal 01.01.2013,
impone alle stazioni appaltanti di effettuare la verifica
sul possesso dei requisiti «esclusivamente» tramite la Bdncp
e il sistema Avcpass che negli anni scorsi l'Autorità ha
messo a punto.
Si tratta di un sistema informatico che permette alle
stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori di accedere,
attraverso un'interfaccia web e le cooperazioni applicative
con gli enti certificanti, ai documenti posti a comprova
delle dichiarazioni fornite dai concorrenti. Nel caso
specifico si era però verificato un malfunzionamento del
sistema, cosa non infrequente, che aveva determinato la
mancata produzione del «passoe» da parte di un concorrente.
I giudici affermano che il sistema si sostanzia in una
«liberatoria ai fini della privacy» e che, in caso di
impossibilità a generare il «passoe», si può
ragionevolmente ritenere che si tratta di una carenza
documentale «indispensabile» ai fini della verifica del
requisito, ma non «essenziale» (quindi non soggetta ad
alcuna sanzione)».
Nel caso esaminato dal Tar, peraltro, in base alla lex
specialis, non rientrava, tra i documenti richiesti ai
concorrenti per comprovare il possesso dei criteri di
partecipazione alla gara, anche il «passoe». Il
disciplinare, infatti, ha imposto a pena di esclusione
soltanto la produzione delle consuete dichiarazioni ex dpr
445/2000 e dei documenti richiesti dagli articoli 38 e
seguenti del codice dei contratti pubblici.
Ma, se il sistema Avcpass non funziona, la stazione
appaltante non può escludere il concorrente o applicare le
sanzioni previste dal meccanismo del cosiddetto «soccorso
istruttorio»
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
1). Con il primo motivo l’istante richiama l’art. 6-bis,
comma 1, DLGS 163/2006, e sostiene che ha prodotto l’intera
documentazione comprovante i requisiti secondo le precise
modalità prescritte dal disciplinare a pena di esclusione
(artt. 6 e 8) tra le quali non rientra il PASSOE; dunque, è
illegittima l’esclusione dalla gara per il mancato invio
fuori termine del PASSOE.
2). Con il secondo motivo si lamenta che l’allegazione del
PASSOE non era imposta dalla lex specialis di gara ma
risulta il frutto di una postuma integrazione della stessa
lex specialis ad opera della Commissione.
3). Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, altresì, che
la Commissione ha censurato l’inoltro del documento (quanto
alle due consorziate del CNS) oltre il termine del
21.12.2014 fissato dalla stessa Commissione e qualificato
come perentorio.
Nella specie, l’ultimo documento PASSOE è stato trasmesso
dal CNS il 21.01.2015 e la richiesta dello stesso è del
05.12.2014.
4). Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, si precisa che
la richiesta del PASSOE anche per le due consorziate non è
di per sé legittima in quanto la produzione dello stesso
documento ad opera del Consorzio CNS deve ritenersi
esaustiva. Si richiama, sul punto, il disciplinare di gara
all’art. 6 che prevede che: in caso di raggruppamento di
concorrenti, i requisiti di cui ai precedenti 1 e 2 devono
ritenersi posseduti almeno dalla mandataria ovvero dal
consorzio o dall’impresa consorziata.
I). Occorre, in via preliminare, richiamare la normativa in
materia.
L’art. 6-bis, comma 1, del decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163 dispone che, dal 01.01.2013, la documentazione
comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale,
tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la
partecipazione alle procedure disciplinate dal Codice sia
acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti
pubblici (di seguito “BDNCP”), istituita presso l’Autorità
per la Vigilanza sui Contratti Pubblici.
Lo stesso articolo, al comma 3, primo periodo del Codice
prevede che la verifica sia effettuata esclusivamente
tramite la BDNCP.
Allo stesso comma, secondo periodo, del Codice si stabilisce
che -ove la disciplina di gara richieda il possesso di
requisiti economico-finanziari o tecnico-organizzativi
diversi da quelli di cui è prevista l'inclusione nella
BDNCP- il possesso di tali requisiti è verificato mediante
l'applicazione delle disposizioni previste dal Codice e dal
DPR n. 207/2010.
II). Tanto premesso, nel merito il ricorso è fondato.
In linea generale, si rammenta che
il
PASSOE si sostanzia in una liberatoria ai fini della
privacy, che permette alle stazioni appaltanti e agli enti
aggiudicatori di utilizzare il sistema per accedere,
attraverso un'interfaccia web e le cooperazioni applicative
con gli enti certificanti, ai documenti posti a comprova
delle dichiarazioni del concorrente.
Tuttavia, nella gara sottoposta
all’attenzione del Collegio, sono emersi dei
malfunzionamenti del sistema e la conseguente impossibilità
di ottenere il PASSOE.
Al riguardo, si può ragionevolmente ritenere che si tratta
di una carenza documentale “indispensabile” ai fini
della verifica del requisito, ma non “essenziale”
(quindi non soggetta ad alcuna sanzione).
Il Comune –in relazione alla cronologia dei fatti- chiarisce
che :
a). in data 01.12.2014, come da verbale n. 1, emergeva l’assenza
dei riferimenti alla procedura AVCPASS per la verifica dei
requisiti dei partecipanti ex art. 6-bis DLGS 163/2006;
b). la Commissione deliberava di assegnare a tutti i partecipanti
un termine perentorio di giorni 15 per la presentazione
della suindicata documentazione; a pena di esclusione;
c). in data 04.12.2014, come da verbale n. 2, veniva comunicato a
tutti i partecipanti come fosse emersa la presenza di una
unica registrazione di PASSOE a fronte delle sette offerte
pervenute;
d). in data 09.12.2014 la stazione appaltante comunicava a tutti i
partecipanti la richiesta del PASSOE da acquisire presso l’AVCP;
e). in data 23.12.2014, come da verbale n. 3, la Commissione
rendeva noto ai presenti che -entro il termine perentorio
(21.12.2014)- erano pervenute le richieste documentazioni;
veniva però evidenziata la mancata produzione del documento
da parte delle consorziate esecutrici della costituenda RTI
CNS del servizio nella misura del 50% cadauna della
consorziata COOP Cooplat e della COOP 29 giugno.
Il Collegio condivide le argomentazioni del ricorso:
a). sono condivisibili il primo e secondo motivo di doglianza in
quanto, in base alla lex specialis, non rientra –tra
i documenti richiesti ai concorrenti per comprovare il
possesso dei criteri di partecipazione alla gara– anche il
PASSOE.
Il disciplinare, infatti, ha imposto a pena di esclusione
soltanto la produzione delle consuete dichiarazioni ex DPR
445/2000 e dei documenti richiesti dagli artt. 38 e ss. DLGS
163/2006;
b). è poi condivisibile il quarto motivo di ricorso.
Come sostenuto dalla ricorrente la produzione del PASSOE ad
opera del Consorzio CNS (oltre che della mandante Paoletti)
deve ritenersi esaustiva senza che al riguardo possa opporsi
la necessità del PASSOE anche per le due consorziate del CNS
(COOP Cooplat e della COOP 29 giugno);
c). nella legge (cfr., citato art. 6-bis) e nel bando <non>
è detto che spetta ai concorrenti l’onere di produzione del
PASSOE a pena di esclusione dalla gara;
d). si condivide, infine, anche il terzo motivo di ricorso circa la
non ragionevole imposizione di un termine perentorio.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per
l’effetto, sono annullati gli atti impugnati.
Deve essere invece respinta la domanda di risarcimento del
danno da perdita di chance in quanto –nelle more del
presente giudizio– il Comune di Cerveteri ha comunque
riammesso l’istante alla gara in oggetto. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio osserva che è pienamente condivisibile il generale
principio secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali
a soddisfare esigenze permanenti, debbano essere considerati
come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con sicuro
incremento del carico urbanistico, non rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l’assenza di opere murarie, poiché il manufatto
precario (es.: gazebo o chiosco) non sarebbe più deputato ad
un suo uso per fini contingenti, ma sarebbe destinato ad
utilizzo che viene reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Tale principio generale, al quale si conforma la
giurisprudenza, non può essere tuttavia pedissequamente
applicato in presenza di normativa speciale e derogatoria di
rango regionale che, in relazione a specifiche esigenze del
territorio, in modo non irragionevole né illegittimo, sotto
il profilo del riparto di competenze legislative (né,
invero, ciò ha sostenuto il primo giudice), ha ritenuto di
esentare dalla necessità del titolo edilizio i manufatti
precari rientranti nelle dette classificazioni.
La possibilità che la normativa regionale nella detta
materia preveda un regime più permissivo di quello previsto
dal legislatore nazionale, con possibile esenzione dal
titolo edilizio, è agevolmente riscontrabile, anche nella
giurisprudenza di questo Consesso.
La collocazione di strutture mobili sarebbe, in astratto,
definibile come “nuova costruzione” ai sensi e per gli
effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (T.U. edilizio); la disposizione
specifica dettagliatamente le caratteristiche
dell’intervento, qualificabile come nuova costruzione, con
riferimento, al punto e.5), alla installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro,
oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Tale disposizione, tuttavia, in relazione ai c.d.
preingressi, come sopra descritti, va coordinata con le
disposizioni regionali che, per le peculiari esigenze di
un’area destinata a campeggio o “strutture ricettive
all’aria aperta” prevedano regole differenti, anche più
favorevoli.
---------------
Nella fattispecie in esame, è da escludere l’abuso edilizio
–essendo a monte esclusa la necessità di acquisire il titolo
abilitativo edilizio sotto forma di concessione o
autorizzazione per i preingressi– per i manufatti come
indicati dalla legge regionale (e dalla legge regionale
successiva e dal regolamento attuativo).
Né può costituire valido argomento in contrario la
valutazione di “permanenza” e non precarietà di opere come i
c.d. preingressi, seppure utilizzate soltanto in un periodo
stagionale (da aprile a settembre o comunque durante le
vacanze estive), in quanto la legge regionale non pretende
in modo letterale (e ciò sarebbe in vero irragionevole e
dispendioso) che tali opere siano rimosse ogni volta per
essere successivamente reinstallate.
Sotto tale profilo, rileva l’accertamento, in punto di
fatto, della corrispondenza del manufatto a quanto previsto
e consentito dalla legge regionale come attività libera,
della precarietà strutturale del manufatto, della
rimovibilità della struttura, dell’assenza di opere murarie.
Naturalmente, quindi, è fatta salva l’attività di vigilanza
dell’amministrazione comunale, in relazione alla circostanza
che le opere in questione, e in particolare i preingressi,
rientrino pienamente nelle previsioni della legge regionale
e non si concretino in qualcosa di diverso (per esempio,
reali nuove costruzioni, strutture permanenti o di materiale
diverso).
L’appello è fondato.
L’art. 5 della legge regionale 04.03.1982 n. 11, sotto la
vigenza della quale, in modo incontestato, sono stati
realizzati i manufatti e le opere in questione, prevede che
essi non siano soggetti a concessioni o autorizzazioni
edilizie.
Il comma 3 di tale articolo prevede che “Sono parchi per
vacanze le aziende organizzate per la sosta e il soggiorno
di turisti provviste di tende, caravan o altri mezzi
autonomi di pernottamento che siano trasportabili dal
turista per via ordinaria senza ricorrere a trasporto
eccezionale, in cui l’occupazione delle piazzole con detti
mezzi –consentita per periodi limitati, comunque non
superiore al periodo annuale di apertura del complesso
ricettivo e resa a fronte di corrispettivi forfettari–
prescinde dalla continua effettiva presenza degli ospiti,
purchè detti esercizi posseggano i requisiti indicati nelle
Tabelle A e D dell’allegato”.
Il comma 4 prevede che “I mezzi autonomi e mobili di
pernottamento di cui ai commi precedenti possono essere
dotati di preingressi, funzionali all’utilizzo dei mezzi
stessi e non indipendenti, realizzati in legno, plastica,
laminato metallico ed altri materiali similari ed aventi
caratteristiche di mobilità. I preingressi (questa è la
disposizione rilevante ai fini del decidere), data la loro
funzione e le loro caratteristiche, non sono soggetti a
concessioni o autorizzazioni edilizie”.
La detta disciplina speciale e derogatoria, che esenta dal
titolo edilizio la installazione dei preingressi se
collocati all’interno di strutture ricettive all’aria aperta
a servizio di caravan, roulottes ed altri mezzi simili di
pernottamento, è stata confermata dalla disciplina
successiva, operata dalla legge regionale 07.02.2008, n. 2 e
dal relativo regolamento attuativo n. 1 del 21.02.2012.
L’art. 16, comma 2, della l.r. 2 del 2008 precisa che “gli
allestimenti di cui al comma 1), lettere b) (case mobili
aventi le caratteristiche individuate dal Regolamento) e c)
( manufatti realizzati con sistemi di prefabbricazione in
materiali vari, aventi le caratteristiche individuate nel
Regolamento stesso) non sono soggetti a titolo edilizio”.
L’art. 14, comma 2, del Regolamento attuativo precisa
ulteriormente che tali manufatti non costituiscono volumi in
termini edilizi e come tali l’installazione o la
riqualificazione/adeguamento degli stessi non è soggetta al
rilascio di titolo edilizio e al rispetto dei parametri
urbanistico-edilizi.
L’art. 15 del regolamento, nello specificare le
caratteristiche di tali strutture, le definisce come i
preingressi (da mantenere) abbinati ai caravan funzionali
all’utilizzo dei mezzi stessi e non indipendenti realizzati
in materiale tessile o PVC non rigido, in legno, plastica,
laminato metallico ed altri materiali similari.
L’art. 71, recante la normativa transitoria, specifica
nuovamente che la installazione degli allestimenti di cui al
comma 2 (caravan, preingressi, piazzole delle strutture,
case mobili e manufatti realizzati con sistemi di
prefabbricazione in materiali vari) non è soggetta al
rilascio di titolo edilizio.
Il giudice di primo grado, con un ragionamento logico non
condivisibile nella sua attuazione pratica, ha ritenuto che
tale normativa eccezionale, derogatoria di un principio
generale della legislazione statale, debba essere
interpretato in modo restrittivo e pertanto non possa
attagliarsi alla situazione di fatto, nella quale tali
strutture in particolare i c.d. preingressi, occupano
stabilmente le piazzole, anche se essi siano utilizzati in
modo stagionale.
Il Collegio osserva che è pienamente condivisibile il
generale principio secondo cui i manufatti non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze permanenti, debbano essere
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con
sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l’assenza di opere murarie, poiché il manufatto
precario (es.: gazebo o chiosco) non sarebbe più deputato ad
un suo uso per fini contingenti, ma sarebbe destinato ad
utilizzo che viene reiterato nel tempo in quanto stagionale
(così, tra varie, Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842).
Tale principio generale, al quale si conforma la
giurisprudenza, non può essere tuttavia pedissequamente
applicato in presenza di normativa speciale e derogatoria di
rango regionale che, in relazione a specifiche esigenze del
territorio, in modo non irragionevole né illegittimo, sotto
il profilo del riparto di competenze legislative (né,
invero, ciò ha sostenuto il primo giudice), ha ritenuto di
esentare dalla necessità del titolo edilizio i manufatti
precari rientranti nelle dette classificazioni.
La possibilità che la normativa regionale nella detta
materia preveda un regime più permissivo di quello previsto
dal legislatore nazionale, con possibile esenzione dal
titolo edilizio, è agevolmente riscontrabile, anche nella
giurisprudenza di questo Consesso (tra varie, Cons. Stato,
VI, 05.04.2013, n. 1885).
La collocazione di strutture mobili sarebbe, in astratto,
definibile come “nuova costruzione” ai sensi e per
gli effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (T.U. edilizio); la disposizione
specifica dettagliatamente le caratteristiche
dell’intervento, qualificabile come nuova costruzione, con
riferimento, al punto e.5), alla installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro,
oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Tale disposizione, tuttavia, in relazione ai c.d.
preingressi, come sopra descritti, va coordinata con le
disposizioni regionali che, per le peculiari esigenze di
un’area destinata a campeggio o “strutture ricettive
all’aria aperta” prevedano regole differenti, anche più
favorevoli (nel caso del precedente della Sezione, n. 1885
del 2013 citato, legge regionale Abruzzo 23.10.2013, n. 16).
Nella fattispecie in esame, è da escludere l’abuso edilizio
–essendo a monte esclusa la necessità di acquisire il titolo
abilitativo edilizio sotto forma di concessione o
autorizzazione per i preingressi– per i manufatti come
indicati dalla legge regionale (e dalla legge regionale
successiva e dal regolamento attuativo).
Né può costituire valido argomento in contrario la
valutazione di “permanenza” e non precarietà di opere
come i c.d. preingressi, seppure utilizzate soltanto in un
periodo stagionale (da aprile a settembre o comunque durante
le vacanze estive), in quanto la legge regionale non
pretende in modo letterale (e ciò sarebbe in vero
irragionevole e dispendioso) che tali opere siano rimosse
ogni volta per essere successivamente reinstallate.
Sotto tale profilo, rileva l’accertamento, in punto di
fatto, della corrispondenza del manufatto a quanto previsto
e consentito dalla legge regionale come attività libera,
della precarietà strutturale del manufatto, della
rimovibilità della struttura, dell’assenza di opere murarie.
Naturalmente, quindi, è fatta salva l’attività di vigilanza
dell’amministrazione comunale, in relazione alla circostanza
che le opere in questione, e in particolare i preingressi,
rientrino pienamente nelle previsioni della legge regionale
e non si concretino in qualcosa di diverso (per esempio,
reali nuove costruzioni, strutture permanenti o di materiale
diverso).
L’accoglimento del primo motivo di appello, relativo alla
mancanza di necessità di conseguire il titolo abilitativo
edilizio per le opere di cui si contestava l’abusività,
rende superfluo l’esame degli altri motivi di appello, per
la regola dell’assorbimento dei motivi per il principio
dell’economia del giudizio (così Ad. Plenaria n. 5 del
27.04.2015).
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va
accolto e, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il
ricorso originario, con conseguente annullamento degli atti
impugnati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.08.2015 n. 3901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Tar Lazio. Procedimenti amministrativi senza
scuse.
La pubblica amministrazione non può rimanere inerte,
procrastinando la conclusione di un procedimento
autorizzativo, solo perché non è stato ricostituito
l'organismo tecnico incaricato di rilasciare un parere. Si
determinerebbe, infatti, una situazione di impasse che non
può ricadere su chi ha presentato l'istanza.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma (Sez. III-bis) con la
sentenza 05.08.2015 n. 10674 che ha accolto il
ricorso presentato dalla Società Quasar (istituzione privata
di ricerca e formazione accreditata dalla regione Lazio)
contro il ministero dell'istruzione, dell'università e della
ricerca scientifica.
Nel ricorso la società contestava il comportamento omissivo
e dilatorio del ministero che non aveva deliberato
sull'autorizzazione richiesta dalla società per il rilascio
dei titoli di Alta formazione artistica, musicale e
coreutica, nonostante l'istanza fosse stata presentata nel
dicembre 2013.
Il Miur era rimasto silente giustificandosi con il fatto
che, in base alla legge (art. 11 del dpr 08.07.2005 n. 212)
l'autorizzazione doveva essere concessa su parere del Cnam
(Consiglio nazionale per l'alta formazione artistica e
musicale) relativamente al requisito della conformità
dell'ordinamento didattico. Tuttavia, non essendo il Cnam
operativo, in quanto il Miur non ha più proceduto a
rinnovarne la composizione secondo nuovi criteri, l'iter
autorizzativo era rimasto di fatto congelato.
Tale scelta, si legge nella sentenza del Tar depositata il 5
agosto scorso, è illegittima «giacché la mancata
ricostituzione di un organismo tecnico dell'amministrazione
non può andare a discapito della parte che ha correttamente
avviato il procedimento amministrativo per ottenere il
rilascio di un titolo ampliativo della propria capacità
giuridica e che ha una legittima aspettativa di vedere
concludere il procedimento in tempi ragionevoli».
Per questo, il Tar, accogliendo le tesi dei legali della
società (Antonio Catricalà, Damiano Lipani e Francesca
Sbrana) ha ordinato al Miur di decidere sulla richiesta
riservandosi la nomina di un commissario ad acta che
provveda in via sostitutiva
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nelle società partecipate non si può assumere
senza concorso.
Assunzioni nulle nelle società partecipate se non precedute
da una procedura selettiva, sicché il rapporto di lavoro
deve essere considerato invalido sin dall'origine, anche se
al lavoratore spetta la remunerazione per il periodo
lavorato.
La sentenza 04.08.2015 n. 420 del TRIBUNALE ordinario di Monza in veste di
giudice del lavoro, è una tra le prime
con le quali il giudice ordinario applica fino alle estreme
conseguenze le disposizioni dell'articolo 18, comma 1, del
dl 112/2008, convertito in legge 133/2008.
Tale norma
prevede che «le società che gestiscono servizi pubblici
locali a totale partecipazione pubblica adottano, con propri
provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del
personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto
dei principi di cui al comma 3 dell'articolo 35 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165».
Nel caso affrontato dalla pronuncia del giudice del lavoro,
un lavoratore era stato assunto come dirigente da parte di
una società comunale partecipata al 100%, con contratto di
lavoro a tempo indeterminato a part-time per 20 ore
settimanali e aveva chiesto il risarcimento per il
licenziamento a suo dire illegittimo, disposto nei suoi
confronti dal datore di lavoro, proprio in relazione
all'assenza di una procedura di reclutamento conforme alle
disposizioni del citato datore di lavoro.
A dire del ricorrente, tale carenza non si sarebbe
verificata, perché il consiglio d'amministrazione della
società aveva indetto una selezione verificando i curriculum
di esperti di urbanistica tra cui il proprio e aveva
disposto la propria scelta per effetto dell'offerta
economica del ricorrente, prodotta in applicazione del dm 04.04.2001. In effetti, dunque, il rapporto avrebbe dovuto
essere di tipo autonomo e collegato con la realizzazione di
un parcheggio multipiano.
In effetti, l'azione della società partecipata appare
censurabile. Al di là delle carenze procedurali puntualmente
rilevate dalla sentenza, è certamente fuori da ogni canone
di corretto andamento della gestione attivare un incarico
sostanzialmente in modo informale finalizzato
all'assegnazione della funzione di responsabile unico del
procedimento di realizzazione di un'opera pubblica, per sua
natura a tempo determinato, per successivamente modificarlo
in un contratto di lavoro subordinato, con qualifica
dirigenziale a part-time (un controsenso, visto che i
dirigenti non hanno un orario prefissato) e a tempo
indeterminato, cioè ben oltre l'utilità dell'incarico da
conferire.
In ogni caso, il giudice del lavoro di Monza ha respinto il
ricorso, concludendo per l'assenza di una reale selezione
pubblica improntata al concorso, osservando l'inesistenza di
elementi per comprovare che la società avesse gestito
un'effettiva procedura concorsuale, tanto che nel contratto
di assunzione si dà atto che essa discende da «precedenti
accordi verbali».
La sentenza, pertanto, conclude per la «totale assenza di
un'evidenza pubblica sia sulla selezione, sia sui requisiti
della figura professionale», tanto che l'assunzione
effettuata «costituisce una violazione del principio di
eguaglianza e del principio del pubblico concorso per
l'accesso ai ruoli delle pubbliche amministrazioni», anche
considerando che si è trattato di un tempo indeterminato, al
quale non è applicabile l'articolo 19, comma 6, del dlgs
165/2001.
La società, dunque, ha doverosamente interrotto il rapporto
di lavoro, basato su atti illegittimi, tanto che secondo il
giudice del lavoro nel caso di specie «va dichiarata la
nullità del contratto di assunzione a tempo indeterminato,
in quanto posto in essere in violazione di norme
imperative», quali l'articolo 18 citato della legge 133/2008
e dell'articolo 28 del dlgs 165/2001, che impone il concorso
pubblico per l'accesso alla qualifica dirigenziale.
La nullità dichiarata dal giudice è la base per confermare
la legittimità del recesso dal rapporto di lavoro e la
reiezione delle domande del ricorrente.
La sentenza, invece, ha respinto la richiesta della società
di riavere indietro le somme corrisposte, ritenendo
applicabile l'articolo 2126 del codice civile, secondo il
quale la nullità del titolo di costituzione del rapporto di
lavoro non produce effetti per il periodo nel quale il
rapporto ha avuto esecuzione.
«La sentenza è il primo precedente di applicazione dell'art.
18 del dl 112/2008 in materia di rapporti di lavoro»,
sottolinea l'avvocato Mariano Delle Cave dello Studio Legale Tonucci & Partners, che ha assistito la società pubblica
nella controversia risolta dal Tribunale di Monza.
«Questa
norma ha natura inderogabile e obbliga le società,
totalmente partecipate da una p.a., esercenti servizi
pubblici locali, ad adottare meccanismi analoghi a quelli
delle amministrazioni controllanti, secondo l'art. 35 del dlgs n. 165/2001. D'altronde, è coerente con quanto sempre
sostenuto dalla Corte dei conti sotto il profilo della
responsabilità erariale. L'art. 18 non inventa nulla. È
applicazione dell'art. 97 Cost., che riguarda tutto ciò che
è gestito con risorse pubbliche e per finalità pubbliche. La
violazione di queste norme non è solo un problema di
responsabilità contabile di chi assume, ma anche di validità
del rapporto, che potrebbe essere cessato in ogni momento in
quanto nullo».
«Peraltro», conclude Delle Cave, «la sentenza
cade in un momento storico particolar, visto che la riforma
della p.a. delega il governo a intervenire sulla disciplina
del personale delle partecipate. Sarà l'occasione per fare
chiarezza tra processo di reclutamento, che deve essere
rigorosamente pubblico, e gestione del rapporto, che è
squisitamente di natura privatistica, senza applicazione del
Testo unico del pubblico impiego»
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Impresa subentrata, tre anni di proroga.
Permesso di costruire, sentenza Tar Piemonte.
Altro che decaduta dal permesso di costruire. Grazie al
decreto fare l'impresa edile subentrata nella convenzione ha
diritto alla proroga di tre e non di due anni sui termini di
inizio e fine dei lavori di lottizzazione. E ciò perché la
norma del decreto legge 69/2013, così come modificato dalla
legge di conversione 98/2013, va interpretata in senso
favorevole ai progetti edilizi più impegnativi quando c'è
interesse alla conclusione delle opere urbanistiche.
Il differimento opera automaticamente e risulta ammissibile,
anzi dovuta, quando qualora il termine originario è già
venuto a scadenza.
È quanto emerge dalla
sentenza 31.07.2015 n. 1304,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Piemonte.
Interesse pubblico.
Accolto il ricorso dell'impresa edile chiamata a dare
attuazione al piano esecutivo per la costruzione di undici
villette residenziali dopo la convenzione firmata fra i
proprietari delle aree e l'amministrazione locale. Sbaglia
il Comune a dichiarare estinto il titolo edilizio per il
mero decorso del tempo.
È vero: la norma introdotta dal decreto fare, riconoscono i
giudici, «non brilla» certo «per chiarezza»,
ma deve essere interpretata nel senso che alla proroga dei
permessi edilizi deve essere riconosciuta una maggiore
ampiezza quando i titoli sono rilasciati per le
lottizzazioni. E ciò non soltanto per le notevoli difficoltà
che le imprese incontrano per portare a termine le
convenzioni: c'è infatti anche un interesse pubblico a che
siano concluse le urbanizzazioni primarie e secondarie.
Non si può infine ignorare la crisi congiunturale che
patiscono le imprese di costruzione. Per la lottizzazione,
dunque, non è prevista la ricorrenza di alcuni presupposti
per l'operatività della proroga triennale: si tratta in
particolare della «previa comunicazione del soggetto
interessato» e della condizione che i termini iniziali e
finali «non siano già decorsi al momento della
comunicazione dell'interessato».
Ecco che è allora illegittimo il provvedimento del Comune:
si dichiara l'impresa decaduta dal permesso di costruire
senza tenere conto della proroga automatica del termine per
l'inizio dei lavori. Spese di giudizio compensate per
l'assoluta novità della questione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi
ai morosi. Non conta la regolarità fiscale.
Tar
Campania sul rilascio del nulla osta a costruire.
Vietato subordinare il rilascio del permesso di costruire
alla dimostrazione di essere in regola nel pagamento dei
tributi comunali. I municipi, infatti, non possono
confondere i piani perché i titoli edilizi vanno rilasciati
in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici,
mentre la regolarità fiscale attiene «a un ordine di
valutazioni e di interessi estraneo alla materia
urbanistico-edilizia».
Il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con
sentenza 22.07.2015 n. 1611 ha bacchettato il comune di Fisciano (Sa) che con
delibera del consiglio comunale, finalizzata a «contrastare
il fenomeno dell'evasione dei tributi» aveva imposto ai
richiedenti dei permessi di costruire di allegare, assieme
all'istanza, anche «la prova di essere in regola con i
tributi comunali».
Il caso riguardava la domanda di permesso di costruire
inoltrata da un'impresa di costruzioni per la realizzazione
di un fabbricato residenziale. Nonostante il parere
favorevole del responsabile dell'area tecnica dell'ente, il
comune non aveva rilasciato il nulla osta nei tempi previsti
(20 giorni), tanto che la società si era rivolta al Tar
affinché dichiarasse il silenzio-assenso sull'istanza o, in
subordine, imponesse al comune di rispondere all'istanza con
atto espresso e motivato.
Nel frattempo, però, il comune
aveva provveduto a contestare alla società il mancato
pagamento dell'Ici per il triennio 2006-2008 e l'aveva
invitata a regolarizzare la propria posizione, pena
l'impossibilità a rilasciare il nulla osta edilizio, visto
che in mancanza della documentazione, l'istanza «non sarebbe
stata presa in esame».
L'impresa aveva ribattuto di essere
in regola con il pagamento e aveva trasmesso all'ente le
ricevute dei versamenti, ma il Tar non è neppure entrato nel
merito della vicenda. Per i giudici amministrativi, infatti,
il rifiuto a esaminare l'istanza di permesso a costruire, in
presenza di irregolarità tributaria, costituisce «una vera e
propria sanzione accessoria, estranea ai poteri e alle
competenze» dell'ente.
Secondo il Tar, il comune di Fisciano
«ha palesemente violato» la normativa in materia di permessi
di costruire (dpr n. 380/2011), «piegando l'esercizio del
potere de quo al perseguimento di interessi eterogenei
rispetto a quelli tipici».
Né l'ente avrebbe potuto giustificare la propria condotta
per il fatto di aver firmato con l'Agenzia delle entrate
un'intesa anti-evasione fiscale. «La partecipazione dei
comuni all'accertamento fiscale e contributivo», ha
chiarito il Tribunale amministrativo, «non contiene alcun
riferimento al rilascio di titoli edilizi»
(articolo ItaliaOggi del 05.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di conservazione.
Il ritocco operato all'art. 3 del D.P.R.
n. 380/2001 con il quale è stato introdotto il concetto di
"interventi di conservazione", fino ad ora assente nel
panorama legislativo di settore è certamente di rilevante
portata nella materia dell'edilizia ed urbanistica in quanto
viene modificato il concetto di "manutenzione straordinaria"
fino a quel momento attestato su interventi di tipo
manutentivo non incidenti né sulle superfici né sulla
volumetria complessiva, né sulla destinazione d'uso.
Si tratta di disposizioni che consentono interventi di
rilevante incidenza ed impatto sul territorio (oltre che di
impatto fiscale) consentendo lavori prima non eseguibili se
non mediante il permesso di costruire.
In sostanza, quindi, la modifica normativa elimina ogni
riferimento alle modifiche della superficie dell'immobile
oggetto di opere di manutenzione straordinaria.
1. A giudizio del Collegio il ricorso del Pubblico Ministero
non può essere condiviso. Da quanto indicato nella premessa
emerge subito che il thema decidendum, come
evidenziato dal Tribunale, è costituito dalla qualificazione
giuridica degli interventi edilizi operati sul complesso
immobiliare sito nella città di Firenze e destinato, per
effetto di tali interventi, ad ospitare alcune unità
abitative (il Tribunale ne indica nove) frutto di un
frazionamento di una parte di un complesso immobiliare.
1.1 Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema si è sempre
affermato che la figura della ristrutturazione edilizia,
disciplinata dall'art. 3, comma 1, lett. d), -come
modificato dal D.Lgs. 27.12.2002, n. 301- riguarda gli
interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti". Per tali ragioni la
ristrutturazione edilizia non è vincolata al rispetto degli
elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio
esistente.
1.2 L'art. 3 del detto D.P.R. nel testo antecedente alle
modifiche normative recentemente apportate dal D.L. 133/2014
convertito nella L. 164/2014 (cd. "Decreto del fare"
o "sblocca Italia"), disciplina anche le diverse
figure della manutenzione straordinaria (comma 1 lett. b) e
del restauro e risanamento conservativo (art. 3, comma 1,
lett. c).
1.3 La prima di tali due figure riguarda le opere e le
modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso; era quindi escluso che tali interventi potessero
comportare aumenti della superfici utili o del numero delle
unità immobiliari, ovvero la modifica della sagoma o il
mutamento della destinazione d'uso).
1.4 La seconda figura concerne gli interventi edilizi
rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne
la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere
che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con esse compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio: anche in questo caso non sono
consentite modifiche in senso sostanziale dell'assetto
edilizio preesistente, mentre sono permesse variazioni d'uso
"compatibili" con l'edificio conservato.
2. La materia degli interventi edilizi ha, però, subito
importanti modifiche con il D.L. 133/2014 convertito nella
L. 164/2014.
2.1 A norma dell'art. 17, comma 1, lett. b), n. 1 e 2, della
detta legge è stato ampliato il concetto
degli interventi di manutenzione straordinaria
ricomprendendovi oltre che le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino modifiche delle destinazioni di uso, anche
quegli interventi "consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere
anche se comportanti la variazione delle superfici delle
singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli
edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso".
2.2 E', invece, rimasta immutata sia la tipologia degli
interventi di restauro e risanamento conservativo, sia
quella della ristrutturazione in cui sono inclusi gli
interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente".
2.3 In particolare, per quanto attiene agli interventi di
ristrutturazione, essi, nel testo dell'art. 3, comma 1,
lett. d), del D.P.R. 380/2001 come successivamente
modificato prima dal D.L. 27.12.2002, n. 301 e, di seguito,
dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, nella L. 09.08.2013, n. 98,
comprendono -come già detto- "il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente".
2.4 Il ritocco operato all'art. 3 del
D.P.R. n. 380/2001 con il quale è stato introdotto il
concetto di "interventi di conservazione", fino ad
ora assente nel panorama legislativo di settore è certamente
di rilevante portata nella materia dell'edilizia ed
urbanistica in quanto viene modificato il concetto di "manutenzione
straordinaria" fino a quel momento attestato su
interventi di tipo manutentivo non incidenti né sulle
superfici né sulla volumetria complessiva, né sulla
destinazione d'uso.
2.5 Si tratta di disposizioni che
consentono interventi di rilevante incidenza ed impatto sul
territorio (oltre che di impatto fiscale) consentendo lavori
prima non eseguibili se non mediante il permesso di
costruire: tra questi -per quanto qui rileva- rientrano il
frazionamento ed accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti una variazione
delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del
carico urbanistico, mentre deve rimanere inalterata la
volumetria complessiva degli edifici e mantenuta immutata
l'originaria destinazione d'uso. In sostanza, quindi, la
modifica normativa elimina ogni riferimento alle modifiche
della superficie dell'immobile oggetto di opere di
manutenzione straordinaria.
2.6 Nel caso in esame, quindi, le attività intraprese dagli
imputati vanno riconsiderate alla luce delle modifiche
normative di cui sopra, escludendosi, quindi, la necessità
del preventivo permesso di costruire nelle ipotesi in cui
siano state -ferme restando la volumetria complessiva
originaria e la destinazione d'uso (in quanto gli interventi
sono stati condotti su quella porzione di immobile con
destinazione abitativa)- variate le superfici e sia stato
operato un frazionamento con suddivisione della superficie
complessiva in alcune unità abitative che hanno inciso
certamente sul carico urbanistico, senza tuttavia richiedere
per ciò solo il previo rilascio del permesso di costruire.
3. Ne consegue che la decisione impugnata, seppur riferita
ad una operazione complessiva di restauro e risanamento
conservativo non consentita secondo la legislazione
dell'epoca tenuto conto della tipologia degli interventi,
non poteva comunque riferirsi ad un intervento di
ristrutturazione nei termini indicati dal Pubblico Ministero
ricorrente.
4. Correttamente il P.M. ha enunciato alcuni principi quali
l'immutabilità del carico urbanistico e la variazione per
frazionamento delle originarie superfici compatibili con il
concetto di ristrutturazione, ma non con il nuovo concetto
di manutenzione straordinaria che ha inglobato lavori un
tempo assoggettabili al regime concessorio (ovvero del
permesso di costruire) ed oggi assentibili a mezzo D.I.A.,
come è avvenuto nel caso di specie (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.07.2015 n. 31618 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul campo
di motocross l'occhio dei vicini.
Tar Sicilia.
Chi abita in prossimità di un campo da motocross può
richiedere al sindaco determinazioni in merito alla corretta
conduzione dell'impianto da parte dell'associazione
sportiva. E in caso di mancata risposta da parte del comune
proporre censure contro l'inerzia della pubblica
amministrazione.
Lo ha chiarito il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la
sentenza
21.07.2015 n.
1798.
Una associazione dilettantistica ha
realizzato una pista da motocross previa presentazione di
una Scia al comune di Pantelleria. Contro questa
determinazione un residente ha richiesto formalmente
chiarimenti al primo cittadino, ma senza alcun risultato
apprezzabile.
A seguito dell'inerzia dell'amministrazione
comunale l'interessato ha quindi proposto con successo
ricorso al Tar che ha dichiarato l'illegittimità del
silenzio serbato dal comune. Nonostante questa sentenza il
comune siciliano ha continuato a mantenere una posizione
defilata sulla vicenda e per questo è stato nominato
addirittura un commissario ad hoc. Con oneri completamente a
carico del comune
(articolo ItaliaOggi del 04.09.2015). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Modificazione di una preesistente strada sterrata.
La modificazione, in area sottoposta a
vincolo paesaggistico, di una preesistente strada sterrata
mediante innalzamento del piano e copertura del manto con
massetto di cemento non rientra tra gli interventi di
manutenzione straordinaria e deve essere preceduta dal
rilascio del permesso di costruire e dalla autorizzazione
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, comportando
una modificazione di carattere stabile ed incidente
sull'assetto urbanistico stante il potenziale incremento del
traffico veicolare.
---------------
Gli interventi di ristrutturazione
edilizia, la cui realizzazione senza il preventivo rilascio
del permesso di costruire integra il reato di cui all'art.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001, comprendono l'esecuzione di
lavori consistenti nel ripristino o nella sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, ovvero nella
eliminazione, modificazione e inserimento di nuovi elementi
ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di
"risanamento conservativo", i quali si caratterizzano per il
mancato apporto di modifiche sostanziali all'assetto
edilizio preesistente, alla luce di una valutazione compiuta
tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e delle
finalità con questi perseguite.
Osserva, infatti, la Corte,
alla luce della incontestata descrizione degli stessi
contenuta nella sentenza impugnata, che i lavori realizzati
della Lo B. esulano dal rivendicato concetto di mera
manutenzione, come tale non necessitante del premesso a
costruire, per rientrare, invece, in quello di
ristrutturazione edilizia.
Rileva, infatti, il Collegio che le opere di cui alla
contestazione sono consistite, oltre che nel completamento
della impermeabilizzazione del manto di copertura, nella
definizione degli intonaci esterni ed interni, nella
pitturazione dei prospetti, nella realizzazione di
tramezzature, pavimentazioni ed impianti idrici ed elettrici
di un preesistente edificio lasciato al "rustico" dai
precedenti proprietari„ anche nella realizzazione di una
scala per congiungere il piano di campagna ad una quota
sopraelevata rispetto a quello di oltre 7 metri, di una
strada carrabile per rendere fruibuile il parcheggio posto
ai piedi dell'edificio in questione ed in parte dei muri di
contenimento della scarpata al di sopra della quale il detto
edificio era stato realizzato.
Riguardo a tali opere, la cui portata materiale è stata
accertata con valutazione in fatto della Corte di merito
insindacabile in questa sede, non vi è dubbio che, esulando
le stesse dal concetto di mera manutenzione, esse
necessitavano del rilascio del permesso a costruire.
Ha, infatti, rilevato questa Corte -e la considerazione,
perfettamente coerente col caso ora in questione nel quale,
per stessa ammissione della ricorrente, le opere hanno avuto
ad oggetto, per ciò che attiene alla strada interpoderale,
la realizzazione di un manto di calcestruzzo su di una
preesistente base sterrata, appare tuttora pienamente
condivisibile- che la modificazione, in
area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una preesistente
strada sterrata mediante innalzamento del piano e copertura
del manto con massetto di cemento non rientra tra gli
interventi di manutenzione straordinaria e deve essere
preceduta dal rilascio del permesso di costruire e dalla
autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo, comportando una modificazione di carattere stabile
ed incidente sull'assetto urbanistico stante il potenziale
incremento del traffico veicolare
(Corte di cassazione, Sezione III penale, 11.01.2013, n.
1442).
Parimenti, per quanto attiene alle restanti opere realizzate
sul preesistente manufatto lasciato a rustico dai precedenti
proprietari, va ricordato che gli
interventi di ristrutturazione edilizia, la cui
realizzazione senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001, comprendono l'esecuzione di lavori consistenti
nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell'edificio, ovvero nella eliminazione,
modificazione e inserimento di nuovi elementi ed impianti, e
sono distinguibili dagli interventi di "risanamento
conservativo", i quali si caratterizzano per il mancato
apporto di modifiche sostanziali all'assetto edilizio
preesistente, alla luce di una valutazione compiuta tenendo
conto della globalità dei lavori eseguiti e delle finalità
con questi perseguite
(Corte di cassazione, Sezione III penale 26.11.2014, n.
49221).
Nel caso in esame, a tacer d'altro, il completamento ex
novo sia dei muri di contenimento che la realizzazione
della scala, evidenzia la novità tipologica delle opere
realizzate rispetto a quelle preesistenti, consistenti nella
sola realizzazione del rustico di un edificio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2015 n. 30165 - tratto da e link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quanto alla applicabilità della disciplina in
materia antisismica alla realizzazione della scala,
conducente dalla quota 0,00 alla quota +7,30, in
calcestruzzo,
questa Corte rileva che, nella materia in
questione, la giurisprudenza di questa Corte ha più volta
precisato che, integra la contravvenzione di cui all'art. 95
del dPR n. 380 del 2001, qualsiasi intervento edilizio, con
la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione
ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno
l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, che
non sia preceduto dalla previa denuncia al competente
ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico
abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo
abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la
direzione di professionista abilitato.
Con riferimento al
quarto motivo di ricorso la Corte osserva che, essendo
adeguatamente e plausibilmente motivata, non è suscettibile
di riesame di fronte alla Corte di legittimità la natura di
nuova costruzione, e non di semplice ricostruzione delle
precedenti parti ammalorate, attribuita dalla Corte
territoriale, e già prima dal Tribunale di Palermo, alla
realizzazione dei muri di contenimento di cui alla
contestazione mossa alla Lo Brano, né vi è alcun elemento,
trascurato dai giudici del merito per ritenere che tali
opere siano state edificate nella attuale necessità di
evitare la rovina della restante parte del preesistente
manufatto.
Quanto alla applicabilità della disciplina
in materia antisismica alla realizzazione della scala,
conducente dalla quota 0,00 alla quota +7,30, in
calcestruzzo
operata dalla Lo B., questa Corte rileva
che, nella materia in questione, la giurisprudenza di questa
Corte ha più volta precisato che, integra la contravvenzione
di cui all'art. 95 del dPR n. 380 del 2001, qualsiasi
intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di
semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio armato, che non sia preceduto dalla previa
denuncia al competente ufficio con presentazione di un
progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non
sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non
siano stati svolti sotto la direzione di professionista
abilitato (Corte
di cassazione, Sezione, III penale, 20.11.2014, n. 48005).
La già dimostrata estraneità della realizzazione della
predetta scala al concetto di manutenzione ordinaria,
conferma, se necessario, la legittimità della impugnata
sentenza sul punto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2015 n. 30165 - tratto da e link a
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Circa
l'escussione parziale della cauzione provvisoria prodotta
dalla ditta concorrente a titolo di pagamento della sanzione
pecuniaria per irregolarità essenziale riscontrata nei
documenti di gara, è condivisibile l’interpretazione del
comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti data dall’ANAC
e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la
ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in
discorso, giacché sarebbe illogica e ingiustamente
afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che,
reso edotto dell'incompletezza o di altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive,
scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del
soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante
di procedere celermente con le operazioni di gara senza
strascichi giudiziari.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
- della determinazione n. 519 del 07.05.2015 emessa dal
Comune di Piacenza, Direzione Operativa Riqualificazione e
Sviluppo del Territorio, Servizio Infrastrutture e Lavori
Pubblici avente ad oggetto "escussione parziale della
cauzione provvisoria prodotta dalla Ditta ricorrente a
titolo di pagamento della sanzione pecuniaria per
irregolarità essenziale riscontrata nei documenti di gara";
- di ogni atto anteriore o successivo, comunque presupposto,
connesso e consequenziale.
...
- Considerato che, ad un primo sommario esame, il ricorso
appare fondato essendo condivisibile l’interpretazione del
comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti data dall’ANAC
e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la
ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in
discorso;
- Rilevato, peraltro, che sarebbe illogica e ingiustamente
afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che,
reso edotto dell'incompletezza o di altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive,
scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del
soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante
di procedere celermente con le operazioni di gara senza
strascichi giudiziari;
- Ritenuto, pertanto, che sussistano i presupposti per la
concessione della misura cautelare pur potendosi compensare
le spese della presente fase attesa la novità delle
questioni trattate;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna,
Sezione Distaccata di Parma, accoglie la suindicata domanda
incidentale di sospensione e, per l’effetto, sospende l’atto
impugnato.
Fissa, per la trattazione del merito, l’udienza pubblica del
10.02.2016
(TAR Emilia Romagna-Parma,
ordinanza 10.07.2015 n. 142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
Rifiuti. Materiali provenienti da demolizioni.
I materiali provenienti da demolizioni
rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente
destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato
a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali
vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha
l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di
detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano
alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte
di chi le invoca, della sussistenza di tutti i presupposti
previsti dalla legge.
4. Ciò posto, deve
rilevarsi anche come il Tribunale abbia chiaramente
evidenziato che le allegazioni difensive risultavano
meramente assertive, non fornendo alcun concreto elemento a
sostegno dell'affermazione di una diversa natura e
destinazione dei materiali rinvenuti sull'area in sequestro
ed erano contraddette dalle risultanze investigative poste
in evidenza.
Altrettanto avviene nel ricorso sottoposto all'attenzione di
questa Corte, dove si continua a negare la natura di rifiuto
dei materiali suddetti e la loro destinazione ad una
successiva utilizzazione.
Tali argomentazioni, tuttavia, oltre a porsi nuovamente in
contrasto con dati fattuali evidenziati dai giudici del
riesame e non suscettibili di valutazione in questa sede di
legittimità, si basano su affermazioni inconferenti e
giuridicamente errate.
5. Va infatti rilevato come, ai fini della configurabilità
del reato ipotizzato, non sia affatto necessario
l'espletamento di una consulenza tecnica per accertare la
natura e la composizione dei rifiuti né, tanto meno, la loro
pesatura per verificarne la quantità esatta, quando, come
nel caso di specie, tali dati siano verificabili attraverso
l'esame diretto.
Invero l'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006
definisce come rifiuti speciali quelli derivanti dalle
attività di demolizione e costruzione, nonché i rifiuti che
derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto
disposto dall'articolo 184-bis in materia di sottoprodotti
(v. Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014 (dep. 2015), Giaccari, Rv.
262128; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012, Celano, Rv. 252617;
Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241088; Sez.
3, n. 33882 del 15/06/2006, RM. in proc. Barbati ed altri,
Rv. 235114).
Dunque, le caratteristiche del rifiuto e la sua
classificazione, considerata la natura, non necessitano, di
regola, di particolari verifiche o analisi, essendone
immediatamente rilevabile la provenienza e trattandosi di
materiali del quale solitamente ci si disfa, salvo
destinarli a successivi impieghi che vanno, però,
dimostrati, cosa che non è avvenuta nel caso in esame.
6. I ricorrenti si riferiscono infatti, in un primo momento,
del tutto incidentalmente, ad una non meglio specificata «temporaneità
del deposito» che i giudici del riesame avrebbero omesso
di considerare, per poi affermare che i materiali sarebbero
classificabili come sottoprodotti.
Tali circostanze risultano, però, platealmente smentite da
un dato fattuale inequivocabile posto in evidenza dai
giudici del riesame laddove si evidenzia, nell'ordinanza
impugnata, che i rifiuti risultavano livellati ed accumulati
sul posto nel corso degli anni, verosimilmente mediante
l'ausilio di mezzi meccanici.
Una simile evenienza è, da sola, chiaramente sintomatica
della definitiva collocazione dei rifiuti sull'area
sequestrata.
Inoltre, tanto il deposito temporaneo (se a quello definito
dall'art. 183 comma 1, lett. bb), d.lgs. 152/2006 intendono
riferirsi i ricorrenti) quanto i sottoprodotti, necessitano
di specifici requisiti chiaramente indicati dalla legge, la
cui sussistenza deve essere dimostrata da chi invoca
l'applicazione di tali disposizioni che derogano alla
disciplina generale sui rifiuti (v. Sez. 3, n. 17453 del
17/04/2012, Busè, Rv. 252385; Sez. 3, n. 16727 del
13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del
30/09/2008, Castellano, Rv. 241504, in tema di
sottoprodotti; Sez. 3, n. 15680 del 03/03/2010, Abbatino,
non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non
massimata; Sez. 3, n. 30647de1 15/06/2004, Dell'Angelo, non
massimata, in tema di deposito temporaneo e, con riferimento
alle terre e rocce da scavo, Sez. 3, n. 35138 del
18/06/2009, Bastone Rv. 244784; Sez. 3, n. 37280 del
12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n. 9794 del
29/11/2006 (dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto)
e, nel caso in esame, tale dimostrazione manca del tutto.
In ogni caso, difetterebbero, quanto meno, secondo quanto
accertato in fatto nell'ambito della limitata cognizione
attribuita ai giudici del riesame, la raccolta dei rifiuti
nel luogo della produzione con riferimento al deposito
temporaneo (atteso che gli stessi ricorrenti affermano, a
pag. 6 del ricorso, che i materiali provenivano da «attività
di escavazione compiuta su fondi limitrofi di loro proprietà»)
e, per ciò che riguarda i sottoprodotti, l'origine da un «processo
di produzione», di cui costituiscono parte integrante.
7. Deve conseguentemente affermarsi il
principio secondo
il quale i materiali provenienti da
demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale recupero
è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali
detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il
detentore ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale
assoggettamento di detti materiali a disposizioni più
favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la
dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza
di tutti i presupposti previsti dalla legge
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2015 n. 29084 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Nozione di disfarsi.
Certamente indice rivelatore
dell'intenzione di disfarsi -ove essa non si sia
sostanziata, in modo di per sé incompatibile con un altro
diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da
parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni
possibilità di suo controllo su detti beni- potrà essere,
oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i
detti materiali sono depositati.
E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali
che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo
modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più
suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia
legittimamente presumere all'interprete che di questi il
detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia
l'intenzione di disfarsene.
Col primo
motivo di impugnazione il ricorrente deduce la erroneità
della qualificazione di rifiuto attribuita dal giudice di
prime cure ai materiali rinvenuti dagli agenti della Polizia
municipale di Olevano Romano su di un terreno nella
disponibilità del ricorrente.
Giova, prima di esaminare la correttezza o meno della
qualificazione operata dal Tribunale di Tivoli, rilevare
che, secondo quanto riportato in fatto nella sentenza
impugnata, il materiale in questione (costituito da: cabine
telefoniche rimosse, pali telefonici in metallo anch'essi
rimossi dal loro originario luogo di impianto, fili e cabine
elettriche, bombole di gas esaurite, pedane di legno,
ferraglia, pneumatici in disuso, fresatura d'asfalto, bidoni
di catrame, parti di veicoli in disuso, corrugati plastici e
materiale bituminoso vario) appariva abbandonato in modo
incontrollato sul terreno senza alcun accorgimento volto ad
evitare la contaminazione del suolo.
Tanto premesso rileva la Corte che del concetto di rifiuto
il legislatore ha dettato, all'art. 183, comma 1, lett. a),
del dlgs n. 152 del 2006, una precisa definizione normativa,
affermando che deve intendersi per rifiuto qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.
Trattasi, perciò, di una definizione che non si caratterizza
per la individuazione di elementi intrinseci di determinati
oggetti o sostanze che, se presenti, ne determinano la
attribuzione della qualificazione di rifiuto, quanto,
piuttosto, di una definizione di tipo funzionale, essendo
rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero
intenda disfarsi o sia obbligato a farlo.
E' di tutta evidenza che, in assenza di previsioni normative
che prevedano, appunto, in determinati casi e con
riferimento a determinate sostanze uno specifico obbligo in
capo al detentore in ordine al loro smaltimento,
prevedendone eventualmente anche le modalità di
effettuazione, sarà compito del'interprete, in relazione
alla generalità delle altre sostanze od oggetti, evidenziare
se nella condotta del detentore di esse sia riscontrabile,
in atto od in potenza, il concetto del "disfarsene"
in ragione del quale è legittimo attribuire ai predetti beni
la nozione di rifiuto.
Certamente indice rivelatore di tale intenzione -ove essa
non si sia sostanziata, in modo di per sé incompatibile con
un altro diverso atteggiamento della volontà, in un
abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita
di ogni possibilità di suo controllo su detti beni- potrà
essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la
quale i detti materiali sono depositati.
E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali
che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo
modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più
suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia
legittimamente presumere all'interprete che di questi il
detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia
l'intenzione di disfarsene.
Nel caso in esame il Tribunale di Tivoli del tutto
legittimamente ha ritenuto che i beni sopra descritti,
abbandonati alla rinfusa ed in stato di degrado
progressivamente ingravescente, fossero stati lasciati
dall'odierno ricorrente con la chiara intenzione di
disfarsene e non, come invece sostenuto dal Da., per
disporre di essi per un successivo riutilizzo.
D'altra parte la natura stessa di buona parte dei predetti
beni è tale da non consentirne, se non a seguito di un
articolato processo di ricondizionamento, certamente non in
atto al momento dell'intervento della Polizia municipale
descritto nella impugnata sentenza, un successivo riutilizzo
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2015 n. 29069 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA: Non
hanno carattere espropriativo, ma solo conformativo, e non
sono soggetti a decadenza e all'obbligo dell'indennizzo,
tutti i vincoli di inedificabilità importino una
destinazione realizzabile ad iniziativa privata o mista
pubblico-privata e non esclusivamente pubblica.
2.1.2. Né può ritenersi che le successive delibere –non
gravate- del 2004 n. 29 del CC e n. 208 della Giunta
comunale con cui il Comune aveva optato per l’esperimento di
un piano di iniziativa pubblica affidandolo al Consorzio
Sviluppo Valdera -stante la tipicità degli atti adottati in
sede di procedure espropriativa- abbiano potuto “surrogare”
tale mancanza originaria.
Ciò, sulla scorta del convincimento per cui, da un canto
deve ribadirsi la validità del tradizionale insegnamento
giurisprudenziale secondo il quale non hanno carattere
espropriativo, ma solo conformativo, e non sono soggetti a
decadenza e all'obbligo dell'indennizzo, tutti i vincoli di
inedificabilità importino una destinazione realizzabile ad
iniziativa privata o mista pubblico-privata e non
esclusivamente pubblica (ex aliis C.d.S., IV, 13.07.2011, n. 4242; C.d.S., IV, 12.05.2010, n. 2843; C.d.S., IV,
03.12.2010, n. 853; Tar Lazio, sez. II-bis, 29.11.2012, n. 9896: in termini Cons. Stato, sez. V,
02.12.2011, n. 6363).
Per altro verso, deve rimarcarsi che gli atti volti ad
imprimere un vincolo preordinato all’esproprio sono “tipici”
e tale vincolo non può discendere -come dal Comune invocato-
da atti di tutt’altra natura
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2878 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
●
Il
piano per gli insediamenti produttivi ha efficacia per dieci
anni e ha valore di dichiarazione di pubblica utilità, come
del resto meglio precisato dall'art. 12, comma 1, lett. a),
del D.P.R n. 327/2001.
Il piano per insediamenti produttivi è, quindi, non solo e
non tanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel
senso tradizionale, quanto e soprattutto uno strumento di
politica economica, perché ha la funzione di incentivare le
imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa
espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il
loro impianto o la loro espansione, e ciò in quanto poiché
l'indennità di espropriazione è di gran lunga inferiore al
valore di mercato degli immobili espropriati, mediante
questi piani si realizza, di fatto, un trasferimento di
ricchezza dal proprietario espropriato all'assegnatario.
-----------------
● Le
aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di
un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono
carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria
del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore
(nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo
analitico ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai
fini della liquidazione dell'indennità di espropriazione,
dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal
vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio,
così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di
conformazione appunto stabiliti, indipendentemente
dall'espropriazione, in virtù della preesistente
destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in
particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del
piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di
fabbricabilità previsti da quest'ultimo".
3. Con la
seconda articolazione della doglianza (pagg. 14 e segg.
dell’atto di appello) l’appellante amministrazione comunale
sostiene che, comunque, il vincolo preordinato all’esproprio
sarebbe disceso dalla stessa delibera di approvazione del PIP avversata in primo grado. Si attribuisce infatti al PIP,
non soltanto la natura di atto implicante la dichiarazione
di pubblica utilità ex art. 12 del dPR n. 327/2001 ma anche,
impositivo del vincolo preordinato all’esproprio.
3.1. Anche tale censura non persuade, collidendo con l’art.
10, comma 2, 9, e 12 del dPR n. 327/2001.
La tesi dell’amministrazione comunale collide con il
consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa
(TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 13.02.2008, n. 248 “il
piano per gli insediamenti produttivi ha efficacia per dieci
anni e ha valore di dichiarazione di pubblica utilità, come
del resto meglio precisato dall'art. 12, comma 1, lett. a),
del D.P.R n. 327/2001. Il piano per insediamenti produttivi
è, quindi, non solo e non tanto uno strumento di
pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, quanto e
soprattutto uno strumento di politica economica, perché ha
la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un
prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le
aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione, e
ciò in quanto poiché l'indennità di espropriazione è di gran
lunga inferiore al valore di mercato degli immobili
espropriati, mediante questi piani si realizza, di fatto, un
trasferimento di ricchezza dal proprietario espropriato
all'assegnatario”, ma si veda anche TAR Campania Napoli
Sez. II, 18.01.2006, n. 700) e civile (Cass. civ. Sez. I,
24.03.2004, n. 5874: “le aree comprese dal piano regolatore
generale nell'ambito di un piano per gli insediamenti
produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono
la conformazione propria del piano stesso, onde, nella
determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita
mediante applicazione del metodo analitico ricostruttivo),
come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione
dell'indennità di espropriazione, dell'incidenza negativa
esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di
destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece
suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione
appunto stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in
virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e
deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli
"standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli
indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo".
Anche tale censura deve essere disattesa: nessuno degli
indici normativi nazionali e regionali invocati dal comune
alle pagg. 20 e 21 dell’appello è decisivo nel ritenere che
al PIP possa attribuirsi natura di atto impressivo di un
vincolo preordinato all’esproprio (si veda, ancora, per la
natura attuativa del PIP: Cassazione civile sez. I
24/04/2007 n. 9891).
3.2. Tale vincolo è inesistente, non essendo mai stato
apposto in precedenza,per quel che si è prima posto in luce,
e pertanto la censura va disattesa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2878 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
struttura -oggetto di istanza di sanatoria- costituita da
una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con
componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e
strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a
sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi
attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad
un preesistente immobile contiguo, destinato ad
autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di
uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m.
5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo
stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in
“zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di
una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio
dell’attività di autolavaggio”.
La struttura oggetto della domanda di sanatoria
in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta
chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile
dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non
esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel
tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle
operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo
esercitata nell’immobile adiacente).
La stessa non presenta alcun intrinseco carattere di
struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche,
bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e
parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi
(indipendentemente da quello attuale).
Conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non
può essere ricondotta all’ambito della manutenzione
straordinaria, bensì, comportando una significativa
alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova
opera da assentire mediante rilascio di permesso di
costruire.
---------------
L’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque
superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990,
in quanto, posto che la valutazione sulla conformità
urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo
vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese
che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato
assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
- del provvedimento prot. n. 12862 del 29/10/2008 – rif.
Pratica n. 53/2008, con cui il responsabile dell’Ufficio
Tecnico del Comune di Capodrise ha respinto l’istanza
presentata dai ricorrenti in data 25.06.2008 – prot. n. 7847,
al fine di conseguire il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria per una tettoia annessa ad opificio artigianale
preesistente, ubicato in zona omogenea “B” – residenziale;
- di ogni altro atto ad esso preordinato, consequenziale o
connesso.
...
M.A.E. e P.M. impugnano con il
presente ricorso, articolato su due motivi, il provvedimento
del Comune di Capodrise, con il quale il responsabile
dell’Ufficio Tecnico, in “riferimento alla domanda
presentata…in data 25.06.2008 prot. n. 7847 con la quale si
richiedeva il permesso a costruire in conformità al testo
unico dell’edilizia D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e successive
modifiche ed integrazioni” ha espresso “diniego
all’accoglimento della richiesta” con la seguente
motivazione: “Trattasi di richiesta di permesso di costruire
in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 DPR 380/2001
relativo ad un opificio artigianale in zona omogenea di tipo
<B>, residenziale. In tale zona omogenea l’edificazione
risulta regolata dalla vigente strumentazione urbanistica
che non consente la realizzazione di capannoni ad uso
deposito o opifici artigianali”.
Dalla prodotta copia della relazione tecnica allegata alla
domanda ex art. 36 DPR 380/2001 (nonché dalle fotografie
nella stessa presenti), emerge che la struttura oggetto di
istanza di sanatoria è costituita da una grande tettoia con
chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici
che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e
strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a
sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi
attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad
un preesistente immobile contiguo, destinato ad
autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di
uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m.
5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo
stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in
“zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di
una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio
dell’attività di autolavaggio”.
Ciò chiarito, può passarsi ad esaminare il secondo dei
motivi di ricorso articolati (con il quale sono dedotte
censure di tipo sostanziale), il quale è infondato e va
disatteso sulle seguenti considerazioni:
- che la struttura oggetto della domanda di sanatoria in
commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure
per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto
in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze
temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo
(essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni
dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata
nell’immobile adiacente);
- che la stessa non presenta alcun intrinseco carattere di
struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche,
bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e
parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi
(indipendentemente da quello attuale);
- che, conseguentemente, la realizzazione di detta struttura
non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione
straordinaria, bensì, comportando una significativa
alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova
opera da assentire mediante rilascio di permesso di
costruire (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 3939 del
19.07.2013; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 142 del 10.01.2014; TAR Campania-Napoli n.
5853 del 18.12.2013; TAR Piemonte n. 1050 del 09.10.2013; TAR Campania-Napoli n. 4254 del 12.09.2013; TAR Campania-Salerno
n. 1376 del 21.06.2013; TAR Campania-Napoli n. 2924 del
05.06.2013);
- che la descritta tipologia di struttura, nonché la sua
destinazione ad attività artigianale, risultano in contrasto
con le prescrizioni urbanistico-edilizie di zona del vigente
PRG, ricadendo l’intervento in zona omogenea “B”
residenziale (ovvero in “zona ad espansione urbana”, come
con dicitura più generica affermato nella relazione tecnica
allegata all’istanza di sanatoria);
- che la presenza e vigenza di un PRG nel Comune di
Capodrise esclude l’applicabilità nel relativo territorio
della normativa richiamata dai ricorrenti (segnatamente il
punto 1.6 delle “Direttive – Parametri di pianificazione”
della L. Reg. Campania n. 14 del 20.03.1982 in tema di
localizzazione di “impianti produttivi”, trattandosi nella
specie di linee guida date agli enti locali per l’esercizio
delle loro competenze in materia urbanistica);
- che l’evidenziato contrasto con quanto previsto in PRG
neppure è superabile valutando la struttura in questione
come collegata ad una preesistente attività, essendo essa
comunque soggetta alle disposizioni in materia di nuove
opere;
- che la sussistenza del contrasto dell’effettuata
edificazione con le previsioni di PRG è sufficiente a
giustificare il diniego, per cui risulta non necessario
approfondire in questa sede l’ulteriore profilo riguardante
l’affermata carenza documentale della pratica di sanatoria.
Quanto, poi, al primo motivo di ricorso, basato su di una
censura di carattere prettamente formale, osserva il
Collegio che l’omissione della previa comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria
risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co.
2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla
conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato
intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella
specie risulta palese che, anche se il detto onere
procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del
provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato.
Pertanto, il proposto ricorso va, in definitiva, in toto
respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.03.2015 n. 1870 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nell'ambito
di un Piano Attuativo,
l’acquisizione delle opere e delle relative aree
è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle
stesse per il lottizzante e ciò in quanto, oltre ad
essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra
descritti, detto trasferimento è condizione necessaria
affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del
territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed
è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi
concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti
in materia di corretta gestione dei servizi pubblici
correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il
legislatore espressamente affida all’autorità
amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione
di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di
lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione
pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la
convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi-
il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma
imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti
urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che
normativamente imposta, è indispensabile per garantire la
tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di
interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero
gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di
urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema
tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro
destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del
corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori
di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute,
alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed
elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica
delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse
insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile
(perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di
cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio
assolutamente consolidato in giurisprudenza.
---------------
Tale approccio interpretativo ha trovato ulteriore
consacrazione normativa a seguito dell’entrata in vigore del
d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia), ove all’art. 16,
comma 2, si afferma che “2. La quota di contributo relativa
agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su
richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A
scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare
del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma
5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate
al patrimonio indisponibile del comune”.
Quindi, una volta ricondotte al regime del patrimonio
indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema
di protezione di cui all’art. 828, comma 2, del codice
civile, secondo cui “I beni che fanno parte del patrimonio
indisponibile non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano”, il che ne impedisce l’alienazione e
l’usucapione da parte dei privati.
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali
allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità
(idrico, fognario, viabilità, elettrico…), la loro proprietà
necessariamente deve essere del Comune, il quale soltanto
può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità
dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe
essere garantito da un soggetto privato il quale,
ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave
imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di
utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con
qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da
mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini;
si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da
un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di
depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o
viaria non manutenuta.
...
per l'accertamento e la declaratoria:
1) dell'obbligo del Comune di Sinnai di provvedere alla
presa in carico delle opere di urbanizzazione primaria
realizzate, in località Torre delle Stelle, nell'ambito dei
comparti 1 e 2 individuati dal Piano di Fabbricazione del
Comune di Sinnai, così come trasformati in zona di
completamento urbano con deliberazione di Giunta Municipale
n. 177/1974, nonché delle aree su cui queste insistono e ad
assumere tutti gli oneri di manutenzione ordinaria e
straordinaria, correlati alla gestione delle medesime opere
di urbanizzazione;
2) nonché per la conseguente condanna dell'Amministrazione a
porre in essere gli atti e i provvedimenti per adempiere
agli obblighi discendenti dalla legge;
3) e per la conseguente condanna al risarcimento dei danni
subiti dai ricorrenti per avere dovuto sostenere le spese di
manutenzione delle suddette opere di urbanizzazione al posto
dell'inadempiente Comune di Sinnai.
...
La domanda deve essere accolta.
Come innanzi riferito, con deliberazione n. 177 del 1974 la
Giunta Municipale di Sinnai aveva disposto la
classificazione dei comparti 1 e 2, ove ricadono gli
immobili dei ricorrenti, “in zona di completamento urbano ,
in quanto compromessa con il seguente indice
territoriale…dello 0,15; altezza massima ml 7, stacco dai
confini e dalle strade ml 5, rapporto di copertura 1/10,
lotto minimo mq 2.000”.
Nella delibera si prevedeva poi che per ottenere il rilascio
delle licenze edilizie i “proprietari dovranno provvedere a
consegnare al Comune le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria in opere finite o corrispettivo valore in
denaro”.
L’atto della Giunta è stato poi ratificato dal Consiglio
comunale con la deliberazione n. 103 del 27.04.1974, con
l’unica modifica delle dimensioni del lotto minino di
intervento, portandolo da mq 2000 a mq 1000.
Su detta delibera, come pure sulle altre delibere consiliari
riguardanti la variante complessiva del Piano di
Fabbricazione di Sinnai, è poi intervenuta l’approvazione
della Regione con il decreto del suo Presidente, n. 164 del
24.07.1974; per i comparti 1 e 2 il decreto ha
modificato l’indice fondiario, portandolo a 0,30 mc/mq.
La destinazione a zona B di completamento ha comportato il
riconoscimento per i comparti in questione della possibilità
di edificazione diretta, ossia senza la necessità della
previa approvazione di un piano di lottizzazione, come
richiesto dalle zone C e F; ciò è avvenuto sul presupposto
dell’esistenza di una compromissione del territorio per
effetto delle costruzioni ivi esistenti e sul presupposto,
evidentemente, dell’esistenza di opere di urbanizzazione,
sia pure incomplete, della zona interessata.
Proprio per
ottenere il completamento delle opere di urbanizzazione le
delibere richiedevano, quale condizione per il rilascio
delle concessioni edilizie, la realizzazione delle opere di
urbanizzazione da parte dei privati oppure il pagamento di
una corrispettiva somma di danaro.
Le opere sono state poi realizzate, almeno in parte (rete
viaria, idrica ed elettrica), dal Condominio appositamente
formato dai proprietari dei lotti.
La difesa del Comune rileva che le opere di urbanizzazione
risultano incompiute e realizzate senza alcun disegno
unitario, tanto da affermare che nel comprensorio non si
rinvengono “opere di urbanizzazione né in senso formale, né
in senso materiale”.
Da quanto sopra emerge con evidenza che nel comprensorio
esistono alcune opere di urbanizzazione (rete viaria, rete
idrica ed elettrica) sia pur realizzate senza una
progettazione approvata dal Comune e senza una puntuale
direzione dei lavori (al riguardo i ricorrenti non
depositano alcun atto), ma ciò è dipeso unicamente da
incuria dello stesso Comune nel seguire l’attuazione delle
previsioni del proprio strumento urbanistico e segnatamente
delle regole, prima richiamate, sulla necessità della
realizzazione da parte dei privati delle opere di
urbanizzazione oppure sul pagamento da parte degli stessi
degli oneri di urbanizzazione.
L’inadempienza del Comune non può evidentemente costituire
un alibi, per lo stesso, alla presa in carico delle opere di
urbanizzazione effettivamente esistenti e nello stato in cui
si trovano, che lo stesso Comune ha ritenuto tali da
giustificare la classificazione del comprensorio come zona B
di completamento.
Peraltro il Comune è ormai divenuto proprietario delle
strade per usucapione, essendo stato esercitato un uso
pubblico sulle stesse da ben oltre 20 anni. Come precisato
dalla Sezione con la sentenza n. 1738 del 03.09.2008, l’uso di
una strada da parte della collettività indifferenziata per
il transito determina il passaggio della stessa nella
proprietà del Comune per usucapione, a prescindere
dall’esistenza o meno di una convenzione di lottizzazione e
del connesso obbligo per il lottizzante di trasferire le
opere di urbanizzazione ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 (sulla possibilità di acquisto per
usucapione di una strada cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618; Cassazione civile, sez. II, 10.10.2000, n. 13485).
Anche la conduttura idrica, quanto alla titolarità ha
indubbie connotazioni pubblicistiche, vuoi perché le
tubazioni accedono alla parte sottostante la rete stradale,
vuoi per l’uso collettivo (esteso a tutti gli utenti) del
servizio idrico fruibile a mezzo di detta conduttura (cfr. la
sentenza del Cons. Stato, Sez. IV, n. 5487 del 2914, con la
quale il giudice di Appello ha confermato le sentenze di
questa Sezione n. 880/2011 e n. 602/2013 relative alle opere
di urbanizzazione realizzate nella stessa località di Torre
delle Stelle, ma in comune di Maracalagonis).
Una volta acclarata l’esistenza della opere di
urbanizzazione, sia che esse siano realizzate in base ad un
disegno unitario come avviene a seguito dei piani di
lottizzazione, sia che le stesse siano riconosciute con lo
strumento urbanistico, come nella specie, le conseguenze
sulla loro presa in carico e gestione sono identiche.
In entrambi i casi l’Ente locale deve gestire i pubblici
servizi connessi alle opere di urbanizzazione esistenti
(servizio viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni
svolte nelle pronunce e condivise dal Collegio di questa
Sezione: sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e
ordinanza 316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha
osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n.
1150/1942- “l’acquisizione delle opere e delle relative aree
è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle
stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad
essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra
descritti, detto trasferimento è condizione necessaria
affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del
territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed
è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi
concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti
in materia di corretta gestione dei servizi pubblici
correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il
legislatore espressamente affida all’autorità
amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione
di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di
lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione
pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la
convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi-
il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma
imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti
urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che
normativamente imposta, è indispensabile per garantire la
tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di
interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero
gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di
urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema
tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro
destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del
corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori
di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute,
alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed
elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla
mano pubblica delle opere di urbanizzazione (e delle aree su
cui esse insistono), secondo il regime del patrimonio
indisponibile (perché destinato a pubblico servizio, secondo
lo schema di cui all’art. 826, comma 3, del codice civile),
è principio assolutamente consolidato in giurisprudenza (ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I,
03.05.2011,
n. 606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010,
n. 2815; TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187
e Sez. II, 21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n.
1373/2004; Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n.
1514)”.
Nella stessa sentenza, la Sezione ha poi precisato che tale
approccio interpretativo ha trovato ulteriore consacrazione
normativa a seguito dell’entrata in vigore del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia), ove all’art. 16, comma
2, si afferma che “2. La quota di contributo relativa agli
oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del
rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della
legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni,
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con
conseguente acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune”.
Quindi, una volta ricondotte al regime del patrimonio
indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema
di protezione di cui all’art. 828, comma 2, del codice
civile, secondo cui “I beni che fanno parte del patrimonio
indisponibile non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano”, il che ne impedisce l’alienazione e
l’usucapione da parte dei privati (cfr., ex multis,
Cassazione civile, Sez. II, 15.02.2010, n. 3465).
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali
allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità
(idrico, fognario, viabilità, elettrico…), la loro proprietà
necessariamente deve essere del Comune, il quale soltanto
può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità
dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe
essere garantito da un soggetto privato il quale,
ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave
imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di
utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con
qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da
mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini;
si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da
un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di
depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o
viaria non manutenuta (cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II,
sentenza n. 990 del 2009).
Proprio perché possano poi concretamente operare le norme
nazionali e regionali vigenti in materia di corretta
gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di
urbanizzazione, il legislatore espressamente ne affida la
titolarità all’autorità amministrativa (cfr., ad es., la
legge regionale 17.10.1997, n. 29 e il D.L.gvo 02.02.2001, n. 31, per quanto riguarda il servizio
idrico, nonché il d.lgvo 30.04.1992, n. 285 per la
viabilità stradale).
La gestione di simili servizi deve necessariamente essere
garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta,
vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a
soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un
appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla
supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una
qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona
all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura
paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una
precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei
servizi pubblici -con la previsione della necessità di un
piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e
regolamentari quanto a contenuto e procedimento di
approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi
alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da
lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali
del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che
conducono all’inaccettabilità della tesi sostenuta della
difesa del Comune sull’assenza di un obbligo per lo stesso
di prendere in carica le opere di urbanizzazione; le strade
sono oramai entrate nel patrimonio del Comune per utilizzo
pubblico delle stesse da oltre quarant’anni, come già
affermato dalla Sezione con la sentenza n. 1738 del 2008 in
relazione ad una strada della località, cosicché i danni
derivanti dalla circolazione per omessa o insufficiente
manutenzione non potrebbero che gravare anche sullo stesso
Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i
ricorrenti potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri
per la manutenzione delle strade, tenuto conto che non hanno
alcuna quota di proprietà sulle stesse, tenuto anche conto
che le stesse sono soggette al pubblico transito e tenuto
conto che non potrebbero essere costretti a far parte di un
condominio per la loro gestione, in assenza di contitolarità
sulle stesse; la partecipazione ad un consorzio per la
gestione di servizi comuni, in assenza di una contitolarità
sui beni, implica l’adesione volontaria per la fruizione
degli stessi, che sicuramente non potrebbe essere imposta ai
ricorrenti, tantomeno ai sub acquirenti delle abitazioni
presenti nel compendio, stante la proprietà Comunale sul
sedime stradale ed il connesso uso pubblico sullo stesso.
Per le su esposte considerazioni va accolta la domanda di
accertamento dell’obbligo del Comune di Sinnai di prendere
in carico le opere di urbanizzazione primaria presenti nei
comparti in questione anche al fine di permettere ai
cittadini di Torre delle Stelle di ottenere l’allaccio delle
loro utenze ai servizi pubblici (idrico, fognario,
elettrico…) erogati dai vari gestori.
2 - Per quanto riguarda l’ulteriore, ancorché correlata,
domanda, come precisata nel corso del ricorso, di condanna
del Comune a porre in essere tutte le attività necessarie
alla manutenzione delle opere di urbanizzazione dopo la loro
presa in carico, il Collegio la ritiene inammissibile.
Al riguardo, infatti, la Sezione ribadisce il proprio
consolidato orientamento (già confermato dal giudice
d’appello) in base al quale una domanda così prospettata è
da considerarsi inammissibile e ciò non tanto sotto il
profilo del difetto di giurisdizione quanto per carenza di
legittimazione attiva dei ricorrenti, i quali invocano la
condanna del Comune a porre in essere dei comportamenti
materiali (la manutenzione delle opere di urbanizzazione)
che sono, invece, rimessi alle sue scelte
politico-amministrative, anche in relazione alle contingenti
disponibilità di bilancio; pertanto tale pretesa non
corrisponde ad una posizione di vantaggio processualmente
tutelata dall’ordinamento -id est ad una situazione
soggettiva qualificabile alla stregua di interesse
legittimo- essendo oggetto di un compito attribuito alla
pubblica amministrazione al fine di soddisfare bisogni
ascrivibili alla collettività nel suo complesso, come tali
non differenziabili ed in definitiva classificabili alla
stregua di interessi semplici e di fatto (in termini TAR
Sardegna, Sezione II, 10.09.2013 n. 602 e 10.10.2012, n. 1154; Consiglio di Stato, Sezione V, 29.12.2004, n. 7773)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 27.03.2015 n. 469 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' pacifico che, in caso di inottemperanza
sostanziale dell’ingiunzione di demolizione, l’effetto
acquisitivo operi automaticamente e neppure occorra un
avviso di inizio di un nuovo procedimento.
---------------
Per quanto riguarda la impugnazione della sanzione
pecuniaria, il combinato disposto dell’art. 31, comma 4-bis,
e dell’art. 27, comma 2, DPR 380/2001 impone di irrogare la
sanzione nella misura massima quando l’abuso insiste, come
nel caso de quo, in area dove è vietato l’intervento
edilizio.
-
Considerato che, oggetto del presente ricorso è l’attività
provvedimentale conseguente a un’ingiunzione di demolizione
di un vasto complesso di opere abusive ex art. 31 D.lgs.
380/2001, ingiunzione non impugnata;
-
Rilevato come dai sopralluoghi successivamente eseguiti
dall’Amministrazione risulti che l’ingiunzione non è stata
in gran parte ottemperata e che l’area, destinata a zona
agricola (la destinazione C/3 di una parte è subordinata a
un PUA non adottato), risulta attualmente alterata dagli
abusi non rimossi, destinati ad attività di autorimessa, già
negativamente accertata da questo TAR (sentenza n. 81/2015),
conformemente all’orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR
Puglia, Bari, III, 26.02.2009 n. 404);
-
Sottolineato che è pacifico che, in caso di inottemperanza
sostanziale dell’ingiunzione di demolizione, l’effetto
acquisitivo operi automaticamente (cfr CdS, IV, 26.02.2013 n.
1179) e neppure occorra un avviso di inizio di un nuovo
procedimento;
-
Rilevato come l’area de qua acquisita non sia costituita
anche dalle c.d. pertinenze urbanistiche, bensì solo dal sedime, riguardando questo anche la parte del terreno
agricolo trasformata con la pavimentazione abusiva in
calcestruzzo e ghiaia, così che neppure è rilevante
l’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla parte
ricorrente;
-
Rilevato altresì che la superficie da acquisire è ricavabile
dalle planimetrie allegate all’ordinanza di accertamento di
inottemperanza e che la presupposta ordinanza di ripristino
non è stata impugnata;
-
Rilevato ancora che, anche a voler qualificare servitù di
passaggio quella disposta a carico del mappale 541, la sua
costituzione rientrerebbe comunque nel potere-dovere di
confisca;
-
Considerato –per quanto riguarda la impugnazione della
sanzione pecuniaria– che il combinato disposto dell’art.
31, comma 4-bis, e dell’art. 27, comma 2, DPR 380/2001
impone di irrogare la sanzione nella misura massima quando
l’abuso insiste, come nel caso de quo, in area dove è
vietato l’intervento edilizio
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.03.2015 n. 358 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al fine del calcolo della sanzione
di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 - ora art. 34
DPR 380/2001 (pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n.
392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione), allorché la difformità si
traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è
logico e congruo che il Comune ricorra all’applicazione
analogica del criterio di stima previsto della legge
28.02.1985, n. 47, relativamente al condono edilizio, che
nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti
di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie
virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e
moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio
dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo
lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente
realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore
dell’immobile, e deve
conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di
proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie
convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume
abusivamente realizzato con l’aumento di altezza.
---------------
Altrettanto logico e congruo è che il Comune calcoli il dato mancante di
superficie attraverso la divisione del volume accertato per
l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta
del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici
residenziali aventi caratteristiche analoghe.
Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano il difetto di
motivazione e l’illegittimità dell’applicazione della
sanzione ragguagliata alla superficie virtuale, dato che si
tratta di una violazione che ha comportato un aumento di
volumetria senza aumento di superficie.
Le censure devono essere respinte.
Come sopra precisato, al provvedimento impugnato è allegata
una nota nella quale viene dato conto dell’approfondita
disamina svolta in merito alla problematica, e
all’inaccettabilità della pretesa del ricorrente di lasciare
senza sanzioni, dal punto di vista edilizio, un intervento
abusivo che abbia comportato la violazione delle altezze e
delle volumetrie assentibili rispetto ad un edificio sito in
centro storico, ove si debba accedere ad un’interpretazione
meramente letterale alla disposizione di cui all’art. 93,
comma 1, della legge regionale 27.06.1985, n. 61.
Tale norma infatti, ai fini di quantificare la sanzione
applicabile alle fattispecie nelle quali non può disporsi la
demolizione senza pregiudizio per le parti conformi, fa
riferimento al doppio del costo di produzione della parte
realizzata in difformità, determinato ai sensi della L. 27.07.1978, n. 392, e la norma da ultimo richiamata,
facendo riferimento alla superficie dell’edificio, secondo
il suo tenore letterale sarebbe inapplicabile alle
fattispecie di aumento di volume senza aumento di
superficie.
Esclusa la percorribilità dell’ipotesi di lasciare l’abuso
senza sanzione, il Comune accantona, perché sostanzialmente
ingiusta e priva di proporzionalità, anche l’altra soluzione
interpretativa astrattamente prospettabile, in base alla
quale la sanzione dovrebbe essere parametrata a tutta la
superficie del piano, dato che nel caso di specie l’abuso
non ha comportato la realizzazione di nuove superfici.
Per risolvere il problema posto dalla norma che fa
riferimento alle superfici, il Comune ricorre allora
all’applicazione analogica del criterio di stima previsto
della legge 28.02.1985, n. 47 (cfr. la prima nota alla
tabella allegata alla legge), relativamente al condono
edilizio, che nel caso di aumenti di volume non
corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi
previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la
cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando
inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una
gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di
volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di
un aumento di valore dell’immobile.
Orbene, il Collegio ritiene che la metodologia applicata con
il ricorso all’analogia al fine di stimare in termini di
superficie la violazione, sia corretta e conforme agli
orientamenti giurisprudenziali emersi sul punto, atteso che,
come è stato affermato “al fine del calcolo della sanzione
di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n.
392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione), allorché la difformità si
traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è
logico e congruo che il Comune calcoli il dato mancante di
superficie attraverso la divisione del volume accertato per
l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta
del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici
residenziali aventi caratteristiche analoghe” (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 08.10.2004, n. 5504) e deve
conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di
proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie
convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume
abusivamente realizzato con l’aumento di altezza” (cfr. Tar
Veneto, Sez. II, 22.04.2010, n. 2778)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.03.2015 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di condono edilizio, il parere dell'ente
proprietario della strada (fascia di rispetto stradale) deve
far riferimento al "centro abitato" al momento in cui si
svolge l'istruttoria dell'istanza e non alla data di
esecuzione dell'abuso.
La valutazione richiesta dall’art. 32 della legge
n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o
meno di un centro abitato conglobante l’immobile
interessato, deve necessariamente avere attinenza alle
concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui
tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali
condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole,
essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di
fatto del contesto del quale il manufatto fa parte,
esistenti al momento in cui si svolge il relativo
procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che
risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello
alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è
finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla
circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959,
n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di
edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso,
da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs.
30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato
s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque
edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro,
che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare.
Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero
essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione
di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche
per quanto concerne la sua identificazione formale
(cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).
I) I signori F.A.C. e P.T., eredi
del signor L.T., chiedono la riforma della
sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale
amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso proposto dal
de cuius avverso il parere negativo espresso dall’Anas con
nota del 06.04.2005 sull’istanza di sanatoria edilizia
straordinaria (c.d. condono) presentata in data 03.12.1986 ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47 di
un manufatto costruito abusivamente nel 1970, posto, secondo
il Tribunale amministrativo, a distanza di 23 metri dal
ciglio del Grande Raccordo Anulare.
Per ottenere l’esame
della domanda da parte del Comune il ricorrente in data 16
settembre ha chiesto all’Anas, ente preposto alla tutela del
vincolo stradale, il preliminare parere ex art. 32, quarto
comma, lett. c), della suddetta legge n. 47 del 1985.
Con la nota oggetto del ricorso di primo grado l’Anas ha
espresso parere negativo alla sanatoria, in quanto l’opera è
stata realizzata posteriormente al 13.04.1968 a distanza
non conforme a quanto stabilito dal decreto ministeriale 01.04.1968.
La sentenza ha rilevato che l’area su cui insiste la
costruzione risulta gravata dal vincolo di rispetto della
viabilità principale dell’autostrada Grande Raccordo Anulare
ed è successiva all’imposizione del relativo vincolo di
inedificabilità. Pertanto essa non è suscettibile di
sanatoria, dato che l’art. 32, quarto comma, lettera c),
della legge n. 47 del 1985 la consente solo per le opere
insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione […]
sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla
sicurezza del traffico.
II) Ha ricordato il primo giudice che la legge 21.05.1955, n. 463, di approvazione del Piano autostradale
nazionale, ha previsto che i tracciati delle quattro
autostrade che interessano il territorio della città di Roma
coincidano con l’inizio e con il termine del Grande Raccordo
Anulare, per evitare al traffico autostradale
l'attraversamento del centro cittadino. La legge 24.07.1961, n. 729, all’art. 13 ha autorizzato e finanziato la
realizzazione dei raccordi autostradali, prevedendone la
trasformazione in autostrade, poi effettuata per il Grande
Raccordo Anulare con decreto del ministro dei lavori
pubblici. Infine, nel 1962 è stato eseguito il primo
raddoppio di carreggiata nel tratto interessato.
Pertanto
legittimamente l’Anas ha escluso la sanabilità del
manufatto, realizzato su un’area già gravata da vincolo di inedificabilità, e non assumono valore contrario né
l’esistenza di altre costruzioni asseritamente autorizzate,
né l’inapplicabilità, in ragione della collocazione
dell’immobile, del decreto ministeriale 01.04.1968,
richiamato nel provvedimento impugnato. A quest’ultimo
riguardo la sentenza ha ritenuto non sufficiente la presenza
di un certo numero di edifici nell’area in questione per
ritenere l’esistenza di un centro abitato, e irrilevante la
più recente classificazione dovuta all’evoluzione dell’area
negli anni successivi.
III) La sentenza non può, sul punto appena evidenziato,
essere condivisa.
Giova premettere che il decreto ministeriale 01.04.1968
(Distanze minime a protezione del nastro stradale da
osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri
abitati, di cui all'art. 19 della legge 06.08.1967, n.
765), evocato dalla nota impugnata a preclusione della
sanatoria, prevede per le autostrade di qualunque tipo
(legge 07.02.1961, n. 59, art. 4) e per i raccordi
autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di
accesso fra le autostrade e la rete viaria della zona la
distanza minima di sessanta metri da osservarsi nella
edificazione a partire dal ciglio della strada e da
misurarsi in proiezione orizzontale (artt. 3 e 4: distanza
che comunque non risulterebbe rispettata neppure tenendo per
provata quella, pari a quaranta metri, di cui alla perizia
depositata in causa dagli appellanti).
Tale distanza, peraltro, deve essere osservata al di fuori
del perimetro dei centri abitati, come testualmente
precisano sia il decreto citato, sia l’art. 41-septies della
legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’articolo 19
della legge 06.08.1967, n. 765, alla quale il citato
decreto ha dato attuazione.
La risposta all’istanza di condono richiesto dal ricorrente
sconta, pertanto, la collocazione del manufatto
(pacificamente realizzato, come si è detto, dopo
l’imposizione del vincolo autostradale e a distanza
inferiore a quella prescritta) all’interno del centro
abitato. Una tale effettiva collocazione conduce ad una
risposta positiva, essendo all’esterno operante la
preclusione per vincolo di inedificabilità imposto dal
citato decreto.
Il Collegio ritiene fondate le censure rivolte, sul punto,
avverso la sentenza impugnata dall’appellante.
IV) Deve, infatti, essere considerato che la valutazione
richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985
all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo,
essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di
un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve
necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive
coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è
calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei
luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole,
essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di
fatto del contesto del quale il manufatto fa parte,
esistenti al momento in cui si svolge il relativo
procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che
risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello
alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a
dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la
qualificazione normativa delle norme sulla circolazione
stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per
cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade
ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito
segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in
un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene
intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla
Giunta comunale individuare e delimitare. Queste definizioni
–per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio
per quanto concerne la caratterizzazione di un centro
abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto
concerne la sua identificazione formale (cartello,
individuazione ad opera della Giunta comunale).
Nella fattispecie in esame il certificato di destinazione
urbanistica rilasciato dal Comune di Roma il 21.01.2015, depositato in atti, attesta comunque che la
costruzione di cui trattasi è attualmente inserita nel
tessuto urbanistico ed edilizio all’interno del piano
particolareggiato 13/F “La Rustica”, approvato con
deliberazione della Giunta regionale del Lazio in data 13.11.1984, con tessuto prevalentemente residenziale
secondo il Piano regolatore generale approvato il 12.02.2008.
Una tale essenziale caratteristica del luogo,
non solo ormai nella sua realtà profondamente mutato
rispetto al tempo della realizzazione del manufatto, ma
anche assoggettato a una tale qualificazione formale,
avrebbe dovuto essere considerata dall’Anas. Questa invece,
prescindendo da una siffatta indagine, si è attestata sulla
mera collocazione formale dell’area al tempo
dell’intervento, allora esterna al qualificato centro
abitato.
Ne deriva l’illegittimità del parere impugnato, che esclude
l’ulteriore sviluppo del procedimento, dato che la regola di
cui l’Anas ha fatto applicazione non è coerente con la
concreta e attuale caratteristica dell’area, ora, come si è
detto, anche formalmente inglobata dal centro abitato e
fronteggiata da altre costruzioni limitrofe al bordo del
Grande Raccordo Anulare.
Quanto al prosieguo del procedimento di condono qui in
questione, resta integro il potere dell’Anas, in sede di
rinnovo del parere prescritto dall’art. 32, 4° comma, lett.
c), della legge n. 47 del 1985, di valutare la compatibilità
dell’immobile con le esigenze di sicurezza del traffico.
È poi il caso di evidenziare, per la certezza dei rapporti,
che ai fini dell’eventuale sanatoria edilizia ordinaria le
considerazioni precluse all’Anas (in quanto attinenti al
vincolo di cui è custode) potranno trovare espressione da
parte del Comune, la cui valutazione prettamente edilizia
non potrà prescindere dall’esaminare la cosiddetta doppia
conformità dell’opera abusivamente realizzata, in rispetto
alla regola introdotta dall’art. 13, primo comma, della
legge n. 47 del 1985, oggi art. 36, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
V) In conclusione l’appello è fondato e deve essere accolto,
con conseguente riforma della sentenza di primo grado e
annullamento del provvedimento oggetto del ricorso, salvi
gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sagoma di una costruzione concerne il contorno che viene ad
assumere l'edificio ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti, sicché solo le aperture che
non prevedano superfici sporgenti rientrano nella nozione di
sagoma e sono sottoposte al regime delle c.d. varianti in
corso d'opera.
Con la sentenza in epigrafe il Gip del tribunale di Cuneo
dichiarò C.M. colpevole del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.p.R.
06.06.2001, n.
380, per avere, quale direttore dei lavori, realizzato, in
parziale difformità dalla
DIA, una tettoia a copertura della scala di accesso al piano
seminterrato,
condannandolo alla pena dell'ammenda ritenuta di giustizia.
Osservò il giudice che la tettoia in questione era stata poi
demolita; che
essa aveva alterato la sagoma dell'edificio, e comunque che
violava le NTA del
PRG perché non poteva equipararsi ad una pensilina e quindi
avrebbe dovuto
rispettare la distanza di m. 10 dalla strada vicinale.
L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo erronea
applicazione dell'art. 44, lett. a), d.p.R. 06.06.2001,
n. 380, e dell'art. 87
delle NTA. Osserva che la scala di accesso dall'esterno al
piano interrato era già
esistente e che la stessa era contornata da tre muri
perimetrali.
L'intervento era
consistito unicamente nella copertura di questa struttura.
Pertanto non era stata
modificata la sagoma e non erano state violate le distanze
dalla strada vicinale,
perché il preesistente filo di fabbricazione non è stato
variato.
...
Il ricorso è fondato.
Dalla sentenza impugnata risulta:
- che esisteva già una
scala di accesso al
piano interrato situata all'esterno dell'edificio principale
sul lato sud;
- che la
scala era contornata da tre muri perimetrali, ma priva di
copertura;
- che
l'intervento in questione è consistito nell'apporre un tetto
a copertura di questa
struttura muraria già esistente;
- che la sua situazione
anteriore corrisponde a
quella attuale conseguente alla demolizione della struttura
di copertura.
Il giudice ha giustamente ritenuto erronea la tesi del
responsabile
dell'ufficio tecnico comunale, secondo cui l'intervento
andrebbe qualificato
come «ampliamento» sicché mancherebbe la distanza di 10
metri dalla strada
vicinale, come prescritto dall'art. 87, comma 1, lett. J,
delle NTA del comune di
Fossano.
Il giudice, peraltro, ha ritenuto ugualmente configurabile
il reato innanzitutto
perché sarebbe mutata la sagoma dell'edificio, come
risulterebbe anche da
due sentenze di questa Corte. Sennonché, va in primo luogo
rilevato che con il
capo di imputazione non risulta contestato il cambiamento di
sagoma, ma unicamente
la violazione delle distanze dalla strada vicinale.
In
secondo luogo, una
delle due massime citate (Sez. III, 09.02.1998, n. 3849, Maffullo, m. 210647) -dopo aver affermato il principio che «La sagoma di una
costruzione concerne il
contorno che viene ad assumere l'edificio ivi comprese le
strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti, sicché solo le aperture che
non prevedano superfici
sporgenti rientrano nella nozione di sagoma e sono
sottoposte al regime delle
c.d. varianti in corso d'opera»- si riferisce alla
realizzazione ex novo di una
scala esterna di accesso al primo piano, che pertanto aveva
alterato la sagoma
dell'edificio ed impedito la sanatoria, integrando l'ipotesi
della parziale difformità.
Nella specie, invece, la scala già esisteva, compresi i muri
perimetrali e
l'opera è consistita unicamente nel coprire con un tetto una
struttura muraria già
esistente.
In terzo luogo, la seconda massima citata (Sez.
111, 09.02.2006, n. 8303,
Nardini, m. 233563) ribadisce il principio che «In tema di
disciplina edilizia,
rientrano nel concetto di sagoma di una costruzione tutte le
strutture perimetrali
come gli aggetti e gli sporti, restandone escluse le sole
aperture che non
prevedono superfici sporgenti, soltanto per le quali è
consentita la procedura
della denunzia di inizio attività per varianti in corso
d'opera».
Nella specie,
pertanto, non si comprende come possa ritenersi alterata la
sagoma, dal momento
che dalla sentenza impugnata non risultano realizzati,
rispetto all'edificio
preesistente, nuovi aggetti o sporti o nuove strutture
perimetrali, bensì solo la
copertura di una preesistente struttura.
Del resto, il giudice non insiste sulla (non contestata)
alterazione della sagoma
e sembra fondare la sua decisione unicamente sulla
violazione dell'art.
87, comma 1, lett. j, della NTA del PRG, secondo il quale la
distanza rispetto
alla strada vicinale di almeno 10 metri, va riferita al filo
di fabbricazione, il
quale è dato dal perimetro esterno delle pareti della
costruzione, con esclusione
degli elementi decorativi, dei cornicioni, delle pensiline,
dei balconi e delle altre
analoghe opere, aggettanti per non più di m. 1,50, mentre
sono inclusi nel
perimetro le verande, gli elementi portanti in risalto, gli
spazi porticati, i vani semiaperti di scale e ascensori. Il
giudice ha quindi ritenuto che l'opera in questione,
ai fini del calcolo della distanza della costruzione dal
ciglio stradale, andava
«inclusa nel perimetro esterno, non essendo la stessa
equiparabile a una
semplice "pensilina", posto che poggia su pilastri infissi
nel suolo».
Sennonché, giustamente la difesa osserva che il giudice non
ha considerato
che tale perimetro esterno già preesisteva, dal momento che
i muri esterni della
scala non erano stati oggetto d'intervento, che era
consistito unicamente nella
posa del tetto. Di conseguenza, proprio sulla base della
norma regolamentare richiamata
dal giudice, deve concludersi nel senso che il preesistente
filo di fabbricazione
non fu variato. E del resto, la norma regolamentare citata
include espressamente
nel perimetro esterno «i vani semi-aperti di scale e
ascensori».
Nella specie risulta appunto già esistente un vano chiuso su
tre lati e privo di
copertura, che dunque costituiva vano semiaperto e che
pertanto era incluso nel
perimetro esterno della costruzione. L'opera contestata
consiste appunto nella
realizzazione del tetto di questo vano semiaperto, che non
aggetta certamente
per più di 1,5 m. e che di conseguenza non è computabile ai
fini della distanza.
In conclusione, è chiaro l'errore in cui è incorso il
giudice nel ritenere che
l'intervento sia consistito nella realizzazione di una
tettoia, la quale è un manufatto
composto da una struttura di sostegno (pilastri o muri) e da
un tetto di copertura.
Nel caso in esame, invece, la struttura di sostegno era già
preesistente e
costituiva a tutti gli effetti «perimetro esterno» ai sensi
dell'art. 16 della NTA
del PRG del comune di Fossano. L'apposizione di un tetto
aggettante per meno
di m. 1,50 non ha perciò variato il perimetro esterno e
dunque non ha violato la
distanza di m. 10 dalla adiacente strada vicinale.
Risulta quindi evidente che la violazione contestata con il
capo di imputazione
non sussiste. La sentenza impugnata deve pertanto essere
annullata senza
rinvio perché il fatto non sussiste (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 27.03.2013
n. 14417). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia edilizia sono realizzabili con denuncia di inizio
attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di
portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica
dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti
dell'immobile, e con conservazione della consistenza
urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli
interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall'art.
10, comma primo, lett. c), DPR n. 380 del 2001, che portano
ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente
con aumento delle unità immobiliari o modifiche del volume,
sagoma, prospetti o superfici e per i quali è necessario il
preventivo permesso di costruire.
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi da questa
sezione con la sentenza n. 834 del 04.12.2008, con la quale
è stato specificamente evidenziato che "In tema di reati
edilizi, l'apertura di una porta al posto di una
preesistente finestra necessita del preventivo rilascio del
permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera
denuncia d'inizio attività poiché si tratta di intervento
edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto
tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia
"minore".
Altrettanto dicasi per la veranda con travetti frangisole.
Perfino la realizzazione dl una tettoia di copertura di un
terrazzo di un'abitazione non può qualificarsi quale
intervento di manutenzione straordinaria, né si configura
quale pertinenza atteso che costituendo parte integrante
dell'edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente
integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del
permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 DPR
380/2001.
Più di recente è stato ribadito che "Integra il reato di cui
all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del 2001 la
realizzazione di una tettoia, in mancanza del preventivo
rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di
copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la
semplice DIA (In motivazione viene specificato che
costituisce "nuova costruzione" qualsiasi manufatto edilizio
fuori terra o interrato e che tale deve considerarsi la
tettoia, anche se accessoria ad un manufatto preesistente,
tenuto altresì conto che nella nozione di sagoma rientra
anche lo sviluppo in altezza dell'immobile").
1. La Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 29.02.2012,
confermava la
sentenza del Tribunale di Lecce, in composizione
monocratica, resa il 25.02.2010,
con la quale Tondi Rosa Margherita, previo riconoscimento
delle circostanze
attenuanti generiche, era stata condannata alla pena
(sospesa alle condizioni di
legge) di giorni 20 di arresto ed euro 8.000,00 di ammenda
per il reato di cui
all'art. 44, lett. b), DPR 380/2001, limitatamente alla modifica
del prospetto ed alla
realizzazione di una veranda con travetti frangisole ed
annessa scala in cemento
armato in assenza di permesso di costruire.
Nel disattendere I motivi di appello, rilevava la Corte
territoriale che tanto la
scala in cemento armato quanto l'arretramento del portoncino
costituivano
modifica del prospetto per cui necessitavano d permesso di
costruire ex art. 10,
comma 1, lett. c) DPR 380/01. Anche la realizzazione della
veranda, che non
costituisce una pertinenza, in quanto determina
l'ampliamento del fabbricato,
richiedeva il rilascio di permesso di costruire.
Infine, in ordine all'epoca di realizzazione di dette opere,
assumeva la Corte che
doveva farsi riferimento alla data di presentazione della
DIA, come confermato
dal tecnico comunale, e, non avendo l'imputata fornita
alcuna prova in senso
contrario, il reato non poteva ritenersi prescritto.
...
3.1.1. In ordine allo spostamento del portoncino ed alla
realizzazione della scala,
non c'è dubbio che si sia determinata una modifica del
prospetto dell'edificio, per
cui era necessario permesso di costruire.
"In materia edilizia sono realizzabili con denuncia di inizio
attività gli interventi di
ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che
comportano una semplice
modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti
dell'immobile, e con
conservazione della consistenza urbanistica iniziale,
classificabili diversamente
dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti
dall'art. 10, comma primo, lett.
c), DPR n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in tutto
o in parte diverso
dal precedente con aumento delle unità immobiliari o
modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici e per i
quali è necessario il preventivo permesso di
costruire" (con la sentenza n. 1893 del 13.12.2006; conf. Cass. pen. sez. 3
n. 12369 dei 25.02.2003).
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi da questa
sezione con la sentenza
n. 834 del 04.12.2008, con la quale è stato specificamente
evidenziato che "In
tema di reati edilizi, l'apertura di una porta al posto di
una preesistente finestra
necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire,
non essendo
sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si
tratta di intervento edilizio
comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non
qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore".
3.1.2. Altrettanto dicasi per la veranda con travetti
frangisole.
Perfino la realizzazione dl una tettoia di copertura di un
terrazzo di un'abitazione
non può qualificarsi quale intervento di manutenzione
straordinaria, né si
configura quale pertinenza atteso che costituendo parte
integrante dell'edificio
ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità,
in difetto del
preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di
cui all'art. 44 DPR
380/2001 (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 40843 dell'11.10.2005).
Più di
recente è stato
ribadito che "Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del
2001 la realizzazione di una tettoia, in mancanza del
preventivo rilascio del
permesso di costruire, di una tettoia di copertura di un
manufatto, non essendo
sufficiente la semplice DIA (In motivazione viene
specificato che costituisce
"nuova costruzione" qualsiasi manufatto edilizio fuori terra
o interrato e che tale
deve considerarsi la tettoia, anche se accessoria ad un
manufatto preesistente,
tenuto altresì conto che nella nozione di sagoma rientra
anche lo sviluppo in
altezza dell'immobile")- Cass. pen. sez. 3 n. 21351 del
06.05.2010 (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza n. 4142/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza urbanistica, diversamente da quella
dettata dall'art. 817 del codice civile, ha peculiarità sue
proprie, inerendo essa ad un'opera- che abbia comunque una
propria individualità fisica ed una propria conformazione
strutturale- preordinata ad un'esigenza oggettiva
dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente
inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo
valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o
dotata dì un volume minimo tale da non consentire, in
relazione anche alle caratteristiche dell'edificio
principale una destinazione autonome e diversa da quella a
servizio dell'immobile cui accede.
La strumentalità rispetto all'immobile principale deve
essere in ogni caso oggettiva, e non può desumersi, a
differenza di quanto consente la nozione civilistica di
pertinenza, esclusivamente dalla destinazione
soggettivamente data dal proprietario o dal possessore.
L'opera pertinenziale inoltre, non deve essere parte
integrante o costitutiva di altro fabbricato, sicché non può
considerarsi tale l'ampliamento di un edificio che, per la
relazione di congiunzione fisica con esso, ne costituisca
parte.
---------------
La realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo
di un'abitazione non può qualificarsi quale intervento di
manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza
atteso che costituendo parte integrante dell'edificio ne
costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in
difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire,
del reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001.
Anche più di recente è stato ribadito che "Integra il reato
di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del
2001 la realizzazione, in mancanza del preventivo rilascio
del permesso dì costruire, di una tettoia di copertura di un
manufatto, non essendo sufficiente la semplice DIA".
1) Con sentenza del 16.06.2010 la Corte di Appello di Napoli
confermava la sentenza del Tribunale di Torre Annunziato,
sez, dist. di Torre del Greco, in composizione monocratica,
del 28.01.2008, con la quale F.F., previa concessione delle
circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata
aggravante, applicata la diminuente per la scelta del rito,
era stato condannato alla pena (sospesa) di mesi otto di
reclusione per i reati di cui all'art. 44, lett. c), DPR
380/2001 (capo a), 64 e 71, 65 e 72 DPR 380/2001 (capo b),
93 e 95 DPR 380/2001 (capo c), 181, comma 1-bis, D.L.vo
42/2004 (capo d), 734 c.p. (capo e), 349 cpv.c.p. (capo f),
unificati sotto il vincolo della continuazione.
Assumeva la Corte che il manufatto (una tettoia con
copertura in tegole in laterizio, sostenuta da travi e
pilastri in ferro, occupante una superficie di circa mq.
60,00) realizzato in aderenza al preesistente fabbricato non
poteva certo integrare la nozione di pertinenza, come
delineato dalla giurisprudenza di legittimità, e pertanto
abbisognava di permesso di costruire e di tutte le altre
autorizzazioni.
...
3) Il ricorso è inammissibile.
3.1) Il primo e secondo motivo sono manifestamente
infondati, avendo la Corte territoriale adeguatamente
motivato in ordine alla necessità del permesso di costruire,
non potendo una tettoia, realizzata in aderenza ad un
preesistente manufatto (come quella di cui alla
contestazione), rientrare nella nozione di pertinenza.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, invero,
"la nozione di pertinenza urbanistica, diversamente da quella
dettata dall'art. 817 del codice civile, ha peculiarità sue
proprie, inerendo essa ad un'opera- che abbia comunque una
propria individualità fisica ed una propria conformazione
strutturale- preordinata ad un'esigenza oggettiva
dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente
inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo
valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o
dotata dì un volume minimo tale da non consentire, in
relazione anche alle caratteristiche dell'edificio
principale una destinazione autonome e diversa da quella a
servizio dell'immobile cui accede" (vedi tra le molteplici
decisioni, Cass. sez. 3, 09.12.2004, Bufano).
"La
strumentalità rispetto all'immobile principale deve essere
in ogni caso oggettiva, e non può desumersi, a differenza di
quanto consente la nozione civilistica di pertinenza,
esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal
proprietario o dal possessore. L'opera pertinenziale
inoltre, non deve essere parte integrante o costitutiva di
altro fabbricato, sicché non può considerarsi tale
l'ampliamento di un edificio che, per la relazione di
congiunzione fisica con esso, ne costituisca parte..." (cfr.
ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 2017 del
25.10.2007-Giangrasso).
In particolare, proprio in relazione ad una tettoia,
realizzata su un edificio preesistente, secondo la pacifica
giurisprudenza di questa Corte, si è ritenuto necessario il
permesso di costruire. Infatti, "La realizzazione di una
tettoia di copertura di un terrazzo di un'abitazione non può
qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria,
né si configura quale pertinenza atteso che costituendo
parte integrante dell'edificio ne costituisce ampliamento,
con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo
rilascio del permesso di costruire, del reato di cui
all'art. 44 DPR 380/2001" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n.
40843 dell'11.10.2005).
Anche più di recente è stato ribadito che "Integra il
reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380
del 2001 la realizzazione, in mancanza del preventivo
rilascio del permesso dì costruire, di una tettoia di
copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la
semplice DIA" (in motivazione viene specificato che
costituisce "nuova costruzione" qualsiasi manufatto
edilizio fuori terra o interrato e che tale deve
considerarsi la tettoia, anche se accessoria ad un manufatto
preesistente, tenuto altresì conto che nella nozione di
sagoma rientra anche lo sviluppo in altezza dell'immobile)
Cass. pen. sez. 3 n. 21351 del 06.05.2010 (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
n. 4076/2012). |
AGGIORNAMENTO AL 04.09.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla fidejussione a garanzia del versamento
rateizzato del contributo di costruzione.
Si ritiene che spetti al giudice
amministrativo l’esame dell’atto con cui
l’amministrazione chiede al fideiussore il pagamento
del contributo di costruzione in caso di
inadempimento del titolare del permesso di
costruire.
Le fideiussioni che garantiscono un sottostante
rapporto amministrativo, anche se dotate della
formula a prima richiesta, rimangono intrinsecamente
accessorie al suddetto rapporto. Si tratta di uno
dei vari strumenti privatistici utilizzati per lo
svolgimento di una funzione pubblica, secondo
un’impostazione sempre più diffusa, che non modifica
il confine del settore amministrativo.
L’escussione della fideiussione non è quindi un mero
atto privatistico indirizzato a un soggetto terzo,
ma ha la sostanza di un atto amministrativo,
perfettamente equivalente all’esercizio del potere
di vigilanza e repressione nei confronti degli
inadempimenti del titolare del permesso di
costruire.
Il fatto che il fideiussore non possa opporre le
eccezioni proprie del titolare del permesso di
costruire non significa che quest’ultimo debba
subire l’iniziativa dell’amministrazione senza
potersi difendere efficacemente, facendo valere la
propria interpretazione della disciplina
urbanistico-edilizia. L’interesse alla difesa appare
invece evidente, in quanto l’escussione produce
conseguenze rilevanti anche sul titolare del
permesso di costruire.
Da un lato, infatti, attraverso l’escussione viene
confermato l’importo del contributo di costruzione,
che normalmente costituisce (come nel caso in esame)
il punto centrale del conflitto con
l’amministrazione, dall’altro il pagamento
determina, con il diritto di regresso, una gravosa
esposizione del debitore nei confronti del
fideiussore escusso.
1. Il Comune di Arcene ha rilasciato alla società
ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del
14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3
edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La
Fornace”. Il contributo di costruzione (€
197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche
della superficie destinata ad autorimesse e aree di
manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del
rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la
rateizzazione del resto (v. provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011),
con applicazione degli interessi legali, come
previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del
09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate,
ciascuna di importo pari a € 15.324, da
corrispondere a intervalli trimestrali tra il
22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha
presentato una polizza fideiussoria emessa da
Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a €
192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime
quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la
scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di
pagamento della quarta rata) la ricorrente ha
effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi
interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione,
ricalcolato escludendo la superficie destinata ad
autorimesse e non computando la suddetta superficie
ai fini dell’individuazione della classe degli
edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta
computati gli interessi per la rateizzazione,
l’importo definitivo risulterebbe pari a €
98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta
alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo
dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero
pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della
fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10,
effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha
comunicato una nuova escussione parziale della
fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli
atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale
n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione
con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il
30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate
come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n.
12, che prevede il regime di gratuità integrale per
i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed
esclude le relative superfici dalla definizione
della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR
06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con
riferimento alle disposizioni della deliberazione
giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione
solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono
che il contributo di costruzione residuo venga
rideterminato qualora il costo di costruzione
subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le
sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del
contributo di costruzione sarebbe stato versato
ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una
pronuncia che accerti il contributo di costruzione
nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente
condanna alla restituzione della somma versata o
escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di
interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo
la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione
si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla giurisdizione
9. Per quanto riguarda i dubbi sulla giurisdizione
sollevati dal Comune, si ritiene che spetti al
giudice amministrativo l’esame dell’atto con cui
l’amministrazione chiede al fideiussore il pagamento
del contributo di costruzione in caso di
inadempimento del titolare del permesso di
costruire.
10. Le fideiussioni che garantiscono un sottostante
rapporto amministrativo, anche se dotate della
formula a prima richiesta, rimangono intrinsecamente
accessorie al suddetto rapporto. Si tratta di uno
dei vari strumenti privatistici utilizzati per lo
svolgimento di una funzione pubblica, secondo
un’impostazione sempre più diffusa, che non modifica
il confine del settore amministrativo.
L’escussione della fideiussione non è quindi un mero
atto privatistico indirizzato a un soggetto terzo,
ma ha la sostanza di un atto amministrativo,
perfettamente equivalente all’esercizio del potere
di vigilanza e repressione nei confronti degli
inadempimenti del titolare del permesso di
costruire.
11. Il fatto che il fideiussore non possa opporre le
eccezioni proprie del titolare del permesso di
costruire non significa che quest’ultimo debba
subire l’iniziativa dell’amministrazione senza
potersi difendere efficacemente, facendo valere la
propria interpretazione della disciplina
urbanistico-edilizia. L’interesse alla difesa appare
invece evidente, in quanto l’escussione produce
conseguenze rilevanti anche sul titolare del
permesso di costruire.
Da un lato, infatti, attraverso l’escussione viene
confermato l’importo del contributo di costruzione,
che normalmente costituisce (come nel caso in esame)
il punto centrale del conflitto con
l’amministrazione, dall’altro il pagamento
determina, con il diritto di regresso, una gravosa
esposizione del debitore nei confronti del
fideiussore escusso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla acquiescenza del titolo edilizio ritirato.
La circostanza che la ricorrente
abbia inizialmente interloquito con gli uffici
comunali sull’importo del contributo di costruzione,
e poi abbia pagato gran parte della somma richiesta
dal Comune, non determina alcuna acquiescenza.
Perché vi possa essere acquiescenza occorre che il
privato sia perfettamente libero da timori o
aspettative. Quando invece l’esecuzione di un
obbligo imposto dall’amministrazione sia anche la
condizione per ottenere un vantaggio immediato (ad
esempio, il rilascio del titolo edilizio) o per non
perdere vantaggi futuri (ad esempio, la proroga del
titolo edilizio, o l’approvazione di varianti) è
evidente che non vi è affatto una piena accettazione
della volontà dell’amministrazione, ma solo una
scelta dettata dall’opportunità di rinviare a un
momento successivo l’inizio della controversia.
In questo caso, opera semplicemente il termine di
prescrizione, che per i diritti di natura economica
collegati a titoli edilizi è quello ordinario
decennale. Una conseguenza secondaria dell’attesa
del privato riguarda la data di decorrenza degli
interessi legali sulle somme di cui è chiesta la
restituzione: poiché il rinvio della controversia
corrisponde anche a un’utilità per il privato
stesso, gli interessi potranno decorrere solo dalla
notifica del ricorso.
---------------
1. Il
Comune di Arcene ha rilasciato alla società
ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del
14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3
edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La
Fornace”. Il contributo di costruzione (€
197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche
della superficie destinata ad autorimesse e aree di
manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del
rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la
rateizzazione del resto (v. provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011),
con applicazione degli interessi legali, come
previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del
09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate,
ciascuna di importo pari a € 15.324, da
corrispondere a intervalli trimestrali tra il
22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha
presentato una polizza fideiussoria emessa da
Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a €
192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime
quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la
scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di
pagamento della quarta rata) la ricorrente ha
effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi
interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione,
ricalcolato escludendo la superficie destinata ad
autorimesse e non computando la suddetta superficie
ai fini dell’individuazione della classe degli
edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta
computati gli interessi per la rateizzazione,
l’importo definitivo risulterebbe pari a €
98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta
alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo
dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero
pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della
fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10,
effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha
comunicato una nuova escussione parziale della
fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli
atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale
n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione
con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il
30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate
come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n.
12, che prevede il regime di gratuità integrale per
i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed
esclude le relative superfici dalla definizione
della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR
06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con
riferimento alle disposizioni della deliberazione
giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione
solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono
che il contributo di costruzione residuo venga
rideterminato qualora il costo di costruzione
subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le
sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del
contributo di costruzione sarebbe stato versato
ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una
pronuncia che accerti il contributo di costruzione
nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente
condanna alla restituzione della somma versata o
escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di
interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo
la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione
si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sull’acquiescenza
12. La circostanza che la ricorrente abbia
inizialmente interloquito con gli uffici comunali
sull’importo del contributo di costruzione, e poi
abbia pagato gran parte della somma richiesta dal
Comune, non determina alcuna acquiescenza.
13. Perché vi possa essere acquiescenza occorre che
il privato sia perfettamente libero da timori o
aspettative. Quando invece l’esecuzione di un
obbligo imposto dall’amministrazione sia anche la
condizione per ottenere un vantaggio immediato (ad
esempio, il rilascio del titolo edilizio) o per non
perdere vantaggi futuri (ad esempio, la proroga del
titolo edilizio, o l’approvazione di varianti) è
evidente che non vi è affatto una piena accettazione
della volontà dell’amministrazione, ma solo una
scelta dettata dall’opportunità di rinviare a un
momento successivo l’inizio della controversia.
In questo caso, opera semplicemente il termine di
prescrizione, che per i diritti di natura economica
collegati a titoli edilizi è quello ordinario
decennale. Una conseguenza secondaria dell’attesa
del privato riguarda la data di decorrenza degli
interessi legali sulle somme di cui è chiesta la
restituzione: poiché il rinvio della controversia
corrisponde anche a un’utilità per il privato
stesso, gli interessi potranno decorrere solo dalla
notifica del ricorso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In Lombardia, i box sono sempre e comunque gratuiti a
prescindere se superino -o meno- il rapporto di
legge di 1 mq/10 mc.. E la relativa snr non concorre
alla determinazione della classe dell'edificio.
Circa la gratuità del permesso
di costruire nella parte relativa alle autorimesse,
questo TAR si è già pronunciato più volte in senso
affermativo.
L’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 attribuisce la
massima estensione al principio della gratuità,
riferendolo espressamente a tutte le tipologie di
parcheggi (“pertinenziali e non pertinenziali,
realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota
minima richiesta per legge”).
Non è quindi possibile limitare il beneficio alle
costruzioni esistenti, o ai parcheggi privati
disciplinati da convenzioni urbanistiche o
rientranti nel programma urbano dei parcheggi. La
disciplina di favore è chiarita e completata dal
comma 2 dell’art. 69, il quale espressamente
stabilisce che “[a]i fini del calcolo del costo di
costruzione, le superfici destinate a parcheggi non
concorrono alla definizione della classe
dell'edificio”.
---------------
Non si ritiene di sollevare la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 69 della LR
12/2005, proposta dal Comune in relazione
all’asserito superamento dei limiti della competenza
legislativa regionale.
In realtà, la realizzazione di parcheggi privati
corrisponde a esigenze di interesse pubblico (minore
ingombro degli spazi della viabilità, minori spese
per parcheggi comunali) che possono presentarsi in
forma differenziata sul territorio nazionale, ferma
restando la necessità di una soglia minima omogenea.
Non è dunque irragionevole o disfunzionale che le
normative regionali siano a loro volta
differenziate, e incentivino in grado maggiore o
minore la realizzazione dei parcheggi privati,
tenendo conto delle particolarità locali.
Del resto, la disposizione generale dell’art. 16 del
DPR 380/2001 rinvia ai parametri stabiliti dalle
regioni sia per gli oneri di urbanizzazione (comma
4) sia per il costo di costruzione (comma 9), ovvero
le due voci in relazione alle quali viene
determinato il contributo di costruzione. Vi sono
quindi margini a disposizione del legislatore
regionale per ottenere, attraverso la leva del costo
delle edificazioni, risultati di interesse pubblico
individuati e definiti su scala locale.
---------------
Nel caso in esame, l’art. 69 della LR 12/2005 non è
stato rispettato, e pertanto il calcolo del
contributo di costruzione dovrà essere rinnovato
escludendo i parcheggi, sia direttamente sia in
relazione alla classe dell’edificio.
---------------
1. Il
Comune di Arcene ha rilasciato alla società
ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del
14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3
edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La
Fornace”. Il contributo di costruzione (€
197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche
della superficie destinata ad autorimesse e aree di
manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del
rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la
rateizzazione del resto (v. provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011),
con applicazione degli interessi legali, come
previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del
09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate,
ciascuna di importo pari a € 15.324, da
corrispondere a intervalli trimestrali tra il
22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha
presentato una polizza fideiussoria emessa da
Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a €
192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime
quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la
scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di
pagamento della quarta rata) la ricorrente ha
effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi
interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione,
ricalcolato escludendo la superficie destinata ad
autorimesse e non computando la suddetta superficie
ai fini dell’individuazione della classe degli
edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta
computati gli interessi per la rateizzazione,
l’importo definitivo risulterebbe pari a €
98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta
alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo
dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero
pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della
fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10,
effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha
comunicato una nuova escussione parziale della
fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli
atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale
n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione
con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il
30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate
come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n.
12, che prevede il regime di gratuità integrale per
i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed
esclude le relative superfici dalla definizione
della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR
06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con
riferimento alle disposizioni della deliberazione
giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione
solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono
che il contributo di costruzione residuo venga
rideterminato qualora il costo di costruzione
subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le
sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del
contributo di costruzione sarebbe stato versato
ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una
pronuncia che accerti il contributo di costruzione
nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente
condanna alla restituzione della somma versata o
escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di
interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo
la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione
si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sulla gratuita dei parcheggi
14. Circa la gratuità del permesso di costruire
nella parte relativa alle autorimesse, questo TAR si
è già pronunciato più volte in senso affermativo (v.
sentenze n. 1709 del 29.09.2009, e n. 508 del
24.05.2013).
L’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 attribuisce la
massima estensione al principio della gratuità,
riferendolo espressamente a tutte le tipologie di
parcheggi (“pertinenziali e non pertinenziali,
realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota
minima richiesta per legge”).
Non è quindi possibile limitare il beneficio alle
costruzioni esistenti, o ai parcheggi privati
disciplinati da convenzioni urbanistiche o
rientranti nel programma urbano dei parcheggi. La
disciplina di favore è chiarita e completata dal
comma 2 dell’art. 69, il quale espressamente
stabilisce che “[a]i fini del calcolo del costo
di costruzione, le superfici destinate a parcheggi
non concorrono alla definizione della classe
dell'edificio”.
15. Non si ritiene di sollevare la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 69 della LR
12/2005, proposta dal Comune in relazione
all’asserito superamento dei limiti della competenza
legislativa regionale.
In realtà, la realizzazione di parcheggi privati
corrisponde a esigenze di interesse pubblico (minore
ingombro degli spazi della viabilità, minori spese
per parcheggi comunali) che possono presentarsi in
forma differenziata sul territorio nazionale, ferma
restando la necessità di una soglia minima omogenea.
Non è dunque irragionevole o disfunzionale che le
normative regionali siano a loro volta
differenziate, e incentivino in grado maggiore o
minore la realizzazione dei parcheggi privati,
tenendo conto delle particolarità locali.
Del resto, la disposizione generale dell’art. 16 del
DPR 380/2001 rinvia ai parametri stabiliti dalle
regioni sia per gli oneri di urbanizzazione (comma
4) sia per il costo di costruzione (comma 9), ovvero
le due voci in relazione alle quali viene
determinato il contributo di costruzione. Vi sono
quindi margini a disposizione del legislatore
regionale per ottenere, attraverso la leva del costo
delle edificazioni, risultati di interesse pubblico
individuati e definiti su scala locale.
16. Nel caso in esame, l’art. 69 della LR 12/2005
non è stato rispettato, e pertanto il calcolo del
contributo di costruzione dovrà essere rinnovato
escludendo i parcheggi, sia direttamente sia in
relazione alla classe dell’edificio.
17. Poiché nelle memorie difensive si fa riferimento
a una variante progettuale chiesta dalla ricorrente,
che trasformerebbe una parte delle autorimesse in
superficie con diversa destinazione, è ora
necessario risolvere tale questione con precedenza
su tutte le altre.
A tutela delle finanze pubbliche, il Comune può
infatti legittimamente rinviare il nuovo calcolo (e
la restituzione di quanto incamerato in eccedenza)
in attesa che diventi definitivo il dato sulla
superficie dei parcheggi. Il bilanciamento di tale
posizione di vantaggio è costituito dall’obbligo di
decidere sulla richiesta di variante in un termine
breve
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di versamento rateizzato del costo di
costruzione non è legittimo adeguare gli importi
delle rate in ordine al sopravvenire di aumenti del
costo base del medesimo costo di costruzione.
Le deliberazioni giuntali n. 20/2011 e 14/2005
prevedono che nel caso di rateizzazione, qualora
sopravvengano aumenti del costo di costruzione, il
contributo di costruzione residuo deve essere
adeguato ai suddetti aumenti.
Queste disposizioni pongono il problema della
compatibilità con l’art. 16, comma 3, del DPR
380/2001, in base al quale la quota di contributo
relativa al costo di costruzione è determinata al
momento del rilascio del titolo edilizio ed è
corrisposta in corso d'opera.
In proposito si ritiene che, se i lavori sono
ultimati nel termine di validità del titolo
edilizio, e se i pagamenti delle rate sono regolari,
l’importo del contributo di costruzione non possa
variare, essendo necessario garantire la certezza
del diritto e l’affidamento di chi inizia un
intervento edificatorio.
Se però il privato non completa i lavori entro il
termine massimo, oppure non completa il pagamento
delle rate secondo le scadenze prefissate, fuoriesce
dal quadro giuridico originario e si espone alle
modifiche tariffarie intervenute nel frattempo. In
queste ipotesi, dunque, l’amministrazione potrà
legittimamente imporre l’integrazione della parte
residua del contributo di costruzione.
Questo vale anche quando il differimento del termine
finale del titolo edilizio sia una facoltà concessa
direttamente dal legislatore in deroga alla
disciplina ordinaria, come è avvenuto nel caso in
esame (il 10.12.2013 la ricorrente ha comunicato al
Comune il posticipo di due anni della conclusione
dei lavori, ossia al 14.04.2016, avvalendosi della
previsione di cui all’art. 30, comma 3, del DL
21.06.2013 n. 69).
---------------
1. Il
Comune di Arcene ha rilasciato alla società
ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del
14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3
edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La
Fornace”. Il contributo di costruzione (€
197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche
della superficie destinata ad autorimesse e aree di
manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del
rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la
rateizzazione del resto (v. provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011),
con applicazione degli interessi legali, come
previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del
09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate,
ciascuna di importo pari a € 15.324, da
corrispondere a intervalli trimestrali tra il
22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha
presentato una polizza fideiussoria emessa da
Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a €
192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime
quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la
scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di
pagamento della quarta rata) la ricorrente ha
effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi
interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione,
ricalcolato escludendo la superficie destinata ad
autorimesse e non computando la suddetta superficie
ai fini dell’individuazione della classe degli
edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta
computati gli interessi per la rateizzazione,
l’importo definitivo risulterebbe pari a €
98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta
alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo
dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero
pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della
fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10,
effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del
responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha
comunicato una nuova escussione parziale della
fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli
atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale
n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione
con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il
30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate
come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n.
12, che prevede il regime di gratuità integrale per
i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed
esclude le relative superfici dalla definizione
della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR
06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con
riferimento alle disposizioni della deliberazione
giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione
solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono
che il contributo di costruzione residuo venga
rideterminato qualora il costo di costruzione
subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le
sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del
contributo di costruzione sarebbe stato versato
ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una
pronuncia che accerti il contributo di costruzione
nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente
condanna alla restituzione della somma versata o
escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di
interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo
la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione
si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sull’aggiornamento del costo di costruzione
19. Le deliberazioni giuntali n. 20/2011 e 14/2005
prevedono che nel caso di rateizzazione, qualora
sopravvengano aumenti del costo di costruzione, il
contributo di costruzione residuo deve essere
adeguato ai suddetti aumenti.
Queste disposizioni pongono il problema della
compatibilità con l’art. 16, comma 3, del DPR
380/2001, in base al quale la quota di contributo
relativa al costo di costruzione è determinata al
momento del rilascio del titolo edilizio ed è
corrisposta in corso d'opera.
20. In proposito si ritiene che, se i lavori sono
ultimati nel termine di validità del titolo
edilizio, e se i pagamenti delle rate sono regolari,
l’importo del contributo di costruzione non possa
variare, essendo necessario garantire la certezza
del diritto e l’affidamento di chi inizia un
intervento edificatorio.
Se però il privato non completa i lavori entro il
termine massimo, oppure non completa il pagamento
delle rate secondo le scadenze prefissate, fuoriesce
dal quadro giuridico originario e si espone alle
modifiche tariffarie intervenute nel frattempo. In
queste ipotesi, dunque, l’amministrazione potrà
legittimamente imporre l’integrazione della parte
residua del contributo di costruzione.
21. Questo vale anche quando il differimento del
termine finale del titolo edilizio sia una facoltà
concessa direttamente dal legislatore in deroga alla
disciplina ordinaria, come è avvenuto nel caso in
esame (il 10.12.2013 la ricorrente ha comunicato al
Comune il posticipo di due anni della conclusione
dei lavori, ossia al 14.04.2016, avvalendosi della
previsione di cui all’art. 30, comma 3, del DL
21.06.2013 n. 69)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
condono non blocca i lavori. Consiglio di Stato. La
presentazione della domanda non impedisce altre modifiche
all’immobile.
Nell’attesa della definizione di una domanda di
condono edilizio, è possibile modificare l’immobile, purché
sia ancora percepibile l’iniziale abusività da sanare.
Lo sottolinea il
Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza 14.08.2015 n. 3943, che esamina
un’ipotesi frequente, connessa alla lunga durata delle
pratiche di condono (nel caso deciso, pari a oltre 18 anni).
Mentre il Comune decide sull’esito della domanda di condono,
all’edificio iniziale possono aggiungersi altri abusi
edilizi: in questo caso, il Comune non può rifiutare di
pronunciarsi sulla domanda iniziale di condono affermando
solo che l’opera è stata modificata. Anche se i nuovi
interventi sono consistenti, tutte le volte che l’abuso
iniziale da sanare sia ancora leggibile, vi è l’onere per il
Comune di pronunciarsi in modo esplicito, salva l’adozione
di sanzioni per le modifiche successive alla domanda di
sanatoria.
Questa conclusione è stata adottata dai giudici
amministrativi prendendo atto della circostanza che manca
un’espressa norma che impedisca di modificare immobili sui
quali pende una domanda di sanatoria edilizia: in
conseguenza, la realizzazione di modifiche all’immobile
oggetto di domanda di sanatoria non può, da sola,
giustificare un diniego del condono.
Vi può essere un’archiviazione del condono solo nel caso in
cui le modifiche successive abbiano inciso in modo radicale
sui beni e cioè quando l’amministrazione non è più in grado
di valutare la sussistenza dei presupposti per la
concessione del condono. Le domande di sanatoria edilizia, a
cominciare da quella del febbraio 1985, possono ancora
riservare sorprese a distanza di decenni, quando la domanda
risulti incompleta e non sia possibile acquisire d’ufficio
dati ed elementi (articolo 9-bis, Dpr 380/2001).
In particolare, vi possono essere richieste anche a distanza
di decenni, quando vi siano vincoli di tutela o di
inedificabilità o quando manchino allegati essenziali alla
domanda di sanatoria (versamento dell’oblazione; descrizione
delle opere abusive; documentazione fotografica circa lo
stato dei lavori; certificato di residenza o di iscrizione
alla Camera di commercio per ottenere riduzioni; perizia
giurata per opere superiori a 450 metri cubi). In questi
casi, infatti, non opera il termine biennale di formazione
del silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sentenza
5090/2013).
Nel caso esaminato dai giudici, nei 18 anni tra la data di
presentazione della domanda di condono e quella
dell’adozione del provvedimento di risposta da parte
dell’amministrazione, gli interessati avevano realizzato
altri interventi abusivi, cioè alcuni nuovi vani, soppalchi,
chiusura di balconi ed aumento unità immobiliari. Ma tali
opere, per la loro autonoma identificabilità, non potevano
impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto
della domanda di condono.
Quindi l’amministrazione comunale dovrà da un lato
verificare se ci sono i presupposti per il condono delle
opere “originariamente” realizzate, dall’altro
accertare la natura degli interventi successivi ed applicare
in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie
previste dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
possibilità (a certe condizioni) di realizzare ulteriori
opere edilizie successivamente alla presentazione
dell'istanza di condono edilizio, laddove l'istanza medesima
non sia stata ancora istruita e conclusa.
La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
incidenza di interventi realizzati su immobili
successivamente alla presentazione di domande di condono
edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano
o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni
dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il
versamento della seconda rata dell'oblazione, il
presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in
sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le
opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma,
«l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento,
allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data
certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i
lavori non prima di trenta giorni dalla data della
notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i
presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di
completamento con assunzione del rischio da parte di chi li
effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa
fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda
di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma
nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di
sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di
divieto, la realizzazione di detti interventi non può da
sola giustificare il diniego del condono, occorrendo
verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni
oggetto del condono impedendo all’amministrazione di
valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza
dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile
tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà
esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni
previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli
interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione
della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i
presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero
all’applicazione delle sanzioni previste in caso di
accertata “autonoma” abusività.
1.– Le parti indicate in epigrafe, in data 18.01.1995, hanno
presentato al Comune di Afragola cinque domande di condono
edilizio, ai sensi della legge 23.12.2004, n. 724
(Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica),
tutte riferite al medesimo fabbricato, sito in Via ... ed aventi ad oggetto le seguenti opere: a) piano
terra destinato a locali commerciali e ad abitazione; b)
primo e secondo piano composto, ciascuno, da due
appartamenti per civile abitazione.
L’amministrazione comunale ha rigettato le suddette istanze
con provvedimento del 28.02.2011, prot. n. 822,
rilevando, in esito agli accertamenti istruttori disposti,
la sussistenza di uno stato di fatto diverso da quello
riferito nelle suddette istanze, conseguente all’esecuzione
di opere ulteriori, descritte nello stesso provvedimento.
L’amministrazione comunale, con ordinanza del 12.04.2011, prot. n. 84084, ha, conseguentemente, disposto la
demolizione dei manufatti ritenuti abusivi.
2.– Le parti interessate hanno impugnato detto provvedimento
innanzi al Tribunale amministrativo regionale della
Campania, facendo valere specifici vizi degli atti,
riproposti in sede di appello.
3.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 22.03.2013,
n. 1616, ha rigettato il ricorso, rilevando come gli
interventi aggiuntivi eseguiti, da valutare unitariamente,
abbiano determinato «un radicale stravolgimento del
fabbricato oggetto del condono».
4.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello
deducendo come: i) sarebbe stato necessario valutare
singolarmente le domande presentate; ii) le singole opere
realizzate non hanno la rilevanza indicata nella sentenza
impugnata e non avrebbero realizzato alcun aumento di
volumetria; iii) nessuna norma di legge vieta la
realizzazione di interventi successivamente alla
proposizione della domanda di condono; iv) sarebbe stata
omessa la comunicazione di avvio del procedimento.
...
6.– L’appello è fondato nei sensi di seguito indicati.
7.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
incidenza di interventi realizzati su immobili
successivamente alla presentazione di domande di condono
edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano
o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi
giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo
il versamento della seconda rata dell'oblazione, il
presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in
sanatoria può completare sotto la propria responsabilità»
le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la
norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio
intendimento, allegando perizia giurata ovvero
documentazione avente data certa in ordine allo stato dei
lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta
giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i
presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di
completamento con assunzione del rischio da parte di chi li
effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa
fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda
di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma
nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di
sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di
divieto, la realizzazione di detti interventi non può da
sola giustificare il diniego del condono, occorrendo
verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni
oggetto del condono impedendo all’amministrazione di
valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza
dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile
tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà
esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni
previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli
interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione
della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i
presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero
all’applicazione delle sanzioni previste in caso di
accertata “autonoma” abusività.
8.– Nella fattispecie in esame, dal provvedimento impugnato,
risulta quanto segue.
In relazione alla domanda di condono presentata da E.A. con riferimento al piano terra-rialzato è stato
riscontrata la realizzazione di: una cucina sull’area cortilizia del fabbricato; un vano, in adiacenza alla scala,
avente una superficie non residenziale di mq 26,41; due
soppalchi; «una superficie utile di mq 130 circa oltre
balconi per una superficie non residenziale di mq 17 circa».
In relazione alle domande di condono presentate da S.G. e S.M. con riferimento al primo piano, è
stata riscontrata la suddivisione della superficie tra tre
appartamenti e non tra due come era indicato nella domanda
di condono. Inoltre, è stato riscontrato un «incremento
di superficie utile» di circa mq 13,35 ottenuti «convertendo
porzioni di balconi in superficie utile».
In relazione alle domande di condono presentate da S.M. e M.M. con riferimento al secondo piano, sono
state svolte analoghe considerazioni a quelle effettuate con
riguardo al primo piano.
Da quanto esposto non risulta che gli interventi successivi,
singolarmente considerati, abbiano inciso in maniera così
radicale sugli immobili oggetto delle domande di condono da
rendere oggettivamente impossibile il loro esame.
In relazione alla prima domanda di condono, gli interventi
abusivi successivi (ad eccezione dei mq 130 di cui non è
stata dimostrata la mancata inclusione nella domanda stessa)
sono bene individuati e suscettibili di essere oggetto di
autonomo intervento sanzionatorio.
In relazione alle altre due domande indicate, risulta anche
in questo caso ben identificato un aumento di superficie per
“trasformazione” del balcone ed una ripartizione
delle superfici tra tre e non tra due appartamenti,
suscettibili anch’esse di divenire oggetto di un autonomo
potere sanzionatorio.
In definitiva, dagli atti del giudizio risulta che nel
periodo temporale, pari a diciotto anni, che va dalla data
di presentazione delle domande di condono a quello
dell’adozione del provvedimento di risposta da parte
dell’amministrazione, le parti hanno realizzato altri
interventi abusivi. Tali opere, per la loro autonoma
identificazione, non risulta che possano impedire una
valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda
di condono.
L’amministrazione comunale dovrà, pertanto, da un lato,
verificare se sussistono i presupposti per il condono delle
opere “originariamente” realizzate, dall’altro,
accertare la natura degli interventi successivi posti in
essere dagli appellanti ed applicare in relazione ad essi le
sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.08.2015 n. 3943 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
03.09.20145 n. 204 "Mancata conversione del decreto-legge
04.07.2015, n. 92, recante: «Misure urgenti in materia di
rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per
l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti
industriali di interesse strategico nazionale»" (comunicato). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Riduzione dei limiti retributivi di cui agli
articoli 23-bis e 23-ter del decreto legge 06.12.2011, n.
201, convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214 operata ai
sensi dell’art. 13 del decreto legge 24.04.2014, n. 66
convertito con modificazioni dalla legge 23.07.2014, n. 89 –
effetti sul calcolo dei trattamenti di quiescenza e di fine
servizio e fine rapporto degli iscritti alla gestione
dipendenti pubblici dell’Inps (INPS,
circolare 24.08.2015 n. 153 - link a
www.inps.it). |
QUESITI & PARERI |
PATRIMONIO:
La concessione in uso degli immobili.
DOMANDA:
Nel Comune scrivente sono ubicati degli immobili comunali
adibiti a finalità sociale. gli immobili suddetti sono
concessi a tempo determinato a famiglie in situazione di
disagio, in attesa che si liberi un alloggio ERP o che
possano avere un'assegnazione a tempo indeterminato in base
ai bandi di assegnazione.
In passato il Comune scrivente ha stipulato dei contratti a
tempo determinato per un periodo di due anni. Più volte sono
state concesse proroghe o rinnovi.
Chiediamo se è regolare da un punto di vista amministrativo
stabilire un periodo di validità di due anni o se è
necessario (anche per i contratti di alloggi comunali
concessi a tempo determinato) stabilire un altro termine per
non inficiare la validità dell'atto.
RISPOSTA:
Al fine di dare una risposta esaustiva al quesito formulato
dalla scrivente amministrazione, è utile richiamare la
vigente normativa in materia di beni immobili comunali.
I beni immobili sono classificati in:
- beni del demanio comunale, destinati, per loro
natura o per le caratteristiche loro conferite dalle leggi,
a soddisfare prevalenti interessi della collettività.
- beni del patrimonio indisponibile, destinati ai
fini istituzionali del Comune e al soddisfacimento di
interessi pubblici, non compresi nella categoria dei beni
demaniali di cui agli artt. 822 e 823 del Codice Civile.
- beni del patrimonio disponibile, non destinati ai
fini istituzionali del Comune e pertanto posseduti dallo
stesso in ragione di diritto privato.
I beni disponibili si distinguono in immobili ad uso
abitativo ed in immobili ad uso non abitativo. I beni
soggetti a regime di demanio e del patrimonio
indisponibile possono essere oggetto di utilizzo
esclusivo da parte di terzi allorché l’attività da svolgere
sia conforme alle finalità di interesse pubblico,
dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso temporaneo a terzi di beni demaniali e
patrimoniali indisponibili avviene mediante atti di diritto
pubblico e, in particolare, con concessione amministrativa,
su conforme atto deliberativo della Giunta Comunale. La
durata massima della concessione deve essere fissata nel
Regolamento comunale e può essere sempre revocata per
sopravvenienti interessi dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso di beni patrimoniali disponibili è, di
norma, effettuata nella forma e con i contenuti dei negozi
contrattuali tipici previsti dal titolo III del libro IV del
Codice Civile, ovverosia:
a) Contratto di locazione (artt. 1571 e ss. C.C.)
b) Contratto di affitto (artt. 1615 e ss. C.C.) c) Contratto
di comodato (artt. 1803 e ss. C.C.)
L’assegnazione e la gestione contrattuale dei beni ad uso
abitativo sono disciplinati dalle norme vigenti ed in
particolare dalla Legge n. 431/1998.
In casi eccezionali da motivare adeguatamente, i beni
immobili di proprietà dell'Amministrazione Comunale possono
essere affidati in comodato o concessi in uso gratuitamente,
con delibera della Giunta. Va comunque evidenziato che la
gestione degli immobili di proprietà degli enti locali,
anche da mettere in relazione all’entità delle misure di
economia e finanza previste dall’ordinamento pubblico,
richiede l’assunzione da parte degli enti stessi di
particolare disciplina regolamentare.
In base alle considerazioni che precedono si rileva che:
- se gli immobili comunali adibiti a finalità sociale sono
facenti parte del patrimonio indisponibile, essi sono
assegnati a tempo determinato a famiglie in situazione di
disagio mediante concessione, la cui durata (nonché la
possibilità di rinnovo o proroga) devono essere disciplinati
nel regolamento comunale.
- se invece i suddetti beni appartengono al patrimonio
disponibile, nella loro assegnazione, il Comune agisce
iure privatorum.
Per la durata del contratto di locazione, valgono le
prescrizioni di cui all’art. 5 della Legge n. 431/1998, a
norma del quale, il decreto del Ministro dei lavori pubblici
30.12.2002 definisce le condizioni e le modalità per la
stipula di contratti di locazione di natura transitoria
anche di durata inferiore ai limiti previsti dalla legge per
soddisfare particolari esigenze delle parti.
L'art. 1, comma 2 del D.M. prevede che "I contratti di
locazione di natura transitoria di cui all'articolo 5, comma
1, della legge 09.12.1998, n. 431, hanno durata non
inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi. Tali
contratti sono stipulati per soddisfare particolari esigenze
dei proprietari e/o dei conduttori per fattispecie da
individuarsi nella contrattazione territoriale tra le
organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei
conduttori maggiormente rappresentative".
Sembrerebbe però, dalla lettura del quesito, che i beni
siano stati assegnati a titolo gratuito per cui -anche
nell'ipotesi in cui non fossero stati conferiti con atto di
diritto pubblico (concessorio)- ma l'amministrazione avesse
utilizzato uno strumento privatistico, questo non potrebbe
che essere quello del comodato, relativamente alla cui
durata la legge non prescrive un termine preciso (l'art.
1809 c.c. si limita a prevedere che il comodatario è tenuto
a restituire la cosa: tale prestazione diviene esigibile
alla scadenza del termine espressamente convenuto).
Si ritiene pertanto che, se i beni immobili ad uso abitativo
sono stati assegnati in concessione o in comodato, sia
conforme alle norme vigenti stabilire per i relativi
contratti una durata di due anni
(link a
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CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il responsabile corrotto del S.U.E.
(nodo nevralgico di tutte
le iniziative di realizzazione edilizia)
cagiona danno da disservizio, danno da ritardo,
danno da distrazione di energie lavorative
e danno all'immagine del comune di appartenenza.
Tra l'altro, la Cassazione ha statuito che ai fini della
consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319
c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR
n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli
affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e
secondo il loro ordine cronologico”.
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E' noto che la sentenza penale di
‘patteggiamento’, ex art. 444 c.p.p., pur non facendo stato
nei giudizi civili ed amministrativi, costituisce –unitamente agli atti del relativo fascicolo- una fonte di
cognizione soggetta al libero apprezzamento del giudice in
ordine agli effetti dell’accertamento penale nei giudizi
restitutori e da risarcimento di danno.
Tuttavia, è
prevalente, anche nell’ambito delle Sezioni di appello di
questa Corte, l'orientamento giurisprudenziale secondo il
quale la decisione dell’imputato di chiedere il
patteggiamento della pena va equiparata ad una “tacita
ammissione di colpevolezza”
e che, in
particolare dopo la modifica dell’art. 445 c.p.p. da parte
dell’art. 2 L. 27.03.2001, n. 97, assimila la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti ad un
elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove
intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere
di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso
una sua insussistente responsabilità, e il Giudice penale
avrebbe prestato fede a tale ammissione.
Il citato orientamento è confermato dalla giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione per cui "La sentenza
penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd.
patteggiamento) costituisce indiscutibile elemento di prova
per il giudice di merito, il quale, laddove intenda
disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di
spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una
sua insussistente responsabilità ed il Giudice penale abbia
prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento,
pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita
dall'efficacia del giudicato, può essere utilizzato come
prova”.
La sentenza del GIP
va dunque considerata quale specifico ed univoco
elemento di prova della commissione dei fatti contestati
alla convenuta, qualora il convenuto, come nella specie, non
abbia allegato o dedotto le ragioni per cui, benché
innocente, abbia in concreto ritenuto di avvalersi del
“patteggiamento”.
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Riguardo al danno da disservizio contestato alla convenuta
il Collegio ritiene che
esso sussista e coincida con gli oneri sostenuti dal Comune
per lo svolgimento delle verifiche e indagini sotto
la direzione della Commissione speciale insediata ai sensi
dell’art. 20 del Regolamento di funzionamento del relativo
Consiglio comunale, da quantificarsi, complessivamente, in
conformità al principio di proporzionalità, e, con specifico
riferimento alla convenuta (rispetto agli altri fattori
concausali), nella misura pari al 30% del totale.
Viceversa,
questo Giudice ritiene che detta posta di danno sia inconfigurabile per quanto attiene sia agli oneri connessi
al procedimento disciplinare svolto dall’ente locale a
carico della convenuta, che a quelli connessi alla
volontaria richiesta, da parte del Comune di Sesto, di
pareri legali sulla vicenda per cui è causa.
E’ infatti di tutta evidenza che è senz’altro consentito
all’ente locale di insediare un organo straordinario (come
tale, estraneo all’organizzazione stabile degli uffici
definita con idonea fonte normativa da ciascun ente, nonché
investito di una missione per sua natura contingente e di
limitata durata nel tempo) per fare luce su fatti (nella
specie, oltretutto) penalmente rilevanti, a tutela dei
propri interessi patrimoniali e reputazionali. Del resto,
sono gli stessi statuti (o, come nella specie, regolamenti)
comunali a prevedere, diffusamente, la possibilità di
istituire commissioni di verifica e/o indagine al “fine di
interesse pubblico, di acclarare eventuali responsabilità
nella gestione” di risorse pubbliche.
Di tal ché appare ammissibile e ragionevole addebitare
l’importo delle spese implicate da dette verifiche
e/o indagini a chi abbia dato causa alla loro necessità,
laddove, naturalmente, l’ipotesi di addebito in cui essa sia
esitata in sede amministrativa trovi conforto nella
conseguente ipotesi accusatoria elevata dalla Procura
regionale presso questa Corte.
Non è invece possibile addebitare alla So. gli oneri
connessi al procedimento disciplinare a suo carico, né
quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte
dell’ente locale, di pareri legali sugli aspetti tecnici
della vicenda per cui è causa.
Nel primo caso, perché si
tratta di funzione amministrativa non soltanto tipica degli
enti pubblici (anche locali), ma anche ad attivazione
doverosa, nel caso di ricorrenza dei presupposti allo scopo
previsti dalla normativa vigente; nel secondo caso, perché
è ormai acquisito che
per le funzioni ordinarie rimane fermo il principio generale
della cosiddetta “autosufficienza” dell’organizzazione degli
enti, i quali devono svolgere le funzioni e i servizi di
loro competenza mediante il personale in servizio, senza
attingere a risorse esterne se non nei particolari casi e
modi previsti dalla normativa vigente (art. 7, commi 6 ss.,
d.lgs. n. 165/2001).
Ne consegue che, limitatamente agli oneri connessi alle
verifiche e/o indagini svolte sotto la direzione della
Commissione speciale di cui si è detto, risulta
sufficientemente provata la sussistenza del dedotto danno da
disservizio -danno che si verifica in conseguenza ad un
pregiudizio arrecato al buon andamento della P.A. derivante
dalla “disutilità della spesa” in tal modo sostenuta–
non tanto e non solo per aver distolto in maniera
significativa il personale dalle altre mansioni proprie
della struttura, impedendo per conseguenza il raggiungimento
di finalità diverse e prioritarie, ma soprattutto per aver
costretto il personale –nel quadro delle attività di
indagine svolte dalla Commissione anzidetta– all’ampia
opera di revisione della pratiche già trattate dalla
convenuta che ha costretto alcuni dipendenti ad occuparsi,
con picchi sino al 90% del loro impegno, di detta revisione
e, di riflesso a rallentare l’attività di istruzione di
nuove pratiche.
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Sul punto, il Collegio ritiene necessario chiarire che fra
le possibili declinazioni del danno da disservizio
perseguibile dinanzi a questa Corte v’è anche quella, avente
pari dignità rispetto alle altre, che prende la forma di una
intenzionale discriminazione da parte del pubblico
funzionario fra le pratiche da istruire, a seconda che si
tratti di questioni o affari considerati, secondo
personalistici (e come tali inammissibili) punti di vista,
“maggiori” o “minori”, oppure la forma della necessitata
concentrazione dell’attenzione (come nella specie accaduto
durante le operazioni di revisione compiute in costanza di
operatività della Commissione d’indagine di cui si è detto)
sulle pratiche già istruite dalla persona sotto inchiesta, e
come tali indiziate di essere state essere pure gestite in
modo irregolare, piuttosto che su quelle nuove (la cui
istruttoria si trova per conseguenza a subire degli
evitabili rallentamenti).
In ambedue i casi, il principio che viene calpestato è
quello dell’ordine naturale di trattazione delle istanze
dell’utenza, secondo cioè l’ordine di arrivo, principio -riaffermato da ultimo con l’art. 12, comma 1, penultimo
periodo, DPR n. 62/2013, non applicabile tuttavia alla
vicenda per cui è causa, ratione temporis-
che il sistema
eleva a regola generale, in quanto derivante dal superiore
principio di eguaglianza/imparzialità dei cittadini-utenti
di cui all’art. 3 Cost., e da quello di buon andamento di
cui all’art. 97 Cost., salve, ovviamente, le diversificate
necessità di completamento dell’istruttoria che possono nei
singoli casi influire anche incisivamente sui tempi di
conclusione di ciascun procedimento.
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Di questo essenziale principio è espressione, fra le altre,
anche l’emblematica figura
del danno da ritardo,
legato alla pregnante teorica della certezza dei tempi
dell’agire della PA, che eleva condivisibilmente il tempo
(del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione
pubblica) a “bene della vita”, in senso economico e
giuridico, e spinge la giurisprudenza ad affermare
univocamente che «Ogni cittadino e ogni impresa hanno
diritto ad avere risposta dalle amministrazioni alle proprie
istanze nel termine normativamente determinato e ciò proprio
al fine di programmare le proprie attività e i propri
investimenti; un inatteso ritardo da parte della P.A. nel
fornire una risposta può condizionare la convenienza
economica di determinati investimenti, senza però che tali
successive scelte possano incidere sulla risarcibilità di un
danno già verificatosi».
In sintesi, il tema dell’ordine naturale di trattazione
della pratiche da istruire (rectius, delle domande di
servizi proveniente dal cittadino-utente) è strettamente
legato ai principi costituzionali di
eguaglianza/imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97
Cost.) e si riflette sull’aspetto, oggi strategico, della
certezza dei tempi dell’agire della PA. Da questo punto di
vista, coglie nel segno anche il Comune interveniente
nell’osservare che in vicende come quella per cui è causa
rileva non tanto il numero delle pratiche edilizie la cui
istruttoria si è svolta irregolarmente per effetto della
condotta illecita del funzionario che si è lasciato
corrompere, bensì il fatto in sé dell’asservimento
all’interesse privato della funzione pubblica da esso
svolta.
Non a caso anche la Cassazione ha detto con estrema chiarezza che
ai fini della
consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319
c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR
n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli
affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e
secondo il loro ordine cronologico” (precetto, questo, che
ha visto di recente confermata la sua attualità mercé il già
citato art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013).
Norme, queste, sottensive di un principio più generale
alfine ribadito e sistematizzato con l’art. 2, comma 9, l.
n. 241/1990, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 1,
legge n. 35/2012, per cui “La … tardiva emanazione del
provvedimento nei termini costituisce elemento di
valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
A ciò consegue,
oggi, il rovesciamento dell’impostazione tradizionale, la
quale –ancora nel 2011– tendeva a fare leva sui “diversi
presupposti normativi del giudizio disciplinare, nella
fattispecie concluso a norma dell’art. 80, comma 3 del
D.P.R. 10.1.1957, n. 3, rispetto a quello di responsabilità,
affidato alla Corte dei Conti dall’art. 1, comma 1, della
legge 14.01.1994, n. 20, come successivamente modificata ed
integrata: per quest’ultimo giudizio, infatti, entrano in
discussione questioni di danno erariale, per le quali il
pubblico dipendente è chiamato a rispondere solo per
omissioni o fatti commessi con dolo o colpa grave, mentre
sul piano disciplinare rilevano, per quanto qui interessa,
anche profili di grave negligenza, o irregolarità
nell’ordine di trattazione degli affari, o ancora di
inosservanza dei doveri di ufficio, il cui apprezzamento è
rimesso alla discrezionale valutazione dell’organo
amministrativo competente”.
Ne consegue, sulla scorta di quanto sin qui esposto, che
se
è ormai pacifico che il tempo (del procedimento
amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) è “bene
della vita”, in senso economico e giuridico, come
certificato dal citato art. 2, comma 9, della l. n. 241/1990
(anche in rapporto al disposto dell’art. 2-bis della
medesima legge), l’intenzionale alterazione –come nel caso
del comportamento contestato dalla Procura attrice della
odierna convenuta– dell’“ordine di trattazione degli
affari” è, oggi, tema che attiene anche alla responsabilità
per danno erariale piuttosto che a quella solamente
disciplinare.
Del resto, sta eloquentemente a dimostrarlo, da ultimo,
l’art. 16, comma 1, secondo periodo, del citato DRP n.
62/2013, ancorché esso pure non applicabile al caso che ne
occupa, sempre ratione temporis (“Ferme restando le ipotesi
in cui la violazione delle disposizioni contenute nel
presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti
dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a
responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile
del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità
disciplinare accertata all’esito del procedimento
disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e
proporzionalità delle sanzioni.”).
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Quanto al danno da distrazione di energie lavorative,
il Collegio ritiene che esso sussista.
Dalle intercettazioni telefoniche riversate in atti emerge
infatti con chiarezza l’ampio dispendio di energie della
convenuta nel seguire le pratiche dell’Architetto Ma. e
del Pa., con i quali aveva instaurato un rapporto
privilegiato per ragioni di amicizia, favori o denaro
ricevuto.
Energie sottratte quasi quotidianamente (come da
risultanze delle intercettazioni telefoniche versate in
atti) alla dovuta destinazione alle incombenze dell’ufficio,
ai danni dell’amministrazione di appartenenza (indicativa,
al riguardo, anche la dichiarazione resa nel verbale di
audizione del 07.11.2013 dinanzi al Pm contabile dalla Geom. Ma., nuovo Responsabile dello Sportello Unico per
l’Edilizia, la quale evidenziava come al suo insediamento,
avvenuto nel maggio 2012, riscontrava “….la tendenza
dell’utenza a non rispettare tempi e regole dei procedimenti
amministrativi volte all’approvazione delle pratiche
edilizie e la tendenza dei professionisti esterni a
presentarsi in ufficio e richiedere pareri e suggerimenti
anche al di fuori degli orari di apertura al pubblico,
essendo evidentemente abituati a prassi non conformi alla
legge”).
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Con riferimento, infine, al
danno all’immagine, ad avviso
del Collegio esso sussiste, alla luce anche di un ampio e
perdurante risalto mediatico della vicenda (che come per
vero di rado accade ha condotto persino a coniare delle
spregiative locuzioni “sistema Sesto” e “sistema So.”,
ad indicare una metodica illecita collaudata e immanente), e
si presume, come da L. n. 190/2012 (applicabile ratione
temporis alla vicenda per cui è causa, attesa la natura
meramente processuale, e non già sostanziale, della
disposizione de qua), pari al doppio di quanto effettivamente
introitato illecitamente dalla convenuta.
Sul punto, appare opportuno evidenziare che, in termini
generali, questa Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi
dall’indirizzo al riguardo fatto proprio dalla Corte
costituzionale, ad avviso della quale:
“….una volta rinvenuta una giustificazione alla previsione
che impone la sussistenza di una sentenza di condanna per
uno dei reati sopra indicati, è ragionevole che il
legislatore abbia richiesto che tale sentenza acquisisca il
crisma della definitività prima che inizi il procedimento
per l’accertamento della responsabilità amministrativa
derivante dalla lesione dell’immagine dell’amministrazione;
che quanto sin qui esposto giustifica la diversità di
trattamento giuridico tra le ipotesi di responsabilità per
danno patrimoniale, che non richiede la sussistenza di una
sentenza di condanna passata in cosa giudicata, e quelle per
responsabilità per lesione dell’immagine
dell’amministrazione”.
Nell’ambito delle declinazioni puntuali di questo preclaro
assunto, è noto che la giurisprudenza contabile, nell’interpretare il suddetto richiamo
all’art. 7 L. n. 97/2001, ritiene sufficiente, per la
contestazione del danno d’immagine, anche la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi
dell’art. 444 c.p.p., purché divenuta irrevocabile, in
quanto equiparata ad una pronuncia di condanna (ex art. 445,
comma 1-bis, c.p.p.).
Trattandosi di vicenda che ha avuto ampio risalto
mediatico, con conseguente clamor fori c.d. esterno, oltre
che interno, appare appropriato richiamare quella recente
giurisprudenza che ha
precisato che <<al fine della quantificazione del danno in
esame soccorrono i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di
questa Corte nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla
giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli
individuati dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali,
nella recente sentenza n. 15208/2010 ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta
dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del
reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass
media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica
dalla vicenda>>.
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2. Non essendovi ulteriori questioni in rito da
delibare, né riscontrandosi carenze istruttorie che possano
rendere utile l’accoglimento delle relative richieste
avanzate dalla difesa della convenuta e da quella del Comune
interveniente, né, infine, essendovi ragioni cogenti in
favore dell’avanzata richiesta di riunione del presente
giudizio con quello n. 28079 a carico del sig. Di L., a
ruolo nella stessa udienza ed avente ad oggetto lo stesso
danno per cui è causa nella presente sede, si osserva -nel
merito- quanto segue.
Non vi possono anzitutto essere dubbi sull’attribuibilità
alla So. delle condotte produttive di danno erariale
contestate in questa sede, in forza della sentenza del GIP
del Tribunale di Monza, ex art. 444 c.p.p., n. 792/2012.
Al riguardo,
è noto che la sentenza penale di
‘patteggiamento’, ex art. 444 c.p.p., pur non facendo stato
nei giudizi civili ed amministrativi, costituisce –unitamente agli atti del relativo fascicolo- una fonte di
cognizione soggetta al libero apprezzamento del giudice in
ordine agli effetti dell’accertamento penale nei giudizi
restitutori e da risarcimento di danno.
Tuttavia, è
prevalente, anche nell’ambito delle Sezioni di appello di
questa Corte, l'orientamento giurisprudenziale secondo il
quale la decisione dell’imputato di chiedere il
patteggiamento della pena va equiparata ad una “tacita
ammissione di colpevolezza” (Sez. I, n. 809/2012)
e che, in
particolare dopo la modifica dell’art. 445 c.p.p. da parte
dell’art. 2 L. 27.03.2001, n. 97, assimila la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti ad un
elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove
intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere
di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso
una sua insussistente responsabilità, e il Giudice penale
avrebbe prestato fede a tale ammissione (Sez. I, n.
809/2012; analogamente, Sez. II, n. 387/2010; Sez. I, n.
412/2010 e nn. 24 e 404 del 2008).
Il citato orientamento è confermato dalla giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione per cui "La sentenza
penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd.
patteggiamento) costituisce indiscutibile elemento di prova
per il giudice di merito, il quale, laddove intenda
disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di
spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una
sua insussistente responsabilità ed il Giudice penale abbia
prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento,
pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita
dall'efficacia del giudicato, può essere utilizzato come
prova” (ex plurimis Cass., n. 6668 del 2011 e n. 4193 del
2003 e Cass., SS.UU. Civili, n. 5756 del 2012).
La citata sentenza del GIP del Tribunale di Monza, n.
792/2012 va dunque considerata quale specifico ed univoco
elemento di prova della commissione dei fatti contestati
alla convenuta, qualora il convenuto, come nella specie, non
abbia allegato o dedotto le ragioni per cui, benché
innocente, abbia in concreto ritenuto di avvalersi del
“patteggiamento” (ex multis, Sez. giur. Lombardia, nn.
63/2015, 378/2012 e n. 376/2012).
Anche in ordine all’elemento psicologico, l’accertamento
della realizzazione del delitto di corruzione ex art. 319
c.p. implica di riflesso l’acclaramento del dolo
nell’esecuzione delle azioni produttive di danno in questa
sede in contestazione.
Quanto alle poste di danno legate dal necessario nesso di
causalità alle condotte contestate dalla Procura attrice
alla So., nella sua cennata qualità di responsabile
dello Sportello Unico dell’edilizia (nodo nevralgico di
tutte le iniziative di realizzazione edilizia tanto nel
Comune di Sesto quanto in ogni altro Comune italiano), valga
quanto segue.
Riguardo al danno da disservizio contestato alla convenuta,
per come prospettato in citazione, il Collegio ritiene che
esso sussista e coincida con gli oneri sostenuti dal Comune
di Sesto per lo svolgimento delle verifiche e indagini sotto
la direzione della Commissione speciale insediata ai sensi
dell’art. 20 del Regolamento di funzionamento del relativo
Consiglio comunale, da quantificarsi, complessivamente, in
conformità al principio di proporzionalità, e, con specifico
riferimento alla convenuta (rispetto agli altri fattori
concausali), nella misura pari al 30% del totale.
Viceversa,
questo Giudice ritiene che detta posta di danno sia inconfigurabile per quanto attiene sia agli oneri connessi
al procedimento disciplinare svolto dall’ente locale a
carico della convenuta, che a quelli connessi alla
volontaria richiesta, da parte del Comune di Sesto, di
pareri legali sulla vicenda per cui è causa.
E’ infatti di tutta evidenza che è senz’altro consentito
all’ente locale di insediare un organo straordinario (come
tale, estraneo all’organizzazione stabile degli uffici
definita con idonea fonte normativa da ciascun ente, nonché
investito di una missione per sua natura contingente e di
limitata durata nel tempo) per fare luce su fatti (nella
specie, oltretutto) penalmente rilevanti, a tutela dei
propri interessi patrimoniali e reputazionali. Del resto,
sono gli stessi statuti (o, come nella specie, regolamenti)
comunali a prevedere, diffusamente, la possibilità di
istituire commissioni di verifica e/o indagine al “fine di
interesse pubblico, di acclarare eventuali responsabilità
nella gestione” di risorse pubbliche (cfr. TAR Piemonte,
Sez. I, sent. n. 1016/2009).
Di tal ché appare ammissibile e ragionevole addebitare (nei
limiti, come si dirà, del principio costituzionale di
proporzionalità, operante anche in materia di finanza
pubblica: da ultimo, in tal senso, v. Corte cost., sent. n.
10/2015) l’importo delle spese implicate da dette verifiche
e/o indagini a chi abbia dato causa alla loro necessità,
laddove, naturalmente, l’ipotesi di addebito in cui essa sia
esitata in sede amministrativa trovi conforto nella
conseguente ipotesi accusatoria elevata dalla Procura
regionale presso questa Corte.
Non è invece possibile addebitare alla So. gli oneri
connessi al procedimento disciplinare a suo carico, né
quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte
dell’ente locale, di pareri legali sugli aspetti tecnici
della vicenda per cui è causa.
Nel primo caso, perché si
tratta di funzione amministrativa non soltanto tipica degli
enti pubblici (anche locali), ma anche ad attivazione
doverosa, nel caso di ricorrenza dei presupposti allo scopo
previsti dalla normativa vigente; nel secondo caso, perché a
partire dalla delib. n. 967/2010 della Sezione reg.
controllo Lombardia di questa Corte è ormai acquisito che
per le funzioni ordinarie rimane fermo il principio generale
della cosiddetta “autosufficienza” dell’organizzazione degli
enti, i quali devono svolgere le funzioni e i servizi di
loro competenza mediante il personale in servizio, senza
attingere a risorse esterne se non nei particolari casi e
modi previsti dalla normativa vigente (art. 7, commi 6 ss.,
d.lgs. n. 165/2001).
Ne consegue che, limitatamente agli oneri connessi alle
verifiche e/o indagini svolte sotto la direzione della
Commissione speciale di cui si è detto, risulta
sufficientemente provata la sussistenza del dedotto danno da
disservizio -danno che si verifica in conseguenza ad un
pregiudizio arrecato al buon andamento della P.A. derivante
dalla “disutilità della spesa” in tal modo sostenuta (Sez.
Lombardia n. 1 del 02.01.2012 e n. 47 del 20.01.2011)–
non tanto e non solo per aver distolto in maniera
significativa il personale dalle altre mansioni proprie
della struttura, impedendo per conseguenza il raggiungimento
di finalità diverse e prioritarie, ma soprattutto per aver
costretto il personale –nel quadro delle attività di
indagine svolte dalla Commissione anzidetta– all’ampia
opera di revisione della pratiche già trattate dalla
convenuta che ha costretto alcuni dipendenti ad occuparsi,
con picchi sino al 90% del loro impegno, di detta revisione
e, di riflesso a rallentare l’attività di istruzione di
nuove pratiche (per tutte, si v. le dichiarazioni della
geom. Ma. e dell’arch. Ri. rese al Sost. Proc. Dr. Cerioni, come da verbale di accertamento diretto del
07.11.2013).
Sul punto, il Collegio ritiene necessario chiarire che fra
le possibili declinazioni del danno da disservizio
perseguibile dinanzi a questa Corte v’è anche quella, avente
pari dignità rispetto alle altre, che prende la forma di una
intenzionale discriminazione da parte del pubblico
funzionario fra le pratiche da istruire, a seconda che si
tratti di questioni o affari considerati, secondo
personalistici (e come tali inammissibili) punti di vista,
“maggiori” o “minori”, oppure la forma della necessitata
concentrazione dell’attenzione (come nella specie accaduto
durante le operazioni di revisione compiute in costanza di
operatività della Commissione d’indagine di cui si è detto)
sulle pratiche già istruite dalla persona sotto inchiesta, e
come tali indiziate di essere state essere pure gestite in
modo irregolare, piuttosto che su quelle nuove (la cui
istruttoria si trova per conseguenza a subire degli
evitabili rallentamenti).
In ambedue i casi, il principio che viene calpestato è
quello dell’ordine naturale di trattazione delle istanze
dell’utenza, secondo cioè l’ordine di arrivo, principio -riaffermato da ultimo con l’art. 12, comma 1, penultimo
periodo, DPR n. 62/2013, non applicabile tuttavia alla
vicenda per cui è causa, ratione temporis-
che il sistema
eleva a regola generale, in quanto derivante dal superiore
principio di eguaglianza/imparzialità dei cittadini-utenti
di cui all’art. 3 Cost., e da quello di buon andamento di
cui all’art. 97 Cost., salve, ovviamente, le diversificate
necessità di completamento dell’istruttoria che possono nei
singoli casi influire anche incisivamente sui tempi di
conclusione di ciascun procedimento.
Di questo essenziale principio è espressione, fra le altre,
anche l’emblematica figura –prima impostasi in via pretoria
con la forza delle cose e poi divenuta ius receptum con
l’art. 2-bis della l. n. 241/1990– del danno da ritardo,
legato alla pregnante teorica della certezza dei tempi
dell’agire della PA, che eleva condivisibilmente il tempo
(del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione
pubblica) a “bene della vita”, in senso economico e
giuridico, e spinge la giurisprudenza ad affermare
univocamente che «Ogni cittadino e ogni impresa hanno
diritto ad avere risposta dalle amministrazioni alle proprie
istanze nel termine normativamente determinato e ciò proprio
al fine di programmare le proprie attività e i propri
investimenti; un inatteso ritardo da parte della P.A. nel
fornire una risposta può condizionare la convenienza
economica di determinati investimenti, senza però che tali
successive scelte possano incidere sulla risarcibilità di un
danno già verificatosi» (ex multis, Cons. Stato, sez. V,
sent. n. 1739/2011).
In sintesi, il tema dell’ordine naturale di trattazione
della pratiche da istruire (rectius, delle domande di
servizi proveniente dal cittadino-utente) è strettamente
legato ai principi costituzionali di
eguaglianza/imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97
Cost.) e si riflette sull’aspetto, oggi strategico, della
certezza dei tempi dell’agire della PA. Da questo punto di
vista, coglie nel segno anche il Comune interveniente
nell’osservare che in vicende come quella per cui è causa
rileva non tanto il numero delle pratiche edilizie la cui
istruttoria si è svolta irregolarmente per effetto della
condotta illecita del funzionario che si è lasciato
corrompere, bensì il fatto in sé dell’asservimento
all’interesse privato della funzione pubblica da esso
svolta.
Non a caso anche la Cassazione (sez. VI pen., sent. n.
1777/2005) ha detto con estrema chiarezza che
ai fini della
consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319
c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR
n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli
affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e
secondo il loro ordine cronologico” (precetto, questo, che
ha visto di recente confermata la sua attualità mercé il già
citato art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013).
Norme, queste, sottensive di un principio più generale
alfine ribadito e sistematizzato con l’art. 2, comma 9, l.
n. 241/1990, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 1,
legge n. 35/2012, per cui “La … tardiva emanazione del
provvedimento nei termini costituisce elemento di
valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
A ciò consegue,
oggi, il rovesciamento dell’impostazione tradizionale, la
quale –ancora nel 2011– tendeva a fare leva sui “diversi
presupposti normativi del giudizio disciplinare, nella
fattispecie concluso a norma dell’art. 80, comma 3 del
D.P.R. 10.1.1957, n. 3, rispetto a quello di responsabilità,
affidato alla Corte dei Conti dall’art. 1, comma 1, della
legge 14.01.1994, n. 20, come successivamente modificata ed
integrata: per quest’ultimo giudizio, infatti, entrano in
discussione questioni di danno erariale, per le quali il
pubblico dipendente è chiamato a rispondere solo per
omissioni o fatti commessi con dolo o colpa grave, mentre
sul piano disciplinare rilevano, per quanto qui interessa,
anche profili di grave negligenza, o irregolarità
nell’ordine di trattazione degli affari, o ancora di
inosservanza dei doveri di ufficio, il cui apprezzamento è
rimesso alla discrezionale valutazione dell’organo
amministrativo competente” (così, Cons. Stato, sez. VI,
sent. n. 5914/2011).
Ne consegue, sulla scorta di quanto sin qui esposto, che
se
è ormai pacifico che il tempo (del procedimento
amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) è “bene
della vita”, in senso economico e giuridico, come
certificato dal citato art. 2, comma 9, della l. n. 241/1990
(anche in rapporto al disposto dell’art. 2-bis della
medesima legge), l’intenzionale alterazione –come nel caso
del comportamento contestato dalla Procura attrice della
odierna convenuta– dell’“ordine di trattazione degli
affari” è, oggi, tema che attiene anche alla responsabilità
per danno erariale piuttosto che a quella solamente
disciplinare.
Del resto, sta eloquentemente a dimostrarlo, da ultimo,
l’art. 16, comma 1, secondo periodo, del citato DRP n.
62/2013, ancorché esso pure non applicabile al caso che ne
occupa, sempre ratione temporis (“Ferme restando le ipotesi
in cui la violazione delle disposizioni contenute nel
presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti
dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a
responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile
del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità
disciplinare accertata all’esito del procedimento
disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e
proporzionalità delle sanzioni.”).
Tutto ciò premesso e considerato, che nella specie vi fosse
un “rapporto privilegiato” fra il Ma. e la So. (pagg.
14, 15 e 44 della citazione), che assicurava a quest’ultimo
un “canale preferenziale”, accelerato, per i suoi progetti
all’esame dello Sportello Unico per l’Edilizia, almeno dal
2006 al 2010, stanno a dimostrarlo le dichiarazioni rese
dall’arch. Gi. (v. verbale di audizione del 07.11.2013
dinanzi al Pm contabile, in atti), nonché l’esplicito
atteggiamento della So. emergente dalle intercettazioni
telefoniche (come quelle, in atti, riferite ai colloqui
telefonici dell’01.3.2011, del 14.03.2011 e 31.03.2011, in cui
i ruoli si rovesciano ed è addirittura la So. che
rassicura il Ma., dubbioso, sulla possibilità di un buon
esito di pratiche edilizie afferenti un controverso
“risanamento conservativo” e una opinabile “ristrutturazione
con modifica della sagoma”, mentre nel terzo caso
addirittura il Ma. sembra quasi sorpreso del buon esito di
altra pratica “nonostante tutto”, come rimarca in simmetrica
risposta, con evidente sottinteso, la convenuta), e, a suo
modo, perfino la circostanza che fosse la So. a chiamare
il Ma. per fargli gli auguri di compleanno (circostanza,
quest’ultima, compatibile solo con un rapporto di
strettissima familiarità fra i due, che rende non credibile
una “neutralità” della convenuta di fronte ai progetti che
il Ma. presentava proprio all’ufficio dalla stessa
diretto).
Tutto questo, naturalmente, a tacer del fatto che,
per diretta ammissione della convenuta (anche in sede di
patteggiamento ex art. 444 c.p.p.), essa svolgeva attività
extralavorativa dietro compenso presso il Ma., il che vieppiù vale ad escludere la credibilità della sua
imparzialità sulle di lui pratiche edilizie.
Discorso non dissimile è da farsi, peraltro, anche con
riferimento al rapporto con il Pa., avendo la So.
ammesso (nell’interrogatorio del 07.10.2011 dinanzi al Pm
penale) che “La restante somma confluita in contanti sul mio
conto corrente deriva, in parte, da elargizioni in mio
favore corrispostemi da G.P., per il quale ho
svolto un’attività di consulenza. L’Ufficio chiede se questa
attività abbia riguardato i progetti N., C.E. e A. e la sig.ra So. dichiara: è vero ho
aiutato Pa. in queste pratiche e che lo stesso mi ha
elargito alcune migliaia di euro”, senza saper neppure
escludere se le somme di che trattasi potessero essere anche
maggiori.
Si tratta, è bene puntualizzarlo, di pratiche preparate, per
diretta ammissione, con la “consulenza” della So. e poi
presentate e istruite proprio dallo Sportello Unico per
l’Edilizia diretto dalla convenuta, sì da rendere credibile
la prospettazione attorea inerente la violazione dei
principi di eguaglianza/imparzialità e buon andamento, e da
colorare di un significato preciso l’ammessa percezione di
somme di denaro per migliaia di euro dal Pa. (come da
citata sentenza n. 792/2012: versamento di una somma di
denaro contante per euro 30.000,00 circa, nonché remissione
del debito contratto dalla So. per l’acquisto di un
immobile dallo stesso Pa., pari ad euro 43.000,00).
Tutto ciò premesso, per quanto ora attiene agli aspetti
propriamente quantificatori, ritiene il Collegio che, a
fronte della stima degli oneri economici in concreto
sopportati dal Comune di Sesto a titolo di danno da
disservizio, complessivamente quantificati dalla Procura
attrice, in via equitativa, in euro 150.000,00, questa somma
-avuto riguardo alle dimensioni della struttura
organizzativa del Comune di Sesto, al volume (desumibile
come detto dalle dichiarazioni della geom. Ma. e
dell’arch. Ri. di cui al verbale di accertamento diretto
del 07.11.2013) delle attività di verifica e/o indagine
svolte sotto la direzione della Commissione speciale
(nonché, si ribadisce, all’impossibilità di computarvi anche
gli oneri da procedimento disciplinare e da richieste di
pareri a legali esterni al Comune)– vada rideterminata.
Considerando tutte queste specifiche circostanze, infatti,
ad avviso di questo Giudice la spesa da ritenersi congrua
(nel rispetto del principio di proporzionalità di cui si è
detto) per lo svolgimento delle verifiche e/o indagini sotto
la direzione della Commissione speciale insediata dal Comune
di Sesto è stimabile, sempre in via equitativa, in euro
100.000,00, che sono da considerare addebitabili all’odierna
convenuta (tenuto conto dell’incidenza di altri fattori
concausali, e in particolare del preminente ruolo
dell’assessore Di L., evocato a giudizio nel procedimento
n. 28079, a ruolo esso pure nell’odierna udienza), nella
misura pari al 30% del totale, quindi di euro 30.000,00.
Sul punto, il Collegio osserva che le dichiarazioni del
Pa. (verbale di interrogatorio del 04.11.2011, n. 1057)
evocate dalla difesa della convenuta rendono effettivamente
credibile che la So. agisse seguendo le indicazioni
dell’assessore Di L., in tal veste responsabile politico –all’interno dell’amministrazione comunale– del settore
edilizio, ma ciò, lungi dal determinare un totale esonero da
responsabilità della stessa, può valere soltanto a
ridimensionarne la portata (restando sul piano formale
intatto il suo ruolo decisionale e/o propulsivo nell’ambito
del SUAP, e, quindi, la doverosità della sua piena
esplicazione), che, come detto, appare equo quantificare nel
30% dell’importo complessivo della posta di danno di che
trattasi, come sopra stimato in via equitativa.
4. Quanto al danno da distrazione di energie lavorative, il
Collegio ritiene che esso -a fronte della volontaria
condotta della convenuta- sussista, e sia pari all’importo
al riguardo richiesto in citazione dalla Procura attrice.
Dalle intercettazioni telefoniche riversate in atti emerge
infatti con chiarezza l’ampio dispendio di energie della
convenuta nel seguire le pratiche dell’Architetto Ma. e
del Pa., con i quali aveva instaurato un rapporto
privilegiato per ragioni di amicizia, favori o denaro
ricevuto.
Energie sottratte quasi quotidianamente (come da
risultanze delle intercettazioni telefoniche versate in
atti) alla dovuta destinazione alle incombenze dell’ufficio,
ai danni dell’amministrazione di appartenenza (indicativa,
al riguardo, anche la dichiarazione resa nel verbale di
audizione del 07.11.2013 dinanzi al Pm contabile dalla Geom. Ma., nuovo Responsabile dello Sportello Unico per
l’Edilizia, la quale evidenziava come al suo insediamento,
avvenuto nel maggio 2012, riscontrava “….la tendenza
dell’utenza a non rispettare tempi e regole dei procedimenti
amministrativi volte all’approvazione delle pratiche
edilizie e la tendenza dei professionisti esterni a
presentarsi in ufficio e richiedere pareri e suggerimenti
anche al di fuori degli orari di apertura al pubblico,
essendo evidentemente abituati a prassi non conformi alla
legge”).
Questo Giudice aderisce per conseguenza alla prospettazione
attorea, secondo la quale una porzione del trattamento
salariale è risultata nella specie indebitamente corrisposta
con altrettanto conseguente indebito arricchimento della
convenuta e danno per il Comune di Sesto San Giovanni (c.d.
danno da interruzione del sinallagma contrattuale), e
concorda anche sulla quantificazione proposta dall’organo
requirente, trovandola equa e proporzionata, in quanto
stimata, in via equitativa, in misura non inferiore al 20%
della retribuzione lorda percepita dalla So. nel periodo
2007-2010 (come da nota del Comune di Sesto San Giovanni prot. 76174 del 28.10.2013 e relative buste paga), pari –quest’ultima- alla somma complessiva di euro 200.199,20.
Di
tal ché, la posta di danno da distrazione delle proprie
energie lavorative imputabile alla convenuta va ultimativamente quantificata in euro 40.039,84
(corrispondente, appunto, al 20% di euro 200.199,20 lordi).
5. Con riferimento, infine, al danno all’immagine, ad avviso
del Collegio esso sussiste, alla luce anche di un ampio e
perdurante risalto mediatico della vicenda (che come per
vero di rado accade ha condotto persino a coniare delle
spregiative locuzioni “sistema Sesto” e “sistema So.”,
ad indicare una metodica illecita collaudata e immanente), e
si presume, come da L. n. 190/2012 (applicabile ratione
temporis alla vicenda per cui è causa, attesa la natura
meramente processuale, e non già sostanziale, della
disposizione de qua: così, da ultimo, Sez. giur. Lombardia,
sent. n. 63/2015), pari al doppio di quanto effettivamente
introitato illecitamente dalla convenuta.
Sul punto, appare opportuno evidenziare che, in termini
generali, questa Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi
dall’indirizzo al riguardo fatto proprio dalla Corte
costituzionale (ord. n. 219/2011), ad avviso della quale:
“….una volta rinvenuta una giustificazione alla previsione
che impone la sussistenza di una sentenza di condanna per
uno dei reati sopra indicati, è ragionevole che il
legislatore abbia richiesto che tale sentenza acquisisca il
crisma della definitività prima che inizi il procedimento
per l’accertamento della responsabilità amministrativa
derivante dalla lesione dell’immagine dell’amministrazione;
che quanto sin qui esposto giustifica la diversità di
trattamento giuridico tra le ipotesi di responsabilità per
danno patrimoniale, che non richiede la sussistenza di una
sentenza di condanna passata in cosa giudicata, e quelle per
responsabilità per lesione dell’immagine
dell’amministrazione”.
Nell’ambito delle declinazioni puntuali di questo preclaro
assunto, è noto che la giurisprudenza contabile (ex plurimis,
I Sez., n. 379/2014), nell’interpretare il suddetto richiamo
all’art. 7 L. n. 97/2001, ritiene sufficiente, per la
contestazione del danno d’immagine, anche la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi
dell’art. 444 c.p.p., purché divenuta irrevocabile, in
quanto equiparata ad una pronuncia di condanna (ex art. 445,
comma 1-bis, c.p.p.).
Ne consegue che, nella specie, sussiste quella sentenza
irrevocabile di condanna richiesta dall’art. 7 della legge
n. 97/2001, cui fa rinvio l'art. 17, comma 30-ter, del d.l.
n. 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
102/2009, modificato dal d.l. n. 103/2009 convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 141/2009.
Ciò detto, è noto che la c.d. legge Severino (n. 190/2012),
dal contenuto ampio e articolato, ha fra l’altro realizzato
un’importante innovazione in tema di danno all’immagine
della PA. In particolare, l’art. 1, comma 62, ha inserito
nell’art. 1, della legge n. 20/1994, il comma 1-sexies, a
tenore del quale “1-sexies. Nel giudizio di responsabilità,
l’entità del danno all’immagine della pubblica
amministrazione derivante dalla commissione di un reato
contro la stessa pubblica amministrazione accertato con
sentenza passata in giudicato si presume, salva prova
contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore
patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal
dipendente”.
La norma è chiara, nel forfetizzare il danno da risarcire
presumendolo pari al doppio “della somma di denaro o del
valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita
dal dipendente”, fermo restando che l’importo della tangente
percepita non può costituire limite assoluto al
potere-dovere del giudice di tenere conto della
particolarità del caso concreto, onde evitare il rischio che
una meccanica applicazione di esso si traduca in un
risarcimento non proporzionato alla entità della lesione
subita dall’amministrazione (così, da ultimo, Sez. giur.
Lombardia, sent. n. 63/2015).
Peraltro, trattandosi di vicenda che ha avuto ampio risalto
mediatico, con conseguente clamor fori c.d. esterno, oltre
che interno, appare appropriato richiamare quella recente
giurisprudenza (Sez. Veneto, sent. n. 80/2012) che ha
precisato che <<al fine della quantificazione del danno in
esame soccorrono i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di
questa Corte nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla
giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli
individuati dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali,
nella recente sentenza n. 15208/2010 ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta
dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del
reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass
media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica
dalla vicenda>>.
Facendo applicazione di simili paradigmi nel caso specifico,
preso atto che nel capo della sentenza di patteggiamento
concernente la So. si dà conto della percezione di
50.000 euro dal Pa. e di 73.000,00 dal Ma., e tenuto
conto della peculiare gravità della condotta illecita e
correlativamente degli effetti lesivi che ne sono conseguiti
(considerato in particolare il ruolo esponenziale svolto
dalla convenuta, circostanza che per sua natura tende
inevitabilmente ad amplificare nella collettività la
percezione della perdita di prestigio, credibilità e
autorevolezza subita dall’amministrazione), l’effetto della
presunzione relativa di cui all’art. 1, comma 1-sexies,
della l. n. 19/1994, non impedito da evidenze ostative per
quanto in atti, conduce ad un risarcimento finale pari ad
euro 246.000.
6. Quanto, infine, all’incidenza delle somme indicate in atti
come oggetto di provvedimenti di confisca, le stesse -anche
in considerazione del titolo giuridico completamente
differente della confisca (restitutorio, verso lo Stato)
rispetto alla sentenza di condanna della Corte dei conti
(risarcitorio, in favore della specifica amministrazione
danneggiata)– non potranno essere comunque dedotte dal
risarcimento stabilito dalla presente sentenza.
Ad avviso di questa Corte (v. da ultimo Sez. I, n.
1011/2013), la confisca penale (di cui agli articoli 236 e
240 c.p.) è infatti una misura di sicurezza patrimoniale che
tende a prevenire la commissione di nuovi reati mediante
l'espropriazione a favore dello Stato di cose che,
provenendo da fatti illeciti penali o che siano in altra
guisa collegate alla loro esecuzione, manterrebbero viva
l'idea e l'attrattiva del reato; ha quindi per oggetto le
cose che servirono o furono destinate a commettere il reato
e quelle che ne sono il prodotto o il profitto.
Dunque, come
si vede, finalità e ambiti operativi del tutto distinti dal
(completo ed esatto) risarcimento patrimoniale, cui tende
per sua natura la sentenza giuscontabile (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza
27.07.2015 n. 135). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale per attribuzione illegittima di compensi al
Segretario comunale tipo: retribuzione in qualità di
Presidente del Nucleo di Valutazione ed erogazione delle
retribuzioni di risultato in assenza di obiettivi
predeterminati. .
La I Sez. Centrale di Appello della Corte dei conti,
conferma la condanna in via prevalente in capo al Segretario
comunale per aver ricevuto compensi non dovuti riguardanti la retribuzione in qualità di Presidente del
Nucleo di Valutazione e l'erogazione delle retribuzioni di
risultato in assenza di obiettivi predeterminati.
La responsabilità del Segretario è
rilevante in quanto lo stesso, nell'ambito della sua
funzione di garante della legalità dell'azione
amministrativa dell'Ente, non ha rilevato le illegittimità
delle operazioni poste in essere, beneficiando dei relativi
effetti economici.
Resta, in ogni caso, una responsabilità
minore del Sindaco il quale ha in ogni caso disposto
l'erogazione delle citate indennità.
Erronea sarebbe ancora la sentenza per insussistenza del
danno erariale in ordine alla corresponsione dell’emolumento
aggiuntivo di € 7.500,00 per l’intervenuta nomina della
sig.ra F. quale Presidente del Nucleo di valutazione, con
conseguente erronea interpretazione dell’art. 97 del
d.leg.vo n. 267/2000.
L’appellante sostiene che l’emolumento era dovuto essendo
l’incarico de quo da collocare tra quelli aggiuntivi
extraistituzionali, atteso che è stato conferito con
apposito decreto sindacale e la cui attività è stata
espletata al di fuori del normale orario di servizio.
La motivazione difensiva non può essere condivisa.
Al di là della natura della funzione in sé di Presidente del
Nucleo di valutazione, va ricordato che lo svolgimento di
tale mansione era previsto nel contratto collettivo
integrativo di livello nazionale dei segretari comunali e
provinciali (accordo del 22.12.2003) tra le condizioni che
avrebbero potuto determinare l’incremento (dal 10% al 50%)
della retribuzione di posizione del Segretario Comunale.
La circostanza tuttavia che la F., nel periodo di
riferimento, già percepiva la retribuzione di posizione nel
suo massimo avrebbe dovuto comportare che, in disparte ogni
altra considerazione, l’attività di Presidente del Nucleo di
valutazione non comportasse il percepimento da parte
dell’interessata di alcun altro emolumento.
Pertanto non appare conferente quanto sostenuto
dall’appellante in ordine al fatto che il compenso le
sarebbe comunque spettato perché rientrante non già nelle
funzioni di Segretario comunale ma di Direttore generale,
carica contestualmente ricoperta dalla medesima.
Ultimo motivo di censura è poi quello relativo al punto in
cui la sentenza afferma che l’indennità di risultato è stata
riconosciuta in violazione del quadro normativo di
riferimento, atteso che tale indennità è stata riconosciuta
e liquidata in assenza di un’assegnazione di obiettivi e
senza la necessaria verifica della loro assegnazione.
In proposito, oltre a quanto già evidenziato dal primo
giudice, va rammentato che la fase di previsione ed
erogazione dell’indennità in parola è puntualmente
procedimentalizzata dall’art. 42 del CCNL 16.05.2001, a
mente del quale vengono richiesti due elementi essenziali:
l’attribuzione degli obiettivi espliciti e chiari (da non
rapportare a generici riferimento al programma politico
tout court del sindaco) ed il controllo del
raggiungimento dei risultati conseguiti. Elementi che, allo
stato degli atti, appaiono carenti e la cui sussistenza
resta indimostrata da parte degli appellanti.
Pertanto, conclusivamente, il pregiudizio erariale
contestato resta confermato sia in capo al Sindaco G., che
ha disposto l’attribuzione delle varie somme indicate, sia
in capo alla sig.ra F., che, come precisato in prime cure,
nell’ambito della sua funzione di garante della legalità
dell’azione amministrativa dell’Ente, non ha rilevato le
illegittimità delle operazioni poste in essere, beneficiando
dei relativi effetti.
Gli appelli vanno dunque respinti e la sentenza impugnata
confermata integralmente (Corte dei Conti, Sez. I Centrale di
Appello,
sentenza
22.07.2015 n. 451). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danno erariale: discrezionalità non fa rima con arbitrarietà
(commento tratto da e link a www.altalex.com).
La discrezionalità amministrativa non
può diventare uno strumento di legittimazione per scelte
arbitrarie o irragionevoli.
---------------
E’ quanto ricorda la Sez. II centrale d’appello della Corte
dei Conti con la
sentenza 08.06.2015
n. 296.
Nel caso di specie, il Sindaco si è trovato a rispondere a
titolo di danno erariale indiretto della soccombenza patita
dall’amministrazione locale nel giudizio arbitrale
instaurato dal professionista al quale il comune, su
decisione del primo cittadino, aveva deciso di revocare
l’incarico di direzione lavori e di rifiutare il pagamento
delle prestazioni già eseguite in quanto ritenuto
responsabile del cedimento strutturale di alcune opere
stradali appaltate.
Il giudice contabile di prima istanza aveva condannato il
sindaco per aver interferito con le valutazioni tecniche
spettanti all’organo di collaudo, al quale era stata inibita
la possibilità di verificare le ragioni del cedimento
mediante l’avocazione diretta delle funzioni di responsabile
del procedimento e la decisione, considerata sommaria e
frettolosa, di imputare l’accaduto al direttore dei lavori,
disconoscendogli il corrispettivo dovuto.
Esperito il gravame, il giudice d’appello conferma la
decisione di primo grado, respingendo con forza la tesi
dell’appellante secondo cui la scelta di opporsi
giudizialmente alle richieste del professionista
rientrerebbe nell’alveo della discrezionalità amministrativa
e sarebbe, di conseguenza, immune a qualsiasi censura da
parte della Corte dei Conti.
La norma che la difesa del convenuto richiama a tal
proposito è l’art. 1, co. 1, della L. 14.01.1994, n. 20,
secondo cui “La responsabilità dei soggetti sottoposti
alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di
contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle
omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma
restando l'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali”.
Il giudice d’appello chiarisce, però, che
l’attribuzione di un potere amministrativo discrezionale da
parte della legge non implica la creazione di un’area di
assoluta libertà decisionale in capo al titolare, ma esige
pur sempre che tale potere venga esercitato nel rispetto dei
fini per i quali è stato conferito.
Secondo la giurisprudenza, “dal
principio di legalità e di soggezione dell’amministrazione
alla legge, dunque, ne consegue che qualunque manifestazione
dell’azione amministrativa è passibile di controllo da parte
della competente giurisdizione per verificarne la conformità
alla normativa, anche sotto il profilo della logicità e
della ragionevolezza”
[1].
Del resto, è lo stesso tenore letterale
della norma richiamata ad escludere dal sindacato
giurisdizionale unicamente il “merito” amministrativo
e non la scelta discrezionale nella sua interezza che deve,
in ogni caso, rispettare i c.d. “limiti interni”
della discrezionalità –interesse pubblico, causa del potere
esercitato, osservanza dei precetti di logicità e di
imparzialità– alla cui violazione si fa tradizionalmente
risalire il vizio dell’eccesso di potere.
Nel caso in esame, il giudice contabile aderisce alla tesi
della Procura secondo cui nel merito
amministrativo confluiscono solo quelle possibilità
decisionali compatibili con “quei principi di
ragionevolezza che devono sempre innervare la scelta
discrezionale, criteri che, se non rispettati, la rendono un
dannoso arbitrio”.
E’ solo all’interno di questo perimetro che
il decisore pubblico può scegliere in base a valutazioni di
opportunità e convenienza, insindacabili in sede
giurisdizionale.
Tra l’altro, i giudici contabili ricordano come l’area del “giuridicamente
irrilevante” abbia subito un significativo
ridimensionamento per effetto della positivizzazione dei
principi di efficacia ed economicità, ai quali l’art. 1
della Legge 07.08.1990, n. 241 ha imposto che si conformi
tutta l’attività amministrativa.
In tal modo, la nozione di legittimità si è
arricchita di nuovi contenuti, con corrispondente espansione
del sindacato giurisdizionale, chiamato ora a scrutinare
l’azione amministrativa anche sotto il profilo
dell’adeguatezza dei mezzi e delle risorse impiegate nel
conseguimento di un determinato obiettivo, in un giudizio
condizionato necessariamente da un’analisi dei risultati
oltre che dell’ossequio formale alle norme di legge.
In un caso di contestazione della giurisdizione della Corte
dei Conti motivata proprio con riferimento
all’insindacabilità delle scelte discrezionali, la Corte di
Cassazione, a proposito dei criteri di economicità ed
efficacia introdotti dalla legge n. 241, ha evidenziato che
“In virtù di tale specifica previsione,
detti criteri, che costituiscono specificazione del più
generale principio sancito dall’art. 97, primo comma, Cost.,
hanno acquistato "dignità normativa", assumendo rilevanza
sul piano della legittimità (e non della mera opportunità)
dell’azione amministrativa. La verifica della legittimità
dell’attività amministrativa non può quindi prescindere
dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti
e i costi sostenuti. E si intende, allora, che la violazione
dei criteri sopra indicati possa assumere rilievo anche nel
giudizio di responsabilità…”
[2].
La sopravvenuta cogenza dei principi di efficacia ed
economicità ha introdotto, quindi, ulteriori e più
stringenti limiti all’autonomia decisionale degli
amministratori pubblici, determinando, corrispondentemente,
“un’indagine più penetrante
sull’esercizio della discrezionalità amministrativa, posto
che implica una valutazione puntuale del rapporto tra scelte
in concreto effettuate e possibili opzioni in relazione agli
obiettivi di legge”
[3].
Del resto, l’idea che il giudizio sulla regolarità di una
gestione pubblica non possa prescindere da un’analisi
critica del rapporto tra le risorse impiegate ed il
risultato raggiunto ed esaurirsi, così, nella mera verifica
di conformità del singolo atto alle norme di legge è
attestata, altresì, dalle univoche indicazioni fornite nel
tempo dal legislatore in materia di controlli
amministrativi.
In tale prospettiva si colloca già l’art. 3, co. 4, della
Legge 20 cit. che, nell’attribuire alla Corte dei Conti i
compiti di controllo successivo sulla gestione delle
pubbliche amministrazioni, stabilisce che la magistratura
contabile “Accerta, anche in base
all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati
dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla
legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello
svolgimento dell'azione amministrativa”.
Altrettanto espliciti sono i riferimenti contenuti nel
D.Lgs. 30.06.2011, n. 123 recante la riforma dei controlli
di regolarità amministrativa e contabile, in cui si legge, a
più riprese, che il fine dei controlli è “assicurare
la legittimità, la proficuità, la correttezza e la
regolarità delle gestioni”
(art. 1, co. 2), “assicurare la
legittimità e proficuità della spesa”
(art. 2, co. 2) e “ricondurre a
economicità e regolarità amministrativo-contabile le
gestioni pubbliche”
(art. 23, co. 2).
Dall’immediata precettività dei principi di efficacia ed
economicità deriva, conseguentemente, un aumento delle
ipotesi di responsabilità in capo agli amministratori
pubblici, anche di natura erariale.
Nel caso sottoposto all’esame del giudice contabile
d’appello, la violazione dei canoni di
buona amministrazione foriera del danno erariale viene
ravvisata nell’avventatezza con la quale il Sindaco ha
deciso, a seguito di un’istruttoria assolutamente sommaria,
di addebitare la responsabilità del cedimento strutturale di
un’opera al direttore dei lavori, rifiutando di
riconoscergli il pagamento delle prestazioni rese ed
instaurando un contenzioso dall’esito negativo facilmente
prevedibile.
Secondo la Corte d’appello, “il
contenzioso è stato instaurato senza osservare uno dei
principi cardine della scelta amministrativa, ossia
‘conoscere per decidere’, principio che giustifica e
conforma tutto il procedimento amministrativo”
osservando che “Nel caso in esame … ciò
che è mancato è stato il rispetto del procedimento
amministrativo come luogo della massima acquisizione degli
elementi informativi al fine del decidere, con patente
violazione dell’art. 6 l. n. 241 del 1990”.
Si afferma, in sostanza, la necessità che
ogni provvedimento amministrativo sia preceduto da
un’adeguata istruttoria procedimentale ossia
dall’ineludibile valutazione comparativa di tutti gli
interessi in gioco affinché la scelta finale costituisca il
coerente epilogo di un percorso logico ed argomentativo
ampiamente ponderato.
Nessuno spazio, invece, viene concesso a
decisioni avventate ed irragionevoli, che tradiscono, ad
avviso dei giudici contabili, un’incuria gestionale
meritevole di censura anche sul piano erariale, senza
l’alibi della discrezionalità amministrativa.
In particolare, viene precisato che “il
comportamento contra legem del pubblico amministratore non è
mai al riparo dalla valutazione giurisdizionale non potendo
esso costituire esercizio di scelta discrezionale
insindacabile”
(Corte dei Conti,
Sez. II centrale d'appello,
sentenza
08.06.2015 n. 296).
---------------
[1] Consiglio di Stato, sez. V, 08.08.2005, n. 4207.
[2] Cass., Sez. Un., 29.09.2003, n. 14488 e, più di recente,
Cass., Sez. Un., 09.07.2008, n. 18757.
[3] Tar Puglia, Bari, sez. III, 03.07.2008, n. 1613. |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Condannato
il dirigente dell'UTC per l'affidamento diretto e per i
lavori di manutenzione straordinaria effettuati in qualità
di locatario.
Tra l'altro, lavori di "somma urgenza" sono stati affidati
direttamente in violazione ai principi di trasparenza,
rotazione e parità di trattamento, così come disciplinati
dal comma 8 dell'art. 125 del Codice dei Contratti, tanto
più che detti lavori di manutenzione straordinaria
dell'immobile avrebbero dovuto essere posti a carico del
proprietario e non dell'amministrazione locataria.
Vieppiù, non appare correttamente seguita la procedura
prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del
Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto
non risulta in atti che sia stato redatto "apposito
verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza,
le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per
rimuoverlo", né che al verbale de quo -da
compilare a cura del responsabile del procedimento o di un
tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di
un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa
attendere la redazione di un vero e proprio progetto-
costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa
dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura
finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia
stato "allegato alla determina di affidamento della
prestazione".
---------------
L'AVCP
ha rilevato la non corretta
applicazione da parte del comune "delle norme del Codice dei Contratti ed in
particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha
interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli
appalti, in difformità del rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia
ciò che realmente indica l'illiceità
della spesa sopportata dal Comune è il fatto che si è
trattato in netta prevalenza (ad eccezione della
realizzazione di un servizio igienico per disabili e della
costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso,
sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili
opere necessarie per conservare all'immobile la sua
destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di
comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è
adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una
certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il
locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni
necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione,
che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese
ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il
proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione
straordinaria.
La L. 392/14978
(Disciplina delle locazioni di immobili urbani)
prevede più specificamente che sono interamente a carico del
conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al
servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria
manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua,
dell'energia elettrica, del riscaldamento e del
condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e
delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi
comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione
dell’immobile prevede all’art. 5 che "l’ordinaria
manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di
Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della
disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli
stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli
interventi di carattere straordinario restano a carico del
locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono
di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore
dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono
principalmente consistiti nella realizzazione di lavori
necessari per ricondurre la struttura in buono stato
locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali
i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti,
sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino
dei serramenti in ferro).
---------------
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente
seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i
"Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia,
in quanto non risulta in atti che sia
stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i
motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno
provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al
verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del
procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente
seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che
-qualora non si possa attendere la redazione di un vero e
proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per
definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la
relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il
predetto verbale sia stato "allegato alla determina di
affidamento della prestazione".
---------------
C.
Sgombrato il campo dalle questioni pregiudiziali e
preliminari proposte dalle difese dei convenuti, il Collegio
può esaminare in punto di merito la vicenda descritta nella
premessa in fatto.
Deve quindi procedersi alla verifica
della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici
della responsabilità amministrativa che, com’è noto, si
sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente
valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una
condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di
causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso,
nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra
coloro che lo hanno determinato e l'ente che lo ha subito.
D.
Con riferimento, in primo luogo, all’elemento oggettivo
del danno pubblico, la valutazione della relativa
sussistenza nel caso di specie impone l'attenta valutazione
degli atti di causa, dai quali risulta quanto segue.
Con relazione informativa n. 108/09 del 06.04.2009
l'ASL NA
2 Nord
- Dipartimento di Prevenzione - Servizio Prevenzione
e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro - Servizio Igiene e
Medicina del Lavoro
dava comunicazione di quanto emerso nel
corso degli accertamenti effettuati durante l'ispezione
svolta il 23.03.2009 presso l'Ufficio Anagrafe del Comune di
Afragola situato in via SS. Cuori, ovvero della rilevata
inosservanza di talune disposizioni dettate in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008),
impartendo, di conseguenza, una serie di prescrizioni, cui
il datore di lavoro (individuato su delega del Sindaco del
Comune di Afragola nell'Ing. M.D., Responsabile del
Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino
del medesimo Comune)
avrebbe dovuto curare la puntuale
ottemperanza entro novanta giorni dalla data del verbale de
quo; contestualmente, l'ASL decretava, considerata la
situazione di pericolo derivante dall'inosservanza delle
prescrizioni indicate, il divieto d'uso dei locali adibiti
ad Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola.
L'immobile de quo era condotto in locazione dall'Ente in
forza di contratto n. 1713 del 22.07.1998, stipulato con il
proprietario Istituto SS. Cuori, nel quale era stato
pattuito un canone mensile di £. 3.535.323, per complessive
£. 42.423.876 annue (da aggiornare con indici ISTAT).
Con determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009
del
Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del
Territorio ing. N.B.
si stabiliva, facendo
riferimento alla Relazione Informativa ASL NA 2 Nord n.
108/09 dianzi citata e dando atto dell'urgenza ed
indifferibilità ex art. 9 Regolamento Comunale delle Spese
in Economia approvato con deliberazione C.S. n. 119 del
07.04.2007 dei lavori di risistemazione e adeguamento dello
stabile da eseguire in ottemperanza alle prescrizioni
impartite dall'Azienda Sanitaria Locale, di affidare i
lavori de quibus all’impresa RDR di M. V. e R. s.n.c.
in forza di un precedente contratto d’appalto, n. 3181 del
24.09.2008, avente ad oggetto la manutenzione ordinaria e
straordinaria degli immobili comunali, ed utilizzando lo
stesso ribasso d’asta (34,105%), in ragione della
dichiarazione di disponibilità dell'impresa all'esecuzione
immediata dei lavori agli stessi patti e condizioni del
contratto n. 3181/2008 già in essere.
Il contratto da
stipulare in esecuzione della determinazione dirigenziale n.
92/C del 12.06.2009 è stato poi sottoscritto in data
16.07.2009, per un importo netto contrattuale di € 50.136,51
comprensivo di oneri di sicurezza. Infine, con determina
dirigenziale n. 161/C del 24-09-2009 è stato approvato il
primo ed unico SAL per un importo di € 48.780,52 oltre
I.V.A..
Con successiva determinazione dirigenziale n. 178 del
17.02.2010 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e
Assetto del Territorio ing. N.B., è stato approvato
un ulteriore progetto dell’importo di €. 83.860,00, di cui
€. 68.737,72 per lavori, contenente opere rese necessarie
sempre dalle prescrizioni dell’Azienda Sanitaria, di cui al
verbale n. 108/09 dell’Azienda sanitaria Locale Napoli 2
Nord; i predetti lavori sono stati affidati all’impresa
Coop. S., in forza di un precedente contratto,
stipulato in relazione ai lavori di manutenzione
straordinaria ed ordinaria annualità 2009/2010 dei plessi
scolastici di competenza dell’Ente Comunale della città di
Afragola per un importo contrattuale di € 136.869,78 -a
seguito di gara e con un ribasso d’asta del 34,463%-
applicando lo stesso ribasso d’asta (del 34,463%, appunto)
per un importo di € 46.707,52, comprensivo di € 4.906,97 per
oneri di sicurezza;
anche in questo caso l'affidamento è
avvenuto ai sensi dell’art. 9 del Regolamento delle Spese in
Economia dell’Ente, già richiamato per statuire l'urgenza e
l'indifferibilità dei lavori nella determinazione n.
92/C/2009 di cui si è detto in precedenza. La copertura
finanziaria è stata assicurata dall’economia risultante dal
ribasso d’asta dell’appalto originario.
Nella premessa della determinazione dirigenziale n. 178/2010
vengono, altresì richiamati due verbali di riunione,
tenutesi rispettivamente il 07.01.2010 ed il 22.01.2010 tra
il Vice-Sindaco ed i dirigenti dei vari Settori del Comune
di Afragola -la prima riunione, anche con la partecipazione
del segretario comunale- in cui era stata ribadita "la
necessità della sistemazione dei locali posti al primo piano
dell'Ufficio Anagrafe in via SS. Cuori", con particolare
riferimento alla scala delle stanze situate al primo piano
dello stabile, all'impianto elettrico, alle toilettes, a
bussole e finestre ed alla realizzazione di tompagnatura in
alcuni ambienti.
Dalla lettura della prot. n. 19922 del 02.08.2010 del
Dirigente del Settore A.T./LL.PP. comunale ing. N.B., emerge che i lavori affidati alla prima impresa RDR
di M. V. e R. s.n.c. hanno interessato il piano terra
dello stabile e solo marginalmente il primo piano,
quest'ultimo con lavori di piccola entità, e che con i
lavori aggiuntivi affidati alla Coop S. in forza
della determina n. 178 del 17.02.2010, sono stati completati
i lavori di sistemazione del primo piano, previo
trasferimento degli uffici al piano terra.
Più in dettaglio -come illustrato nella medesima nota dianzi
indicata, trasmessa a riscontro di richiesta di chiarimenti
e informazioni dell'AVCP- i primi lavori sono consistiti in:
A) ristrutturazione dell’intero piano terra dello stabile in
via SS. Cuori, previo sgombero dell’intero archivio e
trasporto di materiale al macero, rifacimento della
partizione interna, realizzazione degli impianti elettrico,
idrico, di riscaldamento e climatizzazione, realizzazione di
nuovi servizi igienici di cui uno per disabili, sistemazione
dell’ingresso principale con la costruzione di una rampa di
accesso per disabili, realizzazione di controsoffittatura,
nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, sostituzione delle porte
interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro;
B) lavori di piccola entità al primo piano del medesimo
stabile nei locali adibiti ai servizi igienici, quali
sostituzione di n. 4 vasi igienici nei wc, sostituzione e
ripristino di piccole parti di pavimentazione (in totale mq.
4 di pavimentazione), sostituzione dei serramenti nei locali
wc e ripristino intonaco nel corridoio principale.
Per i lavori del secondo affidamento (impresa Coop.
S.), invece, gli interventi da eseguire sono
dettagliatamente indicati nel verbale di riunione del
22.01.2010:
1. spostamento dell’archivio storico dalla precedente sede
alla stanza n. 3 indicata nell’allegato grafico;
2. chiusura, con realizzazione di muri, dei due ingressi al
corridoio di destra e di sinistra;
3. sistemazione delle tre stanze identificate ai nn. 1, 2 e
3, con ripristino delle parti ammalorate di intonaco,
ritinteggiatura complessiva, sostituzione degli infissi e
delle porte interne, dei vetri ove non a norma, rifacimento
dell’impianto elettrico, nonché realizzazione dell’impianto
di rilevazione incendi e verifica del solaio di calpestio
destinato all’archivio storico;
4. sostituzione degli infissi esistenti e della porta di
accesso ai locali adibiti a servizi igienici al primo piano;
5. rifacimento dell’impermeabilizzazione al solaio di
copertura del torrino scala;
6. rifacimento dell’intonaco al soffitto del vano scala,
ritinteggiatura complessiva e sistemazione dell’impianto
elettrico.
La realizzazione dei lavori de quibus è stata oggetto di
alcune note (n. 46270 del 14.07.2010, n. 70175 del
11.10.2010 e n. 30609 del 18.03.2011, quest'ultima già
citata in precedenza per aver costituito lo spunto per
l'apertura delle indagini eseguite dal requirente
contabile), due istruttorie ed una di definizione
dell'istruttoria medesima, dell'A.V.C.P. (Autorità di
Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e
Forniture), la quale ha rilevato la non corretta
applicazione da parte della stazione appaltante (il Comune
di Afragola) "delle norme del Codice dei Contratti ed in
particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha
interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli
appalti, in difformità del rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia -come puntualmente e condivisibilmente evidenziato
dal PM di udienza-
ciò che realmente indica l'illiceità
della spesa sopportata dal Comune di Afragola a fronte dei
lavori precedentemente descritti, è il fatto che si è
trattato in netta prevalenza (ad eccezione della
realizzazione di un servizio igienico per disabili e della
costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso,
sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili
opere necessarie per conservare all'immobile la sua
destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di
comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è
adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una
certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il
locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni
necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione,
che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese
ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il
proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione
straordinaria.
La L. 392/14978
(Disciplina delle locazioni di immobili urbani)
prevede più specificamente che sono interamente a carico del
conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al
servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria
manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua,
dell'energia elettrica, del riscaldamento e del
condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e
delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi
comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione
dell’immobile prevede all’art. 5 che "l’ordinaria
manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di
Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della
disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli
stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli
interventi di carattere straordinario restano a carico del
locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono
-come
giustamente osservato nell'atto introduttivo del giudizio-
di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore
dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono
principalmente consistiti nella realizzazione di lavori
necessari per ricondurre la struttura in buono stato
locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali
i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e
tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti,
sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino
dei serramenti in ferro).
Non a caso, infatti, era lo stesso Ente locale a riferire
alla competente Procura della Repubblica di Napoli -nella
nota n. 2183 del 26/01/2011 del Responsabile del Settore
A.T. e LL.PP. ing. N.B., odierno convenuto- che
“... la proprietà dei locali occupati dal personale di Stato
Civile dell’Amministrazione Comunale di Afragola non rientra
tra quelle disponibili dell’Ente e pertanto, è palese la
impossibilità giuridica di questo Ente di effettuare
interventi di manutenzione straordinaria quali sono quelli
finalizzati all’adeguamento ai sensi del T.U. 81/2008
(sicurezza sui luoghi di lavoro)”.
Erano proprio le prescrizioni dell’ASL NA 2 Nord indicate
nella Relazione Informativa n. 108/09 sopra citata, inoltre,
ad attestare uno stato di particolare degrado dell’immobile
locato, per il quale, dunque, deve dedursi che non siano
stati svolti e pretesi nel tempo -ovvero, per tutta la
ventennale durata del rapporto locativo- gli interventi
manutentivi necessari.
Poiché, dunque, i lavori realizzati in esecuzione delle
determinazioni n. 92/C/2009 e n. 178/2010 del Dirigente del
Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio, sono di
straordinaria manutenzione, i relativi oneri non avrebbero
dovuto essere sopportati dal Comune di Afragola, in
sostituzione e con diretto vantaggio patrimoniale del
soggetto proprietario, bensì avrebbero dovuto essere sì
effettuati in tempi rapidi, ma poi posti a carico -detratti
i costi sostenuti per realizzare i prescritti adeguamenti
strutturali per disabili- del proprietario dello stabile.
Poiché ciò non è avvenuto -ed anzi l'ing. N.B. ha
escluso nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 che
potesse avvenire, in aperto contrasto con quanto in un primo
momento da lui stesso osservato nella nota n. 2183 del
26.01.2011 sopra citata-
il Collegio ritiene che il Comune
di Afragola abbia senz'altro subito, in relazione alla
vicenda dianzi descritta, un pregiudizio economico.
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente
seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i
"Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune di
Afragola per le Spese in Economia, approvato con delibera
C.S. n. 119 del 07.04.2007 (integrata da successiva delibera
n C.S. n. 133 del 12.07.2007) -cui pure fa riferimento la
difesa del convenuto-
in quanto non risulta in atti che sia
stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i
motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno
provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al
verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del
procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente
seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che
-qualora non si possa attendere la redazione di un vero e
proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per
definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la
relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il
predetto verbale sia stato "allegato alla determina di
affidamento della prestazione".
In merito alla quantificazione del danno sopra descritto e
ritenuto sussistente nella fattispecie, il Collegio osserva,
preliminarmente, che con nota segretariale n. 440/Seg del
05.11.2012 del Comune di Afragola è stata trasmessa la nota
interna n. 3981/AT del 31.10.2012, in cui vengono indicate
in € 60.631,39 e in € 57.418,03 le spese sostenute per
effetto delle determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178
del 17.02.2010, che secondo la prospettazione attorea
costituiscono danno erariale per l'intero importo (€
118.049,42 = € 60.631,39 + € 57.418,03).
Tuttavia, il Collegio ritiene di dover rivedere la proposta
quantificazione tenendo conto, come rilevato anche dal PM di
udienza, della spesa che il Comune di Afragola avrebbe
comunque dovuto sostenere in proprio -senza cioè poterla
porre a carico del proprietario dello stabile adibito ad
Ufficio Anagrafe comunale- per la realizzazione di una rampa
d’accesso e di un servizio igienico per disabili,
complessivamente quantificabile in € 15.000,00, tenendo
conto dei costi medi di mercato di siffatte dotazioni
strutturali.
Poiché tali dotazioni strutturali sono state
realizzate con il primo affidamento (disposto con la
determinazione n. 92/C del 12.06.2009), è l'importo erogato
in relazione ad esso (€ 60.631,39) che va ridotto nella
predetta misura (€ 15.000,00) ai fini della presente
sentenza, risultando quindi pari a 45.631,39, cui va
comunque aggiunto l'importo di € 57.418,03 erogato a seguito
della determinazione n. 178 del 17.02.2010, con la
conseguenza che il pregiudizio economico complessivamente
subito dal Comune di Afragola in relazione all'esaminata
vicenda risulta pari ad € 103.049,42 (= € 45.631,39 + €
57.418,03).
E.
Ciò posto, e rilevata sotto il profilo del rapporto di
servizio la sussistenza della relazione d'immedesimazione
organica tra l'odierno convenuto -all'epoca dei fatti
Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio
del Comune di Afragola- ed il medesimo Ente locale, va poi
osservato, per quel che concerne il nesso di causalità
rilevabile tra il danno descritto e quantificato in
precedenza e la condotta tenuta dal convenuto medesimo, che
la prospettazione attorea, secondo cui il nocumento
patrimoniale subito dal predetto Ente per effetto
dell'esaminata vicenda sarebbe a lui addebitabile in toto in
relazione alla determina dirigenziale n. 92/C/2009 e nella
misura del 50% in riferimento alla successiva determina n.
178/2010, è ad avviso del Collegio, condivisibile, per aver
egli adottato le determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n.
178 del 17.02.2010, più volte citate in precedenza, mediante
le quali si è stabilito l'affidamento dei lavori da
eseguirsi sul bene privato senza porne contestualmente a
carico del proprietario il relativo onere economico e senza,
comunque, adottare alcuna statuizione in tale direzione.
Nel contempo,
è del pari condivisibile l'indicazione fornita
dal requirente nell'atto introduttivo del giudizio, secondo
cui la spesa erogata a seguito dell'effettuazione dei lavori
affidato con la determina n. 178/2010 (€ 57.418,03) va posta
al carico dell'ing. N.B. soltanto nella percentuale
del 50%, dovendo essere il restante 50% addebitato al
comportamento tenuto dai partecipanti (vice-sindaco,
segretario comunale, vari dirigenti, amministratori e
funzionari del Comune di Afragola) alle conferenze di
servizi e riunioni che hanno preceduto l'adozione della
predetta determina, in quanto nel corso di essa era stata
discussa la problematica dei lavori da effettuare nello
stabile di via SS. Cuori destinato ad Ufficio Anagrafe
comunale, con un pronunciamento favorevole agli stessi
(avvenuto nel verbale del 07.01.2010 e confermato con
modifiche nei lavori in data 22.01.2010), "influenzato sia
dall’esigenza di completare l’ottemperanza alle prescrizioni
dell’ASL che dalla necessità dell’Ufficio anagrafe di
ricevere in consegna delle apparecchiature ordinate (elettroarchivi
rotanti), fornitura per la quale la ditta interessata
denunciava danni di natura economica per il protrarsi
dell’impossibilità alla consegna e al collaudo imputabile
all’Ente" (cfr. atto di citazione, pagg. 12-13).
F.
Riguardo, infine, all'elemento soggettivo dell'illecito
amministrativo-contabile in controversia, che la Procura ha
indicato come colpa grave, questo deve, del pari essere
ritenuto sussistente per il convenuto N.B., per
aver egli adottato le suindicate determine senza poi porre
in essere alcuna attività finalizzata a porre a carico del
proprietario dell'immobile l'onere economico sostenuto per
far eseguire i lavori necessari per provvedere alla
straordinaria manutenzione di esso.
Il disinteresse dimostrato dal B. in ordine alle
conseguenze economicamente pregiudizievoli per l'Ente
determinate dal suo operato, emerge, altresì, dal fatto che,
come da egli stesso rappresentato nella nota interna n.
3327/AT dell’11.09.2012 (costituente riscontro a foglio
istruttorio richiedente [anche] la corrispondenza intercorsa
con il locatore per l’esecuzione dei lavori
[autorizzazioni]), i rapporti con il proprietario
dell'immobile erano avvenuti in modo verbale, ossia del
tutto irritualmente.
Né assumono efficacia scriminante le circostanze indicate
dallo stesso B. nella relazione illustrativa redatta il
09.06.2009 (ed allegata alla determina n. 92/C del
12.06.2009), in cui egli evidenzia che il Datore di Lavoro,
indicato dall'ASL nel Dirigente del Settore Recupero Urbano
e Servizi Collettivi al Cittadino del Comune di Afragola
ing. M.D., non aveva assunto sino a quella data
alcuna iniziativa intesa ad ottemperare alle prescrizioni
impartite dall'ASL nella Relazione Informativa n. 108/09 e
che, per contro, il medesimo ing. B. -"che lavora al
meglio per il funzionamento della macchina comunale"- si sia
in tale relazione illustrativa dichiarato disponibile anche
a risolvere la problematica dell'Ufficio Anagrafe, potendo,
tutt'al più, tali circostanze rappresentare motivo di
esercizio del potere riduttivo dell'addebito.
Nel contempo, il Collegio ritiene di condividere la
prospettazione esposta nell'atto introduttivo del giudizio,
anche laddove non si ravvisa a carico dei partecipanti alle
conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto la
determina n. 178 del 17.02.2010 -di cui sopra si è detto- la
sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa grave,
essendosi tali soggetti pronunciati unicamente a favore
dell'effettuazione in via d'urgenza dei lavori necessari per
adeguare l'immobile ospitante l'Ufficio Anagrafe comunale
alle prescrizioni della locale Azienda Sanitaria, ma non
certamente per tenere indenne il locatore, con pregiudizio
economico per l'Ente, dagli oneri derivanti dai lavori de quibus.
G.
Conclusivamente,
questo Collegio ritiene che
l'effettuazione a carico del Comune di Afragola dei lavori
di straordinaria manutenzione dell'immobile privato condotto
in locazione quale sede dell'Ufficio Anagrafe comunale,
affidati con le determine n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178
del 17.02.2010,
sia stato il frutto -almeno in via
prevalente, nelle misure suindicate- della condotta
gravemente colposa attribuibile all'odierno convenuto
e che
la conseguente erogazione della somma di € 103.049,42, nel
configurarsi come un danno ingiusto all’Ente vada a questi
addebitata nell'importo di € 45.631,39 + € 28.709,01 (50% di
€ 57.418,03) = € 74.340,40, da sottoporre ad ulteriore
riduzione, nella misura ritenuta equa del 20%,
nell'esercizio del potere attribuito al Giudice Contabile
dall'art. 52 TUCL n. 1214 del 1934, risultando dunque
quantificato, infine, in € 59.472,32 (= 80% di € 74.340,40).
Su dette somme dovranno essere applicati, innanzitutto, la
rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo gli indici
ISTAT, dall’esborso e fino al giorno della pubblicazione
della presente sentenza, nonché gli interessi legali sulla
somma così rivalutata dalla predetta pubblicazione al
soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza 09.03.2015 n. 253). |
NEWS |
ENTI
LOCALI - VARI:
Invalidi,
nuovi contrassegni.
Dal 15 settembre cambia la segnaletica.
Dal 15 settembre non si potranno più utilizzare i vecchi
contrassegni arancioni che consentono la sosta e la
circolazione in deroga per le persone invalide. E i comuni
dovranno aver adeguato la segnaletica stradale con i simboli
blu della carrozzella.
Lo ha evidenziato l'Anci con il parere divulgato sul proprio
portale il 01.09.2015.
Il dpr 151/2012 ha previsto importanti novità per i veicoli
al servizio di persone invalide, apportando modifiche
all'art. 381 del regolamento stradale. La sostituzione del
vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica
devono però completarsi entro il 14.09.2015, specifica l'Anci.
Il nuovo contrassegno deve essere esposto sempre in
originale nella parte anteriore del veicolo in modo che sia
chiaramente visibile per i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per
l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei
casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità
di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del
contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un
autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di
non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato
accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per
gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino
già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a
pagamento gestite in concessione, un numero di posti
destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di
contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni
cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili. Per
quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce che
delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il simbolo
della carrozzella diventa blu.
Con riferimento alla segnaletica verticale vengono
modificati il cartello che individua lo stallo di sosta e i
segnali di area pedonale e di zona a traffico limitato,
nella parte relativa alle eccezioni. Tra pochi giorni quindi
chi verrà pizzicato con un vecchio contrassegno non potrà
risparmiarsi una multa. Ma anche il comune rischia una
sanzione per segnaletica obsoleta
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Un solo
pin per c/c, tasse e sanità. È lo Spid, dal 15/9 accredito
per gestori d'identità digitali.
Entro dicembre i sindaci e le imprese potranno
avere gratis un codice unico per tutti i servizi.
Via libera allo Spid, un pin unico per il conto corrente,
per il fisco e la sanità. Dal 15 settembre richiesta di
accreditamento dei gestori dell'identità digitale, presso
l'Agenzia per l'Italia digitale. L'Agenzia per l'Italia
digitale (Agid), dal 15 settembre, ha 180 giorni di tempo
massimo, quindi marzo 2016, per analizzare le richieste che
arriveranno. Spid è la nuova «infrastruttura paese» che
permetterà a cittadini e imprese di accedere con un'unica
identità digitale ai servizi online della p.a. e dei privati
che aderiranno.
Tutto questo lo prevede il
regolamento dell'Agid recante le «modalità di
accreditamento e la vigilanza dei gestori dell'identità
digitale».
Entro dicembre i primi cittadini e le imprese avranno gratis
una identità digitale unica, con cui accedere a molti
servizi: il conto corrente online, il pagamento delle tasse
comunali, l'Inps e così via. Per l'uso dell'identità Spid
non è obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte ma potrà
essere utilizzata in diverse modalità (es. pc, smartphone,
tablet ecc.). Il cittadino e l'impresa saranno liberi di
scegliere la soluzione che offre il mercato e cambiarla
quando vorranno.
Entro dicembre 2015 verranno rilasciate le prime identità
digitali a cittadini e imprese. Agenzia delle entrate,
Inail, Inps, Regione Piemonte, Friuli-Venezia e Giulia,
Emilia-Romagna, Liguria, Toscana e Marche permetteranno già
l'accesso ai propri servizi tramite Spid. In 24 mesi il
sistema pubblico di identità digitale sarà esteso a tutta la
pubblica amministrazione così da permettere a tutti di
accedere con un'unica identità digitale ai servizi digitali.
Tre saranno i servizi di sicurezza in base ai servizi alla
tipologia di servizi a cui si vorrà accedere.
Richiesta Spid.
Per richiedere lo Spid si dovrà contattare un identity
provider di quelli accreditati presso l'agenzia. Diverse le
modalità per contattarli. Di persona, presso uno sportello
fisico. Con una procedura via web cam, in cui mostreranno in
video a un addetto i documenti. Con l'invio di un modulo di
richiesta online (allegando i documenti).
Domanda accreditamento.
La domanda di accreditamento redatta in lingua italiana, è
predisposta in formato elettronico, sottoscritta con firma
digitale o firma elettronica qualificata dal legale
rappresentante del richiedente, ed è inviata alla casella di
posta elettronica certificata dell'agenzia.
La domanda di accreditamento si considera accolta qualora
non venga comunicato al richiedente il provvedimento di
diniego entro 180 giorni dalla data di presentazione della
stessa.
L'Agenzia avrà la facoltà di svolgere verifiche presso le
strutture dedicate allo svolgimento delle attività di
gestore di identità. Il gestore dell'identità digitale
accreditato, ottenuta l'iscrizione nell'apposito registro,
potrà qualificarsi come tale nei rapporti commerciali e con
le pubbliche amministrazioni.
Protezione.
Spid protegge i dati personali più di una smart-card. Con le
carte elettroniche i dati personali utili a verificare
l'identità in rete saranno tutti disponibili al service
provider.
Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato con
assoluta certezza, saranno forniti al service provider,
previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente
necessari per la specifica transazione.
Ad esempio, per i servizi che necessitano solo di verificare
la maggiore età del soggetto o di conoscere un indirizzo
email, l'identity provider fornirà al service provider solo
le informazioni strettamente necessarie
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
La
laurea? Un pass europeo.
Professioni/l'addio agli albi per i diplomati.
La polemica scatenata su ItaliaOggi a seguito dell'articolo
«Per i diplomati addio agli albi» di venerdì 28
agosto 2015, relativa alla validità del nuovo diploma di
istruzione tecnica per l'accesso agli albi professionali, mi
costringe a intervenire per fare chiarezza e non polemica.
Il punto da cui partire è naturalmente la riforma degli
istituti tecnici (dpr 88/2010) che, come riporta il vostro
articolo, nel riordinare questo tipo di formazione,
ridefinendone settori e aree, l'ha resa insufficiente a
garantire una preparazione specifica per esercitare una
professione intellettuale. Le ragioni sono semplici e vanno
ricercate nei passaggi della stessa riforma e
nell'indispensabile riferimento all'Europa.
Innanzitutto il dpr ha modificato la stessa denominazione
del titolo di studio, d'ora in poi genericamente definito «diploma
di istruzione tecnica», facendogli perdere quella
connotazione caratterizzante che fino ad ora ha consentito
di individuarne con chiarezza la specifica professione di
accesso. In secondo luogo il provvedimento contiene un
passaggio fondamentale, forse sottovalutato, che di fatto
cancella il logico collegamento tra il titolo e l'accesso
alla professione.
Mi riferisco all'articolo 10 che abroga un passaggio
contenuto nel Testo unico sull'istruzione scolastica (art.
191 comma 3, dlgs 297/1994) che stabiliva: «Gli istituti
tecnici hanno per fine precipuo quello di preparare
all'esercizio di funzioni tecniche e amministrative, nonché
di alcune professioni nei settori commerciale e dei servizi,
industriale, delle costruzioni, agrario, nautico e
aeronautico».
In questo senso non viene in aiuto, come qualcuno
erroneamente ritiene, la tabella D (di cui all'articolo 8
comma 1) di confluenza tra gli indirizzi di specializzazione
esistenti e le nuove aree. Tabella valida solo per i
percorsi formativi in corso all'epoca dell'entrata in vigore
del regolamento e che nulla c'entra con l'equivalenza dei
titoli scolastici rilasciati tra il vecchio e il nuovo
ordinamento.
Infine il riferimento all'Europa, di cui ne è prova la
stessa circolare ministeriale. Il ministero, infatti, si è
preoccupato di attribuire un livello Eqf, precisamente il IV,
al titolo di studio, adottando quindi un preciso modello di
riferimento nella valutazione della formazione attuale. Se
questo è il principio, allora non si può trascurare il «Primo
rapporto italiano di referenziazione delle qualificazioni al
Quadro europeo Eqf», approvato in Conferenza
stato-regioni il 20/12/12», che prevede per l'esercizio di
una professione «il possesso di un titolo accademico»,
corrispondente, norme alla mano, al VI livello.
Solo con una laurea triennale quindi si potrà mantenere
quell'autonomia e quella capacità di progettare, cuore della
professione intellettuale. Solo così il professionista
italiano non sarà discriminato rispetto a quello europeo.
C'è da chiedersi quali professionisti vogliamo preparare, se
competitivi, autonomi e liberi oppure subordinati alla mera
esecuzione di opere di ingegno altrui. I periti industriali
una scelta l'hanno fatta (articolo
ItaliaOggi del 03.09.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
codice senza regolamento. Pronto emendamento Delrio alla
riforma: spazio alle linee-guida Anac.
Semplificazione. L'attuazione della delega
sarebbe fortemente alleggerita senza le norme secondarie.
È una novità
clamorosa quella che sta maturando nelle stanze del
ministero delle Infrastrutture e nella maggioranza di
governo in materia di appalti: un emendamento alla riforma
in discussione alla Camera che cancelli il regolamento
generale sugli appalti, oggi composto di 345 articoli,
lasciando un codice molto snello fatto soltanto delle norme
legislative attuative della delega in materia di direttive
Ue (ovviamente nel rispetto dei 56 paletti della delega
posti nella legge).
Nell’emendamento che si sta mettendo a punto la “scomparsa”
del regolamento lascerebbe spazio a una vera e propria
soft law che farebbe capo all’Autorità nazionale
anticorruzione guidata da Raffaele Cantone: in particolare
sarebbero le linee guida dell’Anac a fare l’attuazione “operativa”
delle norme di legge, garantendo una flessibilità e al tempo
stesso una settorialità che il regolamento generale non
potrebbe comunque mai garantire.
Favorevole a questa maxisemplificazione il ministro delle
Infrastrutture, Graziano Delrio, che nei giorni scorsi ha
fatto vari incontri informali anche con i relatori di
maggioranza della riforma alla Camera e al Senato, Raffaella
Mariani e Stefano Esposito, per mettere a punto la norma.
L’impostazione allo studio si potrebbe definire
anglosassone, fortemente innovativa per l’Italia, anche per
i suoi effetti di semplificazione radicale e di
disboscamento normativo.
Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del ministero
delle Infrastrutture stanno valutando attentamente tutte le
implicazioni della cancellazione del regolamento generale e
le diverse opzioni, anche per evitare buchi normativi che
potrebbero lasciare troppo spazio a interpretazioni, non
sempre univoche, della giurisprudenza amministrativa.
Si cerca, insomma,di costruire una norma inattaccabile sotto
questo profilo. Una delle ipotesi che si sta valutando per
ridurre il rischio di una incertezza normativa è quella di
un periodo transitorio in cui continuerebbero a utilizzarsi
le norme regolamentari compatibili con le nuove norme di
legge o anche quella di un rinvio dell’eliminazione del
regolamento alla seconda fase, quella della riscrittura del
testo unico sugli appalti.
Il governo attende per i prossimi giorni una valutazione di
Cantone su questa ipotesi ma le prime valutazioni tecniche
dell’Autorità anticorruzione sono positive e di
disponibilità a svolgere un ruolo che, a questo punto,
diventerebbe pienamente di regolazione del settore.
Intanto è tornata a riunirsi la «commissione Manzione»
-dal nome del capo del Dipartimento Affari giuridici e
legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi, Antonella Manzione-
insediata dal ministro delle Infrastrutture a luglio proprio
per scrivere i decreti legislativi che daranno attuazione
alla delega al governo prevista dalla legge di riforma.
L’obiettivo del governo è quello di rispettare i termini del
18 aprile per il recepimento della direttiva Ue.
Senza la riscrittura del regolamento, che sarebbe appunto
soppresso, sarebbe più facile per la commissione prima e per
il governo poi rispettare i termini senza dover mettere mano
alla «contestuale» rivisitazione del testo unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
I geometri: istituti tecnici titolo valido per
l'accesso.
Gli istituti tecnici restano un titolo valido per l'accesso
alla professione tecnica.
È l'interpretazione del Consiglio nazionale dei geometri
all'indomani della circolare (di veda ItaliaOggi del 28/08)
con il cui ministero dell'istruzione ha fissato nel IV
livello di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate
dal nuovo titolo di istruzione tecnica.
Secondo il Cng, infatti, il riferimento a questo livello che
stando alle norme europee recepite in Italia nel rapporto
della conferenza stato regioni (20.12.2012) non è
sufficiente per esercitare la professione, «nulla ha a
che fare con le professioni tecniche e con i vari percorsi
di accesso alle stesse».
Questo non significa, ha spiegato a ItaliaOggi il presidente
dei geometri Maurizio Savoncelli che «il futuro della
professione non sarà verso la laurea (la categoria ha
proposto al Miur un percorso universitario ad hoc pensato
esclusivamente per il futuro geometra laureato, ndr) ma al
momento le norme, cioè la legge 75/1985 e il dpr 328/01
dicono una cosa diversa e per andare verso quella direzione
è necessario prevedere una modifica delle stesse e in
particolare del 328».
Dunque a cinque anni dalla sua approvazione la riforma degli
istituti tecnici targata Gelmini (dm 88/10) continua a
dividere le professioni.
Da una parte i periti agrari e industriali che considerano
questo tipo di formazione priva di quella specificità che
l'aveva resa fino ad ora idonea per gli accessi agli albi,
dall'altra i geometri che anche su questo punto hanno
un'opinione contraria: «il dm 88/2010» ha aggiunto
ancora Savoncelli, «ha chiaramente previsto il raccordo
tra il percorso di precedente ordinamento (Itg per i
geometri) e il nuovo (Cat) ai fini anche dell'accesso alla
professione».
Più che mai ora le categorie, spinte da motivazioni opposte,
chiedono dunque conferme da parte del ministero
dell'istruzione che sul punto non ha mai espresso
un'opinione chiara.
Non è un caso che le tre professioni avevano affidato a un
tavolo tecnico, istituto proprio presso il Miur, il compito
di dirimere la vicenda e rimesso gli atti all'avvocatura
dello stato. Ma a un anno dall'apertura di quel tavolo
ancora non è arrivata alcuna risposta
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Piacenza multa chi non lava gli spazi sporcati
dai cani.
Il comune di Piacenza, primo capoluogo di provincia a
formalizzare un provvedimento di questo tipo, ha emesso l'ordinanza
13.07.2015 n. 418 con la quale prescrive ai
proprietari di cani di lavare le deiezioni liquide prodotte
dai loro animali, dotandosi di adeguati contenitori d'acqua.
L'ordinanza prevede l'applicazione di una sanzione
amministrativa in caso di inosservanza.
Il problema è di attualità, posto che la Corte di Cassazione
-Sez. II penale- con la
sentenza 18.02.2015 n. 7082 ha assolto il
proprietario di un cane che aveva imbrattato la facciata di
un edificio, escludendo l'elemento soggettivo del reato in
quanto il proprietario si era preventivamente munito di una
bottiglietta di acqua per pulire il muro.
«L'ordinanza farà amare di più i cani anche da coloro che
non apprezzano gli amici a quattro zampe», è l'auspicio
dell'associazione Amici Veri a tutela degli animali
domestici (articolo ItaliaOggi del 02.09.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi e demansionamenti, la delega Madia è in
bianco.
Funzionari al posto di dirigenti che non si sa presso quali
amministrazioni presteranno lavoro.
La legge 124/2015, di delega per la riforma della p.a., crea
molti dubbi sulla dirigenza pubblica, visto che non si
riesce a comprendere come e dove presteranno servizio i
funzionari destinati a diventare dirigenti e i dirigenti
demansionati a funzionari.
Andiamo con ordine.
Vincitori del corso-concorso o del
concorso.
L'articolo 11, comma 1, lettera c), numeri 1 e 2, della
legge 124/2015 prevede due sistemi per il reclutamento dei
futuri dirigenti: il corso-concorso e il concorso. Nel caso
del corso-concorso, tuttavia, chi lo supererà sarà immesso
in servizio come funzionario per tre anni, per essere
successivamente inserito nel ruolo unico della dirigenza da
parte delle commissioni nazionali previste dalla riforma
«sulla base della valutazione da parte dell'amministrazione
presso la quale è stato attribuito l'incarico iniziale».
Già: ma quale sarà l'amministrazione che avrà attribuito
l'incarico iniziale? Non è dato capirlo.
Il reclutamento
immaginato dalla riforma è parecchio strano. Oggi, se un
funzionario pubblico partecipa a un concorso per dirigente e
lo vince, presta immediatamente servizio nei ruoli
dell'amministrazione che ha indetto il concorso, lasciando
l'amministrazione precedente. Domani, un funzionario
pubblico che vinca il concorso da dirigente, per tre anni
resterebbe ancora funzionario, ma con un titolo diverso: per
effetto del reclutamento come dirigente. Allora, dove
presterebbe il proprio servizio da funzionario «aspirante
dirigente»? Presso l'amministrazione con cui già conduceva
il rapporto di lavoro o presso un'altra? E perché
un'amministrazione dovrebbe intasare i propri ruoli di
funzionario con lavoratori sostanzialmente a tempo
determinato, precludendosi la copertura a tempo
indeterminato di propri fabbisogni?
Tutti nodi
complicatissimi che dovrà sciogliere il legislatore
delegato.
Demansionamento.
La lettera i) dell'articolo 11 demanda al legislatore
delegato la possibilità di prevedere la «possibilità, per i
dirigenti collocati in disponibilità, di formulare istanza
di ricollocazione in qualità di funzionario, in deroga
all'articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle
pubbliche amministrazioni».
La disposizione dovrebbe
riguardare i dirigenti collocati in disponibilità nei ruoli
unici a seguito di valutazione negativa, in quanto questi
sono destinati a decadere dai ruoli stessi e al conseguente
licenziamento: la misura del demansionamento, proprio perché
finalizzata alla «ricollocazione» dovrebbe considerarsi
riferita quindi esclusivamente ai dirigenti in procinto di
perdere il lavoro. Anche in questo caso non è chiaro dove il
dirigente demansionato potrà prestare servizio.
In prima
approssimazione si potrebbe essere portati a ritenere che
detto dirigente potrebbe chiedere di continuare a prestare
servizio presso il medesimo ente ove ha lavorato come
dirigente, in coerenza appunto con l'istituto del demansionamento, che postula la continuità del lavoro col
medesimo datore, ma ad un livello più basso. A meglio
leggere la previsione normativa, le cose non sembrano stiano
così. La norma della lettera i) dispone: «previsione della
possibilità, per i dirigenti collocati in disponibilità, di
formulare istanza di ricollocazione in qualità di
funzionario, in deroga all'articolo 2103 del codice civile,
nei ruoli delle pubbliche amministrazioni».
Come si nota, si
parla espressamente di ricollocazione «nei ruoli»- delle
amministrazioni. Il che è corretto: col demansionamento,
l'interessato esce dal ruolo unico della dirigenza e passa
alla qualifica di funzionario.
Ma, per poter prestare attività lavorativa dovrà entrare in
un ruolo, cioè essere assunto a tempo indeterminato da parte
di qualche ente. Manca del tutto, nella legge delega,
l'indicazione del processo da seguire. Non è nemmeno chiaro
a chi il dirigente «decaduto» dovrà presentare l'istanza di demansionamento: pare di capire alle Commissioni, ma queste,
però, dovrebbero interessarsi della sola gestione del ruolo.
Potrebbe darsi che, accolta l'istanza di demansionamento, il
dirigente decaduto allora transiti negli elenchi dei
lavoratori in disponibilità di cui all'articolo 34 del dlgs
165/2001, per essere ricollocato secondo quella disciplina.
Ma, allora, la ricollocazione dovrebbe intervenire entro 24
mesi.
L'assenza di dettaglio lascia tutto nella più ampia
incertezza e mette il decreto legislativo attuativo a
rischio di illegittimità costituzionale, perché la delega
appare oggettivamente «in bianco» troppo ampia e generica,
tale da rendere molto facile il vizio di eccesso di delega
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015
-
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
SuperDia
con modulo standard. Dal 14 ottobre un formulario con tutte
le info sulle opere.
Per ristrutturazioni edilizie con modifiche,
nuove costruzioni e ristrutturazioni urbanistiche.
Nuovo passo per le semplificazioni in edilizia. Dal 14
ottobre prossimo la superDia avrà un modello standard in
tutto il territorio italiano. La superDia, che dovrà essere
presentata allo sportello unico per l'edilizia o allo
sportello unico per le attività produttive, riguarda gli
interventi di ristrutturazione edilizia, di nuova
costruzione e di ristrutturazione urbanistica qualora siano
disciplinati da piani attuativi.
Il 14 ottobre terminano infatti i 90 giorni scattati a
partire dall'approvazione, il 16 luglio scorso in Conferenza
unificata, del modello Unico per la superDia (si veda
ItaliaOggi del 10.07.2015).
L'obbligo di adeguare le
normative regionali alla nuova super Dia vigerà solamente
per le regioni a statuto ordinario. Quelle a statuto
speciale invece conserveranno una sorta di potestà
legislativa per quanto concerne le materie legate
all'edilizia.
Nel nuovo modulo nazionale dovranno essere
inserite le informazioni volte a identificare il tipo di
lavoro nella sua completezza, i dati delle persone coinvolte
(committente, progettisti, tecnici e imprese), l'area
interessata con i relativi dati catastali e i geometrici
dell'area interessata dal progetto.
Andranno allegati alla superDia la relazione tecnica asseverata del progettista
(nella quale andranno descritti i dettagli dell'intervento e
dei lavori che verranno effettuati, la conformità edilizia e
urbanistica del progetto, confermata che non siano presenti
vincoli paesaggistici, storici o ambientali ostativi alla
realizzazione del progetto, specificato se verranno
effettuati interventi di abbattimento delle barriere
architettoniche e di ottimizzazione dei consumi energetici),
gli elaborati grafici che consentono di descrivere il
progetto e le ricevute attestanti l'avvenuto pagamento dei
diritti di segreteria e degli oneri proporzionali in base al
tipo di intervento.
Tre diversi tipi di interventi -
La superDia dal 14 ottobre
potrà essere utilizzata in luogo del permesso di costruire
in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione
edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione
urbanistica.
Ristrutturazione edilizia -
In alternativa al permesso di
costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso
di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un
immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Potrà
inoltre essere utilizzata nel caso in cui la
ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità
immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica -
In questo caso la super Dia
potrà essere impiegata qualora gli interventi siano
disciplinati da piani attuativi, che contengano precise
disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e
costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente
dichiarata dal competente organo comunale in sede di
approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli
vigenti.
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E per comunicare l'inizio dei lavori arrivano Cil e
Cila in tutta Italia.
E arrivano anche le istruzioni per la compilazione del
modello unico per la comunicazione inizio lavori e la
comunicazione inizio lavori asseverata.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori
deve essere presentato quando si eseguono lavori rientranti
nella cosiddetta edilizia libera.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori
asseverata deve essere presentato, invece, quando si
eseguono interventi di manutenzione straordinaria non
riguardanti parti strutturali.
Queste le indicazioni contenute nella guida per la
presentazione del modello unico comunicazioni inizio lavori
redatta dall'agenda per la semplificazione. Ricordiamo che
18.12.2014 sono stati approvati dalla conferenza
unificata i modelli unici per la compilazione della
comunicazione inizio lavori e comunicazione inizio lavori
asseverata. I due modelli possono essere utilizzati dal 16
marzo.
La comunicazione inizio lavori asseverata (Cila) può essere
presentata dal proprietario, comproprietario, usufruttuario
dell'immobile su cui viene eseguito l'intervento (più in
generale, chiunque sia titolare di un «diritto reale»
sull'immobile), oppure dall'inquilino che utilizza
l'immobile in base a un contratto di affitto con il consenso
del proprietario dell'immobile (in questo caso si parla di
«diritto personale» compatibile con l'intervento da
realizzare).
La Cila deve essere presentata sempre prima
dell'inizio dei lavori oggetto della comunicazione, a meno
che non si tratti di opere già eseguite, in tal caso, la
presentazione della comunicazione (cosiddetta «in
sanatoria») richiede il pagamento di una sanzione di 1.000
euro, da versare all'amministrazione comunale (la ricevuta
di versamento deve essere allegata alla comunicazione).
Puoi
presentare la Cila anche a lavori già iniziati (e ancora in
corso); anche in questo caso, hai l'obbligo di pagare una
sanzione, anche se ridotta a 333 euro.
Se l'intervento
riguarda l'edilizia non residenziale (relativa quindi a
immobili da utilizzare per lo svolgimento di attività
produttive), la Cila deve essere presentata allo sportello
unico per le attività produttive, l'unico punto di accesso
per tutte le attività commerciali, produttive e di servizi
che si rivolgono alla pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dirigenti
p.a., buonuscita ko. Il tetto agli stipendi riduce i
trattamenti di fine servizio.
Una circolare dell'Inps sugli effetti
previdenziali dei limiti ai trattamenti retributivi.
Buonuscite ridotte ai manager pubblici. Il tetto alle
retribuzioni fissato per chi ricopra posti ai vertici della
pubblica amministrazione, infatti, influenzerà anche i
trattamenti di fine rapporto e servizio perché rientrano
nell'ambito dei «trattamenti previdenziali» accanto alle
pensioni.
È quant'altro precisa l'Inps nella
circolare
24.08.2015 n. 153, illustrando la disciplina dei
limiti retributivi introdotta dalla riforma Fornero delle
pensioni (decreto legge n. 201/2011 convertito dalla legge
n. 214/2011, e successive modifiche).
Il tetto di retribuzione. Inizialmente pari a 311.658,53
euro (valido dal 1° gennaio al 30.04.2014), il limite
massimo di retribuzione ai dipendenti pubblici è stato
ulteriormente ridotto a 240 mila euro dal dl n. 66/2014,
convertito dalla legge n. 89/2014, ossia alla misura della
retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione,
a partire dal 01.05.2014.
Il tetto di retribuzione opera
anche ai fini dei «trattamenti previdenziali, con
riferimento alle anzianità contributive maturate» a
decorrere da tale data. Per «trattamenti previdenziali»,
precisa l'Inps, s'intendono sia le pensioni sia i
trattamenti di fine servizio (Tfs) e fine rapporto (Tfr),
comunque denominati.
La riduzione del Tfr. La riduzione del Tfr è già insita
nelle regole di calcolo. Infatti, la riduzione della
retribuzione dal 01.05.2014 determina la proporzionale
riduzione degli accantonamenti di Tfr, proprio perché
commisurati alla retribuzione. Quindi, ad esempio, se per
una retribuzione di 400 mila euro il Tfr annuo è di circa 28
mila euro, per la retribuzione di 240 mila è
proporzionalmente ridotto a circa 16.600 euro.
La riduzione del Tfs. Diverso, invece, è l'effetto sui
trattamenti di fine servizio (tali sono: l'indennità di
buonuscita per i dipendenti civili e militari delle
amministrazioni statali; l'indennità premio di servizio per
i dipendenti di regioni, comuni, province e del servizio
sanitario nazionale; l'indennità di anzianità per i
dipendenti degli enti pubblici non economici, degli enti di
ricerca e degli altri enti pubblici non iscritti all'Inps
per il trattamento di fine servizio). In tal caso, la
prestazione (il Tfs) risulta determinata dalla somma di due
importi parziali:
• il primo calcolato tenendo conto delle anzianità utili e
della retribuzione contributiva utile (in ogni caso non
superiore al precedente limite di 311.658,53 euro) alla data
del 30.04.2014;
• il secondo calcolato tenendo conto della retribuzione
contributiva utile alla cessazione del rapporto di lavoro
(in ogni caso non superiore al limite di 240.000 euro annui)
e delle anzianità utili maturate a partire dal 01.05.2014
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015
-
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-assenso indirizza le pratiche allo sportello
unico. Iter più veloce per gli interventi su beni vincolati.
Lavori. Dopo la riforma della pubblica amministrazione.
Con la riforma
della Pa, che ha portato con sé la semplificazione del
silenzio assenso tra le pubbliche amministrazioni, prima di
rivolgersi a un ufficio pubblico per un intervento edilizio
gli operatori e i cittadini dovranno fare attente
valutazioni.
La legge 124/2015, in vigore dallo scorso 28 agosto, prevede
all’articolo 3 un meccanismo di silenzio assenso che matura
in 30 giorni (90 in materia di beni culturali, paesaggistici
e ambientali, ma salva la previsione di altro termine da
parte della disciplina di settore) dalla richiesta di una
amministrazione a un’altra, anche preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico territoriale e dei beni culturali.
Questo meccanismo non è previsto sulle domande dei privati.
Ora quando deve avviare un intervento edilizio il cittadino
ha di fronte a sé due strade. La via maestra è quella di
rivolgersi allo Sportello unico per l’edilizia. Va in questo
senso, l’articolo 5, comma 1-bis, del Testo unico
dell’edilizia, per cui «lo sportello unico per l’edilizia
costituisce l’unico punto di accesso per il privato
interessato in relazione a tutte le vicende amministrative
riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio
oggetto dello stesso».
In pratica, ci pensa il Comune a
rivolgersi alla Soprintendenza o alla diversa
amministrazione coinvolta nella tutela del vincolo. Lo
sportello unico -prosegue la norma- «fornisce una risposta
tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni,
comunque coinvolte», acquisendo «gli atti di assenso,
comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico».
Le cose però non funzionano sempre così: a volte gli
interessati (soprattutto se l’intervento è su un bene
vincolato) scelgono l’altra strada e si rivolgono
direttamente in Soprintendenza o presso le altre
amministrazioni titolate per risolvere i profili di tutela
dei valori vincolati, prima di presentare al Comune il
progetto edilizio.
Questa soluzione è ancora possibile? Stando alla lettera del
comma 5-bis parrebbe di no, anche perché secondo il nuovo
comma 7-bis «le amministrazioni pubbliche diverse dal
Comune, che sono interessate al procedimento sono tenute a
trasmettere immediatamente allo sportello unico per
l’edilizia le denunce, le domande, le segnalazioni, gli atti
e la documentazione ad esse eventualmente presentati», con
la conseguenza che la domanda di nullaosta presentata
direttamente all’ente competente sarebbe destinata a tornare
in Comune prima ancora di essere istruita nel merito.
Non deve però dimenticarsi che il Consiglio di Stato
(sentenza n. 4312/2012) ha chiarito che il procedimento
strettamente edilizio è separato da quello del nullaosta,
per cui l’ente compente a rilasciare il via libera non
dovrebbe fare da semplice passacarte, sotto pena di essere
considerato inadempiente a un proprio specifico dovere.
A conferma di ciò depone anche l’espressa previsione
dell’articolo 23, comma 4, del Testo unico dell’edilizia
che, in tema di Dia, continua a prevedere la possibilità che
«il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela …
sia allegato alla denuncia». Una norma che non avrebbe senso
se lo sportello unico fosse davvero l’unica porta di accesso
alla Pa anche per i procedimenti distinti, per quanto
connessi, da quello propriamente edilizio.
In questo contesto si pone la recente adozione dei modelli
unici della Superdia, che restano soggetti ai pareri delle
soprintendenze e degli altri enti preposti alla tutela dei
vincoli, che in Italia interessano gran parte del patrimonio
edilizio esistente.
Ma ora, con la riforma della Pa, diventa ancora più
conveniente la scelta di lasciare che all’istruttoria della
Superdia o di altro titolo abilitativo per l’edilizia ci
pensi il Comune: solo chi si rivolge allo sportello unico,
infatti, può avvalersi del silenzio assenso dopo 30 giorni,
che continua a non essere previsto sulle domande dei privati (articolo Il Sole 24 Ore del
31.08.2015 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Da ottobre Superdia con modello standard.
Semplificazioni. Per i cantieri più complessi.
L’azione del
Governo per standardizzare le procedure edilizie è arrivata
ai modelli per la presentazione dei progetti delle opere
maggiori sottoposte a denuncia di inizio attività, la
cosiddetta Superdia, che saranno utilizzabili in modo
automatico in tutta Italia dal 14 ottobre.
Il tutto è nato con il Dl 24/2014 , che all’articolo 24
prevede l’adozione, d’intesa con Regioni ed enti locali, di
moduli unificati e standardizzati su tutto il territorio
comunale per la presentazione di istanze, dichiarazioni e
segnalazione da parte di cittadini e imprese.
Per tale via sono già stati pubblicati i moduli per Scia
(Segnalazione certificata di inizio attività), permesso di
costruire, Cil (Comunicazione inizio lavori), Cila
(Comunicazione inizio lavori asseverata) e Aua
(Autorizzazione unica ambientale).
Da ultimo è la volta dei moduli per la Superdia cui, secondo
il Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001), sono sottoposti
gli interventi di ristrutturazione edilizia “pesante” (si
veda la scheda a fianco), gli interventi di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati
da piani attuativi che contengano precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive ed,
infine, gli interventi di nuova costruzione, se in diretta
esecuzione di strumenti urbanistici generali con precise
disposizioni plano-volumetriche.
Non solo, sempre a Superdia sono sottoposte le opere che
secondo la legislazione regionale possono avvalersi del
modello procedimentale della Dia per cui -vale forse la
pena ricordare- i lavori in edilizia possono essere avviati
decorsi 30 giorni dalla presentazione della denuncia senza
che il Comune non vi si opponga.
La previsione è dunque particolarmente importante in
Lombardia, dove la Regione ha previsto la pressoché totale
intercambiabilità tra i procedimenti del permesso di
costruire e della Dia.
Il 14 ottobre (cioè 90 giorni dalla data del 16 luglio in
cui la Conferenza unificata ha approvato i nuovi moduli) i
modelli saranno pronti per entrare pienamente in vigore ed
essere dunque utilizzati anche in quei Comuni che sia siano
oggi dotati di formulari difformi.
Insieme agli altri modelli, quello della Superdia è uno
strumento molto potente per il raggiungimento dell’auspicata
omogenizzazione delle pratiche edilizie tra gli oltre
ottomila Comuni italiani.
Ma l’ostacolo principale in questo campo risiede
nell’ingiustificata eterogeneità della disciplina
sostanziale dei singoli strumenti urbanistici ed edilizi
comunali che, a partire dal lessico tecnico utilizzato che
differisce da amministrazione ad amministrazione, complica
oltre il limite il lavoro degli operatori.
La soluzione passa sicuramente dall’adozione, ormai
prossima, del regolamento edilizio tipo previsto
dall’articolo 4, comma 1-sexies, del testo unico edilizia
(introdotto dal decreto Sblocca Italia, Dl 133/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del
31.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Silenzio-assenso, ritardi da motivare. Riforma Madia. Stop
alla dilatazione dei tempi di risposta sugli atti
amministrativi senza il dettaglio dei motivi.
Le esigenze istruttorie vanno formulate entro il termine dei
30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di
servizi pubblici devono rendere il loro assenso, nulla osta
o atto di concerto entro trenta giorni dal ricevimento dello
schema di provvedimento su cui debbono esprimersi, ma
possono interrompere i termini solo esplicitando in
dettaglio le loro esigenze istruttorie.
Il nuovo articolo 17-bis della legge n. 241/1990 (introdotto
dall’articolo 3 della legge 124/2015) non consente più ai
soggetti pubblici ai quali è richiesta l’espressione di un
consenso su un atto amministrativo di dilatare i tempi di
risposta, obbligandoli a specificare le ragioni che
richiedono un approfondimento istruttorio.
La disposizione disciplina la gestione nell’ambito del
procedimento dei nulla osta, degli assensi e degli atti di
concerto, distinguendola chiaramente da quella dei pareri e
da quella delle valutazioni tecniche (regolate
rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della legge
241/1990).
Le amministrazioni pubbliche (in particolare gli enti
locali) devono quindi adeguare le loro eventuali
disposizioni regolamentari alla nuova previsione e, in caso
di confliggenza, disapplicare la norma regolamentare, se
essa determina minori garanzie rispetto a quanto stabilito
dall’articolo 17-bis, vigente dal 28 agosto.
Per evitare equivoci è necessario che le amministrazioni
rilevino all’interno dei procedimenti le tipologie di nulla
osta, nonché di atti di assenso e di concerto che devono
essere rilasciati da altre amministrazioni o da soggetti
gestori di servizi pubblici sulla base di disposizioni di
legge o regolamentari, al fine di evitare confusione con i
pareri e con le valutazioni tecniche, ma anche per
analizzare compiutamente i passaggi sub-procedimentali che
possono permettere l’utilizzo del silenzio-assenso (una
volta scaduto il termine di trenta giorni).
Qualora l’amministrazione pubblica o il soggetto gestore di
servizi pubblici chiamati a rilasciare il nulla osta o gli
atti similari rappresentino esigenze istruttorie o richieste
di modifica, le devono motivare e formulare in modo puntuale
entro lo stesso termine di trenta giorni.
La disposizione prevede in questo caso l’interruzione del
termine e pertanto l’amministrazione procedente deve
elaborare tempestivamente gli elementi istruttori richiesti
e il nuovo schema di provvedimento, poiché dal ricevimento
di questi da parte dell’amministrazione o del soggetto
gestore che deve rendere il nulla osta o atto similare
decorrono nuovamente i trenta giorni.
In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta è reso
nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi
istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse
ulteriori interruzioni di termini.
Il silenzio assenso (previsto dal comma 2 dell’articolo
17-bis) si applica sia in caso di decorso del termine
ordinario sia in caso di decorso del termine ricalcolato
dopo l’interruzione per approfondimenti istruttori.
I termini sono modulati in novanta giorni (salvo che
disposizioni di legge specifiche non stabiliscano
tempistiche diverse) quando i nulla osta nonché gli atti di
assenso o di concerto devono essere resi da amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali e della salute dei cittadini, per
l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di
competenza di amministrazioni pubbliche: se tali termini
decorrono senza che sia stato comunicato l’assenso, il
concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Anche in tal caso gli enti responsabili dei procedimenti
devono ricomporre dettagliatamente il quadro normativo, in
modo tale da rilevare l’effettivo collegamento tra l’atto di
assenso e uno dei particolari interessi pubblici preminenti.
Le previsioni dell’articolo 17-bis non si applicano invece
quando normative comunitarie richiedano l’adozione di
provvedimenti espressi (articolo Il Sole 24 Ore del
31.08.2015 -
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Indirizzi da chiarire nella selezione dei dirigenti.
La riforma
della Pa approvata prima della pausa estiva si pone
l’obiettivo, certamente condivisibile, di superare alcune
rigidità del passato in favore di una dirigenza più
responsabilizzata rispetto ai programmi da realizzare.
Tuttavia, la legge delega eccede per alcuni versi rispetto
agli obiettivi prefissati e crea le condizioni per una
dirigenza pubblica troppo permeabile alle vicende della
politica, dunque ancora una volta non in grado di
raggiungere risultati ottimali, seppure per ragioni
diametralmente opposte a quelle che ci hanno finora
condizionato.
Flessibilità e autonomia
Lo spoil system, previsto in precedenza solo per alcune
limitate categorie, tra cui i segretari comunali, viene
esteso a tutta la dirigenza, con effetti di dubbia
costituzionalità in termini di precarizzazione degli
incarichi e di sovraesposizione alla politica. Mancano
sostanzialmente i checks and balances che
contraddistinguono lo stesso sistema americano, nel quale la
temporaneità della prestazione viene legata alla valutazione
della performance.
Si pone l’esigenza, in sede di esercizio della delega, di
contemperare il principio di flessibilità con la necessità
di assicurare l’autonomia dirigenziale, a cominciare dalla
fase di accesso agli incarichi; in particolare, occorre
definire aree specifiche di competenze, per ciascun profilo
professionale, in modo da favorire una selezione
meritocratica ed efficace.
In soldoni, un laureato in
viticoltura non può dirigere il servizio informatico: a noi
pare scontato, ma la riforma è piuttosto ambigua su questo
punto e si presta a pericolose scorciatoie.
Quale dirigente apicale negli enti locali
In questo contesto si colloca la disciplina sulla nuova
figura del dirigente apicale degli enti locali, che subentra
al “segretario comunale” ereditandone i compiti di
attuazione dell’indirizzo politico, di coordinamento
dell’attività amministrativa e di controllo della legalità.
È del tutto evidente che tale ruolo deve essere affidato a
un soggetto in possesso di tutte le competenze
multidisciplinari necessarie, di natura sia giuridica che
gestionale, acquisibili solo grazie a un titolo idoneo e ad
una adeguata esperienza in ruoli di coordinamento generale
presso gli enti di fascia corrispondente o appena inferiore
(come avveniva finora per i segretari).
Pertanto, come richiesto dall’Anci nel corso delle
audizioni, i decreti delegati dovranno favorire una scelta
più flessibile ma non aperta in modo indiscriminato, e
questo per almeno due ordini di ragioni:
il dirigente apicale deve avere la professionalità
necessaria per contribuire al ripristino del principio di
“legalità” nelle amministrazioni pubbliche;
il dirigente apicale deve avere una conoscenza approfondita
della macchina amministrativa e delle sue procedure,
condizione imprescindibile per assicurare un efficace
coordinamento degli uffici e, quindi, servizi efficienti.
Il nodo dei Comuni maggiori
Tali considerazioni valgono, a maggior ragione, per i Comuni
con popolazione superiore a 100mila abitanti e per le Città
metropolitane, laddove la legge consente invece di ricorrere
ad una figura apicale esterna, con una possibile
proliferazione di incarichi scarsamente meritocratici (come
dimostrano alcune recenti esperienze in tema di incarichi
fiduciari).
Questa spiccata inclinazione del nostro
legislatore appare del tutto incomprensibile, specie se
paragonata con la vicina esperienza francese nella quale
l’accesso dal settore privato avviene –in modo più proficuo
e trasparente- attraverso una quota del corso-concorso
nazionale.
Non a caso un ordine del giorno, accolto dal Governo,
impegna quest’ultimo nell’esercizio della delega legislativa
a definire requisiti stringenti per l’accesso alla dirigenza
apicale. La delega, in definitiva, rappresenta l’ultima
possibilità per introdurre nella riforma le necessarie
garanzie per una direzione moderna dell’ente locale, sotto
il duplice profilo della legalità e della efficienza, in
modo da non vanificare questo importante processo di
cambiamento (articolo Il Sole 24 Ore del
31.08.2015 - tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La
«marcia indietro» entro 18 mesi. Autotutela. Potere di
annullamento se si sono riscontrate illegittimità nei
provvedimenti o nel processo formativo.
Le amministrazioni pubbliche devono esercitare il
potere di annullamento di atti illegittimi o per i quali si
sia formato illegittimamente il silenzio-assenso entro un
termine non superiore a diciotto mesi dall’adozione del
provvedimento o dalla formazione degli effetti della Scia.
L’articolo 6 della legge 124/2015 modifica alcune
disposizioni della legge 241/1990, ridefinendo le
tempistiche entro le quali può essere esercitata
l’autotutela, soprattutto nei casi nei quali siano rilevate
illegittimità nel provvedimento o nel processo formativo del
procedimento abilitante un soggetto privato a intraprendere
un’attività.
L’articolo 21-nonies della legge sul procedimento
amministrativo è stato integrato proprio nella parte
relativa ai termini entro i quali deve intervenire
l’annullamento del provvedimento illegittimo: al criterio
generale (entro un termine ragionevole) è stato posto un
limite, individuato appunto in diciotto mesi dal momento
dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il
provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20 della
stessa legge 241/1990.
La disposizione mantiene peraltro per l’amministrazione
procedente la facoltà di annullare d’ufficio il
provvedimento rispetto al quale siano state rilevate
illegittimità, potendo sussistere casi di incertezza
derivanti da interpretazioni differenti della normativa (e
permanendo le esclusioni previste dal comma 2 dell’articolo
21-octies).
Qualora l’ente intenda annullare d’ufficio il provvedimento,
dovrà esplicitare le ragioni di interesse pubblico che
sostengono la decisione, evidenziando il contemperamento con
gli interessi dei destinatari e degli eventuali
controinteressati.
Il provvedimento di annullamento, quindi, deve essere
adeguatamente motivato, focalizzando l’attenzione sui
profili di illegittimità rilevati. Tale analisi può essere
conseguente a una segnalazione di un soggetto interessato o
coinvolto nel procedimento, oppure può derivare
dall’evidenziazione nell’ambito di un ricorso presentato
contro il provvedimento davanti al Tar. Tuttavia
l’illegittimità potrebbe essere rilevata dalla stessa
amministrazione, in particolare nell’ambito dei controlli di
regolarità amministrativa (negli enti locali obbligatori in
base agli articoli 147 e 147-bis del Dlgs 267/2000).
La disposizione precisa peraltro come restino ferme le
responsabilità connesse all’adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo.
L’annullamento in autotutela può essere adottato
dall’amministrazione anche in relazione agli atti formatisi
in base a segnalazione certificata di inizio di attività
sulla base di quanto disciplinato dall’articolo 19 della
legge 241/1990.
Esaurito lo spazio di intervento per l’esercizio del potere
di controllo sulle dichiarazioni e sugli elementi
rappresentati dall’interessato con la Scia, infatti, il
nuovo comma 4 stabilisce che l’amministrazione competente
può comunque adottare i provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell’attività in presenza delle condizioni
previste dall’articolo 21-nonies per l’annullamento
d’ufficio.
Inoltre, l’innovato comma 1 dell'art. 21 prevede che in caso
di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è
ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a
legge o la sanatoria prevista dagli articoli 19 e 20.
Da tale quadro normativo consegue per le amministrazioni (in
particolare per gli enti locali) l’obbligo di attivare
percorsi di verifica delle dichiarazioni rese con la Scia o
nei procedimenti per i quali valga il silenzio-assenso anche
con modalità più intensive rispetto ai normali controlli
sulle autocertificazioni.
La rilevazione di illegittimità successivamente alla fase
del controllo connessa alla presentazione della segnalazione
certificata o dell’istanza consente l’esercizio
dell’autotutela, ma ora il dato normativo evidenzia in modo
chiaro che il soggetto interessato, se ha esercitato
l’attività in base a false dichiarazioni, non può essere
ammesso ad alcuna sanatoria (articolo Il Sole 24 Ore del
31.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nuova
Scia aiuta i benefici. Lavori edili. L’intreccio delle
procedure con la nuova legge sulla Pa: più difficile perdere
le agevolazioni.
I benefici fiscali connessi all’esecuzione dei
lavori edili impongono la conoscenza e l’applicazione delle
norme sulla Scia (Segnalazione inizio attività) in vigore
dal 28 agosto (legge 124/2015, articolo 6).
Gli interventi finalizzati all’attuazione del piano casa,
frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari (Sblocca
Italia, Legge 164/2014), contenimento dei consumi
energetici, manutenzioni straordinarie, realizzazione di
posti auto, eliminazione di barriere architettoniche,
contenimento di inquinamento acustico, attuazione di
sicurezza statica, bonifica dell’amianto, attivazione di
pannelli solari, collocazione di condizionatori d’aria, sono
alcuni degli interventi che, per essere fiscalmente
detraibili, esigono una regolarità edilizia e cioè
quantomeno una comunicazione o segnalazione di inizio
attività.
Appunto sulla segnalazione (Scia) il legislatore è
intervenuto questo mese con la legge 124 inserendo (articolo
6) due principi: il primo è di elasticità, poiché si impone
una sorta di necessario tentativo di conciliazione affinché
una procedura non completamente regolare sia “conformata”,
attuando ciò che l’amministrazione ritiene corretto. Il
secondo principio è che l’amministrazione ha un termine
massimo di 18 mesi per annullare una Scia illegittimamente
ottenuta.
Ambedue questi principi hanno particolare rilievo perché
un’attività edilizia non legittima fa perdere i benefici
fiscali (articolo 49, Dpr 380/2001), con il rischio di
vanificare progetti, adempimenti bancari, contratti e cioè
tutto il procedimento finalizzato ad ottenere il vantaggio
fiscale. Con l’obbligo di conformazione previsto dalla legge
125/2015, prima di adottare dinieghi o sanzioni
l’amministrazione deve indicare all’interessato le modifiche
da apportare come, ad esempio, una diversa dimensione, e a
volte financo una diversa qualità di materiali (con
previsioni peraltro criticate dai Tar: Liguria 718/2015 n.
718 su un tetto in laterizio; 1834/2010 sulla tipologia di
serramenti).
Se supera il limite di 18 mesi dalla data della
segnalazione, l’amministrazione perde qualsiasi potere di
intervenire a meno che non risultino utilizzate
documentazioni non veritiere (risultanti tali da sentenze
penali passate in giudicato). Con l’attuale regime della
Scia, applicabile a tutte le domande presentate dal 28
agosto (poiché la legge 124/2015 non contiene innovazioni di
tipo “processuale”: Tar Piemonte, sentenza
1114/2015), il rischio massimo per il cittadino è che vi sia
(entro 60 giorni) una richiesta di “conformazione”
(da eseguire nei successivi 30 giorni); superata tale
scadenza, il soggetto interessato può contare sul
consolidarsi della Scia ottenuta dal Comune.
Quand’anche poi sopravvenga, entro 18 mesi,un annullamento
adeguatamente motivato (articolo 21-nonies, Legge 241/1990,
modificato nel 2015), oppure nel caso in cui il Tar annulli
la Scia su ricorso di un terzo (articolo 19, comma 6-ter
della Legge 241, modificato nel 2015), opera l’articolo 38
del Dpr 380/2001 e cioè l’intervento è soggetto alla sola
sanzione pecuniaria nei casi in cui la riduzione in pristino
non sia possibile.
Dall’agosto 2015, quindi, assume rilievo particolare la
posizione dei vicini (o dei concorrenti, “contro
interessati” al titolo edilizio) e il cittadino dovrà
seguire le indicazioni suggerite dalla magistratura (Tar
Torino, 01.07.2015, n. 1114): occorre una particolare
prudenza prima di avventurarsi nell’avvio della nuova
attività ed è opportuno avviare da subito dei contatti con i
possibili titolari di interessi confliggenti al fine di
dirimere immediatamente possibili divergenze
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.08.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Arriva il
nuovo silenzio-assenso: la riforma della Pa entra nel vivo.
Come cambia l’amministrazione. Da ieri in vigore anche le
nuove norme sull’autotutela.
La riforma della Pubblica amministrazione, così
come delineata dalla legge delega del 07.08.2015 , ha
iniziato a dispiegare i suoi effetti. Con l’entrata in
vigore della legge, da ieri, sono diventati subito
applicabili alcuni provvedimenti di impatto notevolissimo:
il silenzio-assenso tra le amministrazioni e i nuovi limiti
introdotti sulla «autotutela amministrativa» (misura
quest’ultima che garantisce certezza sulle autorizzazioni e
le concessioni per cittadini e imprese).
Ma è prevista anche un’altra norma “autoapplicativa”
significativa: il ritorno della possibilità per la Pa di
affidare consulenze ai pensionati, ma a titolo gratuito e un
anno al massimo. Subito in vigore infine altre tre misure,
ma più settoriali: la modifica alla disciplina del Consiglio
dell’Ordine “al Merito della Repubblica italiana” (i
componenti dell’organismo scendono da sedici a 10 e durano
in carica 6 anni e non possono essere riconfermati); per gli
incarichi direttivi dell’Avvocatura dello Stato, questi non
possono essere conferiti ad avvocati dello Stato che devono
essere collocati a riposo entro 4 anni dall’avvio della
procedura selettiva; infine è modificato il Codice
dell’ordinamento militare, consentendo il contestuale
svolgimento di un procedimento disciplinare e di un
procedimento penale relativo agli stessi fatti riguardanti
il personale militare.
Nell’ottica di semplificare le procedure della Pa, grosse
attese sono riposte nell’introduzione del nuovo istituto
generale del silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche
e tra amministrazione pubbliche e gestori di pubblici
servizi (la misura non vale quindi tra Pa e privati).
Nelle
ipotesi in cui, per l’adozione di provvedimenti normativi o
amministrativi, sia prevista l’acquisizione di assensi,
concerti o nulla osta di competenza di altre amministrazioni
pubbliche o di gestori di beni e/o servizi pubblici, questi
ultimi sono tenuti a comunicare le rispettive decisioni
all’amministrazione proponente entro 30 giorni (suscettibili
di interruzione per una sola volta). Decorsi inutilmente
questi termini, l’assenso, il concerto o il nulla osta
s’intende acquisito. In caso di mancato accordo tra le
amministrazioni statali coinvolte, il presidente del
Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
decide sulle modifiche da apportare allo schema di
provvedimento.
Misura molto attesa, soprattutto dalle imprese, è anche
l’intervento in materia di autotutela amministrativa, con la
delimitazione dei poteri dell’amministrazione nei confronti
dei privati in seguito all’avvio dell’attività sulla base di
una segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Si
circoscrive il tempo entro il quale l’amministrazione può
annullare d’ufficio i provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, specificando che si può
agire entro diciotto mesi al massimo, salvo che si tratti di
provvedimenti conseguiti sulla base di dichiarazioni false o
mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate
con sentenza passata in giudicato. In questo caso,
l’annullamento può essere disposto anche una volta decorso
il termine.
Trattandosi di una legge delega, gli effetti della riforma
saranno dispiegati completamento solo al termine
dell’attuazione di tutti i decreti delegati. Intanto, entro
fine novembre dovrà vedere la luce la sforbiciata alle norme
inattuate previste dalle leggi degli ultimi governi (da
Monti a Renzi). Un altro pacchetto di 14 misure dovrà avere
l’ok entro agosto 2016 (dall’impegnativa norma sul taglio
delle società partecipate al riordino dei servizi pubblici
locali).
C’è tempo fino a fine febbraio 2017 per l’ultimo
capitolo: il riordino del pubblico impiego (dallo
svolgimento dei concorsi alla verifica delle assenze per
malattia, passando per la responsabilità disciplinare). Ma
l’intenzione del Governo è quella di accelerare i tempi,
anche su questo fronte.
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SILENZIO-ASSENSO
Tempo massimo di 30 giorni per comunicare i
pareri tra Pa
È introdotto il silenzio-assenso tra amministrazioni
pubbliche. Se, per l’adozione di provvedimenti è prevista
l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta di
competenza di altre amministrazioni, queste ultime devono
comunicare le loro decisioni all’amministrazione proponente
entro 30 giorni (suscettibili di interruzione per una sola
volta).
Decorsi inutilmente questi termini, l’assenso
s’intende acquisito. In caso di mancato accordo tra le
amministrazioni statali coinvolte, il presidente del
Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
decide sulle modifiche da apportare allo schema di
provvedimento.
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AUTOTUTELA
Per annullare un atto tempo certo di 18
mesi
Con l’autotutela amministrativa, sono delimitati i poteri
dell’amministrazione nei confronti dei privati in seguito
all’avvio dell’attività sulla base di una segnalazione
certificata di inizio attività (Scia). Si circoscrive il
tempo entro il quale l’amministrazione può annullare
d’ufficio i provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici: si può agire entro
diciotto mesi al massimo, salvo in caso di provvedimenti
conseguiti per dichiarazioni false o mendaci per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata
in giudicato. In questo caso, l’annullamento può essere
disposto anche una volta decorso il termine.
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CONSULENZE
Incarichi anche ai pensionati ma solo a
titolo gratuito
Torna la possibilità per la Pa di affidare consulenze ai
pensionati, ma a titolo gratuito e per un anno al massimo.
Subito in vigore anche altre tre misure più settoriali:
ridotti i membri del Consiglio dell’Ordine “al Merito della
Repubblica italiana”; per gli incarichi direttivi
dell’Avvocatura dello Stato, questi non possono essere
conferiti ad avvocati dello Stato che devono essere
collocati a riposo entro 4 anni dall’avvio della procedura
selettiva; modificato il Codice dell’ordinamento militare,
consentendo il contestuale svolgimento di un procedimento
disciplinare e di un procedimento penale per agli stessi
fatti riguardanti il personale militare.
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TRASPARENZA
Taglio a decreti inattuati e anticorruzione
più semplice
La sforbiciata alle norme rimaste inattuate degli ultimi
governi (da Monti a Renzi) va fatta entro il 28.11.2015. Un decreto indicherà le disposizioni rimaste lettera
morta (da abrogare) e quelle che vanno modificate proprio
per riuscire a essere attuate completamente.
Entro febbraio
2016 andranno snelliti gli oneri in materia di trasparenza e
anticorruzione per le amministrazioni, eliminando i doppioni
e permettendo il collegamento a banche dati già attive. Più
leggibili anche i dati sugli appalti e sui tempi di
pagamento. Per la prima volta saranno indicati con chiarezza
anche i soggetti che dovranno sanzionare le Pa adempienti.
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APPARATO STATALE
Riduzione del personale dei ministeri e
tagli alle partecipate
Entro il 28.08.2016 in arrivo la riforma delle
partecipazioni pubbliche con questi criteri: partecipazioni
solo per attività pubbliche e strategiche, responsabilità
per gli amministratori, tetti alle assunzioni e agli
acquisti. Per le società degli enti locali verrà individuato
limite massimo di bilanci in rosso, oltre il quale scatta la
liquidazione.
Sempre per agosto 2016 vanno individuate, in
tema di servizi pubblici locali, le funzioni essenziali con
la soppressione dei regimi di esclusiva non conformi ai
principi di concorrenza. Da varare anche la riduzione del
personale dei ministeri e l’eliminazione dei doppioni tra
Autorità indipendenti e uffici ministeriali.
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PUBBLICO IMPIEGO
Orari più flessibili e revisione delle
procedure dei concorsi
C’è tempo fino a fine febbraio 2017 per l’ultimo capitolo:
il riordino del pubblico impiego. Ampio il ventaglio dei
settori in cui si dovrà intervenire: dallo svolgimento dei
concorsi alla verifica delle assenze per malattia, passando
per la responsabilità disciplinare).
Sui concorsi, vanno
ridefinite le regole di accesso ai posti pubblici (anche
attraverso l’abolizione del voto minimo di laurea), con la
verifica della conoscenza della lingua inglese. Servirà poi
la revisione della responsabilità per i dipendenti e l’introduzione della flessibilità di orari. L’intenzione del
Governo è comunque quella di ridefinire queste norme ben
prima di febbraio 2017 (articolo Il Sole 24 Ore del
29.08.2015). |
TRIBUTI: Stop
alla Black list comunale. Pubblicare i nomi dei morosi viola
il principio di legalità.
Il garante privacy ammonisce le amministrazioni.
I regolamenti locali non hanno potere.
Stop alla pubblicazione dei nomi degli evasori di tributi
comunali sul sito dell'ente. La finalità di stanare i morosi
non giustificano la diffusione dei nominativi, tra l'altro
non prevista da una norma di legge. Non è nemmeno
sufficiente, poi, la copertura normativa con un regolamento
comunale.
A queste conclusioni è giunto il garante con una nota di
risposta (di cui dà notizia la
newsletter
28.08.2015 n. 405 del garante) a una amministrazione locale, che
intendeva introdurre l'obbligo di pubblicazione della black
list con una deliberazione dell'ente.
Principio di legalità.
Secondo il garante la procedura che il comune intendeva
avviare viola il principio di legalità sotto diversi
profili. La prima questione riguarda la natura giuridica
della pubblicazione online della lista dei morosi.
Trattandosi di una sanzione amministrativa accessoria, si
pone un problema di competenza normativa. Il garante rileva
che è riservata alla competenza esclusiva della legislazione
statale l'eventuale introduzione di una nuova sanzione
accessoria, quale si configurerebbe la pubblicazione online
rispetto alle sanzioni amministrative già previste legate al
mancato o erroneo pagamento del tributo.
Né si potrebbe
ribattere che la pubblicazione in questione sia imposta
dalla normativa sulla trasparenza (dlgs 33/2013), che
individua con precisione gli obblighi di pubblicazione sui
siti web istituzionali. Tra questi obblighi non è compresa
la diffusione dei dati identificativi degli evasori dei
tributi locali. La medesima normativa consente, però, a
certe condizioni, la pubblicazione di informazioni e
documenti ulteriori rispetto a quelli soggetti a
pubblicazione obbligatoria.
Tuttavia le p.a. possono mettere
online informazioni e documenti di cui non è obbligatoria la
pubblicazione solo dopo aver anonimizzato i dati personali
eventualmente presenti. Il rilievo del garante blocca
eventuali tentativi di elusione della normativa sulla
privacy a mezzo di regolamenti comunali.
Regolamento comunale.
È da chiarire un possibile equivoco. Dalla lettura
dell'articolo 19 del codice della privacy (dlgs. 196/2003)
si potrebbe capire che per permettere la diffusione di dati
(per esempio, con la pubblicazione online) da parte della
p.a. è sufficiente un regolamento della stessa p.a..
In
effetti l'art. 19 ammette la diffusione, se prevista
alternativamente da legge o regolamento. Bisogna però
aggiungere che un regolamento comunale non può derogare
chiare previsioni di legge o addirittura abrogarle, neppure
parzialmente. Quindi, se il sistema della trasparenza è
integralmente delineato, il regolamento comunale non può
violare tale regime e, nel caso specifico, non può violare
la norma sull'obbligo di anonimizzazione delle informazioni
non soggette a pubblicazione obbligatoria in base al dlgs
33/2013.
Il garante ha rilevato un altro profilo di
illegittimità: la disciplina comunale viola il principio di
legalità anche sotto il profilo temporale, poiché l'entrata
in vigore dell'obbligo di pubblicazione online è stata
deliberata con effetto retroattivo.
Infine l'iniziativa del comune viola alcuni principi
generali del codice privacy e, in particolare, i principi di
necessità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento:
perché le finalità indicate dall'ente locale di stimolare il
senso civico dei cittadini, sollecitandoli al pagamento del
dovuto o dissuadere gli evasori, possono essere soddisfatte
con le misure già in vigore (procedimento di riscossione
coattiva dei tributi, pagamento degli interessi di mora,
applicazione delle sanzioni amministrative previste).
La
diffusione online dei morosi, essendo la forma di pubblicità
più ampia, è apparsa al garante, quindi, un irragionevole
strumento vessatorio, suscettibile di causare danni e disagi
lesivi della dignità della persona.
Black list comunale.
Il garante privacy ha così dato risposta alla discussione
sulla possibilità di formulare «black list» comunali.
Questo, al termine di un'istruttoria avviata dopo l'annuncio
messo nero su bianco dalla stampa nazionale in cui si
indicava l'intenzione del comune di Mulazzo (Massa Carrara)
di rendere pubblico l'elenco dei contribuenti comunali
morosi. Non è la prima volta che un'amministrazione locale
tenta di mettere in chiaro il nome degli insolventi.
Se già
nel 2012 era stato infatti il comune di Pozzuoli a non
digerire la faccenda dei morosi (proponendo la pubblicazione
di una blacklist degli aventi debiti nei confronti di Equitalia), lo scorso maggio la città di Mulazzo ha
rianimato la discussione, proponendo un modello di
«trasparenza» al contrario, avente lo scopo di mettere alla
gogna tutto coloro che non hanno adempiuto al pagamento di
Tari, Imu e altre tasse comunali, specie multe e sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Dati
sanitari sotto stretto anonimato.
I Consiglieri regionali non hanno accesso alle
identità.
Al consigliere regionale solo dati sanitari anonimi. Per il
controllo sulla spesa sanitaria possono avere accesso solo a
dati anonimi e a informazioni che non consentano di
risalire, anche indirettamente, all'identità dei pazienti.
Lo ha chiarito il garante privacy (si veda la
newsletter
28.08.2015 n. 405) rispondendo ai quesiti posti da due
regioni, alle quali si erano rivolti due consiglieri che
intendevano conoscere dati sanitari contenuti nel sistema
informatico regionale: in un caso si trattava, addirittura,
della documentazione su pazienti che avevano usufruito
dell'esenzione dal ticket per cure oncologiche.
Nelle note inviate alle regioni, il garante ha ribadito che
la pubblica amministrazione nel valutare le richieste di
accesso dei consiglieri deve verificare che tali
informazioni siano effettivamente indispensabili e
necessarie all'espletamento del mandato consiliare. Le
richieste dei consiglieri possono essere soddisfatte solo
garantendo il minor pregiudizio possibile alla vita privata
degli interessati.
La p.a. potrà dunque comunicare al
consigliere notizie e informazioni prive delle generalità o
di altri elementi che rendano identificabili, anche
indirettamente, gli interessati
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2015). |
CONDOMINIO: Niente
termoregolatori? Multa. Le regioni: sanzioni fino a 2.500 a
singolo condomino.
Schema di dlgs per recepire le richieste Ue sul
risparmio energetico. Governatori per la stretta.
Dopo l'apertura della procedura d'infrazione, l'Italia si
sta adeguando alle norme europee in materia. Le regioni
propongono multe fino a 2.500 euro a singolo condomino, per
chi non installa dispositivi di termoregolazione. Vediamo
come.
La legislazione nazionale in materia si basa sul dlgs
102/2014. Ma
un nuovo schema di dlgs, recante «disposizioni
integrative al dlgs 04.07.2014 n. 102, di attuazione
della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza energetica», ha
ricevuto il 30.07.2015 via libera dalla conferenza delle
regioni seppure con qualche correttivo. Questo nuovo
provvedimento introduce la definizione di «aggregatore»,
cioè un fornitore di servizi su richiesta che accorpa una
pluralità di carichi utente di breve durata per venderli o
metterli all'asta in mercati organizzati dell'energia.
E
anche quella di «audit energetico», ossia la procedura
sistematica finalizzata a ottenere un'adeguata conoscenza
del profilo di consumo energetico di un edificio o gruppo di
edifici, di una attività o impianto industriale o
commerciale o di servizi pubblici o privati, a individuare e
quantificare le opportunità di risparmio energetico sotto il
profilo costi-benefici e a riferire in merito ai risultati.
Va ricordato che anche il dlgs 102/2014 aveva introdotto
prescrizioni della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza
energetica, non ancora previste nell'ordinamento giuridico
nazionale. Ma la Commissione europea il 27 febbraio 2015
aveva comunicato al governo italiano la messa in mora e
l'avvio della procedura di infrazione n. 2014/ 2284 per
incompleto recepimento nell'ordinamento giuridico della
direttiva. In particolare Bruxelles ha sottolineato la
mancanza della definizione di «audit energetico», che invece
era contenuto nel dlgs 115/2008, poi abrogato.
La
Commissione Ue ha, inoltre, sottolineato che nella
legislazione italiana non c'è un sistema che impedisce la
doppia contabilizzazione dei risparmi energetici ottenuti
nel caso in cui le iniziative di riqualificazione
individuali si sovrappongano alle misure politiche, come per
esempio le detrazioni fiscali introdotte con norme
specifiche. Inoltre, l'Italia non ha ancora recepito
l'obbligo secondo cui la ripartizione dei costi relativi
alle informazioni sulla fatturazione per il consumo
individuale di riscaldamento e raffreddamento nei condomìni
e negli edifici polifunzionali è effettuata a titolo
gratuito.
Le richieste integrative delle Regioni. La conferenza delle
regioni, da parte sua, ha chiesto delle correzioni allo
schema di dlgs in merito alla contabilizzazione del calore
nei condomìni. La richiesta è di superare la criticità
intervenendo con una normativa di livello nazionale.
Infatti, secondo le regioni, non sono definite bene le
tipologie di contatori (di fornitura, condominiale,
individuale) e non c'è chiarezza sulle competenze. In alcuni
condomìni, dopo l'installazione dei sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione, in applicazione della
norma Uni 10200, sono emerse criticità nella ripartizione
delle spese per il riscaldamento.
Per quanto riguarda le
sanzioni da applicare, in caso di mancata installazione dei
dispositivi di termoregolazione nei condomìni, le regioni
hanno chiesto un sistema in grado di individuare il singolo
condomino anziché l'intero condominio. Le multe oscilleranno
dai 500 ai 2.500 euro
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici
storici, sui lavori test rischio sismico.
Dal 1° settembre un modulo in più per gli interventi sugli
edifici storici. In casi di interventi di miglioramento
sismico oppure per interventi straordinari sugli edifici
storici la documentazione allegata alla richiesta di
autorizzazione o di pareri dovrà prevedere la nuova scheda.
Tutto questo lo prevede la
circolare 30.04.2015 n.
15 del Ministero dei beni e della attività culturali e del
turismo (Mibact) per la tutela del patrimonio architettonico
e la mitigazione del rischio sismico.
La suddetta scheda non costituirà documentazione tecnica
aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria prevista per legge
ma rappresenterà una sintesi finalizzata ad evidenziare
l'approccio progettuale. Visti i ripetuti danni subiti dagli
edifici culturali per gli eventi sismici, il Mibact ha
predisposto un'azione per la sensibilizzazione degli enti
coinvolti nel rilascio dei permessi, ma soprattutto per la
conoscenza più approfondita della vulnerabilità del
patrimonio architettonico.
Secondo il Mibact, una volta
individuato il problema, la riduzione del rischio sismico
sarà possibile attraverso buone pratiche da adottare in
occasione degli interventi che influiscono sul comportamento
strutturale. Nelle manutenzioni straordinarie il Mibact
prescrive inoltre particolare attenzione alle lavorazioni
edili anche non riguardanti gli elementi portanti, come la
realizzazione o la modifica di porte e finestre,
l'introduzione di pavimenti più pesanti, la modifica del
manto di copertura, la modifica della distribuzione dei
tramezzi, le tracce e i fori che riducono le sezioni
resistenti.
L'applicazione di queste buone pratiche
consentirà, assicura il Mibact, la rilevazione di altre
carenze eventualmente già esistenti e non connesse con i
progetti da realizzare, ma anche la previsione di ulteriori
interventi senza sensibili costi aggiuntivi.
Come rilevato
dal Mibact, nell'edilizia storica ci sono specifiche
vulnerabilità strutturali. I terremoti hanno infatti
rivelato che ogni elemento architettonico, anche se
secondario e non strutturalmente portante, può influenzare
la risposta strutturale in caso di sollecitazione sismica.
Nel centri storici, infatti, gli effetti disastrosi degli
eventi sismici sono correlati a carenze strutturali locali o
a interventi sugli elementi secondari, considerati
ininfluenti, ma che invece hanno comportato una modifica
dell'assetto strutturale.
Per mettere in pratica queste
raccomandazioni, il Mibact ha messo a disposizione una
scheda, da compilare e allegare alla richiesta di
autorizzazione, che costituirà una sintesi dell'approccio
progettuale seguito. Come si legge nella circolare, la
compilazione della scheda non comporterà un aggravio
dell'attività tecnica connessa alla presentazione delle
istanze
(articolo ItaliaOggi del 29.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Blocco se
la Scia è fasulla. L'attività non conforme alle regole si
ferma.
Da oggi è in vigore la legge che riforma la
segnalazione di inizio attività.
Se requisiti e presupposti non sono quelli espressamente
previsti dalla normativa di riferimento, l'attività
dell'impresa che ha presentato la Scia viene sospesa in
attesa della sua conformazione, e non può riprendere prima
che siano decorsi almeno 30 giorni.
È questa la novità più significativa contenuta nell'art. 6
della legge 07.08.2015 n. 124 che, essendo stata
pubblicata il giorno 13, entra in vigore oggi 28 agosto.
Se,
insomma, la legge 124/2015, prevede deleghe al governo in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche
che dovranno essere attuate entro 12 o 18 mesi, alcune
rilevanti novità entrano in vigore fin da subito e sono
quelle che vanno a modificare la legge 241/1990, ovvero la
legge sul procedimento amministrativo.
La conformazione. La Scia, disciplinata dall'art. 19 della
legge 241/1990 e che attiene sia al settore delle attività
produttive che a quello edilizio, prevede la possibilità di
iniziare l'attività previa dimostrazione del possesso dei
requisiti e presupposti; ma non sempre questi, in fase
istruttoria, vengono ritenuti conformi dalla p.a..
Prima
d'ora, poteva essere concessa la possibilità di conformare
la Scia consentendo la prosecuzione dell'attività. Ma d'ora
innanzi, con la modifica disposta dal Parlamento, non solo
la decisione di consentire la «conformazione» deve essere
motivata, ma va disposta la sospensione dell'impresa in
attesa della regolarizzazione della Scia.
La Scia non salva dal blocco. La legge 124 del 7 agosto
scorso ha disposto anche l'eliminazione dall'ordinamento di
diverse disposizioni. In particolare, con l'art. 6, comma 1,
lettera b), è stata disposta l'abrogazione di parte dell'art.
21 della legge 241/1990 il quale prevedeva che le sanzioni
previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza di
autorizzazione si applicano anche nei confronti di coloro i
quali iniziano l'attività in forza di una Scia.
L'autotutela. Novità anche per quanto riguarda
l'annullamento d'ufficio di provvedimenti illegittimi. È
stato infatti stabilito un termine ultimo per
l'annullamento, nel senso che non può superare i 18 mesi dal
momento dell'adozione del provvedimento di primo grado
(anche qualora lo stesso si sia formato per
silenzio-assenso).
Tuttavia, tale termine è derogabile nelle
ipotesi in cui si tratti di provvedimenti conseguiti sulla
base di false dichiarazioni, anche se soltanto a seguito di
sentenza passata in giudicato. In questo caso, infatti,
l'annullamento può essere disposto anche una volta decorso
il termine.
La delega al governo. Sempre a proposito della Scia, va
rilevato che con l'art. 5 della l. 124/2015 è stata concessa
delega al governo, perché entro un anno siano individuati i
procedimenti soggetti a procedura semplificata, ovvero a
Scia, quelli oggetto di silenzio assenso, quelli per i quali
è necessaria l'autorizzazione espressa e, infine, quelli per
i quali è sufficiente una comunicazione preventiva. La
delega riguarda anche la definizione delle modalità di
presentazione e dei contenuti standard nonché lo svolgimento
della procedura, anche telematica.
Su quest'ultimo fronte, va rilevato, tuttavia, che pari
delega per la deregolamentazione dei procedimenti, con
l'individuazione delle distinte fattispecie, era stata
conferita al Governo già con decreto-legge 5/2012, mentre
per quanto riguarda il procedimento automatizzato, è dal
2010 che con l'avvio degli sportelli unici per le attività
produttive (dpr 160/2010) l'obiettivo è stato raggiunto
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Per i
diplomati addio agli albi. Iscrizione con paletti. Serve
almeno una laurea triennale.
L'attestato della nuova istruzione tecnica non
basta per esercitare la professione intellettuale.
Per i diplomati si chiudono le porte degli albi. L'attestato
rilasciato a partire da giugno 2015 dalla nuova istruzione
tecnica targata Gelmini (ovvero gli ex periti, geometri,
interpreti ecc.), infatti, contiene una qualifica non più
sufficiente a esercitare una professione intellettuale.
È la circolare n. 7201/2015 di prot. del Ministero
dell'istruzione, università e ricerca a spazzare via anni di dibattito e
di confusione sulla materia: da una parte l'Europa che da
tempo sostiene la necessità di una laurea, almeno triennale,
per esercitare una professione, dall'altra le norme italiane
e in particolare la riforma dell'istruzione tecnica voluta
dall'ex ministro Maria Stella Gelmini (dpr 88/2012) che non
ha mai chiarito se questo titolo fosse valido per l'accesso
agli albi, mentre al contrario ha specificato il legame di
questa formazione con gli istituti tecnici e le filiere
tecnologiche.
In questo caos arriva la comunicazione del dipartimento per
il sistema educativo del Miur, inviata ai direttori degli
uffici scolastici regionali, ai dirigenti degli ambiti
territoriali e degli istituti scolastici. La circolare
precisa che i «modelli di diploma di istruzione secondaria
di secondo grado» conterranno «il riferimento al IV livello
delle qualificazioni del quadro europeo delle qualifiche per
l'apprendimento permanente (Eqf)». Tradotto, secondo quanto
prevede quel sistema che mette in relazione le diverse
qualifiche rilasciate nei paesi membri dell'Unione e colloca
i risultati dell'apprendimento in una struttura a otto
livelli, significa che i diplomi degli istituti tecnici (Iti)
permettono solo di «assumere una certa responsabilità per la
valutazione e il miglioramento di attività lavorative o di
studio».
Troppo poco per esercitare una professione intellettuale,
tanto più che secondo il Primo rapporto italiano di
referenziazione delle qualificazioni al quadro europeo Eqf,
sottoscritto in sede di conferenza stato regioni (20.12.2012), «per professioni che prevedono l'iscrizione
all'albo presso un ordine professionale», è richiesto «come
prerequisito il possesso di un titolo accademico specifico».
Questo significa almeno una laurea triennale, titolo che
permette di conseguire il VI livello Eqf e quindi di
«gestire attività o progetti, tecnico/professionali
complessi assumendo la responsabilità di decisioni in
contesti di lavoro o di studio imprevedibili». In sostanza
mantenendo quell'autonomia e quella capacità progettuale
tipica della professione intellettuale. Il percorso
accademico permetterà inoltre, per chi vuole iscriversi a un
albo professionale, di sanare l'anomalia del nuovo titolo di
istruzione genericamente definito diploma di istruzione
tecnica. Un titolo che ha perduto quel carattere che fino ad
ora aveva consentito di individuarne con chiarezza la
professione di accesso specifica.
A confermare il tutto poi un altro passaggio: il dpr di
riforma Gelmini abroga una norma (dlgs 294/1997) che
stabiliva che «gli istituti tecnici hanno per fine precipuo
quello di preparare all'esercizio di funzioni tecniche o
amministrative, nonché di alcune professioni, nei settori
commerciale e dei servizi, industriale, delle costruzioni,
agrario, nautico e aeronautico»
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza,
regole ferree.
I chiarimenti del ministero del lavoro.
Il piano di sicurezza e coordinamento, redatto dal
coordinatore per la sicurezza negli appalti, deve contenere
anche l'indicazione dell'eventuale presenza di «rischi per
il cantiere, con attenzione ai lavori stradali e
autostradali al fine di garantire la sicurezza e la salute
dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi derivanti
dal traffico circostante».
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello
23.06.2015 n. 1/2015.
L'interpello. Le precisazioni sono arrivate in risposta ad
un quesito di Federcoordinatori, in cui è stato chiesto di
conoscere la corretta interpretazione dell'art. 2 del
decreto interministeriale 04.03.2013, sui criteri generali
di sicurezza nelle procedure di revisione, di integrazione e
di apposizione della segnaletica stradale destinata ad
attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico
veicolare.
La norma stabilisce che l'adozione e
l'applicazione dei criteri minimi di sicurezza sono dovuti
dai gestori delle infrastrutture, dalle imprese
appaltatrici, esecutrici e affidatarie che devono darne
evidenza nei documenti di sicurezza di cui agli art. 17, 26,
96 e 100 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Gli articoli
17, 26 e 96, ha fatto notare la Federcoordinatori, si
riferiscono a obblighi riconducibili al committente o al
datore di lavoro per la redazione di documenti di sicurezza;
l'art. 100, invece, è relativo a un preciso documento, il
piano di sicurezza e coordinamento (Psc), che va redatto dal
coordinatore per la sicurezza.
Poiché in nessun'altra parte
il decreto 04.03.2013 fa riferimento alla figura del
coordinatore per la sicurezza (ma solo nell'art. 100), Federcoordinatori si chiede come possa, rientrare il
coordinatore nella disciplina del decreto e quali siano, di
conseguenza, i suoi ulteriori compiti.
I chiarimenti. «Con il decreto
04.03.2013», spiega il
ministero, «è stato ampliato il raggio di azione dei
regolamenti previgenti, definendo i criteri minimi per la
posa, il mantenimento e la rimozione della segnaletica di
delimitazione e di segnalazione delle attività lavorative
che si svolgono in presenza di traffico veicolare».
L'allegato XV, punto 2.2.1. lett. b), del dlgs n. 81/2008
stabilisce che il piano di sicurezza e coordinamento, di
competenza del coordinatore per la sicurezza, deve contenere
anche «l'analisi degli elementi essenziali di cui
all'allegato XV.2. in relazione all'eventuale presenza di
fattori esterni che comportano rischi per il cantiere, con
particolare attenzione ai lavori stradali e autostradali al
fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori
impiegati nei confronti dei rischi derivanti dal traffico
circostante».
Pertanto, il riferimento all'art. 100 del T.u. sicurezza non
appare inappropriato con le finalità del decreto, anche se
tra le figure elencate non è menzionato il coordinatore per
la sicurezza
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015). |
APPALTI SERVIZI:
Riforma
p.a., rotta sui servizi. Scattano sanzioni per la mancata
razionalizzazione.
Nella legge Madia (124/2015) c'è una doppia
delega da esercitare entro un anno.
Anche i servizi pubblici locali rientrano nel disegno di
legge di riforma della pubblica amministrazione, c.d. legge
Madia, che è diventato legge (07.08.2015, n. 124) e partono
ora i termini per l' attuazione delle deleghe legislative.
Si tratta di deleghe di riordino e non di riforma
complessiva del sistema, anche se contengono alcuni spunti
innovativi.
È una scelta importante che viene dopo l'esito vittorioso
del referendum sull'acqua che aveva spazzato via tutte le
disposizioni di riforma dei servizi pubblici locali relative
al servizio idrico e agli altri servizi pubblici, adottate,
prima dall' art. 23-bis del dl 112/2008 e poi dall'art. 4 del
dl 138/2011.
Il passato: il referendum e il superamento dell'art. 23-bis
dl 112/2008, e dell' art. 4 dl 138/2011
E proprio quelle due disposizioni possono costituire una
chiave di lettura delle scelte ora adottate.
L'art. 23-bis del dl 112/2008 aveva come asse portante
l'individuazione dell'in house in via residuale e la
generalizzazione della gara a doppio oggetto per la scelta
del socio privato nelle società miste; il tutto con la
fissazione di un termine per il periodo transitorio che
costituiva il vero tema del dibattito.
Il «torto» dell'art. 23-bis è stato quello di aver incluso
il settore idrico evocando così fantasmi di privatizzazione
di un bene fondamentale; un settore che però richiede
investimenti che le scarne risorse della finanza pubblica
non sono in grado di sostenere. E proprio il tema dell'acqua
ha determinato la richiesta del referendum il cui esito
comportò l'abrogazione dell'intera nuova disciplina che
coinvolgeva tutti i servizi pubblici.
Un referendum che vide anche posizioni dissenzienti
all'interno degli stessi partiti (compreso il Pd all'epoca
all'opposizione) e il cui esito vittorioso travolse
qualsiasi velleità di liberalizzazione.
Sopraggiunta la crisi, il governo, sotto la pressione
dell'Unione europea, adottò l'art. 4 dl 138/2011 che
prevedeva, la liberalizzazione, come regola, mentre
l'esclusiva (e quindi la gara, l'in house o la società
mista) era prevista nelle sole ipotesi in cui la libera
iniziativa non risultava idonea a garantire un servizio
rispondente ai bisogni della collettività.
La Corte
costituzionale (sent. 199/2012) dichiarò incostituzionale
l'art. 4 ritenendo violato il risultato referendario; ciò
riportò indietro le lancette al 2008 con l'aggravante di
anni di blocco di qualsiasi riforma completa dei servizi
pubblici locali che è un settore economico di tutto rilievo
con ricadute sociali importanti sulla collettività.
In
quegli anni comunque sono stati fatti interventi volti a perimetrare l'in house, le aziende speciali, a potenziare il
ruolo degli ambiti ottimali; sono state varate anche norme
che permettevano la dismissione di molte società locali con
salvaguardia dell'occupazione, come ad esempio l'art. 1,
comma 569, l. 147/2013, ora recentemente «interpretato» dal
dl 78/2015 in modo tale da metterne a rischio la sua
originaria utilità.
La legge 124/2015 e la disciplina precedente
La legge 124/2015 con due deleghe da esercitarsi entro un anno
(art. 18 e 19) riprende l'argomento dei servizi pubblici
locali e delle partecipazioni societarie sull'onda di una
maturazione del tema poiché il «mondo» con la crisi è
cambiato e la politica, anche locale, deve prenderne atto ed
agire di conseguenza.
Le due deleghe contengono spunti vecchi e nuovi ma il
dibattito di questi anni dimostra che il problema non
consiste nelle norme ma nella loro attuazione.
La delega sulle partecipazioni societarie (art. 18) riguarda
tutte quelle detenute dalle amministrazioni pubbliche
statali, regionali e locali prevedendo alcuni criteri
generali e altri, specifici, per gli enti locali.
Sicuramente di «vecchio», e non poteva essere diversamente,
va registrato che gli interventi si rivolgono alla «tutela e
alla promozione della concorrenza», come prevede l'art. 18
nell'indicare le finalità della delega; l'indicazione tra i
criteri della delega delle condizioni e dei limiti per la
costituzione di società, l'assunzione e il mantenimento di
partecipazioni societarie da parte di amministrazioni
pubbliche entro il perimetro dei compiti istituzionali o di
ambiti strategici per la tutela di interessi pubblici
rilevanti riprende quanto già previsto dall'art. 3, comma
27, l. 244/2007 per cui gli enti locali possono essere
titolari delle società solo per lo svolgimento delle
funzioni istituzionali.
Vi sono margini di «rischio» per una possibile lettura
«conservativa» in sede di attuazione della delega che si
possono individuare nella distinzione (art. 18, lett. a) tra
tipi di società in base a diversi criteri tra i quali quello
della modalità diretta dell'affidamento al fine di
individuarne la disciplina, «anche in base al principio di
proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina
privatistica»; in tal modo si potrebbe aprire la possibilità
di considerare l'in house come una società particolare ed è
da considerare il «rischio» -da verificare in sede di
esercizio della delega- di prevedere una specifica
disciplina lesiva della concorrenza.
Nella stessa direzione e con i medesimi rischi opera la
delega per la definizione dei requisiti di onorabilità «dei
candidati e dei componenti degli organi di amministrazione e
controllo delle società», materia già trattata dal dlgs
39/2013; qui la delega ha criteri ampi che in quanto tali
peccano di una certa vaghezza - quali quello di assicurare
la tutela degli interessi pubblici, la corretta gestione
delle risorse, la salvaguardia dell'immagine, ma
soprattutto, ed è questo un dato di novità da declinare con
la delega, l'autonomia rispetto all'ente proprietario.
Le novità della legge 124/2015
Spunti di interesse si registrano poi nella «precisa
definizione del regime delle responsabilità degli
amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei
dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle
società partecipate»; un tema delicato che viene affrontato
con un criterio di delega che, anche se finalizzato al mero
riordino della disciplina vigente, appare generico
riferendosi solo alla «precisa definizione».
Ulteriore elemento innovativo appare l'individuazione di
criteri per il mantenimento delle partecipazioni societarie
in relazione al numero dei dipendenti, al fatturato e ai
risultati della gestione.
Per altri versi la delega della l. 124/2015 riprende e amplia
norme precedenti, anche abrogate; è il caso della previsione
di un numero massimo di esercizi con perdite di bilancio,
già previsto per i comuni con popolazione sino a 30 mila
abitanti, dall'art. 14, comma 32, dl 78/2010, poi abrogato
dalla legge di Stabilità 147/2013.
Di interesse sarà poi l'esercizio della delega nella
disciplina dell'incentivazione dei processi di aggregazione
delle partecipazioni, tema da sempre attenzionato ma non
affrontato per il rischio di una nuova Iri. Però
indipendentemente dal soggetto aggregatore ciò potrebbe dare
valore a piccole realtà societarie oggi possedute dai
comuni, anche piccoli, che non hanno un piano strategico di
sviluppo.
E di rilievo è anche l'introduzione di un «sistema
sanzionatorio» per la «mancata razionalizzazione e
riduzione» che può prevedere la riduzione dei trasferimenti
statali; un sistema sanzionatorio ampio in relazione al
quale non emerge se comporti anche il fenomeno di
«sostituzione» mediante un commissario ad acta, così come
invece prevedeva l'art. 4 dl 138/2011.
Questo in estrema sintesi è quanto prevede la delega in
materia di razionalizzazione delle partecipazioni
societarie, che necessariamente si incrocia con quella in
materia di servizi pubblici; è una delega che in alcuni casi
sta a cavallo tra la ricognizione della normativa vigente e
l'introduzione di nuove norme ma i criteri di delega ampi
richiedono di aspettare i decreti legislativi per
comprendere se e quanto la nuova disciplina sarà in grado,
oltre che di riordinare, anche di liberalizzare
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI - VARI: CASSAZIONE.
VIDEOSORVEGLIANZA E PRIVACY / La telecamera in negozio va
segnalata.
Il commerciante malfidato non può usare l’occhio del Grande
fratello se non informa i suoi clienti che li sta
sorvegliando.
Con la
sentenza 02.09.2015 n. 17440,
Sez. II civile, la Corte di Cassazione fornisce un
chiarimento di cui c’era bisogno, visti i dubbi sollevati
dalla dottrina: anche la semplice immagine di una persona
deve essere considerata dato personale.
Conclusione che soddisfa il Garante della privacy, che aveva
fatto ricorso contro la decisione del Tribunale di annullare
la sanzione con la quale l’Autorithy aveva “punito”
il titolare di una torrefazione. L’uomo, partendo dal
principio che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, aveva
installato una telecamera, collegata con un monitor, che gli
consentiva di vedere chi entrava nel suo negozio quando lui
si spostava al piano superiore.
Un sistema certo più efficace del discreto “scampanellìo”,
ancora in uso in molti esercizi commerciali come innocua
spia dell’ingresso di un cliente. Peccato che la Cassazione
non ritenga lecita la “ripresa” senza un’adeguata
informazione. La videosorveglianza, anche senza
registrazione, comporta la raccolta e il trattamento di un
dato personale: l’immagine.
Per i giudici vanno respinti al mittente le perplessità
sulla capacità dell’immagine di identificare immediatamente
una persona. È lecito difendere i legittimi interessi e
prevenire situazioni di pericolo, però non si deve tutelare
solo se stessi. Il proprietario della torrefazione poteva
certamente mettere la telecamera al piano terra, ma non
doveva dimenticare di segnalarla.
La Corte ammette che nei casi in cui è impossibile informare
oralmente ogni persona che entra nel campo visivo
dell’occhio elettronico, basta l’informativa “minima”:
un cartello.
Ma non è consentito barare: perché l’avviso deve essere ben
visibile come formato e come posizione, oltre che esplicito
per un’immediata comprensione. Per questo sono utili un
simbolo o una stilizzazione.
Da evidenziare anche il diverso uso che si fa dell’immagine
del cliente: va chiarito se ci si accontenta solo di vederlo
o se si registra (articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Il
negoziante che procede alla videosorveglianza del proprio
esercizio lo può fare ma tale attività integra un "trattamento
di dati personali" ai sensi dell'art. 4, lettere a) e
b), del d.lgs. n. 196 del 2003, riguardando la "raccolta"
dell'"immagine" delle persone.
Detta attività comporta l'informativa rivolta ai soggetti
che accedono al locale ove è installata la videocamera, con
le forme di cui alla vigente regolamentazione in materia.
Nella vicenda oggetto di sanzione,
sussistano entrambi gli elementi in presenza dei quali
l'art. 13 prescrive l'obbligo di informativa: il
trattamento, consistente nella raccolta delle immagini delle
persone che accedono nel locale e vengono riprese da una
videocamera non segnalata, e il dato personale.
Invero, ai fini che qui rilevano, non
appare possibile dubitare del fatto che l'immagine
costituisca dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4,
comma l, lettera b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi
di dato immediatamente idoneo a identificare una persona, a
prescindere dalla sua notorietà.
Del resto, «non
può dubitarsi, nonostante in dottrina sia stato sollevato
qualche dubbio al riguardo, che anche l'immagine di una
persona, in sé considerata, quando in qualche modo venga
visualizzata o impressa, possa costituire "dato personale"
ai sensi dell'art. 4, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003,
noto anche come "codice privacy".
---------------
Il Provvedimento del Garante del 29.04.2004, applicabile
ratione temporis, prevede che «a
differenza dei soggetti pubblici, i privati e gli enti
pubblici economici possono trattare dati personali solo se
vi è il consenso preventivo espresso dall'interessato,
oppure uno dei presupposti di liceità previsti in
alternativa al consenso (artt. 23 e 24 del Codice). In caso
di impiego di strumenti di videosorveglianza da parte di
privati ed enti pubblici economici, la possibilità di
raccogliere lecitamente il consenso può risultare, in
concreto, fortemente limitata dalle caratteristiche e dalle
modalità di funzionamento dei sistemi di rilevazione, i
quali riguardano spesso una cerchia non circoscritta di
persone che non è agevole o non è possibile contattare prima
del trattamento. Ciò anche in relazione a finalità (ad es.
di sicurezza o di deterrenza) che non si conciliano con
richieste di esplicita accettazione da chi intende accedere
a determinati luoghi o usufruire di taluni servizi».
Da qui la previsione che «nel settore
privato, fuori dei casi in cui sia possibile ottenere un
esplicito consenso libero, espresso e documentato, vi può
essere la necessità di verificare se esista un altro
presupposto di liceità utilizzabile in alternativa al
consenso, come indicato nel paragrafo successivo». A tal
fine, il citato Provvedimento prevede che «un'idonea
alternativa all'esplicito consenso va ravvisata
nell'istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, coma
1, lett. g, del Codice). Il presente provvedimento dà
attuazione a tale istituto, individuando i casi in cui la
rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso,
qualora, con le modalità stabilite in questo stesso
provvedimento, sia effettuata nell'intento di perseguire un
legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso
mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e
beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine,
danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di
prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro».
In particolare, con riferimento all'attività di
videosorveglianza senza registrazione (rilevante nel caso di
specie), si stabilisce che «nei casi in
cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale,
oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a
circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi
interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di
pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si
tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività
criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o
altri beni (es., gioiellerie, supermercati, filiali di
banche, uffici postali)».
La ricorrenza di condizioni
legittimanti l'attività di videosorveglianza comporta
peraltro l'assoggettamento dell'attività all'obbligo di
informativa, di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003,
a norma del quale «1. L'interessato o la persona presso la
quale sono raccolti i dati personali sono previamente
informati oralmente o per iscritto circa:
a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono
destinati i dati;
b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei
dati;
c) le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere;
d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati
personali possono essere comunicati o che possono venirne a
conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e
l'ambito di diffusione dei dati medesimi;
e) i diritti di cui all'articolo 7;
f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati,
del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi
dell'articolo 5 e del responsabile».
---------------
Con specifico riferimento alla videosorveglianza, il già
ricordato Provvedimento del 29.04.2004, prevede al paragrafo
3 che «gli interessati devono essere
informati che stanno per accedere o che si trovano in una
zona videosorvegliata e dell'eventuale registrazione; ciò
anche nei casi di eventi e in occasione di spettacoli
pubblici (concerti, manifestazioni sportive) o di attività
pubblicitarie (attraverso web cam). L'informativa deve
fornire gli elementi previsti dal Codice (art. 13) anche con
formule sintetiche, ma chiare e senza ambiguità»,
con la precisazione che il Garante ha individuato, ai sensi
dell'art. 13, comma 3, del Codice un modello semplificato di
informativa "minima", riportato in allegato. «Il
supporto con l'informativa: deve essere collocato nei luoghi
ripresi o nelle immediate vicinanze, non necessariamente a
contatto con la telecamera; deve avere un formato ed un
posizionamento tale da essere chiaramente visibile; può
inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e
immediata comprensione, eventualmente diversificati se le
Immagini sono solo visionate o anche registrate».
---------------
3. Il ricorso dell'Autorità garante per la protezione dei
dati personali è fondato.
3.1. - Occorre premettere che il giudice di merito ha
accertato che l'attività oggetto di contestazione
(installazione di una videocamera per rilevare le presenze
nel locale al piano terra onde consentire al titolare di
controllare dal laboratorio, collocato su un soppalco, gli
accessi al locale stesso) integrasse un trattamento
rilevante ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. n. 196 del 2003.
In proposito, il Tribunale ha ritenuto, alla luce della
definizione contenuta nell'art. 4 citato, irrilevante che la
videocamera installata non fosse destinata alla
registrazione, atteso che, alla luce della definizione
legislativa, integra trattamento anche la nera attività di
raccolta di dati personali.
Ai sensi del comma l, lettera a), dell'art. 4 d.lgs. n. 196
del 2003, infatti, costituisce «"trattamento", qualunque
operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza
l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta,
la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la
selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo,
l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la
diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche
se non registrati in una banca di dati».
Il Tribunale ha invece ritenuto di non poter ravvisare nella
ripresa delle immagini di coloro che frequentavano il locale
al piano terra la consistenza di un dato personale. Premesso
che ai sensi del medesimo art. 4, comma 1, lettera b),
costituisce «"dato personale", qualunque informazione
relativa a persona fisica, identificata o identificabile,
anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra
informazione, ivi compreso un numero di identificazione
personale», il Tribunale ha ritenuto che l'immagine di
una persona non potesse essere definita dato personale in
assenza di elementi oggettivi che ne consentano una
potenziale identificazione.
In particolare, il Tribunale ha valorizzato le modalità e la
funzione della videoripresa, finalizzata unicamente a
consentire al titolare dell'esercizio di controllare
l'accesso di persone sospette nel proprio locale al piano
terreno per il tempo in cui lo stesso si trovava nel
laboratorio collocato su un soppalco, in assenza di ogni
potenziale identificabilità delle persone riprese -peraltro
da un apparecchio di non elevata definizione- senza alcuna
possibilità di registrazione delle immagini stesse.
Il Tribunale ha fatto così applicazione del principio per
cui «l'immagine di una persona, pur possedendo capacità
identificativa del soggetto, quando viene trattata non
integra automaticamente la nozione di "dato personale", agli
effetti del d.lgs. 30.06.2003, n. 196, ma lo diviene qualora
chi esegue il trattamento la correli espressamente ad una
persona mediante didascalia od altra modalità, quale
un'enunciazione orale, da cui sia possibile identificarla,
restando invece irrilevante, in mancanza di tali
indicazioni, la circostanza che chi percepisce l'Immagine
sia in grado, per le sue conoscenze personali, di
riconoscere la persona ritratta» (Cass. n. 12997 del
2009).
E, su tale base, ha quindi ritenuto insussistente, nella
specie, l'obbligo per il titolare dell'esercizio, di apporre
l'informativa di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003.
3.2. - Il Collegio ritiene che, nella
vicenda oggetto di sanzione, sussistano entrambi gli
elementi in presenza dei quali l'art. 13 prescrive l'obbligo
di informativa: il trattamento, consistente nella raccolta
delle immagini delle persone che accedono nel locale e
vengono riprese da una videocamera non segnalata, e il dato
personale.
Invero, ai fini che qui rilevano, non
appare possibile dubitare del fatto che l'immagine
costituisca dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4,
comma l, lettera b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi
di dato immediatamente idoneo a identificare una persona, a
prescindere dalla sua notorietà
(come invece sembra supporre la citata pronuncia di questa
Corte).
Del resto, già Cass. n. 14346 del 2012 ha affermato che «non
può dubitarsi, nonostante in dottrina sia stato sollevato
qualche dubbio al riguardo, che anche l'immagine di una
persona, in sé considerata, quando in qualche modo venga
visualizzata o impressa, possa costituire "dato personale"
ai sensi dell'art. 4, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003,
noto anche come "codice privacy". In tal senso, invero,
depongono specifiche decisioni del Garante per la protezione
di dati personali
(21.10.1999; 04.10.2007, 18.06.2009, n. 1623306),
nonché la decisiva circostanza della previsione,
nell'ambito del codice privacy, di una specifica norma (art.
134) in materia di videosorveglianza. Mette conto di
richiamare, inoltre, la Convenzione n. 108/1981 del
Consiglio d'Europa; la direttiva n. 95/46 CE, art. 2, lett.
a), nonché il documento di lavoro sulla videosorveglianza
WP67/2002, adottato il 25.11.2002 dal Gruppo dei Garanti
europei costituito ai sensi dell'art. 29 della citata
direttiva».
3.3. - Nel caso di specie, se la possibilità della
installazione della videocamera poteva ritenersi
giustificata dalle esigenze di sicurezza prospettate dal
titolare dell'esercizio commerciale, certamente la detta
attività, integrante, carne detto, trattamento di dati
personali, avrebbe dovuto formare oggetto di apposita
informativa ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 196 del
2003.
In proposito, il Provvedimento del Garante del 29.04.2004,
applicabile ratione temporis, prevede che «a
differenza dei soggetti pubblici, i privati e gli enti
pubblici economici possono trattare dati personali solo se
vi è il consenso preventivo espresso dall'interessato,
oppure uno dei presupposti di liceità previsti in
alternativa al consenso (artt. 23 e 24 del Codice). In caso
di impiego di strumenti di videosorveglianza da parte di
privati ed enti pubblici economici, la possibilità di
raccogliere lecitamente il consenso può risultare, in
concreto, fortemente limitata dalle caratteristiche e dalle
modalità di funzionamento dei sistemi di rilevazione, i
quali riguardano spesso una cerchia non circoscritta di
persone che non è agevole o non è possibile contattare prima
del trattamento. Ciò anche in relazione a finalità (ad es.
di sicurezza o di deterrenza) che non si conciliano con
richieste di esplicita accettazione da chi intende accedere
a determinati luoghi o usufruire di taluni servizi».
Da qui la previsione che «nel settore
privato, fuori dei casi in cui sia possibile ottenere un
esplicito consenso libero, espresso e documentato, vi può
essere la necessità di verificare se esista un altro
presupposto di liceità utilizzabile in alternativa al
consenso, come indicato nel paragrafo successivo». A tal
fine, il citato Provvedimento prevede che «un'idonea
alternativa all'esplicito consenso va ravvisata
nell'istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, coma
1, lett. g, del Codice). Il presente provvedimento dà
attuazione a tale istituto, individuando i casi in cui la
rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso,
qualora, con le modalità stabilite in questo stesso
provvedimento, sia effettuata nell'intento di perseguire un
legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso
mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e
beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine,
danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di
prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro».
In particolare, con riferimento all'attività di
videosorveglianza senza registrazione (rilevante nel caso di
specie), si stabilisce che «nei casi in
cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale,
oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a
circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi
interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di
pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si
tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività
criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o
altri beni (es., gioiellerie, supermercati, filiali di
banche, uffici postali)».
La ricorrenza di condizioni legittimanti
l'attività di videosorveglianza comporta peraltro
l'assoggettamento dell'attività all'obbligo di informativa,
di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, a norma del
quale «1. L'interessato o la persona presso la quale sono
raccolti i dati personali sono previamente informati
oralmente o per iscritto circa:
a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono
destinati i dati;
b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei
dati;
c) le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere;
d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati
personali possono essere comunicati o che possono venirne a
conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e
l'ambito di diffusione dei dati medesimi;
e) i diritti di cui all'articolo 7;
f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati,
del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi
dell'articolo 5 e del responsabile».
Con specifico riferimento alla videosorveglianza, il già
ricordato Provvedimento del 29.04.2004, prevede al paragrafo
3 che «gli interessati devono essere
informati che stanno per accedere o che si trovano in una
zona videosorvegliata e dell'eventuale registrazione; ciò
anche nei casi di eventi e in occasione di spettacoli
pubblici (concerti, manifestazioni sportive) o di attività
pubblicitarie (attraverso web cam). L'informativa deve
fornire gli elementi previsti dal Codice (art. 13) anche con
formule sintetiche, ma chiare e senza ambiguità»,
con la precisazione che il Garante ha individuato, ai sensi
dell'art. 13, comma 3, del Codice un modello semplificato di
informativa "minima", riportato in allegato. «Il
supporto con l'informativa: deve essere collocato nei luoghi
ripresi o nelle immediate vicinanze, non necessariamente a
contatto con la telecamera; deve avere un formato ed un
posizionamento tale da essere chiaramente visibile; può
inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e
immediata comprensione, eventualmente diversificati se le
Immagini sono solo visionate o anche registrate».
3.4. - Discende dalle considerazioni sin qui svolte che:
il titolare della T.M. poteva procedere alla
videosorveglianza del piano terra del proprio locale; tale
attività integra un "trattamento di dati personali"
ai sensi dell'art. 4, lettere a) e b), del d.lgs. n. 196 del
2003, riguardando la "raccolta" l'"immagine"
delle persone; la detta attività avrebbe dovuto formare
oggetto di informativa rivolta ai soggetti che accedevano al
locale ove era installata la videocamera, con le forme di
cui alla citata regolamentazione
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 02.09.2015 n. 17440). |
APPALTI:
Appalti,
libertà nei criteri. Se il contratto non è tecnico basta il
prezzo.
Il Consiglio di stato sull'affidamento di servizi
di call center.
In un appalto pubblico la stazione appaltante gode della più
ampia libertà nella scelta del criterio di aggiudicazione e
può quindi utilizzare il criterio del prezzo più basso anche
per contratti complessi laddove i contenuti delle
prestazioni siano state definite e dettagliate in fase
preparatoria; è legittimo, per l'affidamento di servizi di
call center, valutare le offerte soltanto sotto il profilo
economico.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
31.08.2015 n. 4040
con riguardo a un appalto del servizio di «gestione in
overflow di servizi di call center e back office»,
indetta dalla Acea, per conto della Acea8cento.
In primo grado il Tar aveva ritenuto illogico il criterio di
selezione del massimo ribasso, a fronte di un servizio che
non era connotato «da una elevata standardizzazione».
I giudici di Palazzo Spada ribaltano l'esito del primo grado
di giudizio affermando che notano che tanto il servizio di
call-center quanto la gestione dei reclami dell'utenza,
oggetto dell'appalto in contestazione, costituiscono
attività non implicanti significativi contenuti
tecnico-specialistici quanto all'organizzazione di mezzi e
personale e ai processi produttivi.
È quindi logica e corretta la scelta di valutare le offerte
in base al solo risparmio economico conseguibile all'esito
della procedura selettiva rientra nell'ampia discrezionalità
riconosciuta alle stazioni appaltanti dall'articolo 81,
comma 2, del codice dei contratti pubblici.
D'altro canto, sottolinea la sentenza anche contratti
d'appalto caratterizzati da rilevanti profili di
complessità, ed in particolare anche appalti di opere
pubbliche, possono essere affidati sulla base della solo
criterio del massimo ribasso, laddove la progettazione
svolta dalla stazione appaltante sia giunta ad un grado di
dettaglio tale da non richiedere, secondo valutazioni di
carattere discrezionale di quest'ultima, l'acquisizione di
soluzioni tecniche migliorative.
Pertanto il Consiglio di stato ritiene corretto lasciare
all'aggiudicatario la combinazione dei fattori produttivi
necessari alla fornitura del servizio, e selezionare
l'affidatario sul solo elemento costituito dal risparmio
economico da esso conseguibile, salvo il rispetto da parte
dell'affidatario del servizio degli standard minimi di tipo
organizzativo e di rendimento fissati dal committente
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: La
scelta di valutare le offerte in base al solo risparmio
economico conseguibile all’esito della procedura selettiva
costituisce ragionevole esplicazione dell’ampia
discrezionalità riconosciuta alle stazioni appaltanti
nell’individuare il metodo di selezione delle offerte
nell’ambito di procedure di affidamento, ai sensi dell’art.
81, comma 2, cod. contratti pubblici.
---------------
Anche nelle procedure di affidamento da aggiudicare mediante
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa gli
aspetti tecnico-valutativi possono condurre alla
presentazione di soluzioni progettuali sostanzialmente
speculari, tali da rendere determinante in concreto la sola
offerta economica.
Nondimeno, non per questa circostanza può ritenersi illogica
la scelta del metodo selettivo previsto dall'art. 83 del
codice appalti (ndr: criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa).
1. L’appello di Ac. deve essere accolto, con conseguente
riforma della pronuncia di primo grado e reiezione
dell’impugnativa della cooperativa Ca..
2. Infatti, come deduce in primo luogo l’appellante, tanto
il servizio di call-center quanto la gestione dei reclami
dell’utenza, oggetto dell’appalto in contestazione,
costituiscono attività non implicanti significativi
contenuti tecnico-specialistici quanto all’organizzazione di
mezzi e personale ed ai processi produttivi.
Al contrario,
l’incontestabile serialità delle prestazioni, la non
necessità dell’impiego di personale specializzato, l’assenza
di strumenti di complessità tecnologica e la tipica delocalizzabilità delle unità produttive anche in paesi
extracomunitari, conducono a non condividere gli assunti del
TAR, da un lato, e a ritenere del tutto ragionevole,
dall’altro lato, l’opzione dell’ente aggiudicatore odierno
appellante di attribuire rilevanza esclusiva ai fini
dell’individuazione dell’appaltatore all’elemento prezzo.
3. In virtù di quanto ora rilevato, non è in particolare
censurabile la scelta lasciare a quest’ultimo la
combinazione dei fattori produttivi necessari alla fornitura
del servizio, incentrando invece la selezione sul solo
elemento costituito dal risparmio economico da esso
conseguibile, salvo il rispetto di standard minimi di tipo
organizzativo e di rendimento, atti a garantire la
necessaria interoperabilità delle attività dell’appaltatrice
con la propria struttura ed il rispetto della normativa
vigente.
Ebbene, proprio nella descritta linea si colloca il
disciplinare tecnico predisposto da Ac. per il servizio in
contestazione, come non ha potuto mancare di rilevare lo
stesso giudice di primo grado. In virtù di tale documento,
infatti, viene demandato all’appaltatore di «svolgere e
organizzare le proprie attività nei modi che riterrà
opportuni, ferme le proprie responsabilità per il
conseguimento del risultato» (art. 4.3).
Sul punto va ancora evidenziato che a fronte del
riconoscimento di tale potere, tipico del contratto
d’appalto (cfr. art. 1655 cod. civ.), il disciplinare fa
salvo unicamente l’obbligo di quest’ultimo di «attenersi
alle procedure di gestione delle richieste dei Cilenti ed
agli strumenti operativi di interazione del COMMITTENTE»
(art. 4.2), oltre che –come è ovvio- di conformarsi alla
normativa di settore, ivi compresa quella di provenienza
dalla competente autorità (Autorità per l’energia elettrica
il gas e il sistema idrico, di cui sono richiamate alcune
delibere nell’art. 4.2 in esame), predisponendo a tal fine
appositi di indicatori di qualità del servizio e prevedendo
conseguentemente premi o penali (artt. 17 e 18).
4. Sulla base di questi rilievi, la scelta di Ac. di
valutare le offerte in base al solo risparmio economico
conseguibile all’esito della procedura selettiva costituisce
ragionevole esplicazione dell’ampia discrezionalità
riconosciuta alle stazioni appaltanti nell’individuare il
metodo di selezione delle offerte nell’ambito di procedure
di affidamento, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod.
contratti pubblici (cfr., da ultimo: Sez. III, 08.07.2014, n. 3484; Sez. V, 18.06.2015, n. 3121).
Infatti,
nell’enucleare le «caratteristiche dell’oggetto
dell’appalto» quale elemento discretivo nell’individuazione
del criterio di selezione, la disposizione ora citata
rimette quindi alla fase preparatoria della gara, e cioè
alla progettazione che ogni soggetto aggiudicatore deve
svolgere in vista del futuro affidamento del contratto, la
definizione di tali caratteristiche di quest’ultimo, e
all’esito di tale fase, gli ulteriori aspetti per i quali si
prevede invece la ricerca presso gli operatori privati di
soluzioni tecnico-qualitative in grado di conseguire
prestazioni qualitativamente migliori rispetto a quelle
individuate in sede progettuale.
5. Questa notazione rende evidente che anche contratti
d’appalto caratterizzati da rilevanti profili di
complessità, ed in particolare anche appalti di opere
pubbliche, possono essere affidati sulla base della solo
criterio del massimo ribasso, laddove la progettazione
svolta dalla stazione appaltante sia giunta ad un grado di
dettaglio tale da non richiedere, secondo valutazioni di
carattere discrezionale di quest’ultima, l’acquisizione di
soluzioni tecniche migliorative.
6. In contrario a quanto finora rilevato, non sono
persuasivi i rilievi del consorzio odierno appellato.
In particolare, il fatto che i ribassi offerti in sede di
gara abbiano registrato significative differenze (oltre 2
milioni di euro tra l’offerta migliore e quella contenente
il minor ribasso, in una forbice tra i circa 7 della
migliore offerta, della E-C., e i circa 9 della offerta
meno conveniente) non denota alcuna irrazionalità, ma, al
contrario, è indice dell’ampio ventaglio di soluzioni
organizzative reperibili presso il mercato, rispetto al
quale resta tuttavia incensurabile la scelta di annettere
rilievo decisivo all’elemento prezzo.
Questa variabilità è
in particolare spiegabile con il dato di comune esperienza
che anche servizi a basso contenuto tecnologico e ad alta
intensità di lavoro possono presentare rilevanti margini di
comprimibilità dei costi interni.
Segnatamente, nell’ambito
degli strumenti astrattamente utilizzabili al fine di
conseguire economie aziendali per lo svolgimento di servizi
di call-center e di back office in generale viene in
particolare in rilievo il fenomeno della delocalizzazione e
la conseguente possibilità di sfruttare le asimmetrie
salariali vigenti tra Stati diversi [delocalizzazione che
non a caso è stata all’origine di una prima vertenza tra la
cooperativa Co. ed Ac. nell’ambito della gara in
contestazione, con istanza della prima di parere all’ANAC ai
sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n), cod. contratti
pubblici].
Ciò peraltro non esclude che per il soggetto
aggiudicatore l’unico elemento determinante per la selezione
delle offerte sia dato dal prezzo e che le caratteristiche
qualitative del servizio assumano invece rilevanza in sede
di esecuzione del contratto.
7. Del resto, ed a contrario, anche nelle procedure di
affidamento da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa gli aspetti
tecnico-valutativi possono condurre alla presentazione di
soluzioni progettuali sostanzialmente speculari, tali da
rendere determinante in concreto la sola offerta economica.
Nondimeno, non per questa circostanza può ritenersi illogica
la scelta del metodo selettivo previsto dal citato art. 83
del codice appalti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
31.08.2015 n. 4040 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere
sanzionate sono state correttamente qualificate
dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione
edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio
volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la
eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e),
del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali
interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione
edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU,
necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso
di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui
all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si
intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza
sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla
categoria di ristrutturazione più ampia individuata
dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento
al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono
qualificabili come di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo solo quegli interventi che
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione
interna della sua superficie.
---------------
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella
sua complessità sistematica, è stato correttamente
inquadrato nella fattispecie dell'intervento di
ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una
concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10,
comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato
un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento
di destinazione d'uso e incremento della volumetria
originaria in virtù della tamponatura della preesistente
tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una
camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo
mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile
(da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente
rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo
edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto
della destinazione d'uso integra una situazione di
irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata
dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di
vigilanza.
Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la
modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal
fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate,
è subordinata al rilascio di permesso di costruire
allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le
categorie stabilite dallo strumento urbanistico.
Il ricorso è infondato.
Come risulta dall'ordine di demolizione impugnato, l'odierna
ricorrente ha realizzato un cambio di destinazione d'uso
all'interno di un sottotetto di un preesistente locale
soffitta in civile abitazione, mediante una sala con angolo
cottura delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza
variabile da mt. 1,00 a mt. 2,30 circa. In secondo luogo,
una preesistente tettoia è stata tamponata in civile
abitazione realizzando una camera da letto delle dimensioni
di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza di mt. 2,30 circa ed un
bagno delle dimensioni di mt. 1,50x1,50 circa ed un'altezza
di mt. 2,30 circa.
Da ultimo, la Sig.ra G. ha provveduto ad ampliare la camera
da pranzo abbattendo un muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante, e realizzando un parapetto di mt. 1,00
di altezza in corrispondenza della ringhiera del balcone.
Ciò premesso, e contrariamente a quanto sostenuto
dall'odierna ricorrente, le opere sanzionate sono state
correttamente qualificate dall’amministrazione procedente
come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per
tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la
eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e),
del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali
interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione
edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU,
necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso
di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di
cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si
intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza
sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla
categoria di ristrutturazione più ampia individuata
dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento
al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono
qualificabili come di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo solo quegli interventi che
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione
interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella
sua complessità sistematica, è stato correttamente
inquadrato nella fattispecie dell'intervento di
ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una
concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10,
comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato
un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento
di destinazione d'uso e incremento della volumetria
originaria in virtù della tamponatura della preesistente
tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una
camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo
mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del
terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile
(da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente
rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo
edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de
facto della destinazione d'uso integra una situazione di
irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata
dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di
vigilanza. Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n.
36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente
dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto
preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di
costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad
oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere
realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi,
è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in
quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione
di avvio del procedimento, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo.
Infine ricorda il Collegio che, per costante orientamento
giurisprudenziale, anche della Sezione, l'ordine di
demolizione conseguente all'accertamento della natura
abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti
sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere
preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un
procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso
presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro
l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando
direttamente nella sua sfera di controllo (cfr. da ultimo
CdS III, 14.05.2015 n. 2411)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ritiene il Collegio di dover sottoporre all’Adunanza
Plenaria la questione relativa alla possibilità di
consentire il diritto all’accesso anche quando il privato
intenda tutelare, con tale strumento, una propria situazione
giuridica soggettiva di tipo schiettamente privatistico e in
posizione paritetica rispetto all’Amministrazione, essendo
il rapporto di lavoro alle dipendenze di Poste Italiane
s.p.a. ormai totalmente privatizzato e devoluto alla
cognizione del giudice ordinario in funzione di giudice del
lavoro.
1. L’odierna appellante, L.P., dipendente di Poste
Italiane s.p.a. presso la filiale di Parma ed applicata
quale portalettere presso il Centro Primario di
Distribuzione Parma Ovest, nel premettere la propria
intenzione di proporre domanda giudiziale volta a far
accertare il suo diritto al trasferimento e al risarcimento
del danni, anche per perdita di chance, sull’assunto di un
uso distorto, da parte di Poste Italiane s.p.a.,
dell’istituto del distacco in vece della doverosa
applicazione della graduatoria nazionale di mobilità, ha
chiesto di poter accedere alla seguente documentazione:
1) la pianta organica del Cento di Distribuzione di Sarzana
(SP) per gli anni 2012, 2013 e 2014 fino al mese di maggio
2012, con la indicazione del personale applicato con
contratto a tempo indeterminato e determinato nonché del
personale assente per lunghe malattie;
2) la documentazione comprovante il numero di distacchi, le
persone distaccate e i criteri seguiti presso il predetto
Centro di Distribuzione.
Poste Italiane s.p.a. non ha dato alcun riscontro a tale
istanza.
2. Avverso tale inerzia l’interessata ha proposto ricorso al
TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, chiedendo
l’annullamento di tale diniego per violazione degli artt.
22, 23 e 25 della l. 241/1990 e dell’art. 97 Cost. e,
contestualmente, l’accesso agli atti sopra menzionati.
3. Nel giudizio di primo grado si è costituita Poste
Italiane s.p.a., opponendosi all’accoglimento della domanda
avversaria.
4. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia
Romagna, sezione staccata di Parma, con sentenza n. 4 del
15.01.2015, ha respinto il ricorso, per la motivazione
decisiva che la pianta organica del Centro non esisteva e
che la ricorrente non avesse interesse a conoscere gli altri
documenti, relativi a movimentazioni provvisorie.
5. Avverso tale sentenza l’interessata ha proposto ricorso,
lamentandone l’erroneità, e ne ha chiesto la riforma, con
conseguente riconoscimento del suo diritto ad accedere ai
documenti richiesti con l’istanza del 25.06.2014 e ad
estrarne copia.
6. Si è costituita con apposita memoria Poste Italiane
s.p.a., chiedendo, in via principale, di respingere
l’appello, in quanto inammissibile, improcedibile e,
comunque, infondato sia in fatto che in diritto e, in via
subordinata, di sollevare questione di costituzionalità
degli art. 22 e ss. della l. 241/1990, se intesi nel senso
che il diritto di accesso agli atti inerenti alla gestione
del personale si eserciti nei confronti di un soggetto
titolare del servizio universale, a differenza di tutti gli
altri soggetti in concorrenza operanti nel medesimo mercato,
e in via del tutto subordinata di disporre la sospensione
del presente giudizio, con rinvio della causa alla Corte di
Giustizia ai sensi dell’art. 267, ult. comma, del TFUE,
relativamente alla compatibilità degli artt. 22 e ss. della
l. 241/1990, se intesi nel senso che il diritto di accesso
si esercita nei confronti di Poste Italiane s.p.a. con
riguardo alla gestione del personale a differenza di tutti
gli altri soggetti privati operanti nel mercato del servizio
postale universale, con i principi europei di parità di
trattamento, non discriminazione, trasparenza e
proporzionalità, nonché libertà di prestazione dei servizi,
e degli artt. 18 e 49-55 del TFUE.
7. Nella camera di consiglio del 04.06.2015 il Collegio, uditi
i soli difensori comparsi di Poste Italiane s.p.a., ha
trattenuto la causa in decisione.
8.
Ritiene il Collegio di dover sottoporre all’Adunanza
Plenaria la questione relativa alla possibilità di
consentire il diritto all’accesso anche quando il privato
intenda tutelare, con tale strumento, una propria situazione
giuridica soggettiva di tipo schiettamente privatistico e in
posizione paritetica rispetto all’Amministrazione, essendo
il rapporto di lavoro alle dipendenze di Poste Italiane
s.p.a. ormai totalmente privatizzato e devoluto alla
cognizione del giudice ordinario in funzione di giudice del
lavoro.
9. La controversia posta all’esame del Collegio si concentra
essenzialmente, infatti,
sulla questione se le disposizioni
sostanziali e procedurali in materia di accesso agli atti
amministrativi (artt. 22-25 della l. 241/1990, art. 116 c.p.a., ex art. 21-bis della legge n. 1034/1971) siano
pertinenti e applicabili anche nella fattispecie, nonostante
che Poste Italiane s.p.a. sia un soggetto di diritto privato
e che sia strettamente privatistico (lavoro subordinato) il
rapporto in essere fra la stessa società e la persona che ha
chiesto l’accesso.
10. Quanto alle fonti normative, si ricorda che l. 241/1990,
art. 22, comma 1, esplicitamente assoggetta alla disciplina
in questione, oltre che le pubbliche amministrazioni
propriamente dette, anche «i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario» e
qualifica come atti amministrativi, a questi fini, anche
«[gli atti] interni... concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale»; l’art. 23
dispone che «il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si
esercita nei confronti ... [anche] dei gestori di pubblici
servizi».
11. Quanto alla giurisprudenza, va ricordata innanzi tutto
la decisione n. 4 del 22.04.1999 dell’Adunanza Plenaria,
secondo cui un interesse pubblico prevalente è ravvisabile
quando il gestore del servizio, spontaneamente o in
applicazione di una disposizione, ponga in essere un
procedimento di natura comparativa con criteri
precostituiti, per la selezione del personale più meritevole
e per organizzare con efficacia il servizio.
12. Secondo tale orientamento le scelte effettuate all’esito
di tale procedimento hanno un rilievo pubblicistico, da un
lato, perché si tratta della selezione di coloro che fanno
parte della complessiva organizzazione del gestore, entrano
in contatto col pubblico e determinano la qualità del
servizio, e dall’altro perché si ripercuotono sull’utenza le
iniziative e le proteste di coloro che, in forma
individuale, associativa o sindacale, lamentino che le
scelte finali si siano basate su comportamenti scorretti.
13. In altri termini, ha ritenuto l’Adunanza Plenaria –e la
giurisprudenza successiva lo ha recepito– il soggetto che
assume di essere stato leso dal gestore nel corso di un
procedimento per l’assunzione o per la promozione di
dipendenti non solo può lamentare la violazione dei principi
di buona fede e di correttezza innanzi al giudice ordinario,
ma può accedere agli atti del medesimo procedimento, in
quanto vi è lo svolgimento di una attività strettamente
connessa e strumentale alla quotidiana attività di gestione
del servizio pubblico.
14. La stessa sentenza dell’Adunanza ha ritenuto che
l’accesso agli atti del gestore del servizio pubblico, pur
quando essi sono disciplinati dal diritto privato e
comportano la giurisdizione ordinaria, «consente il
perseguimento delle medesime finalità connesse all’accesso
agli atti dell’amministrazione (e c’è una più diffusa
conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a
comportamenti ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e
correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è
l'interesse pubblico all'effettuazione di scelte corrette da
parte del gestore, quando esse siano finalizzate
all’organizzazione efficiente ed alla qualità del servizio».
15. Pertanto l’Adunanza Plenaria è pervenuta ad affermare il
principio che,
quando il gestore di un servizio pubblico
pone in essere un procedimento disciplinato dal diritto
privato, prevale l’interesse pubblico alla trasparenza e può
chiedere l’accesso chi abbia interesse ad accedere se vi sia
stata una scorrettezza.
16. Sulla stessa linea si possono citare la sentenza
dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 05.09.2005 e quelle
della sezione VI, rispettivamente 30.12.2005, n. 7624,
26.01.2006, n. 229, e 22.05.2006, n. 2959 e,
ancora, quelle della sez. V, 08.06.2000, n. 3253 e della
sez. IV, 05.09.2009, n. 4645, come anche numerosi
altri precedenti in senso conforme, che qui si omette, per
obbligo di sintesi, di riportare.
16.1. Tutti questi precedenti sottolineano che
il vincolo di
strumentalità al conseguimento del pubblico interesse, che
grava sull’attività formalmente privatistica del gestore del
pubblico servizio, comporta l’assoggettamento ai doversi di
trasparenza, pubblicità, partecipazione, etc., e quindi
l’assimilazione all’attività della p.a. propriamente detta
per quanto riguarda la tutela dei privati interessati.
17. In senso contrario, di recente, questa Sezione,
respingendo la domanda di accesso di un dipendente di Poste
Italiane s.p.a. ai criteri di valutazione delle risorse ai
fini del riconoscimento del premio meritocratico, ha
rilevato che
non può ritenersi tutto il personale di Poste
Italiane s.p.a. e il suo regime contrattuale funzionalmente
connesso alla gestione del servizio pubblico e «ancor meno
tale connessione può presumersi, in mancanza di qualsiasi
dimostrazione, per il conferimento di un premio
meritocratico a singole unità di personale in funzione di
specifici comportamenti che l’azienda ritiene di
valorizzare» (Cons. St., sez. III, 10.03.2015, n. 1226).
18. Questo Collegio ritiene opportuna, ora, una nuova
indagine interpretativa, al fine di verificare se la
disciplina sostanziale e processuale dell’accesso agli atti
amministrativi –come istituita dalla l. 241/1990 (artt.
22-25 nel testo originario) e quindi messa a punto da
successivi interventi di modifica della stessa legge, nonché
dalle apposite disposizioni processuali, quali l’art. 2
della l. 205/2000 che ha introdotto l’art. 21-bis della
legge n. 1034/1971, e infine l’art. 116 del codice del
processo amministrativo– sia applicabile anche ai rapporti
nei quali il rapporto fra il privato che chiede l’accesso, e
il privato che è destinatario di tale richiesta, non
presenti alcun profilo di specialità derivante dalla qualità
di gestore di un servizio pubblico occasionalmente rivestita
dal secondo.
18.1. La questione si pone primariamente con riferimento al
rapporto di lavoro subordinato nell’àmbito dell’impresa,
come nella vicenda che ha dato luogo al presente
contenzioso; ma si potrebbe porre anche con riferimento ad
altre ipotesi, come ad esempio nel caso che il soggetto che
si dichiara interessato all’accesso sia –rispetto al
gestore del servizio pubblico– un prestatore d’opera
professionale, oppure un appaltatore di lavori, o un
fornitore di beni o servizi, o parte di una controversia in
materia di diritti reali ovvero di obbligazioni
risarcitorie, e simili.
18.2. In una parola, la questione si pone con riferimento a
tutti i rapporti giuridici privatistici diversi da quelli
nei quali il soggetto che chiede l’accesso agli atti si
presenti e si qualifichi come “utente” (in atto ovvero anche
in potenza) o, comunque, come portatore di un interesse
(anche diffuso) al servizio pubblico in quanto tale.
19. La resi restrittiva si basa innanzi tutto su un
argomento di ordine sistematico: le disposizioni
sull’accesso sono una parte essenziale della l. 241/1990, la
cui finalità è quella di tutelare il privato individuo nei
suoi rapporti con la pubblica amministrazione, a
compensazione di quello stato di soggezione che fatalmente
inerisce alle funzioni esercitate da quest’ultima.
19.1. Primariamente, tale soggezione si manifesta nei
confronti dei poteri autoritativi della p.a., e in tal caso
si può parlare di una soggezione di diritto.
19.2. Ma vi è anche una soggezione di fatto, che inerisce
all’attività della p.a. quale organizzatrice ed erogatrice
dei servizi pubblici.
19.3. Tale attività, pur non implicando generalmente
l’esercizio di poteri autoritativi, di fatto espone il
cittadino –o in via generale quale membro della comunità, o
specificamente quale utente– a subìre gli effetti di scelte
organizzative, gestionali, etc., che per forza di cose
incidono sui suoi interessi senza che egli disponga di un
potere contrattuale adeguato per contrastarle.
19.4. Donde la preoccupazione del legislatore, con la l.
241/1990, di estendere al cittadino/utente (ossia al
destinatario dell’attività della p.a. quale erogatrice di
servizi) quelle tutele che primariamente erano state
escogitate a difesa del cittadino/amministrato (ossia al
destinatario dell’attività della p.a. quale fonte di atti
autoritativi).
19.5. Il passo successivo è l’estensione della tutela dai
diritti soggettivi e dagli interessi legittimi (oppositivi e
pretensivi) con gli appositi strumenti precontenziosi e
contenziosi, all’interesse all’informazione (“trasparenza”)
anche con riferimento agli interna corporis – nella misura
in cui tale informazione è strumentale alla soddisfazione
dei diritti e interessi legittimi.
19.6. Infine, vi è ulteriore estensione della tutela del
cittadino/utente, dal rapporto con la p.a. quale erogatrice
di servizi, al rapporto con quei soggetti privati che, per
delega, concessione, o licenza della p.a., a loro volta
gestiscono un pubblico servizio.
19.7. Se tutto questo è vero, ne consegue che gli effetti di
questa estensione di tutela del cittadino/utente nei
confronti del privato gestore di un servizio pubblico hanno
ragion d’essere solo quando il soggetto che chiede tutela si
presenta, appunto, come utente o comunque come membro della
collettività, interessato come tale a quel pubblico
servizio, e quindi anche al modo nel quale esso viene
organizzato, disciplinato e gestito.
19.8. Solo in questo caso, infatti, vi è quella “soggezione
di fatto” che ha indotto il legislatore autore della l.
241/1990 ad escogitare gli opportuni strumenti di
compensazione.
19.9. Non hanno più ragion d’essere quando il rapporto fra
il soggetto che chiede l’accesso, e il privato gestore del
pubblico servizio, è di altro tipo (lavoro subordinato,
contratto d’opera professionale, ecc.) e non è in alcun modo
influenzato o qualificato dai profili pubblicistici
eventualmente rinvenibili nell’attività del gestore.
20. Ciò si dice non perché la posizione del lavoratore
subordinato, o del prestatore d’opera, o del fornitore di
beni e servizi, etc., sia meno meritevole di tutela rispetto
a quella del cittadino/utente; ma perché è qualitativamente
diversa e altrettanto diversi (e in genere non meno efficaci
sul piano pratico) sono gli strumenti di tutela apprestati
dall’ordinamento.
20.1. Nel caso di un lavoratore dipendente (come l’attuale
appellante) ogni eventuale pretesa al rispetto dei diritti e
interessi inerenti al rapporto di lavoro trova la sua
apposita e specifica tutela nel diritto del lavoro e nei
relativi strumenti giurisdizionali.
20.2. Non si vede poi la ragione di differenziare il
trattamento dei lavoratori dipendenti, per il solo fatto che
il loro datore di lavoro (privato) sia, occasionalmente,
gestore di un servizio pubblico.
20.3. Pertanto l’estensione della disciplina dell’accesso al
rapporto di lavoro subordinato non solo appare poco coerente
con il sistema, ma non si giustifica neppure in rapporto ad
esigenze di tutela del lavoratore, le quali ricevono altrove
una risposta adeguata.
20.4. L’irrazionalità di tale estensione, e la sua
incoerenza con il sistema, risulteranno con maggior evidenza
ove si consideri l’ampiezza del fenomeno dei servizi
pubblici affidati a gestori privati.
21. In conclusione,
il Collegio propende per dichiarare
inammissibile il ricorso per l’accesso proposto in primo
grado, con l’argomento che la disciplina dell’accesso non si
applica ai rapporti fra Poste Italiane s.p.a. e i suoi
lavoratori dipendenti, quali che siano il loro livello e il
ramo di servizio cui sono addetti.
22. Nondimeno, trattandosi di questione sulla quale si
registrano numerosi e autorevoli precedenti di indirizzo
contrario, il Collegio intende doveroso rimettere la
questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
rimette, ai sensi
dell’art. 99 c.p.a., la questione
all’Adunanza Plenaria
(Consiglio di Stato, Sez. III,
ordinanza 28.08.2015 n. 4028 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO: Nei
contratti di locazione non abitativa la P.A. può esercitare
il diritto di recesso per gravi motivi.
La disposizione
dell'art. 27 l. n. 392/1978, che consente al conduttore di
recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi
motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione
contemplati dall'art. 42 della stessa legge e, tra questi, a
quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico
territoriale.
I gravi motivi devono consistere in un'esigenza oggettiva,
imposta dal dover esercitare la funzione e soddisfare
l'interesse pubblico che ne è oggetto in modo più idoneo
rispetto a quanto assicuri l'esercizio della funzione stessa
in atto mediante l'utilizzo del bene condotto in locazione.
---------------
3. Relativamente al primo motivo si osserva che costituisce
principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte
quello secondo cui, in tema di locazione di
immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione, l'onere per il conduttore, di specificare i
gravi motivi contestualmente alla dichiarazione di recesso
ai sensi dell'art. 27 della legge n. 392 del 1978, ancorché
non espressamente previsto da detta norma, deve ritenersi
conseguente alla logica dell'istituto, atteso che al
conduttore é consentito di sciogliersi dal contratto solo se
ricorrano gravi motivi e il locatore deve poter conoscere
tali motivi già al momento in cui il recesso é esercitato,
dovendo egli assumere le proprie determinazioni sulla base
di un chiaro comportamento dell'altra parte del contratto,
anche al fine di organizzare una precisa e tempestiva
contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della
loro idoneità a legittimare il recesso stesso
(cfr. Cass. ord. 27.10.2011, n. 22392; Cass. 06.06.2008, n.
15058; Cass. 29.03.2006, n. 7241; Cass. 26.11.2002, n.
16676).
E' stato in particolare precisato che -pur
non avendo il conduttore l'onere di spiegare le ragioni di
fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato,
né di darne la prova perché queste attività devono essere
svolte in caso di contestazione da parte del locatore- si
tratta pur sempre di recesso "titolato", per cui la
comunicazione del conduttore non può prescindere dalla
specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale
requisito inerisce al perfezionamento della stessa
dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla
finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva
contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della
loro idoneità a legittimare il recesso medesimo
(cfr Cass. 17.01.2012, n. 549).
3.1. Ciò posto, il motivo risulta infondato sotto il profilo
della violazione di legge, inammissibile sotto quello
motivazionale.
Invero la decisione impugnata è conforme ai principi sopra
esposti, avendo correttamente escluso che i motivi addotti
con la lettera di recesso potessero essere integrati con
quello postulato solo in sede giudiziale del "risparmio
di spesa"; mentre la censura motivazionale si sostanzia
in un'opinabile equiparazione tra "risparmio di spesa"
e "maggiore efficienza operativa", suggerendo
un'interpretazione così ampia dei contenuti lettera di
recesso, che -prima ancora che risultare meramente
alternativa a quella assunta nella decisione impugnata e,
come tale, inammissibile anche nella formulazione ante D.L.
n. 83/2012 conv. in L. n. 134/2012 del n. 5 cod. proc. civ.
dell'art. 360 cod. proc. civ. (qui applicabile ratione
temporis)- finirebbe per vanificare le stesse esigenze
che il recesso "titolato" deve assolvere.
Il motivo va, dunque, rigettato.
4. Relativamente agli altri motivi di ricorso, suscettibili
per la stretta connessione delle censure, di esame unitario,
va innanzitutto osservato che costituisce
ius receptum che la disposizione dell'art. 27, comma
ultimo, L. n. 392 del 1978, che consente al conduttore di
recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi
motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione
contemplati dall'art. 42 stessa legge, ivi inclusi quelli
conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico
territoriale (cfr.
Cass. 22.11.2000, n. 15082).
Inoltre come correttamente evidenziato nella decisione
impugnata, una volta che l'amministrazione
pubblica agisca iure privatorum stipulando un
contratto di locazione come conduttore non si sottrae ai
principi costantemente predicati in materia da questa Corte,
secondo cui la situazione assunta come giustificativa del
recesso anticipato ex art. 27, comma 8 cit. non può attenere
alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal
conduttore in ordine all'opportunità o meno di continuare ad
occupare l'immobile locato, ma deve avere carattere
oggettivo, sostanziandosi in fatti involontari,
imprevedibili, sopravvenuti alla costituzione del rapporto e
tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore medesimo
la prosecuzione del rapporto locativo.
Valga, altresì, considerare che -seppure è indubbio che la
scelta di recedere non può prescindere dall'apprezzamento
dell'attività esercitata dal conduttore, quale indicata
dall'art. 27, oppure contemplata direttamente o
indirettamente nell'art. 42 citato, con la conseguenza che,
ove la scelta di recedere sia operata da un ente pubblico,
non può prescindersi dal profilo delle attività e dei
compiti ad esso affidati- è altrettanto
certo che la qualificazione pubblicistica del conduttore,
una volta che lo stesso si sia avvalso dello strumento
privatistico, non consente di ritenere che la legittimità
del recesso sia apprezzata, dando rilievo esclusivamente
alle determinazioni perseguite dal soggetto pubblico,
seppure nell'adempimento delle sue funzioni
(cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26892, che -in una fattispecie
non dissimile a quella di cui al presente ricorso- ha
ritenuto che la decisione di un Comune di far costruire un
proprio immobile per ospitarvi detta scuola non costituisse,
di per sé, motivo idoneo di recesso anticipato dal contratto
in corso, benché il completamento dell'edificio fosse
avvenuto prima della scadenza convenzionale dello stesso e
l'operazione fosse economicamente conveniente, essendo
necessario che tale scelta fosse stata determinata da
un'esigenza oggettiva, finalizzata a soddisfare
l'interesse pubblico in questione in modo più idoneo
rispetto a quanto già non avvenisse tramite l'utilizzo del
bene condotto in locazione).
4.1. Orbene la decisione impugnata si colloca perfettamente
nell'alveo dei principi sopra indicati, giacché -muovendo
dal ragionevole presupposto che la ASL avesse assunto in
locazione un immobile idoneo all'espletamento dei servizi
sanitari localizzati (e, perciò, escludendo che la stessa
Azienda, avente in materia specifici compiti di vigilanza,
avesse adibito a strutture sanitarie locali in violazione
della normativa di settore)- ha evidenziato, come la scelta
di acquisire o liberare nuovi locali, in mancanza di
dimostrazione di situazioni in qualche modo cogenti,
costituiva espressione di una libera volontà e
determinazione del soggetto conduttore e, soprattutto,
discendeva da circostanze che avrebbero potuto e dovuto
essere prevedute, con l'ordinaria diligenza, già al momento
del rinnovo della locazione; così che essa non poteva
pregiudicare l'aspettativa del locatore alla prosecuzione
del rapporto sino alla sua scadenza.
Ciò posto e precisato, altresì, che la verifica della
sussistenza o meno degli elementi che rendono
particolarmente gravosa la prosecuzione del rapporto
locativo, quale uno dei presupposti necessari perché siano
ravvisabili "i gravi motivi" legittimanti il recesso
del conduttore ex art. 27 cit., è rimessa all'apprezzamento
del giudice di merito, risultando insindacabile in sede di
legittimità se sorretta da congrua e coerente motivazione,
rileva il Collegio che la decisione impugnata non presenta
alcuna incongruenza logico-argomentativa, dando conto in
maniera più che esauriente della valutazioni espresse.
In particolare, contrariamente a quanto opinato da parte
ricorrente, l'affermazione, secondo cui l'esistenza di
barriere architettoniche risultava non credibile, non è
affatto apodittica, trovando giustificazione nella premessa
di principio circa l'esistenza di una presunzione di
legittimità delle determinazioni assunte dalla ASL al
momento della stipula del contratto di locazione.
Né vi è alcuna insanabile contraddizione tra l'avere
ritenuto che, nella valutazione dei "gravi motivi"
occorresse avere riguardo all'attività svolta dalla ASL e
l'avere, nel contempo, escluso che rilevasse l'eventuale
mancanza di dette barriere; e ciò in quanto l'affermazione
si giustifica con il rilievo che non era stata convenuta
altra destinazione d'uso che quella generica "non
abitativa".
In disparte si osserva che le deduzioni svolte al riguardo
da parte ricorrente si rivelano prive di decisività anche
sotto altro profilo; e cioè perché non evidenziano una
situazione sopravvenuta nel corso del rapporto, dal momento
che la presenza o meno di barriere architettoniche avrebbe
dovuto essere verificata e valutata al momento della stipula
del contratto (o almeno del suo rinnovo).
In conclusione l'esame complessivo dei motivi conduce al
rigetto del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 27.08.2015 n. 17215). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sul
legittimo diniego di accesso all'esposto cui consegue un
sopralluogo da parte della Polizia Locale.
Il provvedimento di diniego del Comune è
fondato sull’art. 20, comma 2, del Regolamento sui
procedimenti amministrativi e sull’art. 329 c.p.p. e nella
parte conclusiva del provvedimento è evidenziato che
l’attività ispettiva è scaturita da un esposto anonimo che
il Comune sostiene essere stato inviato a molte autorità
pubbliche compresa la Procura della Repubblica.
La conoscenza della fonte all’origine di un controllo di
polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce
l’attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione
che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per
l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo.
Pertanto nessun vantaggio ai fini della difesa dei propri
interessi può scaturire dalla conoscenza dell’autore
dell’esposto, circostanza peraltro impossibile nel caso di
specie, poiché la denuncia è stata presentata in forma
anonima.
L’amministrazione ha esercitato il suo dovere ispettivo e la
denuncia anonima ha semmai svolto il ruolo –che non era
certamente necessario– di sollecitarne l’esercizio. E’
pertanto evidente che l'accesso alla denuncia non risponde
ad alcun interesse del ricorrente e in nessun modo incide
sul suo diritto di difesa.
... per l'accertamento del diritto all’accesso agli atti
richiesti con nota depositata il 30.03.2015;
...
Il ricorrente comproprietario di un immobile sito in Rimini
aveva visto effettuare un sopralluogo da parte di agenti di
polizia amministrativa del Comune per verificare la
conformità dello stato dei luoghi rispetto alle normative
edilizie.
Presentava una richiesta di accesso in data 30.03.2015 per
conoscere il nome dell’autore dell’esposto-denuncia che era
all’origine del sopralluogo effettuato ed il Comune non dava
seguito all’istanza entro trenta giorni.
Con il primo motivo di ricorso affermava l’illegittimità del
silenzio-rifiuto poiché l’interesse all’esibizione dei
documenti non è immediatamente preordinato a esigenze di
tutela giurisdizionale di diritti, ma richiede un semplice
interesse diretto che corrisponda ad una situazione
giuridicamente tutelata.
Nel caso di specie la rivelazione dell’autore dell’esposto è
necessaria perché dall’attività ispettiva della Polizia
Municipale è sorta una denuncia all’Autorità Giudiziaria.
Osservava, inoltre, che l’esistenza di un procedimento
penale non giustifica l’opposizione del segreto
investigativo di cui all’art. 329 c.p.p. poiché l’atto
richiesto non è un atto di indagine, ma un semplice
presupposto di successivi atti di indagine.
Nelle more tra la notifica ed il deposito del ricorso,
veniva emesso un atto formale di diniego della richiesta di
accesso che veniva impugnato con motivi aggiunti che
ricalcavano nella sostanza quanto già affermato nel ricorso
principale.
Il Comune di Rimini si costituiva in giudizio chiedendo il
rigetto del ricorso.
Il provvedimento di diniego del Comune di Rimini è fondato
sull’art. 20, comma 2, del Regolamento sui procedimenti
amministrativi e sull’art. 329 c.p.p. e nella parte
conclusiva del provvedimento è evidenziato che l’attività
ispettiva è scaturita da un esposto anonimo che il Comune
sostiene essere stato inviato a molte autorità pubbliche
compresa la Procura della Repubblica.
La conoscenza della fonte all’origine di un controllo di
polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce
l’attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione
che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per
l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo.
Pertanto nessun vantaggio ai fini della difesa dei propri
interessi può scaturire dalla conoscenza dell’autore
dell’esposto, circostanza peraltro impossibile nel caso di
specie, poiché la denuncia è stata presentata in forma
anonima.
L’amministrazione ha esercitato il suo dovere ispettivo e la
denuncia anonima ha semmai svolto il ruolo –che non era
certamente necessario– di sollecitarne l’esercizio. E’
pertanto evidente che l'accesso alla denuncia non risponde
ad alcun interesse del ricorrente e in nessun modo incide
sul suo diritto di difesa (Consiglio di Stato n.
5779/2014).
Il ricorso principale è improcedibile e quello per motivi
aggiunti infondato
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sezz. unite,
sentenza 26.08.2015 n. 784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La canna fumaria installata in un palazzo di pregio va
rimossa se altera l'estetica dell'edificio.
L’apposizione della
canna fumaria e della struttura di copertura della stessa
immuta lo stato della cosa comune eccedendo i limiti segnati
dalle concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102
c.c., impedendo un analogo uso da parte di questi ultimi ed
anzi sottraendo al loro uso, assicurato dal possesso, il
relativo beneficio derivante dalla libertà da ingombri della
porzione del bene comune.
L’uso particolare che il comproprietario faccia del bene
comune non può considerarsi estraneo alla destinazione
normale dell’area, a condizione però che si verifichi in
concreto che, per le dimensioni del manufatto o per altre
eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri
l’utilizzazione del cortile praticata dagli altri
comproprietari, né escluda per gli stessi la possibilità di
fare del bene medesimo un analogo uso particolare.
La sentenza impugnata da conto proprio della inesistenza di
tale condizione ed in particolare della alterazione della
destinazione naturale dell’area occupata con la struttura
contenente la canna fumaria e per tale ragione ha ritenuto
commettere molestia la società che aveva immutato lo stato
di fatto degradando gravemente l’estetica dell’edificio ed
alterando precedenti facoltà di utilizzazione da parte degli
altri condomini.
---------------
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione o
falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1140,
1168 e 1170 c.c. per non avere la corte di merito
considerato che si tratta di corte interna in stato di
degrado e che tutti i muri perimetrali sono 'ornati'
di tubature 'a vista'.
A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito
di diritto: "premesso che la Corte di merito ha omesso di
considerare che l'uso dei muri perimetrali della corte
interna del palazzo sito in via S. Stefano n. 35 da parte
della ricorrente sia avvenuto, giusta diritto sancito ex
art. 1102 c.c., per una esigenza di carattere primario
(riscaldamento) della propria unità immobiliare, affermi la
Suprema Corte, se, nei rapporti tra Condominio ed il singolo
condomino di un edificio condominiale sull'uso delle cose
comuni, in caso di contrasto tra le norme relative alle
distanze legali e quelle relative all'art. 1102 c.c. sulla
comunione, debbano prevalere queste ultime nel caso in cui
il singolo condomino utilizzi le parti comuni per
l'installazione di impianti qualificabili come
indispensabili per un'effettiva abitabilità del suo
appartamento, secondo le esigenze generali dei cittadini e
le moderne concezioni di igiene, ed il rispetto delle norme
sulle distanze non sia compatibile con la concreta struttura
dell'edificio. Affermi la Corte se nella fattispecie
concreta l'esigenza di riscaldare la propri unità
immobiliare comporti una deroga alla normativa sulle
distanze legali ai sensi e per effetti dell'art. 1102 c.c.".
Il mezzo non è fondato.
Nel condominio degli edifici le parti
comuni formano oggetto, a favore di tutti i condomini, di un
compossesso pro indiviso il quale si esercita diversamente a
seconda che le cose siano oggettivamente utili alle singole
unità immobiliari cui siano collegate materialmente o per
destinazione funzionale (suolo, fondazioni, muri maestri,
oggettivamente utili per la statica) oppure siano
soggettivamente utili nel senso che la loro unione materiale
o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano
dipende dall'attività dei rispettivi proprietari (portone,
anditi, scale, ascensore ecc); nel primo caso l'esercizio
del possesso consiste nel beneficio che il piano o la
porzione di piano (e, per traslato, il proprietario) trae da
tali utilità, nel secondo caso si risolve nell'espletamento
della predetta attività da parte del proprietario.
Ciò posto, il godimento delle cose comuni
da parte dei singoli condomini assurge ad oggetto di tutela
possessoria quando uno di loro abbia alterato e violato,
senza il consenso degli altri condomini ed in loro
pregiudizio, lo stato di fatto o la destinazione della cosa
oggetto del comune possesso, in modo da impedire o da
restringere il godimento spettante a ciascun compossessore
pro indiviso sulla cosa medesima
(Cass. 26.01.2000 n. 855; Cass. 11.03.1993 n. 2947; Cass.
21.07.1988 n. 4733; Cass. 18.07.1984 n. 4195).
La modifica di una parte comune e della sua
destinazione ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la
cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di
tutti i condomini, legittima di conseguenza gli altri
condomini all'esperimento dell'azione di reintegrazione per
conseguire la riduzione della cosa al pristino stato in modo
che essa possa continuare a fornire quella utilitas
alla quale era asservita anteriormente alla contestata
modificazione, senza che sia necessaria la specifica prova
del possesso di detta parte quando risulti che essa consista
in una porzione immobiliare in cui l'edificio si articola
(Cass. 13.07.1993 n. 7691).
Nella specie la corte di merito —premesso di avere
verificato lo stato del fabbricato— ha accertato, con
apprezzamento non censurabile in Cassazione, che
la canna in contestazione aveva dimensioni non
trascurabili, rappresentata come era da una sovrastruttura
apposta nella facciata del palazzo condominiale priva di
qualsiasi collegamento dal punto di vista architettonico o
funzionale con la parete esterna dell'edificio, per cui
alterava notevolmente l'estetica dell'edificio, pure
bisognevole di manutenzione, e costituiva un elemento di
grave degrado.
Inoltre sussisteva anche la lamentata
turbativa al godimento della luce proveniente dalla finestra
collocata proprio al di sotto della canna fumaria,
evincibile dalle foto prodotte, in quanto l'ingombro della
struttura provoca ombra sulla finestra dell'appartamento,
diminuendone la luminosità.
Pertanto, la decisione di accoglimento della domanda di
manutenzione nel possesso proposta dai condomini Collina e
Berti si presenta corretta, incidendo detta struttura
sull'estetica dello stabile, oltre a notevolmente ridurre la
luce nella stanza che affaccia dalla finestra sottostante la
canna.
Il giudice di merito, insomma, ha correttamente ritenuto che
con la apposizione della canna fumaria e della struttura di
copertura della stessa la condòmina aveva immutato lo stato
della cosa comune eccedendo i limiti segnati dalle
concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102 c.c.,
impedendo un analogo uso da parte di questi ultimi ed anzi
sottraendo al loro uso, assicurato dal possesso, il relativo
beneficio derivante dalla libertà da ingombri della porzione
del bene comune (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 24.08.2015 n. 17072). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Nessuno
deve sapere il nome del Comune sciolto per mafia.
Privacy e giustizia amministrativa in cerca d’intesa sulla
pubblicazione dei nomi delle parti litiganti.
Tar del Lazio. Giunta «in chiaro» ma non la città.
Un recente episodio
è quello espresso dalla
sentenza
22.08.2015 n. 10899 del TAR Lazio-Roma -Sez. I-
sullo scioglimento per condizionamento mafioso di un
consiglio comunale calabro. Gli argomenti trattati sono
delicati, perché individuano i rapporti tra potere politico
e consorterie locali; il verdetto finale è sfavorevole agli
amministratori pubblici, che in gruppo (sindaco e
consiglieri comunali), si erano rivolti al Tar contestando
il decreto del Capo dello Stato e la relazione ministeriale
densa di riferimenti ad appalti e opacità.
I nomi degli amministratori sono in chiaro, ma la privacy ha
risparmiato il nome del Comune legittimamente commissariato.
Ci si domanda ora quale interesse vi possa essere a
mantenere riservato il nome del Comune mentre sono
chiaramente individuati gli amministratori che con il loro
comportamento poco trasparente hanno generato lo
scioglimento. Oltretutto, a suo tempo la Gazzetta Ufficiale
riportava in chiaro la località interessata, sia nel decreto
di scioglimento sia nell’ampia relazione prefettizia
giustificativa dello scioglimento. E inoltre, la sentenza
ritiene infondato il ricorso degli amministratori avverso lo
scioglimento e quindi conferma la legittimità della misura
governativa.
Peraltro i cittadini amministrati e tutti i soggetti che
intrattenevano rapporti con l’ente locale (fornitori, altri
soggetti pubblici) da più di un anno erano a conoscenza
dello scioglimento, non essendovi più né un sindaco in
carica né giunta né altri componenti di organi elettivi:
quindi la privacy sembra stata applicata per evitare un
generico disonore a largo raggio, sul territorio nazionale.
Potrebbe a questo punto pensarsi a un errore della
segreteria del Tar, che ha cancellato il nome della Comune
invece del nome degli amministratori ricorrenti: ma in
questi termini il problema sposta su un piano ancor più
delicato.
Se infatti esistono provvedimenti di portata generale, che
interessano la collettività qualificandola come male
amministrata, la privacy dei singoli (gli amministratori)
deve retrocedere rispetto all’interesse generale a conoscere
la sentenza che chiarisce cosa sia avvenuto nell’ente locale
(Africo, Rc, nel caso specifico). E ciò deve valere sia per
i provvedimenti di scioglimento (che infatti sono
integralmente pubblicati in Gazzetta Ufficiale, e quindi su
internet) sia per le sentenze che confermano la legittimità
di tali provvedimenti.
Il ragionamento si presta a significative estensioni, poiché
la giustizia amministrativa di frequente affronta problemi
di ampio interesse, quali quelli antitrust, tutela
consumatori, appalti, privatizzazioni, infrastrutture
strategiche, incentivi, investimenti pubblici (swap), per i
quali, giunti alla sentenza, è importante conoscere tutti
gli aspetti esaminati nell’interesse della giustizia.
Un settore critico riguarda la gestione delle liti su
infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici: spesso le
sentenze su queste liti sono oscurate e rendono anonime (e
sostanzialmente meno utili) pronunce molto ben argomentate
in diritto su situazioni giudicate compromesse (per tutte,
Consiglio di Stato n. 3653/2015 sulla gara per la vigilanza
alle sedi della Banca d’Italia).
Sarebbe utile, oltre che logico, che almeno le sentenze
dalle quali può desumersi l’esistenza delle infiltrazioni
(cioè le sentenze di rigetto dei ricorsi delle imprese)
siano gestite assicurando spazio alla privacy dei litiganti,
ma tutelando anche l’interesse generale che non solo è
presente in ogni pronuncia del giudice, ma e lo è
maggiormente quando le pronunce tentano di arginare
operazioni poco trasparenti che danneggiano la comunità (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2015). |
APPALTI: La p.a. morosa paga le sanzioni.
È quanto ribadito dal Trga di Trento.
È giuridicamente, oltre che moralmente, obbligatorio
provvedere al pagamento dei debiti efficacemente contratti,
quale l'indennizzo riconosciuto dagli organi giurisdizionali
dello Stato italiano e posto a carico dello stesso Stato, in
conformità alle norme primarie approvate dal Parlamento, e
pertanto non può essere considerato «manifestamente iniquo»
(ex articolo 114, comma 4, lettera e, del codice del
processo amministrativo) imporre una sanzione a carico
dell'Amministrazione statale che non ha corrisposto quanto
dovuto.
Lo ha ribadito il TRGA Trentino Alto Adige-Trento con la
sentenza
21.08.2015 n. 344.
Inoltre, i giudici amministrativi trentini hanno evidenziato
che per quanto riguarda le altre «ragioni ostative», come
genericamente si esprime la sopra cennata disposizione del
cod. proc. amm., e che, parimenti, dovrebbero giustificare
la sottrazione dell'Amministrazione al pagamento della pena
pecuniaria, «va ribadito che tali ragioni, per evitare
un'applicazione del tutto arbitraria della norma, non
possono essere che oggettive e contingenti, quali il caso
fortuito e la forza maggiore, e devono aver realmente
impedito il tempestivo adempimento dell'obbligazione
nascente dal titolo giudiziario».
E inoltre circa la decorrenza dell'astreinte, i giudici
trentini nella sentenza in commento hanno sottolineato come
questa decorra dalla data di notificazione del ricorso di
ottemperanza e vada computata sino al momento in cui
l'Amministrazione intimata esegue il pagamento imposto con
la decisione pronunciata dal giudice di merito, o fino a
quello, eventualmente diverso, in cui il Commissario ad acta
abbia intrapreso il procedimento per l'individuazione delle
risorse necessarie al pagamento della somma spettante al
ricorrente, dopo averne determinato in attualità l'importo,
e ne abbia dato comunicazione all'amministrazione debitrice
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
9. Ciò posto, va rilevato che il ricorso per ottemperanza in
esame è fondato e va accolto nei limiti e con le
precisazioni che seguono.
10. Invero, il decreto di condanna
pronunciato ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89/2001, ha
natura decisoria in materia di diritti soggettivi, ed è
perciò idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato
ai fini dell’ammissibilità del ricorso per ottemperanza
(ex multis: Trga di Trento, sentenze n. 136/2014,
74/2013).
11. Nel caso di specie, il decreto pronunciato dalla Corte
trentina è passato in giudicato e risulta decorso il termine
di 120 giorni di cui all’art. 14, co. 1, del D.L. n.
669/1996, convertito con modificazioni nella legge n.
30/1997.
12. Ne consegue che, in primis, va
dichiarato l’obbligo del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, nella persona del Dirigente Generale responsabile
per settore, di conformarsi al giudicato di cui in epigrafe,
provvedendo al pagamento in favore della ricorrente della
somma di Euro 16.000,00 oltre –come stabilito nel decreto
decisorio- agli interessi legali decorrenti dalla data di
introduzione della domanda avanti alla Corte trentina fino
all’effettivo saldo.
13. Non possono, viceversa, esser accolte
le domande di rivalutazione monetaria e di (generico)
risarcimento, non avendo l’interessata dimostrato, neppure
in via indiziaria, l’esistenza di un danno ulteriore
rispetto all’importo corrispondente agli interessi legali
maturati e maturandi,
la cui spettanza è stata riconosciuta nel decreto decisorio
(Trga di Trento, n. 63/2014 e n. 323/2013; Tar Lombardia
Milano, sez. III, n. 3061/2012).
14. Deve inoltre precisarsi che, nella fattispecie in esame,
non compete alla ricorrente neppure la rifusione delle spese
liquidate dalla Corte trentina.
Invero, le spese giudiziali erano state distratte dal
Giudice a favore dei difensori, da ciò conseguendo
l’integrale sostituzione di questi ultimi nel diritto di
credito al riguardo ottenuto nei confronti della controparte
(Cass. civ. S.U. 07.07.2010, n. 16037).
Peraltro, nel presente giudizio di ottemperanza, il
procuratore in delega della ricorrente non agisce in
proprio, ma esclusivamente quale rappresentante e difensore
della propria assistita, di talché la domanda si appalesa
priva della necessaria legittimazione (cfr. Trga di Trento,
n. 343/2014).
15. Ciò posto, il pagamento delle somme effettivamente
dovute dovrà avvenire nel termine di 40 (quaranta) giorni,
decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione in
via amministrativa (o, se anteriore, dalla data di
notificazione ad istanza di parte) della presente decisione.
16. Nella eventualità di inutile decorso del predetto
termine, si nomina sin d’ora, quale Commissario ad acta,
direttamente il Ragioniere Generale dello Stato, senza
possibilità di delega ad altro Dirigente, per le ragioni
ampiamente esposte nella sentenza di questo stesso Tribunale
n. 279/2014, che qui si intendono riportate.
17. Il Commissario provvederà a porre in essere tutti i
necessari adempimenti entro i successivi giorni 60
(sessanta), su semplice richiesta scritta della parte.
18. Passando alla disamina dell’ ulteriore
domanda di “astreinte”, va ribadito che questo
Tribunale, a seguito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato 25.06.2014, n. 15, riconosce
l’applicabilità dell’istituto anche nella fattispecie di
mancata esecuzione dei decreti di condanna al pagamento di
somme di denaro, ex lege Pinto.
19. Al Collegio è noto che una parte della giurisprudenza
amministrativa sostiene che, in subiecta materia,
l’esigenza di contenimento della spesa pubblica in ragione
delle condizioni di crisi della finanza pubblica e
dell’ammontare del debito pubblico giustificherebbe la
mancata condanna della parte pubblica al pagamento dell’astreinte.
20. Tuttavia, con le recenti sentenze n. 193 e 196/2015,
questo Tribunale ha già preso posizione su tale profilo.
Nelle predette decisioni, che qui si intendono richiamate
per esteso, si è infatti rilevato che è
giuridicamente, oltre che moralmente, obbligatorio
provvedere al pagamento dei debiti efficacemente contratti,
quale l’indennizzo (che trova fondamento nell’art. 6 della
Convenzione EDU) riconosciuto dagli organi giurisdizionali
dello Stato italiano e posto a carico dello stesso Stato, in
conformità alle norme primarie approvate dal Parlamento, di
talché non può essere considerato “manifestamente iniquo”
(ex art. 114, co. 4, lett. e, del cod. proc. amm.)
imporre una sanzione a carico dell’Amministrazione
statale che non ha corrisposto quanto dovuto.Inoltre, quanto
alle altre “ragioni ostative”, come genericamente si
esprime la sopra cennata disposizione del cod. proc. amm., e
che –parimenti- dovrebbero giustificare la sottrazione
dell’Amministrazione al pagamento della pena pecuniaria, va
ribadito che tali ragioni, per evitare un’applicazione del
tutto arbitraria della norma, non possono essere che
oggettive e contingenti, quali il caso fortuito e la forza
maggiore, e devono aver realmente impedito il tempestivo
adempimento dell’obbligazione nascente dal titolo
giudiziario.
A riguardo della decorrenza, ancora, questo Tribunale ha già
rilevato, nelle recenti e sopra citate decisioni, che
entrambe le locuzioni dell’art. 114, co. 4, lett. e del cod.
proc. amm. (tanto cioè il “ritardo nell’esecuzione”,
quanto la “violazione o inosservanza successiva”) si
riferiscono al “giudicato”: tale non può essere la
sentenza di ottemperanza, posto che ne costituisce
l’oggetto, ed è dunque il provvedimento giurisdizionale da
eseguire.
21. Peraltro, come già precisato (ex multis: Trga di
Trento, 25.11.2014, n. 435), l’astreinte
decorre dalla data di notificazione del ricorso di
ottemperanza e va computata sino al momento in cui
l’amministrazione intimata esegue il pagamento imposto con
la decisione pronunciata dal giudice di merito, o fino a
quello, eventualmente diverso, in cui il Commissario ad
acta abbia intrapreso il procedimento per
l’individuazione delle risorse necessarie al pagamento della
somma spettante al ricorrente, dopo averne determinato in
attualità l’importo, e ne abbia dato comunicazione
all’amministrazione debitrice
(Trga di Trento, 08.10.2014, n. 343).
22. Per quel che diversamente concerne la quantificazione
della somma dovuta, la penalità di mora va
calcolata in percentuale (utilizzando il parametro
individuato dalla Corte EDU) rispetto agli importi stabiliti
nel decreto della cui esecuzione si tratta, costituiti dal
capitale riconosciuto a titolo risarcitorio, con esclusione
da tale computo degli interessi comunque maturati, e dalle
spese di lite liquidate, con esclusione, tuttavia, di quanto
dovuto a titolo di C.N.P.A., I.V.A. ed altri oneri di legge
(cfr. Trga di Trento, 24.09.2014, sentenze numero 318 e
319).
23. In merito, infine, all’entità della predetta
percentuale, va applicato l’interesse
semplice al tasso equivalente a quello stabilito per le
operazioni di rifinanziamento marginale della Banca Centrale
Europea, applicabile durante il periodo di tempo sopra
evidenziato, maggiorato di tre punti percentuali
(Trga di Trento, 25.11.2014, n. 435).
24. Nella fattispecie in esame sussistono, con le
precisazioni sopra esposte, le condizioni previste dall’art.
114, co. 4, lett. e), del cod. proc. amm., per
l’applicazione dell’astreinte, la cui domanda va pertanto
accolta con decorrenza dal 10.12.2014, data del
perfezionamento della notificazione del presente ricorso,
fino al momento del pagamento delle somme come sopra dovute,
ovvero fino all’intervento attivo del Commissario ad acta,
secondo quanto sopra esposto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La movida non è un reato Per i bar solo una
multa.
Non commette reato di disturbo della quiete pubblica
l'esercizio commerciale (nella specie un bar della movida)
anche se rumoroso. Se il gestore è autorizzato a fare musica
fino a tarda notte la sola pena prevista è la sanzione
amministrativa, perché la sua attività va considerata come
esercizio di un mestiere rumoroso.
Queste le precisazioni contenute nella
sentenza 18.08.2015 n. 34920
della Corte di Cassazione, III Sez. penale.
I giudici di Cassazione ribadiscono il principio che i
rumori molesti provenienti da un bar integrano la
fattispecie di cui all'articolo 659, secondo comma, codice
penale quando provengano da attività strettamente connesse e
necessarie all'esercizio del bar stesso.
In particolare, l'attività di un bar regolarmente
autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto
fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di
diffusione sonora, deve essere classificata come esercizio
di un «mestiere rumoroso», proprio perché in tal caso
l'utilizzazione degli strumenti musicali e di diffusione
acustica deve considerarsi strettamente connesso e
indispensabile all'esercizio dell'attività autorizzata. Deve
ricordarsi, infatti, che, l'articolo 659 codice penale
prevede due autonome fattispecie di reato configurate
rispettivamente dal primo e dal secondo comma.
L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte
del rumore prodotto, giacché ove esso provenga
dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi
la condotta rientra nella previsione del secondo comma del
citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza
rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni
dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica
tranquillità.
Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate
dall'esercizio della attività lavorativa, ricorre l'ipotesi
di cui al primo comma dell'articolo 659 codice penale, per
la quale occorre che i rumori superino la normale
tollerabilità e investano un numero indeterminato di
persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Stop
al commercio ambulante dei Raee.
Non è ammesso il commercio ambulante dei rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee). Non
possono essere oggetto dell'autorizzazione al commercio
ambulante di cui all'articolo 266, 5° comma, del dlgs n. 152
del 2006 le tipologie di rifiuti che per la loro peculiarità
sono autonomamente disciplinate.
Questo è quanto si legge nella
sentenza 17.08.2015 n. 34917 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale.
La deroga prevista dall'articolo 266, 5° comma, del dlgs n.
152 del 2006 per l'attività di raccolta e trasporto di
rifiuti da parte dei terzi, effettuata in forma ambulante,
opera qualora ricorra la duplice condizione che il
soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per
l'esercizio di attività di commercio ambulante (dlgs
31.03.1998 n. 114) e dall'altro che si tratti di rifiuti
oggetto del suo commercio.
La disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal
contenuto letterale del 5° comma dell'articolo 266 del dlgs
n. 152 del 2006 e precisamente dall'ultima parte della
disposizione, laddove l'esonero dall'osservanza della
disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli
rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto
abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore
merceologico entro il quale il commerciante è abilitato ad
operare deve essere oggetto di adeguata verifica, così come
la riconducibilità del rifiuto trasportato all'attività
autorizzata.
La deroga è giustificata dalla valutazione di minor
pericolosità per la salute e per l'ambiente operata dal
legislatore con riguardo ad un attività che poteva
ricondursi a quella dei «robivecchi», dovendosi nel
contempo escludere che la disciplina in esame possa essere
utilizzata per legittimare attività diverse che richiedono,
invece il rispetto delle disposizioni di carattere generale.
Dall'ordinanza impugnata risultava che l'oggetto
dell'autorizzazione al commercio di cui disponeva l'indagato
era «commercio su aree pubbliche itinerante di metalli,
carta, cartone nonché elettrodomestici usati e ricambi usati
di elettrodomestici» mentre il mezzo risultava
trasportare materiale ferroso.
Deve pertanto escludersi la possibilità della raccolta del
trasporto e del commercio in forma ambulante dei rifiuti
pericolosi, anch'essi oggetto di attenzione da parte del
legislatore
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2015).
---------------
massima
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Messina, con ordinanza del 30/04/2015 ha
accolto la richiesta di riesame presentata nell'interesse di
D. Di C., annullando il decreto di sequestro preventivo
emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di Patti in data 08/04/2015 e concernente un autocarro ed il
suo contenuto (materiale ferroso, parti meccaniche di
autovetture, 2 batterie per camion, 1 batteria per auto,
elettrodomestici in disuso, cavi in acciaio, travi in ferro,
per un peso approssimativo di kg 300), ipotizzandosi il
reato di cui all'art. 256, comma 1, lettere a) e b), d.lgs.
152/2006.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina.
2. Con un unico motivo di ricorso rileva che erroneamente i
giudici del riesame avrebbero riconosciuto la legittimazione
ad impugnare dell'indagato sul presupposto che, pur essendo
il mezzo intestato alla moglie, egli avrebbe avuto interesse
alla restituzione trattandosi di mezzo adibito all'esercizio
dell'attività.
Altrettanto errata sarebbe stata, inoltre, la valutazione
sulla insussistenza del fumus del reato, avendo il
Tribunale ritenuto applicabile la deroga di cui all'art.
266, comma 5, d.lgs. 152/2006 relativa alle attività di
raccolta e trasporto di rifiuti effettuate in forma
ambulante, essendo l'indagato fornito di licenza rilasciata
dal comune di Palermo per l'esercizio del commercio
ambulante sul territorio comunale con esclusione di alcune
piazze e che i giudici del riesame avrebbero ritenuto
valida anche in altri territori, diversi da quello di
residenza, sulla base di una circolare interpretativa
dell'art. 1 della legge regionale 18/1995 emanata
dall'assessorato regionale delle attività produttive,
dimenticando, tuttavia, che l'art. 2, comma 8, della legge
medesima subordina tale estensione territoriale della
validità della licenza al nulla osta dei comuni ove
l'attività viene svolta.
Osserva, inoltre, che, diversamente da quanto asserito dai
giudici del riesame, il mezzo sequestrato trasportava anche
rifiuti pericolosi, quali le batterie e le parti di
autoveicoli.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
Risulta dal ricorso e dal provvedimento impugnato che
l'indagato era stato sorpreso dalla polizia giudiziaria
mentre, unitamente al figlio, trasportava i rifiuti indicati
in precedenza con un autocarro intestato alla moglie ed
essendo in possesso di una dichiarazione di inizio attività
per il commercio al dettaglio ambulante e di una
autorizzazione del comune di Palermo per il commercio
itinerante nel settore non alimentare.
Precisa il Tribunale che, dalla visura camerale versata in
atti risulta che oggetto dell'attività è il «commercio su
aree pubbliche itinerante di rottami metallici, carta,
cartone, nonché di elettrodomestici usati e ricambi usati
per elettrodomestici».
2. Affrontando preliminarmente la questione concernente la
legittimazione alla proposizione del riesame in capo
all'indagato, in quanto non proprietario del mezzo
sequestrato, i giudici del riesame hanno ritenuto
determinante il fatto che il predetto, nonostante
l'autocarro fosse formalmente intestato alla moglie, era da
lui utilizzato nell'esercizio della sua attività.
La decisione, sul punto, non merita le censure formulate dal
Pubblico Ministero ricorrente, atteso che, secondo quanto
verificato dai giudici del riesame, l'indagato avrebbe avuto
interesse alla restituzione del mezzo, solo formalmente
intestato alla moglie e da lui utilizzato per l'esercizio
dell'attività.
Una tale evenienza, accertata in fatto, evidenzia, invero,
quella relazione con il bene sequestrato che sostiene la
pretesa dell'indagato non proprietario del bene in sequestro
alla cessazione del vincolo richiesta dalla giurisprudenza
di questa Corte menzionata anche nel provvedimento impugnato
e nel ricorso (cfr. Sez. 1, n. 15998 del 28/02/2014, Pascale,
Rv. 259601; Sez. 1, n. 7292 del 12/12/2013 (dep. 2014),
Lesto, Rv. 259412; Sez. 6, n. 11496 del 21/10/2013 (dep.
2014), Castellaccio, Rv. 262612 ed altre prec. conf.,
sebbene si rinvenga un diverso indirizzo, che ritiene
l'indagato sempre legittimato al riesame indipendentemente
dal fatto che i beni siano sottratti alla sua disponibilità
o a quella di terzi, segnalato con la Rel. n. 57/14 del
22.10.2014 dell'Ufficio del massimario e del ruolo).
Né risulta pertinente il richiamo, operato dal ricorrente,
ad altra decisione di questa Sezione, concernente un caso
analogo (Sez. 3, n. 32816 del 24/04/2013, Di C., non
massimata) in quanto, in quel caso, richiamato il principio
di diritto appena ricordato, si è esclusa la legittimazione
dell'indagato perché aveva evidenziato soltanto di avere
utilizzato il mezzo sequestrato per il trasporto di
materiale ferroso e che l'autocarro apparteneva "ad un
terzo soggetto estraneo al reato, il quale verrebbe
gravemente pregiudicato" dal vincolo reale sul mezzo.
Quanto rilevato nel caso in esame dal
Tribunale, dunque, risulta sufficiente per giustificare la
legittimazione dell'indagato, impregiudicata restando,
peraltro, la posizione del terzo proprietario sia per ciò
che concerne l'eventuale corresponsabilità nella violazione
sia per le conseguenze ulteriori, quali la confisca
obbligatoria (cfr.
Sez. 3, n. 46012 del 04/11/2008, Castellano, Rv. 241771).
3. Ciò posto, va invece rilevata la fondatezza
dell'ulteriore censura concernente l'operatività, nella
fattispecie, della deroga prevista dall'art. 266, comma 5,
d.lgs. 152/2006.
Sul tema questa Corte si è ripetutamente espressa, giungendo
alla conclusione che la condotta sanzionata
dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 è riferibile a
chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo
abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili
ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e
216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo
secondario o consequenziale all'esercizio di una attività
primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei
titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità ed, inoltre, che la deroga prevista
dall'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 per l'attività di
raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi,
effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la
duplice condizione che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e,
dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del
suo commercio
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, P.M. in proc. Lazzaro, Rv.
260266, cui si rinvia per i richiami ai precedenti. Conf.
Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 (dep. 2015), P.M. in proc.
Seferovic, Rv. 261959).
In quella occasione si è in particolare rilevato,
richiamando precedenti arresti, che, tenendo presente quanto
stabilito dal d.lgs. 114/1998, deve farsi in primo luogo
riferimento alla definizione, contenuta nell'art. 4, comma
1, lett. b) di «commercio al dettaglio», descritto
come «l'attività svolta da chiunque professionalmente
acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su
aree private in sede fissa o mediante altre forme di
distribuzione, direttamente al consumatore finale» e che
la disciplina astrattamente applicabile è quella regolata
dal Titolo X, relativo al commercio al dettaglio su aree
pubbliche, queste ultime definite, dall'art. 27, comma 1,
lett. b), come «le strade, i canali, le piazze, comprese
quelle di proprietà privata gravate da servitù di pubblico
passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata
ad uso pubblico».
L'attività commerciale esercitabile è, inoltre, quella
indicata dall'art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che
può essere svolta «su qualsiasi area purché in forma
itinerante» e soggetta all'autorizzazione di cui al
successivo comma 4, rilasciata, in base alla normativa
emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente,
persona fisica o giuridica, intende avviare l'attività.
Veniva ulteriormente chiarito che il raccordo tra le
disposizioni in tema di commercio e l'art. 266, comma 5,
d.lgs. 152/2006, considerato il tenore letterale delle
prime, è reso particolarmente arduo, pur evidenziando che
ciò non autorizza una forzata estensione dell'ambito di
operatività della disciplina dettata dal d.lgs. 114/1998,
che risulta compiutamente definita, né di quella dell'art.
266, comma 5, che, riguardando la materia dei rifiuti,
richiede una lettura orientata all'osservanza dei principi
generali comunitari e nazionali e, prevedendo un esclusione
dal regime generale dei rifiuti, impone sicuramente
un'applicazione restrittiva.
Si puntualizzava, inoltre, che l'applicazione della
disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal
contenuto letterale dell'art. 266, comma 5, e, segnatamente,
dell'ultima parte della disposizione, laddove l'esonero
dall'osservanza della disciplina generale è chiaramente
circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del
commercio del soggetto abilitato, con la conseguenza che la
verifica del settore merceologico entro il quale il
commerciante è abilitato ad operare deve essere oggetto di
adeguata verifica, così come la riconducibilità del rifiuto
trasportato all'attività autorizzata.
Si osservava, poi, che la deroga è giustificata dalla
valutazione di minor pericolosità per la salute e per
l'ambiente operata dal legislatore con riguardo ad una
attività che poteva pacificamente ricondursi a quella dei
c.d. robivecchi, dovendosi nel contempo escludere che la
disciplina in esame possa essere utilizzata per legittimare
attività diverse che richiedono, invece, il rispetto delle
disposizioni di carattere generale.
4. Ciò posto, emerge in primo luogo dall'ordinanza impugnata
che l'oggetto dell'autorizzazione al
commercio di cui disponeva l'indagato era, come si è già
detto, il «commercio su aree pubbliche itinerante di
rottami metallici, carta, cartone, nonché di
elettrodomestici usati e ricambi usati per elettrodomestici»,
mentre il mezzo risultava trasportare, sempre secondo quanto
descritto nell'ordinanza, materiale ferroso, parti
meccaniche di autovetture, batterie per camion e per auto,
elettrodomestici in disuso, cavi in acciaio, travi in ferro.
Dalla semplice descrizione di quanto trasportato emerge
chiaramente la solo parziale coincidenza con l'oggetto
dell'autorizzazione e ciò per quanto concerne i «rottami
metallici», mentre altri rifiuti trasportati rientrano
in categorie specifiche ed autonomamente disciplinate.
Gli «elettrodomestici in disuso», che non possono
quindi considerarsi come «usati», sono infatti
compresi tra i rifiuti elettrici ed elettronici (RAEE)
disciplinati dal d.lgs. 14.03.2014, n. 49, mentre le parti
meccaniche di autovetture sono specificamente considerate
dalle disposizioni riguardanti i veicoli fuori uso (art. 231
d.lgs. 152/2006 e d.lgs. 209/202003) e pile, accumulatori e
relativi rifiuti sottostanno alle disposizioni contenute nel
d.lgs. 188/2008.
Pare evidente, avuto riguardo alle finalità perseguite con
la deroga di cui all'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 che
tali categorie particolari di rifiuti, che vengono
separatamente considerate dal legislatore per la loro
particolarità, possano rientrare tra quelli considerati ai
fini della deroga medesima, se non altro perché la loro
gestione risulta disciplinata in ragione della particolarità
del rifiuto, prevedendosi, ad esempio, specifiche
disposizioni per la raccolta ed il trasporto, cosicché deve
escludersi che tali tipologie di rifiuti possano essere
raccolte, trasportate e commercializzate in forma ambulante
in deroga, quindi, non soltanto alle disposizioni di cui
agli artt. 189, 190, 193 e 212 del d.lgs. 152/2006 ma anche
ad altre disposizioni appositamente dettate per categorie
particolari di rifiuti.
5. Deve conseguentemente affermarsi che la
deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del d.lgs.
152/2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia
in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114 e che si tratti di rifiuti che formano
oggetto del suo commercio non opera con riferimento a
categorie di rifiuti che, per la loro peculiarità, sono
autonomamente disciplinate.
6. Parimenti, come correttamente si è osservato in ricorso,
deve escludersi la possibilità della raccolta del trasporto
e del commercio in forma ambulante dei rifiuti pericolosi,
anch'essi oggetto di particolare attenzione da parte del
legislatore.
Ne consegue che, avuto riguardo alla natura dei rifiuti
trasportati, risulta errata la valutazione di piena
compatibilità con l'oggetto del titolo abilitativo
effettuata dai giudici del riesame. Ciò indipendentemente
dalla pericolosità o meno del rifiuto che dipende, in ogni
caso, secondo quanto stabilito, dall'art. 184 d.lgs.
152/2006, dalla mera presenza delle caratteristiche di cui
all'allegato I della Parte Quarta del presente decreto e
che, nel caso in esame, sarebbe stata comunque documentata,
secondo quanto affermato in ricorso, dal verbale di
sequestro e compiutamente contestata nell'incolpazione
provvisoria e che, avuto riguardo alla natura sommaria del
procedimento incidentale, non avrebbe dovuto comunque essere
provata come invece ritenuto nell'ordinanza impugnata. |
PUBBLICO IMPIEGO: Tutela forte sugli incarichi.
DIRIGENZA/ Ente contrattante ko.
Il mancato conseguimento dell'incarico dirigenziale a
seguito di indizione di pubblico concorso è lesione di
interesse legittimo e, pertanto, il funzionario dell'ente
pubblico contrattante ne risponde a titolo di responsabilità
aquiliana.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 31.07.2015 n. 16276.
I giudici di piazza Cavour hanno osservato che la
risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è
espressamente prevista dalla legge (art. 7, comma 4, dlgs 02.07.2010 n. 104) e da un punto di vista giurisprudenziale
sin dal 1999 le Sezioni Unite della medesima Cassazione
hanno ammesso la risarcibilità del danno da lesione
d'interessi legittimi (si veda: Cass. 500/1999), infatti nella
medesima sentenza si legge che il c.d. danno ingiusto di cui
all'art. 2043 c.c. può consistere tanto nella lesione d'un
diritto soggettivo assoluto, quanto nella lesione d'un
diritto soggettivo relativo; quanto, infine, nella lesione
d'un interesse legittimo come pure d'ogni altra situazione
giuridica soggettiva «presa in considerazione
dall'ordinamento».
Gli Ermellini hanno altresì evidenziato come la lesione di
un interesse legittimo non possa derivare che da una
condotta della pubblica amministrazione, poiché solo a
fronte dei poteri autoritativi di cui questa è titolare può
concepirsi quella situazione giuridica soggettiva; «ma è
altresì vero che in tema di responsabilità aquiliana vige la
regola dell'equivalenza delle condotte di cui all'art. 2055
c.c.: pertanto, se la p.a. con un proprio provvedimento
viola un interesse legittimo, a provocare tale danno
concorre anche il funzionario che quel provvedimento adotta
ovvero non ostacola».
I Supremi giudici hanno, infine, osservato che si impone
oggi una lettura nuova e costituzionalmente orientata
dell'art. 23 dpr 3/1957, e pertanto «l'espressione
«violazione dei diritti dei terzi» deve intendersi quale
sinonimo di «violazione degli interessi protetti dei terzi»
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La Corte di Giustizia, conformante al principio <<chi
inquina paga>>, ha stabilito che l’obbligo di
riparazione incombe agli operatori solo in misura
corrispondente al loro contributo al verificarsi
dell’inquinamento o al rischio di inquinamento.
L’articolo 239 del Testo Unico dell’Ambiente nel formulare i
principi generali in materia di rifiuti e di bonifiche dei
siti contaminati -applicabili anche alla procedura
semplificata qui in questione in ragione della superficie
coinvolta inferiore a 1000 metri quadrati- richiama i
principi e le norme comunitarie con particolare riferimento
al principio <chi inquina paga>, ora contenuto anche
dall’articolo 3-ter del TUA.
Il cardine di tale principio consiste nell’imputazione dei
costi ambientali al soggetto che ha causato la
compromissione ecologica, così come affermato dalla Corte di
Giustizia nell’ordinanza 09.03.2010 nelle cause riunite
C-478/08 e C. 479/08 (<<conformemente al principio “chi
inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe agli
operatori solo in misura corrispondente al loro contributo
al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di
inquinamento>>).
In conformità a tale principio, gli articoli 242, comma 1, e
244, comma 2, del TUA stabiliscono che, riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza
(d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica
amministrazione solamente ai soggetti “responsabili
dell’inquinamento”, quindi ai soggetti che abbiano in tutto
o in parte generato la contaminazione tramite un proprio
comportamento commissivo od omissivo, legato
all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
L’articolo 244 del TUA è inequivoco nell’affermare che,
individuato un fenomeno di contaminazione, devono essere
svolte le “opportune indagini volte ad identificare il
responsabile dell’evento di superamento”.
Coerentemente con il suddetto principio del “chi inquina
paga” l’allegato 4 pone gli obblighi di caratterizzazione,
analisi rischio e di bonifica e messa in sicurezza in capo
al soggetto “responsabile”.
Nessun dubbio sussiste in conseguenza sul fatto che il
soggetto obbligato alla caratterizzazione, all’analisi di
rischio e alla bonifica o alla messa in sicurezza debba
essere l’autore del comportamento che ha causato la
contaminazione, che è concettualmente distinto dagli altri
possibili soggetti coinvolti o interessati e segnatamente
dal proprietario delle aree contaminate.
E’ quindi necessario un rigoroso accertamento al fine di
individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del
nesso di causalità che lega il comportamento del
responsabile all’effetto consistente nella contaminazione.
Tale accertamento presuppone una adeguata istruttoria non
essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva
facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile
in ragione di tale sola qualità.
Il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non
potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni.
8.- I ricorrenti assumono che la sentenza gravata ed
anche gli atti impugnati in primo grado non avrebbero
chiarito il titolo di coinvolgimento di essi ricorrenti
nella procedura di analisi del rischio sito specifica; che
sarebbe stato loro addebitato l’onere esclusivamente perché
proprietari del sito inquinato; che tale comportamento
contravverrebbe ai principi desumibili dal codice
dell’ambiente ed al principio comunitario del “chi inquina
paga”, ultimamente confermato dalla Corte di Giustizia della
UE con la pronuncia del 04.03.2015, in concausa C –
534/13.
La censura è fondata.
8.1- L’articolo 239 del Testo Unico dell’Ambiente nel
formulare i principi generali in materia di rifiuti e di
bonifiche dei siti contaminati -applicabili anche alla
procedura semplificata qui in questione in ragione della
superficie coinvolta inferiore a 1000 metri quadrati-
richiama i principi e le norme comunitarie con particolare
riferimento al principio <chi inquina paga>, ora contenuto
anche dall’articolo 3-ter del TUA.
Il cardine di tale principio consiste nell’imputazione dei
costi ambientali al soggetto che ha causato la
compromissione ecologica, così come affermato dalla Corte di
Giustizia nell’ordinanza 09.03.2010 nelle cause riunite
C-478/08 e C. 479/08 (<<conformemente al principio “chi
inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe agli
operatori solo in misura corrispondente al loro contributo
al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di
inquinamento>>). (Nello stesso senso anche la sentenza della
Corte di Giustizia 24.06.2008, causa C. 188/07, Comune
di Mesquer).
8.2- In conformità a tale principio, gli articoli 242, comma
1, e 244, comma 2, del TUA stabiliscono che, riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza
(d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica
amministrazione solamente ai soggetti “responsabili
dell’inquinamento”, quindi ai soggetti che abbiano in tutto
o in parte generato la contaminazione tramite un proprio
comportamento commissivo od omissivo, legato
all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
L’articolo 244 del TUA è inequivoco nell’affermare che,
individuato un fenomeno di contaminazione, devono essere
svolte le “opportune indagini volte ad identificare il
responsabile dell’evento di superamento”.
Coerentemente con il suddetto principio del “chi inquina
paga” l’allegato 4 pone gli obblighi di caratterizzazione,
analisi rischio e di bonifica e messa in sicurezza in capo
al soggetto “responsabile”.
8.3- Nessun dubbio sussiste in conseguenza sul fatto che il
soggetto obbligato alla caratterizzazione, all’analisi di
rischio e alla bonifica o alla messa in sicurezza debba
essere l’autore del comportamento che ha causato la
contaminazione, che è concettualmente distinto dagli altri
possibili soggetti coinvolti o interessati e segnatamente
dal proprietario delle aree contaminate (cfr. tra le tante,
Cons. Stato, sez. VI, 18.04.2011, n. 2376).
8.4- E’ quindi necessario un rigoroso accertamento al fine
di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del
nesso di causalità che lega il comportamento del
responsabile all’effetto consistente nella contaminazione.
Tale accertamento presuppone una adeguata istruttoria non
essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva
facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile
in ragione di tale sola qualità.
Il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non
potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni (cfr.,
Cons. Stato, sez. VI, 09.01.2013, n. 56; 05.09.2005, n. 4525).
8.5- Fermo tanto, appare indubbia la illegittimità del
provvedimento impugnato e la erroneità del percorso
motivazionale della sentenza impugnata che si è attestata
sulle posizioni dell’amministrazione, atteso che:
a) la sentenza fonda la responsabilità degli appellanti
sulla base di un unico dato, ovvero il fatto che “nell’anno
2000, i proprietari dell’immobile…al fine di impedire
l’ulteriore aggravamento del livello di inquinamento, hanno
sostituito il serbatoio del gasolio”.
Invero, il serbatoio non fu sostituito ma solamente su di
esso furono eseguiti in via cautelativa interventi di
vetrificazione, ma la circostanza è comunque irrilevante non
essendo riferibile agli appellanti che hanno acquistato la
proprietà del bene anni dopo e non può costituire altra
prova se non quella di un buon grado di diligenza in capo
agli originari proprietari a fronte di un rinvenuto
sversamento di idrocarburi nell’area.
b) ove poi, a tale dato fosse attribuita la valenza di
elemento presuntivo, non sarebbe ugualmente sufficiente a
fondare la responsabilità dei ricorrenti che al tempo nessun
rapporto avevano con l’immobile.
8.6- Peraltro, tale dato e gli altri sui quali il TAR fonda
la prova per presunzioni sono privi dei caratteri (gravità,
precisione e concordanza) richiesti dal codice civile nella
prova per presunzioni, atteso che:
a) la presenza di contaminante è stata rinvenuta nell’area
sovrastante, a monte dei serbatoi di “Casa del Sole” e del
locale commerciale “Ristorante Pavia” (cfr. indagini
riassunte nella relazione dell’08.02.2010);
b) la Conferenza di servizi all’uopo convocata aveva
ritenuto di disporre indagini integrative “volte alla
possibile esclusione delle cisterne del Condominio Casa del
Sole e del Ristorante Pavia dalle probabili fonti primarie”;
c) è stato appurato che i due serbatoi dell’Hotel Astoria e
il serbatoio della Casa del Sole non erano a tenuta, mentre
il serbatoio del Ristorante Pavia era a tenuta e che
l’affioramento del liquido oleoso, riconducibile,
presumibilmente, a gasolio, era sulla parte a monte del
Ristorante Pavia e che la parte di monte del serbatoio della
“Casa del Sole” era risultato contaminato, mentre il
campione di valle è risultato solamente con superamenti di CSC.
A fronte di tali elementi, non può condividersi la
conclusione cui perviene il TAR “con ciò non potendo
escludere che anche tale serbatoio, assieme a quelli ubicati
a monte di esso abbia dato luogo a sversamenti di
idrocarburi dal suo interno”, atteso che non è sorretta
dalle risultanze istruttorie che si pongono in termini
dubitativi quanto al coinvolgimento del Ristorante Pavia.
8.7- Anche la relazione dell’ARPA dell’11.07.2012,
richiamata in sentenza, non integra un elemento certo da cui
desumere la imputabilità al Ristorante Pavia
dell’inquinamento.
A parte che detta relazione non è nemmeno richiamata nel
provvedimento impugnato, essa riguarda l’indagine relativa
al serbatoio interrato a servizio dell’edificio “Casa del
Sole” ed in relazione al medesimo, l’ARPA ha concluso di
“non poter escludere che anche tale serbatoio assieme a
quelli ubicati a monte di esso abbia dato luogo in passato a sversamenti di idrocarburi dal suo interno”.
Invero, dalla richiamata relazione dell’accertamento
dell’ARPA che si esprime in termini perplessi e dubitativi
non può farsi derivare, come ha fatto il TAR, un elemento di
certezza del coinvolgimento del Ristorante Pavia nel
fenomeno di inquinamento da idrocarburi.
8.8- La sentenza trascura poi la fondamentale circostanza
che gli appellanti non erano proprietari del suddetto
immobile al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato, né nell’anno 2000, quando si sono verificati i
primi fenomeni di affioramento di carburante, e che negli
anni successivi non hanno avuto la disponibilità
dell’azienda avendola affittata a terzi.
Quanto all‘applicazione dei principi civilistici in base ai
quali incombe al proprietario la responsabilità per i danni
che il bene locato dovesse arrecare ai terzi, trattasi di
principi che possono trovare applicazione in via
sussidiaria, dovendo darsi prevalenza al principio di rango
comunitario sulla responsabilità da inquinamento in base al
quale “chi inquina, paga” e sempre che sussista un
comportamento colpevole (a titolo di dolo o colpa) del
proprietario il quale, avendo acquisito consapevolezza
dell’inquinamento non abbia preteso dal conduttore
responsabile le necessarie opere di bonifica (cfr. Cass.
civ. III, n. 6525 del 2011).
In tal senso è anche la univoca giurisprudenza dei TAR e del
Consiglio di Stato che ha affrontato la questione sulla
responsabilità da inquinamento ambientale nel caso di
immobile condotto in locazione da terzi (cfr. Cons. Stato,
sez. V, n. 3274 del 2014; sez. IV, n. 8501 del 2010; sez.
III, n. 4328 del 2003).
9.- Assume, invero, la Regione che la circostanza che i
ricorrenti non fossero più proprietari del ristorante al
momento della notifica del provvedimento sarebbe
irrilevante, atteso che essi non sarebbero stati coinvolti
nella qualità di proprietari ma di responsabili
dell’inquinamento e che le vicende proprietarie non
sarebbero state comunicate all’amministrazione regionale,
nel mentre gli appellanti avrebbero partecipato alle
conferenze di servizi tenutesi nel 2012 e nel 2013, senza
mai accennare alla cessione della proprietà medio tempore
intervenuta e che, comunque alla data dei fatti essi erano
proprietari del ristorante.
Tale prospettazione, peraltro contraddittoria, incentrata
sulle disposizioni di cui agli articoli 1575 e 1576 del
codice civile, in base ai quali spetterebbe al proprietario
il controllo e la manutenzione della cisterna, non è idonea,
come già detto, a contestare il principio di origine
comunitaria del “chi inquina paga” che prescindendo
dall’esistenza di un rapporto giuridico qualificato con la
cosa che ha prodotto il danno, privilegia la responsabilità
di chi ha procurato di fatto il danno.
Ne consegue che la responsabilità del proprietario è
ipotizzabile solamente nel caso di comportamento colpevole,
nel mentre ai sensi degli articoli 1575 e 1576 del codice
civile, il conduttore è custode della cosa locata e grava su
di esso l’onere di mantenere la cosa locata in buono stato e
di segnalare al proprietario ogni fatto che possa procurare
danni, non potendosi di conseguenza presumere la
responsabilità in base ad un’asserita e indimostrata culpa
in vigilando del proprietario.
Nella ricerca del responsabile è quindi rilevante la
circostanza che il ristorante fosse stato dato per lungo
tempo in locazione, in particolare dal 1997 al 2004 e dal
mese di novembre 2005 al 30.04.2007, essendo evidente
che ove fossero state accertate inadempienze in tale periodo
e lo sversamento di carburante dalla cisterna, sarebbe stato
responsabile il gestore dell’azienda che, avendone la
disponibilità, avrebbe dovuto prontamente evitare il danno
ed informarne tempestivamente il proprietario.
10.- Per mera completezza, va ritenuta fondata anche la
censura di erroneità della sentenza gravata nella parte in
cui non ha annullato la condanna in via solidale degli
appellanti all’esecuzione dell’attività di verifica, la
quale in limine avrebbe dovuto essere imputata in ragione
delle singole percentuali di responsabilità.
La Corte di Giustizia conformante al principio <<chi
inquina paga>>, ha stabilito nella citata pronuncia del
04.03.2015, in concausa C–534/13 che l’obbligo di
riparazione incombe agli operatori solo in misura
corrispondente al loro contributo al verificarsi
dell’inquinamento o al rischio di inquinamento.
Non può, quindi, condividersi l’opposta tesi
dell’amministrazione che ritiene la responsabilità solidale
più confacente alla tutela del pubblico interesse
finalizzato a garantire un celere intervento di messa in
sicurezza del bene e lascia impregiudicata l’azione di
regresso nei confronti degli altri obbligati, atteso che non
possono trovare ingresso, in ragione della specialità della
materia, i principi civilistici in materia di concorso nella
causazione del danno che impongono l’obbligo della
solidarietà risarcitoria (art. 2055 cod. civ.).
Per le ragioni esposte l’appello deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.07.2015 n. 3756 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamenti solo se c'è capacità.
GARE/Consiglio di stato sull'in house.
La revoca di una gara per appalto pubblico di servizi e il
contestuale affidamento del servizio a una società in house
è legittima a condizione che la società affidataria abbia la
capacità di svolgere le funzioni affidate; l'amministrazione
deve quindi verificare in concreto la capacità di
autoproduzione interna dei servizi.
In tale senso si pronuncia il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 28.07.2015 n. 3716 rispetto a un
affidamento in house disposto dalla regione Molise.
Nel caso esaminato dal Tar era successo che, dopo avere
indetto una procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento
in appalto di la Regione Molise aveva revocato la gara,
disponendo contestualmente l'affidamento del medesimo
servizio con modalità in house all'Agenzia regionale Molise
Lavoro.
In primo grado il Tar Marche aveva bocciato
l'affidamento e i giudici di appello confermano la sentenza
di primo grado (nel frattempo era stato revocato
l'affidamento in house e riavviata una seconda procedura
sulla quale erano sorti altri problemi).
In particolare il
Consiglio di stato afferma che la necessaria strumentalità
dell'ente affidatario diretto deve presuppone la sua
capacità di svolgere le funzioni attribuitegli in via di
delega dall'autorità vigilante, la quale dal canto suo non
può prescindere da tale doverosa verifica preventiva, al
fine di evitare che l'attribuzione di compiti di interesse
pubblico rimanga una mera enunciazione formale, per la cui
concreta attuazione occorre comunque stimolare l'offerta
privata.
In altri termini, è insito nella decisione di
affidare un servizio in house l'idoneità dell'ente
strumentale a svolgerlo compiutamente, potendosi
giustificare la deroga all'obbligo della gara, appunto, solo
in virtù di una capacità di autoproduzione interna mediante
strutture su cui l'autorità pubblica affidante ha un
controllo di tipo organico analogo a quello svolto sui
propri uffici.
Per contro, il ricorso ad enti formalmente già istituiti ma
privi delle necessarie risorse operative, tecniche e
strumentali riproduce lo schema di base dell'amministrazione
pubblica che per svolgere le proprie funzioni deve
procacciarsi i mezzi relativi presso il mercato
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di permesso di costruire in sanatoria,
in caso di costruzione anteriore al primo settembre 1967,
ricade sul proprietario l’onere di provare in maniera certa
la ultimazione dei lavori entro tale data.
Con ricorso
tempestivamente notificato all’amministrazione resistente,
la società ricorrente, in persona del legale rapp. p.t. F.M.
e C.M. hanno impugnato il provvedimento con cui il Comune di
Praiano ha revocato il permesso di costruire in sanatoria n.
15/2011, rilasciato in data 20.11.2011, relativo al cambio
di destinazione d’uso da deposito ad abitazione di un
immobile meglio identificato nel ricorso e ne ha ingiunto la
demolizione.
I ricorrenti hanno contestato la legittimità del
provvedimento impugnato, in quanto lo stesso avrebbe violato
gli artt. 3 e 21-nonies L. 241/1990, nonché l’art. 36 d.p.r.
380/2001 e l’art. 87 della C. In ogni caso, il provvedimento
impugnato sarebbe affetto da eccesso di potere.
Il Comune di Praiano non si è costituito in giudizio.
Con ordinanza cautelare 433/2014 è stata accolta la domanda
cautelare.
Alla pubblica udienza del 14.05.2015 la causa è stata
trattenuta in decisione.
Orbene, tanto premesso in punto di fatto il ricorso è
infondato.
In seguito all’ordinanza istruttoria n. 1128 del 26.06.2014
emessa da questo Collegio è emerso che il ricorrente, Milo
Filippo, nell’istanza di condono edilizio del 10.12.2004, ha
dichiarato che l’epoca di realizzazione del manufatto in
contestazione è risalente all’01.01.1970 e, quindi, in data
successiva al 1967. Del resto, lo stesso ricorrente sostiene
che nell’atto di compravendita vi è la prova che il
manufatto risale al 1956 e, comunque, è stato realizzato in
data antecedente al 1967.
A pag. 11 dell’atto di compravendita è, tuttavia, solo
genericamente indicato che l’edificazione del cespite in
oggetto è iniziata prima del primo settembre 1967, ma non
viene evidenziata la data di ultimazione dei lavori,
rilevante per verificare o meno la necessità di richiedere
il titolo abilitativo.
Inoltre l’atto di vendita si riferisce ad una serie di
costruzioni di cui l’immobile in contestazione rappresenta
solo una piccola parte. Ne deriva, pertanto, che le parti
ricorrenti non hanno superato l’onus probandi su di
loro ricadente avente ad oggetto la prova che la costruzione
in contestazione sia stata realizzata ante 1967 e a tal fine
non è in grado di fornire la citata prova nemmeno la foto
aerea del 13.04.1956.
Ne deriva che il ricorso è infondato e va rigettato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.07.2015 n. 1703 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla proroga del termine di esecuzione dei lavori.
La ditta esecutrice dei lavori ha
abbandonato il cantiere rifiutando la riconsegna
dell’immobile, avvenuta solo per provvedimento del Giudice
istruttore del Tribunale di Vicenza il 18.12.1997, e tra le
parti è insorto un contenzioso che ha comportato
l’esecuzione di complesse operazioni peritali dalle quali è
emersa l’esistenza di gravi difformità strutturali, con
rischio di collasso delle strutture, e la necessità di
demolizione e ricostruzione delle opere difformi.
Sicché, tali elementi, riconducibili al contenzioso
giudiziario insorto tra il titolare del titolo edilizio e la
ditta appaltatrice dei lavori, integrano l'ipotesi di "fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso", idonei a giustificare il rilascio della proroga
del termine di ultimazione dei lavori, perché si tratta di
fatti che sono al di fuori della sfera di controllo del
titolare del titolo edilizio, e la mancata riconsegna
dell’immobile, o la mancata esecuzione dei lavori durante il
tempo occorrente all’esperimento delle perizie disposte
durante il procedimento giurisdizionale o durante il tempo
occorrente a rimediare ai problemi di sicurezza derivanti
dalle difformità strutturali, costituiscono delle vere e
proprie cause di forza maggiore idonee a determinare la
proroga del titolo edilizio.
... del provvedimento comunale 24.02.1999, n. 2155, di
diniego della proroga della scadenza del termine di
ultimazione lavori della concessione edilizia n. 40/96/1.
...
La Società ricorrente è proprietaria nel Comune di Thiene di
una villa in stile “Liberty”.
Con concessione edilizia n. 40/96/1 del 28.06.1996, sono
stati assentiti la ristrutturazione e l’ampliamento
dell’immobile.
I lavori sono iniziati il 18.07.1996, e la ditta esecutrice
ha unilateralmente abbandonato il cantiere dopo circa un
anno in data 25.07.1997.
In data 29.01.1999 la ricorrente ha presentato domanda di
proroga del termine di ultimazione lavori.
Il Comune con nota prot. n. 2155 del 24.02.1999, ha respinto
l’istanza di proroga ritenendo che le motivazioni poste a
fondamento della domanda non siano ascrivibili alla
categoria dei fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare della concessione.
...
Con ordinanza n. 709 del 16.06.1999, è stata accolta la
domanda cautelare.
Il Comune, con concessione edilizia del 01.07.1999, ha
rilasciato la proroga, precisando che il provvedimento è
stato rilasciato in ottemperanza delle sopracitata ordinanza
cautelare.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Nel caso all’esame il nuovo atto posto in essere
dall'Amministrazione in esecuzione dell'ordinanza cautelare
propulsiva, non comporta la cessazione della materia del
contendere o la sopravvenuta carenza di interesse
all'impugnazione, in quanto l'Amministrazione non ha
eseguito una nuova ed autonoma valutazione dell’originaria
istanza, con una decisione svincolata dal contenzioso
pendente, ma si è espressamente limitata a porre in essere
una doverosa ottemperanza alla pronuncia dotata di immediata
esecutività.
Nel merito il ricorso deve essere accolto.
...
Parimenti fondato è anche il secondo motivo.
L’art. 4, comma 3, della legge 28.01.1977, n. 10, prevede
che il termine di conclusione dei lavori possa essere
prorogato “con provvedimento motivato, solo per fatti
estranei alla volontà del concessionario, che siano
sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione”,
e l’art. 78 della legge regionale 27.06.1985, n. 61, dispone
che “il ritardo nell’esecuzione dei lavori per fatti
sopravvenuti ed estranei alla volontà del titolare della
concessione o autorizzazione consente al Sindaco
l’emanazione di un provvedimento motivato di proroga”.
Nel caso all’esame ricorrono i presupposti di legge, perché
la ditta esecutrice dei lavori ha abbandonato il cantiere
rifiutando la riconsegna dell’immobile, avvenuta solo per
provvedimento del Giudice istruttore del Tribunale di
Vicenza il 18.12.1997, e tra le parti è insorto un
contenzioso che ha comportato l’esecuzione di complesse
operazioni peritali dalle quali è emersa l’esistenza di
gravi difformità strutturali, con rischio di collasso delle
strutture, e la necessità di demolizione e ricostruzione
delle opere difformi.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune nell’impugnato
diniego, tali elementi, riconducibili al contenzioso
giudiziario insorto tra il titolare del titolo edilizio e la
ditta appaltatrice dei lavori, integrano l'ipotesi di "fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso",
idonei a giustificare il rilascio della proroga del termine
di ultimazione dei lavori, perché si tratta di fatti che
sono al di fuori della sfera di controllo del titolare del
titolo edilizio, e la mancata riconsegna dell’immobile, o la
mancata esecuzione dei lavori durante il tempo occorrente
all’esperimento delle perizie disposte durante il
procedimento giurisdizionale o durante il tempo occorrente a
rimediare ai problemi di sicurezza derivanti dalle
difformità strutturali, costituiscono delle vere e proprie
cause di forza maggiore idonee a determinare la proroga del
titolo edilizio (cfr. Tar Campania, Salerno, Sez. I,
14.01.2014, n. 107; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 07.06.2010, n.
15939; Tar Liguria, Sez. I, 03.04.2003, n. 451; Consiglio di
Stato, Sez. V, 13.05.1996, n. 535) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2015 n. 872 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sussiste la violazione
delle garanzie di partecipazione al procedimento laddove tra
la comunicazione dell’avvio del procedimento e l’emissione
del provvedimento finale non è trascorso un intervallo di
tempo idoneo a consentire un’effettiva partecipazione
dell’interessato, e ciò nel caso all’esame è avvenuto, dato
che il provvedimento finale è stato adottato addirittura
prima che la Società ricorrente ricevesse la comunicazione
di avvio del procedimento.
Il primo motivo con il quale la ricorrente lamenta la
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento
è fondato.
Infatti tra la comunicazione dell’avvio del procedimento e
l’emissione del provvedimento finale deve trascorrere un
intervallo di tempo idoneo a consentire un’effettiva
partecipazione dell’interessato (cfr. Tar Campania, Napoli,
Sez. II, 05.02.2008, n. 531), e ciò nel caso all’esame non è
avvenuto, dato che il provvedimento finale è stato adottato
addirittura prima che la Società ricorrente ricevesse la
comunicazione di avvio del procedimento (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2015 n. 872 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: E'
legittima l'esclusione dei chimici dalla Commissione
Edilizia Comunale.
La mancanza di una normativa di rango primario rimette la
composizione delle commissioni edilizie alla potestà
regolamentare dei Comuni.
Nel caso del Comune di specie, la mancata inclusione dei
chimici dalle professionalità cui riservare la presenza
nelle commissioni, oggi sancita normativamente, risponde a
una scelta non irragionevole alla luce delle stesse
affermazioni dell’Ordine ricorrente, che riconosce come le
valutazioni demandate alla commissione edilizia ed
involgenti il possesso di competenze di chimica applicata
non siano riservate in esclusiva ai chimici: se così è, ben
si giustifica infatti la preferenza dell’amministrazione per
professionalità in grado di garantire un ventaglio di
competenze il più completo e aderente possibile in relazione
ai compiti consultivi affidati alla commissione, che
investono essenzialmente il valore architettonico, estetico,
paesaggistico e artistico, il decoro e l’ambientazione degli
interventi edilizi (si veda l’art. 4 del regolamento
edilizio comunale, nel testo vigente), vale a dire profili
rispetto ai quali la professionalità del chimico è ictu
oculi recessiva, coprendone una porzione assai esigua.
Di modo che l’esclusione dei chimici in favore di altre
professionalità in grado di garantire, ove necessario,
sufficienti cognizioni anche in ambito chimico, appare
tutt’altro che arbitraria proprio in ossequio al principio
generale della concorrenza interdisciplinare invocato in
ricorso, e finisce per tradursi in una scelta di merito
insindacabile.
...
per l'annullamento
della nota dell’Assessore all’Urbanistica e Centro Storico
del Comune di Pistoia prot. n. 9984 del 15.02.2010,
nella parte in cui dichiara l’esclusione dei chimici dalla
rosa delle professionalità attivabili per la nomina dei
membri delle Commissioni Urbanistiche del comune di Pistoia
in ragione del fatto che le funzioni di tali Commissioni, in
assenza di una specifica normativa, non richiedono le
competenze proprie della figura professionale del chimico,
pertanto tale figura non è inserita fra quelle che le
compongono.
...
2. In via pregiudiziale, la difesa del Comune resistente
eccepisce l’inammissibilità del gravame per difetto di
interesse sotto il duplice profilo della mancata impugnativa
congiunta delle disposizioni regolamentari che disciplinano
la composizione delle commissioni e del carattere
interlocutorio e non immediatamente lesivo dell’atto
impugnato.
L’Ordine ricorrente replica, per un verso, che il
regolamento edilizio vigente al momento dell’instaurazione
del giudizio non conteneva alcuna norma impeditiva circa la
presenza dei chimici nelle commissioni, ma anzi la
consentiva attraverso la clausola generale di cui all’art. 4, co. 1, lett. g), che contemplava l’inclusione nell’organo
(anche) di un esperto in materia storico-artistico-ambientale. Quanto alla lesività della
nota impugnata, l’Ordine dei Chimici afferma che essa
consisterebbe nell’espressione di un orientamento contrario
alla presenza dei chimici nelle commissioni e nella natura
di arresto procedimentale dell’atto, con il quale i chimici
sarebbero stati aprioristicamente esclusi dalla composizione
delle commissioni.
2.1. Le eccezioni sono fondate nei termini che seguono.
2.1.1. Collocandosi al di fuori di qualsivoglia procedimento
amministrativo, alla nota comunale del 15.02.2010 non
si attaglia la nozione di “arresto procedimentale”, la quale
implica l’incisione immediata di un interesse pretensivo,
mancante nella fattispecie proprio in virtù del carattere
aprioristico, stigmatizzato dallo stesso Ordine ricorrente,
dell’esclusione dei chimici dalla composizione delle
commissioni comunali.
È l’astrattezza delle affermazioni
contenute nella nota che non consente, in buona sostanza, di
giustificarne l’immediata impugnazione: si tratta, a ben
vedere, di un atto al quale può al più attribuirsi natura
interpretativa della disciplina comunale in materia di
composizione delle commissioni, rilasciato in un’ottica di
leale collaborazione dall’ente locale interpellato dal
soggetto esponenziale degli interessi di un ordine
professionale, ma di per sé privo di autonoma lesività
perché non riferibile al concreto esercizio di poteri di
amministrazione attiva; e quand’anche lo si volesse reputare
vincolante all’interno dell’amministrazione comunale quale
atto di indirizzo/circolare (ma così non è, atteso che la
nota è indirizzata all’Ordine dei Chimici e non ai
funzionari del Comune), ai fini dell’attualizzazione del
pregiudizio occorrerebbe pur sempre che l’indirizzo
interpretativo ivi manifestato venisse riversato in un
provvedimento applicativo, questo sì impugnabile.
2.1.2. L’interesse all’impugnazione è ulteriormente escluso
dalla sopravvenuta approvazione delle modifiche al
regolamento edilizio del Comune di Pistoia, approvate con
deliberazione consiliare n. 14 dell’11.02.2013, le
quali escludono la professionalità dei chimici dalla
composizione delle commissioni edilizie (dal testo dell’art.
4 del regolamento è venuta meno l’indicazione di un esperto
in materie ambientali, da quale l’Ordine ricorrente desumeva
la legittimazione dei propri iscritti a essere chiamati a
formare le commissioni).
L’Ordine dei Chimici osserva che
l’eventuale impugnazione autonoma delle nuove disposizioni
regolamentari sarebbe stata inammissibile per difetto di
interesse, del che può anche dubitarsi, stante l’effetto
immediatamente preclusivo –vincolante per la futura
attività del Comune– della previsione regolamentare che non
include i chimici fra i membri delle commissione; il rilievo
del ricorrente, peraltro, non fa che rafforzare a contrario
le conclusioni del collegio circa l’originaria assenza di
interesse al ricorso dovuta alla non immediata e autonoma lesività dell’atto impugnato, sprovvista di qualsivoglia
contenuto (normativo e) volitivo.
Resta poi fermo che non si
vede quale vantaggio, anche solo strumentale, possa oramai
derivare dall’annullamento di un atto che riflette un
contesto normativo non più vigente.
3. Per completezza di trattazione, nel merito l’Ordine dei
Chimici sostiene che la nota comunale del 15.02.2010,
nella parte in cui manifesta il rifiuto di considerare
l’inserimento di chimici nelle commissioni edilizie, sarebbe
viziata da eccesso di potere per irragionevolezza,
ingiustizia manifesta, disparità di trattamento, difetto di
proporzionalità; né l’esclusione dei chimici dalle
commissioni edilizie potrebbe essere argomentato dalla
disciplina dettata dall’art. 148 D.Lgs. n. 42/2004 per le
commissioni paesaggistiche.
Al riguardo, ribadita l’attitudine non provvedimentale della
nota in questione, sia sufficiente osservare che la mancanza
di una normativa di rango primario rimette la composizione
delle commissioni edilizie alla potestà regolamentare dei
Comuni.
Nel caso del Comune di Pistoia, la mancata
inclusione dei chimici dalle professionalità cui riservare
la presenza nelle commissioni, oggi sancita normativamente,
risponde a una scelta non irragionevole alla luce delle
stesse affermazioni dell’Ordine ricorrente, che riconosce
come le valutazioni demandate alla commissione edilizia ed
involgenti il possesso di competenze di chimica applicata
non siano riservate in esclusiva ai chimici: se così è, ben
si giustifica infatti la preferenza dell’amministrazione per
professionalità in grado di garantire un ventaglio di
competenze il più completo e aderente possibile in relazione
ai compiti consultivi affidati alla commissione, che
investono essenzialmente il valore architettonico, estetico,
paesaggistico e artistico, il decoro e l’ambientazione degli
interventi edilizi (si veda l’art. 4 del regolamento
edilizio comunale, nel testo vigente), vale a dire profili
rispetto ai quali la professionalità del chimico è ictu
oculi recessiva, coprendone una porzione assai esigua; di
modo che l’esclusione dei chimici in favore di altre
professionalità in grado di garantire, ove necessario,
sufficienti cognizioni anche in ambito chimico, appare
tutt’altro che arbitraria proprio in ossequio al principio
generale della concorrenza interdisciplinare invocato in
ricorso, e finisce per tradursi in una scelta di merito
insindacabile.
Alla rilevata inammissibilità della domanda si accompagna,
dunque, l’infondatezza della stessa.
4. Il ricorso, in forza delle considerazioni che precedono,
non può trovare accoglimento
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 16.07.2015 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare, una mano alle imprese. Il fatturato specifico va
riferito al totale delle attività.
Il Tar Emilia-Romagna applica il principio del favor
partecipationis agli appalti.
L'art. 41, comma 1, del dlgs 163/2006, che stabilisce
espressamente il requisito del «fatturato specifico», deve
essere riferito al fatturato derivante dall'esercizio di
tutte le attività comprese nell'intero settore oggetto di
gara.
È quanto hanno affermato i giudici della
II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la
sentenza
10.07.2015 n. 669.
Secondo i giudici amministrativi
bolognesi, ciò anche in evidente e ragionevole applicazione
del principio del favor partecipationis tra imprese
concorrenti a una gara pubblica d'appalto, in stretta
relazione all'interesse pubblico alla scelta della migliore
offerta del privato tra il maggior numero possibile di
legittimi competitori.
Nella medesima sentenza i giudici
hanno altresì affermato che un giudizio tecnico espresso
dalla stazione appaltante sotto la propria consapevole
responsabilità, anche penale e contabile, non è sufficiente,
per sconfessare tale giudizio, sostituire un giudizio
opinabile con uno altrettanto opinabile, o avanzare dubbi o
elementi di incertezza, poiché è necessario, invece,
dimostrare, con dati numerici certi, quali sono gli errori
oggettivamente commessi dalla stazione appaltante e quale
sia l'esatto importo delle voci di prezzo anomale, nonché la
loro percentuale di incidenza sull'importo complessivo
dell'appalto, sicché la dedotta inattendibilità dell'offerta
deve essere dimostrata in termini chiari, comprensibili e
immediatamente percepibili e non in via di mere presunzioni
o affermazioni del tutto prive di riscontro (si vedano tra
le altre: Cons. stato sez. IV, 26/02/2015 n. 963; sez. V,
17/07/2014 n. 3800; Tar Emilia-Romagna, sez. I, 30/03/2015 n.
238; sez. II, 150/1/2015 n. 12; 30/07/2014 n. 804; 30/10/2014
n. 1019).
E inoltre, neppure a tal fine possono essere ritenuti validi
elementi per dimostrare l'irragionevolezza della valutazione
di congruità operata dal seggio di gara, quelli consistenti
in dati relativi ai costi estrapolati dall'offerta tecnica
(e relative giustificazioni) presentata in altra gara
pubblica, dovendosi in via generale ritenere in alcun modo
comparabili fra loro i costi afferenti servizi da espletare
in ambiti territoriali e dimensionali diversi, nonché
disciplinati da diverse normative di gara
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015
- tratto da www.centrostudicni.it).
----------------
MASSIMA
Il Collegio deve ulteriormente osservare, su tale questione,
che l’oramai già consolidato indirizzo
giurisprudenziale
–anche di questo Tribunale– sulla esaminata questione
stabilisce che, a fronte di un giudizio
tecnico espresso dalla stazione appaltante sotto la propria
consapevole responsabilità, anche penale e contabile, non è
sufficiente, per sconfessare tale giudizio, sostituire un
giudizio opinabile con uno altrettanto opinabile, o avanzare
dubbi o elementi di incertezza, dovendosi invece dimostrare,
con dati numerici certi, quali sono gli errori
oggettivamente commessi dalla stazione appaltante e quale è
l’esatto importo delle voci di prezzo anomale, nonché la
loro percentuale di incidenza sull’importo complessivo
dell’appalto, sicché la dedotta inattendibilità dell’offerta
deve essere dimostrata in termini chiari, comprensibili e
immediatamente percepibili e non in via di mere presunzioni
o affermazioni del tutto prive di riscontro
(v. ex multis: Cons. Stato sez. IV, 26/02/2015 n.
963; sez. V, 17/07/2014 n. 3800; TAR Emilia Romagna, sez. I,
30/03/2015 n. 238; sez. II, 15/01/2015 n. 12; 30/07/2014 n.
804; 30/10/2014 n. 1019). |
EDILIZIA PRIVATA: La
controversia ha ad oggetto la necessità -affermata
dall’amministrazione comunale e contestata dalla parte
ricorrente- di conseguire un nuovo titolo edilizio allorché,
all’inizio della stagione balneare, la parte interessata
intende procedere alla reinstallazione delle strutture
assentite, rimosse al termine della stagione precedente
conformemente al carattere stagionale delle stesse.
Sebbene il permesso di costruire rilasciato in illo tempore
non contenga univoche indicazioni in tal senso (ovvero, in
ordine alla facoltà di reinstallazione delle strutture
assentite, essendo invece chiaro in relazione alla natura
stagionale delle stesse e, quindi, all’obbligo di smontaggio
al termine della stagione estiva), la tesi attorea è
meritevole di accoglimento, coerentemente alla natura del
titolo edilizio suindicato.
Infatti, ove si ritenesse che il suo contenuto abilitativo
sia limitato all’installazione una tantum delle suddette
strutture, dovendo il suo titolare acquisire un nuovo
permesso ai fini della reinstallazione delle stesse
all’inizio della stagione balneare successiva, esso dovrebbe
essere considerato inutiliter datum, alla luce del disposto
di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, ai
sensi del quale non richiedono l’acquisizione di alcun
titolo edilizio “le opere dirette a soddisfare obiettive
esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un
termine non superiore a novanta giorni”.
Quindi, l’esigenza di smontaggio delle strutture al termine
di ogni stagione balneare non delimita temporalmente
l’efficacia del predetto permesso di costruire, ma integra
una mera modalità esecutiva delle stesse, siccome destinate
ad essere rimontate all’inizio della stagione successiva,
fermo restando il loro permanente carattere di fondo, cui si
correla la necessità di acquisire il permesso di costruire
ai fini della loro reiterata realizzazione.
... per l'annullamento del provvedimento di cui alla nota
prot. n. 33269 del 15.05.2015, con la quale il Dirigente del
Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Battipaglia ha
ordinato la rimozione, nel termine di 15 (quindici) giorni,
di alcune strutture in legno di carattere stagionale
installate nell'ambito dello stabilimento balneare
denominato lido Mediterraneo.
...
- Evidenziato preliminarmente che non è controversa la conformità
delle opere oggetto del provvedimento impugnato al progetto
edilizio assentito con il permesso di costruire n. 2 del
02.01.2012 (cfr., sul punto, la relazione dei tecnici comunali prot. n. 32273 del 13.05.2015, allegata alla memoria
difensiva comunale);
-
Rilevato che la controversia ha ad oggetto la necessità -affermata dall’amministrazione comunale e contestata dalla
parte ricorrente- di conseguire un nuovo titolo edilizio
allorché, all’inizio della stagione balneare, la parte
interessata intende procedere alla reinstallazione delle
strutture assentite, rimosse al termine della stagione
precedente conformemente al carattere stagionale delle
stesse;
-
Ritenuto che, sebbene il citato permesso di costruire non
contenga univoche indicazioni in tal senso (ovvero, in
ordine alla facoltà di reinstallazione delle strutture
assentite, essendo invece chiaro in relazione alla natura
stagionale delle stesse e, quindi, all’obbligo di smontaggio
al termine della stagione estiva), la tesi attorea sia
meritevole di accoglimento, coerentemente alla natura del
titolo edilizio suindicato;
-
Evidenziato infatti che, ove si ritenesse che il suo
contenuto abilitativo sia limitato all’installazione una
tantum delle suddette strutture, dovendo il suo titolare
acquisire un nuovo permesso ai fini della reinstallazione
delle stesse all’inizio della stagione balneare successiva,
esso dovrebbe essere considerato inutiliter datum, alla luce
del disposto di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n.
380/2001, ai sensi del quale non richiedono l’acquisizione
di alcun titolo edilizio “le opere dirette a soddisfare
obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere
immediatamente rimosse al cessare della necessità e,
comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”;
-
Ritenuto quindi che l’esigenza di smontaggio delle strutture
al termine di ogni stagione balneare non delimiti
temporalmente l’efficacia del predetto permesso di
costruire, ma integri una mera modalità esecutiva delle
stesse, siccome destinate ad essere rimontate all’inizio
della stagione successiva, fermo restando il loro permanente
carattere di fondo, cui si correla la necessità di acquisire
il permesso di costruire ai fini della loro reiterata
realizzazione;
-
Ritenuto in conclusione che la proposta domanda di
annullamento sia meritevole di accoglimento, potendo
dichiararsi l’assorbimento delle censure non esaminate (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 06.07.2015 n. 1495 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Il
commissario ad acta rientra, ai sensi dell’art. 21 c.p.a.,
fra gli organi ausiliari del giudice: da tale
qualificazione, va individuata la fonte dei suoi poteri
nella sentenza da portare ad esecuzione.
La giurisprudenza costante di questo Consiglio ritiene che
il commissario ad acta sia legittimato “ad adottare ogni
misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto,
idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento
effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto
titolare nella sentenza da portare ad attuazione”.
Per consentire l’adempimento dei propri compiti, viene
garantita una particolare autonomia al commissario, che si
riverbera sul contenuto degli atti da esso adottati, i quali
hanno gli stessi effetti verso i terzi di quelli dell’ente
sostituito, per provvedere in luogo di quest’ultimo e per
superare la paralisi dell’azione amministrativa, dando vita
ad una relazione intersoggettiva, e non interorganica, con
l’amministrazione.
Il potere del commissario di sostituirsi all’amministrazione
nella valutazione e nella attività di scelta, tra i vari
interessi coinvolti in uno specifico procedimento,
consentono di valorizzare l’elemento discrezionale degli
atti emanati da questo soggetto, quale organo ausiliario del
giudice: in tal modo, da un lato, in capo
all’amministrazione non residua alcun potere discrezionale
relativo all’attuazione del provvedimento adottato e,
dall’altro lato, è possibile ricorrere all’autorità
giudiziaria soltanto qualora vi sia un contrasto fra la
sentenza da portare ad esecuzione ed il contenuto del
provvedimento adottato dal commissario ad acta.
Al riguardo vanno, preliminarmente, analizzati il ruolo ed i
poteri spettanti al commissario ad acta nell’ambito della
esecuzione delle sentenze adottate dal Giudice
Amministrativo.
Come noto, il commissario ad acta rientra, ai sensi
dell’art. 21 c.p.a., fra gli organi ausiliari del giudice:
da tale qualificazione, va individuata la fonte dei suoi
poteri nella sentenza da portare ad esecuzione.
La giurisprudenza costante di questo Consiglio ritiene che
il commissario ad acta sia legittimato “ad adottare ogni
misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto,
idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento
effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto
titolare nella sentenza da portare ad attuazione” (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 01.03.2012 n. 1194).
Per consentire l’adempimento dei propri compiti, viene
garantita una particolare autonomia al commissario, che si
riverbera sul contenuto degli atti da esso adottati, i quali
hanno gli stessi effetti verso i terzi di quelli dell’ente
sostituito, per provvedere in luogo di quest’ultimo e per
superare la paralisi dell’azione amministrativa, dando vita
ad una relazione intersoggettiva, e non interorganica, con
l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013 n. 327).
Il potere del commissario di sostituirsi all’amministrazione
nella valutazione e nella attività di scelta, tra i vari
interessi coinvolti in uno specifico procedimento,
consentono di valorizzare l’elemento discrezionale degli
atti emanati da questo soggetto, quale organo ausiliario del
giudice: in tal modo, da un lato, in capo
all’amministrazione non residua alcun potere discrezionale
relativo all’attuazione del provvedimento adottato e,
dall’altro lato, è possibile ricorrere all’autorità
giudiziaria soltanto qualora vi sia un contrasto fra la
sentenza da portare ad esecuzione ed il contenuto del
provvedimento adottato dal commissario ad acta
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2015 n. 3258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In tema di responsabilità della pubblica
amministrazione, il risarcimento del danno subito non può
conseguire in modo automatico dall’annullamento di un atto
illegittimo adottato dall’amministrazione: la
giurisprudenza, mediante il rinvio al sistema delle
presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729 cod.
civ., è pressoché unanime nel ritenere che l’illegittimità
del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli
indici presuntivi della colpevolezza dell’amministrazione.
In virtù di tale configurazione, qualora si annulli un
provvedimento illegittimo, graverà sull’amministrazione
l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione
di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile.
Quest’ultimo va configurato qualora si sia in presenza di un
contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una
norma, di un fatto altamente complesso o dell’influenza di
altri soggetti.
---------------
In ordine alla
tempestività -o meno- dell’azione amministrativa che può
cagionare danno, occorre innanzitutto richiamare la giurisprudenza della
Suprema Corte di Cassazione, che distingue, come noto, tra
causalità materiale e causalità giuridica.
In tema di causalità materiale, la giurisprudenza di questo
Consiglio, partendo dai principi enunciati negli artt. 40 e
41 c.p., ha affermato che il rigore del principio della c.d.
“equivalenza delle cause” viene temperato nel principio di
“causalità efficiente”, di cui all’art. 41 co. 2 c.p.: in
base ad esso, l’evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo
se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le
altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle
normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Tuttavia, questa relazione causale non è sufficiente ai fini
della determinazione di una causalità giuridicamente
rilevante, poiché occorre attribuire rilievo alle relazioni
causali che, nel momento in cui si produce l’evento causante
non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino
come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il
principio della c.d. causalità adeguata o quello similare
della c.d. regolarità causale.
Successivamente, all’interno
della serie causale così individuata, occorre dar rilievo
solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili
in base ad una valutazione ex ante.
---------------
Il comportamento inerte dell’Amministrazione può, semmai,
essere valutato ai fini della risarcibilità del c.d. “danno
da mero ritardo”.
Con esso, come è noto, si individuano le fattispecie in cui
l’oggettivo dato del superamento del termine legale di
conclusione di un procedimento, rappresenta ex se un
pregiudizio per l’operatore economico che ne subisce le
conseguenze: questa ricostruzione del pregiudizio sofferto,
prescinde del tutto dalle valutazioni circa la
attribuibilità del bene della vita finale, cui il privato
tendeva con la presentazione dell’istanza, alla quale
l’Amministrazione non ha dato riscontro (o l’ha fatto con
ritardo).
Il fondamento della risarcibilità del danno da mero ritardo
risiede “nell’affidamento del privato alla certezza dei
tempi dell’azione amministrativa” che “sembra -nell’attuale
realtà economica e nella moderna concezione del c.d.
rapporto amministrativo- essere interesse meritevole di
tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare
tale tutela alla previsione e all’azionabilità di strumenti
processuali a carattere propulsivo”.
La cristallizzazione di questa tipologia di danno si è avuta
con l’introduzione, da parte del legislatore, dell’art.
2-bis l. n. 241/1990, che disancora il danno da ritardo
dalla necessaria dimostrazione della spettanza del bene
sostanziale, così attribuendo al tempo il valore di bene di
per sé rilevante: al riguardo, anche un recente filone
giurisprudenziale -cui il Collegio ritiene di aderire ai
fini della definizione della fattispecie de qua- ha ritenuto
la valutazione sulla lesione della certezza dei tempi
procedimentali indipendente dal giudizio prognostico di
spettanza del bene della vita, purché il danno venga
effettivamente provato nel suo preciso ammontare.
Il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento
amministrativo non può, infatti, far presumere di per sé la
sussistenza di un danno risarcibile, ma il danneggiato deve,
ai sensi dell’articolo 2697 cod. civ., provare tutti gli
elementi costitutivi della relativa domanda.
Come è noto,
in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, il
risarcimento del danno subito non può conseguire in modo
automatico dall’annullamento di un atto illegittimo adottato
dall’amministrazione: la giurisprudenza, mediante il rinvio
al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt.
2727 e 2729 cod. civ., è pressoché unanime nel ritenere che
l’illegittimità del provvedimento annullato costituisce
soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza
dell’amministrazione. In virtù di tale configurazione,
qualora si annulli un provvedimento illegittimo, graverà
sull’amministrazione l’onere di provare l’assenza di colpa,
mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi
dell’errore scusabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012 n. 482; sez. V,
06.12.2010, n. 8549; id., 18.11.2010, n. 8091; sez. VI, 27.04.2010, n. 2384;
id., 11.01.2010, n. 14; sez. V, 08.09.2008, n.
4242).
Quest’ultimo va configurato qualora si sia in presenza di un
contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una
norma, di un fatto altamente complesso o dell’influenza di
altri soggetti (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015 n. 1953).
...
In ogni caso,
anche prescindendo dall’esame dell’elemento psicologico
effettuato dal TAR, devono ritenersi inesatte le
conclusioni cui esso è giunto in relazione al nesso di
causalità: nella sentenza impugnata, infatti, si è ritenuto
che, se non vi fosse stato il ritardo nell’inoltro della
pratica concernente la d.i.a. all’autorità di Bacino,
sicuramente il sig. Fr. avrebbe avuto accesso alle
tariffe incentivante di cui al c.d. “Terzo conto energia”:
senza dubbio, cioè, la tempestività dell’azione
amministrativa avrebbe consentito all’impianto di entrare in
funzione entro il 30.11.2011.
Tale affermazione non risulta, tuttavia, corroborata
dall’esame delle circostanze fattuali. Sull’argomento,
occorre, innanzitutto richiamare la giurisprudenza della
Suprema Corte di Cassazione, che distingue, come noto, tra
causalità materiale e causalità giuridica (Cass. Civ., 31.05.2005, n. 1609; id.,
02.02.2001 n. 1516; id., 21.12.2001 n. 16163; id., SS.UU. 26.01.1971 n. 174).
In tema di causalità materiale, la giurisprudenza di questo
Consiglio, partendo dai principi enunciati negli artt. 40 e
41 c.p., ha affermato che il rigore del principio della c.d.
“equivalenza delle cause” viene temperato nel principio di
“causalità efficiente”, di cui all’art. 41 co. 2 c.p.: in
base ad esso, l’evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo
se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le
altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle
normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Tuttavia, questa relazione causale non è sufficiente ai fini
della determinazione di una causalità giuridicamente
rilevante, poiché occorre attribuire rilievo alle relazioni
causali che, nel momento in cui si produce l’evento causante
non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino
come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il
principio della c.d. causalità adeguata o quello similare
della c.d. regolarità causale. Successivamente, all’interno
della serie causale così individuata, occorre dar rilievo
solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili
in base ad una valutazione ex ante (cfr. Cons. Stato, 28.04.2014 n. 2195).
Alla luce di quanto espresso, il Collegio non ritiene che il
ritardo nell’inoltro della pratica all’autorità di Bacino,
ai fini del rilascio del relativo parere, sia stata la causa
che, nell’ottica descritta, abbia contribuito alla
dilatazione dei tempi di conclusione dei lavori
dell’intervento sull’area di proprietà del sig. Fr..
...
5. Il
comportamento inerte dell’Amministrazione, lungi dal
configurare la causa del mancato accesso alle tariffe
incentivanti del c.d. “Terzo conto energia” può, semmai,
essere valutato ai fini della risarcibilità del c.d. “danno
da mero ritardo”.
Con esso, come è noto, si individuano le fattispecie in cui
l’oggettivo dato del superamento del termine legale di
conclusione di un procedimento, rappresenta ex se un
pregiudizio per l’operatore economico che ne subisce le
conseguenze: questa ricostruzione del pregiudizio sofferto,
prescinde del tutto dalle valutazioni circa la attribuibilità del bene della vita finale, cui il privato
tendeva con la presentazione dell’istanza, alla quale
l’Amministrazione non ha dato riscontro (o l’ha fatto con
ritardo).
Il fondamento della risarcibilità del danno da
mero ritardo risiede “nell’affidamento del privato alla
certezza dei tempi dell’azione amministrativa” che “sembra -nell’attuale realtà economica e nella moderna concezione del
c.d. rapporto amministrativo- essere interesse meritevole
di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente
relegare tale tutela alla previsione e all’azionabilità di
strumenti processuali a carattere propulsivo” (Cons. Stato,
Sez. IV, ord. 07.03.2005, n. 875).
La cristallizzazione di questa tipologia di danno si è avuta
con l’introduzione, da parte del legislatore, dell’art.
2-bis l. n. 241/1990, che disancora il danno da ritardo
dalla necessaria dimostrazione della spettanza del bene
sostanziale, così attribuendo al tempo il valore di bene di
per sé rilevante: al riguardo, anche un recente filone
giurisprudenziale -cui il Collegio ritiene di aderire ai
fini della definizione della fattispecie de qua- ha
ritenuto la valutazione sulla lesione della certezza dei
tempi procedimentali indipendente dal giudizio prognostico
di spettanza del bene della vita (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
02.09.2013 n. 4344; CGRS, 24.10.2011 n. 684;
Cons. Stato, Sez. III, 03.08.2011 n. 4639), purché il
danno venga effettivamente provato nel suo preciso
ammontare.
Il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento
amministrativo non può, infatti, far presumere di per sé la
sussistenza di un danno risarcibile, ma il danneggiato deve,
ai sensi dell’articolo 2697 cod. civ., provare tutti gli
elementi costitutivi della relativa domanda (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 10.06.2014, n. 2964).
5.1 Ciò premesso, nel caso in esame, il Collegio ritiene
pacificamente dimostrato, dall’esame della situazione in
fatto, il ritardo dell’azione amministrativa e che, rispetto
al nesso di causalità, la colpevole inerzia, protrattasi
oltre i termini ordinari di conclusione del procedimento,
non sia in alcun modo scusabile ed abbia cagionato un
pregiudizio al sig. Fr.
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2015 n. 3258 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Nell’intercapedine del piano non si collocano tubature.
Pertinenze. Ma per la Cassazione ogni caso va valutato
singolarmente.
Per stabilire a chi appartiene l’intercapedine
tra una proprietà e l’altra è necessario, anzitutto, fare
riferimento dell’atto di trasferimento della proprietà
dell’unità immobiliare, poi al regolamento di condominio e,
infine, all’utilità che un condomino può trarre dalla
stessa, in base alla sua destinazione strutturale o
funzionale.
In un caso sottoposto di recente all’attenzione della Corte
di Cassazione, Sez. II civile (sentenza
26.06.2015 n. 13295) un condòmino del primo piano ne
aveva citato in giudizio un altro soprastante, accusandolo
di aver trasformato il tetto in un lastrico solare, creando,
così, una servitù di luce e di veduta oltre ad aver fatto
passare nel doppio soffitto (intercapedine) di sua
proprietà, i tubi di scarico di cui chiedeva, pertanto, la
rimozione.
Il Tribunale respingeva la domanda mentre la
Corte d’appello dava ragione al ricorrente e condannava il condòmino del piano di sopra a rimuovere le tubature. Per i
giudici il condòmino, per mantenere i tubi, avrebbe dovuto
dimostrare di essere proprietario del «vano tecnico» (cioè
intercapedine) –dal momento che l’atto di acquisto nulla
diceva a riguardo– o che fosse titolare di un diritto di
servitù o che potesse avvalersi dell’usucapione. Ma la
dimostrazione non era stata data.
Investita della questione, la Corte di cassazione, per
stabilire a chi appartenesse l’intercapedine, ha
preliminarmente richiamato l’attenzione sul concetto di
pertinenza in base all’articolo 817 del Codice civile: «(...) in una cosa accessoria asservita funzionalmente ed in
maniera durevole all’utilità o ad ornamento di un’altra cosa
principale ed è caratterizzata da due elementi uno
soggettivo e l’altro oggettivo».
Dal punto di vista soggettivo è necessario che la pertinenza
sia asservita, per volontà del proprietario della cosa
principale, in un rapporto funzionale con quest’ultima
ovvero a servizio o ad ornamento della stessa. Ciò premesso,
considerato che i titoli di proprietà delle parti non
facevano alcun riferimento a tale vano tecnico e che la
consulenza tecnica d’ufficio aveva constatato che
l’intercapedine in questione aveva la funzione di isolare e
proteggere l’appartamento collocato al primo piano,
sussisteva effettivamente un rapporto funzionale tra
l’intercapedine e l’appartamento.
Solo dopo questa analisi la Corte è riuscita a stabilire che
quel vano tecnico (l’intercapedine risultato di una
controsoffittatura dell’altezza di m.1,30) aveva la funzione
di isolare l’appartamento al piano di sotto e che, pertanto,
apparteneva al proprietario di quest’ultimo perché ne traeva
il maggior beneficio (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2015). |
APPALTI SERVIZI: Onlus, ok l'affidamento diretto. Possibile stracciare i
prezzi grazie al lavoro dei volontari.
Il Consiglio di stato dà applicazione a un principio
affermato dalla Corte di giustizia.
La Onlus può ottenere in affidamento diretto la gestione del
servizio pubblico laddove grazie al lavoro dei volontari
pratica prezzi tanto bassi da risultare «fuori mercato»: non
si tratta di un appalto mascherato, e dunque illegittimo,
perché conferito senza gara in quanto il profitto
imprenditoriale risulta effettivamente escluso mentre la
diffusione sul territorio delle associazioni assicura il
regolare svolgimento delle attività, consentendo
all'amministrazione di centrare l'obiettivo dell'efficienza
economica.
Via libera in Liguria, dunque, alle ambulanze
gestite da associazioni di volontariato aderenti all'Anpas,
Associazione nazionale pubbliche assistenze.
È quanto emerge
dalla
sentenza 26.06.2015 n. 3208, pubblicata dalla III
Sez. del
Consiglio di Stato, che dà attuazione alla sentenza
pubblicata l'11 dicembre scorso dalla Corte di giustizia
europea proprio traendo spunto da questa vicenda.
Solidarietà e cassa
Accolto il ricorso dell'Asl che ha siglato l'intesa con le
Onlus e la Croce rossa italiana, destando le ire delle
cooperative sociali che non sono in grado di offrire prezzi
tanto competitivi. I giudici eurounitari hanno affidato un
monito alle autorità italiane: non si possono coprire «le
pratiche abusive delle associazioni di volontariato e dei
loro membri».
Ma per palazzo Spada nella specie non c'è alcun rischio del
genere: l'accordo quadro sottoscritto non può essere
qualificato come contratto a titolo oneroso che comporta un
ristoro più ampio del rimborso spese, ciò che farebbe
scattare la violazione delle regole comunitarie che
impongono sempre le gare per gli appalti pubblici.
Il punto è che volontariato e Croce rossa sono presenti sul
territorio in modo capillare: così il servizio può essere
gestito utilizzando in modo razionale il complesso delle
risorse di uomini e di mezzi disponibili, limitando al
massimo le distanze da percorrere e i tempi degli
interventi, riducendo anche in questo modo i costi.
Insomma: le Onlus sono favorite perché non hanno
praticamente costi di manodopera. E non c'è motivo di
ritenere che la modalità organizzativa scelta dall'Asl non
sia in grado di conseguire gli obiettivi di solidarietà
sociale da un lato e contenimento della spesa dall'altro.
Spese di giudizio compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
La finestra diventa balcone? La Scia resiste ai
condomini.
Uno dei condomini non può rivolgersi al comune per bloccare
l'opera edilizia promossa dall'altro sulla base della Scia.
E ciò anche se l'assemblea ha bocciato la proposta avanzata
dal singolo proprietario esclusivo di trasformare le
finestre in balconi approfittando dei lavori alla facciata
dell'edificio: l'amministrazione non può subordinare il
rilascio del titolo abilitativo al consenso del confinante
laddove si tratta di una questione di diritti reali, e
dunque civilistica, che resta estranea alla competenza
dell'ente locale.
È quanto emerge dalla
sentenza
22.06.2015 n. 1409, pubblicata dal TAR
Campania-Salerno, I Sez..
Clausola di salvaguardia.
Niente da fare per i condomini che invocavano dal comune
misure repressive contro i lavori dei vicini. È vero: nella
documentazione presentata all'amministrazione locale si tace
che l'assemblea condominiale ha già bocciato la proposta di
far diventare veri e propri balconi le finestre
dell'edificio che risale a prima della seconda guerra
mondiale.
Ma in realtà, osservano i giudici amministrativi, è
sbagliata la prassi dei comuni che subordinano l'emissione
del titolo abilitativo per l'opera edilizia al consenso dei
titolari di diritti reali confinanti ovvero di diritti reali
di comunione, tra i quali il condominio: va invero ricordato
che l'articolo 11, comma 3, del Testo unico per l'edilizia
contiene una clausola di salvaguardia generale che fa salvi
i diritti dei terzi.
Ai vicini, dunque, non restano che le spese di giudizio
davanti al Tar e rivolgersi al giudice civile
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015).
---------------
MASSIMA
2. Va preliminarmente rilevata la riconducibilità della
controversia alla potestas judicandi del giudice
adito, avuto riguardo alla stessa dinamica della
controversia innescata dall’esecuzione di interventi edilizi
realizzato in virtù di Segnalazione certificata inizio
attività e caratterizzata dall’adozione di atti
amministrativi, avverso i quali parte ricorrente articola
specifiche censure invocandone l’annullamento.
Si osserva invero in giurisprudenza (TAR Napoli, Campania,
sez. II, 21.06.2013, n. 3195) che, con l'intervento
correttivo al codice del processo amministrativo, attuato
con il d.lgs. n. 195 del 2011, è stato
ridefinito l’ambito della giurisdizione esclusiva del g.a.
in materia di S.c.i.a., con la precisazione che appartengono
ad essa le controversie relative al silenzio ed ai "provvedimenti
espressi" adottati dall'amministrazione su
sollecitazione del terzo ai sensi del comma 6-ter dell'art.
19, l. n. 241 del 1990 (art. 133, comma 1, lett. a, punto 3
c.p.a.).
Dalla chiara formulazione delle prefate disposizioni emerge
inequivocabilmente che la tutela del terzo
deve essere necessariamente mediata dalla presentazione di
un'istanza dell’interessato all’amministrazione, diretta a
sollecitare l’esercizio dei poteri dei quali quest’ultima è
attributaria: tale istanza, infatti, costituisce il
presupposto per esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a.
nell’ipotesi di inerzia ovvero l’azione di annullamento,
nell’ipotesi in cui l’amministrazione si sia determinata con
il provvedimento espresso, lesivo dei propri interessi.
La suddetta disposizione normativa ha di fatto determinato
il superamento, quanto meno parziale, delle conclusioni cui
era giunta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15
del 2011: detta ultima disciplina legislativa ha previsto
che la tutela della posizione giuridica soggettiva del
terzo, a seguito del deposito di una d.i.a. (ora S.c.i.a.)
ritenuta lesiva, debba comportare l’esperimento "in via
esclusiva", dell'azione in materia di silenzio e di cui
all’art. 31, commi 1, 2 e 3, d.lgs. 02.07.2010 n. 104,
determinando il venir meno del dibattito giurisprudenziale e
dottrinario diretto a rilevare se, a seguito del decorso del
termine per l'esercizio del potere inibitorio, si produceva
un atto tacito o, al contrario, se risultava in essere un
titolo idoneo a legittimare l’esercizio di un’attività
privata e determinando, nel concreto, il superamento delle
conclusioni cui era giunta l'Adunanza Plenaria sopra citata
e, ciò, per quanto attiene l’ammissibilità, rispettivamente,
sia dell’azione di annullamento (nell’ipotesi in cui fosse
spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio)
sia, nel contempo dell’azione di accertamento
nell’eventualità in cui il termine di cui sopra non sia
ancora spirato.
La vicenda in esame rientra quindi senz’altro nella sfera
giurisdizionale del giudice adito, trovando riferimento in
una specifica previsione normativa che pertiene
all’esercizio dei poteri giurisdizionali del giudice
amministrativo. Deve tuttavia rilevarsi che il sindacato di
questo giudice non può spingersi fino alla verifica circa
l’effettiva necessità dell’assenso condominiale alla luce
delle caratteristiche dell’intervento realizzato.
Sotto tal profilo, invero, è in gioco la violazione delle
norme dettate dal Codice Civile circa l'uso delle parti
comuni e pertanto si tratta di censure che investono la
violazione di diritti soggettivi e pertanto interessano
profili -tutela delle parti comuni- che riguardano il
diritto di proprietà del Condominio e dei singoli
proprietari sulle aree comuni.
Il sindacato di questo Giudice non può non
arrestarsi cioè innanzi a questioni che riflettono conflitti
interprivati, che, in quanto tali, non possono che essere
affidati alla cognizione del giudice ordinario
(v., di recente, TAR Venezia, Veneto, sez. II, 14.02.2014,
n. 199).
3. Il ricorso n. 2304/2013 è infondato.
3.1. La questione agitata con tale gravame consiste nella
rilevanza dell’autorizzazione condominiale ai fini della
legittimità della Scia consolidatasi attraverso l’iniziativa
dei controinteressati. La risposta al quesito non può che
essere negativa.
Si afferma, infatti, in giurisprudenza, che “deve
assolutamente censurarsi quella prassi amministrativa che
subordina il rilascio di titoli edilizi abilitativi al
consenso dei titolari di diritti reali confinanti ovvero di
diritti reali di comunione —tra cui il condominio— e
finanche di diritti personali di godimento; invero, i
rapporti tra l'istante e i vicini, siano essi titolari di
diritti reali individuali ovvero in comunione, hanno natura
e rilevanza privatistica e non devono interessare
l'amministrazione locale anche perché vi è comunque la
clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei
terzi prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n.
380; è pertanto illegittimo il provvedimento con cui si
rifiuta l'adozione di un atto amministrativo abilitativo
—sia esso costituito da una concessione edilizia ovvero da
una Dia— in assenza di un atto di consenso di natura
privatistica ed attinente ai rapporti di diritto privato tra
le parti, non previsto e non richiesto dalla legge”
(cfr. TAR Latina, Lazio, sez. I, 09.12.2010, n. 1949).
Così pure si afferma che “Ove la
realizzazione di opere in attuazione di una d.i.a.
interessino anche il condominio, il mancato assenso di
quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne
esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea
l'Amministrazione in sede di esame della denuncia medesima
e, di conseguenza, risulta illegittima la sospensione della
d.i.a. motivata dal mancato intervento di una autorizzazione
condominiale in ordine ai lavori edilizi”
(cfr. TAR Venezia, Veneto, sez. II, 02.07.2007, n. 2139).
Anche il Supremo Consesso di G.A. si è espresso in tal
senso, osservando quanto segue: “Come
questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare, è facoltà
del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano
su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti
alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e
spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come
soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio
l'autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a
tali opere (Cons.
Stato, sez. Consiglio Stato , sez. V, 09.11.1998, n. 1583).
Va inoltre osservato che ove la realizzazione di
opere in attuazione di una d.i.a. interessino anche il
condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui
porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente
tematiche privatistiche, cui resta estranea
l'Amministrazione
(TAR Veneto, sez. II, 02.07.2007, n. 2139)”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Le osservazioni dell’autorevole Collegio,
riferite ad una d.i.a. edilizia, non possono non riferirsi
anche alla s.c.i.a., avuto riguardo alla sostanziale
assimilazione tra i due moduli di liberalizzazione
dell’attività privata
(Consiglio di Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3408).
E’ quindi da escludere, per tali ragioni, che residui un
potere di autotutela in capo all’Amministrazione, pur non
interdetto dalla particolare natura dell’assenso edilizio,
una volta venuta a conoscenza della mancanza
dell’autorizzazione condominiale, a prescindere dalla
verifica circa la sua effettiva necessità. Peraltro, come
evidenziato dalla difesa comunale, il fabbricato in oggetto
non risulta sottoposto ad alcuna disposizione vincolistica e
nemmeno è collocato in zona omogenea A del vigente Piano
Urbanistico Comunale, bensì in zona omogenea B.
Tanto è sufficiente per la reiezione del ricorso in esame. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio intende prendere le mosse dal testo dell’art. 19
della L. 241/1990, il quale testualmente dispone che
l’amministrazione deve procedere alla verifica dei requisiti
e dei presupposti previsti dalla legge.
La norma, riferita al caso in esame, sta a significare che
il Comune doveva controllare che i locali, dove s’intende
esercitare l’attività commerciale di ristorazione, siano,
dal punto di vista edilizio, conformi a legge, giacché tale
conformità si pone come un presupposto indispensabile per
consentire lo svolgimento legittimo di un’attività che, per
sua natura, coinvolge il pubblico.
Il Collegio intende prendere le mosse dal testo dell’art. 19
della L. 241/1990, il quale testualmente dispone che
l’amministrazione deve procedere alla verifica dei requisiti
e dei presupposti previsti dalla legge.
La norma, riferita al caso in esame, sta a significare che
il Comune doveva controllare che i locali, dove s’intende
esercitare l’attività commerciale di ristorazione, siano,
dal punto di vista edilizio, conformi a legge, giacché tale
conformità si pone come un presupposto indispensabile per
consentire lo svolgimento legittimo di un’attività che, per
sua natura, coinvolge il pubblico.
E giacché la conformità a
legge dei locali costituisce un necessario presupposto, la
cui assenza impedisce lo svolgimento dell’attività
commerciale considerata, tale profilo della vicenda risulta
assorbente e va considerato per primo.
Dagli atti di causa risulta che la società ricorrente ha
realizzato una struttura in legno, con la quale ha coperto
il terrazzo, modificando la sagoma dell’edificio. Le opere
realizzate sono visibili dalla strada. In tale modo, come
esattamente osserva il Comune nella sua memoria, si è
realizzato un primo piano, con superficie di non meno di 58
mq circa, a destinazione commerciale, qual è quella della
ristorazione.
Un siffatto intervento esula dalla previsione
dell’art. 20 della L.R. 4/2003, che ribadisce al comma 6 che
la realizzazione di verande non può comportare una
variazione della destinazione d’uso della superficie
modificata, la quale, comunque non può eccedere i 50 mq.. La
tesi della società ricorrente secondo cui il comma 7 della
norma citata prevede un diverso limite di 60 mq per gli
edifici adibiti esclusivamente ad attività commerciali, non
ha pregio, giacché ciò è consentito nel caso che vengano
realizzate opere per l’adeguamento degli edifici a
sopravvenute norme di sicurezza e/o igienico sanitarie, con
l’avvertenza che le opere realizzate con tale finalità
possono essere regolarizzate previa richiesta di
autorizzazione.
Il Collegio rileva, quindi, che le diverse tesi della
società ricorrente non possono essere condivise e il motivo
di ricorso va rigettato.
Nel provvedimento comunale impugnato si legge che
l’accessibilità al solaio di copertura, servito da una scala
a chiocciola interna al locale del piano terra, non risulta
conforme al D.M. 236 del 14.06.1989 artt. 4 e 8. Il primo
giudice ha ritenuto tale motivazione del provvedimento
impugnato immune da vizi, ritenendo del tutto irrilevante
che la medesima scala fosse stata ritenuta idonea ad un uso
privato, “quando il terrazzo non risultava occupato da
iniziative commerciali”.
La ricorrente non rivolge a
questo punto della sentenza nessuna censura sostanziale, ma
piuttosto lamenta che “il Comune ha affermato l’esistenza
di due ragioni di diniego della SCIA, che non aveva incluso
fra i motivi ostativi nell’avviso di avvio del procedimento,
senza quindi consentire alla ricorrente di presentare le
proprie osservazioni, frustrando la finalità partecipativa
della norma”.
Il Collegio ritiene di condividere quanto affermato dal
primo giudice. L’art. 4 del citato decreto 236/1989 prevede
espressamente una serie di requisiti che debbono avere le
scale degli edifici aperti al pubblico, requisiti che la
scala chiocciola non sembra avere né la ricorrente dice che
li abbia. Non si vede, quindi, quali osservazioni essa
avrebbe potuto presentare al Comune, che si è limitato a
richiamare una precisa norma, che non lascia spazio a
valutazioni discrezionali.
Conclusivamente il ricorso va dichiarato infondato e come
tale va respinto con assorbimento di ogni altro motivo
(C.G.A.R.S.,
sentenza 18.06.2015 n. 446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Servizio smaltimento tassato. Pagamento della Tari anche
senza effettiva utilizzazione.
RIFIUTI/ Secondo la Cassazione il tributo è dovuto per la
detenzione di locali e aree.
È sufficiente che il servizio di smaltimento rifiuti sia
istituito per imporre ai contribuenti il pagamento della
tassa. Quindi, il tributo è dovuto per la detenzione di
locali e aree e non per il fatto che venga utilizzato il
servizio fornito dall'ente.
Lo ha affermato la Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 10.06.2015 n. 12035.
La stessa regola vale oggi per la Tari, considerato che
anche la nuova disciplina non collega il pagamento alla
effettiva fruizione del servizio di smaltimento rifiuti. È
stata, infatti, ritenuta infondata la pronuncia della
commissione regionale che aveva escluso il pagamento poiché
la contribuente aveva documentato di non aver potuto fruire
del servizio pubblico per la mancanza di collegamento
stradale tra la sua abitazione e il punto di raccolta dei
rifiuti.
Per i giudici di legittimità non si può condizionare
l'obbligo tributario alla materiale fruizione del servizio,
in quanto i criteri di ripartizione del costo sostenuto dal
comune non sono collegati al suo concreto utilizzo, ma si
basano su indici presuntivi.
Del resto, la ragione istitutiva della tassa è quella di
porre le amministrazioni locali nelle condizioni di
soddisfare interessi generali della collettività e non di
fornire delle prestazioni riferibili ai singoli cittadini.
Addirittura, ex lege anche il mancato svolgimento del
servizio di raccolta da parte del comune non comporta
l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura ridotta.
In realtà l'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo
507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il
servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto
nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava
l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre,
se il servizio era effettuato in grave violazione delle
prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i
limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale
estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le
modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione
degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di
collocazione dei contenitori.
È il contribuente che deve dare la prova delle condizioni
per usufruire eventualmente della riduzione della tassa. E
le stesse regole valgono oggi per la Tari.
I commi 656 e 657 della legge di stabilità 2014 (147/2013)
prevedono che il tributo è dovuto nella misura del 20% in
caso di mancato svolgimento del servizio e in misura non
superiore al 40% nelle zone in cui non è effettuata la
raccolta, da graduare in relazione alla distanza dal più
vicino punto di raccolta.
L'orientamento della giurisprudenza. La tassa rifiuti,
dunque, si paga anche quando il contribuente non si avvale
del servizio svolto dall'amministrazione comunale. La
Cassazione (sentenza 17381/2010) anche in passato ha
sostenuto che una banca che rifiutava il servizio e smaltiva
i rifiuti in proprio non fosse esonerata dal pagamento della Tarsu e non avesse diritto ad alcuna riduzione tariffaria.
Per i giudici di piazza Cavour, lo smaltimento effettuato a
cura e spese del contribuente non determina né l'esclusione
dal pagamento della tassa né dà diritto a una riduzione
della somma dovuta.
I comuni esercitano in regime di privativa la raccolta e la
gestione dei rifiuti solidi urbani e di quelli assimilati e
per la prestazione del servizio grava sui cittadini
l'obbligo del pagamento del tributo, indipendentemente dal
fatto che essi si avvalgano del servizio, purché ne abbiano
la possibilità. Con la sentenza 6312/2005 ha precisato che
per il sorgere dell'obbligo fiscale non è sufficiente la
mera ubicazione dell'immobile nel perimetro in cui è
istituito il servizio, ma è indispensabile che il cittadino
residente abbia la possibilità di utilizzarlo.
Le regole del tributo. Sia per la Tarsu che per la Tari,
ancora oggi, il presupposto della tassa è l'occupazione o la
detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso
adibiti.
Non sono soggetti a imposizione i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il
particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano
indicate nella denuncia originaria o di variazione e
debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi
direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per
la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in
luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono.
Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di
produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria.
La sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la
presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti
devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da
parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione solo i locali e le aree che
sono oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di
produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto
inutilizzati. Pertanto, anche la scelta soggettiva del
titolare di non usare l'immobile non assume alcuna
rilevanza. Sempre La Cassazione ha ripetutamente ribadito
che anche gli immobili vuoti, vale a dire privi di allacci
alle reti idriche, elettriche, o di mobili, sono soggetti al
prelievo.
Le amministrazioni comunali per poter applicare la tassa
sono tenute ad adottare un regolamento che deve contenere
non solo la classificazione delle categorie ed eventuali
sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe
ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare possono essere
individuate anche le fattispecie agevolative, con le
relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali
cause di decadenza. È riconosciuta all'ente la facoltà di
prevedere, con apposita disposizione del regolamento,
speciali agevolazioni, sotto forma di riduzioni e, in via
eccezionale, di esenzioni dal tributo.
---------------
Strade private conteggiate nel calcolo della distanza.
La tassa rifiuti deve essere commisurata alla effettiva
distanza tra ciascuna abitazione e il punto di raccolta e
nel calcolo devono essere considerate anche le strade
private o interpoderali.
In questo senso si è espressa in
passato la Commissione tributaria regionale di Roma, sezione XXXVIII, con la sentenza 65/2005, che ha ritenuto infondata
la tesi del comune di Palestrina, secondo cui la riduzione
della tassa può trovare applicazione solo nel caso in cui il
cassonetto sia collocato su suolo pubblico diverso e
distinto dalla strada privata che conduce all'abitazione.
La questione è di attualità ancora oggi per la Tari.
Nel caso in esame, il comune aveva richiesto al contribuente
un maggior tributo elevando la tariffa al 100%. La richiesta
era motivata dal fatto che l'abitazione del contribuente era
sita vicina a un cassonetto e, quindi, non gli spettava la
riduzione.
Nel calcolo della distanza tra l'abitazione del contribuente
e il cassonetto, però, non si era tenuto conto delle strade
private o interpoderali. Il giudice di primo grado, invece,
ha accolto il ricorso del contribuente, in quanto la tassa
deve essere commisurata alla effettiva distanza tra ciascuna
abitazione e il punto di raccolta.
Come già rilevato, nelle
zone in cui non è effettuata la raccolta in regime di
privativa dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati,
la tassa è dovuta in misura non superiore al 40% della
tariffa da determinare in relazione alla distanza dal più
vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o
di fatto servita. Gli occupanti o detentori degli
insediamenti situati fuori dell'area di raccolta sono
comunque tenuti a utilizzare il servizio pubblico di
nettezza urbana e devono conferire i rifiuti nei contenitori
viciniori.
In questo caso è irrilevante ai fini della tassazione che il
contribuente provveda direttamente e a proprie spese allo
smaltimento dei rifiuti che ha prodotto, se
l'amministrazione ha istituito il servizio pubblico di
raccolta
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015). |
URBANISTICA: L’articolo
30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse
fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo
la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza,
della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o “materiale”
o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione
di opere edilizie finalizzate alla trasformazione
urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in
violazione della normativa vigente nella zona, realizzando
quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto
della funzione pianificatoria dei Comuni”.
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una
lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul
territorio tale da comportare una nuova definizione
dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non
sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale
attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula
di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia
anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun
caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni
oggettive, si pone in contrasto con la destinazione
programmata del territorio comunale”.
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in
considerazione nel caso di specie, posto che le opere di
allacciamento che la ricorrente intende realizzare
riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del
Parco naturale regionale e classificate dallo strumento
urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei
quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi
insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra
le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la
lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...)
integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano
esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo
fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete
fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di
modeste dimensioni”.
Peraltro, la
giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una
lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo
edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con
il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione”.
---------------
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i
summenzionati principi giurisprudenziali, l’operato del Comune
risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una
pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in
stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla
base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un
insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è
soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente
restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che
l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra
descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non
trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla
trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo
insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria
ad esso relativa.
---------------
Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la
lottizzazione abusiva si configura attraverso la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in
violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti
urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di
opere autorizzate.
10.2 Parimenti esente dalle censure allegate dalla
ricorrente è la valutazione compiuta dal Comune, il quale ha
ritenuto che la realizzazione di allacciamenti alle reti
idrica e fognaria dei fabbricati dismessi avrebbe dato luogo
a una lottizzazione abusiva.
Al riguardo, giova tenere presente che l’articolo 30, comma
1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse
fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo
la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza,
della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o “materiale”
o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione
di opere edilizie finalizzate alla trasformazione
urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in
violazione della normativa vigente nella zona, realizzando
quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto
della funzione pianificatoria dei Comuni” (così, tra le
ultime, TAR Toscana, Sez. III, 30.03.2015, n. 509; si
tratta di principio pacifico nella giurisprudenza della
Corte di Cassazione: cfr, ex multis, Cass. pen., Sez. III,
n. 38733 del 2012).
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una
lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul
territorio tale da comportare una nuova definizione
dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non
sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale
attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula
di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia
anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun
caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni
oggettive, si pone in contrasto con la destinazione
programmata del territorio comunale” (Cass. pen., Sez. III,
n. 38733 del 2012).
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in
considerazione nel caso di specie, posto che le opere di
allacciamento che la ricorrente intende realizzare
riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del
Parco naturale regionale e classificate dallo strumento
urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei
quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi
insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra
le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la
lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...)
integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano
esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo
fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete
fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di
modeste dimensioni” (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004,
n. 20373; Id. 09.01.2013, n. 5870).
Peraltro, la
giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una
lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo
edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con
il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione” (Cass. pen., Sez. III, n. 27705 del
2011; Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2001, n. 790).
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i
summenzionati principi giurisprudenziali, che il Collegio
pienamente condivide, l’operato del Comune di Montevecchia
risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una
pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in
stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla
base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un
insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è
soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente
restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che
l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra
descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non
trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla
trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo
insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria
ad esso relativa.
La censura va quindi respinta.
10.3 Anche il riferimento, operato dalla ricorrente, alla
previsione dell’articolo 38, comma 1, delle NTA del PTC del
Parco naturale, vigente all’epoca del ricorso, non coglie
nel segno.
La suddetta disposizione, concernente le “Reti di
distribuzioni, impianti e infrastrutture” subordina al
previo espletamento delle procedure di cui all’articolo 14
delle stesse NTA (concernente la “dichiarazione di
compatibilità ambientale”), gli interventi aventi ad oggetto
“L’utilizzazione o l’attraversamento di terreni interessati
dal presente P.T.C. per la posa di linee e reti di servizi
pubblici, elettrodotti, oleodotti, gasdotti e simili, fatti
salvi gli allacciamenti alle singole utenze delle relative
centraline o cabine, nonché lo sviluppo, il potenziamento,
la modificazione di ubicazione o percorso di quelli
esistenti”.
Secondo la ricorrente, gli allacciamenti richiesti
rientrerebbero nella prevista esenzione dalle procedure di
compatibilità ambientale e, quindi, anche sotto tale profilo
il permesso sarebbe stato negato illegittimamente dal
Comune.
Al riguardo –in disparte ogni altra considerazione– è
sufficiente rilevare che la nota comunale impugnata non si
pone in contrasto con la suddetta disposizione del PTC, in
quanto è volta unicamente a evidenziare che, di fatto, la
realizzazione degli allacciamenti darebbe luogo a una
lottizzazione abusiva.
Si tratta di affermazione corretta, poiché il risultato –illecito– della realizzazione di una lottizzazione abusiva
ben può essere conseguito anche attraverso attività che,
considerate in sé, prescindendo dalla loro correlazione e
dal contesto fattuale, siano da ritenere consentite, e siano
state finanche autorizzate dalle amministrazioni competenti.
E invero, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la
lottizzazione abusiva si configura attraverso la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in
violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti
urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di
opere autorizzate (Cass. pen., Sez. III, 26.06.2009, n.
26586; v. anche Id., 24.09.2013, n. 41479)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.06.2015 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Imposta pubblicità per le grandi scritte.
Le scritte di grossa dimensione riportanti la denominazione
della società, sulle facciate del palazzo o capannone ove ha
sede l'azienda, sono soggette all'imposta comunale sulla
pubblicità, nel caso in cui la dimensione ecceda il limite
di 5mq; nel calcolo del limite, va considerata la superficie
complessiva, dacché lo stesso risulta superato anche quando
via siano una pluralità di scritte, le cui dimensioni vanno
considerate in modo cumulativo.
Sono le conclusioni che si
leggono nella sentenza 19.05.2015 n. 2151/66/15 della Ctr
della Lombardia.
Il giudice della
sezione staccata di Brescia ha rigettato l'appello proposto
da una società per azioni, risultata già soccombente nel
giudizio di prime cure. La vertenza nasceva
dall'impugnazione di un avviso di accertamento emesso da una
società operante come concessionaria per il Comune di
Brescia, in relazione all'accertamento e alla riscossione
della imposta comunale sulla pubblicità.
Secondo l'ente
impositore, doveva essere applicata l'imposta sulle scritte
riportanti il nome della società apposte sulla facciata del
palazzo in cui era ubicata la sede sociale, di grandi
dimensioni che, cumulativamente considerate, si estendevano
per ben 568 mq. La contribuente riteneva che tali scritte
non rappresentassero alcun messaggio pubblicitario,
raffigurando meramente il logo aziendale e la denominazione
e non integrando i requisiti di cui all'art. 5 dlgs 507/1993.
Il collegio bresciano ha dato ritenuto legittima la
richiesta dell'imposta, riconducendo la questione nell'alveo
della fattispecie della «insegna di esercizio». Secondo la Ctr, tali scritte possono considerarsi a pieno titolo come
un'insegna di esercizio che, appunto, è la scritta in
caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli
o marchi, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa, con la
funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività economica stessa.
In base all'art. 17, comma
1-bis, dlgs 507/93, «l'imposta non è dovuta per le insegne
di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni
o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge
l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva
fino a 5 metri quadrati». Con la conseguenza che, qualora
detto limite venga superato, l'imposta è pienamente dovuta.
Anche nei casi come quello di specie, ove vengono apposte
una pluralità di scritte, il calcolo va ragguagliato alla
superficie complessiva, da ottenersi cumulando le superfici
delle varie insegne.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La Commissione osserva come la vertenza in esame possa
essere ricondotta più propriamente nell'alveo della
fattispecie della «insegna d'esercizio».
Infatti, l'art. 2-bis, comma 7, della legge 24.04.2002 n.
75 (normativa che ha precisato le modalità dia applicazione
dell'esenzione dal pagamento dell'imposta e del canone
prevista per le insegne d'esercizio) definisce «insegna
d'esercizio» la scritta di cui all'art. 47 del Regolamento
di esecuzione del nuovo Codice della Strada, approvato con
il dpr 16.12.1992, n. 495, vale a dire: «la scritta in
caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli
o da marchi. Realizzata e supportata con materiali di
qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui
si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa»,
precisando inoltre, come detta scritta deve avere «la
funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività economica».
L'art. 10 della legge n. 448/2001 (Legge finanziaria per il
2002) ha introdotto il comma 1-bis nell'art. 17 del dlgs N.
507/1993 che prevede una disciplina a favore delle insegne
le cui dimensioni non superino i cinque metri, escludendo
per le medesime il pagamento dell'imposta sulla pubblicità.
[omissis]
Ciò significa che se, ad esempio, l'unica insegna esposta
per individuare sede di svolgimento di attività economica ha
una superficie di 10 metri quadrati, il titolare del mezzo
pubblicitario deve pagare il tributo o il canone
commisurandolo a detta superficie.
Il suddetto meccanismo di commisurazione della superficie
assoggettabile a tributo o a canone trova applicazione anche
nel caso in cui siano esposte una pluralità di insegne di
esercizio. Ciò si desume dal comma 6 dell'art. 2-bis che
dispone espressamente come: in caso di pluralità di insegne
l'esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui
al comma 1 e cioè per la superficie complessiva non
superiore a cinque metri quadrati.
Nel caso di specie, la scritta..., ripetuta più volte sui
muri perimetrali della sede principale della società spa,
indipendentemente dal tratto grafico che la caratterizza,
rappresenta a tutti gli effetti una insegna di esercizio, o
per meglio dire una pluralità di insegne di esercizio
assoggettate all'imposta sulla pubblicità
(articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015
- tratto da www.fiscooggi.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Scade il
d-day. Ma il consiglio resta in piedi.
Sentenza del Tar Campania sull'approvazione del
rendiconto della gestione.
È escluso lo scioglimento del Comune anche se il Consiglio
prima di approvare la delibera con il rendiconto di gestione
ha lasciato scadere non soltanto il d-day fissato dalla
legge ma anche i 20 giorni prescritti dalla diffida a
provvedere notificatagli dal prefetto. E ciò perché sia il
termine fissato dal testo unico degli enti locali sia quello
indicato dall'ufficio territoriale del governo hanno natura
ordinatoria e non perentoria: se l'assemblea sfora i tempi,
quindi, l'iter per il commissariamento dell'ente non scatta
comunque.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.03.2015 n. 1785, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Funzione e accelerazione.
Inutile affannarsi con maratone notturne in aula per
approvare il rendiconto di gestione. In un Comune del Sannio
al 30.06.2014 c'è solo lo schema del rendiconto
approvato dalla Giunta (per l'annualità 2013 la scadenza di
fine aprile era stata posticipata).
Il 3 luglio un decreto
della prefettura diffida il Consiglio ad approvare il
documento contabile entro venti giorni, altrimenti sarebbe
scattata la procedura con cui l'ufficio del governo si
sostituisce all'ente locale: la notifica del provvedimento a
tutti i consiglieri si perfeziona soltanto l'8 luglio e
dunque il termine spira inutilmente il 28, mentre il
Consiglio riesce a votare la delibera il 31 dopo il deposito
di tutta la documentazione.
L'opposizione impugna il
silenzio-rifiuto della prefettura, che tuttavia risulta
legittimo. La difesa nota che sarebbe del tutto illogico
indicare un ulteriore termine ordinatorio oltre a quello
fissato dall'articolo 227 Tuel.
In realtà, scrivono i
giudici, con l'inerzia del Consiglio entra in scena
l'ufficio del Governo che ha una funzione «sollecitatoria»:
il testo unico degli enti locali non parla di approvazione
«entro e non oltre», mentre l'intervento sostitutivo del
prefetto è esigibile fintanto che non sia intervenuta la
delibera di Consiglio di approvazione del rendiconto, anche
oltre il termine assegnato nella diffida della stesso Utg;
lo scioglimento, insomma, scatta solo per gli inadempienti.
Spese compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).
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MASSIMA
Considerato che:
- i ricorrenti, nel lamentare l’illegittimità del silenzio
rifiuto serbato dalla Prefettura di Benevento, sostengono la
doverosità dell’intervento sostitutivo prefettizio, avendo
l’amministrazione comunale di Paolisi, sebbene intervenuta
con formale delibera consiliare, sforato il termine
perentorio del 28.07.2014 assegnato per l’approvazione del
rendiconto;
- i medesimi deducono, al riguardo, che la perentorietà del
termine indicato nella diffida prefettizia poggia sui
seguenti argomenti:
a) “sarebbe del tutto illogica la scelta del legislatore di
indicare un ulteriore termine ordinatorio successivamente a
quello del 30 aprile fissato dall’art. 227 TUEL (in questo
caso eccezionalmente differito al 30/03/2014)”;
b) la sanzione prevista in caso di violazione del termine assegnato
dalla Prefettura per l’approvazione del rendiconto,
consistente nell’attivazione dell’intervento sostitutivo,
non si addice all’inosservanza di un termine ordinatorio, la
quale comunque non comporta effetti sfavorevoli per
l’interessato;
c) la prassi seguita dal Ministero dell’Interno collega lo
scioglimento del Consiglio Comunale al semplice spirare del
termine assegnato dalla Prefettura, indipendentemente dalla
successiva approvazione consiliare del rendiconto (cfr.
documentazione in atti: decreto del Prefetto di Caserta del
30.05.2013 relativo al Comune di Alife; decreti del
Presidente della Repubblica del 12.07.2013, del 22.08.2013 e
del 23.01.2014, rispettivamente di scioglimento dei Comuni
di Bernalda, Gubbio e Casalduni; parere del Dipartimento per
gli Affari Interni e Territoriali dell’08.08.2014);
- la tesi attorea non convince, dovendosi viceversa ritenere
che l’intervento sostitutivo prefettizio è esigibile
fintanto che non sia intervenuta la delibera di Consiglio
Comunale di approvazione del rendiconto di gestione, anche
oltre il termine (non superiore a venti giorni) assegnato
nella previa diffida della stessa autorità prefettizia;
- infatti, tutta la procedura prevista
nell’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 è
essenzialmente finalizzata a sollecitare l’approvazione del
bilancio e del rendiconto di gestione da parte del
competente organo consiliare, ponendosi l’intervento
sostitutivo come estrema misura sanzionatoria una volta
constatato che, nonostante l’ulteriore termine appositamente
assegnato dall’autorità prefettizia, l’organo consiliare sia
comunque rimasto inattivo non provvedendo in merito: ne
discende che deve propendersi per la natura
ordinatoria-acceleratoria sia del termine di legge per
l’approvazione del bilancio e del rendiconto, sia del
termine ultimo fissato su iniziativa dell’autorità
prefettizia;
- in altre parole, l’inosservanza del
termine di legge per l’approvazione ad opera del Consiglio
Comunale del rendiconto di gestione non ha come conseguenza
automatica lo scioglimento dello stesso, ma comporta
l’apertura di un procedimento sollecitatorio, caratterizzato
dall’assegnazione di un ulteriore termine acceleratorio, che
può anche condurre all’adozione della grave misura dello
scioglimento, ma solo a seguito della constatata
inadempienza all’intimazione puntuale ed ultimativa
dell’autorità prefettizia, che attesti l’impossibilità o la
riottosità del Consiglio a procedere all’approvazione del
documento contabile anche oltre il termine assegnato
(cfr. in tal senso Consiglio di Stato, Sez. V, 19.02.2007 n.
826);
- peraltro, la pretesa perentorietà del termine assegnato
dall’autorità prefettizia è contraddetta anche dalle
seguenti osservazioni:
i) l’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 non qualifica tale
termine come perentorio né utilizza espressioni equivalenti
–quali “entro e non oltre” o “assolutamente entro”,
o ancora “inderogabilmente entro”– da cui si possa
arguire una possibile perentorietà;
ii) la disposizione in commento è ispirata da una pervasiva logica
sollecitatoria, tesa a consentire fino all’ultimo la libera
espressione ed il mantenimento dell’assemblea scelta dal
corpo elettorale;
iii) la medesima non attribuisce, al commissario prefettizio
nominato in sostituzione dell’amministrazione inadempiente,
poteri straordinari di annullamento della delibera
consiliare di approvazione del rendiconto emanata fuori
termine;
- infine, quanto alle specifiche argomentazioni attoree,
vale controdedurre in via dirimente quanto segue (secondo
l’ordine di esposizione di cui sopra):
aa) la logica sollecitatoria cui si è fatto cenno rende
perfettamente ragionevole la giustapposizione di un termine
ordinatorio fissato autoritativamente al termine ordinatorio
previsto dalla legge;
bb) anche l’inosservanza di termini ordinatori, pur non comportando
decadenze e preclusioni, può determinare l’attivazione di
meccanismi sanzionatori tesi a ripristinare, come nel caso
di specie, la corretta funzionalità di organi e
procedimenti;
cc) a differenza di quanto addotto dai ricorrenti, tutta la
documentazione sopra menzionata dà conto che la prassi del
Ministero dell’Interno si è attestata sulla linea di
connettere lo scioglimento dei Consigli Comunali
all’effettivo accertamento che, una volta spirato il termine
assegnato dalla Prefettura, non fosse ancora intervenuta
l’approvazione consiliare del rendiconto. |
ESPROPRIAZIONE: NATURA DI ILLECITO COMUNE DELL’OCCUPAZIONE
USURPATIVA, CONSEGUENZE E RIMEDI PER IL PRIVATO.
In mancanza di dichiarazione di p.u., l’attività
manipolatrice
di un immobile che ne comporta l’inserimento in
un nuovo inscindibile contesto, mediante occupazione
e trasformazione irreversibile del fondo privato per la
costruzione di un’opera pubblica, costituisce illecito
comune
di per sé inidoneo ad attrarre il bene privato nella
disciplina giuridica dei beni pubblici e a giustificare il
sacrificio del diritto dominicale del privato, il quale può
esperire le azioni reipersecutorie e restitutorie a tutela
della non perduta proprietà del bene.
In tema di occupazione usurpativa -nell’ipotesi di ricorso
da parte del proprietario del bene illecitamente occupato
alla tutela reale, mediante azione di restituzione,
ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione in
pristino- non sono predicabili i limiti intrinseci alla
disciplina
risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista
dall’art. 2058, comma 2, c.c., né può farsi ricorso alla
previsione dell’art. 2933, comma 2, c.c., ove non risulti
che la distruzione della res indebitamente edificata sia
di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia
al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
Un privato convenne al Tribunale civile un Comune e,
premesso
di essere proprietario d’una vasta estensione di terreno
su parte del quale il convenuto aveva costruito un impianto
di depurazione e relativa strada di accesso, previa
occupazione d’urgenza del fondo (con due delibere del
1987 seguite da immissione in possesso) ma senza adozione
del decreto definitivo di esproprio, chiedeva che l’ente
fosse condannato a restituire il fondo o, in via
subordinata,
a risarcire il danno derivato dall’irreversibile
trasformazione
del bene.
Il Tribunale, ritenuto anche alla data di scadenza
dell’autorizzata
occupazione temporanea quinquennale si era verificata
l’occupazione appropriativa del terreno (non edificabile),
irreversibilmente trasformato tramite la realizzazione
delle previste opere pubbliche, e ciò integrava illecito
istantaneo
con effetti permanenti, respingeva l’eccezione di
prescrizione
sollevata dal Comune e lo condannava al risarcimento
dei danni subiti dalla parte attrice per la perdita della
proprietà del bene acquisita a titolo originario dal Comune,
liquidati, per la assenza di una valida dichiarazione di
P.U., in base al valore venale del fondo occupato ed
appreso.
La sentenza del Tribunale era in via principale dal Comune
e in via incidentale dal privato.
La Corte di appello accoglieva parzialmente entrambi i
gravami
e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata,
qualificava come usurpativa l’occupazione di una porzione
(pari a 2295 mq) del terreno di proprietà dell’attore e
determinava
il dovuto a titolo di risarcimento danni per la perdita
della proprietà dei terreno, oltre a interessi legali e
oltre,
per l’occupazione illegittima del terreno, a interessi
legali
sull’importo rivalutato annualmente per il quinquennio di
lecita occupazione, nonché gli interessi legali su quanto
risultante
dal 1987, anno di immissione in possesso, al saldo.
La Corte, per quanto qui rilevi, osservò che poiché la
declaratoria
implicita di P.U. non era stata corredata dei termini
per l’inizio e la fine dei lavori e delle espropriazioni
prescritta
dall’art. 13 della L. 25.06.1865, n. 2359, il
comportamento
della p.a. integrava un’occupazione cd. usurpativa
(e non espropriativa), costituente illecito a carattere
permanente,
rispetto al quale l’acquisizione del diritto dominicale
da parte dell’ente pubblico non conseguiva automaticamente
all’irreversibile trasformazione del bene privato ma
dipendeva dalla scelta del proprietario usurpato che,
rinunciando
implicitamente al diritto di proprietà, avesse optato
per una tutela risarcitoria piuttosto che per la
restituzione
del bene in questione.
Ancora, osservava la Corte territoriale che in linea
generale
nel caso in esame al privato danneggiato spettava la tutela
reipersecutoria e, quindi, la reintegrazione in forma
specifica.
Peraltro tale essa trovava ostacolo nella eccessiva
onerosità
della reintegrazione in forma specifica (art. 2058,
comma 2, c.c.) ovvero nel pregiudizio che si sarebbe
arrecato
mediante la distruzione dell’opera all’economia nazionale
(art. 2933, comma 2, c.c.). Per il che era da optarsi
per l’integrale risarcimento del danno con abbandono
definitivo
del bene da parte del privato.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto
dai privati, al quale si contrappone in via incidentale il
Comune.
La Suprema Corte accoglie il ricorso principale, con
riguardo al primo motivo e dichiara assorbiti i rimanenti,
con declaratoria d’inammissibilità del ricorso incidentale.
Illegittimo
si rivela, ad avviso della Corte di legittimità, il diniego
di restituzione del terreno espresso dai Giudici d’appello
nonostante l’accertata e non più controvertibile
qualificazione
della vicenda in termini d’illecito comune da occupazione
usurpativa.
Sul punto, si richiama il consolidato
orientamento giurisprudenziale, che su questo controverso
tema ha affermato come in mancanza della dichiarazione
di pubblica utilità, la quale è necessaria per attribuire
all’attività
manipolatrice dell’immobile altrui un vincolo di scopo
in vista del trasferimento coattivo del medesimo mediante
espropriazione, la mera attività manipolatrice di tale
immobile
che ne comporta l’inserimento in un nuovo ed inscindibile
contesto, come nella specie è avvenuto, (occupazione
e trasformazione irreversibile di un fondo di proprietà
privata
per la costruzione di un impianto di depurazione con
relativa
strada di accesso) costituisce illecito comune, inidoneo
ad attrarre il fondo privato nella disciplina giuridica dei
beni “pubblici” ed a giustificare il sacrificio del diritto
dominicale
del privato, il quale può esperire le azioni reipersecutorie
e restitutorie a tutela della non perduta proprietà del
bene (Cass. n. 18239/2005; n. 26214/2008; nn. 4207 e
1080/2012; n. 1804 e 5302/2013; nn. 5724 e 7403/2014;
adde, in tema, SS.UU. ord., n. 441/2014).
Importante, poi, è la qui presente affermazione per la quale
-in tema di occupazione usurpativa- nell’ipotesi di
ricorso
da parte del proprietario del bene illecitamente occupato,
alla tutela reale, mediante azione di restituzione, ancorché
accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino, non
sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina
risarcitoria,
come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058 c.c.,
comma 2; né può farsi ricorso alla previsione dell’art. 2933
c.c., comma 2, ove non risulti che la distruzione della “res”
indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera
economia
del Paese, ma abbia al contrario, riflessi di natura
individuale
o locale (Cass., SS.UU. n. 1907/1997; Cass. n.
14609/2012) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 12.02.2015 n. 2819 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
DISTINTE NOZIONI DI “RICOSTRUZIONE” FRA T.U.
DELL’EDILIZIA, CODICE CIVILE E CODICE DELLA STRADA.
L’art. 18, comma 1, C.d.S., prevedendo che nei centri
abitati le fasce di rispetto a tutela delle strade, misurate
dal confine stradale, per le nuove costruzioni,
ricostruzioni
e ampliamenti non possono avere dimensioni inferiori
a quelle indicate nel regolamento, fa riferimento
non soltanto alle nuove costruzioni, ma a qualsiasi ipotesi
di ricostruzione, seppure non comportante ampliamenti
di superficie o volumetria.
ANAS convenne in giudizio alcuni privati per ottenere la
demolizione dei manufatti (autorimessa in cemento armato
e tre pilastri) realizzati in aderenza a un muro, di
proprietà
attorea, posto a sostegno del corpo stradale, in violazione
della distanza di venti metri dal sedime stradale stabilita
Codice della Strada e dal relativo regolamento di attuazione
per le strade urbane di scorrimento all’interno dei centri
abitati. In via incidentale era chiesta la declaratoria di
illegittimità
della concessione edilizia che tali manufatti aveva
autorizzato.
Nel contraddittorio delle parti, a fronte delle eccezioni
dei
contenuti a dire dei quali le opere realizzate costituivano
l’esito di un intervento di recupero e ristrutturazione che
non aveva comportato sostanziale modifica del manufatto
preesistente, il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo
trattarsi d’un intervento di ristrutturazione estraneo alla
previsione normativa richiamata dall’Anas.
L’appello proposto dall’Anas è stato rigettato dalla Corte
territoriale, sul presupposto che il manufatto consistesse
in
un’opera a distanza dal confine stradale certo inferiore a
quella di legge, ma sostanzialmente sovrapponibile a quella
preesistente da anni per caratteristiche strutturali,
volumetriche
e dimensionali. Per il che, la norma del Codice
della strada, che imponeva il rispetto di distanze minime
per le “ricostruzioni” doveva interpretarsi nel senso di
limitarne
l’applicazione agli interventi implicanti la realizzazione
di un quid novi, cioè un’opera diversa dalla preesistente.
ANAS ricorre per la cassazione della sentenza, che la
Suprema
Corte accoglie in relazione ad un motivo di importante
valenza edilizia e urbanistica, rapportata al rispetto
della fascia stradale.
Deduce ANAS la violazione dell’art. 18, comma 1, del Codice
della strada e dell’art. 28, comma 1, lett. b), del suo
Regolamento
di attuazione ponendo un quesito diretto a stabilire
se il concetto di “ricostruzione” di cui alle suddette
disposizioni
consista esclusivamente negli interventi edilizi
che comportano la realizzazione di un quid novi rispetto
all’opera
preesistente ovvero, come ritenuto dal ricorrente,
includa anche la realizzazione di una costruzione
sovrapponibile
ad essa.
La questione giuridica, che per la prima volta
viene all’esame della Corte, riguarda l’interpretazione
della nozione di “ricostruzioni” ai fini dell’applicazione
delle
norme sulle distanze dal confine stradale all’interno dei
centri abitati e, in particolare, se tale nozione debba
essere
interpretata in modo autonomo, facendo riferimento alla
specifica ratio delle medesime o debba essere tratta dalla
disciplina civilistica in tema di distanze nelle costruzioni
(art. 873 c.c.) diversamente da quanto fatto dalla Corte di
merito, che ha optato per questa seconda soluzione
valorizzando
la giurisprudenza (Cass., SS.UU., n. 21578/2011;
Sez. II, n. 3391/2009, n. 9637/2006, n. 23458/2004) che ha
ravvisato una “ricostruzione” quando dell’edificio
preesistente
siano fedelmente ripristinate le componenti essenziali,
senza variazione di sagoma, volume e superficie. Essa,
in tal caso, non è assoggettabile al rispetto della distanza
minima dal fabbricato vicino, mentre lo è in ipotesi di
“nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina
prevista in tema di distanze dagli strumenti urbanistici
locali,
quando si verifichino le suddette variazioni.
Di
conseguenza,
la nozione di “ricostruzione” sarebbe riferita
esclusivamente
agli interventi di demolizione e ricostruzione che
portino alla realizzazione di un’opera diversa, difforme per
volumetria e sagoma da quella preesistente, poiché
altrimenti
si tratterebbe di mera “ristrutturazione”, estranea alla
previsione del Codice della strada sulle fasce di rispetto
dal confine stradale. E ciò sarebbe convalidato sia dalle
definizioni
ricavabili dall’art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. Edilizia
(d.P.R. 06.06.2001, n. 380) che, confermando precedenti
interpretativi in materia edilizia, considera
“ristrutturazione”
anche gli interventi attuati mediante demolizione e
successiva fedele ricostruzione del fabbricato.
La Corte disattende questa impostazione di matrice
analogica,
osservando che essa è consentita dall’art. 12, comma
2, delle preleggi, solo quando manchi nell’ordinamento
una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si
renda, quindi, necessario porre rimedio a un vuoto normativo
altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n.
9852/2002, n. 4754/1995). In violazione di questo principio,
la corte del merito erroneamente ha fatto ricorso
all’analogia,
avendo applicato i principi codicistici in tema di distanze
nelle costruzioni in una materia, come quella delle
costruzioni
a confine dalla sede stradale, che è speciale ed
esaustivamente governata dal codice della strada.
Di contro, è costante la considerazione, che si ritrova
nella
giurisprudenza ordinaria e amministrativa, secondo la quale
la fascia di rispetto stradale risponde all’esigenza di
evitare
possibili pregiudizi alla percorribilità delle strade e di
assicurare l’incolumità non solo dei conducenti dei veicoli,
ma anche della popolazione che risiede vicino alle strade,
in linea con il divieto (art. 9 della L. 24.07.1961, n.
729)
di costruire a distanza dalle opere stradali inferiore a
quella
minima prevista, divieto interpretato come volto a favorire
la circolazione e ad offrire idonee garanzie di sicurezza
alle
persone e cose che transitano sull’autostrada, con carattere
generale ed inderogabile non solo nei confronti dei privati,
ma anche nei riguardi della regolamentazione edilizia
demandata agli enti pubblici (Cass., Sez. II, n. 229/2007).
Argomento a conformo della tesi si trae dallo stesso art.
879 c.c., il cui comma 2 esclude l’applicazione delle norme
sulle distanze alle costruzioni in confine con le piazze e
le
vie pubbliche, trovando applicazione le disposizioni di
legge
e regolamentari, come il codice della strada ed il relativo
regolamento di esecuzione, le quali non sono dirette alla
regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela
della
proprietà (che costituisce la ratio delle norme sulle
distanze
tra fabbricati), ma alla protezione di interessi pubblici,
con particolare riferimento alla sicurezza della
circolazione
stradale (Cass., Sez. I, n. 5204/2008).
Anche l’analisi del testo normativo rafforza tali
conclusioni:
l’art. 18, comma 1, C.d.S., prevedendo che nei centri
abitati
le fasce di rispetto a tutela delle strade, misurate dal
confine
stradale, per le nuove costruzioni, ricostruzioni ed
ampliamenti
non possono avere dimensioni inferiori a quelle indicate nel
regolamento, fa riferimento non soltanto alle
nuove costruzioni, ma a qualsiasi ipotesi di ricostruzione,
seppure non comportante ampliamenti di superficie o
volumetria.
Ancor più chiaro è il regolamento di attuazione
(D.Lgs. n. 495 del 1992) il cui art. 28, comma 1, indica le
distanze minime dal confine stradale da rispettare,
all’interno
dei centri abitati, nelle “demolizioni integrali e
conseguenti
ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le
strade”.
In conclusione,
con riguardo alle fasce di rispetto per
l’edificazione
nei centri abitati e delle distanze delle costruzioni
dal confine stradale, si deve ritenere che la nozione di
“ricostruzione”
non debba essere tratta analogicamente dalla
normativa codicistica in tema di distanze, la cui ratio è la
tutela della proprietà nei rapporti di vicinato, ma
direttamente
dal codice della strada (art. 18) e del regolamento di
attuazione (art. 28) le cui norme sono volte ad assicurare
l’incolumità dei conducenti dei veicoli e della popolazione
che risiede vicino alle strade.
Tali disposizioni si
riferiscono
a qualsiasi opera di “ricostruzione” che segua
(verosimilmente
ma non necessariamente) ad una demolizione e non
soltanto alle “nuove costruzioni”, nell’accezione elaborata
dalla giurisprudenza in materia di distanze nelle
costruzioni (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 11.02.2015 n. 2656 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA SANATORIA EDILIZIA NON LIBERA L’IMMOBILE ABUSIVO
DAL SEQUESTRO SE IL GIUDICE ACCERTA LA MANCANZA
DELLA DOPPIA CONFORMITÀ.
Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è
circostanza
non decisiva ai fini della sottoposizione al vincolo
reale in quanto anche essa non sfugge al necessario
controllo di legalità del giudice penale che, ove rilevi la
non conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della sua realizzazione,
sia al momento della presentazione della domanda, deve
comunque ritenere la sussistenza del reato, a prescindere
dal giudizio positivamente espresso dalla pubblica
amministrazione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema della rilevanza dell’intervenuto rilascio del
permesso
di costruire in sanatoria ove l’immobile abusivo sia
sottoposto a sequestro.
La vicenda processuale trae origine
dal rigetto da parte del Gip di un’istanza del p.m. con la
quale veniva richiesta la applicazione di sequestro
preventivo
su un immobile sito in località (omissis) in relazione al
procedimento che vedeva indagati B.M. e B.A., quali
comproprietari
di detto bene e committenti dei lavori. E., tecnico
professionista e direttore dei lavori, ed D.G. E., titolare
della D. costruzioni, impresa esecutrice delle opere, per i
reati di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art.
29 e
art. 44, lett. a) e b), perché nelle rispettive qualità,
realizzavano,
in assenza di permesso di costruire e in totale difformità
alla DIA, inerente opere di ristrutturazione di un
preesistente
magazzino, due appartamenti per civile abitazione,
in zona agricola “E”, a seguito della totale demolizione del
preesistente manufatto, con ampliamenti volumetrici e
modifiche
alla sagoma dell’originario immobile; art. 110 c.p.,
art. 61 c.p., n. 2, e artt. 481 e 483 c.p., per avere i B.
in relazione
alle dichiarazioni loro spettanti ed il Ba. quale
professionista
tecnico asseverante, attestato falsamente nella
DIA la conformità delle opere progettate agli strumenti
urbanistici
e regolamentari; art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e artt.
481 e 483 c.p. e L. n. 241 del 1990, art. 19, i B. ed il
Ba., nelle rispettive qualità, per avere attestato
falsamente
nella variante in corso d’opera la conformità delle opere
progettate agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
vigenti.
Su ricorso del p.m. proposto per violazione ed erronea
applicazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b),
e
dell’art. 321 c.p.p. in materia di fumus, in quanto dalle
indagini
era emersa la falsità delle dichiarazioni rese dagli
indagati
in tutti gli atti presentati al Comune, nonché la
realizzazione
del manufatto in questione in difetto di titolo abilitativo,
nonché per violazione del L.R. Toscana, art. 79, e
dell’art. 321 c.p.p., sempre in materia di fumus, della L.
n.
241 del 1990, artt. 19 e 21 per aver il giudice di merito
omesso di rilevare la inefficacia sanante l’illecito del
permesso
a costruire, in quanto detto atto risultava adottato
in violazione dei presupposti di legge, essendo stato
rilasciato
a seguito di una illegittima trasformazione di ufficio
di un progetto presentato dai privati ed asseverato
falsamente
come variante in corso d’opera in attestazione in
conformità ex L.R. n. 1 del 2005, art. 140; per omessa
valutazione
del periculum in mora, la Corte di Cassazione annullava
con rinvio l’ordinanza impugnata, affinché il giudice ad quem procedesse ad un riesame della questione.
Il
Tribunale
della Libertà, chiamato in sede di rinvio a decidere
nuovamente sulla questione, rigettava nuovamente l’appello
del p.m., mancando comunque ed al di là della tematica
della legittimità o meno del permesso a costruire in
sanatoria,
il requisito del periculum in mora che costituisce
condizione
necessaria imprescindibile per la concessione dell’invocato
sequestro preventivo, ciò in quanto detto permesso
sarebbe comunque sufficiente ad escludere che possa essere
disposta la demolizione delle opere realizzate. Contro
tale decisione ricorreva nuovamente il Procuratore della
Repubblica lamentando la violazione dell’art. 627 c.p.p. per
aver omesso il Tribunale di attenersi ai principi enunciati
in
sede di annullamento dalla Suprema Corte e ribadendo le
considerazioni già espresse nel precedente ricorso.
La Cassazione ha nuovamente accolto il ricorso e,
nell’affermare
il principio di cui in massima (v., in termini, da ultimo:
Cass. pen., Sez. F, n. 33600 del 23.08.2012 - dep. 03.09.2012, L.V. e altro, in CED, n. 253426), ha
evidenziato
che il Tribunale non solo non si era attenuto a
quanto stabilito dalla Corte di legittimità, ma, nonostante
l’annullamento con rinvio fosse stato pronunciato con
riferimento
alla necessità di accertare la conformità o meno
dell’atto amministrativo (permesso di costruire) alla
normativa
che ne regola la emanazione e alle disposizioni legislative
statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, ha
addirittura
ritenuto superfluo detto accertamento, per asserita
mancanza del periculum in mora (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 10.02.2015 n. 5992 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
INDIVIDUAZIONE DELLA NOZIONE DI CARICO URBANISTICO
IN RELAZIONE AL SUO “AGGRAVIO” QUALE CONDIZIONE
PER LA SEQUESTRABILITÀ.
S’intende per carico urbanistico l’effetto che viene
prodotto
dall’insediamento primario come domanda di
strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero
delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione,
ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti di diritto urbanistico:
1) negli standards
urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444 che
richiedono
l’inclusione, nella formazione degli strumenti
urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per
abitante a seconda delle varie zone;
2) nella sottoposizione
a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione
che sul costo di produzione, delle superfici
utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione
di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
3)
nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che
non comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
4) nell’esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni
contributo per le opere interne (L. n. 47 del 1985, art. 26
e L. n. 493 del 1993, art. 4, comma 7) che non comportano
la creazione di nuove superfici utili, ferma restando
la destinazione dell’immobile;
5) nell’esonero da sanzioni
penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso
carico urbanistico (L. n. 47 del 1985, art. 10 e L. n.
493 del 1993, art. 4).
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla individuazione delle condizioni
in presenza delle quali può giustificarsi il sequestro
preventivo di un immobile abusivo ove il periculum in mora
sia costituito dal consueto riferimento alla nozione di
“aggravio del carico urbanistico” che l’immobile determina.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il
tribunale rigettava l’istanza di riesame e, per l’effetto,
confermava il decreto di sequestro preventivo per il reato
di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), nei
confronti
del legale rappresentante di una società di gestione
di una struttura ricettiva sita in zona dichiarata di
notevole
interesse pubblico D.Lgs. n. 42 del 2004, nonché sottoposta
a vincolo di tutela del patrimonio artistico e storico
D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 10 classificata sismica
S-6 ai sensi del D.M. 03.06.1981, e rientrante nelle zone
di cui alla L. n. 37 del 1994, artt. 1 e 3 (vincolo
archeologico),
in assenza dei prescritti titoli.
Contro l’ordinanza
proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare
sostenendo che sarebbe dubbio ritenere che la tutela
prevista dalla legge della misura cautelare per le
violazioni
delle norme a tutela dell’urbanistica possa estendersi
automaticamente a situazioni di fatto che andrebbero
inserite
in un complesso sistematico ambientale; nella specie,
l’elemento pregnante della valutazione operata per
l’applicazione della misura, sarebbe l’attentato
all’ecosistema,
insito in qualunque intervento umano, nel caso di
specie riguardante il sottosuolo senza considerare
l’incidenza
sul carico urbanistico.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha chiarito la nozione di carico urbanistico deriva
dall’osservazione
che ogni insediamento umano è costituito
da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici,
negozi)
e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature,
elettrificazione,
servizio idrico, condutture di erogazione del gas)
che deve essere proporzionato all’insediamento primario,
ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche
dell’attività da costoro svolte. L’aggravamento del carico
urbanistico è stato riconosciuto anche con riferimento
alle ipotesi di realizzazione di opere interne comportanti
il mutamento della originaria destinazione d’uso di un
edificio (Cass. pen., Sez. IV, n. 34976 del 09.07.2010 -
dep. 28.09.2010, N., in CED, n. 248345).
In alcune
pronunce vengono, inoltre, indicate ipotesi specifiche di
incidenza dei singoli interventi sul carico urbanistico,
richiamando,
ad esempio, il contenuto della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies come modificato dalla L. n.
122 del 1989 e L. n. 246 del 2005 che richiede, per le nuove
costruzioni ed anche per le aree di pertinenza delle
costruzioni
stesse, la esistenza di appositi spazi per parcheggi
in misura non inferiore ad un metro quadrato per
ogni dieci metri cubi di costruzione; la rilevanza di nuove
costruzioni in termini di esigenze di trasporto, smaltimento
rifiuti, viabilità etc. (Cass. pen., Sez. III, n. 22866 del
19.04.2007 - dep. 13.06.2007, L., in CED Cass., n.
236881); l’ulteriore domanda di strutture ed opere
collettive,
sia in relazione alle prescritte dotazioni minime di spazi
pubblici per abitante nella zona urbanistica interessata
(Cass. pen., Sez. III, n. 34142 del 05.07.2005 - dep. 23.09.2005, D’A., in CED, n. 232471).
Nel caso in
esame, correttamente i giudici del merito hanno ritenuto
che se “anche l’uso dell’immobile, realizzato in violazione
di vincoli, si palesa idoneo ad aggravare le conseguenze
dannose prodotte dall’opera abusiva sull’ecosistema protetto
da vincolo paesaggistico o di altra natura e giustifica
l’applicazione della misura cautelare diretta ad impedire
la protrazione e l’aggravamento delle conseguenze dannose
del reato”, sia altresì indubitabile che “la valutazione
sul punto ha ad oggetto l’incidenza negativa della condotta
su un più delicato equilibrio rispetto a quello riguardante
genericamente il carico urbanistico sul territorio, sicché
la esclusione della idoneità dell’uso della cosa a
deteriorare
ulteriormente l’ecosistema protetto dal vincolo deve
formare oggetto di un esame particolarmente approfondito”.
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso, in quanto la
realizzazione
di un invasivo intervento strutturale era tale da
determinare la creazione di un organismo edilizio del tutto
diverso con modifica, quanto meno, della destinazione d’uso
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2015 n. 5954 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
LAVORI PUBBLICI: DIFFERENZE TRA MERA CONCESSIONE DI COSTRUZIONE E
CONCESSIONE (DI COSTRUZIONE E/O) DI GESTIONE DI
LAVORI PUBBLICI
Nel quadro delineato dal Codice dei contratti pubblici, è
ricavabile una categoria unitaria della “concessione di
lavori pubblici” sicché non v’è più differenza fra
concessione
di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera
(o di costruzione e gestione congiunte), nelle
quali prevaleva il profilo autoritativo per traslazione di
pubbliche funzioni inerenti l’attività organizzativa e
direttiva
dell’opera, con implicazioni in tema di riparto di
giurisdizione.
Per l’effetto, in assenza d’esercizio di una
pubblica funzione o di un potere delegato, sussiste
giurisdizione
ordinaria sulla domanda proposta contro la
P.A. nelle controversie attinenti alla fase d’esecuzione
di un contratto pubblico.
La Suprema Corte è adita con regolamento preventivo di
giurisdizione scaturito in un giudizio radicato da
un’impresa
avanti il G.A. contro una Regione, una Provincia, un Comune
e un Consorzio di bacino, oltre che di alcune società
garanti e contro-interessate. Ivi, sostanzialmente, era
chiesto
l’annullamento d’un atto avente a oggetto l’approvazione
del conguaglio tariffario e del conto consuntivo relativo
a una discarica di rifiuti gestita dalla ricorrente.
Ancora,
in
ragione della ritenuta giurisdizione esclusiva in punto, la
ricorrente
chiese al TAR (in antitesi con i provvedimenti
impugnati e in un contesto generale di accertamento negativo
del credito preteso dalla Provincia) condannarsi gli
intimati
Enti pubblici al pagamento di un ingente importo per
l’inadempimento di una convenzione che la ricorrente
medesima
aveva stipulato con gli Enti in origine responsabili
del servizio rifiuti. Ancora, era chiesta la condanna delle
intimate
PP.AA. al risarcimento del danno per tardata conclusione
del procedimento amministrativo e, per quanto limitatamente
qui rilevi, la declaratoria d’illegittimità dell’affidamento
in house della gestione post mortem della discarica
per così accertarsi il diritto della ricorrente a effettuare
tale attività determinando ed adeguando i costi di progetto.
In via alternativa a ciò, era chiesta al TAR la condanna
al
risarcimento del danno o, in via subordinata, la
declaratoria
di responsabilità ex artt. 2043 c.c. o 1337 c.c., anche per
violazione del principio di buona fede. Infine, era chiesta
declaratoria d’accertamento e inesigibilità da parte della
Provincia delle fideiussioni rilasciate alla ricorrente.
Costituitesi al TAR, tutte le resistenti eccepivano il
difetto
di giurisdizione del G.A. in favore di quello ordinario.
Questo,
per il fatto che le domande troverebbero fondamento
nelle convezioni che regolarono il rapporto inerente la
discarica
da parte della ricorrente. Ancora, sull’assunto che
la controversia sarebbe riconducibile alla giurisdizione del
G.O., in quanto l’art. 133 c.p.a. esclude dalla
giurisdizione
esclusiva in materia di pubblici servizi le controversie
relative
a canoni, indennità e altri corrispettivi che, nella specie,
il giudizio avrebbe costituendo esso l’epilogo d’un
procedimento
avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza
o meno di diritti patrimoniali di cui le parti
discuterebbero
senza coinvolgimento sull’azione amministrativa di gestione
dei rifiuti. Né a diverse conclusioni in punto giurisdizione
porterebbero i provvedimenti amministrativi sopravvenuti,
che troverebbero loro presupposto nelle citate convenzioni.
Per il che, la ricorrente ha proposto il regolamento
preventivo
di giurisdizione, osservando che ai fini della
determinazione
della giurisdizione deve darsi rilevo al petitum sostanziale
(Cass., SS.UU., n. 2926/2012); che le domande poste
al TAR afferirebbero non solo al rispetto degli obblighi
nascenti dalle convenzioni predette ma anche da ordinanze
contingibili ed urgenti - manifestazioni di potere
autoritativo che hanno disciplinato il contenuto d’una concessione
per la gestione della discarica che -a propria volta- è da
qualificare come atto integrativo o sostitutivo del
provvedimento
amministrativo in relazione al quale sorge, in caso
di controversie, una riserva di G.A. ai sensi dell’art. 133,
lett. a), n. 2, del codice del processo amministrativo
(Cass.,
SS.UU., n. 1713/2013).
Parimenti riconducibili a G.A., per
l’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1 del c.p.a. sono le altre
pretese
afferenti la ricomposizione finale e la gestione post
mortem della discarica ed il diritto della ricorrente a
effettuare
tali attività, determinando ed adeguando i costi di
progetto. Sussisterebbe, infine, G.A. esclusiva nella
controversia
trattandosi di questioni che attengono, in parte, anche
al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici, nonché
al revisione del prezzo nei contratti a esecuzione
continuata
o periodica (art. 115, D.Lgs. n. 163/2006) nonché relative
ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei
prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4, della stesso
decreto.
Sussisterebbe giurisdizione esclusiva (Cass., SS.UU.
n. 22317/2013) anche per l’art. 133, comma 1, lett. p),
c.p.a., attenendo questa controversia alla realizzazione di
infrastrutture per l’espletamento dei servizi di gestione
del
ciclo dei rifiuti, non riguardando la questione solo
l’esecuzione
dell’opera pubblica (lavori di ampliamento della discarica)
ma pure la gestione funzionale ed economica della
discarica, che rientra nell’ambito della complessiva
attività
di gestione del ciclo dei rifiuti. In ultimo, sussisterebbe
giurisdizione
esclusiva per l’art. 133 c.p.a., in relazione alla
controversia sulla fideiussione assicurativa che si mira ad
escutere, anche in ragione dell’impugnazione del
provvedimento
amministrativo in ragione del quale è richiesta
l’esclusione.
Ritengono le Sezioni Unite che debba affermarsi la
giurisdizione
del giudice ordinario su tutte le domande proposte.
A tale conclusione induce la considerazione della complessa
vicenda in fatto, sopra riferita, che deve partire
dall’esatta
qualificazione del rapporto e della posizione rivestita
dall’impresa
ricorrente e dal conseguente apprezzamento dell’effettiva
sostanza delle domande, in applicazione del principio
per cui la giurisdizione si determina sulla base del petitum
sostanziale.
La Corte Regolatrice parte dall’osservazione per cui la
discarica
- in principio privata - a seguito dell’adozione di un
Piano regionale di smaltimento rifiuti solidi urbani (il
quale
escludeva che le discariche potessero mantenersi in
proprietà
privata, imponendone la cessione all’ente territoriale
di allocazione) fu data in gestione alla ricorrente per
effetto
di plurime concessioni concluse con la Regione, con il
Consorzio di bacino, con il Comune a cui progressivamente
erano cedute le aree della discarica, in ottemperanza al
Piano regionale.
In disparte le complesse questioni tecniche e quelle legate
alla legislazione regionale (esorbitanti l’oggetto della
presente
annotazione) è da osservarsi che per le Sezioni Unite
sotto nessun profilo, anche in relazione ai diversi soggetti
convenuti, la controversia rientri nella giurisdizione del
G.A.
Prendendo le mosse dall’esatto inquadramento della posizione
rivestita dalla ricorrente al T.A.R., la Corte Regolatrice
osserva come emerga, con riguardo a tutte e tre le
convenzioni
succedutesi nel tempo, che il rapporto di concessione
non ha avuto a oggetto la mera gestione della discarica (e,
quindi, un ambito limitato al profilo di una concessione di
pubblico servizio) ma si è strutturato come concessione di
esecuzione di opere e di gestione delle stesse (es.
costruzione
e gestione dell’ampliamento di una discarica controllata;
gestione del servizio di smaltimento RSU e RSA limitatamente
alla frazione secca e conseguente allestimento di
opere di completamento dell’impianto esistente con
ricomposizione
e sistemazione finale dell’intera area in conformità;
gestione del servizio della discarica e allestimento di
interventi
di messa in sicurezza e ribaulatura con riguardo a
un progetto presentato dal Comune ed approvato dalla
Provincia).
La concessione è dunque da qualificarsi come costruzione
e di gestione di un’opera pubblica.
Ciò è determinante per l’individuazione della giurisdizione
in capo al G.O. che, per quanto attiene alle domande
proposte
contro gli enti pubblici, deve compiersi alla stregua
del principio di diritto secondo cui, nel quadro normativo
derivante dal Codice dei contratti pubblici, sussiste
l’unica
categoria della “concessione di lavori pubblici”, onde non
è più consentita la precedente distinzione fra concessione
di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera (o
di costruzione e gestione congiunte), ove prevale il profilo
autoritativo della traslazione delle pubbliche funzioni
inerenti
l’attività organizzativa e direttiva dell’opera pubblica,
con le conseguenti implicazioni in tema di riparto di
giurisdizione.
Questo perché, ormai, deve darsi prevalenza alla
gestione funzionale ed economica dell’opera, che non
costituisce
più un accessorio eventuale della concessione di
costruzione bensì la controprestazione principale e tipica a
favore del concessionario, come risulta dall’art. 143,
D.Lgs.
n. 63/2006 con la conseguenza che le controversie attinenti
alla fase d’esecuzione appartengono al G.O. (Cass., SS.UU.
n. 28804/2011).
La sussistenza della giurisdizione ordinaria per la fase
esecutiva
si spiega - com’è stato ritenuto dalla decisione appena
richiamata, essa pure regolatrice della giurisdizione -
per la natura prettamente privatistica del rapporto nel
corso
del suo svolgimento e perché la convenzione, che in tale
fase è sottoscritta, quando viene in considerazione come
regolatrice delle posizioni delle parti (cioè là dove
stabilisce
le contrapposte obbligazioni e individua le modalità di
svolgimento
del rapporto) si pone anch’essa sempre nell’ambito
di quella connotazione privatistica propria di detta fase.
Connotazione alla quale cui si sottrae la sola fase
precedente
di aggiudicazione e alla stipula della convenzione
(Cass., n. 11022/2014, adde, Cass., SS.UU., ord. n.
19931/2012, n. 11022/2014, per la quale la nozione normativa
di “concessione di lavori pubblici”, che impone il
riconoscimento
della giurisdizione del G.O. sulle controversie
relative alla fase successiva all’aggiudicazione anche per
le
concessioni “di gestione” o “di costruzione e di gestione”,
si rinviene -prima ancora che nella direttiva comunitaria
di
codificazione del 31.03.2004, n. 2004/18/CE (poi recepita
dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) e
nella Dir. 14.06.1993, n. 93/37/CEE- già nell’art. 1,
lett.
d), della Dir. 18.07.1989, n. 89/440/CEE, sicché non può
invocarsi la violazione del principio della perpetuatio
iurisdictionis
per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo
in relazione a controversie di tale natura che risultino
instaurate anteriormente alla citata direttiva di
codificazione
e al D.Lgs. n. 163/2006.
In particolare, per Cass.,
SS.UU., n. 11022/2014, la nozione di “concessione di lavori”
che impone il riconoscimento della giurisdizione ordinaria
sulle controversie inerenti la fase successiva
all’aggiudicazione
anche per le concessioni “di gestione” o “di costruzione
e di gestione” congiunte non è certo stata innovata, bensì
ripresa e confermata dalla Direttiva comunitaria
n. 2004/18/CE, poi recepita dal Codice dei contratti
pubblici
di cui al D.Lgs. n. 163/2006 e trovando essa nella Dir.
93/37/CEE e nella Direttiva comunitaria 89/440/CEE le
proprie
fonti originarie.
Tanto, infatti, che la previsione
dell’art.
1, lett. d), di tale ultima Direttiva, per il quale “la
concessione
di lavori pubblici è un contratto che presenta le stesse
caratteristiche di quelle contemplate alla lettera a
(appalti
di lavori pubblici: n.d.r.), ad eccezione del fatto che la
controprestazione
di lavori consiste unicamente nel diritto di
gestire l’opera oppure in questo diritto accompagnato da
un prezzo”, trova rispondenza nell’art. 19, comma 2, L. n.
109/1994, che alla nozione di “contratto di appalto di
lavori
pubblici”, contrappone quella di “concessione di lavori
pubblici”, concepita quale categoria unitaria comprendente
tutti i “contratti conclusi in forma scritta fra un
imprenditore
e un’amministrazione aggiudicatrice, aventi a oggetto la
progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e
l’esecuzione
dei lavori pubblici, o di pubblica utilità, e di lavori
ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la
loro gestione funzionale ed economica”.
Nel caso di specie, si tratta di domande che traggono titolo
da uno svolgimento della vicenda che si collocava sotto
una qualificazione del rapporto concessorio soggetta
all’applicazione
dei principi sopra riportati, risalendo la Convenzione
del 1997 a epoca successiva alla L. n. 109/1994:
ne consegue che le domande di cui si è detto sono estranee
alla previsione della giurisdizione esclusiva e sono
riconducibili
alla giurisdizione ordinaria alla stregua dei principi
di diritto sopra richiamati.
Né le Sezioni Unite ritengono sussistere giurisdizione
esclusiva
per il G.A. per la domanda concernente la fideiussione:
essa compete al G.O. non solo per l’accessorietà di tale
domande
alle altre, attribuite al medesimo G.O., quanto -e
soprattutto- perché si tratta di domanda relativa a pretese
nascenti da un contratto e, quindi, da un rapporto
paritetico
tra le parti, non potendo più la p.a. spendere o esercitare
alcun potere di supremazia, tipico dell’esercizio
dell’attività
amministrativa, nemmeno in sede di autotutela, ledendo
altrimenti i diritti soggettivi dell’altro contraente, che
non possono affievolirsi o essere condizionati da attività
della p.a. dirette a sottrarsi agli impegni negoziali
assunti.
La richiesta di escussione è connotata come comportamento
di una parte contrattuale senza potere autoritativo,
indipendentemente dalla qualificazione dei comportamenti
tenuti dalla stessa nell’ambito del rapporto concessorio ed
oggetto delle altre domande, che pure si sono visti
soggiacere
alla giurisdizione ordinaria (si vedano, per fattispecie
di escussione di polizze fideiussorie ricollegate a rapporti
concessori, Cass., SS.UU., ord. n. 9592/2012; Cass.,
SS.UU., ord., n. 4319/2010; Cass., SS.UU., ord., n.
12902/2013) (Corte
di
Cassazione, Sezz. Un. civili,
ordinanza 10.02.2015 n. 2507 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
SOLO LA DELIBERA DEL CONSIGLIO COMUNALE OSTA
ALL’ACQUISIZIONE GRATUITA DELL’IMMOBILE ABUSIVO AL
PATRIMONIO COMUNALE.
L’acquisizione gratuita dell’opera abusiva al patrimonio
disponibile del Comune non è comunque incompatibile
con l’ordine di demolizione emesso dal giudice con la
sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione
ad opera del pubblico ministero, ostandovi soltanto
la delibera consiliare che abbia stabilito l’esistenza di
prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere
abusive.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, della questione relativa alla sorte
dell’immobile
abusivo dopo l’intervenuta sentenza di condanna che,
divenuta irrevocabile, comporta per legge l’acquisizione
gratuita del medesimo al patrimonio comunale.
La vicenda
processuale che ha fornito nuovamente l’occasione alla
Corte per occuparsi della questione segue all’ordinanza
con cui la Corte di Appello rigettava l’istanza presentata
dal condannato e, pertanto, ordinava la demolizione delle
opere di cui alla sentenza emessa dalla stessa Corte.
In
particolare, rilevava che trattavasi di opere pacificamente
abusive ed insuscettibili di sanatoria, attesa la mancanza
della “doppia conformità”; opere, inoltre, ormai acquisite
al
patrimonio del Comune, il quale, peraltro, non aveva ancora
deliberato in ordine ad un’eventuale destinazione dei beni
diversa dalla demolizione. Contro l’ordinanza proponeva
ricorso per cassazione l’interessato sostenendo che la Corte
di merito avrebbe confermato l’ordine di demolizione
pur a fronte di un pacifico acquisto della proprietà da
parte
del Comune, a titolo originario e libero da ogni altro
diritto
di natura reale e/o personale, sì da poter poi esser
demolito,
locato, ceduto o diversamente utilizzato, quel che
avrebbe prodotto l’effetto estintivo del medesimo diritto in
capo al privato.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso. In
particolare,
nell’affermare il principio di cui in massima, i giudici
di legittimità hanno dato continuità alla giurisprudenza
consolidata della Cassazione (v., da ultimo: Cass. pen.,
Sez. III, n. 4962 del 28.11.2007 - dep. 31.01.2008, P.G. in proc. M. e altri, in CED, n. 238803),
osservando
che l’acquisizione gratuita, in via amministrativa, è
finalizzata
essenzialmente alla demolizione, così come l’ordine
impartito dal giudice penale; ne deriva che il destinatario
di
questo si troverà nell’impossibilità di adempiervi soltanto
quando, ad acquisizione amministrativa compiuta, l’autorità
comunale abbia già ravvisato i citati interessi pubblici,
non anche quando difetti ancora qualsivoglia provvedimento
in tal senso (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.02.2015 n. 5188 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: IL PORTICO È UN INTERVENTO EDILIZIO SOGGETTO A
PERMESSO DI COSTRUIRE.
Rientrano nella nozione di pertinenza le cose,
mobili ed immobili, le quali, pur conservando la loro
individualità ed autonomia, vengono poste in durevole
rapporto di subordinazione con altre per servire al miglior
uso di queste ovvero per aumentarne il decoro e dalle quali
possono essere separate senza alterazione dell’assenza e
della funzione sia della cosa principale che di quella
accessoria.
Ne consegue che un portico non può essere
annoverato tra le pertinenze, poiché il medesimo non
conserva una propria individualità e non è utilizzabile
autonomamente, così che deve escludersi tale qualifica
all’ampliamento di un edificio anche se finalizzato al
completamento o miglioramento dei bisogni cui l’immobile
principale è destinato.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla individuazione del titolo abilitativo
edilizio
necessario per la realizzazione di un portico, escludendone
la natura pertinenziale.
La vicenda processuale segue
alla sentenza di condanna nei confronti di una donna per
aver svolto attività urbanistico - edilizia consistente
nella
realizzazione di un portico in legno, per una superficie di
mq. 70, i cui pilastri erano ancorati al pavimento con
plinti
in cemento, in assenza del permesso di costruire (d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. b).
Contro la sentenza
proponeva
ricorso per cassazione la stessa, per aver ritenuto i
giudici
di merito configurabile il reato in esame limitandosi ad
affermare
che, in relazione alle caratteristiche materiali della
tettoia, fosse necessario il permesso di costruire;
diversamente,
era chiara la finalità di riparo dell’immobile che la
tettoia svolgeva, donde, in base a giurisprudenza costante,
l’intervento edilizio era da ritenersi sottratto al permesso
di
costruire.
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il
ricorso
affermando il principio di cui in massima, osservando,
in fatto, che nel corso del controllo eseguito da personale
della Polizia Municipale, venne rilevata la realizzazione
abusiva di un portico in legno costituito da una copertura
con travette di legno e sei supporti in legno infissi nel
suolo
tramite plinti di cemento e piastre d’acciaio, dalla
superficie
di circa mq. 70; l’opera realizzata, per le sue
caratteristiche
strutturali, la sua consistenza e, in particolare, per la
sua stabilità desumibile dall’ancoraggio della medesima al
suolo con plinti di cemento e piastre d’acciaio, non poteva
certo definirsi come precaria né, risultavano dedotte
esigenze
transitorie e momentanee connesse alla realizzazione
dell’opera che potessero evidenziare una precarietà
funzionale
dell’opera medesima.
La tesi difensiva, secondo cui
si sarebbe trattato di una copertura finalizzata
semplicemente
a riparare l’immobile, dunque, risultava totalmente
destituita di fondamento alla luce delle emergenze
istruttorie.
Nella giurisprudenza precedente, nel senso che il portico
necessita di permesso di costruire (Cass. pen., Sez. III,
n. 33657 del 12.07.2006 - dep. 06.10.2006, R., in
CED, n. 235382, secondo cui per pertinenza deve infatti
intendersi
un’opera che non sia parte integrante o costitutiva
di un altro fabbricato, così che deve escludersi tale
qualifica
all’ampliamento di un edificio, attuato mediante la
realizzazione
di un portico, anche se finalizzato al completamento
o miglioramento dei bisogni cui l’immobile principale
è destinato) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.02.2015 n. 4956 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REALIZZAZIONE DI UNA TETTOIA DI COPERTURA
RICHIEDE IL PREVENTIVO RILASCIO DEL PERMESSO DI
COSTRUIRE
Integra il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b), la realizzazione, senza il preventivo rilascio
del permesso di costruire, di una tettoia di copertura
che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di
pertinenza per la mancanza di una propria individualità
fisica e strutturale, costituisce parte integrante
dell’edificio
sul quale viene realizzata.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a fare
chiarezza sul tema, annoso, della natura pertinenziale
dell’intervento
edilizio finalizzato ad apportare un miglioramento
non solo estetico ma anche funzionale dell’immobile
principale cui l’intervento accede.
La vicenda processuale
segue alla sentenza di condanna per aver riconosciuto
due imputati responsabili dell’illecito edilizio nonostante
l’opera realizzata (una tettoia) non avesse determinato una
modifica permanente del territorio in assenza di creazione
di nuova volumetria.
Contro la sentenza gli stessi
proponevano
ricorso per cassazione, dolendosi per avere i giudici
del merito erroneamente ritenuto soggetta a permesso di
costruire l’opera realizzata; poiché, nel caso di specie, la
costruzione era rimasta aperta su uno o più lati, non vi era
stata creazione di nuovo volume, sicché l’intervento non
necessitava di alcun titolo abilitativo; si trattava,
sostenevano,
di una veranda aperta su più lati, che non aveva creato
nuova volumetria, in quanto i ricorrenti volevano solo
realizzare
una copertura per proteggere il solaio dalle infiltrazioni
di acqua piovana.
La Cassazione ha, sul punto, dichiarato inammissibile il
ricorso
e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha
rilevato
come dagli atti risultasse chiaramente che gli interventi
edilizi eseguiti erano consistiti nella realizzazione di
opere di sopraelevazione del terzo piano dell’edificio,
attraverso
la realizzazione e copertura del lastrico colare del terzo
piano, della superficie di mq. 140, della struttura con
pilastri
e travi portanti in scatolare metallico e chiusura laterale
in laterizi.
I giudici della Suprema Corte hanno quindi
dato continuità alla giurisprudenza di legittimità (v., tra
le
tante: Cass. pen., Sez. III, n. 42330 del 26.06.2013 -
dep. 15.10.2013, S. e altro, in CED, n. 257290; Cass.
pen., Sez. III, n. 17083 del 07.04.2006 - dep. 18.05.2006, M. e altro, in CED, n. 234193), secondo cui la tettoia
di un edificio non rientra nella nozione tecnico-giuridica
di
pertinenza, ma costituisce piuttosto parte dell’edificio cui
aderisce: ciò in quanto in urbanistica il concetto di
pertinenza
ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite
dal cod. civ., riferendosi ad un’opera autonoma dotata
di una propria individualità, in rapporto funzionale con
l’edificio
principale, laddove la parte dell’edificio appartiene
senza autonomia alla sua struttura (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.02.2015 n. 4955 - tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA TRASFORMAZIONE DA DEPOSITO AD ABITAZIONE, CON
MODIFICA PARZIALE DEI PROSPETTI, È MUTAMENTO DI
DESTINAZIONE D’USO RILEVANTE.
Anche a seguito del decreto “Sblocca Italia”, il mutamento
di destinazione d’uso di un immobile (nella specie,
la trasformazione di un immobile da deposito ad abitazione,
con modifica parziale dei prospetti) attuato
attraverso l’esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo
la sua ultimazione configura un’ipotesi di ristrutturazione
edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori
in assenza di permesso di costruire (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), in quanto costituisce “mutamento
di destinazione d’uso rilevante” ai sensi del
D.L. n. 133 del 2014, convertito in L. n. 164 del 2014.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema della individuazione del titolo abilitativo
necessario
per l’esecuzione di interventi di trasformazione edilizia
di un immobile, attraverso il mutamento di destinazione
d’uso (nella specie, da deposito a residenziale).
La vicenda
processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale
del riesame rigettava la richiesta proposta dall’indagato
avverso
il provvedimento emesso dal GIP con cui era stato disposto
il sequestro preventivo di un corpo di fabbrica di
superficie
di mq. 100 ed altezza di mt. 6, in relazione ai reati
di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. C), e D.Lgs. n.
42 del 2004, art. 181, per avere, nella qualità di titolare
della
ditta committente E.C. s.r.l., effettuato lavori di
ristrutturazione
edilizia in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
ambientale, in assenza di permesso di costruire e di
autorizzazione
paesaggistica, trasformandolo da deposito ad
unità abitativa.
Contro l’ordinanza veniva proposto ricorso
per cassazione censurandola in quanto il tribunale del
riesame,
dopo aver inquadrato gli interventi edilizi in questione
nel novero delle cc.dd. ristrutturazioni edilizie, avrebbe
disatteso le doglianze difensive; in particolare,
trattandosi
di mutamento di destinazione d’uso, non avendo comportato
trasformazioni dell’aspetto esteriore, di volumi o di
superfici,
ben avrebbero potuto essere effettuati con d.i.a. (titolo
di cui l’imputato era munito) sicché nessuna sanzione
penale era applicabile.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando come
non vi fosse dubbio che le attività edilizie in corso
all’atto
dell’accertamento rientrassero nella ristrutturazione
edilizia,
non realizzabili dunque mediante semplice denuncia di inizio
attività.
I giudici di Piazza Cavour, peraltro, nel dare
continuità
ad un orientamento consolidato della Cassazione
(v., ad esempio: Cass. pen., Sez. III, n. 9894 del 20.01.2009 - dep.
05.03.2009, T., in CED, n. 243101), si sono
poi soffermati a valutare gli eventuali riflessi che il c.d.
decreto
“Sblocca Italia” ha avuto sulla questione. Sul punto, i
Supremi Giudici hanno chiarito come, sulla questione della
configurabilità del reato edilizio, nessuna concreta
incidenza
esplica la recente modifica normativa operata dal D.L.
12.09.2014, n. 133, recante “Misure urgenti per
l’apertura
dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza
del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive” (G.U. n. 212 del 12.09.2014), entrato
in vigore il 13.09.2014 che, all’art. 17, nel
modificare
il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 ha esteso la categoria
degli interventi di manutenzione straordinaria
ricomprendendovi
anche quelli consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di
opere anche se comportanti la variazione delle superfici
delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico,
a condizione, tuttavia, che non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria
destinazione d’uso.
Nel caso di specie, infatti, escluso in
fatto che si trattasse di mero frazionamento od
accorpamento,
in ogni caso sarebbe difettata proprio la seconda di
queste condizioni, atteso il mutamento di destinazione d’uso
che l’intervento era finalizzato ad attuare.
E, del resto,
che si tratti di mutamento di destinazione d’uso rilevante,
è
confermato, anche attualmente, dal disposto del nuovo
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter (introdotto dalla legge
di
conversione del predetto D.L., ossia dalla L. 11.11.2014, n. 164), che, sul punto, chiarisce come “costituisce
mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma
di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l’assegnazione dell’immobile o dell’unita immobiliare
considerati
ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto
elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b)
produttiva
e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.
Dunque, la
trasformazione da deposito ad uso residenziale, come nel
caso di specie, costituisce oggi ex lege, un mutamento
rilevante
della destinazione d’uso, non qualificabile come
manutenzione
straordinaria (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2015 n. 3953 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
ESPROPRIAZIONE: PRESUPPOSTI PER LA SUSSISTENZA D’OCCUPAZIONE
USURPATIVA E TERMINI PRESCRIZIONALI DI TUTELA.
L’occupazione di un immobile è usurpativa quando la
scadenza dei termini previsti dall’art. 13, L. n.
2359/1865 -comportando l’inefficacia della dichiarazione
di p.u.- rende la detenzione del fondo alla stregua
d’un comportamento materiale, non riconducibile
all’esercizio
di un pubblico potere, perciò inidoneo a determinare
l’acquisto a titolo originario della proprietà in
capo alla P.A., anche nel caso d’irreversibile
trasformazione
derivante dalla successiva realizzazione dell’opera
pubblica.
In tali casi, il diritto del privato alla restituzione
dell’immobile
non è soggetto a prescrizione, ferma restando la
possibilità di optare per l’azione risarcitoria, il cui
esercizio,
in quanto volto a conseguire il controvalore del
fondo, comporta l’implicita rinuncia al diritto di
proprietà,
sicché solo da questo momento decorre il termine di
prescrizione del diritto al risarcimento.
Due privati convennero in giudizio il Ministero dei lavori
pubblici per sentirlo condannare al risarcimento dei danni
subiti per la perdita della proprietà di un fondo e al
pagamento
dell’indennità dovuta per l’occupazione protratta del
medesimo, disposta per la realizzazione di un edificio
scolastico,
autorizzata dal Prefetto di Catanzaro con decreto
dell’anno 1972, per un solo quadriennio, termine entro il
quale i lavori non vennero ultimati né vi fu l’emissione del
decreto di espropriazione.
Integratosi il contraddittorio con il Comune delegato
all’esecuzione
dei lavori, il Tribunale accolse la domanda, condannando
le due Amministrazioni convenute, in solido, al
risarcimento dei danni per occupazione usurpativa e ad altra
somma per indennità da occupazione legittima, oltre
interessi
e rivalutazione monetaria.
La Corte territoriale parzialmente accolse il gravame
incidentale
proposto dal Comune, dichiarando non dovuta la
rivalutazione sulla somma liquidata a titolo d’indennità di
occupazione, e riconoscendo su quella dovuta a titolo di
risarcimento
gl’interessi legali sull’importo rivalutato anno
per anno.
Per il rimanente, la Corte di merito ribadì che al
risarcimento
dei danni per l’occupazione appropriativa o usurpativa
sono tenuti solidalmente tutti i soggetti che a diverso
titolo
hanno partecipato alla trasformazione del fondo in costanza
dell’occupazione illegittima.
La Corte altresì escluse l’intervenuta prescrizione del
diritto
al risarcimento, osservando che la scadenza dei predetti
termini avesse comportato il venir meno dell’efficacia della
dichiarazione di pubblica utilità, con la conseguente
configurabilità
della fattispecie come occupazione usurpativa,
qualificabile come illecito a carattere permanente. Per lo
stesso motivo, escluse che ai fini della liquidazione del
risarcimento
potesse trovare applicazione l’art. 5-bis, comma
7-bis, D.L. 11.07.1992, n. 333, convertito in L. 08.08.1992, n. 359, precisando comunque che la sopravvenuta
dichiarazione d’illegittimità costituzionale di tale
disposizione
aveva reso ininfluente, a tal fine, la distinzione tra
occupazione
appropriativa e usurpativa.
Circa la quantificazione del danno, la Corte d’appello
confermò
la vocazione edificatoria del fondo, in virtù della
destinazione
prevista dal programma di fabbricazione approvato nell’anno
1971 nonché delle caratteristiche dell’immobile.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto
dal Comune, che la Suprema Corte respinge osservando
che resta inoppugnata la circostanza per cui la costruzione,
dichiarata di pubblica utilità nel 1972, fu completata nel
1980, ad ampio decorso del termine quadriennale fissato
per il compimento delle espropriazioni e dei lavori. Per il
che, non può certo dubitarsi della natura usurpativa
dell’occupazione
in esame, in applicazione del principio, costantemente
ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo
cui la scadenza dei termini previsti dall’art. 13 della
L. 25.06.1865, n. 2359, comportando l’inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità, rende configurabile la
detenzione
del fondo alla stregua di un mero comportamento
materiale, non riconducibile all’esercizio di un pubblico
potere
e perciò inidoneo a determinare l’acquisto a titolo
originario
della proprietà in favore della P.A., anche nel caso
d’irreversibile trasformazione derivante dalla successiva
realizzazione dell’opera pubblica.
In virtù di tale
principio,
al proprietario privato della disponibilità del fondo va
riconosciuto
il diritto alla restituzione dell’immobile, non soggetto
a prescrizione, ferma restando la possibilità di optare
per l’azione risarcitoria, il cui esercizio, in quanto volto
a
conseguire il controvalore del fondo, comporta l’implicita
rinuncia al diritto di proprietà, con la conseguenza che è
solo da questo momento che può essere fatto decorrere il
termine di prescrizione del diritto al risarcimento, il
quale
resta peraltro interrotto per l’intero corso del giudizio,
ex
art. 2945, comma 2, c.c. (Cass., Sez. I, 25.01.2013, n.
1787; Id., 27.05.2010, n. 13023; Id., 12.10.2001, n. 15710)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 28.01.2015 n. 1612 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
APPALTI: SULLA DIFFERENTE VALENZA DI UNA DELIBERA
RICOGNITIVA DI DEBITO ASSUNTA DA UN ENTE LOCALE.
Una delibera di riconoscimento del debito unicamente
motivata con l’esecutività provvisoria della sentenza
non costituisce “riconoscimento di debito” ai fini dell’art.
2041 c.c. o dell’art. 23, D.L. n. 66/1989, perché essa
non manifesta la volontà di riconoscere l’utilità della
prestazione ma quella di ottemperare alla statuizione
giudiziale.
L’interpretazione degli atti amministrativi
segue
le stesse regole civilistiche per l’interpretazione dei
contratti (artt. 1362 ss. c.c.): fra esse è preminente
quella
letterale, ove compatibile con il provvedimento
amministrativo,
dovendo il Giudice anche ricostruire l’intento
dell’Amministrazione ed il potere che ha inteso in
concreto esercitare, tenendo altresì conto del complesso
dell’atto e del comportamento della P.A., oltre che di
quanto può razionalmente intendere, secondo buona
fede, il destinatario.
La controversia attiene a un appalto pubblico di lavori
affidato
da un’Amministrazione a una impresa edile e concernenti
l’esecuzione, con procedura di urgenza, di alcuni
tronchi dell’asse viario provinciale. Per il soddisfacimento
del credito residuo, con rivalutazione e interessi,
l’impresa
convenne l’Ente avanti il Tribunale civile. In via
subordinata,
stante il riconoscimento dell’utilità delle opere eseguite
e la loro utilizzazione, chiese il pagamento di un
indennizzo,
con rivalutazione e interessi.
L’intimata Amministrazione, oltre ad eccepire il difetto di
giurisdizione, sollevò la questione dell’inammissibilità
della
domanda d’indennizzo per ingiustificato arricchimento ex
art. 23, D.L. n. 66/1988, trattandosi di opere eseguite in
assenza
di formale contratto di appalto ed impegno di spesa.
Il Tribunale -dato atto dell’intervento pagamento in corso
di primo grado della somma capitale- con sentenza respinse
la domanda di rivalutazione monetaria; accolse quella
per interessi legali e di mora sino alla data di pagamento
da parte dell’Ente, addebitando ad esso le spese di lite.
La sentenza fu gravata da un appello principale della P.A. e
da un incidentale dell’impresa.
La Corte territoriale accolse in parte sia il primo che il
secondo,
condannando la P.A. al pagamento degli interessi
legali e della somma corrispondente al maggior danno,
ragguagliato all’eventuale più elevato tasso di
rivalutazione
rispetto a quello degli interessi legali, oltre che alla
metà
delle spese processuali. Alla base della propria statuizione
la Corte osservò che l’impresa aveva eseguito opere stradali
commissionate dalla P.A. in assenza tanto di contratto
scritto, quanto di un ordine o di una deliberazione di spesa
adottati nelle forme dell’art. 23, D.L. n. 66/1989.
Di
conseguenza,
la responsabilità contrattuale della P.A. era inoperante,
restando contrattualmente coinvolto l’amministratore
o il funzionario dell’ente che aveva agito per suo conto.
Nello specifico, però, avendo l’ente riconosciuto (ex art.
5,
D.Lgs. n. 342/1997) il proprio debito fuori bilancio e
avendo
erogato alla propria creditrice la somma corrispondente
all’intera
sorte capitale, le questioni residue si riducevano al
pagamento della rivalutazione e degli interessi calcolati su
queste somme.
Tuttavia, poiché l’impresa aveva proposto
tali domande verso la P.A. nella forma di cui all’art. 2041
c.c., esse andavano disattese in difetto del requisito della
sussidiarietà: tali domande, invero, andavano -ai sensi
dell’art.
23, D.L. n. 66/1989- nei riguardi della persona fisica
che aveva consentito l’instaurazione di quel rapporto
contrattuale,
quindi con differente causa petendi. Di contro,
erano dovuti all’impresa interessi e rivalutazione per il
periodo
di tardato pagamento, con riferimento al momento in
cui essi erano diventati esigibili, in ragione del
riconoscimento
del debito fuori bilancio, avvenuto con la Delib. 28.11.1998, n. 150. Le spese erano determinate ponendone
la metà a carico della Provincia.
Ricorre l’impresa per la cassazione di tale sentenza,
lamentando
sostanzialmente l’erroneità della decisione di merito
ove non aveva considerato come indice di un (secondo)
riconoscimento
dell’utilità, con la conseguente maggiore debenza
d’interessi e rivalutazione, una (seconda) deliberazione
di riconoscimento di debito fuori bilancio, questa volta
non intervenuta per la sorte capitale in corso di causa di
primo grado, bensì per effetto della sentenza di primo grado
e limitatamente alle somme accessorie da essa esecutivamente
poste a carico dell’Ente.
La Suprema Corte ritiene che tali doglianze siano in parte
inammissibili e in altra parte infondate.
Sotto un primo profilo, afferma il Giudice nomofilattico che
una delibera contenente un riconoscimento del debito, che
prende atto di una sentenza e che poggia la propria
motivazione
sull’esecutività provvisoria della medesima, non è
idonea a costituire un riconoscimento di debito ai sensi
dell’art. 2041 c.c. o dell’art. 23, D.L. n. 66/1989, posto
che
essa poggia il proprio contenuto sulla necessità di
effettuare
il pagamento della somma richiesta in ottemperanza alla
sentenza del Tribunale, provvisoriamente esecutiva per legge
e a seguito a notifica dell’atto di precetto, adottato,
pertanto,
allo scopo di evitare l’esecuzione coattiva ed i conseguenti
costi ulteriori.
Né la Cassazione ritiene ammissibili le doglianze che mirano
a un riesame, rispetto a quello compiuto dal Giudice di
merito, delle valutazioni che la P.A. ha compiuto nelle due
delibere ricognitive del debito fuori bilancio, in assenza
di
censure attinenti ai criteri ermeneutici asseritamente
violati.
A tal proposito, la S.C. ha ricordato che in difetto di
censure
attinenti ai criteri interpretative delle stesse, non
possono
essere riesaminate in sede di legittimità, in ossequio
al condiviso principio di diritto (Cass., Sez. II , n.
11409/1998) secondo cui l’interpretazione degli atti
amministrativi
soggiace alle stesse regole dettate dagli artt.
1362 ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti tra le
quali,
ha carattere preminente, quella collegata all’elemento
letterale
-in quanto compatibili con il provvedimento amministrativo- dovendo il giudice anche ricostruire l’intento
dell’Amministrazione
ed il potere che ha inteso in concreto
esercitare, tenendo altresì conto del complesso dell’atto e
del comportamento dell’Autorità amministrativa, oltre che
di quanto può razionalmente intendere, secondo buona fede,
il destinatario (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 27.01.2015 n. 1510 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 4/2015). |
LAVORI PUBBLICI:
SULLA NECESSITÀ DI UN CONTRATTO AVENTE FORMA
SCRITTA PER IL COTTIMO FIDUCIARIO.
La necessità di un contratto scritto per ottenere un
pagamento
per prestazioni rese in favore della P.A. non
viene meno neppure nella fattispecie di cottimo fiduciario,
che altro non è se non una specifica forma d’appalto,
concluso a trattativa privata, ammissibile per legge
solo in ipotesi tassativamente previste e in presenza di
presupposti specifici e che costituisce deroga ai sistemi
d’evidenza pubblica di scelta del contraente, principio
generale in materia di contratti pubblici.
Un Ufficio di Genio civile affidò lavori di somma urgenza,
relativi al consolidamento d’un campanile, a una impresa.
Nell’esecuzione delle opere si resero necessarie indagini e
saggi per la definizione della perizia inerente al
consolidamento
delle opere, ritualmente approvata per circa 500 milioni
di lire. A lavori eseguiti, il medesimo Ufficio comunicò
che l’intervento sarebbe stato ridotto alle sole opere
provvisionali,
competendo quelle di consolidamento alla Soprintendenza
ai Beni Culturali e Ambientali. Per l’effetto, invitò
l’impresa alla stipula dell’atto di cottimo, per così
saldare i
lavori eseguiti, limitatamente alla cifra di 24 milioni di
lire.
L’impresa, tuttavia, domandò il pagamento del proprio totale
credito, sulla sola base della fattura emessa, rifiutandosi
di firmare l’atto di cottimo, dichiaratamente per non
rinunciare
a quanto spettante giusta gli (allora vigenti) artt.
344 (jus variandi sino a un quinto del prezzo del contratto)
e 345 (risoluzione del contratto) della L. n. 23.03.1865,
all. F, 1865, oltre agli interessi da tardivo pagamento.
A fronte del rifiuto dell’Amministrazione appaltante,
l’impresa
citò in giudizio la Regione, chiedendo il risarcimento
dei danni subiti e quantificati in circa 51 milioni di lire
(pari
all’importo di quanto eseguito e del decimo di quelli non
effettuati), con rivalutazione monetaria ed accessori.
Il Tribunale e la Corte d’appello respinsero la domanda.
In particolare, osservò la Corte territoriale che la domanda
risarcitoria proposta dall’impresa non poteva essere accolta
perché fra le parti non v’era alcun contratto, atteso che
la lettera di affidamento dei lavori da parte del Genio
Civile
era sottoscritta dall’ingegnere capo, persona inidonea a
vincolare la Regione e, ancora, che dal decreto assessorile
regionale che approvò la perizia non poteva ricavarsi alcun
impegno della Regione. Era poi dichiarata inammissibile
dalla Corte d’appello, perché domanda nuova proposta in
secondo grado, l’azione di indebito arricchimento ex art.
2041 c.c..
La Cassazione, adita dall’impresa, rigetta il ricorso.
Per quanto interessi, è respinta la censura con cui la
ricorrente
sostiene che la lettera di affidamento, sottoscritta
dall’Ufficiale del Genio civile e dall’impresa, registrata e
autorizzata dall’Assessorato regionale, sarebbe di per sé
sufficiente per vincolare la regione al pagamento delle
lavorazioni.
Osserva la Suprema Corte che le doglianze si sostanziano
nel problema della necessità (o meno) del contratto
scritto per ottenere un pagamento da prestazioni rese
in favore della P.A..
Tali principi non vengono meno neppure
nel caso di cottimo fiduciario, quale altro non è se
non una specifica forma d’appalto, concluso a trattativa
privata, ammissibile per legge solo in ipotesi
tassativamente
previste e in presenza di presupposti specifici,
caratterizzato
dal fatto che l’appaltatore è prescelto da un funzionario
responsabile mediante una valutazione ampiamente
direzionale,
nonché dalla non soggezione alle regole della
contabilità dello Stato, limitatamente alla deliberazione a
contrarre, all’intervento del soggetto capace di
rappresentare
la P.A., nonché all’affidamento dei lavori.
Esso costituisce
una deroga ai sistemi d’evidenza pubblica di scelta del
contraente, principio generale in materia di contratti
pubblici.
Anche la fattispecie del cottimo fiduciario esige il
rispetto
della forma scritta. La sentenza richiama numerosi propri
precedenti (ex multis, Cass. civ., Sez. I, nn. 13749/2003 e
19038/2010) per i quali anche il contratto di cottimo
fiduciario
richiede forma scritta ad substantiam sicché, ove la
sua stipulazione in forma scritta segua l’ultimazione dei
lavori,
è soltanto da quel momento (e non da quello, precedente,
della loro ultimazione) che sorge l’obbligazione della
stazione appaltante al pagamento del corrispettivo
dell’appalto.
E, di conseguenza, solo dalla data suddetta diviene
applicabile, riguardo agli interessi, la disciplina di cui
agli
artt. 35 e 36, d.P.R. n. 1063/1962. Né tal generale
principio
può essere derogato dalla legislazione regionale: la
Cassazione
ha affermato che la necessità di forma scritta per i
contratti con la P.A. non è derogabile dalla legislazione
regionale
(cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 669/2003 per il Lazio; Id.,
n. 3957/2012 per la Sicilia).
Al definitivo, i contratti con la P.A. devono essere
redatti, a
pena di nullità, in forma scritta e -salva la deroga
prevista
dall’art. 17 del R.D. n. 2440/1923 per i contratti con le
ditte
commerciali (definibili a distanza e a mezzo di
corrispondenza
“secondo l’uso del commercio”)- con la sottoscrizione
da parte dell’organo dell’Ente dotato di rappresentatività
esterna e dell’impresa, di un unico documento in cui
siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il
rapporto. Si tratta di regole, osserva la Suprema Corte,
funzionali
all’attuazione del principio costituzionale di buona
amministrazione, perché agevolano l’esercizio dei controlli
e rispondono all’esigenza di tutelare le risorse degli enti
pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti
senza
l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità
delle obbligazioni da adempiere.
Merita solo un cenno, trattandosi d’insegnamento costante,
l’enunciazione del principio con il quale la Suprema Corte
disattende la censura proposta con il secondo motivo,
con il quale si chiede di rimeditare l’affermazione del
Giudice
distrettuale circa l’ammissibilità della domanda d’indebito
arricchimento proposta, per la prima volta, in sede di
appello.
Sul punto, il Giudice di legittimità ricorda il principio
enucleato dalle Sezioni Unite (sent. n. 26128/2010) secondo
cui le domande di adempimento contrattuale e di
arricchimento
indebito, quali azioni che riguardano entrambe
diritti etero-determinati, si differenziano, strutturalmente
e
tipologicamente, sia per causa petendi (esclusivamente nella
seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e
l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione,
nonché, ove l’arricchito sia una P.A., il riconoscimento
dell’utilitas da parte dell’ente), quanto per il petitum
(pagamento
del corrispettivo pattuito o indennizzo).
Addirittura le Sezioni Unite osservano che la domanda ex
art. 2041 c.c. può essere proposta nel giudizio
d’opposizione
a decreto ingiuntivo (regolato dal rito ordinario ex art.
645, comma 2, e, quindi, dall’art. 183, comma 5, c.p.c.)
soltanto se avanzata con la comparsa di costituzione e
risposta
dall’opposto (attore sostanziale) qualora l’opponente
abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione in
opposizione,
un tema d’indagine che possa giustificare l’esame
di una situazione di arricchimento senza causa.
In ogni
altro caso, all’opposto è precluso proporre, neppure in via
subordinata, in comparsa di risposta o nella memorie ex
art. 183 c.p.c. un’autonoma domanda di arricchimento
senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d’ufficio
dal
giudice. Se il richiamato principio opera nel caso di
fattispecie
inerente l’opposizione a decreto ingiuntivo, esso deve
a fortiori applicarsi al giudizio di appello, nel quale non
è
certamente configurabile l’unica eccezione alla
inammissibilità
ipotizzata dalla menzionata sentenza, ossia quella in
cui sia stato l’opponente a sollevare la questione, perciò
rimettendo
in termini l’opposto (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
21.01.2015 n. 1053 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
LAVORI PUBBLICI:
EFFETTI DEL D.P.R. N. 1063/1962 SU CONTRATTI
STIPULATI DA ENTI NON STATALI.
Il capitolato generale d’appalto per le opere pubbliche
di cui al d.P.R. n. 1063/1962 ha valore normativo e
vincolante
-e si applica, quindi, in modo diretto, indipendentemente
dal richiamo operato dalle parti- soltanto
per gli appalti stipulati dallo Stato, mentre per quelli
stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta
personalità
giuridica e di propria autonomia, le previsioni del
capitolato costituiscono clausole negoziali, operanti per
volontà pattizia, sicché assumono efficacia obbligatoria
solo se, e nei limiti in cui, le parti le abbiano richiamate
per regolare il singolo rapporto contrattuale.
La sentenza risolve un ricorso proposto da un Comune contro una sentenza di Corte d’Appello che aveva respinto
l’impugnazione dal medesimo Ente proposta contro un lodo
reso a soluzione d’una controversia insorta con un’impresa
appaltatrice di opere pubbliche, poi fallita.
Per quanto
qui rilevi, la Corte di merito ha disatteso l’eccezione
circa
la validità della clausola compromissoria contenuta nel
contratto osservando che il richiamo, ivi presente, alle
disposizioni
di cui all’allora vigente capitolato generale
oo.pp. per lo Stato (d.P.R. n. 1063/1962) implicava
l’inserimento
pattizio di tutte le disposizioni colà previste (incluse
quelle inerenti la necessaria devoluzione di controversie
alla
competenza arbitrale, per vero poi dichiarata
incostituzionale),
per entrambe le parti contraenti e non solo per
l’appaltatore.
In relazione a tale aspetto, il Comune ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 807 e 808 c.p.c.,
dell’art. 1362 c.c. ss., oltre che vizi motivazionali,
assumendo
che la Corte di merito, privilegiando il criterio
ermeneutico
fondato sul comportamento delle parti successivo alla
stipulazione del contratto, avrebbe disatteso il principio
inerente
alla necessità -qualora sia richiesta per una determinata
convenzione la forma scritta “ad substantiam”- di
individuare
la relativa clausola nel contenuto del contratto,
non essendo nella specie sufficiente il generico richiamo al
capitolato generale per le opere pubbliche.
La Cassazione condivide la doglianza, affermando l’erroneità
dell’assunto per il quale il richiamo -operato in contratto- al d.P.R. n. 1063/1962 implica l’automatico inserimento
pattizio di ogni disposizione prevista da detta normativa,
incluse
quelle inerenti alla devoluzione delle eventuali
controversie
alla procedura arbitrale.
A sostegno dell’assunto, la Suprema Corte richiama i propri
precedenti per i quali il capitolato generale d’appalto
per le opere pubbliche di cui al d.P.R. n. 1063/1962 ha
valore
normativo e vincolante -e si applica, quindi, in modo
diretto, indipendentemente dal richiamo operato dalle parti- soltanto per gli appalti stipulati dallo Stato, mentre per
quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di
distinta personalità
giuridica e di propria autonomia, le previsioni di
esso costituiscono clausole negoziali, operanti solo per
volontà
pattizia (Cass., SS.UU., 14.12.1999, n. 14018).
In tale ottica, s’è precisato che qualora in un contratto
d’appalto stipulato a seguito di una licitazione privata
indetta
da un Comune le parti abbiano fatto espresso richiamo,
quale parte integrante del contratto, alle norme del
d.P.R. n. 1063/1962 (fra le quali sono comprese quelle
relative
alla competenza arbitrale per la definizione delle
controversie)
non v’è necessità di una separata clausola compromissoria,
posto che la volontà dei contraenti trova già la
sua espressione “per relationem perfecta” nel richiamo
pattizio.
In tal caso la fonte della competenza arbitrale va
individuata
non nella legge (ossia del d.P.R. cit.), bensì in una
convenzione compromissoria (Cass. 24.06.2008, n.
17083).
In altri termini, la natura pattizia della
previsione
d’arbitrato (la cui obbligatorietà per i contratti dello
Stato
fu a suo tempo dichiarata incostituzionale) può desumersi
attraverso il richiamo al capitolato generale che prevede,
per l’appunto, anche la risoluzione di eventuali
controversie
relative a interpretazione ed esecuzione del contratto di
appalto
mediante arbitrato. Sicché -ai fini dell’operatività d’una
clausola compromissoria arbitrale- occorre sempre, per
gli appalti non statali, un univoco ed espresso richiamo al
capitolato generale, e, con esso, alla previsione
dell’arbitrato.
In tale senso è la giurisprudenza della Suprema Corte nel
richiedere che i contraenti di un appalto di opere pubbliche
non tenuti (perché non statali) all’applicazione delle norme
del d.P.R. cit. debbono operare “un richiamo esplicito, e
non meramente formale” a detta disciplina (Cass. 04.02.2011, n. 2749, in motivazione).
In precedenza si era affermato che, in mancanza d’una
disposizione
che sottoponga i contratti stipulati dagli enti
pubblici diversi dallo Stato alla disciplina del predetto
capitolato,
ove le parti abbiano richiamato il capitolato stesso
per disciplinare il rapporto contrattuale -come avviene nel
caso in cui abbiano testualmente pattuito che esso
costituisca
parte integrante del contratto- le norme del capitolato,
ivi comprese quelle che prevedono il deferimento delle
controversie nascenti dal contratto a un collegio arbitrale,
assumono la stessa natura e portata negoziale dell’atto
che le richiama, perdendo qualsiasi collegamento con la
fonte normativa di provenienza, e conservando efficacia
indipendentemente
dalle successive modifiche della stessa
(Cass. 06.11.2006, n. 23670).
Tuttavia non risultando, nel caso di specie, la volontà di
recepire
il contenuto del predetto capitolato generale in maniera
esplicita ed evidente, perché la mera indicazione del
capitolato generale come “documento” costituente parte
integrante del contratto non è indicativa dell’intenzione
dei
contraenti di rispettarne tutte le clausole né -con
riguardo
allo specifico- vale la circostanza che il contrato sembri
individuare
determinati obblighi a carico del solo appaltatore
“tenuto a osservare scrupolosamente e ad accettare come
se inserite nel presente contratto … le disposizioni delle
condizioni contenute nel capitolato generale d’appalto
approvato
con d.P.R. 16.07.1962, n. 1063”.
Su tale aspetto
-chiosa la Suprema Corte- la Corte di merito ha errato nel
ritenere che il solo appaltatore si sarebbe impegnato a
rispettare
il capitolato e, con esso, la previsione del ricorso
all’arbitrato, perché si oblitera il limite costituito dalla
natura
contrattuale della convenzione di arbitrato, che deve
formarsi
con il consenso (anche “per relationem”) di tutte le
parti, nella specie assolutamente carente (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
19.01.2015 n. 747 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
ESPROPRIAZIONE:
EFFETTI DELL’OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA E DECORRENZA
DEI TERMINI PRESCRIZIONALI DI RISARCIMENTO.
In applicazione dell’art. 1 prot.
addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
va affermato che l’illecito spossessamento del privato da
parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo
terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno
luogo all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione
ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo
che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il
risarcimento del danno.
Sussiste diritto al risarcimento dei danni per il periodo,
non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il
quale il privato ha subito la perdita delle utilità
ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della
restituzione o sino a quello in cui ha chiesto il
risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla
proprietà del terreno.
In ragione di ciò, la prescrizione
quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre
dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del
godimento, e dalla data della domanda, quanto alla
reintegrazione per equivalente.
Un privato convenne in giudizio, innanzi al Tribunale
civile,
un Comune, chiedendone la condanna al risarcimento dei
danni patiti per l’illegittima occupazione d’un terreno sul
quale era stato realizzato un edificio scolastico. In
particolare,
l’attore precisava che l’occupazione d’urgenza dell’area
era stata autorizzata con decreto assai risalente nel
tempo ed era divenuta illegittima poiché il decreto di
esproprio non era intervenuto nel biennio successivo.
Il Tribunale rigettava la domanda per intervenuta
prescrizione
del diritto.
La Corte d’appello confermava la decisione, osservando
che il termine quinquennale di prescrizione dovesse
ritenersi
decorrente dall’irreversibile trasformazione del terreno
(verificatasi nel 1960 con la realizzazione dell’edificio
scolastico)
e, ancora, che non erano incompatibili con l’eccepita
prescrizione le condotte del Comune (in particolare:
determinazione,
offerta e deposito dell’indennità; la delibera di
procedere all’acquisto oneroso del terreno; un contratto di
compravendita rimasto privo di seguito per mancanza di
finanziamento).
Gli eredi del privato ricorrono per Cassazione.
La questione, in ragione di contrasti giurisprudenziali, è
rimessa
alle Sezioni Unite. Infatti, a un primo orientamento
che continua ad applicare l’istituto dell’occupazione
espropriativa,
configurata come illecito istantaneo con effetti
permanenti e che attribuisce al proprietario l’intero
controvalore
del bene espropriato, si contrappone un secondo
orientamento per il quale non può più farsi applicazione
dell’istituto dell’occupazione espropriativa, sia perché
esso
realizza un’indebita “espropriazione indiretta”, secondo
quanto affermato dalle sentenze della Corte europea dei
diritti
dell’uomo (Corte E.D.U.), sia per l’incompatibile istituto
dell’acquisizione sanante, di cui all’art. 42-bis, d.P.R. n.
327/2001. Secondo tale orientamento, quindi, chi subisce
un’occupazione illegittima resta titolare del bene occupato
e può chiedere il risarcimento dei danni da illecito
permanente,
pur se perde in radice il diritto di ottenere il
controvalore
dell’immobile rimasto nella sua titolarità.
Le Sezioni Unite accolgono il ricorso.
Sono condivise le osservazioni dei ricorrenti circa la
violazione
dell’art. 1 prot. addizionale della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.) e dell’art. 10 Cost.,
adducendosi
che -erroneamente- la Corte di appello avrebbe
fatto applicazione dell’istituto dell’accessione invertita,
ritenuto
non conforme al principio di legalità dalla C.E.D.U.. Di
conseguenza, dovendosi escludere l’acquisto della proprietà
da parte del convenuto per effetto della irreversibile
trasformazione,
si doveva anche escludere la decorrenza da
quest’ultima del diritto al risarcimento del danno, che
discendeva
da un illecito permanente, quale doveva appunto
considerarsi l’occupazione illegittima di un terreno da
parte
di un ente pubblico.
Nel motivare l’accoglimento di tale mezzo -che comporta
l’assorbimento del secondo- le SS.UU. ricordano che la
occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa) è
istituto di creazione giurisprudenziale (Cass., SS.UU., 26.02.1983, n. 1464; Cass.
08.06.1979, n. 3243)
ricorrente
in presenza d’una occupazione protrattasi oltre i
previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata
dall’irreversibile trasformazione del fondo per la
costruzione
di un’opera dichiarata di pubblica utilità. Esso è il frutto
della ricerca di un punto d’equilibrio fra tutela
dell’azione
amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario
in capo alla P.A. della proprietà del suolo illegittimamente
occupato e trasformato) e tutela della proprietà privata
(assicurata
dall’obbligo della P.A. occupante di risarcire integralmente
il danno arrecato).
La giurisprudenza successiva ha affrontato il problema del
contrasto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 prot.
C.E.D.U., come interpretato dalla Corte E.D.U. In
particolare,
la Corte di Strasburgo ha censurato le forme di
“espropriazione
indiretta” elaborate nell’ordinamento italiano anche
e soprattutto in sede giurisprudenziale e le ha configurate
come illecito permanente perpetrato nei confronti di
un diritto fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1
cit.,
senza che alcuna contraria rilevanza possa assumere il dato
fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica
sul terreno interessato, affermando anzi che l’acquisizione
del diritto di proprietà non può mai conseguire a un
illecito.
In ragione di questo, la giurisprudenza di Cassazione
successiva alle pronunzie della Corte europea si è in larga
parte orientata verso il superamento dei punti di criticità
della disciplina dell’istituto, rispetto ai principi
affermati dalla
Corte E.D.U..
Così, ad esempio, il problema della tutela del privato
rispetto
all’incertezza del dies a quo di un termine di prescrizione
collegato all’irreversibile trasformazione, è stato
definitivamente
superato affermandosi tanto che detto termine inizi
a decorrere dal momento in cui il trasferimento della
proprietà
venga (o possa) essere percepito dal proprietario come
danno ingiusto e irreversibile, quanto che la relativa
prova incombe sull’Amministrazione (Cass. n. 8965/2014).
I più recenti arresti di Cassazione ritengono superato
l’istituto
dell’occupazione acquisitiva (Cass. 14.01.2013,
n. 705; Cass. 28.01.2013, n. 1804), aderendo alle
conclusioni della Corte E.D.U. e sviluppando un’esegesi
dell’art. 42-bis T.U. espropri che ha portato a ritenere che
tale norma sia applicabile anche a fatti anteriori alla sua
entrata
in vigore e che essa disciplini in modo esclusivo,
incompatibile
con l’occupazione acquisitiva, le modalità attraverso
le quali, a fronte di un’utilizzazione senza titolo d’un
bene per scopi di pubblico interesse, è possibile -con
l’esercizio d’un potere basato su una valutazione degli
interessi
in conflitto- pervenire ad un’acquisizione non retroattiva
della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della
P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto
che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo
di indennizzo.
La Sezioni Unite, con questa sentenza, risolvono il tema
affermando
che il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva
con l’art. 1, del protocollo addizionale alla Convenzione
europea è sufficiente per escluderne la sopravvivenza
nel nostro ordinamento. La sussistenza di tale contrasto è
riconosciuta dalle Sezioni Unite con ordinanze nn. 441 e
442 del 13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e
non manifestamente infondata la q.l.c. del citato art. 42-bis, con riguardo agli artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost.,
anche alla luce dell’art. 1 prot. addizionale C.E.D.U..
In
tali
ordinanze, la Cassazione ha dato atto che la Corte europea
ha acclarato più volte il radicale contrasto con la
Convenzione
del principio dell’espropriazione indiretta, con la quale
il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla
P.A. avviene in virtù della constatazione della situazione
di
illegalità o illiceità commessa dalla stessa
Amministrazione,
con l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima
di trame vantaggio; di passare oltre le regole fissate in
materia di espropriazione, con il rischio di un risultato
imprevedibile
o arbitrario per gli interessati. E nella categoria
suddetta, la Corte ha sistematicamente inserito anche
l’ipotesi
corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa,
ritenendo
ininfluente che una tal vicenda sia giustificata soltanto
dalla giurisprudenza o sia consentita mediante disposizioni
legislative, come è avvenuto con la L. n. 458/1988.
Le conseguenze che derivano dalla contrarietà dell’istituto
dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati
dall’art.
1 prot. C.E.D.U. devono essere individuate sulla base di
quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze
nn. 348 e 349 del 2007 e 338/2011: sicché le norme interne
in contrasto gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1
prot. C.E.D.U., che il legislatore è tenuto a rispettare in
forza
dell’art. 117 Cost., comma 1, non possono essere
disapplicate
dal giudice nazionale che deve verificare la possibilità
di risolvere il problema in via interpretativa, rimettendo,
in caso contrario, la questione alla Corte costituzionale.
In conclusione, afferma la Corte che quando il decreto di
esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato,
l’occupazione
e la manipolazione del bene immobile di un privato
da parte dell’Amministrazione si configurano -
indipendentemente
dalla sussistenza o meno di una dichiarazione
di pubblica utilità - come un illecito di diritto comune,
che determina non il trasferimento della proprietà in capo
all’Amministrazione ma la responsabilità di questa per i
danni.
In particolare, con riguardo alle fattispecie già
ricondotte
alla figura dell’occupazione acquisitiva, viene meno
la configurabilità dell’illecito come “istantaneo con
effetti
permanenti” e, conformemente a quanto sinora ritenuto
per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la
natura di “illecito permanente” che cessa solo per effetto
della restituzione, di un accordo transattivo, della
compiuta
usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato,
ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto,
implicita
nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
A
tale ultimo riguardo, è da escludersi che il proprietario
perda
il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto
nella sua titolarità: in alternativa alla restituzione, gli
è sempre
concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una
implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo
irreversibilmente
trasformato (cfr., in tema di occupazione usurpativa
Cass. 28.03.2001, n. 4451; Cass. 12.12.2001, n.
15710).
Tale rinuncia ha carattere abdicativo e non
traslativo:
da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico,
l’acquisto della proprietà del fondo da parte
dell’Amministrazione
(Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000, n. 1814) (Corte
di
Cassazione, Sezz. Un. civili,
sentenza 19.01.2015 n. 735 - tratto da
Urbanistica e appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: ORDINANZA DI DEMOLIZIONE ESEGUIBILE SULL’IMMOBILE
ABUSIVO ANCHE IN CASO DI SEPARAZIONE LEGALE.
Anche nel caso in cui, in sede di separazione legale, il
coniuge trasferisca all’altro la quota parte di proprietà
dell’immobile abusivamente realizzato, ciò non inficia
la validità dell’ingiunzione emessa anche nei suoi confronti
in qualità di responsabile dell’abuso.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla eseguibilità
dell’ordinanza
di demolizione del manufatto abusivo ove, nelle more
dell’esecuzione, intervenga la separazione tra i coniugi e
uno di essi trasferisca all’altro la quota di sua spettanza
sull’immobile.
La vicenda processuale trae origine
dall’ordinanza
con la quale il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione,
ha respinto le istanze proposte da due ex coniugi avverso
l’ingiunzione a demolire emessa dalla Procura della
Repubblica
in esecuzione di una sentenza irrevocabile che li
aveva ritenuti penalmente responsabili della abusiva
costruzione,
in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, di
due prefabbricati e due verande in legno, dei quali era
stata
ordinata, in sentenza, la demolizione.
Il Tribunale, nel
disattendere
i rilievi difensivi, ha ritenuto irrilevanti:
a)
l’assegnazione
dell’immobile alla moglie, disposta in sede di separazione,
poiché tale assegnazione non faceva comunque venir
meno la qualità di comproprietario dell’immobile stesso
in capo al coniuge;
b) lo stato di necessità addotto dalla
donna che aveva affermato di utilizzare l’immobile come
casa di abitazione perché non potrebbe permettersene
un’altra;
c) la pendenza di un ricorso giurisdizionale
perché
incerto nei suoi esiti e nei tempi di definizione. Contro
l’ordinanza
gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in
particolare sostenendo che, in sede di separazione,
l’immobile
era stato assegnato in via definitiva alla moglie che ne
è divenuta proprietaria, sicché l’ex marito non era
giuridicamente
legittimato a ricevere l’ordine di demolizione né ad
eseguirlo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che, dal
chiaro tenore letterale del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art.
31, comma 2, deriva che l’ordine di demolizione è ingiunto
sia al proprietario che al responsabile dell’abuso; in
particolare,
è il responsabile dell’abuso che, a prescindere dal rapporto
giuridico con il bene al momento in cui riceve
l’ingiunzione,
è comunque tenuto ad ottemperarvi (d.P.R. n.
380 del 2001, art. 31, comma 3 cit.) ed è, inoltre, a sue
spese che il Comune deve procedere alla demolizione in
caso di acquisizione dell’immobile (d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 31, commi 4 e 5).
Da qui, dunque, il rigetto del
ricorso (sulla questione non constano precedenti in termini)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.12.2014 n.
53159 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: INAMMISSIBILE SUDDIVIDERE TEMPORALMENTE I LAVORI
ABUSIVI ESEGUITI SUL MEDESIMO IMMOBILE AI FINI DEL
FRAZIONAMENTO DELLA PRESCRIZIONE.
Nella totale assenza di elementi di prova indicativi di
una netta cesura temporale nella realizzazione
dell’immobile,
questo deve essere valutato globalmente, senza
che, nel contesto di un corpo edilizio unitario, assuma
valore alcuno la datazione dei singoli interventi,
funzionali alla complessiva realizzazione del fabbricato.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
prassi di legittimità, della possibilità di distinguere
temporalmente
l’esecuzione dei lavori abusivi eseguiti su un medesimo
immobile, onde farne derivare una diversa decorrenza
del termine di prescrizione del reato edilizio.
La vicenda
processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale
dichiarava l’imputato responsabile dei reati di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42
del
2004, art. 181, perché, quale proprietario, in zona
sottoposta
a vincolo paesaggistico, di notevole interesse pubblico,
ai sensi del D.M. 13.11.1971, realizzava, in difetto
di titolo abilitativo e di nulla-osta paesaggistico, un
manufatto
a due corpi perpendicolari con pareti in mattoni e tetto
inclinato in travetti, pignatta e caldana in calcestruzzo.
La Corte di Appello, in riforma del decisum di prime cure,
aveva dichiarato estinta per prescrizione la violazione
edilizia
contestata, rideterminando la pena. Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in
particolare
contestando, per quanto qui di interesse, la mancanza di
prova in ordine alla concretizzazione del reato in
contestazione,
con particolare riferimento all’epoca di edificazione
del manufatto in questione, dolendosi anche del fatto che
ingiustificatamente e illogicamente la Corte d’appello aveva
rigettato la richiesta di rinnovazione della istruttoria
dibattimentale,
tendente a provare l’epoca della esecuzione
dei lavori riguardanti la parte essenziale e strutturale del
manufatto in questione, come dimostrato dalle ortofoto
prodotte in sede di appello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha osservato come la Corte d’Appello avesse ritenuto, a
giusta ragione, di non potere accedere alla tesi difensiva,
secondo cui la realizzazione dell’immobile abusivo dovrebbe
essere frammentata per fasi, così da fare ritenere ormai
prescritti i reati con riferimento alla esecuzione delle
opere
principali (quelle costituenti volumetria) e da fare,
invece,
considerare irrilevanti, sia sul piano edilizio, che su
piano
paesaggistico, gli ulteriori interventi, in quanto semplici
opere di completamento (intonacatura, rinfazzo, posa delle
tegole).
Dalle emergenze istruttorie (fotografie in atti;
eseguite
al momento dell’accertamento operato dalla Polizia
Municipale) poi, emergeva, in maniera incontrovertibile,
una attività di edificazione in corso, non attinente a soli
interventi
di intonacatura e rinzaffo, visto che il solaio risultava
ancora puntellato con ben otto sostegni in ferro
(circostanza,
questa, dimostrativa della recente realizzazione di
esso), sicché, pur considerando la preesistenza di un inizio
di edificazione risalente nel tempo, le opere eseguite erano
da ritenersi in diretta prosecuzione alle precedenti, con
specifica incidenza sul piano edilizio e paesaggistico (in
precedenza, nel senso che la condotta penalmente illecita
permane dall’inizio sino al termine della costruzione
abusiva,
e quindi sino al termine della costruzione di tutti i piani
di cui si compone l’edificio, configurando un unico reato
contravvenzionale, che in quanto permanente, non è
frazionabile,
ai fini della prescrizione, ex art. 158 c.p.: Cass. pen.,
Sez. III, n. 10025 del 26.09.1997 - dep. 10.11.1997, Cipolletta, in CED Cass., n. 209428)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.12.2014 n.
53154 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA PRECARIETÀ DI UN INTERVENTO EDILIZIO COSTITUISCE
APPREZZAMENTO DI FATTO, INSINDACABILE DALLA
CASSAZIONE SE IMMUNE DA VIZI LOGICI.
L’indagine sulla sussistenza in concreto degli estremi
affinché un intervento edilizio asseritamente precario
sia o meno facilmente amovibile, è riservata
all’apprezzamento
di fatto del giudice di merito, quando quest’ultimo
ne abbia correttamente individuato i criteri di
identificazione basandosi su elementi oggettivi (nella
specie, la presenza della muratura), sicché si sottrae al
sindacato della Cassazione ove immune da vizi logici e
giuridici.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della rilevanza, ai fini
dell’individuazione
del titolo abilitativo richiesto, della c.d. precarietà
dell’opera edilizia, com’è noto soggetta, soprattutto in
base
a certa legislazione regionale (nella specie, si trattava
della
regione Sicilia), a procedura semplificata.
La vicenda
processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi
della questione segue alla sentenza di condanna, confermata
anche in grado d’appello, nei confronti di una donna
cui era stato addebitato di avere, nella qualità di
proprietaria,
eseguito abusivamente lavori edili consistiti in una tettoia
realizzata mediante tre montanti in legno costituiti da
travi 25x25 che sorreggono una trave anch’essa 25x25 su
cui è appoggiata l’orditura in legno che sostiene il tetto
in
tegole e con la parte superiore dell’orditura murata nella
parete del fabbricato, il tutto per una superficie
complessiva
di mq. 12 circa ed un’altezza di mt. 3,50 circa al colmo
e mt. 3,00 in gronda, opere tutte eseguite in assenza del
p.d.c. o comunque in totale difformità dello stesso (d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44); altra violazione, poi, concerneva
l’aver eseguito i lavori di cui sopra in zona sismica,
omettendo
di depositare prima dell’inizio dei lavori gli atti
progettuali
presso l’ufficio del Genio civile competente e senza
aver prima ottenuto la prescritta autorizzazione e senza la
preventiva presentazione dei calcoli di stabilità (d.P.R. n.
380 del 2001, artt. 93, 94 e 95); altra duplice violazione
concerneva l’aver realizzato, in concorso con altro soggetto
nei cui confronti si era separatamente proceduto, in assenza
di p.d.c., una tettoia con piantoni e travi in legno nonché
per aver realizzato detta opera in zona sismica ed in
assenza
del necessario preavviso e della preventiva autorizzazione,
rispettivamente da inoltrare e da ricevere dal Genio civile.
Contro la sentenza, l’imputata aveva proposto ricorso
per cassazione, in particolare sostenendo che erroneamente
i giudici avevano ritenuto che la tettoia non fosse
facilmente
amovibile; detta affermazione contrasterebbe con la
stessa descrizione del manufatto, avendo i giudici asserito
che per i materiali e per le caratteristiche costruttive con
travi di supporto e l’orditura che sostiene il tetto in
tegole
murata alla parete, la tettoia non potesse essere ritenuta
precaria, trattandosi di struttura di non facile
rimovibilità e
che garantisce un uso durevole; la motivazione sarebbe
viziata
atteso che i materiali utilizzati (legno e tegole), per la
loro intrinseca natura, presentano caratteri di facile
amovibilità;
in secondo luogo l’orditura superiore della tettoia,
pur descritta come murata, in realtà sarebbe stata solo
ancorata
o appoggiata alla parete; ancora, la facile rimovibilità
di tale parte della tettoia avverrebbe con il semplice
sfilamento
delle travi e lo scollamento dell’orditura, senza necessità
di interventi demolitori della parete dell’edificio; i
giudici, quindi, non avrebbero considerato che l’ancoraggio
o l’appoggio alla parete dell’edificio costituisce requisito
di
sicurezza per l’incolumità pubblica e privata che, come
tale,
si coniuga con la natura precaria della tettoia, la cui
precarietà
non può venir meno in ragione dell’osservanza di
principi e valori fondamentali posti a tutela della
collettività;
l’opera in questione, si sosteneva in ricorso, doveva essere
considerata precaria anche se ancorata ad un punto fisso,
purché amovibile non dovendo comportare alcun effetto
demolitorio degli elementi collegati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare
osservando che il concetto di precarietà legato al criterio
strutturale
della “facile rimozione”, impone che il manufatto (nella
specie, la tettoia) non risulti infissa né incorporata alla
parete
ma sia semplicemente aderente a questa, situazione fattuale,
questa, incompatibile con quanto descritto in sentenza,
ove si evidenzia che la parte superiore dell’orditura è
murata nella parete del fabbricato.
La difesa, nel
contestare
la valutazione della facile rimovibilità del manufatto,
aveva,
come detto, sostenuto che la tettoia non fosse murata
ma solo ancorata od appoggiata e che fosse facilmente
amovibile in quanto rimovibile con il semplice sfilamento
delle travi e lo scollamento dell’orditura. Trattasi,
all’evidenza,
di censure in punto di fatto, con cui si chiede in sostanza
alla Cassazione di sindacare l’approdo valutativo attraverso
il quale la Corte d’Appello aveva ritenuto di dover
qualificare come non facilmente amovibile l’opera,
operazione
non consentita in sede di legittimità.
Trattasi di principio
già sostenuto in passato dalla Cassazione, ad esempio,
con riferimento alla categoria giuridica delle pertinenze.
In
particolare, la Cassazione ha sostenuto che l’indagine sulla
sussistenza in concreto degli estremi, affinché un immobile
rientri nella suddetta categoria, è riservata
all’apprezzamento
di fatto del giudice di merito, quando quest’ultimo
ne abbia correttamente individuato i criteri di
identificazione
(Cass. pen., Sez. III, n. 6095 del 26.02.1990 - dep.
27.04.1990, Bellomo, in CED Cass., n. 184156) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.12.2014 n.
52755 -
tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015). |
APPALTI:
RICONOSCIMENTO D’UN DEBITO FUORI BILANCIO E AZIONE
D’INDEBITO ARRICCHIMENTO. RESPONSABILITÀ DEL
FUNZIONARIO SOTTOSCRITTORE DEL CONTRATTO.
Il riconoscimento d’un debito fuori bilancio (ex art. 37,
D.Lgs. 25.02.1995, n. 77) rappresenta un procedimento
discrezionale che consente all’Ente locale di far
salvi, nel proprio interesse, gli impegni di spesa in
precedenza
assunti tramite specifica obbligazione ancorché
sprovvista di copertura contabile, ma non ha la funzione
di introdurre una sanatoria per i contratti conclusi
in assenza di forma scritta né di apportare una deroga
al regime di inammissibilità dell’azione di indebito
arricchimento
potendosi esso interpretare come un riconoscimento, sia pure
implicito, di utilità della prestazione
(in termini, cfr. anche Cass. civ., Sez. I, 27.01.2015,
n. 1510).
Per l’art. 191 T.U. Enti Locali (D.Lgs. 18.08.2000, n.
267) in caso di acquisizione di beni o servizi in assenza
d’impegno contabile e attestazione di copertura finanziaria,
il rapporto obbligatorio intercorre -ai fini della
controprestazione e per la parte non riconoscibile ai
sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e)- tra il privato
fornitore
e l’amministratore, funzionario o dipendente che
hanno consentito la fornitura, nei limiti degli accertati e
dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente: per effetto
di ciò vi è impossibilità di esperire nei confronti
dell’Ente
locale la residuale azione di arricchimento senza causa,
stante il difetto del necessario requisito della
sussidiarietà.
Un libero professionista convenne in Tribunale
un’Amministrazione
per il pagamento del compenso derivato da una
prestazione professionale chiedendo, in subordine,
l’indennizzo
per ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.) sul
presupposto che l’Ente avesse utilizzato la sua opera,
riconoscendone
così l’utilità.
Il Comune convenuto, nel costituirsi,
eccepì la nullità del contratto privo di forma scritta e,
contestualmente, la sussistenza dei presupposti per proporsi
azione d’arricchimento indebito. Il Tribunale rigettò la
domanda, ritenendo non provati né la materiale esecuzione
dell’opera sulla scorta del progetto redatto dall’attore, né
il
riconoscimento dell’utilità da parte della P.A..
La sentenza fu confermata dalla Corte d’Appello.
Il professionista ricorre in Cassazione, che respinge il
ricorso.
Tra le argomentazioni sviluppate dal Giudice di legittimità
a
fondamento del rigetto, due sono centrali e vanno qui
evidenziate.
Anzitutto, la Suprema Corte ricorda che il rapporto
fra le parti è nullo per difetto di forma scritta e che tal
nullità non può sanarsi mediante il riconoscimento
dell’utilità
della prestazione da parte della P.A., peraltro qui res
controversa, in quanto -a dir del ricorrente- essa sarebbe
avvenuta per effetto del riconoscimento di un debito fuori
bilancio.
La Cassazione smentisce l’assunto affermando
che la stipulazione con la P.A. d’un qualsiasi contratto
privo
di forma scritta è affetto da una nullità che non può essere
sanata attraverso il riconoscimento, da parte
dell’Amministrazione
committente, dell’utilità della prestazione ricevuta.
È principio costante che il riconoscimento di un debito
fuori bilancio, ai sensi dell’art. 37, D.Lgs. 25.02.1995, n. 77, costituisce un procedimento discrezionale che
consente all’ente locale di far salvi, nel proprio
interesse,
gli impegni di spesa in precedenza assunti tramite specifica
obbligazione ancorché sprovvista di copertura contabile:
esso non ha però la funzione di introdurre una sanatoria
per i contratti nulli o, comunque, invalidi - come quelli
conclusi
senza il rispetto della forma scritta “ad substantiam”
né di apportare una deroga al regime di inammissibilità
dell’azione di indebito arricchimento di cui all’art. 23 del
D.L. n. 66/1989 (Cass., Sez. I, 12.11.2013, n.
25373).
Per l’effetto, se la nullità derivante dall’adozione d’una
delibera
di conferimento dell’incarico professionale non accompagnata
dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria
può esser sanata attraverso la ricognizione postuma
di debito da parte dell’ente locale (ex art. 24, D.L. n.
66/1989, poi seguito dagli artt. 191 -94 del T.U.E.L.-
D.Lgs. n. 267/2000), tale dichiarazione non può avere alcuna
efficacia sanante se il contratto difetta di forma scritta
(Cass., Sez. III, 18.11.2008, n. 27406).
Sotto altro profilo, il Supremo Collegio osserva che è
assorbente
ragione d’infondatezza la circostanza che l’azione
d’ingiustificato arricchimento ha -com’è noto natura
residuale,
accordata a chi non disponga di altri strumenti giuridici
a tutela della propria pretesa: circostanza che non sussiste
nello specifico caso di spese fuori bilancio degli enti
locali. Infatti, il legislatore, già con l’art. 23, comma 4,
D.L.
n. 66/1989 stabilì che laddove vi sia stata acquisizione da
parte dell’ente locale di beni o servizi in violazione
dell’obbligatoria
deliberazione autorizzativa, né l’impegno contabile
sia stato registrato sul competente capitolo del bilancio
di previsione, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini
della
controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il
privato
fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano
consentita la fornitura.
Tale norma fu abrogata dall’art.
123, comma 1, D.Lgs. n. 77/1995 e sostituita dall’art. 35,
comma 4, dello stesso decreto, che introdusse un’importante
novità, costituita dalla possibilità per l’Ente di
riconoscere,
con deliberazione consiliare, la legittimità dei debiti
fuori bilancio derivanti da acquisizioni di beni o servizi
non
autorizzate, seppure “nei limiti degli accertati e
dimostrati
utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito
dell’espletamento
di pubbliche funzioni e servizi di competenza”. In tal
modo, la legge è passata da un sistema di “irresponsabilità
assoluta” della p.a., nel caso di assunzione di beni o
servizi
non regolarmente deliberate, a un sistema di
“irresponsabilità
relativa”, nel quale a determinate condizioni la p.a. poteva
decidere di “riconoscere” il debito fuori bilancio.
L’ultima tappa dell’evoluzione normativa, in materia, si ha
con il T.U.E.L. il cui art. 191 ha stabilito che nel caso in
cui
vi è stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione
dell’obbligo
indicato nei commi 1, 2 e 3 e cioè in assenza dell’impegno
contabile registrato sul competente capitolo del
bilancio di previsione e l’attestazione della copertura
finanziaria,
il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione
e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art.
194, comma 1, lett. e), tra il privato fornitore e
l’amministratore,
funzionario o dipendente che hanno consentito la
fornitura, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento
per l’ente.
In tali casi, il credito per prestazione o il servizio
sussiste direttamente
verso il funzionario il quale -in assenza dei necessari
adempimenti formali per la validità dell’impegno di
spesa assunto dalla P.A.- ne risponderà in proprio verso il
privato fornitore. L’insorgenza del rapporto obbligatorio
direttamente
tra fornitore e amministratore o funzionario che
abbia consentito la prestazione comporta l’impossibilità di
esperire nei confronti dell’Ente locale l’azione di
arricchimento
senza causa, stante il difetto del necessario requisito
della sussidiarietà.
Al definitivo, dopo l’introduzione di
tale sistema normativo, la questione del riconoscimento
dell’utilità della prestazione si pone (di regola) solo
quando
siano il funzionario o l’amministratore responsabili verso
il
privato a proporre l’azione di cui all’art. 2041 c.c. nei
confronti
della P.A. (Cass., Sez. VI - sottosez. III, ord. 23.01.2014, n. 1391; Cass., Sez. I, 26.05.2010, n.
12880) (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
19.12.2014 n. 26911 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA INIDONEA AD
ESCLUDERE LA RILEVANZA PENALE DEL C.D. DELITTO
PAESAGGISTICO
L’avvenuto, postumo, rilascio della autorizzazione
paesaggistica
(o del nulla osta paesaggistico) da parte delle
autorità competenti, è inidoneo ad escludere la rilevanza
penale della condotta posta in essere in violazione
dell’art. 181, comma 1-bis, D.Lgs n. 42 del 2004.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema assai frequente nell’esegesi
giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla
rilevanza
“escludente” la configurabilità dell’illecito penale,
qualificabile
come delitto paesaggistico, a seguito dell’intervento
rilascio, postumo dell’autorizzazione paesaggistica da
parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
La
vicenda
processuale trae origine dall’impugnazione contro la
sentenza con cui la Corte di appello aveva confermato la
sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato quattro
soggetti, avendoli ritenuti responsabili del reato di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), per
avere
realizzato, in assenza del permesso a costruire, una tettoia
con struttura portante in legno ricoperta da uno strato di
incannucciato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
e del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma
1-bis, lett. a), per avere realizzato l’opera in questione
in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole
interesse pubblico in assenza della prescritta
autorizzazione.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli
interessati, in particolare dolendosi del fatto che
i giudici non avrebbero tenuto conto della circostanza che
risultava essere stata concessa l’autorizzazione
paesaggistica
dalla competente Sovrintendenza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha così fatto applicazione del principio di diritto,
tradizionalmente
ribadito da questa Corte, per il quale il rilascio postumo
dell’autorizzazione paesistica da parte dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo (ipotesi diversa dal
cosiddetto
accertamento di compatibilità paesaggistica, introdotto
per alcuni interventi minori dall’art. 1, comma 36, L.
15.12.2004, n. 308), non determina l’estinzione del
reato paesaggistico (art. 181, D.Lgs. 22.01.2004, n.
42) poiché tale effetto non è espressamente previsto da
alcuna
disposizione legislativa avente carattere generale,
mentre il nulla osta paesaggistico ha l’effetto di escludere
l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in
pristino
dello stato dei luoghi (Cass. pen., Sez. III, n. 37318
del 03.07.2007 - dep. 10.10.2007, Carusotto e altro, in CED
Cass., n. 237562) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.12.2014 n.
52495 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REALIZZAZIONE DI OPERE STRUTTURALI IN CEMENTO
ARMATO NON È CONDIZIONE PER LA CONFIGURABILITÀ
DELLE VIOLAZIONI ANTISISMICHE
Gli obblighi di denunzia dei lavori e di presentazione
dei progetti di costruzioni in zone sismiche imposti dal
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 93 e la necessità della
preventiva autorizzazione scritta prescritta dal successivo
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 94, devono essere rispettati
per qualsiasi costruzione, riparazione e soprelevazione
la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità,
indipendentemente dalla natura dei materiali
utilizzati e, in particolare, dal fatto che si tratti di
opere
in conglomerato cementizio armato.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno di poter ritenere
configurabile la violazione antisismica nel caso in cui
l’opera
edilizia abusiva sia stata realizzata con materiali diversi
dal cemento armato.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui il Tribunale aveva assolto l’imputato
dai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e
95,
contestati in relazione ad un edificio adibito ad abitazione
realizzato in zona sismica, senza averne dato preavviso allo
sportello unico e senza la preventiva autorizzazione del
competente ufficio tecnico della regione. Il Tribunale, in
particolare, ha assolto l’imputato dal reato di cui sopra
perché
il fatto non sussiste, non essendo stata contestata la
realizzazione di opere strutturali in cemento armato.
La Cassazione, accogliendo il ricorso del pubblico ministero
contro l’assoluzione, ha affermato il principio di cui in
massima, così dando continuità all’indirizzo
giurisprudenziale
che ritiene che le disposizioni antisimiche previste dagli
artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a
tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la
pubblica incolumità, anche quando si impieghino per la
realizzazione delle opere elementi strutturali meno solidi e
duraturi rispetto alla muratura e al cemento armato (Cass.
pen., Sez. III, n. 6591 del 24.11.2011 - dep. 17.02.2012, D’Onofrio, in CED Cass., n. 252441; fattispecie
relativa a piscina prefabbricata) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2014 n.
52297 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
URBANISTICA:
DESTINAZIONE D’AREA, VINCOLI ESPROPRIATIVI E
POSSIBILITÀ RISARCITORIE.
La destinazione di un’area, da parte degli strumenti
urbanistici,
a zone di completamento non comporta, di
per sé, l’apposizione d’un vincolo preordinato
all’espropriazione,
che è ravvisabile soltanto se la previsione (o
la variante) non abbia natura generale ma imponga un
vincolo particolare incidente su beni determinati in
funzione
non già di una generale destinazione di zona bensì
della localizzazione d’una specifica opera pubblica.
Di
contro, se la previsione miri a nuova zonizzazione
dell’intero
territorio, che incida su una generalità di beni e
una pluralità indifferenziata di soggetti, essa si limita a
operare scelte programmatorie di massima, traducendosi
in uno strumento ulteriore di conformazione della
proprietà dei beni ricadenti nel suo ambito.
Il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo in capo al
privato non deriva dall’imposizione originaria di un vincolo
di inedificabilità, né dal suo protrarsi, in via di fatto,
dopo la scadenza, sorgendo esso invece per effetto
dell’atto che esplicitamente lo reitera una volta superato
il primo periodo di ordinaria durata temporanea del
vincolo (Corte cost. n. 179/1999): ne consegue che il
diritto del privato all’indennità non sorge per effetto
della
mera scadenza del vincolo, dovendosi in tal caso riconoscere
in favore del privato stesso il solo interesse legittimo
a che la pubblica amministrazione provveda a
una nuova pianificazione urbanistica.
In ragione di ciò,
la situazione determinata dall’inerzia della P.A. dopo la
decadenza quinquennale del vincolo non è definibile come
“espropriazione di valore”, attesa la provvisorietà
del regime urbanistico caratterizzato dall’applicazione
dei limiti di salvaguardia previsti per le aree bianche,
che se da un lato non elimina una redditività del fondo
diversa dallo sfruttamento edilizio, dall’altro non crea
nel proprietario alcuna aspettativa in ordine al
conferimento
di particolari qualità edificatorie.
Un privato convenne al Tribunale ordinario
un’Amministrazione
comunale e -sulla premessa d’essere proprietario di
un suolo edificatorio inserito, in base al regolamento
edilizio,
in area adibita a servizi con vincolo di futura ablazione- chiese che, essendo ormai decorso il termine quinquennale
d’efficacia dello strumento urbanistico, fosse dichiarata
l’inefficacia del vincolo imposto sull’area e il convenuto
Ente condannato al risarcimento dei danni conseguenti al
fatto d’aver impedito che l’area realizzasse la sua
destinazione
edificatoria.
Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda,
dichiarò
l’inefficacia del vincolo, condannando il Comune al
pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni.
L’Amministrazione propose appello principale, al quale si
affiancò quello incidentale del privato.
La Corte di merito, con una prima sentenza interlocutoria,
dichiarò inammissibili le eccezioni sollevate
dall’appellante
principale, anche in punto di difetto di giurisdizione dell’A.G.O.; respinse l’appello principale e, in accoglimento
dell’incidentale,
dispose lo svolgimento di una C.T.U. per determinare
il pregiudizio in concreto subito dal privato. Indi,
con sentenza definitiva, determinò in una somma assai
maggiore rispetto a quella liquidata dal Tribunale il danno
in favore del predetto, con condanna del Comune al pagamento
delle spese di doppio grado.
In particolare, la Corte
territoriale ha disatteso la doglianza sulla giurisdizione
ritenendola
inammissibile perché non esplicitamente proposta
come motivo d’appello, con il che si era formato, in punto,
giudicato implicito. Nel merito, essa ha ricostruito i
termini
della vicenda precisando che l’area di proprietà del privato
era stata inserita in una zona destinata a servizi, con
vincolo
preordinato all’espropriazione. Tuttavia, decorso il termine
di cinque anni di cui all’art. 2 L. 19.11.1968, n.
1187, nulla era stato compiuto dal Comune (pur formalmente
diffidato a compiere la riqualificazione urbanistica
della zona, anche con ricorso proposto avanti il Giudice
Amministrativo). Ne derivava, alla luce delle sentenze della
Corte cost. nn. 55/1968 e 179/1999, la necessità di
stabilire
un indennizzo in favore del proprietario sottoposto a
reiterazione
dei vincoli urbanistici.
Questo, in ragione del fatto
che -una volta scaduto il vincolo senza nuova
pianificazione
della zona- l’inerzia della P.A. aveva determinato una
c.d. espropriazione di valore, con necessità di
determinazione
di un indennizzo in favore del proprietario danneggiato.
La questione approda avanti la Suprema Corte, che accoglie,
in parte, il ricorso.
È confermata la statuizione sulla giurisdizione,
affermandosi
che la Corte di merito ha correttamente ritenuto, con la
sentenza non definitiva, che ogni questione circa la
giurisdizione
fosse da ritenersi superata per il fatto che, avendo
il Tribunale provveduto sul merito della domanda, ciò
costituiva
un implicito riconoscimento circa la sussistenza della
stessa in capo all’A.G.O. per cui, non essendone stato
dedotto
con l’atto di appello il relativo difetto, la questione
doveva ritenersi preclusa per il passaggio in giudicato
della
sentenza di primo grado su tale profilo.
In proposito, la
sentenza ricorda come -per effetto della sentenza delle
Sezioni
Unite 09.10.2008, n. 24883, il cui deciso mutamento
rispetto al passato è stato recepito dalla successiva
giurisprudenza- sulla giurisdizione può formarsi il
giudicato
implicito anche quando, avendo il giudice di primo grado
deciso nel merito la domanda, con ciò riconoscendo
implicitamente
la sussistenza della propria giurisdizione, il difetto
di giurisdizione non sia stato riproposto come motivo di
appello.
Il ricorso è viceversa accolto sotto altro profilo, quanto
alla
censura inerente la c.d. espropriazione di valore. Osserva
la Suprema Corte che la propria giurisprudenza non ha
riconosciuto
l’esistenza di detta figura in riferimento ad una
fattispecie come quella in esame (cfr. Cass. civ., Sez. I,
26.09.2003, n. 14333). In ogni caso, si è sempre
affermato
che per aversi violazione dell’art. 2043 c.c., occorre
la dimostrazione dell’esistenza d’un pregiudizio risarcibile
e
che, nella specie, l’interesse del privato non è quello di
vedersi
riconoscere lo ius aedificandi, bensì quello al corretto
uso del potere di pianificazione territoriale.
Tale
interesse si
realizza attraverso il meccanismo di “tipizzazione del
silenzio”:
nel caso in esame, il TAR ha rigettato il ricorso
proposto
avverso il silenzio serbato dal Comune sulla diffida
per una nuova pianificazione dell’area in questione, sicché
non sussisterebbe alcun danno risarcibile.
Infine, si
osserva
che non sarebbe ricavabile dalla motivazione della sentenza
il percorso giuridico seguito dalla Corte d’Appello per
ritenere
che si fosse perfezionata la fattispecie risarcitoria
posto che, di fronte all’inerzia dell’amministrazione, i
privati
possono solo impugnare il silenzio-rifiuto davanti al
giudice
amministrativo (Cass. n. 8384/2008).
La Cassazione osserva come la statuizione d’appello muova
da premessa fattuale errata, ossia che pur a fronte
dell’apposizione,
sul terreno del privato, d’un vincolo di zonizzazione,
si parli di area tipizzata come zona per attrezzature
e servizi urbani e ciò costituisca un vincolo preordinato
all’espropriazione.
La previsione, stabilita negli strumenti urbanistici, che
una
certa area sia destinata a zone di completamento, con
creazione di strutture o di verde pubblico, non comporta,
di per sé, l’apposizione di un vincolo preordinato
all’espropriazione,
che è ravvisabile soltanto se la previsione (o la
variante) non abbia natura generale, ma imponga un vincolo
particolare incidente su beni determinati in funzione non
già di una generale destinazione di zona, ma della
localizzazione
di una specifica e individuata opera pubblica, la cui
realizzazione non può coesistere con la proprietà privata.
Laddove, se la previsione miri a una (nuova) zonizzazione
dell’intero territorio comunale, così da incidere su una
generalità
di beni e verso una pluralità indifferenziata di soggetti,
la stessa si limita a operare scelte programmatorie di
massima, traducendosi in uno strumento ulteriore di
conformazione
della proprietà dei beni ricadenti nel suo ambito.
Quello che pacificamente si realizza, a carico del privato,
con l’apposizione del vincolo di zonizzazione è
l’impossibilità
di dare al suolo una destinazione edificatoria, per ragioni
che d’immediata evidenza. È pacifica acquisizione
giurisprudenziale, riconosciuta dalle Sezioni Unite con
sent. 23.04.2001, n. 172, che nel regime introdotto dall’art. 5-bis
della L. n. 359/1992 non esiste un tertium genus tra aree
edificabili e aree considerate agricole e, quindi, non
edificabili.
Va rammentato che -per la ricostruzione operata da Cass.
n. 8384/2008- a seguito della sentenza Corte cost. n.
55/1968 (che dichiarò incostituzionale l’apposizione su
immobili
privati di vincoli di durata illimitata senza la previsione
di un indennizzo) seguì l’approvazione della L. n.
1187/1968 che adeguò la legislazione precedente alla
decisione
della Consulta stabilendo tra l’altro (art. 2) che i
predetti
vincoli avrebbero perso efficacia qualora, entro cinque
anni dalla data di approvazione del piano regolatore
generale,
non fossero stati approvati i relativi piani
particolareggiati
o autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
La
richiamata sent. n. 8384, poi, ricorda che con successiva
sent. n. 92/1982 la stessa Corte costituzionale ritenne la
legittimità
degli artt. 1, 2 e 5 della L. n. 1187/1968, osservando
che il legislatore ha facoltà di scelta tra previsione di un
indennizzo e predeterminazione d’un termine di durata
dell’efficacia
del vincolo. E, ancora, che la suddetta normativa
andava interpretata nell’ambito del sistema che si è venuto
a integrare successivamente alla sua emanazione: in
particolare,
che la cessazione del vincolo fa venire meno soltanto
lo specifico onere relativo ed il titolare del bene viene a
trovarsi quindi nella medesima situazione di tutti gli altri
aventi un diritto reale sui beni, restando così assoggettato
a tutto quanto la legge e gli strumenti urbanistici
(compreso
il programma pluriennale di attuazione) dispongono.
Sempre da parte del Giudice delle leggi, con sent. n.
579/1989, si affermò che la temporaneità e l’indennizzabilità
dei vincoli urbanistici di natura espropriativa sono fra
loro
alternative, per cui l’indeterminatezza temporale comporta
il diritto all’indennizzo.
Ancora, la successiva sentenza
Corte cost. n. 179/1999 dichiarò l’illegittimità degli artt.
7 e 40 della L. urbanistica n. 1150/1942 e dell’art. 2 della
L.
n. 1187/1968 nella parte in cui consentivano
all’Amministrazione
di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati
all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza
la previsione d’indennizzo, osservando:
a) che la
reiterazione
di tali vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o
con carattere sostanzialmente espropriativo) o la proroga
in via legislativa non sono fenomeni di per sé inammissibili
dal punto di vista costituzionale, potendo esistere ragioni
giustificative accertate attraverso una valutazione
procedimentale
adeguatamente motivata dall’Amministrazione
preposta alla gestione del territorio o, rispettivamente,
apprezzate
dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della
non irragionevolezza e non arbitrarietà;
b) che, tuttavia,
anche
in questi casi, una volta oltrepassato il periodo di durata
temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il
vincolo urbanistico -avente le anzidette caratteristiche-
se
permane a seguito di reiterazione, non può essere
dissociato,
in via alternativa all’espropriazione, dalla previsione di
un indennizzo.
La sentenza Corte cost. n. 179/1999 ha poi
ulteriormente chiarito che il fatto costitutivo del diritto
all’indennizzo
in capo al privato non deriva dall’imposizione
originaria di un vincolo di inedificabilità e neppure dal
suo
protrarsi di fatto dopo la scadenza; sorgendo esso, invece,
in seguito all’atto che formalmente ed esplicitamente lo
reitera
una volta superato il primo periodo di ordinaria durata
temporanea del vincolo. Tale criterio è poi stato adottato
dal legislatore che, all’art. 39, d.P.R. 08.06.2001, n.
327
(T.U. Espropriazioni), ha previsto espressamente che è
dovuta
al proprietario un’indennità “nel caso di vincolo
preordinato
all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo”
(cfr. Cass. n. 14774/2012).
Al definitivo, per questa
norma, l’Amministrazione deve alla scadenza del vincolo
o reiterarlo, ma con il pagamento dell’indennità, o
prevedere
un mutamento di destinazione urbanistica.
Sulla scorta di queste coordinate giurisprudenziali, la
Cassazione
definisce il giudizio affermando che, come la Corte
d’appello ha bene evidenziato, alla scadenza del vincolo di
zonizzazione il Comune è rimasto inerte, non ha cioè né
realizzato la destinazione di zona stabilita dal
progettista;
né rinnovato il vincolo, che non era preordinato
all’espropriazione
e, tuttavia, rientrava nella seconda delle tipologie
indicate dall’art. 39 T.U. Espropriazioni; né ha provveduto
alla nuova e diversa pianificazione urbanistica.
Ne consegue
che il diritto del privato all’indennità non poteva sorgere
per il fatto (puro e semplice) della scadenza del vincolo
in precedenza apposto, dovendosi invece riconoscere in
favore
del privato stesso il solo interesse legittimo a che la
pubblica amministrazione provvedesse ad una nuova
pianificazione
urbanistica.
Come in precedenza affermato dalla stessa Cassazione
(sentt. n. 14333/2003 e n. 8384/2008) va escluso che possa
parlarsi in simili ipotesi di “espropriazione di valore”
ipotesi,
quest’ultima, configurabile al verificarsi della fattispecie
di cui all’art. 46, L. 25.06.1865, n. 2359, che concerne
fondi che dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità
siano
gravati di servitù o a soffrire un danno permanente
derivante
dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto.
Di contro,
il regime urbanistico configurabile per le aree nelle quali
si
è verificata la decadenza del vincolo, è quello stabilito
dal
diritto vivente mediante il richiamo al regime delle c.d.
aree
bianche, di cui all’art. 4, ultimo comma, L. n. 10/1977 che,
ferma restando l’utilizzabilità economica del fondo (in
primo
luogo a fini agricoli) configura a titolo provvisorio un
limitato
indice di edificabilità.
Se ne ha, al definitivo, che la situazione determinata
dall’inerzia
della P.A. dopo la decadenza quinquennale del vincolo
non può definirsi una “espropriazione di valore”, attesa
la provvisorietà del regime urbanistico caratterizzato
dall’applicazione
dei limiti di salvaguardia previsti dall’art. 4,
ultimo comma, della L. n. 10/1977 per le aree bianche (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2002, n. 5178), che se da un
lato non elimina una redditività del fondo diversa dallo
sfruttamento edilizio, dall’altro non crea nel proprietario
alcuna
aspettativa in ordine al conferimento di particolari
qualità edificatorie.
Alla provvisorietà di tale regime, il
proprietario
ben può reagire per indurre la P.A. all’esercizio del
potere istituzionale di ripianificazione, tanto sollecitando
il
potere sostitutivo della Regione, quanto dando impulso al
meccanismo di tipizzazione del silenzio (Cons. Stato, Ad.
Plen., 02.04.1984, n. 7; Id. 30.04.1984, n. 10).
La Suprema Corte chiosa affermando che l’interesse legittimo
del privato alla ripianificazione urbanistica non comporta,
in caso di inerzia della pubblica amministrazione,
l’automatica
insorgenza di una lesione indennizzabile, neppure
alla luce dei criteri delineati dalla nota sentenza delle
Sezioni
Unite n. 500/1999, che ha posto al centro della tutela
risarcitoria
per lesione di interessi legittimi l’esistenza -comunque- d’un danno ingiusto sicché non è sufficiente, ai
fini dell’insorgenza di un danno risarcibile, l’inerzia mera
della P.A., occorrendo invece che il privato dimostri anche
l’esistenza di una prognosi a sé favorevole in ordine
all’ottenimento
del bene della vita che l’impugnazione del silenzio
è finalizzata a raggiungere (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
17.12.2014 n. 26546 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
È INSUFFICIENTE, PER ESCLUDERE IL CONCORSO NEL
REATO EDILIZIO, CHE IL PROPRIETARIO DEL TERRENO NON
ABBIA COMMISSIONATO I LAVORI.
In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente
dei lavori nel reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44 è necessario escludere l’interesse o il suo consenso
alla commissione dell’abuso edilizio ovvero dimostrare
che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne
l’esecuzione, non essendo sufficiente, per escluderne
il concorso nel reato, che questi non li abbia commissionati
materialmente.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della individuazione delle
condizioni
in presenza delle quali può essere ritenuta configurabile
la responsabilità penale del proprietario non committente i
lavori abusivi.
La vicenda processuale che ha fornito
l’occasione
alla Corte per occuparsi della questione segue alla
sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello,
nei confronti di due soggetti per il reato previsto dal
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 e art. 44, lett. b), per
avere
iniziato, continuato ed eseguito, ciascuno nelle rispettive
qualità, in assenza del permesso di costruire, lavori per la
realizzazione di muri perimetrali in c.a. aventi spessore di
cm. 25 ed altezza di circa m. 1,80 ad un fondo agricolo
nonché per il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001,
artt.
93 e 95, per avere eseguito le opere sopra descritte senza
darne l’ulteriore preavviso scritto al settore provinciale
del
Genio Civile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione
la proprietaria non committente, in particolare sostenendo
che agli atti non sussisteva alcun dato probatorio
dal quale potesse evincersi che la stessa avesse realizzato
il manufatto e che fosse a conoscenza di tale realizzazione.
La donna deduceva di essere stata condannata, pur non
sussistendo a suo carico la prova della consapevolezza
dell’avvenuta
realizzazione dei manufatti, sul semplice presupposto
di essere la proprietaria dell’immobile. Rilevava che il
terreno sul quale sarebbe stato realizzato l’abuso si trova
in
Comune diverso e distante da quello di sua residenza, di
talché non vi sarebbero stati elementi dai quali
ragionevolmente
desumere il suo concorso, anche solo morale, alla
realizzazione dell’opera.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, così ponendosi in
linea
con l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale
di legittimità il quale sostiene che, perché il proprietario
non committente vada esente da responsabilità occorre
qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso
non abbia interesse all’abuso e non sia stato nelle
condizioni
di impedirne l’esecuzione (v., in senso conforme, da ultimo:
Cass. pen., Sez. III, n. 33540 del 19.06.2012 - dep.
31.08.2012, Pmt in proc. Grilli e altri, in CED Cass.,
n. 253169) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2014, n.
52040 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
ANCHE DOPO IL DECRETO “SBLOCCA ITALIA”, IL
FRAZIONAMENTO DELL’ORIGINARIO IMMOBILE IN PIÙ
DISTINTE UNITÀ ABITATIVE COSTITUISCE ANCORA REATO SE
ESEGUITO SU UN IMMOBILE GIÀ ABUSIVO.
Non è applicabile il regime della comunicazione inizio
lavori ad interventi edilizi che, pur consistendo in
attività
di manutenzione straordinaria in base al recente D.L.
n. 133 del 2014 (c.d. decreto “Sblocca Italia”), interessino
manufatti abusivi che non siano stati sanati né condonati,
in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria) ripetono le caratteristiche di
illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sull’individuazione della portata innovativa della recente
“novella” introdotta nella disciplina urbanistico-edilizia a
seguito delle modifiche apportate al Testo Unico
dell’edilizia
con il recente D.L. 12.09.2014, n. 133, recante
“Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione
delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la
semplificazione
burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico
e per la ripresa delle attività produttive” (G.U. n. 212
del 12.09.2014), entrato in vigore il 13 settembre e
convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014,
n. 164 (in S.O. n. 85, relativo alla G.U. 11.11.2014,
n. 262), meglio noto come decreto “Sblocca Italia”.
Tra le
disposizioni contenute nel predetto decreto, in particolare,
ve ne sono alcune che interessano la materia edilizia e, per
quanto qui rileva nel caso esaminato dalla Cassazione, la
norma dettata dall’art. 17 che, sotto la rubrica
“Semplificazioni
ed altre misure in materia edilizia”, modifica l’art. 3,
comma 1, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (c.d.
Testo
Unico dell’edilizia) introducendo l’importante previsione
secondo cui “Nell’ambito degli interventi di manutenzione
straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione
delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del
carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria
destinazione
d’uso”.
La vicenda processuale segue all’ordinanza
con la quale il tribunale del riesame aveva rigettato il
ricorso
proposto nell’interesse di alcuni indagati, avverso il
decreto
del G.I.P. con cui era stato disposto il sequestro
preventivo
di quattro unità immobiliari ricavate da un originario
immobile. Riteneva il Tribunale sussistente il fumus del
reato edilizio, essendo stato l’immobile preesistente,
trasformato,
senza alcun permesso di costruire, in quattro
unità immobiliari; sussisteva inoltre il periculum in mora,
essendo
indubitabile l’aggravamento del carico urbanistico
determinato dall’insediamento di ulteriori tre nuclei
familiari.
Avverso l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione
uno dei proprietari delle unità immobiliari, in particolare
sostenendo
la violazione del combinato disposto dell’art. 17,
comma 1, lett. a), n. 2 del D.L. 12.09.2014, n. 133 e
degli artt. 3, comma 1, lett. b) e 37, comma 6, d.P.R. n.
380/2001 e 2, comma 2, c.p., dovendosi ritenere ricompresi
negli interventi di manutenzione straordinaria anche
quelli comportanti frazionamento o accorpamento di unità
immobiliari purché (come nel caso di specie) non venga
modificata la volumetria complessiva degli edifici e sia
mantenuta l’originaria destinazione d’uso. Il fatto
contestato
non può, pertanto, considerarsi più reato.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, confermando il decreto di sequestro
preventivo emesso dall’Autorità giudiziaria. Per meglio
comprendere l’approdo dei Supremi Giudici è utile il
consueto
inquadramento giuridico della vicenda. Come dianzi
anticipato, il recente decreto “Sblocca Italia” è
intervenuto
anche in materia edilizia, introducendo alcune importanti
innovazioni destinate sicuramente ad incidere anche sotto
il profilo penale.
Limitando l’attenzione alle questioni
dedotte
nel ricorso esaminato dalla Cassazione, rileva la previsione
secondo la quale rientrano, oggi, nelle opere integranti
“manutenzione straordinaria”, anche “quelli consistenti
nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari
con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione
delle superfici delle singole unità immobiliari nonché
del carico urbanistico purché non sia modificata la
volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria
destinazione d’uso”.
Ciò significa, in altri termini, che le
attività
consistenti nel frazionamento (ossia nell’esecuzione di
interventi edilizi che abbiano per effetto la suddivisione
in
più unità abitative di un’originaria, unica, unità di più
ampia
estensione, comunque predisposte od attuate, attribuendone
la disponibilità a terzi al fine di realizzare una non
consentita
trasformazione urbanistica od edilizia dell’immobile)
o nell’accorpamento (ossia nell’esecuzione di interventi
edilizi
che abbiano per effetto la unificazione di più unità
abitative
in una successiva, unica, unità di più ampia estensione)
anche se comportano modifiche delle superfici e del
carico urbanistico non costituiscono più reato alla duplice
condizione, individuata espressamente dalla norma, che:
a)
la volumetria complessiva dell’edificio non sia modificata
(il
che significa, in altri termini, che non deve né aumentare
né diminuire);
b) sia mantenuta l’originaria destinazione
d’uso (dunque, tanto per fare un esempio, non sarebbe
possibile attraverso una di tali operazioni modificare
l’originaria
destinazione da uso commerciale ad uso residenziale).
Tale innovazione normativa, peraltro, va letta unitamente
al disposto del nuovo art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001,
introdotto sempre dall’art. 17 del c.d. decreto “Sblocca
Italia”,
il quale, sotto la rubrica “Mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante”, prevede espressamente che salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali, tale deve
intendersi
“ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola
unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché
non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché
tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità
immobiliare considerati ad una diversa categoria
funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale;
a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c)
commerciale;
d) rurale”.
Tanto premesso, nel caso in esame, come
detto, la difesa aveva sostenuto che, essendo consistite gli
interventi edilizi nel frazionamento dell’originaria unica
unità
immobiliare in quattro, distinte, nuove unità, si era in
presenza di una “manutenzione straordinaria” che, per legge,
è oggi soggetta a previa comunicazione, anche per via
telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato
all’amministrazione
comunale (v. art. 6, comma 2, lett. a),
T.U. edilizia, che include tra gli interventi che possono
essere
eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi di
manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1,
lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo
spostamento
di pareti interne, sempre che non riguardino le
parti strutturali dell’edificio”, lettera così modificata
dall’art.
17, comma 1, lett. c), L. n. 164 del 2014).
La Cassazione, nel respingere il ricorso, pur riconoscendo
che lo “Sblocca Italia” ha indubbiamente innovato, avendo
ricompreso nell’ambito degli interventi di manutenzione
straordinaria “anche quelli consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di
opere anche se comportanti la variazione delle superfici
delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico
purché non sia modificata la volumetria complessiva degli
edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso”, ha
tuttavia correttamente osservato come nel caso in esame
non si sia tenuto conto del fatto che l’intervento di
“frazionamento”
dell’originaria unica unità abitativa in quattro distinte
unità abitative, risultava eseguito su un immobile
abusivo.
Ciò, dunque, impedisce, secondo una giurisprudenza
ormai consolidata della Corte di Cassazione, l’applicabilità
del regime della D.I.A. (e, a maggior ragione, sottrae
al regime di favore previsto dal novellato art. 6, che
prevede la c.d. comunicazione inizio lavori) di quegli
interventi
edilizi che interessino manufatti abusivi che non siano
stati sanati né condonati, in quanto gli interventi
ulteriori
(sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie
della manutenzione straordinaria) ripetono le
caratteristiche
di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente (v. tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n.
21490
del 19.04.2006 - dep. 21.06.2006, P., in CED Cass.,
n. 234472; Cass. pen., Sez. III, n. 1810 del 02.12.2008 - dep. 19.01.2009, P.M. in proc. C., in CED
Cass., n. 242269) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2014 n.
51427 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ELEMENTO DECISIVO PER LA CONSUMAZIONE DEL
REATO DI COSTRUZIONE ABUSIVA EDILIZIA È LA
CESSAZIONE DEI LAVORI E NON LE RIFINITURE INTERNE ED
ESTERNE.
La permanenza del reato di costruzione abusiva edilizia
(art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) termina -e il
reato
si consuma- nel momento in cui cessano o vengono
sospesi, per qualsiasi causa, volontaria o imposta, i lavori
abusivi, e che la cessazione dei lavori va di solito
(ma non necessariamente) individuata nel completamento
dell’opera (con le rifiniture interne ed esterne) o con la
sentenza di primo grado.
Ne consegue che l’elemento
decisivo per la consumazione del reato è la cessazione
dei lavori abusivi e non le rifiniture interne ed
esterne che sono solo un sintomo -nella normalità dei
casi- del completamento dell’opera e quindi della
cessazione
dei lavori, sicché è possibile (anche se in casi
marginali) che i lavori siano definitivamente cessati e la
permanenza sia terminata, anche senza l’ultimazione,
nel senso anzidetto, dell’opera.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul frequente tema dell’individuazione del momento in cui,
a fini della cessazione della “permanenza” del reato di
costruzione
abusiva edilizia, possano considerarsi come “ultimati”
i lavori edilizi.
La vicenda processuale trae origine
dall’impugnazione, da parte del P.M., del provvedimento
del G.I.P. con cui era stata rigettata la richiesta di
applicazione
della misura del sequestro preventivo di un immobile
avanzata in relazione ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, artt. 110, 117, 481 e 483 c.p., e artt. 110,
117, 40, 323 e 323 e 479 c.p..
Secondo le indagini di P.G.
emergeva che per il primo piano e il piano terra del
fabbricato
era stato rilasciato permesso di costruire in sanatoria,
mentre il secondo piano risultava abusivo. Il permesso di
costruire in sanatoria, peraltro, secondo la polizia
giudiziaria,
era illegittimo, perché il fabbricato non era conforme alla
normativa urbanistica, in quanto nella richiesta di
sanatoria
il tecnico di parte non aveva fatto cenno del secondo
piano ed aveva allegato un compendio fotografico che
riprendeva
solo parte dell’intero fabbricato.
Il G.I.P. respinse
la richiesta di sequestro perché, pur sussistendo il fumus,
mancava il periculum in mora, trattandosi di opera ultimata
e non essendo concretamente pronosticabile un aumento
dell’afflusso di persone in quell’insediamento, tale da
determinare
un incremento di tutte le attività collegate all’abitazione
in termini di aumentate necessità di opere secondarie,
con conseguente aggravio del “carico urbanistico”.
Il
tribunale del riesame confermava il provvedimento del
G.I.P. Contro detto provvedimento proponeva ricorso per
cassazione ancora una volta il P.M., in particolare
sostenendo
che il tribunale del riesame avrebbe errato in ordine
alla nozione di opera abusiva ultimata, dal momento che
nella informativa della polizia giudiziaria si evinceva che
il
secondo piano era “in via di ultimazione”: il sequestro
preventivo
era quindi giustificato dalla necessità di impedire
l’ultimazione dei lavori abusivi.
La Corte di cassazione, nell’affermare il principio di cui
in
massima, ha respinto il ricorso del P.M., in particolare
osservando
che il reato di abuso edilizio, ossia di realizzazione
di una opera edilizia senza il necessario titolo
abilitativo,
ha natura di reato permanente la cui consumazione ha inizio
con l’avvio dei lavori di costruzione e termina con la
cessazione di tali lavori, a qualsiasi causa tale cessazione
sia dovuta (v., per tutte: Cass. pen., SS.UU, n. 17178 del
27.02.2002 - dep. 08.05.2002, Cavallaro, in CED Cass., n.
221399) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2014 n.
51423 - tratto da Urbanistica e
appalti n. 3/2015). |
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