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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2015

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aggiornamento al 25.09.2015

aggiornamento al 18.09.2015

aggiornamento all'11.09.2015

aggiornamento al 04.09.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.09.2015

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Ancora sulla questione della QUOTA ANNUALE DI ISCRIZIONE ALL'ALBO/ORDINE PROFESSIONALE dei tecnici pubblici dipendenti.

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 13.06.2015 ci ponevamo l'interrogativo del perché la Corte dei Conti non si pronunciasse (quanto meno, negli ultimi anni a questa parte) in ordine alla legittimità -o meno- della restituzione di quanto versato direttamente dal pubblico dipendente (segnatamente, del tecnico comunale). Ecco qui la risposta:

     "La richiesta di parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità pubblica.
     Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine giuridico, che più propriamente devono essere risolte in diversa sede.
     Infatti, non si rinvengono i caratteri di specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva e che giustificano la relativa attribuzione da parte del legislatore".

QUINDI??

     Facciamocene una ragione e non perdiamo -inutilmente- tempo prezioso a formulare ulteriori medesimi quesiti che non troveranno (mai) risposta (sono sufficienti quei riscontri resi in illo tempore consultabili nell'apposito dossier ed assolutamente condivisibili e, ad oggi, più che mai attuali anche alla luce delle motivazioni esplicitate nell'AGGIORNAMENTO AL 14.05.2015 del perché non sia legittimo accollare all'ente di appartenenza la quota annuale di iscrizione) e concentriamoci sulle altre 1.000 questioni, che ci assillano tutti i giorni, meritevoli di necessario approfondimento giuridico-contabile per una corretta azione amministrativa.
     Tra l'altro, se il tecnico comunale/provinciale/regionale che dir si voglia (per quanto qui interessa) volesse stare "tranquillo" -laddove l'ente di appartenenza (particolarmente magnanimo) gli riconoscesse (con consapevole avventatezza: ergo, con "colpa grave") la somma versata anticipatamente per l'iscrizione all'albo professionale- abbia almeno l'accortezza di acquisire agli atti
il preliminare e necessario parere favorevole motivato: del segretario comunale, del responsabile di ragioneria e del revisore dei conti (nessuno escluso), tutti soggetti deputati a sovraintendere alla legittimità degli atti amministrativi da adottare, che rispondo personalmente (laddove il controllo è venuto meno) per eventuali cagionati danni erariali (al riguardo si consulti l'apposito dossier).
     Quanto sopra alla luce di due recentissimi pareri che di seguito riportiamo.
25.09.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla possibilità o meno, per un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione agli albi professionali, in particolare all’ordine degli architetti ed all’ordine degli assistenti sociali.
La richiesta di parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità pubblica come sopra delineato.
Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine giuridico, che più propriamente devono essere risolte in diversa sede.
Infatti, non si rinvengono i caratteri di specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva e che giustificano la relativa attribuzione da parte del legislatore.

---------------
Il Sindaco del Comune di Ponte dell’Olio (PC) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità, per un comune, di rimborsare a propri dipendenti la tassa di iscrizione agli albi professionali, in particolare all’ordine degli architetti ed all’ordine degli assistenti sociali.
...
1.3 Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre anzitutto evidenziare che la disposizione contenuta nel comma 8 dell’art. 7 della legge 131 del 2003, deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma rese esplicite, in particolare, con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere pareri in materia di contabilità pubblica.
Sull’esatta individuazione di tale locuzione e, dunque, sull’ambito di estensione della funzione consultiva intestata alle Sezioni di regionali di controllo della Corte dei conti,
che non può essere intesa quale una funzione di carattere generale, sono intervenute sia le Sezioni riunite sia la Sezione delle autonomie con pronunce di orientamento generale, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. n. 78/2009 e dell’articolo 6, comma 4, d.l. n. 174/2012.
Con deliberazione 17.11.2010, n. 54, le Sezioni riunite hanno chiarito che
la nozione di contabilità pubblica comprende, oltre alle questioni tradizionalmente ad essa riconducibili (sistema di principi e norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici), anche i “quesiti che risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti da principi di coordinamento della finanza pubblica (….), contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Di recente, la Sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 3/2014/SEZAUT, ha operato ulteriori ed importanti precisazioni rilevando come, pur costituendo la materia della contabilità pubblica una categoria concettuale estremamente ampia,
i criteri utilizzabili per valutare oggettivamente ammissibile una richiesta di parere possono essere, oltre “all’eventuale riflesso finanziario di un atto sul bilancio dell’ente” (criterio in sé riduttivo ed insufficiente), anche l’attinenza del quesito proposto ad “una competenza tipica della Corte dei conti in sede di controllo sulle autonomie territoriali”.
E’ stato, altresì, ribadito come “
materie estranee, nel loro nucleo originario alla contabilità pubblica –in una visione dinamica dell’accezione che sposta l’angolo visuale dal tradizionale contesto della gestione del bilancio a quello inerente ai relativi equilibri– possono ritenersi ad essa riconducibili, per effetto della particolare considerazione riservata dal Legislatore, nell’ambito della funzione di coordinamento della finanza pubblica”: solo in tale particolare evenienza, una materia comunemente afferente alla gestione amministrativa può venire in rilievo sotto il profilo della contabilità pubblica.
Al contrario, la presenza di pronunce di organi giurisdizionali di diversi ordini, la possibile interferenza con funzioni requirenti e giurisdizionali delle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti o di altra magistratura, nonché il rischio di un inserimento nei processi decisionali degli enti territoriali,
precludono alle sezioni regionali di controllo la possibilità di pronunciarsi nel merito.
1.2.2 Sulla base di quanto evidenziato,
la richiesta di parere dev’essere giudicata inammissibile sul piano oggettivo, in quanto la materia de qua esula dal concetto di contabilità pubblica come sopra delineato. Si tratta di una fattispecie in cui i profili contabili non sono preminenti rispetto ad altre problematiche di ordine giuridico, che più propriamente devono essere risolte in diversa sede. Infatti, non si rinvengono i caratteri di specializzazione funzionale che caratterizzano la Corte dei conti in sede consultiva e che giustificano la relativa attribuzione da parte del legislatore.
La valutazione nel senso dell’inammissibilità della richiesta, peraltro, è conforme al contenuto della delibera della Sezione delle autonomie, n. 1/CONTR/11 del 13.01.2011, nonché a pronunce di altre sezioni regionali di controllo (da ultimo, della Sezione regionale di controllo per la Toscana, n. 162/2015/PAR, dell’08.06.2015).
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il quesito deve essere considerato inammissibile; pertanto, il Collegio non può esaminarlo nel merito (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 16.09.2015 n. 129).

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla questione del rimborso a propri dipendenti della quota di iscrizione ad albi professionali.
Il quesito posto dal comune deve ritenersi inammissibile, in quanto i dubbi proposti non afferiscono alla materia della contabilità pubblica, come delimitata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, al cui principio di diritto la scrivente Sezione regionale deve conformarsi in aderenza al dettato normativo.
---------------
Il Sindaco del Comune di Buccinasco (MI), con nota del 04.06.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto il rimborso a propri dipendenti della quota di iscrizione ad albi professionali. Il Comune, infatti, aderendo agli orientamenti espressi da diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, non ha riconosciuto a propri dipendenti (architetti, ingegneri e assistenti sociali) il ridetto rimborso.
A seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione n. 7776 del 16.04.2015, un dipendente, funzionario tecnico, iscritto all'albo degli architetti della Provincia di Milano, ha chiesto al Comune il rimborso della tassa di iscrizione al predetto albo, in relazione a tutto il periodo 2010-2015.
Esposta tale premessa, il Sindaco chiede se l'Ente sia tenuto ad accogliere la summenzionata richiesta di rimborso formulata dal dipendente.
Chiede, altresì, se il rimborso della tassa di iscrizione all'albo professionale sia dovuto anche nel caso in cui il dipendente istante non sia stato più adibito allo svolgimento di attività di progettazione e di direzione lavori per conto dell’ente locale.
...
La funzione consultiva delle Sezioni regionali è inserita nel quadro delle competenze che la legge n. 131 del 2003, recante adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha attribuito alla Corte dei conti.
In relazione allo specifico quesito formulato dal Sindaco del Comune di Buccinasco (MI), il primo punto da esaminare concerne la verifica in ordine alla circostanza se la richiesta rientri nell’ambito delle funzioni attribuite alle Sezioni regionali della Corte dei conti dall’art. 7, comma 8, della legge 06.06.2003, n. 131, norma in forza della quale Regioni, Province e Comuni possono chiedere a dette Sezioni pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione, ai fini della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.
I pareri e le altre forme di collaborazione si inseriscono nei procedimenti amministrativi degli enti territoriali consentendo, nelle tematiche in relazione alle quali la collaborazione viene esercitata, scelte adeguate e ponderate nello svolgimento dei poteri che appartengono agli amministratori pubblici, restando peraltro esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l’organo di controllo esterno (si rinvia, per tutte, alla delibera della Sezione dell’11.02.2009, n. 36).
Infatti, deve essere messo in luce che
il parere della Sezione attiene a profili di carattere generale anche se, ovviamente, la richiesta proveniente dall'ente pubblico è motivata, generalmente, dalla necessità di assumere specifiche decisioni in relazione ad una particolare situazione. L'esame e l'analisi svolta nel parere è limitata ad individuare l'interpretazione di disposizioni di legge e di principi generali dell'ordinamento in relazione alla materia prospettata dal richiedente, spettando, ovviamente, a quest'ultimo la decisione in ordine alle modalità applicative in relazione alla situazione che ha originato la domanda.
Con specifico riferimento all’ambito di legittimazione soggettiva per l'attivazione di questa particolare forma di collaborazione, è ormai consolidato l'orientamento che vede, nel caso del comune, il Sindaco quale organo istituzionalmente legittimato a richiedere il parere, in quanto riveste il ruolo di rappresentante dell’Ente.
Il presente presupposto soggettivo sussiste nel quesito richiesto dal Sindaco del Comune di Buccinasco, con nota del 04.06.2015.
Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre rilevare come la disposizione, contenuta nel comma 8 dell’art. 7 della legge 131, deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali. Lo svolgimento della funzione è qualificato dallo stesso legislatore come una forma di controllo collaborativo.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma, rese esplicite in particolare con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere pareri in materia di contabilità pubblica.
Appare conseguentemente chiaro che
le Sezioni regionali della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere generale in favore degli enti locali, ma che, anzi, le attribuzioni consultive si connotano sulle funzioni sostanziali di controllo collaborativo ad esse conferite dalla legislazione positiva.
La Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 27.04.2004, ha fissato principi e modalità per l’esercizio dell’attività consultiva, modificati ed integrati con le successive delibere n. 5/AUT/2006 e n. 9/SEZAUT/2009. Si è precisato che
la funzione consultiva non può intendersi come consulenza generale agli enti, ma ristretta esclusivamente alla materia della contabilità pubblica, quindi ai bilanci pubblici, alle norme e principi che disciplinano la gestione finanziaria e del patrimonio o comunque a temi di carattere generale nella materia contabile.
In seguito, le Sezioni riunite della Corte dei conti, con pronuncia di coordinamento, emanata ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, hanno delineato una
nozione di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici”, da intendersi in senso dinamico anche in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (Delibera n. 54 del 17.11.2010). Il limite della funzione consultiva, come sopra delineato, fa escludere comunque qualsiasi possibilità di intervento della Corte dei conti nella concreta attività gestionale o nei casi di interferenza, in concreto, con competenze di altri organi giurisdizionali.
Tanto premesso,
il quesito posto dal comune di Buccinasco deve ritenersi inammissibile, in quanto i dubbi proposti non afferiscono alla materia della contabilità pubblica, come delimitata dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, al cui principio di diritto la scrivente Sezione regionale deve conformarsi in aderenza al dettato normativo.
Infatti, oltre ai criteri generali esposti nella deliberazione n. 54/2010 sopra richiamata, le stesse Sezioni Riunite della Corte dei conti sono intervenute sulla questione specifica proposta dal Comune di Buccinasco con la deliberazione n. 1/CONTR/2011 del 13.01.2011, sempre assunta in funzione nomofilattica ai sensi della normativa prima esposta.
Con deliberazione n. 722/PAR del 26.10.2010, la Sezione regionale di controllo per le Marche aveva deferito una questione di massima tesa a conoscere se rientrasse nel concetto di contabilità pubblica di cui all’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, e quindi se fosse ammissibile, la richiesta di parere concernente il rimborso delle spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Le Sezioni Riunite hanno ritenuto che solo indirettamente la questione potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione.
P.Q.M.
dichiara non ammissibile l’istanza di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.09.2015 n. 274).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’imputazione ex art. 44 d.P.R. n. 380/2001, non è necessaria la precisa intenzione di non esporre il cartello riportante gli estremi degli atti autorizzativi e la descrizione dell’intervento edilizio.
È bastevole l’omissione a titolo di colpa generica. L’obbligo di esposizione, inoltre, grava sul committente, oltre che sul direttore dei lavori e sul costruttore, a titolo di culpa in vigilando.
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4. Il primo motivo del ricorso di F. ed il secondo motivo del ricorso di C., di analogo contenuto, sono infondati.
È anzitutto non corretto il presupposto da cui muove essenzialmente la doglianza sollevata, ovvero che l’elemento soggettivo del reato de quo non possa consistere in un atteggiamento di negligenza o trascuratezza.
Va premesso che il costante orientamento di questa Corte si è posto, sin dalla pronuncia delle Sez. U., n. 7978 del 29/05/1992, P.M. in proc. Aramini ed altro, Rv. 191176, riferita alla previgente, omologa, disposizione di cui all’art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985, per giungere fino ad oggi, nel senso di ritenere che
la violazione, da parte del titolare del permesso a costruire, del committente, del costruttore o del direttore dei lavori, dell’obbligo della esposizione di un cartello contenente gli estremi della concessione e degli autori dell’attività costruttiva sia penalmente sanzionata a condizione che detto obbligo sia espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini ed altri, Rv. 255836; Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet ed altro, Rv. 245613; Sez. 3, n. 16037 del 07/04/2006, Bianco, Rv. 234330).
In particolare le Sezioni Unite, con la pronuncia menzionata appena sopra, hanno posto l’accento, nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge n. 47 del 1985, sull’art. 4 della stessa che, intitolato “vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nella concessione o nell’autorizzazione”, prevedeva, all’ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto cartello, “ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia”, da qui testualmente desumendo, in particolare,
come anche la sola violazione dell’obbligo di apposizione del cartello fosse appunto considerata dal legislatore come ipotesi di presunta violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza ai suindicati fini; aveva aggiunto, a riprova, come la sistemazione del prescritto cartello, contenente gli estremi della concessione edilizia e degli autori dell’attività costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza rapida, precisa ed efficiente dell’attività rispondendo allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se i lavori fossero o meno stati autorizzati dall’autorità competente.
Di qui, dunque, la riconducibilità della condotta omissiva in questione all’interno dell’allora precetto dell’art. 20, lett. a), della l. n. 47 del 1985 (e, oggi, dell’omologo precetto di cui all’art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001) in relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa legge.
Deriva dunque, da quanto sin qui ricordato, che
tale condotta omissiva ben può essere sorretta dalla colpa generica, secondo, del resto, il generale dettato dell’art. 43 c.p., posto che l’inosservanza del precetto di esposizione del cartello nel quale la condotta si traduce appunto ben può avvenire a seguito anche solo di trascuratezza e di negligenza e non unicamente, come parrebbe sostenere la ricorrente, a seguito della precisa intenzione di non adempiere a quanto prescritto.
Anche a non volere considerare che un tale assunto finirebbe, in realtà, per escludere la possibilità di realizzazione del reato a titolo di colpa e far ritenere invece penalmente configurabile unicamente un atteggiamento doloso, senza che la norma sia formulata (a differenza di altre fattispecie contravvenzionali) in termini tali da condurre l’interprete ad un tale approdo esegetico, appare decisiva la considerazione che “l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive” è, nella disposizione dell’art. 44, lett. a) cit., la condotta sanzionata e non già, evidentemente, l’atteggiamento psicologico unicamente richiesto per la configurabilità del reato.
Anche l’ulteriore assunto secondo cui la norma punirebbe unicamente la mancanza del cartello che si protragga dall’inizio dei lavori edilizi sino alla fine degli stessi non trova rispondenza nel dettato normativo che, anzi, attesa la ratio cui la previsione è informata, ben può includere anche omesse apposizioni del cartello non coincidenti con tutto l’arco di esecuzione dei lavori stessi solo essendo necessario che le stesse abbiano luogo prima che i lavori siano terminati; e, nella specie, la sentenza impugnata ha dato atto del fatto che il cantiere era ancora attivo e i lavori ancora in corso nel momento in cui venne constatata l’assenza del cartello e che, in ogni caso, nessuna traccia dello stesso, secondo la Difesa asseritamente esposto ab origine ma poi danneggiato e solo successivamente riposizionato, venne rinvenuta al momento del sopralluogo.
...
6. Il terzo motivo del ricorso di F.A. è manifestamente infondato.
Va ricordato che
l’obbligo di esposizione del cartello si rivolge, oltre che al costruttore e direttore dei lavori, anche al committente (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini e altri, Rv. 255836) sulla base di quanto espressamente previsto dall’art. 6 della l. n. 47 del 1985 e, oggi, dall’art. 29, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001; ne consegue che il committente-proprietario, autonomamente responsabile per legge, non può legittimamente abdicare al proprio obbligo di osservanza semplicemente facendo leva sul fatto di avere affidato i lavori e persona esperta e competente come appunto il direttore dei lavori, non essendo tale solo fatto (né la ricorrente ha allegato né dalla sentenza risulta che il direttore dei lavori–progettista avesse fornito rassicurazioni sull’adempimento della prescrizione) sufficiente a far venire meno la culpa in vigilando incombente sul committente stesso.
Per tali ragioni questa Corte ha del resto, in più occasioni, specificato che
la responsabilità del committente trova fondamento nell’omissione della dovuta vigilanza, cui egli è tenuto in considerazione del fatto che l’opera soddisfa un suo preciso interesse; ed infatti ogni committente ha l’obbligo di accertarsi che i lavori siano eseguiti in conformità alle prescrizioni amministrative perché la responsabilità penale, che grava sul destinatario di un obbligo imposto dalla legge, non può essere delegata ad altri (Sez. 3 n. 47434 del 24/11/2011, Rossi, Rv. 251636; Sez. 3, n. 37299 del 04/10/2006, Mazzotta ed altro, Rv. 235075).
La sentenza impugnata, correttamente applicando detti principi, ha dunque concluso nel senso che, indipendentemente dal fatto che ella fosse o meno presente sul cantiere, F.A. era tenuta ad esercitare, con la normale diligenza, la necessaria vigilanza circa l’adempimento dell’obbligo di esposizione, anch’ella dunque rispondendo del reato così come (e sia pure con un grado di colpa sicuramente inferiore come più oltre si vedrà) il coimputato progettista e direttore dei lavori (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.09.2015 n. 38380).

EDILIZIA PRIVATALe eventuali condizioni di degrado di un bene non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di tutelare i valori estetici o paesaggistici dallo stesso rappresentati poiché l’esistenza stessa del vincolo consente di imporre al proprietario l’adozione delle cautele e degli interventi necessari per la conservazione del bene medesimo.
Al riguardo, potrebbe essere in via di principio presa in considerazione la tesi dell’appellante (secondo cui il quantum di interventi che è possibile imporre al proprietario –ad es., nella scelta fra la demolizione e ricostruzione e la ristrutturazione– dovrebbe giungere all’esito di una sorta di analisi costi/benefici).

10. Si osserva ancora che la sentenza in epigrafe è meritevole di puntuale conferma per la parte in cui i primi Giudici hanno richiamato il consolidato orientamento secondo cui le eventuali condizioni di degrado di un bene non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di tutelare i valori estetici o paesaggistici dallo stesso rappresentati poiché l’esistenza stessa del vincolo consente di imporre al proprietario l’adozione delle cautele e degli interventi necessari per la conservazione del bene medesimo (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, V, 27.11.2012, n. 5989).
Al riguardo, potrebbe essere in via di principio presa in considerazione la tesi dell’appellante (secondo cui il quantum di interventi che è possibile imporre al proprietario –ad es., nella scelta fra la demolizione e ricostruzione e la ristrutturazione– dovrebbe giungere all’esito di una sorta di analisi costi/benefici).
Ma il punto è che (anche a voler seguire tale prospettazione) l’appellante non ha allegato alcun circostanziato elemento idoneo a dimostrare che la demolizione e ricostruzione del manufatto rappresentasse l’opzione più congrua fra quelle astrattamente possibili, essendosi piuttosto attestata al livello di mere (ed indimostrate) petizioni di principio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2015 n. 4220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il professionista incaricato deve informare il cliente sui contrasti giurisprudenziali.
Nell’adempimento dell’incarico professionale conferito, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., impone al professionista di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello “jus postulandi”, stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire in giudizio.

Svolgimento del processo
1. Nel luglio del 2002, la E. s.a.s. di R.F. e i suoi soci accomandatati, R.I., Ra.Ga., R.F., R.L., g. e G., convennero in giudizio il loro commercialista, dottor B.G., per sentirlo condannare al risarcimento dei danni loro causati dal negligente espletamento di un incarico professionale in relazione all’impugnativa di diversi avvisi di accertamento emessi dall’ufficio distrettuale delle imposte dirette di Sanremo nei confronti della E. s.a.s. e dei soci della stessa.
A seguito di verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza nel settembre del 1993, presso la sede della società, furono riscontrate irregolarità relative alle dichiarazioni ILOR e IRPEF per l’anno 1992. Irregolarità che avevano dato seguito ad avvisi di accertamento notificati alla società ed ai soci personalmente.
Sostennero gli attori che avevano conferito incarico al dottor B. di proporre opposizione avanti alla Commissione Tributaria di Imperia. Opposizione che non fu accolta perché i ricorsi depositati furono dichiarati inammissibili in quanto sottoscritti dalle parti personalmente e non dal difensore tecnico come richiedeva il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3, nelle more entrato in vigore. La riscontrata irregolarità formale dei ricorsi impedì al giudice tributario di verificare i motivi di merito addotti dai contribuenti.
Mentre analoghe impugnazioni, presentate successivamente, che si fondavano sugli stessi motivi ebbero esito vittorioso.
Si difese il B. contestando la fondatezza delle domande proposte nei suoi confronti sostenendo, da un lato, che non era possibile che i ricorsi in questione anche se regolarmente sottoscritti sarebbero stati accolti e, dall’altro, che gli attori non avevano impugnato in cassazione le pronunce della Commissione Tributaria Regionale determinando così la loro definitività.
Chiese, in ogni caso, di essere autorizzato a chiamare in causa le compagnie assicurataci Zurigo e Milano Assicurazioni per essere eventualmente manlevato.
Il Tribunale di Sanremo, con sentenza del 13.04.2007, ritenne provata l’esistenza del rapporto professionale tra gli attori e B. in forza del quale aveva predisposto i ricorsi oggetto di causa, nonché la colpevolezza del professionista per avere ignorato una disposizione di legge. Ma che ciò nonostante, non era possibile ritenere che esistesse la probabilità che i ricorsi, anche se correttamente presentati, sarebbero stati accolti. Respinse perciò le domande proposte dagli attori e la domanda con cui la Milano Assicurazione aveva chiesto la restituzione della somma di Euro 12.000 che aveva versato agli attori per consentire loro di aderire al condono fiscale.
2. La decisione è stata confermata, ma con diversa motivazione, dalla Corte d’Appello di Genova, con sentenza n. 16 dell’11.01.2011. La Corte ha ritenuto la condotta del B. non colpevole e che, pertanto, non poteva essere chiamato a rispondere delle conseguenze dannose causate agli attori dalla reiezione dei ricorsi.
I giudici della Corte territoriale hanno motivato che nelle more del processo di appello, sono intervenute pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione che hanno affermato che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3, era stato interpretato nel senso che l’inammissibilità del ricorso sottoscritto dalla parte e non dal suo difensore scaturiva solo dall’inosservanza dell’ordine impartito dal Giudice Tributario di munirsi di difensore.
Pertanto, non è stata la condotta del B. l’antecedente causale del danno che gli attori lamentano ma piuttosto la loro scelta di non far valere innanzi la Suprema Corte le ragioni che esistevano per ottenere la riforma delle pronunce della Commissione Tributaria Regionale. Conseguentemente erano gli attori i soli responsabili della definitività degli accertamenti svolti dagli uffici finanziari. La Corte territoriale ha dichiarato tardiva la domanda di restituzione proposta dalla Milano Assicurazione contro gli attori.
3. Avverso tale decisione, la E. di R.F. ed i suoi soci propongono ricorso in Cassazione sulla base di tre motivi.
3.1. B. e le società assicuratrici non svolgono attività difensiva.
Motivi della decisione
4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18; contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.
Lamentano che i giudici del merito hanno errato nell’interpretare il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, alla luce della giurisprudenza formatasi tra il 2000 e 2004 perché si riferisce ad un’ipotesi di assenza di assistenza tecnica nel giudizio tributario. Nel caso di specie, invece, i mandati in favore del B. esistevano ma il professionista non aveva sottoscritto ricorsi.
Inoltre la Corte d’Appello erroneamente imputa agli odierni ricorrenti di non avere interposto ricorso per cassazione avverso le pronunce sfavorevoli della commissione tributaria regionale non considerando che il B. ha confessato il suo errore professionale. Infatti fu lui a sconsigliare il ricorso per cassazione. In ogni caso denunciano che il B. non ha svolto il suo mandato secondo i criteri della diligenza.
4.2. Con il secondo motivo, la società e i suoi soci lamentano la “contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Lamentano i ricorrenti che la sentenza impugnata è errata, contraddittoria e sfornita di prova nel punto in cui sostengono che la condotta del B. non è stata l’antecedente causale del danno, ma la loro scelta di non impugnare dinanzi alla Suprema Corte per ottenere la riforma della sentenza della Commissione Tributaria Regionale. In tale motivazione i giudici omettono di considerare che nel corso delle risultanze istruttorie era emersa la responsabilità del B. ed, in particolare, il fatto che il professionista ha condiviso il proprio convincimento con i clienti di non impugnare in Cassazione.
4.3. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano la “contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
La società ed i suoi soci lamentano che la statuizione delle spese di giudizio effettuata dal giudice di appello nel dispositivo e del tutto contraddittoria ed inconciliabile con tutti gli altri capi del dispositivo stesso, nonché con la parte motiva del provvedimento impugnato.
5. I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione e sono entrambi fondati.
È principio consolidato di questa Corte che
nell’adempimento dell’incarico professionale conferito, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., impone al professionista di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine
incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello “jus postulandi”, stante la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass. n. 14597/2004; Cass. n. 16023/2002).
Nel caso di specie la motivazione della sentenza dei giudici del merito è carente proprio in punto di informazione. Non emerge, infatti, se il professionista nell’espletamento del suo mandato sia stato diligente nell’aver rappresentato, ed informato, i suoi clienti di tutte le circostanze necessarie per poter assumere una decisione consapevole finalizzata ad impugnare i provvedimenti della Commissione Tributaria Regionale.
In particolare, assunto il dato che circa l’obbligo di assistenza tecnica nel processo tributario di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, sussisteva a quel tempo quanto meno un contrasto interpretativo,
il professionista avrebbe avuto, per quanto premesso, il dovere di informare il cliente della possibilità di un ricorso per cassazione, allo scopo di sperimentare una possibilità di esito favorevole, fatte ovviamente le opportune valutazioni in concreto in ordine alla possibilità di successo del ricorso anche nel merito delle questioni tributarie dedotte in giudizio, attraverso cioè un ponderato bilanciamento tra il costo del rimedio impugnatorio ulteriore e le possibilità di ricavarne concreta utilità. Onde rimettere, in definitiva, la responsabilità della decisione ad una ponderata delibazione del cliente stesso.
Su tutto questo, non risulta che sia stata esperita una indagine di merito (
Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 14.07.2015 n. 14639).

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La novella (di cui alla legge n. 114 dell’11.08.2014, di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90), nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente.
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La formulazione della norma (co. 7-bis, dell’art. 93, del d.lgs. n. 163 del 2006) ed il richiamo, contenuto nello stesso comma, alla necessità che venga adottato da ogni ente un regolamento che contenga l’indicazione del limite massimo di risorse destinate alla predetta finalità e la disciplina di riparto induce a ritenere che le risorse confluiscano in un fondo a gestione autonoma e regolata dal citato regolamento e non nell’ordinario fondo di cui all’art. 15, co. 1, lett. k), del CCNL del 01.04.1999, che presenta modalità di costituzione e gestione basate su diversi presupposti.
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Mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione.
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E’ indubbio che le somme destinate all’IRAP non possono che ricadere all’interno della quota dell’80% dell’incentivo destinato al personale, considerato che il restante 20% deve essere destinato all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, nonché di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa e che, come si è visto in relazione al secondo quesito, le somme destinate al pagamento dell’IRAP rientrano nell’ammontare delle risorse complessivamente destinate ad essere inserite nel fondo per la progettazione e l’innovazione.
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I
l diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate senza che possa essere modificato da disposizioni di legge successive che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità”.
In relazione alle attività in corso, la Sezione ha chiarito che “
i soggetti incaricati della redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi positivamente i successivi controlli che ne attestino la regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che, rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa del dipendente, potranno pertanto intervenire anche successivamente alla data di entrata in vigore della riforma.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa, maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo l’entrata in vigore della riforma
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Occorre precisare, però, che
gli incentivi maturati prima dell’entrata in vigore possono essere liquidati nei limiti in cui si siano verificate tutte le condizioni previste dalla normativa vigente in precedenza.
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Deve ritenersi che il Regolamento in corso di predisposizione (da parte del comune) possa disciplinare la situazione transitoria al fine di evitare incertezze e contenere in un unico testo le regole che disciplinano questa specifica materia, ovviamente sulla base della disciplina vigente fino al 19.08.2014, senza apportare alcuna innovazione che possa, in qualche, modo limitare i diritti già maturati o sanare precedenti irregolarità.
Le risorse che confluiscono nel fondo per l’innovazione e l’incentivazione sono destinate a remunerare l’attività lavorativa del personale e, pertanto, sono soggette ai limiti di spesa che l’Ente locale è tenuto ad osservare in materia di spesa per il personale.

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Il Sindaco del Comune di Solaro ha inoltrato alla Sezione alcuni quesiti con i quali, “al fine di non incorrere in errori interpretativi sull’approvazione del regolamento” “per la costituzione e la ripartizione del fondo per la progettazione e l’innovazione – art. 93, comma 7-bis, D.Lgs 163/2006”, ha domandato l’avviso della Sezione in ordine ad alcuni profili interpretativi della disposizione richiamata sopra.
...
La magistratura contabile, come ricordato dallo stesso Sindaco di Solaro nella richiesta di parere, in più occasioni ha fornito indirizzi interpretativi nella materia della costituzione e ripartizione di quello che oggi viene denominato fondo per la progettazione e l’innovazione, sia prima che dopo le modifiche introdotte dall’art. 13-bis della legge n. 114 dell’11.08.2014, di conversione del decreto legge 24.06.2014, n. 90.
Al riguardo è opportuno mettere in luce che la Sezione, dopo le modifiche introdotte dal citato art. 13-bis della legge n. 114 del 2014, ha reso già alcuni pareri con i quali, dopo aver rilevato che l’art. 13 del d.l. n. 90 del 2014 aveva abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la previgente disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6) con l’art. 13-bis, introdotto in sede di conversione nel d.l. e in vigore dal 19.08.2014, aveva dettato una nuova disciplina risultante dai co. 7-bis – 7-quinquies dell’art. 93 del Codice dei contratti.
E’ stato precisato, in particolare, che “
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente” (Sez. contr. Lombardia, parere 05.05.2015 n. 191).
Richiamando, quindi, il contenuto della precedente giurisprudenza contabile e, in particolare, le indicazioni contenute nel citato parere 05.05.2015 n. 191 della Sezione, in relazione ai singoli quesiti posti dal Sindaco del Comune di Solaro si osserva quanto segue:
1. Con il primo quesito viene domandato alla Sezione se le somme da stanziare per la costituzione del fondo previsto dal co. 7-bis, dell’art. 93, del d.lgs. n. 163 del 2006 debbano transitare nel fondo incentivante per la produttività dei dipendenti comunali di cui all’art. 15, co. 1, lett. k), ovvero se debbano essere considerate in modo autonomo.
In proposito, si osserva che il nuovo comma 7-bis del d.lgs. n. 163 del 2006, introdotto dalla legge di conversione del citato d.l. n. 90 del 2015, prevede che “le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro”.
La formulazione della norma ed il richiamo, contenuto nello stesso comma, alla necessità che venga adottato da ogni ente un regolamento che contenga l’indicazione del limite massimo di risorse destinate alla predetta finalità e la disciplina di riparto induce a ritenere, come peraltro ipotizzato dal Sindaco di Solaro nella richiesta di parere, che le risorse confluiscano in un fondo a gestione autonoma e regolata dal citato regolamento e non nell’ordinario fondo di cui all’art. 15, co. 1, lett. k), del CCNL del 01.04.1999, che presenta modalità di costituzione e gestione basate su diversi presupposti.
2. Con il secondo quesito il Sindaco di Solaro “chiede se anche le somme destinate per l’IRAP debbano essere incluse nel tetto del 2 per cento (come sembra chiarito dalla deliberazione n. 33 del 30/06/2010 delle Sezioni Riunite) oppure se debbano essere previste in aggiunta a quelle determinate per il tetto del 2 per cento”.
Il dubbio posto dal Sindaco di Solaro non ha ragion d’essere poiché, come rilevato dallo stesso richiedente, le Sezioni riunite della Corte dei conti in sede di controllo hanno statuito che “
mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni).
Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione
” (
la deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010).
3. Con il terzo quesito, viene domandato se, tenuto conto della ripartizione introdotta dal co. 3 dell’art. 93 del d.lgs. n. 163 del 2006, le somme riferite all’IRAP “debbano essere incluse nella quota dell’80%” dell’incentivo (destinato al personale) “oppure se possano esser incluse nella quota del 20%” dell’incentivo (destinato all’acquisto di strumentazioni, implementazione banche dati e simili) “oppure se non debbano essere incluse nell’incentivo e debbano, invece, essere finanziati con mezzi propri di bilancio”.
E’ indubbio che le somme destinate all’IRAP non possono che ricadere all’interno della quota dell’80% dell’incentivo destinato al personale, considerato che il restante 20% deve essere destinato all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, nonché di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa e che, come si è visto in relazione al secondo quesito, le somme destinate al pagamento dell’IRAP rientrano nell’ammontare delle risorse complessivamente destinate ad essere inserite nel fondo per la progettazione e l’innovazione.
4. Con il quarto quesito, viene domandato se la “liquidazione dell’incentivo relativo in parte ad opere risalenti agli anni 2004–2014 ed in parte ad opere in corso al momento di entrata in vigore della legge 11/08/2014, n. 114” possa avvenire “in base ai criteri di ripartizione già esistenti e determinati in questo Ente con una delibera di Giunta comunale, ma non disciplinati da apposito regolamento, tenuto presente anche del fatto che le stesse non sono state fatte transitare nel fondo di cui all’art. 15, comma 1, lett. k), del CCNL 01.04.1999”.
Con il citato parere 05.05.2015 n. 191, la Sezione, richiamando la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie riguardante una analoga questione derivante da una precedente riformulazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici, ha chiarito già che
il diritto all’incentivo deve essere corrisposto sulla base della normativa vigente al momento in cui questo è sorto, ossia al compimento delle attività incentivate senza che possa essere modificato da disposizioni di legge successive che ne riducano i presupposti e ne limitino l’entità”.
In relazione alle attività in corso, la Sezione ha chiarito che “
i soggetti incaricati della redazione di uno specifico atto hanno diritto a percepire l’incentivo determinato sulla base della legge in vigore al momento in cui, con il compimento dell’atto medesimo, si esaurisce la prestazione lavorativa richiesta.
Ciò, naturalmente, a condizione che l’atto superi positivamente i successivi controlli che ne attestino la regolarità e consentano l’avvio della gara, controlli che, rimanendo adempimenti estranei alla prestazione lavorativa del dipendente, potranno pertanto intervenire anche successivamente alla data di entrata in vigore della riforma.
I soggetti incaricati di prestazioni di durata, viceversa, maturano il diritto all’incentivo, come esplicitato nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, con riferimento alla frazione temporale dell’attività espletata la quale può ragionevolmente consistere nel numero dei giorni di attività.
Ne viene di conseguenza che la misura dell’incentivo dovrà essere parametrata ai giorni di attività svolta prima o dopo l’entrata in vigore della riforma
” (parere 05.05.2015 n. 191).
Occorre precisare, però, che
gli incentivi maturati prima dell’entrata in vigore possono essere liquidati nei limiti in cui si siano verificate tutte le condizioni previste dalla normativa vigente in precedenza (sul punto si richiama: Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 15.10.2013 n. 442), sia con riferimento al concreto avvio della realizzazione dell’opera che alla costituzione del fondo e alle modalità di ripartizione del fondo che dovevano essere stabilite dal Regolamento comunale.
5. Il quinto quesito è diretto ad appurare se nel regolamento in corso di predisposizione “possa essere inserita una norma transitoria disciplinante le situazioni precedenti alla data del 19.08.2014 e non ancora concluse ossia quelle che vanno dal 2004 al 2014 e se sia corretto ritenere che le somme relative a detti incentivi siano compatibili con la normativa concernente il contenimento della spesa di personale e quella riguardante il conto annuale delle spese di personale, considerato che l’art. 90, commi 1 e 6, del D.Lgs. 163/2006, obbliga le amministrazioni pubbliche ad utilizzare, in prima istanza, il personale tecnico interno per la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo”.
Al riguardo, richiamando quanto indicato al precedente punto 4.,
deve ritenersi che il Regolamento in corso di predisposizione possa disciplinare la situazione transitoria al fine di evitare incertezze e contenere in un unico testo le regole che disciplinano questa specifica materia, ovviamente sulla base della disciplina vigente fino al 19.08.2014, senza apportare alcuna innovazione che possa, in qualche, modo limitare i diritti già maturati o sanare precedenti irregolarità.
Le risorse che confluiscono nel fondo per l’innovazione e l’incentivazione sono destinate a remunerare l’attività lavorativa del personale e, pertanto, sono soggette ai limiti di spesa che l’Ente locale è tenuto ad osservare in materia di spesa per il personale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.09.2015 n. 276).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nessun incentivo di progettazione può essere corrisposto per le opere di manutenzione straordinaria compiute dopo il 19.08.2014.
---------------
Sul punto oggetto della richiesta di parere, afferente la possibilità di compensare le attività di progettazione inerenti le attività di manutenzione, le numerose pronunce intervenute in argomento hanno enucleato alcuni principi che possono essere cosi compendiati:
a)
la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori e non si estende agli appalti di servizi manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva);
c)
vanno esclusi dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (come in caso di lavori di manutenzione eseguiti in economia).
A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l. 90/2014,
l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della norma
fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
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Sulle modalità di determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato in caso di vittoria in sede giudiziale, è stato sottolineato che:
da una parte
l’Irap grava, giuridicamente, sull’amministrazione comunale in quanto il presupposto stesso dell'imposta, indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive integrazioni, è, infatti, costituito dall'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. La disposizione è strettamente collegata al successivo articolo 3, che individua i soggetti passivi dell'imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta, ex se, la inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna degli Enti;
dall’altra parte, però,
le somme destinate al pagamento dell’Irap devono trovare copertura finanziaria nell’ambito dei fondi destinati a compensare l’attività incentivata nel rispetto del principio di cui all’art. 81, comma 4, della Costituzione: e ciò in quanto “le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità complessive massime e, pertanto, non superabili. In sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non trovino adeguata copertura".
Tali principi possono essere utilizzati anche nel caso di specie (incentivo progettazione interna) nel senso di escludere l’Irap dall’ambito degli oneri riflessi, restando in capo all’Ente l’obbligo giuridico di provvedere al pagamento della stessa, e dovendo le risorse per finanziare il pagamento del tributo gravare sui fondi destinati a compensare l’attività.

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Il Sindaco del Comune di Conegliano (TV), con la suindicata nota, sollecita l'esercizio della funzione consultiva da parte di questa Sezione su alcune problematiche in materia di applicabilità delle previsioni di cui all'art. 93, comma 7-bis e ss, del D.Lgs, 12.04.2006 n. 163, come introdotti dal D.L. 24.06.2014 n. 90 convertito in L. 11.08.2014 n. 114, agli incentivi previsti per la realizzazione di lavori di manutenzione straordinaria.
Con la richiesta in epigrafe, richiamando a tal proposito il parere 17.12.2014 n. 141
della Sezione regionale di controllo per le Marche ed il parere 12.11.2014 n. 237 della Sezione regionale di controllo per la Toscana, si chiede, in particolare, parere in merito alla possibilità di annoverare gli interventi di manutenzione straordinaria tra le opere che si possano considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione di cui alle previsioni normative richiamate, atteso che il comma 7-ter dell'art. 93 prevede che il regolamento da adottarsi a cura dell'amministrazione definisca i criteri di riparto di dette risorse "...escludendo le attività manutentive...".
Con la stessa nota, il Sindaco chiede altresì se le somme destinate al pagamento degli emolumenti in parola debbano intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori, e, quindi, siano comprensive -oltre che degli "oneri previdenziali ed assistenziali a carico dell'amministrazione" espressamente menzionati dall'art. 93, comma 7-ter- anche di quelli fiscali, quali l'Irap, ovvero se gli oneri debbano trovare capienza nel tetto dell'80% delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione da ripartirsi tra il personale interessato secondo le modalità ed i criteri previsti dal regolamento comunale oppure debbano trovare diversa copertura nel bilancio.
Analogo quesito viene rivolto con riferimento ai compensi incentivanti professionali spettanti agli avvocati.
Tale richiesta viene avanzata alla luce delle diverse letture espresse da alcune Sezioni regionali a seguito della
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010 delle Sezioni riunite della Corte dei Conti (cfr. il parere 02.12.2010 n. 543 della Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, il parere 07.07.2014 n. 127 della Sezione regionale di controllo per la Puglia, la deliberazione della Sezione regionale di controllo per l'Umbria n. 25/PAR/2014 e la deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Liguria n. 38/PAR/2014), nonché della recente pronuncia della Sezione delle autonomie n. 21/SEZAUT/2015/QMIG seppur relativa alla diversa fattispecie dei diritti di rogito.
...
II. La richiesta di parere avanzata dal Comune di Conegliano assume, peraltro, un sufficiente carattere di generalità tale da poter consentire alla Sezione di esprimersi nel merito, circa cioè la portata applicativa della norma contenuta nel D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla Legge 11.08.2014, n. 114, che ha mantenuto ferma la possibilità di attribuire, nell’ambito di un apposito “fondo per la progettazione e l’innovazione”, un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 13-bis, introdotto dalla legge di conversione, nell’abrogare il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, ha inserito, nel corpo dell’art. 93 del citato d.lgs. n. 163/2006, i quattro commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies.
Il comma 7-ter, che qui maggiormente interessa, così recita: “L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.
Il Collegio precisa preliminarmente al riguardo come
la normativa in esame sugli incentivi costituisca una fattispecie derogatoria del principio di onnicomprensività.
Questa Sezione (ex multis, cfr. parere 22.11.2013 n. 361) ha avuto modo di sottolineare che detto principio trova espresso fondamento negli artt. 2, comma 3 e 24, comma 3 del Dlgs. 165/2001 in virtù del quale il trattamento economico stabilito dalla contrattazione collettiva remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti nonché qualsiasi incarico ad essi conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa, mentre per il personale non dirigente, esso trova la sua enunciazione nella norma contenuta nell’art. 45 del Dlgs. 165/2001.
In virtù di tale principio,
nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio (cfr. Corte dei Conti Puglia, sezione giurisdizionale,
sentenza 20.07.2010 n. 464, sentenza 22.07.2010 n. 475 e sentenza 02.08.2010 n. 487).
Il principio si coniuga con quello, previsto parimenti dalle norme citate, della riserva alla contrattazione collettiva in tema di determinazione del corrispettivo delle prestazione dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che solo il contratto collettivo nazionale, può fissare onnicomprensivamente il trattamento economico, mentre quello decentrato assume rilevanza nei limiti di quanto disposto dalle fonti nazionali.
In ambo i casi, solo la legge può derogare a tale sistema, prevedendo talora ulteriori specifici compensi (Sez. Autonomie n. 7/2014 e Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011) o addirittura la possibilità di una diversa strutturazione del trattamento economico (cfr., ad esempio, gli artt. 24 e 45 del D.lgs. n. 165 del 2001), sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo: con la conseguenza che, in quanto tale, costituisce un’eccezione di stretta interpretazione con divieto di analogia (art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile: Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008), essendo regola generale quella secondo cui il contratto individuale o una determinazione unilaterale dell’ente (ad esempio un regolamento) non possono determinare il corrispettivo e, dall’altro, che tale corrispettivo retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività).
IV. Sul punto oggetto della richiesta di parere, afferente la possibilità di compensare le attività di progettazione inerenti le attività di manutenzione, le numerose pronunce intervenute in argomento (ex multis: Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72, parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246 e parere 13.11.2014 n. 300; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24, parere 24.10.2014 n. 60, parere 16.12.2014 n. 73 e parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana, parere 13.11.2012 n. 293, parere 19.03.2013 n. 15 e parere 12.11.2014 n. 237; Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114; Sez. controllo Marche, parere 17.12.2014 n. 141; Corte dei Conti Umbria, parere 14.05.2015 n. 71) hanno enucleato alcuni principi che possono essere cosi compendiati:
a)
la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori e non si estende agli appalti di servizi manutentivi;
b) in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva);
c)
vanno esclusi dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (come in caso di lavori di manutenzione eseguiti in economia).
A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l. 90/2014,
l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della norma -la quale, come si evince dalla formulazione della norma, espressamente prevede che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”- fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (ex multis, Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300; Sez. Toscana, parere 12.11.2014 n. 237; Sez. Emilia­Romagna, parere 19.09.2014 n. 183; Sez. Liguria, parere 24.10.2014 n. 60).
Questo Collegio ritiene di aderire a tale indirizzo interpretativo, pur non ignorando che potrebbe prospettarsi una diversa soluzione volta a porre in evidenza l’attrazione delle opere di manutenzione straordinaria operata dalla legge n. 350 del 2003 nell’alveo delle spese di investimento: peraltro, l’applicazione dei canoni ermeneutici sanciti nell’art. 12 delle preleggi e che sono stati richiamati nell’esordio di questo parere impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla lettera della norma, la quale esclude espressamente dall’incentivo in argomento “le attività manutentive” ed evitando, in ragione della natura eccezionale della deroga, interpretazioni analogiche.
Questa Sezione, richiamando i principi contenuti nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 e n. 11/SEZAUT/2014/QMIG rese dalla Sezione delle Autonomie, e la propria giurisprudenza (Sez. Controllo Veneto, parere 14.04.2015 n. 211) ritiene quindi che nessun incentivo di progettazione potrà essere corrisposto per le opere di manutenzione straordinaria compiute dopo il 19.08.2014 (Corte dei Conti Umbria, parere 14.05.2015 n. 71).
V. Il Collegio procede quindi all’esame del secondo quesito proposto, e cioè se le somme destinate al pagamento degli emolumenti –che si ribadisce non possono essere quelle inerenti gli interventi di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale- debbano intendersi al lordo di tutti gli oneri accessori.
In particolare, occorre verificare se esse siano comprensive, quindi, -oltre che degli "oneri previdenziali ed assistenziali a carico dell'amministrazione" espressamente menzionati dall'art. 93, comma 7-ter- anche di quelli fiscali, quali l'Irap, ovvero se gli oneri debbano trovare capienza nel tetto dell'80% delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione da ripartirsi tra il personale interessato secondo le modalità ed i criteri previsti dal regolamento comunale oppure debbano trovare diversa copertura nel bilancio.
Questa Sezione intende rifarsi ai principi enunciati dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con
la deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010 resa in funzione nomofilattica (ai sensi dell’articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102).
Nella pronuncia, soffermandosi sulle modalità di determinazione del compenso spettante al dipendente avvocato in caso di vittoria in sede giudiziale, è stato sottolineato che “
mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (…), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (….). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione”.
Il Collegio evidenzia come due sono i punti fermi espressi dalla delibera citata.
Da una parte
l’Irap grava, giuridicamente, sull’amministrazione comunale in quanto il presupposto stesso dell'imposta, indicato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 e successive integrazioni, è, infatti, costituito dall'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. La disposizione è strettamente collegata al successivo articolo 3, che individua i soggetti passivi dell'imposizione; la mancata esplicita inclusione tra i soggetti passivi dei lavoratori dipendenti comporta, ex se, la inapplicabilità del tributo in esame all’avvocatura interna degli Enti (delibera n. 34/2007 Sezione di controllo per l’Emilia Romagna).
Dall’altra parte, però,
le somme destinate al pagamento dell’Irap devono trovare copertura finanziaria nell’ambito dei fondi destinati a compensare l’attività incentivata nel rispetto del principio di cui all’art. 81, comma 4, della Costituzione: e ciò in quanto “le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa, ivi inclusi i fondi di produttività e per i miglioramenti economici, costituiscono le disponibilità complessive massime e, pertanto, non superabili. In sostanza, sui bilanci dello Stato o degli altri enti pubblici, non potranno gravare ulteriori oneri che non trovino adeguata copertura (Sez. Controllo Piemonte, delibera n. 16/2012).
Tali principi possono essere, ad avviso della Sezione, utilizzati anche nel caso di specie –trattandosi come per gli incentivi dell’Avvocatura di espressa deroga al principio sopra richiamato dell’onnicomprensività- nel senso di escludere l’Irap dall’ambito degli oneri riflessi, restando in capo all’Ente l’obbligo giuridico di provvedere al pagamento della stessa, e dovendo le risorse per finanziare il pagamento del tributo gravare sui fondi destinati a compensare l’attività (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 09.09.2015 n. 393).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPart-time: cosa cambia nel pubblico impiego con la nuova disciplina del jobs act (CGIL-FP di Bergamo, nota 07.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa disciplina sempre più caotica delle assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.08.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 25.09.2015, "Settimo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 10.09.2015 n. 7236).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 39 del 21.09.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’Elenco dei Tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.08.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 14.09.2015 n. 142).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuove definizioni di “produttore”, “raccolta” e “deposito temporaneo” (ANCE di Bergamo, circolare 18.09.2015 n. 195).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Prevenzione incendi: pubblicate le nuove norme tecniche (ANCE di Bergamo, circolare 18.09.2015 n. 194).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Modifica al Decreto Legislativo 09.04.2008, n. 81 (ANCE di Bergamo, circolare 18.09.2015 n. 191).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Art. 1, commi 113, 258, 623, 708 della legge 23.12.2014, n. 190 recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)” - riflessi sui Tfs, Tfr dei dipendenti pubblici. Effetti del citato comma 258 sui trattamenti pensionistici (INPS, circolare 17.09.2015 n. 154 - link a www.inps.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione Agenzia delle Entrate relativa alla predisposizione degli atti di aggiornamento geometrico con la procedura Pregeo (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 14.09.2015 n. 598).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione relativa alla predisposizione degli atti di aggiornamento geometrico con la procedura Progeo (Agenzia delle Entrate, nota 03.09.2015 n. 113303 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti pubblici: effetti della legge di stabilità sui Tfs e Tfr (18.09.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Petrelli, CERTIFICAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI - Prospetto sinottico della legislazione nazionale e regionale (30.06.2015 - tratto da www.gaetanopetrelli.it).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALILa Sezione delle autonomie ha affermato il principio, vincolante per tutte le Sezioni regionali, secondo cui la corresponsione dei diritti di rogito compete esclusivamente ai segretari di comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C, e non spetta invece ai segretari che godono di equiparazione alla dirigenza, sia tale equiparazione assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa effetto del “galleggiamento” ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL di categoria, nei comuni di maggiori dimensioni.
Tanto premesso, benché l’odierna fattispecie -segretario comunale in convenzione tra due enti, di cui uno dotato e l’altro sprovvisto di posizione dirigenziale- non trovi esplicita soluzione nella disposizione in parola,
la Sezione ritiene che la ratio perequativa della norma, enunciata dalla Sezione delle autonomie, consenta di tenere distinte le posizioni del segretario nei confronti dei singoli enti locali di appartenenza: pertanto, laddove il segretario sia collocato in fascia C, il comune sprovvisto di posizione dirigenziale dovrà corrispondergli i diritti di rogito, nei limiti previsti dalla legge.
E’ di tutta evidenza che, ove invece il segretario comunale sia un dirigente, non potrà essergli corrisposto il diritto in questione, neppure nel comune di più piccole dimensioni.

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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. 32772/1.13.9, una richiesta di parere formulata dal comune di Massa e Cozzile, avente ad oggetto l’attribuibilità dei diritti di rogito al segretario comunale titolare dell’ufficio in convenzione tra due comuni, di cui uno soltanto dotato di posizione dirigenziale, alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11.08.2014, n. 114.
...
Nel merito, l’art. 10 della normativa citata in premessa, dopo aver disposto che il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla provincia, stabilisce, al comma 2-bis, che “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell’art. 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734 […] è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento”.
Nel caso di specie, il segretario comunale è titolare dell’ufficio di segreteria in convenzione tra i comuni di Massa e Cozzile e Pescia (comune capofila); tuttavia, come dichiarato nella richiesta, solo in quest’ultimo ente “sono presenti dipendenti con qualifica dirigenziale”.
Il comune di Massa e Cozzile sollecita dunque la Corte ad esprimersi sul punto se il comma 2-bis debba essere applicato considerando l’insieme dei comuni gestiti in convenzione, ovvero se debba essere presa a base la situazione del singolo ente, ciò che comporterebbe, per l’ente richiedente, la conseguenza di dover corrispondere i diritti di rogito al segretario comunale che presentasse anche i requisiti soggettivi per l’attribuzione.
Come recentemente chiarito dalla Sezione delle Autonomie su questione di massima, l’art. 10 del d.l. n. 90/2014, abrogando il previgente art. 41, comma 4, l. n. 312/1980, ha stabilito
il principio della integrale spettanza dei diritti di rogito a comuni e province (comma 2), concependo l’erogazione di una parte di tali diritti in favore dei segretari comunali come un’eccezione alla disciplina generale (comma 2-bis); eccezione basata sul duplice presupposto della non esistenza di una posizione dirigenziale presso l’ente in cui il segretario presta servizio e del non possesso, da parte del segretario stesso, della qualifica dirigenziale (Sezione delle autonomie, deliberazione 24.06.2015 n. 21).
Secondo la Sezione delle Autonomie, l’anzidetta deroga rispetto al principio generale della non debenza dei diritti di rogito ai segretari comunali trova giustificazione nella volontà di contemperare l’esigenza di maggiori entrate degli enti locali con una finalità perequativa (resa palese anche dai lavori parlamentari di conversione del decreto legge), a tutela delle sole situazioni retributive meno vantaggiose.
In base a tali considerazioni, la Sezione delle autonomie ha affermato il principio, vincolante per tutte le Sezioni regionali, secondo cui
la corresponsione dei diritti di rogito compete esclusivamente ai segretari di comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C, e non spetta invece ai segretari che godono di equiparazione alla dirigenza, sia tale equiparazione assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B, sia essa effetto del “galleggiamento” ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL di categoria, nei comuni di maggiori dimensioni.
Tanto premesso, benché l’odierna fattispecie -segretario comunale in convenzione tra due enti, di cui uno dotato e l’altro sprovvisto di posizione dirigenziale- non trovi esplicita soluzione nella disposizione in parola,
la Sezione ritiene che la ratio perequativa della norma, enunciata dalla Sezione delle autonomie, consenta di tenere distinte le posizioni del segretario nei confronti dei singoli enti locali di appartenenza: pertanto, laddove il segretario sia collocato in fascia C, il comune sprovvisto di posizione dirigenziale dovrà corrispondergli i diritti di rogito, nei limiti previsti dalla legge.
E’ di tutta evidenza che, ove invece il segretario comunale sia un dirigente, non potrà essergli corrisposto il diritto in questione, neppure nel comune di più piccole dimensioni
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 24.09.2015 n. 393).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Va ridotta l'incidenza del personale sulle uscite. Per la sezione autonomie non basta solo contenere le spese.
Gli enti locali sono obbligati a ridurre la spesa di personale anche in termini di incidenza sulla propria spesa corrente complessiva e non solo in valore assoluto.

Lo ha chiarito la Corte dei Conti, Sez. delle autonomie, con la deliberazione 18.09.2015 n. 27, risolvendo la questione di massima sollevata dalla sezione regionale di controllo dell'Emilia-Romagna.
Quest'ultima aveva evidenziato l'incertezza della disciplina vincolistica contenuta nei commi da 557 a 557-quater della legge n. 296/2006. In particolare, non era chiaro se sia sufficiente contenere la dinamica della sola spesa di personale, ovvero se occorra anche migliorare il rapporto fra tale aggregato e il complesso delle uscite correnti.
In effetti, mentre il primo vincolo è chiaramente previsto dal comma 557-quater (che impone agli enti «nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale, con riferimento al valore medio del triennio precedente»), la riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti è indicata dalla lett. a) del comma 557 come una delle possibili misure che le amministrazioni possono mettere in campo per centrare il predetto obiettivo, insieme alla razionalizzazione ed allo snellimento delle strutture burocratico-amministrative ed al contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa. Una sorta di consiglio, quindi, più che un vero obbligo.
Tale lettura sarebbe stata confermata indirettamente anche dall'abrogazione, disposta dal dl 90/2014, dell'art. 76, comma 7, del dl 112/2008, che vietava di effettuare nuove assunzioni negli enti in cui la spesa di personale superava il 50% di quella corrente.
Ma i giudici contabili sono stati di diverso avviso e hanno affermato, invece, l'immediata cogenza dell'obbligo di riduzione dell'incidenza percentuale della spesa di personale quale
species rispetto al genus spesa corrente, senza che a nulla osti neppure la mancata emanazione del previsto dpcm volto all'individuazione di criteri e parametri di dettaglio.
A orientare questa lettura rigorosa, la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha in più occasioni riconosciuto alle disposizioni in esame carattere di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.
La Corte dei conti, inoltre, conferma che parametro di riferimento per verificare il rispetto dei predetti vincoli è rappresentato dal valore medio della spesa effettivamente sostenuta negli esercizi 2011-2013, un parametro, quindi, fisso e immutabile nel tempo e non, come in passato, dinamico, come già chiarito dalla deliberazione delle autonomie n. 25/2014.
Questa pronuncia mette in allarme diverse amministrazioni, visto che finora nella prassi prevaleva nettamente la tesi ora rigettata. In alcuni casi, peraltro, si rischiano paradossali penalizzazioni a carico degli enti che, pur contenendo le uscite di personale, abbiamo avviato percorsi di più intensa riduzione di altre tipologie di spesa e che adesso si trovano spiazzate dal nuovo orientamento, per di più espresso ad esercizio finanziario ormai quasi concluso (articolo ItaliaOggi del 23.09.2015).
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MASSIMA
Le disposizioni contenute nel comma 557, lett. a), della legge n. 296/2006, che impongono la riduzione dell’incidenza della spesa di personale rispetto al complesso delle spese correnti, devono considerarsi immediatamente cogenti alla stregua del 10 parametro fissato dal comma 557-quater e la programmazione delle risorse umane deve essere orientata al rispetto dell’obiettivo di contenimento della spesa di personale ivi indicato.

APPALTIIl beneficio di legge dell’esenzione dal pagamento dei diritti di segreteria si limita ai soli contratti di acquisto di beni e servizi.
La chiara volontà del legislatore di prevedere l’esenzione in relazione ai soli contratti relativi a beni e servizi non consente di estendere il beneficio agli acquisti di lavori che hanno natura diversa e presentano peculiarità particolari che rendono difficoltoso, se non in relazione a situazioni particolari, il ricorso al mercato elettronico.
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L’esenzione dal pagamento dei diritti di segreteria è stata prevista dal legislatore quale conseguenza della modalità seguita per addivenire all’acquisto mediante l’utilizzo di strumenti informatici e senza il ricorso alle formalità stabilite dalla legge di contabilità, ivi compresa la stipula di contratto in forma pubblica.
Risulta, quindi, ragionevole ritenere che si possa ricorrere alla deroga introdotta dall’art. 13 del d.l. n. 52 del 2012 nei soli casi nei quali l’intera procedura, dall’ordine al contratto, avvenga e si concluda in forma elettronica.
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Il Sindaco del Comune di Cassano Magnago (VA) ha inoltrato alla Sezione un quesito con il quale, dopo aver richiamato il contenuto del parere della Sezione n. 301 del 2014, ha domandato:
- se la disapplicazione dal pagamento dei diritti di segreteria prevista dall’art. 13 del d.l. n. 52 del 06.07.2012, conv. dalla legge n. 94 del 06.07.2012, “sia limitata ai soli contratti per acquisto di beni e servizi conclusi mediante strumenti informatici e non si estenda anche ai contratti per l’affidamento di lavori pubblici;
- se la citata disapplicazione “riguardi solo gli acquisti di beni e servizi effettuati grazie al ricorso a piattaforme che consentono di concludere il procedimento con la stipula del negozio in forma digitale/elettronica (vedi MEPA o adesione a convenzione CONSIP) oppure si estenda anche agli acquisti di beni e servizi effettuati grazie al ricorso a piattaforme che non consentono di concludere il procedimento con la stipula del negozio in forma digitale/elettronica (vedi Sistema Sintel predisposto da ARCA in Lombardia)”.
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La Sezione, come ricordato dallo stesso Sindaco di Cassano Magnago nella richiesta di parere, si è già occupata dell’interpretazione dell’art. 13 del d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito dalla legge 06.07.2012, n. 94, osservando che
la norma ha “previsto la disapplicazione dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40 della legge 08.06.1962, n. 604 nell’ipotesi” di contratti conclusi a seguito del ricorso a gare telematiche di acquisto.
Il d.l. n. 52 del 2012, nell’ambito di numerosi interventi di razionalizzazione della spesa pubblica, ha introdotto modifiche alle procedure di acquisto che le amministrazioni sono tenute a seguire per contenere e limitare gli oneri a carico della finanza pubblica.
In particolare, per quanto interessa in questa sede, al fine di favorire il ricorso al mercato elettronico e ai conseguenti risparmi, all’art. 13 ha stabilito che “per i contratti relativi agli acquisti di beni e servizi degli enti locali, ove i beni o i servizi da acquistare risultino disponibili mediante strumenti informatici di acquisto, non trova applicazione quanto previsto dall’articolo 40 della legge 08.06.1962, n. 604”,
vale a dire l’applicazione dei diritti di segreteria al momento della stipula del contratto.
In relazione al primo quesito posto dal Sindaco del Comune di Cassano Magnago, occorre osservare che il testo dell’articolo 13
limita il beneficio dell’esenzione ai soli contratti di acquisto di beni e servizi, come specificato in due punti della medesima disposizione e, peraltro, la stessa rubrica delimita l’oggetto della norma specificando “semplificazione dei contratti di acquisto di beni e servizi”.
La chiara volontà del legislatore di prevedere l’esenzione in relazione ai soli contratti relativi a beni e servizi non consente di estendere il beneficio agli acquisti di lavori che hanno natura diversa e presentano peculiarità particolari che rendono difficoltoso, se non in relazione a situazioni particolari, il ricorso al mercato elettronico.

Quanto al secondo quesito, è necessario mettere in luce che
l’esenzione dal pagamento dei diritti di segreteria è stata prevista dal legislatore quale conseguenza della modalità seguita per addivenire all’acquisto mediante l’utilizzo di strumenti informatici e senza il ricorso alle formalità stabilite dalla legge di contabilità, ivi compresa la stipula di contratto in forma pubblica.
Risulta, quindi, ragionevole ritenere che si possa ricorrere alla deroga introdotta dall’art. 13 del d.l. n. 52 del 2012 nei soli casi nei quali l’intera procedura, dall’ordine al contratto, avvenga e si concluda in forma elettronica (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 11.09.2015 n. 275).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Associazione intercomunale. Ufficio comune. Competenza adozione atti.
Nell'ambito di un'associazione intercomunale, qualora, in base alla convenzione attuativa relativa alla gestione del personale, sia affidato all'ufficio comune l'esercizio di tutte le funzioni attinenti a detta gestione, il responsabile/titolare di p.o. dell'ufficio comune provvede ad adottare, per ciascun comune associato, avendone l'esclusiva competenza, qualsiasi atto inerente alla gestione giuridica del personale.
Il Comune, Ente capofila di un'associazione intercomunale, ha chiesto un parere in ordine alle competenze dell'ufficio comune per la gestione del personale (funzione associata che ricomprende anche il trattamento giuridico), con particolare riferimento a quanto verificatosi nell'ambito di una procedura di mobilità interna, con modifica del profilo professionale di un dipendente, che risulta essere stata espletata autonomamente da uno degli enti associati, senza alcun coinvolgimento dell'ufficio comune medesimo.
L'Amministrazione istante manifesta pertanto perplessità sull'operato, sia evidenziando l'incompetenza del comune associato ad adottare il predetto provvedimento, di spettanza invece del Responsabile dell'ufficio comune della funzione 'gestione del personale', sia sottolineando che tale provvedimento ha di fatto realizzato disparità di trattamento nei confronti di altri dipendenti dei comuni associati ai quali, su indirizzo della Conferenza dei Sindaci, era stata negata, da parte dell'ufficio comune, la possibilità di mutare il proprio profilo professionale, anche in vista della prossima costituzione dell'UTI.
L'Ente si è infine posto la questione relativa alla conseguente necessità di proporre al Comune associato un intervento in autotutela.
Nel condividere le perplessità rilevate, si espone quanto segue.
Si osserva preliminarmente che la fonte normativa che disciplina la gestione di funzioni degli enti locali mediante la forma dell'associazione intercomunale è rappresentata dall'art. 22 della l.r. 1/2006.
Tale particolare forma associativa, come stabilito dal legislatore regionale, risulta priva di personalità giuridica ed è costituita mediante una manifestazione congiunta di volontà dei comuni interessati, contenuta nella convenzione quadro.
La predetta convenzione ha il compito di disciplinare, tra gli altri aspetti, anche le funzioni e i servizi comunali da svolgere in forma associata ed i criteri generali relativi alle modalità di esercizio; provvede nel contempo ad individuare il Comune capofila e definisce altresì i rapporti finanziari intercorrenti tra i Comuni associati (art. 22, comma 5, lettere d) ed e), della l.r. 1/2006).
Il comma 1 dell'art. 22 in esame precisa inoltre che le associazioni intercomunali sono dotate di 'uffici comuni' e, pertanto, operano funzionalmente mediante dette, specifiche, articolazioni.
In virtù di quanto specificato all'articolo 21, comma 2, della citata l.r. 1/2006, risulta che gli uffici comuni sono strutture organizzative alle quali è affidato l'esercizio delle funzioni pubbliche in luogo di tutti gli enti partecipanti all'accordo.
Pertanto, l'ufficio comune delle associazioni intercomunali gestisce, per ciascun comune partecipante, le funzioni 'messe' in associazione a seguito dell'approvazione della convenzione quadro e meglio specificate con l'approvazione successiva delle convenzioni attuative. L'ufficio comune diviene quindi contemporaneamente, con la propria dotazione di risorse umane e strumentali, l'ufficio referente di ogni singolo comune partecipante. Ogni ente aderente all'associazione gestisce, di conseguenza, la funzione del caso unicamente per il tramite della struttura operativa messa in comune.
Come emerge dalla lettura della convenzione attuativa per lo svolgimento della macrofunzione gestione del personale, e in particolare da quanto disposto all'art. 7, comma 1, della medesima, l'ufficio comune dell'associazione intercomunale svolge le attività connesse con le funzioni elencate all'art. 1
[1], adottando tutti gli atti e i provvedimenti necessari.
Il successivo comma 2 precisa altresì che al responsabile dell'ufficio comune compete, tra l'altro, la gestione delle attività inerenti le funzioni di cui al citato articolo 1 della convenzione e lo svolgimento di tutti i compiti previsti dall'art. 107 del d.lgs. 267/2000.
Pertanto, è tale soggetto
[2] che deve assicurare lo svolgimento completo della funzione associata, per ogni singolo comune, provvedendo ad adottare, avendone l'esclusiva competenza, come stabilito nella riportata convenzione attuativa, qualsiasi atto inerente -fra le altre attività individuate- alla gestione giuridica del personale dei comuni associati.
In conclusione, posta la competenza dell'ufficio comune all'adozione degli atti inerenti alla gestione del personale degli enti associati, il provvedimento di mobilità interna di cui si discute è suscettibile di annullamento d'ufficio da parte dell'organo burocratico che lo ha adottato, ai sensi dell'art. 21-nonies della l. 241/1990, il quale precisa che 'rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo'.
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[1] Reclutamento del personale/concorsi, trattamento economico, trattamento giuridico (gestione amministrativa del personale), relazioni sindacali e formazione professionale.
[2] A mente di quanto stabilito all'art. 5, comma 3, della convenzione attuativa, alla direzione dell'ufficio comune è preposto un responsabile titolare di posizione organizzativa, nominato con provvedimento del sindaco del comune in cui ha sede l'ufficio medesimo e scelto fra il personale di ruolo dei comuni associati appartenenti alla categoria D
(22.09.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori. Verifica compatibilità tra la carica di Presidente di Consorzio tra enti locali e status di pensionato.
Nella fattispecie di consorzi fra enti locali non pare possibile avvalersi della espressa deroga al divieto (di conferimento a soggetti collocati in quiescenza) di cui all'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 6, comma 1, del d.l. 90/2014, ai sensi della quale è ammesso il conferimento di cariche in organi di governo per i 'componenti delle giunte degli enti territoriali', non potendo ricomprendersi detti enti in tale tipologia.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla compatibilità tra lo status di pensionato pubblico e la carica di Presidente di un Consorzio, stante la vigenza delle norme previste dall'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014.
La predetta disposizione, com'è noto, sancisce il divieto, per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, di attribuire a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi di studio e di consulenza. Alle richiamate amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[1], del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 125/2013.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
[2], gli incarichi vietati dalla citata norma sono solo quelli espressamente contemplati, nello specifico incarichi di studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati. Si è inoltre precisato che 'la disciplina in esame pone puntuali norme di divieto, per le quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è esclusa l'interpretazione estensiva o analogica' [3].
Nella stessa sede si è inoltre rimarcato come la nuova disciplina, a norma dell'articolo 6, comma 2, del d.l. 90/2014, si applichi agli incarichi conferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto (25.06.2014).
Si è altresì sottolineato che 'la condizione del collocamento in quiescenza, ostativa rispetto al conferimento di incarichi e cariche, rileva nel momento del conferimento', deve cioè risultare già sussistente nel momento stesso in cui si procede al conferimento dell'incarico.
Premesso un tanto, per quanto concerne la specifica questione prospettata, si osserva che l'inserimento del Consorzio di cui trattasi nel novero delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, è stata affrontata, con esito affermativo, con il parere rilasciato a suo tempo dallo scrivente Servizio in data 04.03.2008
[4].
In particolare, il Consorzio in questione rientra tra i consorzi previsti dal comma 6 dell'articolo 24 della l.r. 1/2006 ed è soggetto alla disciplina di cui all'articolo 31 del d.lgs. 267/2000, che concerne i consorzi tra enti locali. E' proprio la configurazione di 'consorzio fra enti locali' a far rientrare il predetto consorzio tra le 'pubbliche amministrazioni' indicate al d.lgs. 165/2001.
Pertanto, in ordine alla possibilità di nominare lavoratori collocati in quiescenza (tenendo conto però della data del pensionamento rispetto al conferimento della carica) quali componenti del consiglio di amministrazione (nella fattispecie, l'assunzione della carica di Presidente del Consorzio), si fornisce risposta negativa, stante l'applicabilità del divieto sancito dal richiamato articolo 6, comma 1, del d.l. 90/2014.
Non pare infatti possibile avvalersi della espressa deroga al divieto stabilita nel medesimo articolo, laddove è ammesso il conferimento di cariche in organi di governo per i 'componenti delle giunte degli enti territoriali', atteso che in tale locuzione non sembra possano ricomprendersi i consorzi tra enti locali.
Al riguardo, si osserva che enti territoriali sono solo quelli per la cui esistenza il territorio è un elemento costitutivo essenziale, e non semplicemente l'ambito spaziale che ne delimita la sfera d'azione.
Conseguentemente, tutti gli altri rientrano nella nozione di 'enti non territoriali'; per essi il territorio non è elemento costitutivo, ma ciò non esclude che possano essere limitati territorialmente nella loro azione (c.d. enti ad efficacia territoriale)
[5].
La dottrina
[6], nel sottolineare il distinguo tra enti autarchici territoriali e non territoriali, ha espressamente ricompreso i consorzi pubblici tra gli 'enti autarchici non territoriali locali', in quanto trattasi di enti 'con competenza limitata ad una parte più o meno estesa del territorio nazionale'.
La citata circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha evidenziato inoltre che: 'Tra le cariche in organi di governo di amministrazioni e di enti e società controllate, a parte le esclusioni espressamente previste dalla legge (relative alle giunte degli enti territoriali e agli organi elettivi degli enti pubblici associativi), rientrano quelle che comportano effettivamente poteri di governo, quali quelle di presidente, amministratore o componente del consiglio di amministrazione. La nomina in consigli di amministrazione, in particolare, rientra nell'ambito del divieto indipendentemente dalla qualifica in virtù della quale il soggetto in quiescenza sia stato nominato (per esempio, in qualità di esperto o rappresentante di una determinata categoria), dato che il consiglio di amministrazione ha comunque funzioni di governo dell'ente. Naturalmente, il divieto opera anche nel caso in cui la nomina sia preceduta dalla designazione da parte di un soggetto diverso dall'amministrazione nominante'
[7].
Corre l'obbligo di rammentare, da ultimo, che la norma di cui si discute prevede ad ogni buon conto che gli incarichi, le cariche e le collaborazioni oggetto del divieto possano essere attribuiti a titolo gratuito
[8].
Per quanto concerne l'ulteriore quesito relativo alla corresponsione del rimborso chilometrico e del buono pasto al Presidente del Consorzio, ci si rimette alle considerazioni che esprimerà il Servizio finanza locale, competente per materia.
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[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Vedasi, in proposito, Corte dei conti, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 23/2014/PREV del 30.09.2014.
[4] Prot. n. 4205 in cui si richiama il parere reso dal Servizio finanza locale con nota prot. n. 16543 del 18.10.2007.
[5] Così 'Nuovi dizionari online Simone', voce 'Ente pubblico', consultabile sul seguente sito internet: www.simone.it
[6] 'Gli enti autarchici non territoriali', in 'Corso di diritto pubblico', cap. 29, consultabile sul seguente sito internet: www.dirittoditutti.giuffre.it.
[7] Cfr. pag. 5.
[8] Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, la durata non può essere superiore a un anno, ferma la gratuità
(21.09.2015 -
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SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali. Diritti di rogito liquidati.
La Corte dei conti sezione Autonomie (cfr. deliberazione n. 21 del 24.06.2015) ha affermato, in relazione al disposto dell'art. 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014, che i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al comportamento da tenere, nei confronti del Segretario comunale appartenente alla fascia B, al quale sono stati liquidati e pagati diritti di rogito, non dovuti in base all'orientamento espresso da ultimo dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti con deliberazione n. 21 del 24.06.2015.
Preliminarmente è doveroso osservare che esula dalle competenze dello scrivente Servizio ingerirsi nella concreta attività gestionale degli enti locali e nell'amministrazione attiva, atteso che rientra nelle funzioni istituzionali attribuitegli fornire esclusivamente contributi giurisprudenziali e dottrinali utili alle scelte delle singole amministrazioni.
Premesso un tanto, in via collaborativa, si espongono le seguenti riflessioni.
L'art. 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014, convertito in l. 144/2014, prevede che negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo comma, della l. 734/1973, come sostituito dal comma 2 del medesimo articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla l. 604/1962, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Com'è noto, la Sezione Autonomie della Corte dei conti, con la sopra citata deliberazione, pronunciandosi relativamente a contrastanti orientamenti interpretativi espressi da varie Sezioni regionali di controllo, ha enunciato i seguenti principi di diritto: 'Alla luce della previsione di cui all'art. 10
[1] comma 2-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto di specifica regolamentazione nell'ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell'esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario'.
Pertanto, i diritti di rogito non possono essere riconosciuti ai segretari che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa assicurata dall'appartenenza alle fasce A e B, sia nel caso in cui essa sia un effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità in enti privi di dipendenti con qualifica dirigenziale.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto
[2] ha inoltre richiamato l'attenzione, in ordine alle questioni di diritto intertemporale, sul contenuto del comma 2-ter dell'articolo 10 del d.l. 90/2014, che dispone testualmente che 'le norme di cui al presente articolo non si applicano per le quote già maturate alla data di entrata in vigore del presente decreto'.
In conseguenza, i comuni, in relazione all'anno 2014, dovranno provvedere a calcolare separatamente la quota dei diritti di rogito spettante per le due fasi dell'anno (ante e post entrata in vigore della novella), sulla base delle rispettive regole di quantificazione.
Si è inoltre precisato -in detta sede- che 'l'ente non dispone sulla materia di libertà di determinazione, dovendosi perseguire scelte gestionali sempre rivolte a tutelare l'incremento delle entrate in questione e a non depauperarle'.
Pertanto, 'in sede applicativa, la quota dei diritti da riconoscersi al singolo segretario rogante deve essere calcolata, sia pure nei limiti quantitativi anzi detti, in relazione all'attività effettivamente svolta nell'anno poiché, ai fini della loro corresponsione, deve sussistere un sinallagma tra la prestazione resa dal segretario ed i proventi dalla stessa generati. Ai fini, comunque, della applicazione della normativa di riferimento si ricorda che il diritto di rogito matura, e cioè si perfeziona, al momento del ricevimento dell'atto e/o contratto stipulato in forma pubblica innanzi al segretario. Conseguentemente, a tal momento, deve farsi riferimento per l'applicazione della normativa, a nulla rilevando il fatto che il diritto non sia stato ancora liquidato o pagato'.
Il citato parere fornito dalla Sezione Autonomie, nel dirimere la questione, fa sorgere anche la questione relativa alla ripetizione di somme che sono poi risultate indebitamente erogate.
Preme riportare l'orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, che ha enunciato il principio della doverosità del recupero delle somme indebitamente erogate dalla pubblica amministrazione, non ostacolato dalla buona fede del percipiente, essendo solo necessario che l'atto chiarisca le ragioni per le quali quest'ultimo non aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per errore
[3].
L'ANCI ha osservato al riguardo che l'orientamento della Sezione Autonomie della Corte dei conti è stato adottato ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012, al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi avendo, come ogni attività interpretativa, effetto retroattivo dalla data di entrata in vigore della disposizione legislativa in argomento.
Pertanto, appare difficile poter giustificare condotte non conformi, anche se sostenute in precedenza da pareri della stessa magistratura contabile.
La predetta associazione ribadisce che pagamenti effettuati in difformità dall'ultimo orientamento espresso devono formare oggetto di recupero di quanto erroneamente corrisposto.
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[1] Tale norma ha modificato significativamente i criteri e le modalità di attribuzione ai segretari comunali degli emolumenti riferiti ai diritti di rogito, al fine di assicurare all'ente locale maggiori entrate.
[2] Cfr. deliberazione n. 359/PAR/2015.
[3] Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, sentenza n. 2651 del 2007 e sez. VI, sentenza n. 5315 del 2014
(18.09.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Ex assessore in consiglio. Può subentrare al consigliere dimissionario. Le norme su ineleggibilità e incompatibilità sono di stretta interpretazione.
Un assessore esterno, primo dei non eletti nella lista di appartenenza di un consigliere comunale dimessosi, avrebbe diritto a subentrare nella carica di quest'ultimo ai sensi dell'art. 45 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267. A tale surroga è di ostacolo il dettato dell'art. 64, comma 1, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, secondo cui nei comuni che, come nella fattispecie, hanno una popolazione superiore a 15.000 abitanti, la carica di assessore è incompatibile con la carica di consigliere comunale?

L'art. 38 del citato decreto legislativo n. 267 del 2000, al comma 4, prevede che: «I consiglieri entrano in carica all'atto della proclamazione ovvero, in caso di surrogazione, non appena adottata dal consiglio la relativa deliberazione».
Il successivo comma 8, a sua volta, dispone che: «Il consiglio, entro e non oltre dieci giorni, deve procedere alla surroga dei consiglieri dimissionari, con separate deliberazioni, seguendo l'ordine di presentazione delle dimissioni quale risulta dal protocollo».
Sulla questione, la giurisprudenza ha chiarito che «l'abdicazione dalla carica di Consigliere comunale, seppure immediatamente operativa, è logicamente e cronologicamente distinta dal subentro del primo dei candidati non eletti, che si realizza con l'adozione di un atto consequenziale e subordinato entro il termine di legge (omissis).
Ne deriva che la presentazione delle dimissioni da parte del Consigliere comunale non comporta ipso jure l'acquisizione in capo al primo dei non eletti della medesima lista dei diritti e delle prerogative connesse all'appartenenza all'organo immediatamente rappresentativo della collettività locale
».
Nel caso di specie, appare dirimente la circostanza che l'interessato ha cessato di ricoprire la carica di assessore e l'organo deliberativo dell'ente non ha ancora provveduto alla surrogazione del consigliere dimessosi.
Poiché, allo stato, l'ex amministratore locale non ricopre più alcuna carica all'interno del comune, non è ravvisabile la prospettata situazione di incompatibilità; pertanto lo stesso può legittimamente subentrare nella posizione di consigliere comunale rimasta vacante.
In tal senso depone altresì la considerazione che le disposizioni che stabiliscono ipotesi di ineleggibilità o incompatibilità alle cariche elettive si sostanziano in una limitazione al diritto di elettorato passivo, costituzionalmente garantito, e, pertanto, sono tassative e di stretta interpretazione (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO VIMINALE/ Aspettativa.
Un amministratore, lavoratore dipendente a tempo pieno presso un comune, può usufruire di un periodo di aspettativa non retribuito per mandato elettorale che preveda settimanalmente lo svolgimento di una giornata lavorativa alternata a quattro giornate di aspettativa non retribuite con correlato obbligo, da parte dell'ente locale in cui esercita il mandato, di corresponsione dell'indennità di funzione in misura intera e di versamento degli oneri previdenziali per le sole giornate di aspettativa non retribuite?

L'art. 81 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che gli amministratori comunali che siano lavoratori dipendenti possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato e il periodo di aspettativa è considerato come servizio effettivamente prestato, nonché come legittimo impedimento per il compimento del periodo di prova.
In merito alla possibilità di frazionare il periodo di aspettativa nel corso del mandato amministrativo, la Corte dei conti, con pronuncia n. 2045/1988, ha affermato che il collocamento in aspettativa non deve consistere necessariamente in un unico periodo, senza soluzione di continuità, in quanto, esso può essere frazionato in distinti periodi di minore durata, nel corso dell'espletamento del mandato.
Tuttavia, come ha già precisato il ministero dell'interno, con parere del 29.11.2004, l'aspettativa deve essere intesa come un istituto generale che sancisce la sospensione del rapporto sinallagmatico tra il datore di lavoro e il lavoratore, facendo venir meno i reciproci obblighi connessi al rapporto di lavoro subordinato, ivi inclusa la corresponsione della retribuzione.
Nel caso di specie la richiesta avanzata dall'amministratore si configurerebbe come un rapporto di lavoro part-time, nel quale coesisterebbero contestualmente sia la prestazione lavorativa che la sospensione del rapporto di lavoro, aspetti inconciliabili con l'istituto dell'aspettativa che non consentono, pertanto, di ritenere ammissibile tale istanza (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento per la licenza di pubblico spettacolo.
DOMANDA:
In data 30/04/2015 viene presentata istanza volta all’ottenimento della licenza ex artt. 68-80 TULPS. Viene dato avvio al procedimento con contestuale sospensione e viene convocata la CCVLPS.
In data 05/06/2015 si riunisce la Commissione Vigilanza e rimanda l’esame progetto in attesa di presentazione della seguenti integrazioni:
1) elaborati grafici illustranti lo stato di fatto dei luoghi, materiali, arredi, etc.;
2) descrizione precisa e puntuale del locale cucina con indicate le potenzialità degli apparecchi installati, il tipo di alimentazione e la presenza di eventuali dichiarazioni di conformità dei medesimi.
Ad oggi le integrazioni richieste non sono state prodotte per cui non si è più riunita la CCVLPS.
Con il presente quesito si chiede come debbano essere considerati i termini di conclusione del procedimento amministrativo per la parte relativa al rilascio della licenza d’esercizio ex art. 68 TULPS, posto che l’atto infraprocedimentale rappresentato dal parere di agibilità ex art. 80 è di fatto rimandato sine die. Visti i tempi trascorsi infruttuosamente e stante l’immobilismo dell’istante è possibile archiviare la pratica?
RISPOSTA:
Si premette che il D.P.R. 09.05.1994 n. 407, recante il “Regolamento recante modificazioni al decreto del Presidente della Repubblica 26.04.1992, n. 300, concernente le attività private sottoposte alla disciplina degli articoli 19 e 20 della legge 07.08.1990, n. 241”, che non risulta abrogato, alla Tabella C contenente “Elenco delle attività sottoposte alla disciplina dell'art. 20 della legge n. 241/1990 con indicazione del termine entro cui la relativa domanda si considera accolta”, prevede che per la licenza di cui all’art. 68 del TULPS si attui il silenzio assenso entro 60 giorni.
Ovviamente, pur non risultando abrogato detto provvedimento, i termini in esso contenuti sono di fatto superati dalla normativa che disciplina il SUAP (DPR 160/2000), in quanto per le domande presentate tramite questo portale tutti i termini sono ricondotti a 60 gg.. D’altro canto l’art. 20 della legge n. 241/1990 esclude dal silenzio assenso agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità (...).
Con l’emanazione del DPR 407/1994, avvenuta dopo la formulazione del citato comma 4 dell’art. 20 che già escludeva in origine dall’applicazione del silenzio-assenso gli atti riguardanti la pubblica sicurezza e la pubblica incolumità, sembrerebbe che la licenza di pubblico spettacolo non si possa annoverare tra gli atti preclusi al silenzio assenso.
Premesso questo, poiché nel quesito si dice che all’interessato è stata data sospensione del procedimento (art. 2, comma 7, della legge 241/1990), il silenzio-assenso non si attua e quindi, non avendo l’interessato prodotto nei termini le integrazioni richieste, occorre inviare la comunicazione di cui all’art. 10- bis della legge 241/1990 per poi procedere con l’emanazione di un diniego (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: La procedura abilitativa semplificata.
DOMANDA:
Qual è la corretta cifra da indicare sul verbale di contestazione, a titolo di pagamento in misura ridotta, per la violazione del terzo comma dell’art. 44 del D.Lgs. 28/2011 e qual è l’autorità amministrativa competente alla ricezione del rapporto ed ancora a chi spettano le somme?
RISPOSTA:
Va premesso che dalle notizie riferite dovrebbe trattarsi di intervento non ricadente nel regime di edilizia libera di cui all'art. 11, comma 3, D.lgs. 30/05/2008, n. 115 e all'art. 6 DPR 06.06.2001, n. 380 e paragrafi 11 e 12 Linee Guida (DM 10/09/2010) e in quello dell'autorizzazione unica di cui all'art. 5 del D.lgs. 28.03.2011, n. 71.
Ciò premesso si osserva che il comma 3 dell’art. 44 del D.Lgs. n. 28/2001 prevede che “Fatto salvo l'obbligo di conformazione al titolo abilitativo e di ripristino dello stato dei luoghi, la violazione di una o più prescrizioni stabilite con l'autorizzazione o con gli atti di assenso che accompagnano la procedura abilitativa semplificata di cui all’art. 6, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari ad un terzo dei valori minimo e massimo di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 2, e comunque non inferiore a euro 300. Alla sanzione di cui al presente comma sono tenuti i soggetti di cui ai commi 1 e 2”.
Il precedente art. 6 disciplina la cd. PAS (procedura abilitativa semplificata) la quale prevede un particolare procedimento (che sostituisce la DIA e la SCIA) nell’ambito del quale è stabilita la competenza del Comune come soggetto che valuta la effettiva sussistenza delle condizioni previste ex lege in presenza delle quali risulta ammissibile tale forma semplificata di autorizzazione che riguarda essenzialmente la conformità urbanistica dell’intervento richiesto (il comma 2 di tale articolo prevede infatti che “Il proprietario dell'immobile o chi abbia la disponibilità sugli immobili interessati dall'impianto e dalle opere connesse presenta al Comune, mediante mezzo cartaceo o in via telematica, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, una dichiarazione accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che attesti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i regolamenti edilizi vigenti e la non contrarietà agli strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”).
Pertanto considerata la competenza del Comune al riguardo vertendosi in materia urbanistica, si è dell’avviso che l’applicazione delle sanzioni per violazioni attinenti a tale materia sia di competenza dello stesso Comune che è il soggetto istituzionalmente competente nella materia stessa.
Quanto all’importo concreto da applicare come sanzione, non è possibile indicarlo preventivamente poiché esso dipende dal conteggio da effettuare in base ai criteri previsti al citato comma 6 dovendo essere pari ad un terzo dei valori minimo e massimo indicati al precedenti commi 1 o 2 e comunque non inferiore a 300 euro (a seconda del tipo di intervento se relativo ad impianti termici o meno ed al tipo di violazione riscontrata, in ragione della parte non autorizzata dell’impianto) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Certificazione energetica con un nuovo «format». Immobili. Le linee guida dei notai sull’obbligo dal 1° ottobre.
Con l’approssimarsi della data di entrata in vigore (il 01.10.2015) del decreto del ministero dello Sviluppo economico del 26.06.2015, recante le Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici, il Consiglio nazionale del notariato ha fatto il punto su questa complessa materia (studio 18.09.2015).
La nuova disciplina ha la finalità di armonizzare le norme in materia di prestazione energetica degli edifici e troverà immediata applicazione nelle Regioni che non hanno ancora adottato specifiche disposizioni in materia, nonché nelle Regioni e le Province autonome che hanno legiferato recependo solamente le prescrizioni della direttiva 2002/91/Ce (senza conformarsi alla direttiva 2010/31/Ue). Invece le Regioni e Provincie autonome che hanno già legiferato in maniera conforme alla direttiva 2010/31/Ue hanno l’onere di adeguarsi ai principi dettati dal decreto del Mise entro il 01.10.2017.
Questo intento di uniformazione avrà l’apice della sua espressione in un nuovo format di Ape (l’attestato di prestazione energetica), contenuto nell’appendice “B” delle Linee guida e che dovrà essere utilizzato per tutti gli attestati che verranno prodotti dal 1° ottobre in poi. Si conferma la regola per cui l’Ape ha validità decennale. Restano peraltro validi gli attestati redatti prima dell’entrata in vigore del decreto del Mise.
Una importante novità introdotta dal decreto consiste nell’indicazione delle informazioni che l’Ape deve riportare a pena di invalidità (mentre fino a oggi non vi era alcuna disposizione -né legislativa né regolamentare- che disciplinasse in maniera analitica il contenuto). La questione non è di poco conto in quanto l’allegazione di un Ape invalido a un contratto di compravendita (sempre ferma restando, beninteso, la validità del contratto) sarà punita con in modo uguale alla sua mancanza, ossia con una sanzione pecuniaria da 3mila a 18mila euro.
Altra importante novità del decreto è la previsione che il soggetto incaricato di redigere l’attestato deve obbligatoriamente effettuare almeno un sopralluogo nell’edificio.
Con particolare riferimento alla classificazione degli immobili, le Linee guida dispongono l’impiego di una differente classificazione rispetto a quella finora utilizzata: si prevede innanzitutto il contrassegno con una serie di lettere alfabetiche, dalla G (che rappresenta la classe caratterizzata dall’indice di prestazione più elevato ossia con maggiori consumi energetici) alla A (che rappresenta la classe con il miglior indice di prestazione, ossia i minori consumi energetici).
Con riferimento agli immobili in classe A, inoltre, un indicatore numerico identificherà i livelli di prestazione energetica in ordine crescente, da 1 (indicante il livello più basso) a 4 (che rappresenterà la classe di prestazione energetica più efficiente); si prevede, inoltre, la possibilità di indicare come “edificio a energia quasi zero” quelli dotati di fonti energetiche rinnovabili e che siano caratterizzati da una altissima efficienza energetica.
Quanto al rilascio dell’attestato, occorre rilevare che -mentre finora il soggetto certificatore era obbligato a trasmettere l’attestato all’organo territorialmente competente entro quindici giorni dal suo rilascio- è ora stato invertito l’ordine temporale, per cui l’attestato può essere consegnato al richiedente solo dopo che siano trascorsi quindici giorni dalla sua trasmissione, in forma di dichiarazione sostitutiva di atto notorio all’ente territorialmente competente; si tratta, però, di una prescrizione senza sanzioni, che non incide sulla validità dell’Ape.
Le Linee guida hanno previsto, inoltre, un nuovo format per l’indicazione della classe energetica degli edifici negli annunci commerciali, esclusi quelli effettuati tramite internet o a mezzo stampa, i quali dovranno indicare: la classe energetica in cui si trova l’immobile; l’indice della prestazione energetica rinnovabile; la prestazione energetica del fabbricato, in inverno e in estate
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'energia attestato unico. Le nuove regole sull'Ape al via dall'01.10.
L'Ape cambia pelle. Dal prossimo 1° ottobre (si veda ItaliaOggi di ieri) proprietari e operatori del settore dovranno tenere conto delle numerose novità introdotte dai decreti del ministero dello sviluppo economico del 26.06.2015 (pubblicati sulla G.U. n. 162 del 15.07.2015).

Una prima rassicurazione: gli attestati di prestazione energetica redatti prima di tale data conformemente alle regole oggi in vigore manterranno comunque la propria validità, ad esempio per essere allegati agli atti di vendita degli immobili (lo ha confermato anche il Consiglio nazionale del notariato nel proprio
studio 18.09.2015).
Un avvertimento: le nuove regole si applicheranno immediatamente in quelle regioni e province autonome che non abbiano ancora adottato specifiche disposizioni in materia di certificazione energetica o che, pur avendo già legiferato, abbiano recepito esclusivamente le prescrizioni della precedente direttiva 2002/91/Ce e non si siano ancora conformate alla direttiva 2010/31/Ue. Le altre regioni, infatti, avranno tempo per adeguare la propria normativa fino all'01.10.2017. Il nuovo attestato sarà quindi unico sull'intero territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea, e porterà a 10 le classi energetiche (la classe A viene infatti spacchettata in quattro, di cui la A4 rappresenterà quella più efficiente).
Gli operatori del settore saranno in linea di massima facilitati. Gli agenti immobiliari avranno infatti uno schema unico di annuncio di vendita e locazione, mentre i progettisti potranno contare su schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto. Nella redazione dell'Ape bisognerà però prestare la massima attenzione a rispettare il contenuto minimo previsto dai decreti ministeriali e dalle relative linee guida, perché la mancanza anche di una sola delle informazioni obbligatorie comporta l'invalidità dell'attestato.
E in questi casi le sanzioni sono davvero salate. Ad esempio per un atto di vendita una disattenzione del genere potrebbe costare dai 3 mila ai 18 mila euro (articolo ItaliaOggi del 24.09.2015).

APPALTI: Appalti senza regolamento, linee guida Anac-Ministero. Trovata l’intesa sull’emendamento per semplificare l’attuazione.
Contratti pubblici. Confermato l’alleggerimento del codice: Porta Pia affiancherà Cantone.
Resta fermo l’obiettivo della semplificazione, con la conferma dell'addio al regolamento appalti. Ma il compito di guidare il mercato nelle delicatissima fase di transizione tra vecchio e nuovo codice non spetterà solo all'Autorità Anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, come sembrava certo fino a solo poche ore fa.
A dettare le linee guida per il mercato, subito dopo l’entrata in vigore del nuovo codice, saranno insieme il ministero delle Infrastrutture e l’Anac. Con una formula di “coabitazione” che almeno formalmente mantiene in pista l’idea della regolamentazione flessibile, della «soft law» adattabile alle evoluzioni di mercato, ma che nei fatti ridimensiona la portata del trasferimento di poteri di regolazione all’Autorità.
La novità trapela a tarda sera, al termine di un lungo incontro tra il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e lo stesso Cantone, in vista della stesura dell’emendamento destinato a mandare in soffitta il regolamento monstre (359 articoli e svariati allegati) che ora contiene le norme di dettaglio sugli appalti pubblici. Da Porta Pia sottolineano che la nuova linea è stata trovata in piena intesa con l’Anac. L’impressione però è che almeno sottotraccia il progetto di trasferire tutti i poteri di regolazione del settore all’Anac qualche tensione l’abbia creata.
Come peraltro sembra confermare l’allungamento dei tempi per la messa a punto dell’emendamento al testo della delega che la commissione Lavori pubblici della Camera attendeva per ieri. L’intesa sarà peraltro rimessa alla valutazione del relatore del provvedimento, Raffaella Mariani. Quindi è possibile che alla fine l’emendamento non venga presentato direttamente dal Governo, ma al contrario transiti per vie parlamentari.
In ogni caso a questo punto si dovrebbe sbloccare l’impasse che ha tenuto ferma la commissione in questi giorni. Oltre all’addio al regolamento sono già state annunciate diverse altre modifiche al testo approvato dal Senato. Confermati gli emendamenti già annunciati da parte della relatrice Raffaella Mariani.
Modifiche in arrivo, dunque, per il bonus 2% concesso ai progettisti della Pa. L’incentivo rimarrà. Però non riguarderà più la progettazione, ma le attività di controllo e vigilanza delle amministrazioni. Altre misure sono annunciate per favorire l'accesso al mercato da parte delle Pmi, per sospendere da subito l'operatività del performance bond che sta bloccando diverse gare di appalto da centinaia di milioni e per dare l'addio alla legge obiettivo.
Nonostante le indiscrezioni degli ultimi giorni, dal Governo non dovrebbero arrivare invece ritocchi alla disciplina delle concessioni e del regime di affidamento dei lavori (100% in gara) da parte delle concessionarie (in primis autostradali) definiti in Senato. Se ci saranno delle correzioni arriveranno dal Parlamento
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Salasso sulle case senza Ape. Multe fino a 18.000 euro a chi non utilizza il nuovo bollino. Dal 1° ottobre è in vigore il nuovo attestato di prestazione energetica per vendite e locazioni.
Autunno caldo sul fronte dell'efficienza energetica. Per la vendita o l'affitto di un immobile, dal 1° ottobre entrerà in vigore il nuovo Ape. Previste sanzioni pecuniarie per chi non si atterrà al nuovo attestato di prestazione energetica: il certificatore, dovrà pagare una multa da 700 euro a 4.200 euro per un Ape compilato scorrettamente, al costruttore o al proprietario, spetta una sanzione da 3.000 a 18.000 euro se non presenta l'Ape per gli edifici nuovi, ristrutturati e se mette in vendita o in affitto l'immobile e il direttore dei lavori, dovrà pagare una multa da 1.000 a 6.000 euro se non presenterà l'Ape al comune.
Queste novità sono contenute nel decreto del ministero dello sviluppo economico emanato di concerto con altri ministeri competenti (ambiente, infrastrutture, semplificazione e difesa) del 26.06.2015 [G.U. 15.07.2015 n. 162, suppl. ord. n. 39:
1- Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
2- Schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto ai fini dell’applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015);
3- Adeguamento del decreto del Ministro dello sviluppo economico, 26.06.2009 - Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 26.06.2015)] sulle nuove linee guida per la redazione dell'attestato di prestazione energetiche.
Contenuti Ape. Dal 1° ottobre l'attestato di prestazione energetica sarà unico per tutto il territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea. Le classi energetiche non saranno più sette ma dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore).
Il nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica globale sia in termini di energia primaria totale che di energia primaria non rinnovabile. Inoltre la classe energetica dovrà essere determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale, espresso in energia primaria non rinnovabili. Verrà realizzato e un sistema informativo comune in tutta Italia, denominato Sape, contenente tutti i dati relativi agli attestati di prestazione energetica, in modo che le regioni potranno attivare i relativi controlli.
Le regioni e le province autonome al fine di effettuare i controlli della qualità degli attestati di prestazione energetica redatti dai certificatori energetici dovranno definire piani e procedure di controllo che consentiranno di analizzare almeno il 2% degli attestati depositati territorialmente ogni anno solare.
Prestazione globale. Il nuovo attestato di prestazione energetica dovrà riportare obbligatoriamente la prestazione energetica globale dell'edificio sia in termini di energia primaria totale che di energia primaria non rinnovabile, attraverso i rispettivi indici. Inoltre dovrà essere indicata la classe energetica, determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale dell'edificio (espresso in energia primaria non rinnovabile), la qualità energetica del fabbricato, ossia la capacità di contenere i consumi energetici per il riscaldamento e il raffrescamento (attraverso gli indici di prestazione termica utile per la climatizzazione invernale ed estiva dell'edificio) e i valori di riferimento (come i requisiti minimi di efficienza energetica vigenti). L'ape dovrà contenere i consumi energetici non solo per il riscaldamento invernale ma anche per le attività di rinfrescamento estivo e dovrà riportare l'emissione di anidride carbonica e l'energia esportata.
Schema annuncio vendita e locazione. Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente. Inoltre verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione ai non tecnici
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Gli obblighi dei progettisti.
Il progettista ha l'obbligo di stilare una relazione tecnica attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e dei relativi impianti termici. Tre gli schemi di relazione tecnica a disposizione del tecnico, a seconda che il progetto riguardi nuove costruzioni, ristrutturazioni importanti o interventi di riqualificazione energetica.
È col decreto del 26.06.2015 del ministro dello Sviluppo economico (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15.07.2015 n. 162) che vengono forniti gli schemi e modalità di riferimento per la compilazione della relazione tecnica di progetto ai fini dell'applicazione delle prescrizioni e dei requisiti minimi di prestazione energetica negli edifici. Il progettista o i progettisti, nell'ambito delle rispettive competenze edili, impiantistiche termotecniche, elettriche e illuminotecniche, dovranno inserire i calcoli nella relazione tecnica di progetto attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici, che il proprietario dell'edificio, o chi ne ha titolo, deve depositare presso le amministrazioni competenti, in doppia copia, contestualmente alla dichiarazione di inizio dei lavori complessivi o degli specifici interventi proposti, o alla domanda di concessione edilizia. L'entrata in vigore di questo decreto è al 01.10.2015.
Nello specifico il decreto tecnico fornisce ai progettisti una bussola sui dati (e come) da inserire relativamente a elementi edili, termotecnici, illuminotecnici; e come poi debbano eseguire i calcoli e le verifiche. In modo da redigere poi la relazione tecnica di progetto che attesta l'effettiva rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e dei relativi impianti termici. Il decreto sulla relazione tecnica è un adempimento previsto dal dlgs 19.08.2005, (articolo 8, comma 1), che recepisce la direttiva 2010/31/Ue sulle prestazioni energetiche degli edifici.
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Stretta per gli edifici energivori. Dal 2021 case a impatto 0.
Dal 01.10.2015 i requisiti minimi di prestazione energetica degli edifici saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni cinque anni, prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a energia quasi zero. La classificazione degli edifici avverrà in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa e tecnica della prestazione degli immobili.
Tutto questo lo prevede un decreto del ministero dello sviluppo economico, emanato di concerto con altri ministeri competenti (ambiente, infrastrutture, semplificazione e difesa) del 26.06.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15.07.2015 n. 162) sull'applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici. I nuovi requisiti si applicheranno agli edifici pubblici e privati, siano essi edifici di nuova costruzione o edifici esistenti sottoposti a ristrutturazione.
L'Ape conterrà anche gli indici di climatizzazione estiva, di illuminazione, l'indicazione dell'energia prelevata dalla rete e i vantaggi legati alle diagnosi energetiche e agli interventi di riqualificazione energetica, con lo scopo di rendere più reali le raccomandazioni già oggi presenti nell'attestato.
Calcolo prestazione. La prestazione energetica degli edifici sarà determinata sulla base della quantità di energia necessaria annualmente per soddisfare le esigenze legate a un uso standard dell'edificio e corrisponde al fabbisogno energetico annuale globale in energia primaria per il riscaldamento, il raffrescamento, per la ventilazione, per la produzione di acqua calda sanitaria e, nel settore non residenziale, per l'illuminazione, gli impianti ascensori e scale mobili.
Qualora un edificio sia costituito da parti individuabili come appartenenti a categorie diverse, ai fini del calcolo della prestazione energetica, le stesse dovranno essere valutate separatamente, ciascuna nella categoria che le compete. L'edificio sarà valutato e classificato in base alla destinazione d'uso prevalente in termini di volume climatizzato.
Scostamento massimo. Gli strumenti di calcolo, o software commerciali per l'applicazione delle metodologie, dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione energetica, calcolati attraverso il loro utilizzo, abbiano uno scostamento massimo del 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con l'applicazione dello strumento nazionale di riferimento. Il comitato termotecnico italiano predisporrà lo strumento nazionale di riferimento sulla cui base verrà fornita una apposita garanzia.
Indice di prestazione energetica. L'indice di prestazione verrà sempre valutato in kWh/m2 di superficie climatizzata, sia per gli edifici residenziali che per i non residenziali. L'attestato di prestazione energetica conterrà quindi gli indici per la climatizzazione estiva e per l'illuminazione degli ambienti e verrà chiaramente l'energia esportata alla rete.
Al termine della certificazione energetica si aggiungerà un'apposita sezione dedicata alle opportunità legate all'esecuzione di diagnosi energetiche e interventi di riqualificazione energetica al fine di rendere più concrete le raccomandazioni già dichiarate sul certificato (articolo ItaliaOggi del 23.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., corsa alla mobilità fai-da-te. Accelerazione delle richieste per dribblare il decreto Madia. L'imminente entrata in vigore del dpcm sugli esuberi provinciali sta creando caos negli enti
Sulla mobilità dei dipendenti delle province si sta scatenando il caos, mentre il dpcm in attesa di registrazione da parte della Corte dei conti non risolve alcuni problemi fondamentali.

Proprio l'imminente annunciata entrata in vigore del dpcm ha attivato molte amministrazioni che fin qui per tutto il 2015 si sono guardate bene dall'assumere dipendenti provinciali in sovrannumero. Il timore di non poter gestire discrezionalmente la scelta dei dipendenti, dovendo sottostare ai criteri meccanici ed oggettivi del dpcm, spinge molte amministrazioni a un'improvvisa accelerazione delle richieste e delle procedure di mobilità, che certo non giova alla razionalità del sistema, specie a pochi giorni dall'entrata a regime del funzionamento della piattaforma mobilita.gov.it, presso la quale dovranno transitare in via esclusiva domanda e offerta di mobilità.
Dunque, nonostante il dpcm contenga una disciplina transitoria per fare salve le procedure in corso, si è aperto un vero assalto per chiudere in fretta e furia le mobilità attivate un po' a macchia di leopardo nel territorio. A partecipare al caos si è aggiunto anche il Miur che attraverso i propri uffici provinciali, come a Verona, ha invitato dipendenti provinciali a presentare domanda di mobilità intercompartimentale, senza per altro nemmeno indicare quanti posti sarebbero disponibili, per quali qualifiche e mansioni.
Non si tratta di un vero e proprio bando, ma di una sorta di raccolta di manifestazione di interesse alla mobilità, oggettivamente poco conciliabile con gli intenti del portale mobilita.gov.it. Il dpcm, dunque, lungi dall'agevolare il processo di mobilità, involontariamente finisce per generare ulteriore confusione. Anche perché lascia aperte troppe incertezze.
Non si comprende cosa accada se le province non inseriranno i nominativi dei dipendenti soprannumerari. L'adempimento non è nemmeno configurato come obbligatorio; infatti, l'articolo 4, comma 4, dello schema di dpcm contempla espressamente, senza sanzionarla, la possibilità che le province non carichino i dati. Il rimedio previsto è che ciascun dipendente singolarmente presenti istanza di mobilità sulla piattaforma: ma, se il dipendente non è formalmente individuato come soprannumerario, come è possibile sia presente in piattaforma?
Un altro possibile inadempimento è quello delle regioni, le quali potrebbero lasciar decorrere la scadenza del 31 ottobre 2015, entro la quale ai sensi del dl 79/2015, dovrebbero riordinare le funzioni provinciali. In questo caso, entro il 30 novembre, le regioni dovrebbero, allora, trasferire alle province le risorse per sostenere i costi delle funzioni non trasferite.
Questo pone un problema operativo rilevantissimo: poiché si deve supporre che le regioni saranno obbligate a rifondere alle province anche i costi del personale, non si capisce a quale titolo detto personale sarà ancora da considerare in sovrannumero (articolo ItaliaOggi del 23.09.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a. con valutazioni doc. Performance misurate da enti indipendenti. Pronto il dpr sulla supervisione delle pubbliche amministrazioni.
Saranno scelti da un elenco nazionale tenuto dal Dipartimento della funzione pubblica i componenti degli organismi indipendenti di valutazione nominati dalle amministrazioni pubbliche.

È questa una delle novità di maggior rilievo introdotte dallo schema di decreto del presidente della repubblica recante il regolamento di disciplina delle funzioni del Dipartimento della funzione pubblica in materia di misurazione e valutazione della performance nelle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di un regolamento delegato di delegificazione, col quale il governo intende semplificare e rivedere in parte la normativa sulla valutazione dei risultati da parte delle p.a., contenuta nella «riforma Brunetta», il dlgs 150/2009, adempiendo a quanto previsto dall'articolo 19, comma 10, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014.
Il regolamento punta molto sulla standardizzazione e centralizzazione delle varie attività finalizzate alla valutazione. Per questo, punta alla creazione di un «corpo» coordinato dei soggetti che possono far parte degli Oiv, sottraendo in parte alle amministrazioni pubbliche l'ampio margine di discrezionalità che il dlgs 150/2009 assicurava loro per nominarli.
Come detto, i componenti degli Oiv potranno essere nominati solo tra coloro che faranno parte dell'Elenco nazionale, la cui istituzione è demandata a un decreto, col quale si stabiliranno i requisiti soggettivi per ottenere l'iscrizione nell'elenco. Una volta che sia istituito, le nuove nomine dovranno passare necessariamente per questa sorta di albo; come diritto transitorio, i componenti degli Oiv già nominati resteranno in carica fino alla naturale scadenza.
La funzione di coordinamento della valutazione della performance nella p.a., per effetto del decreto, passerà dall'Anac, che aveva assorbito le competenze della disciolta Civit, al Dipartimento della funzione pubblica, chiamato a razionalizzare il sistema, secondo una serie di indirizzi. Palazzo Vidoni dovrà garantire la riduzione degli adempimenti e degli oneri informativi, la reale integrazione tra processo di valutazione e sistemi di programmazione economico-finanziaria, supportare l'uso di indicatori (numerici e quantitativi) nei processi di valutazione, puntare alla comparabilità dei sistemi di valutazione, i quali dovranno essere capaci di abbracciare anche un arco pluriennale.
Palazzo Vidoni dovrà semplificare la documentazione necessaria alla valutazione, anche attraverso linee guida e modelli semplificati, valorizzando la sperimentazione delle buone pratiche, così da diffondere strumenti efficaci e promuovere l'evoluzione e l'efficienza dei sistemi.
L'attività di coordinamento dovrà tenere conto anche dell'esigenza di valorizzare la reale indipendenza degli Oiv. Il Dipartimento, allo scopo di razionalizzare il sistema, disporrà criteri e parametri per aiutare le amministrazioni a definire gli importi massimi dei compensi dei componenti degli Oiv, ed evitare che siano lasciati integralmente alla discrezionalità di chi li nomina.
Per svolgere le attività previste dal dpr, il Dipartimento potrà costituire una Commissione tecnica per la performance composta da 5 componenti scelti tra professori o docenti universitari, dirigenti pubblici ed esperti provenienti anche dal privato, con la dotazione di 25 dipendenti, dei quali 5 con qualifica dirigenziale, reperiti anche tra dipendenti in comando o fuori ruolo delle pubbliche amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 22.09.2015).

SEGRETARI COMUNALI: Dai diritti di rogito alle convenzioni: dal giudice gli stipendi dei segretari. Personale. Cresce il contenzioso sull’applicazione dei tagli.
Le pesanti limitazioni imposte al trattamento economico dei segretari comunali dalle interpretazioni della Corte dei Conti, dell’unità di missione del ministero dell’Interno e della Ragioneria generale dello Stato sollevano problemi applicativi e sono oggetto di contestazioni giurisdizionali.
Va ricordata la possibilità di erogare i diritti di rogito solo ai segretari non dirigenti, le modalità di calcolo della popolazione dei Comuni in convenzione e l’applicazione del divieto di reformatio in peius in caso di passaggio a un Comune di classe inferiore. Limiti che derivano rispettivamente dal Dl 90/2014, dal mutato orientamento della Rgs fatto proprio dal Viminale e dalla manovra 2014.
Senza dimenticare il “superamento” della figura del segretario fra tre anni disposto dalla legge 124/2015 e le incertezze sulla loro collocazione nel nuovo albo dei dirigenti degli enti locali.
La sezione autonomie della Corte dei Conti, con la deliberazione n. 21/2015, sciogliendo i contrasti interpretativi sorti tra le sezioni regionali, ha chiarito che i compensi per i diritti di rogito spettano solo ai segretari di fascia C, cioè quelli che non sono equiparati ai dirigenti. Ovviamente le sezioni regionali si sono uniformate, anche se qualcuna ha reso evidente le proprie perplessità su un’interpretazione che non sembra aderente alla lettera e allo spirito della nuova norma.
Occorre capire se la stessa lettura sarà fornita dai giudici ordinari a cui alcuni segretari si sono nel frattempo rivolti. Si deve inoltre chiarire che regola applicare ai compensi erogati prima della delibera a segretari di fascia A e B nei Comuni privi di dirigenti. Questa questione che si pone tutte le volte in cui un parere della sezione Autonomie sposa un’interpretazione restrittiva: occorre o meno dare corso a recuperi sui compensi erogati in precedenza?
L’unità di missione del ministero dell’Interno, sulla scorta degli orientamenti di Aran e Ragioneria generale dello Stato, ha stabilito nei mesi scorsi che la popolazione dei Comuni in convenzione si calcola non più sommando quella degli enti aderenti, ma solo con riferimento a quella del Comune capofila, chiarendo che il vincolo si applica alle convenzioni stipulate successivamente. Per applicare una sorta di “par condicio”, ha inoltre consentito ai segretari di fascia C, che possono essere nominati solo nei Comuni fino a 3mila abitanti, di svolgere, a differenza del passato, la propria attività in convenzioni aventi popolazione superiore a 3mila abitanti se i singoli Comuni aderenti hanno una popolazione inferiore.
Anche in questo caso sono stati avviati contenziosi contro questa interpretazione, ricordando la diversa posizione assunta formalmente dalla vecchia Agenzia dei segretari con una delibera. Si pone il problema applicativo che riguarda le convenzioni stipulate a seguito delle elezioni amministrative della scorsa primavera come mera proroga di quelle esistenti: a queste si applicano o meno le nuove regole sul calcolo della popolazione o le si considerano come prolungamenti delle vecchie convenzioni, quindi esenti?
Con la legge di stabilità del 2014 è stato abrogato il divieto di reformatio in peius, per cui i segretari che sono passati o che passeranno da un Comune di classe superiore a uno di classe inferiore si vedono ridotto il trattamento economico. L’unica eccezione si ha nel caso in cui il passaggio non avvenga direttamente, ma a seguito del collocamento in disponibilità.
Anche in questo caso sono in corso contenziosi giurisdizionali. E si pone il dubbio se queste regole si debbano applicare anche ai passaggi effettuati prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Tempi certi per contestare i lavori. Termine unico di 18 mesi assegnato ai Comuni per revocare assensi e autorizzazioni.
Riforma della Pa. Finisce l’indeterminatezza sui poteri di intervento in autotutela relativi a Scia, Dia e permessi di costruire.

La legge di riforma della Pubblica amministrazione (la n. 124/2015) ha modificato gli effetti derivanti dal silenzio dell’amministrazione riguardo alle Segnalazioni certificate per l’inizio dell’attività (Scia) utilizzabili in edilizia per avviare i lavori meno complessi.
Sulla base del previgente testo dell’articolo 19 della legge 241/1990, l’amministrazione, in caso di assenza delle condizioni legittimanti la segnalazione, poteva adottare motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi, entro 30 giorni dalla presentazione della segnalazione. Decorso questo termine, alla Pa era consentito intervenire solo in caso di pericolo per l’integrità del patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale.
Testualmente la norma non affidava all’amministrazione alcun ulteriore potere di intervento. Ma sul punto era intervenuta la Corte costituzionale (con sentenza n. 188/2012) chiarendo che in materia edilizia la disposizione non avrebbe potuto privare l’amministrazione del potere di autotutela, ossia del potere di intervenire previo avviso di avvio del procedimento e previa valutazione comparativa dell’interesse pubblico e di quello privato.
Alla luce della natura della Scia (che non è un provvedimento abilitativo tacito) la Pa non poteva però assumere atti di annullamento o revoca, ma solo disporre la rimozione degli effetti dell’attività edilizia con l’irrogazione di eventuali sanzioni.
A seguito della riforma Madia il quadro è parzialmente mutato. All’amministrazione, in linea con quanto dedotto dalla Corte costituzionale, è stato ora espressamente affidato un potere di intervento maggiore seppur entro un limite definito. In particolare:
in caso di carenza dei requisiti legittimanti, l’amministrazione, come in passato, può adottare provvedimenti inibitori entro 30 giorni dal ricevimento della segnalazione;
nel caso in cui sussistano le condizioni per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, ossia quando l’amministrazione ha accertato l’illegittimità dell’attività edilizia, i provvedimenti inibitori possono essere adottati anche una volta decorsi i 30 giorni. La riforma è però intervenuta anche riguardo al termine entro il quale l’autotutela può essere esercitata, in precedenza non puntualmente precisato dalla legge: in base alla nuova formulazione dell’articolo 21-nonies della legge 241/1990 l’annullamento in autotutela può essere infatti esercitato entro 18 mesi dall’adozione delle autorizzazioni o dall’attribuzione al privato dei vantaggi economici derivati.
Una revisione normativa incardinata sugli effetti del silenzio che garantisce maggior certezza al settore,ma che non è priva di criticità: in caso di Scia, la nuova formulazione della norma difatti lascia spazio ad interpretazioni diverse in merito al giorno dal quale decorrono i 18 mesi. Allo stato si può ritenere che l’attribuzione di vantaggi economici intervenga, con buon grado di certezza, dal completamento dei lavori, ma non è escluso che la giurisprudenza che potrà formarsi sul punto fissi questa data in un momento diverso.
In materia edilizia, il silenzio dell’amministrazione ha sempre avuto un ruolo ben preciso. L’effetto più rilevante è quello della formazione del titolo abilitativo per silenzio-assenso, espressamente previsto solo per i permessi di costruire. Il Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) prevede che, salvo provvedimenti di diniego espressi e ad eccezione dei casi in cui sussistano vincoli, se decorre inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, il permesso di costruire si intende formato per silenzio-assenso. In questo caso, il silenzio equivale a un vero e proprio provvedimento di accoglimento della domanda.
Diversamente, gli istituti della Scia e della Dia, in base all’articolo 19 della legge 241/1990, non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. In questi casi, il silenzio dell’amministrazione non comporta quindi la formazione di un provvedimento tacito, ma ha comunque un effetto rilevante: è determinante ai fini della definizione delle azioni repressive in materia di interventi soggetti a Scia e Dia. Come precisato dalla giurisprudenza, infatti, in assenza delle condizioni legittimanti la Dia, l’amministrazione può esercitare il potere inibitorio nel termine di 30 giorni dalla presentazione della denuncia.
Decorso senza esito il termine per l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione dispone del potere di autotutela (Consiglio di Stato, n. 5751/2012).
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Più tutelati anche i grandi investitori. Le conseguenze. L’applicazione della nuova norma.
La legge di riforma della Pa ha previsto misure per garantire l’affidamento dei privati rispetto ai provvedimenti amministrativi.
La legge introduce infatti un limite temporale alla possibilità dell’amministrazione di esercitare il potere di annullamento in autotutela dei provvedimenti illegittimi, pari a 18 mesi dall’adozione dei provvedimenti stessi o dall’attribuzione dei correlati vantaggi economici.
Questa previsione in materia edilizia ha il pregio di dare maggiori garanzie agli investimenti nel settore.
L’annullamento in autotutela dei provvedimenti amministrativi, espressi o taciti, o comunque il non tempestivo intervento dell’amministrazione rispetto alle attività edilizie illegittime genera infatti rilevanti criticità.
Con riguardo ai permessi di costruire, la fattispecie è espressamente disciplinata all’articolo 38 del Dpr 380/2001, il quale prevede che, in caso di annullamento del titolo, qualora la rimozione dei vizi delle procedure o la restituzione in pristino non sia possibile, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite.
Il pagamento della sanzione pecuniaria produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria.
A fronte di un’opera eseguita sulla base di un titolo edilizio illegittimo, l’amministrazione può dunque procedere all’annullamento e deve con priorità ingiungere la remissione in pristino dei luoghi.
In alternativa se il ritorno alla situazione precedente non è percorribile, il Comune può applicare una sanzione pecuniaria, il cui pagamento legittima la permanenza dell’opera.
Come detto, in forza della riforma in esame, il potere di annullamento d’ufficio del permesso potrà però essere legittimamente esercitato entro un termine massimo pari a 18 mesi dal rilascio del titolo.
Riguardo invece agli interventi realizzabili mediante Scia, la legge 241/1990 affida all’amministrazione un termine pari a 30 giorni, entro il quale, in caso di carenza dei requisiti previsti per la presentazione della segnalazione, la stessa potrà ordinare la sospensione delle lavorazioni e la rimozione degli effetti dannosi già cagionati.
Con la legge 124/2015, il provvedimento inibitorio potrà essere assunto anche oltre i 30 giorni, ma solo se sussistano le condizioni per un annullamento in autotutela, ossia se sussistano profili di illegittimità delle opere in progetto e, al contempo, se non siano decorsi i 18 mesi dall’attribuzione dei vantaggi economici connessi all’attività edilizia. Il limite dei 18 mesi tutela l'affidamento degli sviluppatori e riduce i margini di rischio per gli investimenti nel settore.
Nondimeno, la riforma garantisce gli acquirenti finali di singole unità immobiliari incluse in più ampi progetti di riqualificazione o di nuova realizzazione, i quali vedono ridotto il loro rischio di incorrere in inaspettate interruzioni delle lavorazioni o, ancora peggio, il rischio di dover fronteggiare personalmente complessi procedimenti amministrativi derivati da vizi dei titoli abilitativi non tempestivamente rilevati dai Comuni.
     (articolo Il Sole 24 Ore del 21.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Auto, dal 18/10 basta tagliando sul parabrezza.
Dal 18 ottobre cesserà l'obbligo di esporre sul parabrezza il classico contrassegno assicurativo. I controlli saranno infatti affidati agli strumenti elettronici in dotazione agli organi di controllo e alle telecamere.

Lo ha chiarito ieri l'Associazione nazionale delle imprese assicuratrici con una guida pratica pubblicata sul proprio portale.
La dematerializzazione dei contrassegni assicurativi prende il via con il dl n. 1/2012 che prevede il progressivo superamento del contrassegno assicurativo cartaceo. Il ministro dello sviluppo economico, di concerto con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentito l'Isvap, ha poi emanato il regolamento 09.08.2013, n. 110, che dettaglia la progressiva introduzione concreta della riforma. Con la messa a regime della banca dati aggiornata in tempo reale ora la polizia stradale può conoscere subito la situazione assicurativa di un veicolo.
Ed effettuare controlli in occasione del transito dei mezzi davanti ad un autovelox, un tutor o un varco di accesso alle zone a traffico limitato. L'Ania evidenzia le novità per gli automobilisti. Il contrassegno assicurativo dal 18 ottobre non dovrà più essere esposto, perché facile da falsificare e quindi ormai obsoleto. Le forze dell'ordine effettueranno controlli elettronici tramite il ced della motorizzazione, direttamente in strada o in caso di impiego di autovelox, tutor, e telecamere.
La banca dati sarà aggiornata praticamente in tempo reale, specifica l'Ania, «in questo modo, anche pochi minuti dopo la stipula del contratto è possibile circolare». Agli assicurati le compagnie continueranno a rilasciare il tradizionale tagliando per un periodo sperimentale. Successivamente verrà rilasciato solo una copia del contratto assicurativo con la quietanza di pagamento che sarà importante in caso di sinistro.
Gli utenti coinvolti in un incidente, specifica l'Ania, infatti dovranno scambiarsi necessariamente queste informazioni anche dopo l'entrata in vigore della riforma. Per chi circola senza assicurazione (nel 2014 quasi il 9% dei veicoli) la multa è molto salata ed è previsto l'immediato sequestro del veicolo, ricorda infine l'Associazione (articolo ItaliaOggi del 19.09.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Impossibile revocare benefici ottenuti con false dichiarazioni. La legge madia richiede una sentenza definitiva di condanna che però nella prassi è molto rara.
Impossibile (o quasi) per la pubblica amministrazione annullare concessioni di benefici ottenute con false dichiarazioni del cittadino. Bisognerà aspettare una sentenza penale definitiva che accerti il reato di falsità. È la conseguenza della legge 124/2015 (articolo 6), che ha modificato l'articolo 21-nonies della legge 241/1990 e ha introdotto una pregiudiziale penale all'autotutela amministrativa.

La legge 124/2015 mette alle strette l'autotutela amministrativa anche per un'altra ragione: prevede un termine di 18 mesi, trascorso il quale il provvedimento illegittimo (per motivo diversi dalla falsa dichiarazione del privato). In sostanza, se è passato un anno e mezzo, l'amministrazione non può rimettere in gioco un'autorizzazione illegittima.
Attenzione, però, se il privato conserva l'utilità conseguita con un atto illegittimo, il funzionario pubblico risponderà sempre del suo errore: sia a livello disciplinare sia a livello erariale e penale.
Questo significa che la pubblica amministrazione deve attrezzarsi sia prima sia dopo l'adozione di un atto, perché, dopo 18 mesi, non potrà azzerare tutto.
Di questo meccanismo, come detto, non potrà avvalersi il privato in mala fede: se ha reso false dichiarazioni non potrà approfittare di una pubblica amministrazione lumaca e inerte. Ma bisognerà aspettare un sentenza penale definitiva che accerti il fatto. Il che significa che l'annullamento arriverà se e dopo una denuncia e una trafila giudiziaria, anche di molti anni.
Ma vediamo di illustrare il dettaglio delle novità.
Atto illegittimo, ma inattaccabile. La legge Madia interviene sull'articolo 21-nonies della legge 241/1990, dedicato all'annullamento d'ufficio dell'atto illegittimo.
L'annullamento in generale è subordinato ad alcune condizioni. In particolare ci deve essere un interesse pubblico, poi si deve tenere conto degli interessi dei privati sia dei destinatari dell'atto (che si vedono privare di un vantaggio) sia dei controinteressati, che traggono, invece, beneficio dall'annullamento.
C'è, infine, un altro requisito e cioè l'annullamento deve essere adottato entro un termine ragionevole: se si è consolidata una situazione di fatto per un lungo lasso di tempo, non si possono più cambiare le carte in tavola. La legge 124/2015 precisa che il tempo ragionevole entro cui deve intervenire l'annullamento (prima imprecisato) non può essere superiore a 18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato con il silenzio assenso.
Rimangono ferme le responsabilità, aggiunge la norma, connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
In sostanza per evitare responsabilità, la pubblica amministrazione deve attrezzarsi per fare le cose per bene (una idonea istruttoria e una buon provvedimento) o per accorgersi in fretta che c'è un errore da rimediare in autotutela.
False dichiarazioni. Altra novità della legge 124/2015 riguarda i casi un cui la soglia del diciottesimo mese può essere superata: questo vale per i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato.
Dunque ci vuole un fatto di reato, ma non basta: occorre anche una sentenza di accertamento del reato. Pertanto, leggendo la norma, se c'è una falsità, ma non c'è ancora la sentenza definitiva, l'amministrazione non può annullare l'atto, autonomamente valutando le dichiarazione non veritiere.
Questo significa che in presenza di false dichiarazioni, costituenti reato, la pubblica amministrazione deve denunciare il fatto e aspettare la sentenza che accerti il fatto come reato alla fine del processo penale. Esito che, nella prassi, non è così semplice, visto che molto spesso si arriva ad assoluzioni per mancanza di dolo: la dichiarazione è non veritiera, ma manca la volontà di rendere attestazioni false.
La norma in esame si chiude con la clausola di salvezza delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445/2000 (Testo unico della documentazione amministrativa). Dunque, l'articolo 75 del dpr 445/2000 prevede la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera, qualora dal controllo delle dichiarazioni sostitutive emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione.
Questa norma non impone di attendere alcuna sentenza e la pubblica amministrazione può andare avanti da sola.
È molto difficile il coordinamento tra la due disposizioni. Si potrebbe tentare un composizione dicendo che siamo di fronte a non veridicità non costituente reato (ad esempio per assenza di dolo), emersa dal controllo di dichiarazioni sostitutive, allora la pubblica amministrazione potrà pronunciare subito e autonomamente la decadenza dal beneficio.
Se invece siamo di fronte a un reato di falsa rappresentazione di fatti (fuori da autodichiarazioni) o di false autodichiarazioni, allora la pubblica amministrazione deve fare la denuncia e aspettare. Nel frattempo potrà al massimo sospendere gli effetti dell'atto (articolo 21-quater della legge 241/1990) (articolo ItaliaOggi del 19.09.2015).

APPALTI: Cantone: un codice appalti snello. «Abolizione regolamento e soft law» - L’ipotesi di sdoppiare la delega.
Contratti pubblici. A Varenna il convegno del Consiglio di Stato sulla riforma che recepisce le direttive Ue.

Chi pensava che per la legge delega sugli appalti fosse tutto risolto, sbagliava. A rivelare le tensioni profonde che ancora restano sul percorso del nuovo codice è stata ieri la giornata introduttiva del 61° Convegno di studi amministrativi organizzato dal Consiglio di Stato a Varenna.
Almeno due le questioni che appassionano e dividono giuristi e protagonisti del mondo degli appalti: la prima è quella posta dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, di abolire il regolamento generale per dare ampio spazio alla soft law dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) guidata da Raffaele Cantone; la seconda, che finora era stata discussa nella commissione di studio presieduta dal capo del Dagl (l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi), Antonella Manzione, ma non era ancora venuta allo scoperto pubblicamente, è se la doppia operazione di recepimento delle direttive Ue e di riordino del vecchio codice debba avvenire in una sola puntata o in due tempi.
In altre parole se si debba procedere a uno “spacchettamento” del decreto legislativo della delega in due provvedimenti: il primo, da emanare entro il termine del 18 aprile, per recepire le direttive; il secondo, con un orizzonte temporale di fine 2016, per riordinare il vecchio codice partendo dal «cuore» già individuato recependo le direttive.
Questa ipotesi è emersa con le parole di Alessandro Pajno, presidente di sezione del Consiglio di Stato e coordinatore scientifico delle giornate di Varenna, e di Mario Pilade Chiti, ordinario di diritto amministrativo a Firenze e membro della commissione Manzione. Fuoco e fulmini, invece, da Raffaele Cantone, presidente dell’Anac: perché si creerebbero tre diversi regimi temporali (uno con il vecchio codice e regolamento, uno con il recepimento delle direttive e l’altro per attuare la restante parte della delega cioè il riordino del vecchio codice), ma anche per motivi di sostanza.
Come ha spiegato Chiti, le priorità definite dalle direttive sono molto diverse da quelle individuate dai 53 criteri di delega approvati dal Senato. E tutti i poteri di regolazione affidati all’Anac, per esempio, non stanno nelle direttive ma nella delega “nazionale” e dovrebbero forse aspettare il secondo tempo. Una novità che risulterebbe clamorosa considerando che il trasferimento di poteri regolatori a Cantone è il «cuore» della riforma voluta dal Senato e questi poteri sarebbero ulteriormente rafforzati dalla cancellazione del regolamento, ipotesi su cui per altro, le posizioni emerse anche ieri sono più convergenti.
A Varenna anche Antonella Manzione, che come coordinatrice della commissione che dovrà scrivere il testo attuativo della delega, ha un ruolo centrale nel percorso. «La commissione ha valutato questa opzione in sede tecnica -dice Manzione- e ritiene che si possa attuare la delega con più decreti legislativi. Per certi versi il percorso sarebbe più lineare e consentirebbe di introdurre nell’ordinamento al meglio le innovazioni contenute nelle direttive. Il secondo decreto seguirebbe a breve, non comportando grandi problemi temporali. La decisione spetta ovviamente alla Camera, ma si dovrà tener conto della posizione del governo. Abbiamo anche considerato positivamente l’ipotesi della soppressione del regolamento».
Cantone ha rimarcato che «la vera svolta, per evitare di ritrovarci fra due anni ad affrontare le stesse questioni, sarebbe data da un solo provvedimento che tenesse insieme recepimento delle direttive e riordino del codice, eliminando al tempo stesso il regolamento e lasciando spazio a una soft regulation che avrebbe il grande vantaggio di avvicinare le regole agli operatori».
Le delibere di soft regulation di Anac sono infatti sottoposte a procedimento di consultazione che non c’è nel regolamento «lontano dalle esigenze degli operatori». Sulla necessità di semplificare e stabilizzare anche il presidente del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, che ha ricordato come solo il 42% delle norme dell’attuale codice del 2006 sia rimasto stabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, primi passi per la mobilità. Pubblicato in «Gazzetta» il decreto con le tabelle per chi cambia comparto. Pa. Clausola di salvaguardia solo per le voci «fisse e continuative» del trattamento accessorio - No dei sindacati.
Arriva in Gazzetta Ufficiale il decreto con le «tabelle di equiparazione», che serve a disciplinare la mobilità dei dipendenti pubblici tra un comparto e l’altro della Pa ed è quindi essenziale per attuare un pezzo importante della riforma delle Province: quello che dovrebbe spostare fino a 8mila persone dagli organici degli enti di area vasta alle altre Pubbliche amministrazioni, ministeri in primis (il primo bando è quello del ministero della Giustizia, che secondo la legge dovrebbe accogliere fino a 2mila persone nei prossimi due anni).
Previsto fin dalla riforma Brunetta ma mai attuato, il provvedimento è stato rilanciato l’anno scorso dal decreto-Madia (Dl 90/2014) ed è al centro delle polemiche sindacali. Nel testo si prevede infatti che ai dipendenti che si spostano in mobilità non volontaria (per la mobilità volontaria, finora residuale, è scontato che si accettino le regole della Pa di destinazione) sarà garantito l’eventuale trattamento accessorio più favorevole solo per le voci «con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
La riforma Delrio prevedeva un sistema diverso, rappresentato dal cosiddetto “zainetto” nel quale il dipendente in mobilità si sarebbe dovuto portare le risorse «in godimento all’atto del trasferimento» (comma 96 della legge 56/2014). I tagli miliardari a Province e Città metropolitane, ha spiegato però nei mesi scorsi Palazzo Vidoni in una nota, non permette di togliere altri fondi a questi enti, e da qui nasce il nuovo meccanismo.
La garanzia sulle voci fisse e continuative, aggiunge il decreto pubblicato in Gazzetta, si attiva quando l’amministrazione ricevente individua la copertura finanziaria: a questo scopo possono però essere usati anche gli «spazi assunzionali», e dal momento che le regole vincolano di fatto il turn-over al riassorbimento degli ex provinciali, secondo il Governo non ci dovrebbero essere problemi.
Non sarebbe facile, del resto, giustificare il mantenimento di indennità particolari (per esempio quelle di turno, o legate a «specifiche responsabilità») nate da fattori assenti nella nuova destinazione. Ai sindacati, che ai tempi della riforma Delrio avevano spinto sull’emendamento dello “zainetto” per assicurare la garanzia totale sulle buste paga, il nuovo sistema però non piace per niente, e le previsioni annunciano ricorsi in tutti i casi che si riveleranno “problematici”. Ad alimentare il contenzioso potrà essere anche il fatto che a livello contrattuale manca una definizione univoca per individuare le voci «fisse e continuative», che però esiste sul piano previdenziale.
Nel mosaico dell’attuazione manca ora il decreto con i criteri generali per la mobilità, all’esame della Corte dei conti. E, soprattutto, mancano in otto Regioni le leggi di redistribuzione delle funzioni: perché fino a quando non sarà chiaro quali funzioni le Province devono continuare a svolgere, non sarà possibile individuare puntualmente gli “esuberi” da spostare
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2015).

PUBBLICO IMPIEGOLiquidazione dopo 12 mesi agli under 62. Previdenza. In caso di risoluzione da parte della pubblica amministrazione.
La liquidazione, o trattamento di fine servizio, relativa alle risoluzioni unilaterali effettuate dalle pubbliche amministrazioni nei confronti dei propri dipendenti entro il 31 dicembre 2017 sarà corrisposto trascorsi dodici mesi dalla cessazione.
Lo precisa l’Inps con la circolare 17.09.2015 n. 154.
La legge di stabilità per il 2015 ha modificato -tra l’altro- la normativa relativa all’applicazione delle penalità sui pensionamenti anticipati con età inferiori a 62 anni sospendendo le relative decurtazioni sulle quote retributive. Ciò ha comportato, per i datori di lavoro pubblici, la possibilità di pensionare i dipendenti anche prima dell’età soglia, a condizione che comunque abbiano perfezionato i requisiti per l’accesso al pensionamento anticipato.
Con il messaggio 8680/2014 l’Inps aveva stabilito che, qualora la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro fosse esercitata dalle Pa prima del 62esimo anno di età, il trattamento di fine servizio/rapporto fosse corrisposto trascorsi 24 mesi dalla cessazione, parificando la cessazione a dimissioni volontarie, poiché il dipendente accettava una pensione con le decurtazioni. Dal 2015, venendo meno le penalità, l’istituto precisa che i termini di pagamento tornano a essere di dodici mesi, così come è accaduto fino alla fine dello scorso anno per le cessazioni con età superiori a 62.
La legge di stabilità ha abolito, inoltre, alcuni benefici previsti dal codice dell’amministrazione militare. In particolare ai militari ufficiali non può essere più concessa la promozione al grado superiore nell’ultimo giorno di servizio se cessano per raggiungimento del limite di età e sono iscritti in quadro di avanzamento o giudicati idonei ma non iscritti in quadro di avanzamento e che non possono conseguire la promozione o essere valutati perché divenuti permanentemente inabili al servizio oppure perché cessati per infermità o decesso dipendenti da causa di servizio.
Inoltre è venuta meno la possibilità di promuovere, nell’ultimo giorno di servizio, sottufficiali e graduati in servizio permanente che sono, per esempio, giudicati idonei e iscritti in quadro di avanzamento e non promossi o che non possono essere valutati. Anche gli appuntati e i carabinieri che, avendo maturato l’anzianità prescritta, non possono essere valutati per l’avanzamento o per aver raggiunto i limiti di età o perché divenuti permanentemente inabili al servizio militare o perché deceduti, non potranno ottenere la promozione.
Per la Polizia di Stato non può più essere attribuita ai dirigenti superiori (con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica) la promozione alla qualifica di dirigente generale a decorrere dal giorno precedente la cessazione dal servizio.
Poiché la retribuzione dell’ultimo giorno di servizio viene presa a riferimento per il calcolo dell’indennità di buonuscita nonché della quota A di pensione, l’abrogazione di tali norme comporta una minore spesa per le finanze pubbliche
 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2015).

VARI: Cibo, obbligo d'informare. Allergeni in chiaro in bar, mense e catering. Una bozza di decreto del governo prevede il vincolo per i gestori di esercizi.
I responsabili della somministrazione di alimenti nei pubblici esercizi (bar, ristoranti, mense, esercizi di catering) hanno l'obbligo di informare i propri clienti sulla eventuale presenza di sostanze che possono provocare allergie. L'indicazione delle sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze deve essere fornita prima che l'alimento venga servito al consumatore finale. L'indicazione degli allergenici deve essere apposta su menu o registro o apposito cartello o altro sistema equivalente, da tenere bene in vista.

Queste sono alcune delle misure contenute in una bozza di dpcm (stilato da ministero dello sviluppo economico e ministero della salute) di cui ItaliaOggi è in grado anticipare i contenuti.
Il provvedimento è modificativo del dlgs 109/1992, di adeguamento della normativa nazionale in materia di indicazione degli allergeni. Il 16 settembre le principali associazioni di categoria del settore alimentare, in rappresentanza della parte industriale, della distribuzione e dell'artigianato, hanno incontrato il ministro dello sviluppo economico per un confronto sul tema dell'etichettatura alimentare.
Le associazioni hanno chiesto di accelerare la formale adozione dei provvedimenti in materia di etichettatura la cui predisposizione è stata oggetto di confronto con tutte le componenti della filiera e con le amministrazioni interessate.
Denominazione specifica. Un ingrediente richiamato nella denominazione dell'alimento o nell'etichettatura in generale di un prodotto finito può figurare con il solo nome generico, purché nell'elenco ingredienti esso compaia con la sua denominazione specifica. L'indicazione del termine minimo di conservazione non è richiesta per i prodotti di confetteria consistenti quasi unicamente in zuccheri e/o edulcoranti, aromi e coloranti quali caramelle e pastigliaggi.
Il livello di specificazione deve venire riferito ai singoli ingredienti allergenici identificati nelle normative. Non ci si può riferire al «glutine» o ai «cereali contenenti glutine», ma ai singoli cereali, non si cita la «frutta secca con guscio», ma le singole specie tassativamente definite (tra le quali figurano, per esempio, le mandorle, ma non i pinoli).
Lotto. Un prodotto alimentare può essere commercializzato solo se accompagnato da un'indicazione che consente di identificarne lotto o partita alla quale appartiene. Per lotto o partita si intende un insieme di unità di vendita di un prodotto alimentare, prodotte, fabbricate o confezionate in circostanze praticamente identiche.
Imballaggi. Gli imballaggi di qualsiasi specie, destinati al consumatore, contenenti prodotti preconfezionati, possono non riportare le indicazioni prescritte agli articoli 9 e 10 del regolamento (Ue) n. 1169/2011, purché esse figurino sulle confezioni dei prodotti alimentari contenuti.
Qualora dette indicazioni non siano verificabili dall'esterno, sull'imballaggio devono figurare almeno la denominazione dei singoli prodotti contenuti, l'indicazione delle sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze e il termine minimo di conservazione o la data di scadenza del prodotto avente la durabilità più breve.
Distributori automatici. Nel caso di distribuzione di alimenti non preconfezionati, posti in involucri protettivi, o di bevande a preparazione estemporanea o ad erogazione istantanea, devono essere riportati sui distributori o nei locali commerciali automatizzati e per ciascun prodotto, la denominazione di vendita del prodotto finito, e l'elenco degli ingredienti, nonché il nome o la ragione sociale e l'indirizzo dell'impresa responsabile della gestione dell'impianto (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Catasto terreni. Particelle nulle, ok alla visura.
Dal 1° giugno è possibile ottenere l'estratto di mappa digitale per atto di aggiornamento anche per le particelle che risultano avere superficie nulla nell'archivio censuario del catasto terreni. Al momento della richiesta dell'estratto di mappa per atto di aggiornamento nel campo «particelle» deve essere digitato il numero della particella con superficie censuaria nulla (manufatti interrati, grotte, impianti fotovoltaici, particelle gravate di diritto di superficie ecc.) comprensivo di parentesi tonde e anche il numero della particella a destinazione ordinaria.

È con la comunicazione 03.09.2015 n. 113303 di prot. che l'Agenzia delle entrate, direzione centrale catasto e cartografia - area servizi cartografici, ha chiarito le procedure telematiche per l'invio degli atti tecnici di aggiornamento catastale (Docfa e Pregeo) trasmessi con il modello unico informatico catastale (Muic).
Le entrate hanno comunicato di avere integrato dall'01.06.2015 la procedura del rilascio dell'estratto di mappa digitale per atto di aggiornamento con la possibilità di richiederlo anche per le particelle che risultano avere superficie nulla nell'archivio censuario del catasto dei terreni. In caso di irregolare funzionamento del servizio telematico, l'atto di aggiornamento, sottoscritto con firma digitale, è presentato presso l'ufficio territorialmente competente su supporto informatico.
A decorrere dal primo giugno 2015, i professionisti iscritti agli ordini e collegi professionali, abilitati alla predisposizione e alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale, utilizzano le procedure telematiche per l'accertamento delle unità immobiliari urbane di nuova costruzione, le dichiarazioni di variazione dello stato, la consistenza e la destinazione delle unità immobiliari già censite (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Parere sui nuovi canali di pagamento. Parcheggi, l'app non vale sempre.
Via libera alle app per il pagamento del parcheggio in zona blu con il telefono cellulare ma solo nelle aree in concessione presidiate dagli ausiliari del traffico. Oppure negli ambiti urbani dove è stato raggiunto un accordo tra gli organi di vigilanza per effettuare il controllo della sosta in maniera univoca. E fermo restando che deve essere sempre ammessa anche la possibilità di pagare in modalità tradizionale.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 07.09.2015 n. 4388.
All'interno del centro abitato l'art. 7 del codice stradale dispone che si possono stabilire le aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe.
Ai sensi dell'art. 157, comma 6, del codice della strada, nei luoghi in cui la sosta è permessa per un tempo limitato è fatto obbligo ai conducenti di segnalare, in modo chiaramente visibile, l'orario in cui la sosta ha avuto inizio e di porre in funzione il dispositivo di controllo della durata della sosta. Oltre ai tradizionali parcometri, ai gratta e sosta e agli abbonamenti, si sono diffusi più recentemente sistemi che consentono di pagare tramite smartphone la tariffa della sosta a pagamento.
Su questa nuova modalità è arrivato però un importante chiarimento da parte del ministero dei trasporti. Specifica infatti la nota n. 4388 che nelle aree pubbliche dove vige un sistema di sosta a pagamento è ancora necessario esporre il relativo titolo che comprova l'avvenuto pagamento della tariffa e che consente di verificare la durata della sosta. Peraltro con le modifiche introdotte dalla legge di stabilità 2014 dal 01.01.2014 il pagamento della tariffa mediante telefono è ora astrattamente possibile.
Di fatto, prosegue il ministero dei trasporti, non essendo stato modificato il codice stradale l'uso di questa modalità di pagamento è ammessa per il parcheggio in area limitata o privata in concessione, mentre invece sorgono difficoltà per la sosta su area pubblica dove si deve garantire l'esposizione di un titolo di pagamento affinché possa essere svolto il controllo, da parte di qualsiasi organo di polizia stradale, dell'effettiva durata della sosta (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, mobilità non per tutti. Gli enti sceglieranno le tipologie di dipendenti da assumere.
Il decreto del ministro Madia non garantisce la piena ricollocazione degli esuberi.
Il decreto contenente i criteri per la mobilità non assicura la piena ricollocazione dei dipendenti in sovrannumero di province e città metropolitane.
Il testo del decreto firmato nei giorni scorsi dal ministro Marianna Madia e in attesa della registrazione da parte della Corti dei conti contiene una «falla», del resto ammessa dalla legge 190/2014, per effetto della quale molti dipendenti in sovrannumero potrebbero restare senza lavoro.
Il problema è creato dal modo col quale il decreto prevede che regioni, enti locali e ministeri inseriscano i dati relativi ai posti di organico utili per il trasferimento dei dipendenti degli enti di area vasta.
L'articolo 5, comma 1, del decreto dispone che «le regioni e gli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici da essi dipendenti e gli enti del Servizio sanitario nazionale, esclusi gli enti di area vasta, inseriscono nel Portale della mobilità, con le modalità ivi indicate, i posti disponibili in base alle proprie facoltà di assumere»; lo stesso vale per i ministeri. Il successivo comma 3 aggiunge e precisa: «le amministrazioni, ai fini dell'attuazione dei commi 1 e 2, individuano i posti disponibili, nell'ambito delle dotazioni organiche, tenendo conto, in relazione al loro fabbisogno, delle funzioni riordinate, delle aree funzionali e delle categorie di inquadramento dei dipendenti in soprannumero».
In sostanza, quindi, il decreto non impone alle amministrazioni di rendere noti i posti vacanti della dotazione organica e di selezionare, poi, i dipendenti tenendo conto dei limiti di spesa per le assunzioni. Al contrario, si permette a ciascun ente di «filtrare» le assunzioni, decidendo autonomamente a monte, sulla base dei propri fabbisogni, a quali aree e categorie di inquadramento apparterranno i posti da segnalare nel portale per l'incontro domanda/offerta di mobilità.
Il rischio è che intere categorie di dipendenti delle aree vaste restino fuori, rischio, del resto confermato dalle sia pur sparute procedure di mobilità interamente riservata fin qui gestite: il 90% e più dei trasferimenti ha riguardato esclusivamente i dipendenti inquadrati in categoria C, gli «istruttori», con simmetrica pretermissione dei funzionari in categoria D e dei dipendenti con inquadramento da operatore, appartenenti alla categoria B. Nemmeno l'ombra, poi, c'è stata di mobilità per i dirigenti.
Il meccanismo previsto dal dpcm non risolve questo problema ed, anzi, lo acuisce. Il governo in questo modo è andato in totale contraddizione con quanto previsto dall'articolo 2, comma 13, del dl 95/2012, ove si era previsto, per gestire i processi di riduzione delle dotazioni organiche, che la Funzione pubblica avviasse un monitoraggio dei posti vacanti presso le amministrazioni pubbliche, redigendone un elenco, da pubblicare sul relativo sito web, così da permettere al personale da trasferire do presentare domanda di ricollocazione nei posti vacanti, tutti i posti della dotazioni; il tutto completato dall'obbligo, per le amministrazioni di accogliere le domande di mobilità.
Il dpcm, invece, consente una barriera «a monte», permettendo agli enti di selezionare quali posti vacanti inserire nella piattaforma dell'incontro domanda/offerta. Il che renderà estremamente difficile i trasferimenti in particolare dei dipendenti inquadrati in categoria D. Un problema particolare riguarderà, per esempio, i direttivi o i funzionari delle polizie provinciali, appunto inquadrati nella categoria D: la gran parte dei comuni interessati ad assumere dipendenti provinciali della polizia ha i posti di comandante o di responsabile, quelli coperti da personale di qualifica dirigenziale o di categoria D), già coperti.
Il dpcm consente loro, dunque, di manifestare il solo fabbisogno degli agenti da inquadrare nella categoria C, il che rende molto probabile una difficoltà estrema nella ricollocazione delle figure di vertice della polizia provinciale. Ma l'esempio, in realtà, riguarda la gran parte delle strutture degli enti di area vasta (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

APPALTI: Migranti, regole Ue per l'asilo. In emergenza, ammessi affidamenti senza gara per gli alloggi. Norme di aggiudicazione decise da Bruxelles in via di pubblicazione sulla Gazzetta europea.
Per gli appalti connessi all'emergenza dei migranti richiedenti asilo, le amministrazioni dovranno valutare caso per caso la procedura da scegliere per l'aggiudicazione di appalti volti a soddisfare le necessità immediate dei migranti (alloggi, beni e servizi).
Per appalti sopra la soglia comunitaria, se non sarà possibile con risorse proprie, con una cooperazione pubblico-pubblico o avvalendosi di appalti già esistenti, la nuova gara potrà essere svolta in modalità «accelerata» con riduzione dei termini fino a dieci giorni.
Inoltre, è ammessa la procedura negoziata senza gara se i termini, ancorché brevi, non possono assicurare l'esigenza di fornire rapidamente alloggi o vitto.

È quanto ha chiarito l'Unione europea con la comunicazione 09.09.2015 della Commissione al parlamento Ue e al consiglio sulle norme di aggiudicazione degli appalti pubblici in relazione all'attuale crisi nel settore dell'asilo, in fase di pubblicazione sulla Gazzetta europea, che ha lo scopo di fornire un quadro generale delle possibilità a disposizione dei committenti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici, per mettere rapidamente a disposizione infrastrutture (alloggi), beni e servizi di prima necessità.
Per quel che riguarda le infrastrutture, per esempio gli alloggi, la comunicazione chiarisce che possono essere messe a disposizione in primo luogo mediante la locazione di fabbricati esistenti che non richiedono notevoli adeguamenti (ossia lavori) e in questo caso non si applicano le regole sugli appalti.
Pertanto, in base alla disponibilità, le amministrazioni potranno fornire gli alloggi «senza procedure di aggiudicazione di appalti affittando fabbricati già esistenti sul mercato o adibendo ad alloggio infrastrutture pubbliche esistenti (caserme, scuole, strutture sportive)». In secondo luogo gli alloggi potranno essere realizzati ex novo ma in questo caso le norme Ue sugli appalti pubblici possono essere d'applicazione se il valore stimato del progetto di edificazione-ristrutturazione-adeguamento risulta pari o superiore alla soglia di 5.186.000 euro: importante notare che la soglia dovrà essere calcolata per «ogni progetto funzionalmente indipendente».
Quindi, se un comune prevede di realizzare una serie di progetti abitativi diversi, dovrà calcolare il valore di ogni singolo progetto separatamente per stabilire se la soglia sia stata raggiunta; non potrà invece frazionare un progetto d'opera al fine di escluderlo dall'applicazione della direttiva. Per progetti di importo inferiore andranno applicati i principi generali del diritto dell'Unione con l'avvertenza che la non discriminazione sulla base della nazionalità, l'uguaglianza di trattamento e la trasparenza, si applicano se il progetto ha un interesse transfrontaliero certo.
Per i servizi la comunicazione chiarisce che, nei casi in cui il servizio da affidare non sia compreso nell'elenco IIA della direttiva 2014/24, occorrerà comunque effettuare una post pubblicazione sui risultati della gara.
Dal punto di vista delle modalità di affidamento il ricorso alla procedura negoziata senza gara dovrà essere sempre eccezionale e motivato con una relazione ad hoc che dimostri l'esistenza delle condizioni che giustificano l'uso di questa procedura.
Se quindi un comune non ha potuto avere contezza del numero di migranti attesi si configura la fattispecie di «evento imprevedibile»; inoltre, dice la commissione, non si può ragionevolmente mettere in dubbio il nesso di causalità tra l'aumento dei richiedenti asilo e la necessità di soddisfare i loro bisogni, elemento che giustifica il mancato rispetto dei termini ordinari di gara (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Controlli di legalità ai dirigenti. La figura del segretario è sostituita dal manager apicale. Le novità della riforma Madia in materia di governance delle amministrazioni locali.
La legge n. 124/2015, «Deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», riforma il sistema della dirigenza pubblica che sarà articolato nei decreti delegati in tre ruoli unificati e coordinati (dirigenti statali, regionali e di enti locali), accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento, gestiti da apposite Commissioni.
In base all'art. 11, comma 1, lett. b), n. 4), il legislatore delegato dovrà procedere all'abolizione della figura del segretario comunale e provinciale, inserendo gli attuali segretari nel ruolo unico dei dirigenti degli enti locali, e prevedere l'obbligo per tutti gli enti locali di nominare un dirigente apicale; per le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti, la normativa delegata dovrà prevedere la facoltà di nominare, in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale. Il dirigente apicale è l'unica figura dirigenziale prevista come obbligatoria nella legge delega, che ne determina anche i compiti.
Spetta al dirigente apicale l'attuazione dell'indirizzo politico, il coordinamento dell'attività amministrativa, il controllo della legalità dell'azione amministrativa, nonché la funzione rogante. Tra i compiti del dirigente apicale, accanto a quelli attualmente esercitati dal segretario comunale, figura anche quello relativo all'attuazione dell'indirizzo politico, funzione che nella vigente disciplina risulta tipizzata negli stessi termini per il direttore generale, chiamato «ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente» (art. 108 del Tuel).
Il dirigente apicale è dunque una figura di vertice con compiti di direzione complessiva dell'ente e di garanzia della legittimità dell'azione amministrativa. Per le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti che abbiano scelto di nominare un direttore generale, è previsto l'obbligo di attribuire ad altro dirigente di ruolo il controllo della legalità dell'azione amministrativa e la funzione rogante.
Per i comuni di minori dimensioni demografiche è invece previsto l'obbligo di gestire la funzione di direzione apicale in forma associata.
È prevedibile che i compiti fondamentali del dirigente apicale, predeterminati dal legislatore delegante, siano oggetto di «estensione» nei decreti delegati, anche se le ulteriori attribuzioni dovranno essere coerenti con le scelte di fondo effettuate dal legislatore delegante (ad esempio prevedendo la partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni sia di consiglio che di giunta).
Chi potrà essere nominato dirigente apicale? La legge n. 124/2015 pone innanzitutto una disciplina transitoria.
In sede di prima applicazione e per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega, gli enti locali, tranne quelli che si sono avvalsi della facoltà di nomina del direttore generale, hanno l'obbligo di conferire l'incarico di direzione apicale ai soggetti precedentemente iscritti nell'albo dei segretari comunali.
A regime è auspicabile che il legislatore delegato individui, all'interno dei ruoli unici, i profili professionali dirigenziali e crei un profilo professionale di dirigente apicale, stante l'assoluta peculiarità del ruolo e della disciplina che a tale ruolo è riservata già nella legge delega.
Tale individuazione si rende necessaria, non soltanto per ragioni di razionalità ed efficienza nella gestione dei ruoli unici dirigenziali, ma anche e soprattutto al fine di garantire che la funzione cardine dell'amministrazione locale sia ricoperta da dirigenti in possesso di adeguata professionalità. Innovativa poi è la procedura di nomina del dirigente apicale che verrà effettuata dopo un avviso dell'amministrazione comunale, sulla base di requisiti e criteri definiti dall'amministrazione stessa.
A seguito delle dichiarazioni di disponibilità da parte dei dirigenti interessati, in possesso delle competenze e professionalità necessarie a ricoprire l'incarico, la Commissione per la dirigenza locale effettuerà la preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti, tra i quali verrà effettuata la scelta da parte del «soggetto nominante».
La legge delega prevede poi «che gli incarichi di funzione dirigenziale apicale cessano se non rinnovati entro 90 giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi» (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

GIURISPRUDENZA

VARI: False perizie difficili da provare. Consulenti tecnici. Non basta l’errore, occorre la dolosa alterazione del vero.
Non può essere condannato per falsa perizia (articolo 373 del Codice penale) l’ingegnere Ctu per i danni all’immobile conseguenti all’edificazione di un altro edificio se il tecnico esclude che le problematiche riscontrate siano riconducibili ai lavori, tesi sostenuta da un perito voluto dal Pm.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione -Sez. VI penale- con la sentenza 21.09.2015 n. 38307 secondo cui «i pareri o le interpretazioni mendaci si concretizzano in un giudizio che intanto è caratterizzato da mendacio, in quanto si scosta e differisce da quella che, secondo la coscienza del reo, costituisce la verità: si tratta pertanto di una divergenza intenzionale, voluta e cosciente tra il convincimento reale e quello manifestato, nell'elaborato tecnico in risposta ai quesiti del giudice».
I consulenti devono «apportare il loro contributo originale di osservazioni e di giudizi sull’oggetto della prova, con il rischio che, nel pesare la loro condotta, si finisca col confondere l’involontario errore della mente, oppure la cattiva qualità della prestazione professionale, con la dolosa alterazione del vero».
Quindi l’opinabilità dei temi in gioco di tipo tecnico, non a sufficienza posta in discussione dal gravame, finisce per divenire incompatibile con i presupposti oggettivi o soggettivi del reato. Peraltro la difesa a sua volta aveva confutato la perizia del Pm che lo accusava di utilizzo di falsi dati storici
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALIIn merito al processo amministrativo che coinvolge l’ente locale, è infondata l’eccezione con la quale si deduca l’inammissibilità dell’appello sollevata sul presupposto che la decisione di agire o resistere in giudizio, con la scelta del professionista cui affidare il patrocinio, sarebbe di pertinenza dell’apparato burocratico e non invece degli organi di governo dell’ente.
Invero, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, salva diversa previsione dello statuto comunale o dei regolamenti a cui il medesimo faccia espresso rinvio, è previsto che la rappresentanza legale dell’ente compete al Sindaco, il quale non necessita di preventiva autorizzazione ad agire o a resistere in giudizio.

Con una prima eccezione la sig.ra Sc. deduce l’inammissibilità dell’appello, in quanto la decisione di agire o resistere in giudizio, con la scelta del professionista cui affidare il patrocinio, sarebbero di pertinenza dell’apparato burocratico e non degli organi di governo dell’ente.
L’eccezione è infondata.
Al riguardo basta rilevare che nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, di cui al D.Lgs. 18/08/2000 n. 267 –salva diversa previsione dello statuto comunale o dei regolamenti a cui il medesimo faccia espresso rinvio– la rappresentanza legale dell’ente compete al Sindaco, il quale non necessita di preventiva autorizzazione ad agire o a resistere in giudizio (Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2006 n. 3452; Cass. Civ. SS. UU. 27/06/2005 n. 13710).
Nel caso di specie, non è stata nemmeno addotta l’esistenza di una norma statutaria o regolamentare che preveda la preventiva autorizzazione a stare in giudizio, da qui la rilevata infondatezza dell’eccezione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015 n. 4395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Nullo il patto sui canoni in nero. L’inquilino può riottenere quanto versato in più rispetto al «concordato».
Sezioni unite civili. Doppio intervento della Cassazione: per la locazione occorre la forma scritta «ad essentiam».
Gli affitti in nero portano a conseguenze pericolose, soprattutto per il locatore. La Corte di cassazione, intervenendo a Sezioni unite su un tema che ha suscitato più di una perplessità, ridisegna i confini della nullità dei contratti verbali e di quelli che, pur scritti, si accompagnano a scritture private con patti diversi (in generale integrazioni del canone ufficialmente pattuito). E compie un revirement rispetto alla sentenza 16089/2003.
Con la sentenza 17.09.2015 n. 18213 (conseguenza dell’ordinanza di rimessione della III Sez. civile n. 20480/2014), la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della forma scritta.
Partendo dal caso di uno sfratto, convalidato nel 2006, da un immobile il cui contratto di locazione era stato stipulato in forma verbale nel 2003. Anzitutto, facendo riferimento alla norma di cui all’articolo 13 della legge 431/1998, richiama le teorie neoformaliste e «l’impraticabilità di una automatica applicazione della disciplina della nullità in mancanza della forma scritta ad substantiam, essendo piuttosto necessario procedere a un’intepretazione assiologicamente orientata. (...). Così, il carattere eccezionale o meno della norma sulla forma (...) dovrà risultare da un procedimento interpretativo».
La sentenza prevede poi illustrando i vari orientamenti di dottrina e giurisprudenza, aderendo al filone interpretativo che ritiene «necessaria la forma scritta ad essentiam, limitando, peraltro, la rilevabilità della nullità in favore del solo conduttore nella specifica ipotesi di cui all’articolo 13, comma 5, della legge 431/1998, che gli accorda una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto, da parte del locatore, un rapporto di locazione di fatto, stipulato solo verbalmente».
Le Sezioni unite definiscono quindi due ipotesi: la prima, quando il conduttore sia stato «costretto» dall’abuso del locatore a un contratto verbale, con la conseguente «necessità di un riequilibrio del rapporto mediante (...) un’ipotesi di nullità relativa». Qui, però, la Cassazione richiede che sia il locatore ad avere preteso questo rapporto di fatto, subìto dal conduttore, e che tale condizione, unitamente all’esistenza del contratto verbale, vada accertata dal giudice. In questi casi il conduttore (e lui solo) potrà chiedere che la locazione nulla «venga ricondotta a condizioni conformi» ai canoni “concordati”.
L’altra ipotesi è che la forma verbale sia stata concordata liberamente, senza costrizioni: in questo caso il locatore potrà agire in giudizio per ottenere la liberazione dell’immobile occupato senza titolo, e il conduttore potrà ottenere la restituzione delle somme versate in misura eccedente il canone concordato.
La sentenza 18213 delle Sezioni unite, anch’essa depositata ieri, riguarda invece il caso di una scrittura privata (esplicitamente concepita a fini di evasione fiscale) che, accanto al contratto regolarmente scritto e registrato, prevedeva il pagamento di una somma in più (assai superiore). La sentenza risponde all’ordinanza interlocutoria 37/2014.
Dopo varie considerazioni sulla simulazione, la Corte conclude (ribaltando l’interpretazione data dalla sentenza 16089/2003) per la nullità della «controdichiarazione» in aumento del canone, che sostanzia una sostituzione vietata dalla legge. Il conduttore può così riottenere tutte le somme versate. E a nulla vale la tardiva registrazione della controdichiarazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2015).

VARI: Mini-affitti, ha fini elusivi la carta col canone vero.
Fra il contratto registrato con l'affitto irrisorio per risparmiare sulle tasse e la scrittura privata a latere con il canone vero da pagare soltanto il primo è valido e si deve applicare: la controdichiarazione è infatti nulla perché viola la norma imperativa di cui alla legge 431/98, laddove il legislatore intendeva sanzionare con la nullità ogni «previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente».

Lo stabiliscono le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 17.09.2015 n. 18213, che risolve un contrasto di giurisprudenza e supera l'orientamento contrario della sentenza 16089/2003.
Sono anche principi etico-costituzionali, scrivono gli “ermellini”, a impedire che possa invocare tutela giurisdizionale chi si dichiara «impunemente» evasore fiscale dinanzi alla Corte suprema di un Paese europeo. Intento antielusivo - Niente da fare per il proprietario del villino: deve accontentarsi dell'affitto di 387,35 euro al mese che risulta dal contratto registrato invece che prendersi i 1.700 euro al mese della scrittura privata sottoscritta a latere, anche se all'inadempimento del conduttore ha provveduto subito a registrare il contratto “vero”.
La vicenda è chiara: le parti del contratto di locazione, con la controdichiarazione scritta cui partecipano entrambe contestualmente, convengono che il canone deve essere modificato in aumento secondo quanto prevede la scrittura privata, il tutto perché il locatore vuole evadere il fisco. Ma la sostituzione del canone fittizio con quello vero dell'accordo segreto è nulla sulla base dell'articolo 13 della legge 431/1998. E la sanzione della nullità non dipende dalla mancata registrazione del contratto, altrimenti bisognerebbe riconoscere efficacia sanante all'adempimento tardivo.
Invece il punto è che la controdichiarazione inserita nell'ambito del procedimento simulatorio, con il contratto fittizio e la scrittura a latere, è affetta da una nullità insanabile per contrarietà a norma imperativa dal momento che la legge 431/1998 ha un indiscutibile intento antielusivo: il legislatore del 1998 sanziona con la nullità ogni patto che prevede un affitto maggiore del canone ufficiale per contrastare il sommerso nel mercato delle locazioni (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

APPALTIPur dovendo ammettersi in via generale, ai sensi dell’art. 76 del d.lgs. n. 163 del 2006, ove la gara venga espletata secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la possibilità per le imprese di proporre aggiustamenti e variazioni migliorative indispensabili sotto l’aspetto tecnico, tuttavia, tale facoltà incontra il limite intrinseco consistente nel divieto di alterare i caratteri essenziali (c.d. requisiti minimi) della prestazione oggetto del contratto, così come stabiliti dalla lex specialis.
La ratio della limitazione appena delineata riposa sulla duplice esigenza di non ledere la par condicio tra i concorrenti e, nel contempo, di garantire il concreto soddisfacimento delle finalità pubblicistiche sottese al progetto posto a base di gara.
In tale prospettiva, sono reputate ammissibili varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell’opera (o del servizio), purché non si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla stazione appaltante, e sempre che le variazioni proposte garantiscano l’efficienza del progetto e la realizzazione delle esigenze della P.A..
La ratio della normativa comunitaria, tradottasi nell’art. 76, d.lgs. n. 163 del 2006, che –nelle gare col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa– consente la presentazione di varianti, riposa sulla circostanza che la stazione appaltante ha maggiore discrezionalità e soprattutto sceglie il contraente valutando non solo criteri matematici ma la complessità dell’offerta proposta, sicché nel corso del procedimento di gara potrebbero rendersi necessari degli aggiustamenti rispetto al progetto base elaborato dall’amministrazione.
L’ammissione di un’offerta in variante costituisce una valutazione afferente a criteri di discrezionalità tecnica, per cui, in considerazione degli ampi margini di discrezionalità che connotano le valutazioni della stazione appaltante, il sindacato giurisdizionale in materia deve essere circoscritto ai casi di manifesta erroneità o irragionevolezza delle scelte compiute dall’amministrazione.

Secondo la giurisprudenza che s’è formata, quanto all’interpretazione dell’art. 76 cit.: “Pur dovendo ammettersi in via generale, ai sensi dell’art. 76 del d.lgs. n. 163 del 2006, ove la gara venga espletata secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la possibilità per le imprese di proporre aggiustamenti e variazioni migliorative indispensabili sotto l’aspetto tecnico, tuttavia, tale facoltà incontra il limite intrinseco consistente nel divieto di alterare i caratteri essenziali (c.d. requisiti minimi) della prestazione oggetto del contratto, così come stabiliti dalla lex specialis. La ratio della limitazione appena delineata riposa sulla duplice esigenza di non ledere la par condicio tra i concorrenti e, nel contempo, di garantire il concreto soddisfacimento delle finalità pubblicistiche sottese al progetto posto a base di gara. In tale prospettiva, sono reputate ammissibili varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell’opera (o del servizio), purché non si traducano in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla stazione appaltante, e sempre che le variazioni proposte garantiscano l’efficienza del progetto e la realizzazione delle esigenze della P.A.” (TAR Campania–Napoli, Sez. I, 9/04/2014, n. 2028), con l’importante precisazione, secondo la quale: “La ratio della normativa comunitaria, tradottasi nell’art. 76, d.lgs. n. 163 del 2006, che –nelle gare col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa– consente la presentazione di varianti, riposa sulla circostanza che la stazione appaltante ha maggiore discrezionalità e soprattutto sceglie il contraente valutando non solo criteri matematici ma la complessità dell’offerta proposta, sicché nel corso del procedimento di gara potrebbero rendersi necessari degli aggiustamenti rispetto al progetto base elaborato dall’amministrazione. L’ammissione di un’offerta in variante costituisce una valutazione afferente a criteri di discrezionalità tecnica, per cui, in considerazione degli ampi margini di discrezionalità che connotano le valutazioni della stazione appaltante, il sindacato giurisdizionale in materia deve essere circoscritto ai casi di manifesta erroneità o irragionevolezza delle scelte compiute dall’amministrazione” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, 23/12/2013, n. 2595)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’art. 35 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207, a proposito della documentazione che deve comporre il progetto esecutivo, quanto alle relazioni specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che, di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato anche del progetto esecutivo.
Va specificato che il richiamo alla nozione di “relazioni tecniche e specialistiche” di cui alla rubrica dell’art. 26, va inteso in senso complementare e non alternativo, essendo tale accezione opponibile solo al più ampio elaborato costituito dalla relazione generale, che potrebbe avere anche contenuti non tecnici, oltre, che, per definizione, non specialistici.
Riprova di tale assunto è che l’art. 35 del regolamento non contiene anche l’espressione relazioni tecniche (ma solo relazioni specialistiche), sebbene queste abbiano finalità illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del progetto definitivo che non possono non riguardare anche profili tecnici, come proprio quello geologico (...).
A ben vedere, tale esigenza, dal punto di vista logico–funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la preferenza del legislatore per una progettazione in progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si finiscono per ritrovarsi.
Ebbene, urterebbe con tale costruzione la possibilità in alcune fasi di progettazione di segnare il passo rispetto al livello successivo di differenziazione, in violazione dell’autonomia funzionale riconosciuta ai vari livelli.

Quand’anche, in ogni caso, le superiori considerazioni dovessero tenersi in non cale, rileva il Tribunale che appare fondato il ricorso incidentale, proposto dalla Bulfaro s.p.a., conformemente, oltre che a recente giurisprudenza della Sezione (sentenza n. 734 del 07.04.2015), anche e soprattutto all’inequivocabile orientamento assunto dal TAR Campania–Napoli, nella sentenza n. 1837 del 27.03.2015, la cui parte motiva, di seguito, si riporta, per quanto d’interesse: “Le suesposte questioni sono state esaminate e risolte dalla Sezione con orientamento dal quale non vi è ragione di discostarsi. Al riguardo, con sentenza 19.03.2014 n. 1578, è stato ritenuto che «l’art. 35 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207, a proposito della documentazione che deve comporre il progetto esecutivo, quanto alle relazioni specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che, di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato anche del progetto esecutivo. Va specificato che il richiamo alla nozione di “relazioni tecniche e specialistiche” di cui alla rubrica dell’art. 26, va inteso in senso complementare e non alternativo, essendo tale accezione opponibile solo al più ampio elaborato costituito dalla relazione generale, che potrebbe avere anche contenuti non tecnici, oltre, che, per definizione, non specialistici. Riprova di tale assunto è che l’art. 35 del regolamento non contiene anche l’espressione relazioni tecniche (ma solo relazioni specialistiche), sebbene queste abbiano finalità illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del progetto definitivo che non possono non riguardare anche profili tecnici, come proprio quello geologico (...). A ben vedere, tale esigenza, dal punto di vista logico–funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la preferenza del legislatore per una progettazione in progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si finiscono per ritrovarsi. Ebbene, urterebbe con tale costruzione la possibilità in alcune fasi di progettazione di segnare il passo rispetto al livello successivo di differenziazione, in violazione dell’autonomia funzionale riconosciuta ai vari livelli»" (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Quanto all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione della lex specialis, in riferimento alle norme prescrittive sul contenuto dei livelli di progettazione e relazioni a corredo.
A
lla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare;
Invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico–discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa.
Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi.
In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara.

Ritenuta la necessità della presenza della relazione geologica anche nella progettazione esecutiva, quanto all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione della lex specialis, in riferimento alle norme prescrittive sul contenuto dei livelli di progettazione e relazioni a corredo, è sufficiente rinviare a quanto di recente opinato dalla Sezione, secondo cui «alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico–discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa. Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi. In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara» (TAR Campania-Napoli, I Sezione, 08.04.2014 n. 2010)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza dal titolo edilizio non implica la demolizione delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori opere, dovendo considerarsi abusivi soltanto gli interventi realizzati dopo l’intervenuta decadenza. Pertanto, è illegittimo, in assenza di un’adeguata motivazione e di specifiche e puntuali ragioni di pubblico interesse, l’ordine di demolizione di manufatti realizzati sulla base di un permesso di costruire poi dichiarato decaduto a seguito del mancato completamento dell’intervento nei termini di legge.
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La perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano la declaratoria di decadenza.
L’istituto della decadenza del permesso di costruire ai sensi dell’art. 15 d. P. R. n. 380 del 2001 ha natura dichiarativa e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue ex lege al presupposto legislativamente indicato.

Il ricorso è fondato.
È fondato, in particolare, il primo motivo di censura, come sopra illustrato, conformemente alla massima che segue: “La decadenza dal titolo edilizio non implica la demolizione delle opere realizzate, ma comporta solo la necessità di chiedere un nuovo permesso per la esecuzione delle ulteriori opere, dovendo considerarsi abusivi soltanto gli interventi realizzati dopo l’intervenuta decadenza. Pertanto, è illegittimo, in assenza di un’adeguata motivazione e di specifiche e puntuali ragioni di pubblico interesse, l’ordine di demolizione di manufatti realizzati sulla base di un permesso di costruire poi dichiarato decaduto a seguito del mancato completamento dell’intervento nei termini di legge” (TAR Abruzzo– Pescara, Sez. I, 14/11/2014, n. 449).
La tesi di controparte, che l’ordine di demolizione sia stato disposto a cagione del riscontro di abusi, piuttosto che a causa della perdita d’efficacia del permesso di costruire, non trova rispondenza nel tenore testuale del provvedimento gravato, che ancora, manifestamente, la demolizione alla scadenza del titolo abilitativo edilizio e del n.o. paesaggistico.
È fondato, altresì, il secondo motivo di ricorso, in aderenza alla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui: “La perdita di efficacia della concessione edilizia per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione, anche ai fini del necessario contraddittorio con il privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano la declaratoria di decadenza” (Consiglio di Stato, Sez. V, 12/05/2011, n. 2821); “L’istituto della decadenza del permesso di costruire ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001 ha natura dichiarativa e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue ex lege al presupposto legislativamente indicato” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11/04/2014, n. 1747).
Il contrario assunto dell’Amministrazione Comunale, secondo cui “la decadenza del titolo è stata correttamente dichiarata con provvedimento di avvio del procedimento in data 28.02.2014” è sfornita di ogni pregio, posto che una comunicazione d’inizio del procedimento è ovviamente cosa ben diversa dal provvedimento formale, dichiarativo della decadenza, richiesto dalla giurisprudenza (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittima l’ingiunzione di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata, adottata prima della definizione della pregressa domanda di sanatoria.
È fondato il quarto motivo di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica: “È illegittima l’ingiunzione di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata, adottata prima della definizione della pregressa domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 03/10/2014, n. 4934).
Nella specie, la demolizione ha preceduto il diniego della richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica, presentata dalla ricorrente in data 07.01.2014.
La circostanza, valorizzata nelle sue difese dal Comune di Santa Marina, secondo cui l’atto di diniego sarebbe stato protocollato lo stesso giorno (08.04.2014) e presenterebbe un numero di protocollo generale (3096) anteriore a quello dell’ordinanza di demolizione (3097), si scontra con il dato formale, della data, inequivocabilmente apposta all’ordinanza di demolizione n. 9, prot. n. 14 (04.04.2014).
Ne deriva che quest’ultima è stata emessa prima, anche se protocollata successivamente al registro generale; ma l’apposizione del numero di protocollo è dato che non incide sulla perfezione dell’atto (verificatasi in data anteriore).
Cfr. la massima che segue: “La mancanza del protocollo può configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto, ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione, ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno sull’esistenza, dell’atto stesso” (TAR Toscana, Sez. II, 02/04/2003, n. 1205) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancanza del protocollo può configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto, ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione, ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno sull’esistenza, dell’atto stesso.
È fondato il quarto motivo di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica: “È illegittima l’ingiunzione di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata, adottata prima della definizione della pregressa domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 03/10/2014, n. 4934).
Nella specie, la demolizione ha preceduto il diniego della richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica, presentata dalla ricorrente in data 07.01.2014.
La circostanza, valorizzata nelle sue difese dal Comune di Santa Marina, secondo cui l’atto di diniego sarebbe stato protocollato lo stesso giorno (08.04.2014) e presenterebbe un numero di protocollo generale (3096) anteriore a quello dell’ordinanza di demolizione (3097), si scontra con il dato formale, della data, inequivocabilmente apposta all’ordinanza di demolizione n. 9, prot. n. 14 (04.04.2014).
Ne deriva che quest’ultima è stata emessa prima, anche se protocollata successivamente al registro generale; ma l’apposizione del numero di protocollo è dato che non incide sulla perfezione dell’atto (verificatasi in data anteriore).
Cfr. la massima che segue: “La mancanza del protocollo può configurare tutt’al più una mera irregolarità dell’atto, ovvero incidere sulla prova del momento della sua adozione, ma non incide “ex se” sulla validità, e tantomeno sull’esistenza, dell’atto stesso” (TAR Toscana, Sez. II, 02/04/2003, n. 1205) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che l’autorità preposta alla gestione del vincolo, si pronunci “ previo parere vincolante della soprintendenza”.
Tuttavia, qualora l’autorità comunale ravvisi l'insussistenza dei presupposti di legge per la sanatoria (non solo paesaggistica, ma anche urbanistica, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), il parere della soprintendenza non avrebbe alcuna utilità, visto che l’autorità di amministrazione attiva, competente all’adozione del provvedimento finale, già si è determinata negativamente, sicché non si comprende a che titolo dovrebbe richiedersi un parere alla soprintendenza.

È fondato il quinto motivo di ricorso.
Il diniego di sanatoria si fonda sulla stessa, illegittima, motivazione dell’ordinanza di demolizione (vedi sopra); esso, inoltre, è stato emesso, senza che fosse stato richiesto il parere della Soprintendenza, ex art. 167 d. l.vo 42/2004.
Vero è, al riguardo, che secondo una parte della giurisprudenza: “L’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”) prevede che l’autorità preposta alla gestione del vincolo, si pronunci “ previo parere vincolante della soprintendenza”; tuttavia, qualora l’autorità comunale ravvisi l'insussistenza dei presupposti di legge per la sanatoria (non solo paesaggistica, ma anche urbanistica, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001), il parere della soprintendenza non avrebbe alcuna utilità, visto che l’autorità di amministrazione attiva, competente all’adozione del provvedimento finale, già si è determinata negativamente, sicché non si comprende a che titolo dovrebbe richiedersi un parere alla soprintendenza” (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 11/01/2013, n. 84).
Ma una motivazione di tal genere è completamente assente nel diniego gravato, che viceversa assume, a suo unico presupposto, la scadenza (del p. di c. e) del nulla osta paesaggistico del 2008.
Si omette la trattazione del sesto motivo di ricorso, stante il carattere assorbente dei precedenti rilievi (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.09.2015 n. 2006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: In house ok solo se la partecipazione pubblica è totalitaria.
L'affidamento in house a una società partecipata da un comune è legittimo soltanto se la partecipazione pubblica è totalitaria; la nuova norma della direttiva 2014/24, che ammette la presenza di soci privati, non è norma di diretta applicazione e potrà essere recepita discrezionalmente dal nostro legislatore.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 11.09.2015 n. 4253.
La questione riguardava un affidamento in via diretta, senza ricorso ad una gara, del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte di un comune a favore di una società pubblica cui partecipavano anche soci privati facenti parte di un consorzio.
Si poneva quindi la questione della legittimità dell'affidamento in house, risolta negativamente in primo grado sul presupposto che mancasse il requisito del cosiddetto «controllo analogo» da parte dell'amministrazione di riferimento. Il Consiglio di stato conferma che soltanto la partecipazione totalitaria delle amministrazioni pubbliche e la totale assenza di soggetti privati nella compagine sociale, consentono di ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al cosiddetto «controllo analogo», requisito essenziale per potere derogare alla regola della gara e per potere procedere all'affidamento diretto.
La sentenza affronta poi l'altro punto connesso alla possibilità di avvalersi della nuova norma contenuta nella direttiva europea 2014/24, che ha modificato la disciplina precedente in tema di in house, andando in controtendenza rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia e ammettendo l'affidamento in house anche nei confronti di società partecipate da privati.
La stessa norma della direttiva ha inoltre introdotto una seconda modifica relativa alla percentuale di attività svolta prevalentemente per il soggetto pubblico controllante, ridotta all'80% dal 90%.
Su questo profilo la pronuncia stabilisce che l'art. 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 «che ammette l'esistenza del controllo analogo anche in casi in cui il soggetto che opera in regime privatistico è partecipato da soggetti privati, purché tale partecipazione sia ristretta nei limiti ivi stabiliti, non è ancora direttamente applicabile».
I giudici sottolineano infatti che il legislatore comunitario ha individuato un termine per il recepimento della suddetta direttiva nei diversi ordinamenti nazionali e tale termine è ancora pendente (scadrà nell'aprile 2016, quando le direttive appalti pubblici, previa approvazione del ddl delega appalti attualmente alla camera sarà approvato).
Ma la cosa rilevante messa in luce dalla sentenza e spesso sottovalutata è che su questa materia il legislatore comunitario ha attribuito ai legislatori nazionali una sfera di discrezionalità nell'individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti e per il necessario coordinamento con la normativa interna vigente.
L'articolo 12, peraltro, non è norma di diretta applicazione e quindi nell'ambito del recepimento delle direttive nulla osterebbe a che si optasse per la scelta di mantenere il vincolo del 100% di partecipazione pubblica, evitando che i soci privati entrino nelle spa locali che gestiscono servizi (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIPoiché l’oggetto del provvedimento (ndr: ordinanze con le quali il Sindaco ha disciplinato le modalità di ritiro e conferimento dei rifiuti solidi urbani dei residenti nei condomini) attiene alla regolazione delle modalità di conferimento dei rifiuti solidi urbani, in una specifica e circoscritta zona del territorio comunale e, quindi, riguarda la concreta gestione e organizzazione di un servizio pubblico, disciplinato da atti normativi di vario livello, la competenza spetta agli organi dirigenziali e non al Sindaco.
1. – Con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti in esame, l’amministratore dei condomini ed alcuni dei residenti dei palazzi individuati come “Palazzo B”, “Palazzo C” e “Palazzo D”, della via ... n. 178, in Quartu Sant’Elena, contestano le ordinanze con le quali il Sindaco di Quartu S.E. ha disciplinato le modalità di ritiro e conferimento dei rifiuti solidi urbani dei residenti nei condomini in questione.
...
8. - Occorre, pertanto, procedere con l’esame dei motivi aggiunti, nella parte in cui impugnano l’ordinanza sindacale n. 90 del 24.12.2014.
9. - Tra questi, occorre privilegiare il motivo con il quale si deduce l’incompetenza del Sindaco all’adozione del provvedimento impugnato. Ad avviso dei ricorrenti, difatti, la materia rientra nella gestione amministrativa, riservata –ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.)– alla competenza degli organi dirigenziali.
10. - Il motivo è fondato e assorbente.
In primo luogo, come emerge anche da quanto finora osservato, la materia oggetto degli atti impugnati (e in particolare delle ordinanze sindacali succedutesi dal febbraio 2014) riguarda un particolare profilo di organizzazione e gestione del servizio di ritiro e conferimento dei rifiuti solidi urbani comunali.
E’ noto come l’art. 107 del TUEL riservi alla competenza dei dirigenti l’intera gestione amministrativa dei Comuni, con un’ampia formula secondo la quale “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
La stessa norma individua un limite nelle disposizioni di legge o di statuto che individuano le competenze degli organi di indirizzo politico; limite, che costituisce la traduzione in termini più specifici del principio di distinzione tra gestione, da un lato, e indirizzo e controllo dall’altro. Anche la variazione o la modifica dell’estensione dell’area delle attribuzioni assegnate agli organi di indirizzo è soggetta a rigorosi limiti, poiché l’art. 107 cit. le consente solo se introdotte con disposizione di fonte legislativa e solo se la deroga all’art. 107 sia prevista in modo espresso.
Ma anche se non si condivida la rigorosa interpretazione appena esposta, e si ritenga che la distribuzione delle competenze possa essere incisa anche da disposizioni legislative speciali che impongono di concludere, in via di interpretazione sistematica, nel senso che si tratti di norme che introducono ipotesi di deroga al sistema delineato dall’art. 107, deve rilevarsi che nella materia oggetto della vicenda in esame potrebbero venire in gioco esclusivamente le norme di cui all’art. 54 del TUEL e all’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Peraltro, entrambe le norme sono inapplicabili alla concreta fattispecie in esame. L’art. 54 cit. subordina il potere di ordinanza del Sindaco a diversi presupposti, tra i quali (tipicamente) la necessità e l’urgenza “di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Circostanze che, alla luce della motivazione, non vengono nemmeno allegate o prospettate quali presupposti per l’adozione del provvedimento sindacale impugnato.
Anche l’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 descrive una fattispecie i cui elementi costitutivi non ricorrono nel caso di specie. Il presupposto è costituito, infatti, dall’«abbandono e … deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo …» (ovvero dalla «immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee»), che –nel disegno della norma– giustifica l’esercizio del potere del Sindaco, il quale «dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate».
Come risulta dalla pur sintetica esposizione in fatto di cui sopra, è del tutto evidente che, nel caso regolato dalla impugnata ordinanza, non ricorre alcuno dei presupposti per l’applicazione dell’art. 192 cit..
11. - In definitiva, come anticipato, poiché l’oggetto del provvedimento attiene alla regolazione delle modalità di conferimento dei rifiuti solidi urbani, in una specifica e circoscritta zona del territorio comunale e, quindi, riguarda la concreta gestione e organizzazione di un servizio pubblico, disciplinato da atti normativi di vario livello, la competenza spetta agli organi dirigenziali e non al Sindaco (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 11.09.2015 n. 1018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione non suscettibile di prescrizione.
In tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità puniti.
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2. In relazione alla dedotta omessa valutazione della questione relativa all'ineseguibilità dell'ordine di demolizione allorquando sia intervenuto un provvedimento amministrativo che abbia sanato o comunque risolto l'illegittimità dell'abuso, va rilevato che alcun provvedimento specifico è mai stato invocato dalla ricorrente.
Va ricordato in proposito che
in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna, per la sua natura di sanzione amministrativa applicata dall'autorità giudiziaria, non è suscettibile di passare in giudicato essendone sempre possibile la revoca quando esso risulti assolutamente incompatibile con i provvedimenti della P.A. che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (così questa sez. 3, n. 3456 del 21.11.2012 dep. il 23.1.2013, Oliva, rv. 254426, in cui la Corte, nell'affermare il principio, ha annullato il provvedimento di rigetto dell'istanza di revoca dell'ordine di demolizione emesso nonostante la pendenza della procedura di condono).
Il giudice dell'esecuzione ha l'obbligo di revocare l'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento, ove sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto incompatibili, ed ha, invece, la facoltà di disporne la sospensione quando sia concretamente prevedibile e probabile l'emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili (cfr. sez. 3, n. 24273 del 24.03.2010, Petrone, rv. 247791).
Nello specifico, il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di revoca o di sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento amministrativo e, in particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento (cfr. ex multis sez. 3, n. 47263 del 25.09.2014, Russo, rv. 261212; sez. 3, n. 42978 del 17.10.2007, Parisi, rv. 238145).
E' stato anche precisato che
l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività, fermo restando il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (sez. 3, n. 47402 del 21.10.2014, Chisci ed altro, rv. 260972).
Il GIP del Tribunale di Torre Annunziata in funzione di G.E. ha perciò correttamente ritenuto che
l'ordine di demolizione può essere sempre revocato quando risulti incompatibile con atti amministrativi che conferiscano altra destinazione o provvedano alla sanatoria, ma detta incompatibilità deve essere esistente ed insanabile al momento della decisone, mentre non può essere futura e meramente eventuale.
3. Quanto alla dedotta prescrizione, costituisce jus receptum di questa Corte Suprema l'affermazione secondo cui
in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (sez. 3, ord. n. 19742 del 14.04.2011, Mercurio ed altro, rv. 250336; sez. 3, n. 43006 del 10.11.2010, La Mela, rv. 248670; sez. 3, n. 39705 del 30.04.2003, Pasquale, rv. 226573) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2015 n. 36387 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe associazioni di settore sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si tratti di perseguire, comunque, il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere strumentale, con l’unico limite, tuttavia, derivante dal divieto di occuparsi di questioni concernenti i singoli iscritti ovvero capaci di dividere la categoria in posizioni disomogenee.
Al riguardo, la giurisprudenza ha anche precisato che le associazioni di categoria possono agire in giudizio per far valere interessi propri ed esclusivi dell’associazione ma non dei singoli associati, e che la circostanza che una controversia relativa a singoli associati possa interessare indirettamente la generalità degli appartenenti alla categoria, non trasforma la controversia da individuale a collettiva.

Sotto questo profilo, il difetto di legittimazione attiva rileva anche in considerazione del fatto che le associazioni di settore sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si tratti di perseguire, comunque, il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere strumentale, con l’unico limite, tuttavia, derivante dal divieto di occuparsi di questioni concernenti i singoli iscritti ovvero capaci di dividere la categoria in posizioni disomogenee (C.d.S., sez. III, n. 474 del 03/02/2014; C.d.S., sez. III, 27/04/2015, n. 2150).
Al riguardo, la citata giurisprudenza ha anche precisato che le associazioni di categoria possono agire in giudizio per far valere interessi propri ed esclusivi dell’associazione ma non dei singoli associati, e che la circostanza che una controversia relativa a singoli associati possa interessare indirettamente la generalità degli appartenenti alla categoria, non trasforma la controversia da individuale a collettiva
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 09.09.2015 n. 11130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area oggetto di intervento per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche se non esplicitamente nominati, con la conseguenza che in questi casi è dalla piena conoscenza che decorre il termine di proposizione del gravame.
Negli altri casi; invece, ovvero per i soggetti c.d. terzi il termine decorre dalla data della pubblicazione della delibera all'albo pretorio (ora, in forza di quanto stabilito dall’art. 32 della l. 69 del 2009, tale pubblicazione deve avvenire dal 01.01.2010 sull’albo online).
Più in particolare, in tema di decorrenza del dies a quo del termine decadenziale di impugnazione, la pubblicazione all'albo pretorio non é sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell'atto da parte di quei soggetti ai quali l'atto direttamente si riferisce e che sono interessati a impugnarlo, ai quali pertanto il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente.
Lo è, invece, secondo i canoni dell’art. 41 c.p.a. (già art. 21 della legge Tar), per i soggetti terzi per i quali non è richiesta la notifica individuale.

Ulteriore profilo di inammissibilità si coglie, ancora, nella tardività del ricorso proposto dal Codacons.
Ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso, quante volte esso ha effetti specifici e circoscritti all'area oggetto di intervento per l'esecuzione dell'opera e, quindi, è rivolto a soggetti determinati anche se non esplicitamente nominati, con la conseguenza che in questi casi è dalla piena conoscenza che decorre il termine di proposizione del gravame (C.d.S., sez. IV, 11/11/2014, n. 5526).
Negli altri casi; invece, ovvero per i soggetti c.d. terzi il termine decorre dalla data della pubblicazione della delibera all'albo pretorio (ora, in forza di quanto stabilito dall’art. 32 della l. 69 del 2009, tale pubblicazione deve avvenire dal 01.01.2010 sull’albo online).
Più in particolare, in tema di decorrenza del dies a quo del termine decadenziale di impugnazione, la pubblicazione all'albo pretorio non é sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell'atto da parte di quei soggetti ai quali l'atto direttamente si riferisce e che sono interessati a impugnarlo, ai quali pertanto il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente.
Lo è, invece, secondo i canoni dell’art. 41 c.p.a. (già art. 21 della legge Tar), per i soggetti terzi per i quali non è richiesta la notifica individuale.
Ebbene, nel caso di specie non ricorrono i presupposti per la notificazione individuale dell’atto (sostituibile, in caso di omissione, solo dalla sua piena conoscenza) dovendosi escludere, in ragione del contenuto degli atti impugnati, che il Codacons fosse da considerare soggetto al quale detti atti direttamente si riferiscono o, comunque, soggetto immediatamente inciso dai loro effetti e, perciò, bisognevole di notificazione o comunicazione individuale.
Ne consegue, che il termine d’impugnativa decorreva, per il Codacons, dalla data di pubblicazione all'albo pretorio della deliberazione di G.C. n. 251 del 03.09.2010 (disposta dal 7 settembre per i successivi 15 giorni, ovvero dal 22.09.2010) e non già dal 10 dicembre successivo (giorno dell’accesso, dal quale potevano decorrere, semmai, i termini per la proposizione di motivi aggiunti).
Poiché il ricorso del Codacons è stato avviato alla notificazione soltanto in data 8 febbraio 2011, lo stesso avrebbe dovuto dichiararsi tardivo
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 09.09.2015 n. 11130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Distinzione tra l'istanza che fa nascere l'obbligo di provvedere e il semplice "esposto" come protezione contro le inerzie dell’amministrazione.
Esiste l'obbligo di provvedere, oltre che nei casi stabiliti dalla legge, anche in fattispecie ulteriori nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l'adozione di un provvedimento. Si tende, in tal modo, ad estendere le possibilità di protezione contro le inerzie dell’amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc che imponga un dovere di provvedere (è stato detto che "indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un'esplicita pronuncia)".
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In caso di richiesta di atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall'adozione dei quali l’istante possa trarre indirettamente vantaggi (c.d. interessi strumentali) -e tali sono le istanze presentate dalla ricorrente- occorre distinguere tra l'istanza che fa nascere l'obbligo di provvedere e il semplice "esposto", che ha mero valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse tutelata sia dall'apertura del procedimento conclusivo, sia dalla conclusione dello stesso in modo conforme alle aspettative dell'istante.
Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza (idonea a radicare il dovere di provvedere) e mero esposto, viene ravvisato dalla giurisprudenza “nell'esistenza in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività. Occorre, in altri termini, che il comportamento omissivo dell'Amministrazione sia stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per l'appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. Ove ciò accada, l'eventuale inerzia serbata dall'Amministrazione sull'istanza, assume una connotazione negativa e censurabile dovendo l'Ente dar comunque seguito (anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'interessato) all'istanza”.
... per l'accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dalla Provincia di Milano, ora Città Metropolitana di Milano, sulle reiterate segnalazioni della ricorrente, con cui si denunciava la presenza di una serie di impianti pubblicitari abusivamente apposti da ignoti sul sedime laterale della Strada Provinciale 15-bis, nel tratto immediatamente prospiciente la rotonda posta all'incrocio tra Via A. Grandi e Via XXV Aprile, in Comune di Peschiera Borromeo (MI), ai fini della loro rimozione, nonché -ove occorrer possa- per la declaratoria dell'illegittimità di ogni altro eventuale comportamento presupposto, connesso e/o conseguente.
...
5. La giurisprudenza è ormai costantemente orientata nel ritenere che esiste l'obbligo di provvedere, oltre che nei casi stabiliti dalla legge, anche in fattispecie ulteriori nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l'adozione di un provvedimento. Si tende, in tal modo, ad estendere le possibilità di protezione contro le inerzie dell’amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc che imponga un dovere di provvedere (Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2007, n. 2318; Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2004, n. 7975 secondo cui “indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un'esplicita pronuncia)".
In particolare, in caso di richiesta di atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall'adozione dei quali l’istante possa trarre indirettamente vantaggi (c.d. interessi strumentali) -e tali sono le istanze presentate dalla ricorrente- occorre distinguere tra l'istanza che fa nascere l'obbligo di provvedere e il semplice "esposto", che ha mero valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse tutelata sia dall'apertura del procedimento conclusivo, sia dalla conclusione dello stesso in modo conforme alle aspettative dell'istante.
Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza (idonea a radicare il dovere di provvedere) e mero esposto, viene ravvisato dalla giurisprudenza “nell'esistenza in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività. Occorre, in altri termini, che il comportamento omissivo dell'Amministrazione sia stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per l'appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. Ove ciò accada, l'eventuale inerzia serbata dall'Amministrazione sull'istanza, assume una connotazione negativa e censurabile dovendo l'Ente dar comunque seguito (anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'interessato) all'istanza”.
In applicazione di questi principi, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, sussista in capo all’amministrazione un obbligo di provvedere.
La proprietà di un complesso immobiliare che affaccia sulla strada provinciale 15-bis su cui sono stati apposti i cartelloni abusivi in questione, attribuisce alla ricorrente una situazione di specifico e rilevante interesse, differenziata da quella della generalità dei consociati e tale, pertanto, da radicare in capo all'amministrazione un obbligo di pronunciarsi sulla relativa istanza.
6. Occorre a questo punto accertare se l’amministrazione abbia o meno provveduto sulle istanze presentate dalla ricorrente, e, in particolare, su quella del 16.12.2013 (perché solo con riferimento a questa il ricorso è stato proposto nei termini previsti all’art. 31, c. 2, cod. proc. amm.).
La ricorrente ha presentato all’amministrazione provinciale una prima denuncia nel luglio 2010, cui ha fatto seguito la rimozione da parte dell’amministrazione dei cartelloni abusivi.
Nell’ottobre e nel novembre 2010, la ricorrente ha dato avviso alla Provincia della successiva nuova installazione di impianti pubblicitari abusivi da parte di ignoti, chiedendone la rimozione.
In mancanza di riscontro, con nota del gennaio 2011, la società ricorrente ha nuovamente denunciato all’amministrazione il perdurare della situazione e richiesto l’assunzione di provvedimenti repressivi.
Con nota del 16.2.2011, la Provincia di Milano ha riscontrato l’istanza, comunicando alla ricorrente di avere avviato le procedure per bandire il nuovo appalto per il servizio di rimozione degli impianti pubblicitari abusivi.
Con nota dell’agosto 2011, la ricorrente ha nuovamente richiesto alla Provincia di provvedere alla eliminazione dei tabelloni pubblicitari. L’istanza è stata reiterata con nota del luglio 2012 e da ultimo con nota del 16.12.2013.
Sulle istanze presentate nel 2010 e nel 2011, l’obbligo di conclusione del procedimento previsto all’art. 2, l. n. 241/1990 può dirsi adempiuto con il provvedimento del febbraio 2011 con il quale l’amministrazione provinciale ha comunicato di essere intervenuta più volte per rimuovere gli impianti pubblicitari in questione, che l’appalto per il servizio di rimozione mezzi pubblicitari abusivi è scaduto e sono state avviate le procedure per bandire il nuovo appalto.
Si tratta invero di un provvedimento espresso che si è pronunciato sulle richieste presentate della ricorrente.
Ad avviso del Collegio, tale atto non è tuttavia sufficiente a ritenere rispettato quanto previsto dall’art. 2, l. n. 241/1990 in quanto le successive istanze presentate nel 2012 e nel 2013, con cui la ricorrente ha reiterato la richiesta di intervento dell’amministrazione, hanno determinato nuovamente il sorgere di un obbligo di provvedere.
Non trova, invero, applicazione nel caso di specie il principio giurisprudenziale secondo cui un tale obbligo non sorge allorché un’istanza sia meramente reiterativa di altra, di identico contenuto, sulla quale era già intervenuta una determinazione esplicita, divenuta inoppugnabile per decorso dei termini (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 13/06/2003, n. 2428; TAR Marche, Ancona, sez. I, 21/03/2014, n. 369; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 26/11/2009, n. 810; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 12/10/2009, n. 697) e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto (cfr. id. n. 89/95 e Cass. SS.UU. 20.01.1969, n. 128).
Questa giurisprudenza trova, invero, applicazione in caso di mera reiterazione di un'istanza già definita con atto negativo o anche solo soprassessorio.
Il provvedimento del febbraio 2011 con cui la p.a. ha riscontrato le prime istanze aveva, invece, un contenuto favorevole alla ricorrente, poiché con esso la Provincia ha, nella sostanza, affermato che avrebbe agito nel senso auspicato dall’istante, provvedendo, mediante una procedura d’appalto, alla individuazione di un soggetto che avrebbe rimosso gli impianti abusivi: non avendo un contenuto lesivo l’atto non necessitava pertanto di alcuna impugnazione.
Inoltre, a fronte di un atto con cui la p.a., nel febbraio 20111, ha affermato di avere dato avvio alle procedure per bandire il nuovo appalto per il servizio di rimozione dei mezzi pubblicitari abusivi, ormai scaduto, a luglio 2012 e, a maggior ragione, a dicembre 2013 può dirsi decorso il termine entro il quale tale procedura di gara avrebbe dovuto essere conclusa: ciò configura un sopravvenuto mutamento della situazione di fatto e di diritto che consente di ritenere nuova l’ultima istanza e dunque di affermare il sorgere, nuovamente, dell’obbligo per la p.a. di concludere il procedimento con la stessa avviato.
In caso contrario, invero, l’istante resterebbe privo di tutela: non avrebbe potuto impugnare il provvedimento con cui viene comunicato l’avvio delle procedure per bandire la gara d’appalto, in quanto atto favorevole e, pur a fronte di una perdurante inerzia della p.a. nel concludere il procedimento di gara d’appalto e comunque nel provvedere a esercitare il doveroso potere sanzionatorio, non disporrebbe neppure dello strumento del ricorso avverso il silenzio.
7. Affermata la sussistenza di un obbligo di conclusione del provvedimento va, infine, rigettata l’eccezione formulata dalla difesa dell’amministrazione provinciale con cui si afferma che la competenza a provvedere sull’istanza è del Comune di Peschiera Borromeo -ai sensi di quanto previsto dall’art. 23, c. 4, d.lgs. n. 285/1992, in quanto la rotatoria e la strada provinciale 15-bis su cui si trovano i cartelloni abusivi sono incluse nel centro abitato del Comune- e non della Città Metropolitana di Milano.
La Provincia di Milano, con nota depositata il 21.05.2015, in ottemperanza all’istanza istruttoria formulata da questo Tribunale con ordinanza n. 1009/2015, ha affermato che:
- il Comune di Peschiera Borromeo ha inserito con delibera n. 301/2008 il tratto stradale in questione nel centro abitato;
- per i Comuni con un numero di abitanti superiore alle 10.000 unità, l’art. 4, d.P.R. n. 495/1992 prevede che i tratti di strade provinciali ricadenti all’interno del centro abitato vengano declassati a strade comunali e che la competenza della gestione e manutenzione, compresa la rimozione degli impianti abusivi, passi al Comune;
- ha attivato le procedure per la cessione dei tratti stradali (incluso il tratto della s.p. 15-bis su cui si trovano gli impianti abusivi) che il Comune di Peschiera Borromeo ha incluso nel centro abitato ma che il Comune non ha dato, al momento, riscontro favorevole di tale passaggio.
Il Collegio non condivide queste argomentazioni.
L’articolo 4, d.P.R. n. 495/1992, recante “passaggi di proprietà fra enti proprietari delle strade”, così dispone ai commi 4 e ss.: “4. I tratti di strade statali, regionali o provinciali, che attraversano i centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti, individuati a seguito della delimitazione del centro abitato prevista dall'articolo 4 del codice, sono classificati quali strade comunali con la stessa deliberazione della giunta municipale con la quale si procede alla delimitazione medesima.
5. Successivamente all'emanazione dei provvedimenti di classificazione e di declassificazione delle strade previsti agli articoli 2 e 3, all'emanazione dei decreti di passaggio di proprietà ed alle deliberazioni di cui ai commi precedenti, si provvede alla consegna delle strade o dei tronchi di strade fra gli enti proprietari.
6. La consegna all'ente nuovo proprietario della strada è oggetto di apposito verbale da redigersi in tempo utile per il rispetto dei termini previsti dal comma 7 dell'articolo 2 ed entro sessanta giorni dalla delibera della giunta municipale per i tratti di strade interni ai centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti.
7. Qualora l'amministrazione che deve prendere in consegna la strada, o tronco di essa, non interviene nel termine fissato, l'amministrazione cedente è autorizzata a redigere il relativo verbale di consegna alla presenza di due testimoni, a notificare all'amministrazione inadempiente, mediante ufficiale giudiziario, il verbale di consegna e ad apporre agli estremi della strada dismessa, o dei tronchi di essa, appositi cartelli sui quali vengono riportati gli estremi del verbale richiamato
”.
Poiché nel caso di specie non risulta che l’amministrazione provinciale -a fronte dell’inerzia del Comune di Peschiera Borromeo nel prendere in consegna la strada in questione- abbia attivato la procedura prevista dall’ultimo comma della norma citata, si può affermare che la competenza a provvedere in merito all’istanza della ricorrente sia rimasta in capo alla Provincia e dunque ora alla Città Metropolitana di Milano.
8. Non escludono, infine, l’illegittimità del silenzio la non disponibilità, in capo all’ente, delle attrezzature necessarie per rimuovere mezzi elettrificati e le difficoltà economiche lamentate dall’amministrazione, stante la doverosità non solo dell’obbligo di conclusione del procedimento, previsto all’art. 2, l. n. 241/1990, ma anche dell’esercizio del potere sanzionatorio disciplinato dall’art. 23, d.lgs. n. 285/1992, norma che prevede la irrogazione di sanzioni direttamente nei confronti dell’autore della violazione, del proprietario o del possessore del suolo privato o del soggetto che utilizza gli spazi pubblicitari privi di autorizzazione e che dispone altresì che, ove la rimozione sia effettuata dall’ente proprietario, i relativi oneri siano a carico dell'autore della violazione e, in via tra loro solidale, del proprietario o possessore del suolo.
9. Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto. Per l’effetto va ordinato alla Città Metropolitana di Milano di concludere con un provvedimento espresso e motivato il procedimento avviato con l’istanza presentata dalla ricorrente il 16.12.2013, entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
10. In caso di inottemperanza entro il termine suindicato, il Prefetto di Milano, in qualità di commissario ad acta, con facoltà di delega a funzionario di sua fiducia, provvederà in sostituzione dell’amministrazione inadempiente a concludere il procedimento entro il successivo termine di novanta giorni (
TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 09.09.2015 n. 1958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICISe qualcuno manifesta contro l'opera, l'autorizzazione può essere revocata.
Altro che «svolta buona». Se la deriva intrapresa l'8 settembre, ricorrenza di una data fatidica, l'armistizio di Cassibile, giornata nera per l'Italia, non sarà corretta, potremo consegnare le chiavi del paese alla Troika senza ripensamenti.
L'8 settembre il TAR Lazio-Roma, con una sentenza clamorosa (Sez. II-bis, sentenza 08.09.2015 n. 11098), ha infatti respinto un ricorso presentato da un'azienda specializzata nella produzione di forni crematori (che brutto mestiere!) contro una delibera del comune di Borgorose (Rieti).
In questo ridente paesino laziale la giunta ha dapprima assegnato e poi revocato l'appalto alla ditta per realizzare uno dei funerei aggeggi. La ditta appaltatrice aveva fatto ricorso contro la revoca. E il Tar, nel respingerlo, ha motivato spiegando che in giunta erano sorti «alcuni profili inerenti una nuova valutazione dell'interesse pubblico» vale a dire «la manifestazione da parte della popolazione del comune della contrarietà alla realizzazione dell'opera e l'interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione». Secondo il Tar «tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità della nuova scelta, con conseguente conferma della qualificazione del provvedimento in termini di revoca».
La vicenda, meritoriamente svelata da «Formiche.net», sancisce il trionfo legale dell'arbitrio populista. La fine di qualsiasi ordinata prevedibilità nei rapporti stato-mercato. L'apoteosi della sindrome del «nimby» (not in my backyard, non nel mio giardino) che ispira il 99% dei movimenti ambientalisti italiani, dai no-Tav piemontesi ai no-Tap pugliesi.
Significa, in definitiva, che nessuna decisione statale sarà mai più sottratta all'incubo di una revoca, se incomberà la pressione dell'opinione pubblica. Fine dello stato di diritto, avvento formale della Repubblica delle banane. Si sancisce la facoltà incondizionata al «ripensamento» sotto gli «umori della piazza», come ha commentato il giudice Massimiliano Atelli.
Le procedure amministrative in vigore in Italia, già straordinariamente lunghe, avevano però finora trovato un termine nell'itinerario politico di una delibera, comunale, regionale o nazionale che fosse. Una volta approvata, la si eseguiva. Dopo un simile pronunciamento, questo limite salta: ogni decisione è reversibile, costi quel che costi.
Ebbene, di sicuro, dopo il varo della riforma del senato, grazie a Calderoli ormai più vicino, sarà bene che il governo Renzi si occupi delle autonomie locali. Per tagliare le unghie alle regioni scialacquatrici. E circoscrivere in ambiti «normali» il potere abnorme dei Tar, generatore di simili mostri (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazioni su richieste edilizie: sì alle prescrizioni. Consiglio di Stato. Senza stravolgimenti.
Primi orientamenti dei giudici utili ai cittadini che intendano operare con la Scia (segnalazione inizio attività), innovata dalla recente legge 124/2015.
Il Consiglio di Stato -Sez. IV- (sentenza 08.09.2015 n. 4176) conferma che i provvedimenti richiesti in materia edilizia possono contenere prescrizioni, correttivi e integrazioni minime o di esigua entità rispetto alla domanda del cittadino, mentre non si possono imporre stravolgimenti progettuali che incidano anche sui vicini.
Questo principio si collega alla modifica del 2015, la quale riguarda il termine massimo per annullare una Scia (18 mesi): ora il giudice aggiunge anche indicazioni sul tipo di risposta che, dinanzi a una richiesta di autorizzazione, permesso, licenza, o concessione, la pubblica amministrazione è tenuta a fornire. Entro 60 giorni (30 in edilizia) il Comune può infatti chiedere chiarimenti, e quindi non vi è più il solo binomio assenso-diniego, bensì vi è l’alternativa tra assenso e “dissenso costruttivo”.
In altri termini, l’amministrazione è tenuta a suggerire, indicare, specificare cos’è che non va e come potervi rimediare. In questo modo, gran parte dei problemi si possono risolvere, perché il cittadino-utente non vuole solamente una risposta in 30 o 60 giorni, ma vuol sapere (anche in tempi brevi) cos’è che non va nella sua idea progettuale o imprenditoriale.
Ottenere dalla Pa una risposta esauriente applica, del resto, il “dovere di soccorso” già presente per i documenti da fornire nelle gare di appalto (Consiglio di Stato, Adunaza plenaria n. 9/2014), in alcuni aspetti dei Durc (invito a “regolarizzare” la posizione, articolo 31 Dl 69/2013, su cui Tar Lazio 15.09.2015 n. 11250) o in materia di giustificazione delle anomalie di gara (Tar Lazio 4274/2015).
Fino a oggi era il privato a doversi giustificare, se voleva che l’amministrazione condividesse le offerte (in gara) o le proposte dei privati (nell’edilizia, nel commercio). Ora un principio di parità estende l’“onere di parlar chiaro” anche alle Pa, che devono far precedere al rigetto l’indicazione di quelle modifiche che potrebbero far ritenere ammissibile l’istanza del privato.
Questa maggiore articolazione del procedimento può rivelarsi anche rischiosa per l’amministrazione, in quanto, una volta ottenute dal privato le modifiche proposte, non è possibile che la Pa torni sui propri passi e rimetta in discussione temi non affrontati. Si tratta del principio “one shot” (Consiglio Stato 439/2015), secondo il quale non si possono riesaminare profili in precedenza non segnalati.
Infine, anche in materia ambientale (articolo 146 Tu 42/2004) è possibile un dissenso costruttivo (Consiglio Stato 1418/2014) cioè la Pa può (e deve) specificare quali accorgimenti tecnici o progettuali potrebbero sbloccare una procedura di autorizzazione paesaggistica.
Ciò fermo restando che l’amministrazione può chiedere anche un parere a soggetti estranei al procedimento, come è ad esempio avvenuto per una costruzione vicina ad un aeroporto militare (Tar Lecce 14.09.2015 n. 2722), intervento sul quale è stato ritenuto utile, anche se non previsto, il parere dell’autorità militare.
Del resto, anche per i settori più sensibili, quale quello paesaggistico, vi sono da tempo (Tar Brescia 317/2008) segnali favorevoli alla previsione di “misure compensative” che possano comunque riequilibrare il rapporto pubblico-privato
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.09.2015).

EDILIZIA PRIVATALa “vicinitas”, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
Quanto, poi, alla evidenziata qualità, in capo alla L.R.E., di proprietaria di altro immobile confinante con quello oggetto del rilascio della concessione in sanatoria, rileva il Collegio che essa integra il requisito della “vicinitas”, la quale costituisce condizione sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse ad impugnare la concessione edilizia.
Vale in proposito richiamare il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, a mente del quale la “vicinitas”, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l’interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (cfr. Cons. Stato, IV, 18.11.2014, n. 5662; IV, 05.03.2015, n. 1116; IV, 12.03.2015, n. 1315); rilevandosi comunque che nel caso di specie l’appellante principale deduce tra l’altro, nel contestare il titolo edilizio rilasciato, che la scala realizzata violerebbe le distanze in tema di vedute rispetto alla sua proprietà confinante
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.09.2015 n. 4176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contratto di comodato, intervenuto tra il proprietario dell’area ed il concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione) con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione edilizia, salva l’opposizione del proprietario.
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La non conformità dei lavori alla disciplina urbanistica è elemento che deve essere valutato dall’amministrazione in sede di rilascio del titolo (e successivamente dal giudice in sede di ricorso giurisdizionale), onde, ai fini della legittimazione a richiederne l’autorizzazione, risulta sufficiente che gli stessi siano in domanda prospettati come rispettosi della normativa urbanistica.
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E' ben vero che il Comune, al momento del rilascio del permesso di costruire, deve verificare la sussistenza di un titolo idoneo al suo rilascio.
E’, peraltro, indubitabile che, esibito un titolo, l’ente locale non è tenuto a compiere complesse indagini in ordine alla permanente validità dello stesso ovvero a contestazioni o controversie che sul punto siano instaurate da terzi, quando tali situazioni non siano state introdotte nel procedimento.

Va, invero, evidenziato che la giurisprudenza afferma che il contratto di comodato, intervenuto tra il proprietario dell’area ed il concessionario, instaura una relazione stabile (detenzione) con il bene oggetto del medesimo, sufficiente, come quella del locatario, per richiedere ed ottenere la concessione edilizia, salva l’opposizione del proprietario (cfr. Cons. Stato, IV, 09.02.2015, n. 648).
Orbene, il contratto di comodato invocato dall’appellante, stipulato in data 15.07.1995, prevede espressamente l’autorizzazione da parte del proprietario alla esecuzione di lavori.
L’articolo 5 recita, infatti, che “eventuali lavori sia sulla struttura che sugli impianti potranno essere effettuati dalla ditta Grilli s.a.s. attenendosi alla legislazione vigente e soltanto dopo aver richiesto ed ottenuto le eventuali autorizzazioni o concessioni”.
Non coglie nel segno il rilievo dell’appellante, laddove afferma che la clausola deve essere interpretata nel senso che l’autorizzazione riguarda solo opere conformi alla normativa e previamente autorizzate, onde non varrebbe a legittimare la richiesta di un titolo edilizio per opere difformi e per lo più originariamente abusive.
Osserva in proposito la Sezione che la non conformità dei lavori alla disciplina urbanistica è elemento che deve essere valutato dall’amministrazione in sede di rilascio del titolo (e successivamente dal giudice in sede di ricorso giurisdizionale), onde, ai fini della legittimazione a richiederne l’autorizzazione, risulta sufficiente che gli stessi siano in domanda prospettati come rispettosi della normativa urbanistica.
Quanto, poi, all’argomento dell’autorizzazione preventiva alla esecuzione dei lavori, ritiene il Collegio che la clausola vada interpretata in conformità al nostro sistema urbanistico-edilizio, il quale prevede in definitiva la sanzionabilità dei soli abusi sostanziali, potendo quelli meramente formali essere ricondotti a legalità mediante l’istituto dell’accertamento postumo di conformità.
Ne consegue che la clausola contrattuale va letta nel senso che il comodatario è autorizzato a compiere interventi conformi alla disciplina urbanistica, i quali però devono essere supportati da autorizzazione dell’autorità amministrativa competente.
Potendo quest’ultima intervenire ordinariamente in via preventiva, ma per gli abusi meramente formali anche in via successiva di sanatoria, deve ritenersi che il comodatario, autorizzato dal proprietario alla esecuzione di opere edilizie regolari sia sostanzialmente che formalmente, è legittimato a richiedere la concessione in sanatoria, risultando questo strumento ordinario previsto dall’ordinamento per ricondurre a legalità, anche sotto il profilo formale, opere che siano comunque compatibili, da un punto di vista sostanziale, con la disciplina urbanistica.
Venendo, poi, alla posizione del signor Gr.Al., cui risulta intestato il titolo edificatorio rilasciato, osserva la Sezione che è ben vero che il Comune, al momento del rilascio del permesso di costruire, deve verificare la sussistenza di un titolo idoneo al suo rilascio.
E’, peraltro, indubitabile che, esibito un titolo, l’ente locale non è tenuto a compiere complesse indagini in ordine alla permanente validità dello stesso ovvero a contestazioni o controversie che sul punto siano instaurate da terzi, quando tali situazioni non siano state introdotte nel procedimento.
Sotto tale profilo, pertanto, non risulta viziata da illegittimità l’attività posta in essere dal Comune, ove si consideri che alla data del rilascio del titolo edilizio (06.07.2007), pur essendo già intervenuta la decisione di annullamento della Corte di Cassazione (06.06.2007), questa non era dallo stesso conosciuta in relazione al breve lasso temporale decorso.
D’altra parte, non può revocarsi in dubbio che, pur essendo venuto meno l’atto giudiziale di trasferimento coattivo (con questione, peraltro, ancora sub iudice, in relazione al disposto rinvio alla Corte di Appello), residuava comunque, in capo al Grilli Alberto, il contratto preliminare di compravendita, il quale fondava il ragionevole convincimento che ad esso fosse seguito, come da dichiarazione resa dal privato (v. concessione del 06.07.2007), il definitivo trasferimento del bene.
Non può, infine, non evidenziarsi come l’articolo 13 della legge n. 47/1985 legittimi alla richiesta della concessione in sanatoria “il responsabile dell’abuso” e che analoga disposizione si rinviene nell’articolo 36 del DPR n. 380/2001, il quale prevede che a richiedere l’accertamento di conformità possano essere “il responsabile dell’abuso o l’attuale proprietario dell’immobile
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.09.2015 n. 4176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Pulizie, serve il requisito. Identico all'oggetto dell'appalto.
È legittimo chiedere per l'ammissione a una gara di appalto un requisito pregresso identico all'oggetto della gara.

Lo stabilisce il Consiglio di Stato, Sez. IV con la sentenza 08.09.2015 n. 4170.
La questione esaminata dai giudici riguardava un contratto di appalto di servizi (di pulizia) per il quale il disciplinare di gara prevedeva il possesso di un requisito di capacità tecnica consistente nell'aver svolto nel triennio 2010-2012 servizi di pulizia delle aree interne ed esterne a un aeroporto, nonché servizi specialistici e accessori.
Il profilo di maggiore rilievo della sentenza riguardava la legittimità di avere richiesto come requisito di accesso alla gara un servizio «identico» a quello dell'affidamento.
A tale riguardo, i giudici affermano che al fine di assicurare la presenza dei requisiti di capacità tecnica ben può l'amministrazione appaltante richiedere che i concorrenti abbiano svolto servizi identici a quello oggetto dell'appalto «sempre che, s'intende, il requisito dell'identità dei servizi sia chiaramente espresso e risponda a un precipuo interesse pubblico». In via generale va segnalato che l'Autorità anticorruzione (già Avcp) in diversi provvedimenti, non ultimo le linee guida sui servizi di ingegneria e architettura, aveva censurato la richiesta di servizi identici, che invece la sentenza pare avallare, per ragioni di apertura alla concorrenza.
Nello specifico caso esaminato il ricorrente aveva svolto un contratto di facility management che aveva per oggetto l'attività di pulizia e manutenzione di impianti antincendio e facchinaggio per immobili adibiti prevalentemente ad uffici.
Per i giudici il requisito non poteva essere legittimamente prodotto perché l'oggetto dell'affidamento «ancorché rientrante nel genus del servizio di pulizia ha comunque connotazioni proprie, se è vero le prestazioni di pulizia in riferimento ai siti previsti (aree interne ed esterne degli spazi aeroportuali) devono avvenire con modalità e ausilio di mezzi calibrati ai luoghi».
Emergeva quindi un differenziare delle prestazioni richieste rispetto al normale servizio di pulizia effettuato all'interno di immobili adibiti ad ufficio che non consentiva di ritenere valido il requisito presentato (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015).
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MASSIMA
La tesi della ricorrente incidentale merita adesione.
Il bando di gara a proposito delle condizioni di partecipazione e della situazione personale degli operatori economici (punto III.2) richiedeva (punto III.2.3) ai partecipanti alla gara di “aver eseguito nell’ultimo triennio 2010 - 2011 e 2012 o di avere in corso di espletamento un appalto per servizi di pulizia di aree interne ed esterne di spazi aeroportuali con l’indicazione degli importi, delle date e degli aeroporti per un importo aggiudicato non inferiore a 10.000.000 euro”.
Quindi il disciplinare di gara a proposito dei requisiti di carattere speciale (punto 2.2) e cioè quelli relativi alla capacità economica e finanziaria classificati come 2.2.a e alla capacità tecnica e professionale rubricati coma 2.2.b stabiliva espressamente che “in caso di ATI i requisiti di cui ai punti 2.2 a e 2.2.b dovranno essere dichiarati e posseduti per almeno il 40% dall’impresa Capogruppo e per la restante percentuale cumulativamente dalla mandante in misura non inferiore per ciascuna mandante al 10%. Il totale deve essere comunque pari al 100% dei requisiti richiesti alla impresa singola. In ogni caso, ai sensi dell’art. 275, comma 2, del Regolamento, la mandataria deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria” Manutencoop nel dichiarare e comprovare il possesso del requisito di capacità tecnica di cui al punto 2.2.b del disciplinare ha fatto riferimento ai seguenti due contratti di appalto:
- quello con GESAP, soggetto gestore dell’aeroporto “Falcone Borsellino” di Palermo, avente ad oggetto il servizio di pulizia (in particolare di immobili destinati prevalentemente ad uso uffici) per un importo complessivo di euro 8.200.816.78;
- quello con Sacbo spa soggetto gestore dell’Aeroporto di Orio al Serio, dell’importo pari ad euro 2.893.435.,44.
Ebbene, nessuno dei predetti contratti è idoneo a dimostrare il possesso del requisito di partecipazione alla gara richiesto dalla lex specialis se si osserva che:
- quanto al secondo dei predetti contratti, quello con Sacbo, esso è stato stipulato il 16/02/2013 e cioè con decorrenza dal giorno successivo a quello di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura selettiva per cui è causa (15.02.2013) e se così è, tale rapporto contrattuale non può annoverarsi tra quelli utili a dimostrare il possesso del requisito di che trattasi posto che contrariamente a quanto prescritto dal disciplinare di gara non si riferisce al precedente triennio 2010 - 2011 e 2012 e neppure può considerarsi “in corso di espletamento”.
Appare evidente infatti che la condizione di ammissione alla gara deve essere sussistente al momento di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura selettiva, momento fondamentale cui ancorare il possesso dei requisiti, secondo un criterio di certezza delle situazioni giuridiche soggettive e tenuto comunque conto che al momento della dichiarazione di possesso del requisito (15/2/2013) il contratto non era comunque in essere.
Neppure il primo contratto, quello stipulato per l’aerostazione di Palermo, può ritenersi valido ai fini della dimostrazione del possesso del requisito di capacità tecnica nei termini previsti dalla disciplina di gara.
Manutencoop ha stipulato con Gesap una convenzione di facility management che ha per oggetto l’attività di pulizia e manutenzione di impianti antincendio e facchinaggio per immobili adibiti prevalentemente ad uffici, ma l’oggetto della gara per cui è causa è costituito specificatamente dal servizio di pulizia di aree interne ed esterne di spazi aeroportuali (punto III.2.3) che è cosa diversa.
L’oggetto dell’affidamento qui in contestazione ancorché rientrante nel genus del servizio di pulizia ha comunque connotazioni proprie, se è vero le prestazioni di pulizia in riferimento ai siti previsti (aree interne ed esterne degli spazi aeroportuali) devono avvenire con modalità ed ausilio di mezzi calibrati ai luoghi, e tanto vale a differenziare le prestazioni richieste rispetto al normale servizio di pulizia effettuato all’interno di immobili adibiti ad ufficio.
E d’altra
parte proprio al fine di assicurare la presenza dei requisiti di capacità tecnica (sotto tale voce del bando si colloca l’oggetto del servizio richiesto) ben può l’Amministrazione appaltante richiedere che i concorrenti abbiano svolto servizi identici a quello oggetto dell’appalto sempreché, s’intende, il requisito dell’identità dei servizi sia chiaramente espresso e risponda ad un precipuo interesse pubblico, condizioni, queste, certamente presenti nel caso all’esame (Cons. Stato Sez. IV 06/10/2003 n. 5823; Sez. V 12/04/2005 n. 1631).
Neppure può sottacersi al riguardo il fatto che nella specie l’esperienza pregressa per prestazioni identiche trova la propria giustificazione nelle caratteristiche tecniche del servizio oggetto di affidamento (Cons. Stato Sez. V 29/03/2006 n. 1599).
Non v’è identità tra il servizio operato in precedenza e il servizio che si va a richiedere in relazione al nuovo affidamento e tale discrasia fa venir meno il possesso del requisito specifico prescritto dalla lex di gara.
Conclusivamente, i contratti allegati da Manutencoop non sono validamente idonei a comprovare il possesso del requisito di capacità tecnica imprescindibilmente richiesto dalla lex specialis e tale non conformità alla normativa disciplinate l’accesso alla gara avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla procedura selettiva di Manutencoop, come fondatamente eccepito dalla controinteressata La Cascina con il gravame incidentale di prime cure.
Questo conduce a riformare la sentenza di primo grado che ha obliterato l’esame del ricorso incidentale che invece avrebbe dovuto essere oggetto di disamina giudiziale ed altresì essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza consolidata, ove un’area edificabile sia successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata e, qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i vari proprietari dei diversi terreni in cui sia stato frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la volumetria residua, in proporzione alle rispettive quote di proprietà.
Infatti, poiché nella volumetria assentibile sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende inerenti alla proprietà dei terreni ed in particolare il frazionamento del fondo da parte di un unico precedente proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e, pertanto, restano edificabili nei soli limiti della volumetria residua.
Ne consegue che la volumetria assentibile sull’area frazionata da una porzione di immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini può esser computata entro i soli limiti della volumetria residua ad esso spettante pro quota sulla parte di proprietà esclusiva. Tale regola viene ricavata dai principi generali che regolano l’uso della comune ex artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 c.c., sulla base dei quali la volumetria residua disponibile resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione alle rispettive quote: il tutto, salvo un eventuale asservimento delle parti in comproprietà degli altri condomini, con atto che esige il consenso di tutti i condomini.

Passando ora al secondo motivo, con lo stesso la ricorrente lamenta che la cubatura residua del lotto originario (part.lla n. 318 del fg. n. 32) avrebbe dovuto essere imputata in proporzione a tutti i fondi derivanti dal frazionamento di tale lotto: nel caso di specie, tuttavia, nulla di tutto ciò sarebbe stato valutato dal Comune, il quale avrebbe rilasciato un permesso di costruire illegittimo.
In base a detto titolo, infatti, la E.C. Immobiliare S.r.l. starebbe utilizzando per l’intervento edilizio volumetria non esistente sul fondo frazionato (in specie: mc. 363 di cui la part.lla n. 712 sarebbe priva, spettando ad essa mc. 245 e non i mc. 608 utilizzati dalla citata società, né i mc. 597 che la P.A. pare riconoscere a quest’ultima a seguito della relazione dell’08.03.2011).
La doglianza è fondata e meritevole di accoglimento.
Ed invero, per giurisprudenza consolidata, ove un’area edificabile sia successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area rimane invariata e, qualora sull’area originaria già insista una costruzione, i vari proprietari dei diversi terreni in cui sia stato frazionato il fondo originario hanno a disposizione solo la volumetria residua, in proporzione alle rispettive quote di proprietà (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 08.05.2012, n. 2642; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 26.09.2013, n. 2296; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 31.03.2011, n. 210).
Infatti, poiché nella volumetria assentibile sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, le vicende inerenti alla proprietà dei terreni ed in particolare il frazionamento del fondo da parte di un unico precedente proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e, pertanto, restano edificabili nei soli limiti della volumetria residua (cfr. C.d.S., Sez. V, 10.02.2000, n. 749; id., 16.02.1987, n. 97).
Ne consegue che la volumetria assentibile sull’area frazionata da una porzione di immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini può esser computata entro i soli limiti della volumetria residua ad esso spettante pro quota sulla parte di proprietà esclusiva. Tale regola viene ricavata dai principi generali che regolano l’uso della comune ex artt. 1102, 1108, 1120 e 1122 c.c., sulla base dei quali la volumetria residua disponibile resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione alle rispettive quote (v. C.d.S., Sez. V, n. 2642/2012, cit.): il tutto, salvo un eventuale asservimento delle parti in comproprietà degli altri condomini, con atto che esige il consenso di tutti i condomini (C.d.S., Sez. V, 28.06.2000, n. 3637) (TAR Lazio-Latina, sentenza 08.09.2015 n. 601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Immobili, no a Tasi per pochi. Non si possono escludere le altre unità della categoria. Tar Lombardia: la scelta del comune di tassare solo una tipologia è irrazionale.
La Tasi non può essere applicata solo a un tipo di immobile escludendo tutte le altre unità immobiliari appartenenti alla stessa categoria. In particolare, un comune non può scegliere di assoggettare a imposizione solo le centrali idroelettriche presenti sul suo territorio esonerando gli altri immobili destinati alle attività produttive e inclusi nella stessa categoria «D». La scelta di tassare solo una tipologia di immobile, solo perché fornisce un gettito elevato, è del tutto irrazionale.

È questo il principio affermato dal TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 02.09.2015 n. 1927.
Per evitare equivoci ed eliminare dubbi interpretativi sorti nelle amministrazioni comunali in merito alle delibere adottate sulle aliquote Tasi, va chiarito che i giudici amministrativi non hanno stabilito che i comuni non possono tassare solo alcune categorie di immobili, ma che l'imposizione non può essere limitata a un solo immobile, specificamente individuato (centrale idroelettrica) inquadrato catastalmente in una categoria, escludendo tutti gli altri fabbricati destinati a attività commerciali e industriali. È stata giudicata «illegittima la scelta di azzerare l'aliquota del tributo per tutti i settori produttivi diversi da quello in cui opera la società ricorrente».
In questo modo il provvedimento di carattere generale di definizione delle aliquote si traduce «in una determinazione riferita ad un unico soggetto». Secondo il Tar, considerato che l'imposta colpisce coloro che fruiscono dei servizi indivisibili, «non appare legittimo sottrarre del tutto una categoria di soggetti che fruiscono di tali servizi alla loro incisione da parte del tributo». Nel caso in esame, si legge nella pronuncia, l'esercizio del potere comunale appare «manifestamente irragionevole».
I limiti alle scelte comunali. Com'è noto, è lasciato ai comuni il potere di manovrare l'aliquota Tasi, la cui soglia massima non può superare il 2,5 per mille, fino ad azzerarla. Tuttavia le scelte, come chiarito dai giudici amministrativi, non possono essere irrazionali. In caso contrario, i Tar hanno il potere di annullare gli atti generali, vale a dire delibere e regolamenti.
Anche per il 2015 può essere superata l'aliquota massima fino al 3,3 per mille, a condizione però che il comune conceda detrazioni d'imposta o altre agevolazioni per gli immobili adibiti a abitazione principale. Le amministrazioni locali, inoltre, possono concedere riduzioni e esenzioni senza alcun tetto massimo, che tengano anche conto del reddito familiare.
Va ricordato che sono obbligati al pagamento della Tasi sia proprietari che inquilini. L'articolo 1, commi 671 e 681, della legge di Stabilità 2014 (147/2013), individua come distinti soggetti passivi possessori e detentori degli immobili. Al riguardo, va posto in rilievo che è privo di effetti giuridici qualsiasi eventuale accordo in base al quale il carico tributario viene traslato da uno all'altro dei soggetti passivi.
Il titolare dell'immobile non può impegnarsi, anche se l'accordo viene manifestato all'ente attraverso la dichiarazione fiscale, a versare la quota a carico dell'inquilino che va dal 10 al 30% del tributo complessivamente dovuto, a seconda della scelta regolamentare fatta dall'ente. Del resto, il titolare non è tenuto neppure a pagare la quota che il comune pone a carico del detentore, nel caso in cui quest'ultimo non versi l'imposta dovuta. Solo in caso di occupazione temporanea, non superiore a 6 mesi, è obbligato al versamento del tributo colui che risulti possessore dell'immobile.
La Tasi, che è diretta a recuperare i costi che l'amministrazione comunale sostiene per garantire i servizi indivisibili (trasporto, illuminazione pubblica e così via), che devono essere espressamente individuati nel regolamento comunale e per i quali è imposto l'obbligo di specificare i relativi costi, è in parte a carico dell'occupante dell'immobile che fruisce dei servizi stessi, sempre che la detenzione dell'immobile non sia di breve durata.
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Immobili soggetti al prelievo.
Sono soggetti all'imposta sui servizi indivisibili, oltre alle aree edificabili, i fabbricati in generale. Quindi, anche i titolari di immobili adibiti a prima casa. L'imposta è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo fabbricati e aree edificabili. La base di calcolo è la stessa dell'Imu.
Quindi, occorre fare riferimento al valore del fabbricato derivante dalla rendita catastale o a quello di mercato dell'area edificabile al metro quadro. A differenza dell'Imu, però, il tributo sui servizi indivisibili lo paga anche l'inquilino, o comunque l'occupante dell'immobile, nella misura che varia dal 10 al 30% stabilita con regolamento comunale.
Al prelievo sono soggetti tutti i fabbricati, comprese le abitazioni principali per le quali è dovuta l'imposta municipale, vale a dire quelli che rientrano nel novero degli immobili di pregio iscritti nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli).
Anche i titolari di fabbricati rurali non sono esonerati dal pagamento della Tasi. Tuttavia, solo per quelli strumentali l'articolo 1, comma 678, della legge di Stabilità (147/2013) assicura un trattamento agevolato. I comuni, infatti, non possono applicare un'aliquota superiore all'1 per mille. Ex lege, invece, non è riconosciuto alcun beneficio ai fabbricati destinati a abitazione di tipo rurale.
Sono considerati fabbricati rurali strumentali quelli diretti alla manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli.
L'esonero per questi fabbricati, però, non spetta nonostante il richiamo nella disciplina Tasi dell'articolo 13 del dl 201/2011, che è limitato alla determinazione della base imponibile, la quale è analoga a quella dell'Imu. Quindi, mentre per l'Imu è stabilita espressamente l'esenzione per gli immobili strumentali all'attività agricola, per la Tasi il beneficio è limitato all'aliquota agevolata nella misura massima dell'1 per mille (articolo ItaliaOggi Sette del 21.09.2015).

APPALTI: Sulla responsabilità precontrattuale.
Come è stato condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza, deve escludersi la sussistenza di un rapporto di antinomia e comunque di interferenza tra l'art. 109 del D.P.R. n. 554/1999 e l'art. 1337 c.c., dal momento che la disposizione regolamentare non esclude affatto la configurabilità di ipotesi di responsabilità precontrattuale per fatto illecito, disciplinando piuttosto le sole conseguenze patrimoniali dell'esercizio della facoltà di non addivenire alla stipulazione del contratto.
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Chiarito che la domanda formulata dalla ricorrente va qualificata in termini di responsabilità precontrattuale, istituto che trova la propria regolamentazione nel Codice civile, il quale, all'art. 1337, sancisce l'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, va rammentato che tale ipotesi di responsabilità è ormai pacificamente riferibile anche alla Pubblica Amministrazione laddove, con il proprio comportamento, violi i doveri di correttezza e di buona fede che gravano su un qualunque soggetto nel corso delle trattative.
La responsabilità precontrattuale, infatti, è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Dunque, in seno ad un procedimento ad evidenza pubblica può configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per lesione dell'interesse legittimo, derivante dalla illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità di tipo precontrattuale per violazione di norme imperative che pongono "regole di condotta", da osservarsi durante l'intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica.
Le predette regole "di validità" e "di condotta", come ribadito più volte dalla giurisprudenza amministrativa, operano su piani distinti: non è necessaria la violazione delle regole di validità per aversi responsabilità precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole di condotta può non determinare l'invalidità della procedura di affidamento.
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Non è necessario, ai fini della verifica di tale responsabilità, accertare la legittimità o meno del rifiuto di stipulare il contratto, avendo la giurisprudenza ormai chiarito che la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nell'ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, che, tuttavia, ben può essere lesiva del principio di affidamento e buona fede.
Nel caso di specie la violazione degli obblighi di buona fede emerge se si considera che l’Amministrazione comunale ha definitivamente manifestato la propria volontà di non addivenire alla stipulazione del contratto a due anni di distanza dall’aggiudicazione definitiva, con una nota piuttosto laconica quanto alla motivazione del ripensamento (“per nuove situazioni intervenute che richiedono una diversa valutazione dell’esigenza di ristrutturazione del Palazzo Municipale”), nonostante diversi solleciti dell’aggiudicataria (precisamente in data 22.11.2001, 17.06.2002 e 24.06.2003).
Tale comportamento, ad avviso del Collegio, concreta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 c.c..
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Il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un contratto d'appalto è limitato all’interesse negativo e comprende sia le spese sostenute dall'impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), sia la perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso.
Si è infatti in presenza della lesione dell'interesse giuridico al corretto svolgimento delle trattative. La differenza in negativo del patrimonio attiene all'interesse a non essere coinvolti in trattative inutili e dispendiose, non già all'interesse alla positiva esecuzione dei doveri contrattuali.
In relazione alla dimostrazione del danno, nei limiti delle poste ammissibili sopra precisate, deve preliminarmente rammentarsi che la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la propria pretesa, trova integrale applicazione nel giudizio risarcitorio davanti al giudice amministrativo. In tal giudizio infatti non ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di legittimità, l'applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo.

Con il ricorso proposto l’impresa aggiudicataria dell’appalto per i lavori di ristrutturazione del palazzo municipale ha chiesto il risarcimento del danno dipendente dalla mancata sottoscrizione del contratto.
Sul punto ha dedotto che l’Amministrazione avrebbe esercitato il diritto di recesso dal contratto, ai sensi dell’art. 122 del DPR 554/1999, applicabile ratione temporis. Ciò determinerebbe, ad avviso della parte ricorrente, l’obbligo dell’Amministrazione di pagare i lavori eseguiti e il valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite.
A tale tesi si contrappone quella della difesa del Comune, secondo cui nel caso di specie non potrebbe trovare applicazione l’art. 122 del DPR 554/1999, non essendo mai stato stipulato il contratto, bensì dovrebbe farsi riferimento all’art. 109 dello stesso DPR 554/1999, secondo cui l’Amministrazione avrebbe sessanta giorni di tempo per addivenire alla stipulazione del contratto, decorsi i quali l’impresa può ritenersi sciolta da ogni impegno. In tal caso l’aggiudicatario non avrebbe diritto ad alcun compenso o indennizzo, salvo il rimborso delle spese contrattuali e la restituzione della cauzione versata (adempimento quest’ultimo eseguito dal Comune in data 21.08.2003).
L’Amministrazione ha inoltre dedotto che, nel caso di specie, il verbale di aggiudicazione atteneva esclusivamente all’importo economico dell’appalto, tenuto conto del ribasso di gara offerta dalla ricorrente, cui avrebbe dovuto seguire la presentazione di un progetto esecutivo per la conseguente valutazione definitiva e per la stipulazione del contratto, circostanza che tuttavia non si sarebbe verificata.
Ad avviso del Collegio è necessario qualificare correttamente la domanda alla luce dei suoi elementi essenziali, di seguito evidenziati, e tenuto conto che il petitum espressamente formulato (si vedano le conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio) consiste in una domanda risarcitoria.
Ora, successivamente all’aggiudicazione definitiva dell’appalto il Comune non ha proceduto alla conseguente stipulazione del contratto e alla consegna dei lavori. Va precisato che, diversamente da quanto sembra sostenere l’Amministrazione resistente, l’aggiudicazione, di cui alla determina n. 874 del 24.07.2001, non è sospensivamente condizionata ad alcun adempimento da parte del contraente, in particolare alla presentazione del progetto esecutivo. Invero, secondo quanto previsto dal disciplinare di gara, la stipulazione del contratto era subordinata, esclusivamente, “al positivo esito delle procedure previste dalla normativa vigente in materia di lotta alla mafia”.
Inoltre, con nota prot. n. 16200 del 07.08.2001, l’Amministrazione ha richiesto, ai fini della predisposizione del contratto, la consegna della cauzione definitiva, la ricevuta di versamento dei diritti di segreteria, la corresponsione dell’importo pari alla tassa di registrazione del contratto e le relative marche da bollo. Si tratta in altri termini di adempimenti materiali –strettamente funzionali alla stipulazione del contratto- che, peraltro, l’impresa aggiudicataria, con la nota del 22.11.2011, si è dichiarata disponibile ad eseguire previa fissazione della data di stipulazione del contratto stesso. Tuttavia il contratto non è mai stato stipulato e, a distanza di due anni dall’aggiudicazione, il Comune ha rappresentato la propria volontà di non procedere, non volendo più dar corso all’esecuzione dell’appalto.
A fronte di tali elementi, la questione sottoposta all’esame del Collegio non è qualificabile come recesso da un contratto, ai sensi dell’art. 122 del DPR 554/1999, non essendo mai stato stipulato l’atto negoziale, ma è riconducibile ad un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, ai sensi dell’art. 1337 c.c..
In tal senso quindi deve essere qualificata l’azione proposta, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a., in relazione alla quale sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sia proprio in ragione della non intervenuta stipulazione (da ritenersi la linea ideale di confine tra fase procedimentale autoritativa e fase contrattuale da cui origina un rapporto di natura paritetica tra contraenti) sia in quanto la domanda, così come riqualificata dal Tribunale, è volta alla tutela risarcitoria di una posizione giuridica soggettiva che ha natura di interesse legittimo in quanto si esplica in una fase –quella antecedente alla stipulazione del contratto– governata dal potere autoritativo dell’Amministrazione.
Deve precisarsi che, ad avviso del Collegio, non trova applicazione, nella fattispecie di cui è causa, neppure la disposizione di cui all’art. 109 del citato DPR 554/1999, invocato dall’Amministrazione resistente.
La norma infatti dispone che, decorso il termine previsto per la stipulazione del contratto, l'impresa può, mediante atto notificato alla stazione appaltante sciogliersi da ogni impegno; in caso di mancata presentazione dell'istanza, all'impresa non spetta alcun indennizzo. Si tratta in sostanza di un diritto potestativo posto in capo all’aggiudicataria.
Ora, nella vicenda all’esame non risulta che l’impresa esercitato tale diritto. Infatti non solo non ha notificato all’Amministrazione la propria determinazione di sciogliersi dal vincolo nascente dall’aggiudicazione, ma anzi –come si dirà in seguito– ha più volte sollecitato la stazione appaltante ad addivenire alla stipulazione del contratto, manifestando quindi una volontà di segno nettamente contrario a quella di ritenersi “liberata”.
Va ulteriormente precisato che la non applicabilità del disposto di cui all’art. 109 del DPR 554/1999 non preclude di configurare nella specie un’ipotesi di responsabilità precontrattuale.
Come è stato condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza (cfr. TAR Napoli sez. VIII 05.06.2012, n. 2646), infatti, deve escludersi la sussistenza di un rapporto di antinomia e comunque di interferenza tra l'art. 109 del D.P.R. n. 554/1999 e l'art. 1337 c.c., dal momento che la disposizione regolamentare non esclude affatto la configurabilità di ipotesi di responsabilità precontrattuale per fatto illecito, disciplinando piuttosto le sole conseguenze patrimoniali dell'esercizio della facoltà di non addivenire alla stipulazione del contratto.
Chiarito che la domanda formulata dalla ricorrente va qualificata in termini di responsabilità precontrattuale, istituto che trova la propria regolamentazione nel Codice civile, il quale, all'art. 1337, sancisce l'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, va rammentato che tale ipotesi di responsabilità è ormai pacificamente riferibile anche alla Pubblica Amministrazione laddove, con il proprio comportamento, violi i doveri di correttezza e di buona fede che gravano su un qualunque soggetto nel corso delle trattative (Cons. Stato, sez. VI, n. 633 del 2013 ; Cons. Stato sez. IV, n. 744/2014 e n. 4674/2014).
La responsabilità precontrattuale, infatti, è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Dunque, in seno ad un procedimento ad evidenza pubblica può configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per lesione dell'interesse legittimo, derivante dalla illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità di tipo precontrattuale per violazione di norme imperative che pongono "regole di condotta", da osservarsi durante l'intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica.
Le predette regole "di validità" e "di condotta", come ribadito più volte dalla giurisprudenza amministrativa, operano su piani distinti: non è necessaria la violazione delle regole di validità per aversi responsabilità precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole di condotta può non determinare l'invalidità della procedura di affidamento.
Orbene, ciò detto, ritiene il Collegio sussistente, nella vicenda di cui è causa, la responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione comunale.
Non è necessario, ai fini della verifica di tale responsabilità, accertare la legittimità o meno del rifiuto di stipulare il contratto (accertamento peraltro non richiesto dalla parte ricorrente), avendo la giurisprudenza ormai chiarito che la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nell'ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, che, tuttavia, ben può essere lesiva del principio di affidamento e buona fede (cfr. Ad. Plen. n. 6/2005).
Nel caso di specie la violazione degli obblighi di buona fede emerge se si considera che l’Amministrazione comunale ha definitivamente manifestato la propria volontà di non addivenire alla stipulazione del contratto a due anni di distanza dall’aggiudicazione definitiva, con una nota piuttosto laconica quanto alla motivazione del ripensamento (“per nuove situazioni intervenute che richiedono una diversa valutazione dell’esigenza di ristrutturazione del Palazzo Municipale”), nonostante diversi solleciti dell’aggiudicataria (precisamente in data 22.11.2001, 17.06.2002 e 24.06.2003).
Tale comportamento, ad avviso del Collegio, concreta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 c.c..
Il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un contratto d'appalto è limitato all’interesse negativo e comprende sia le spese sostenute dall'impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), sia la perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso.
Si è infatti in presenza della lesione dell'interesse giuridico al corretto svolgimento delle trattative. La differenza in negativo del patrimonio attiene all'interesse a non essere coinvolti in trattative inutili e dispendiose, non già all'interesse alla positiva esecuzione dei doveri contrattuali.
In relazione alla dimostrazione del danno, nei limiti delle poste ammissibili sopra precisate, deve preliminarmente rammentarsi che la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la propria pretesa, trova integrale applicazione nel giudizio risarcitorio davanti al giudice amministrativo. In tal giudizio infatti non ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di legittimità, l'applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo.
Ciò posto, la parte ricorrente non ha dato dimostrazione del danno subito né in termini di danno emergente né di lucro cessante. Quanto a tale secondo profilo nessuna allegazione è stata fornita in ordine ad eventuali occasioni perse durante la pendenza delle trattative, ovvero nell’attesa di stipulare il contratto. Quanto alle spese sostenute, secondo quanto risulta dalla documentazione prodotta in giudizio, la cauzione provvisoria è stata restituita.
In relazione alla polizza fideiussoria presentata a garanzia degli obblighi inerenti la partecipazione alla gara, di cui è stata prodotta copia, non è stata data dimostrazione dei premi corrisposti, mediante idonea documentazione, riportando, invero, la copia della polizza predetta l’importo della rata iniziale del premio, ma non essendo stata fornita dimostrazione dell’effettivo pagamento della stessa ed eventualmente delle rate successive.
Nessuna allegazione è stata poi fornita in relazione a possibili ulteriori voci di danno.
In conclusione la domanda, così come sopra qualificata, deve essere respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.09.2015 n. 1918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Sul rapporto tra VIA e AIA.
I procedimenti di VIA e AIA sono rimasti distinti dopo l’introduzione di quest’ultima, tuttavia, come già sottolineato in casi analoghi, tendono ormai a formare un unicum.
La VIA precede il rilascio dell’AIA e ne condiziona il contenuto (v. art. 208, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006), ma è evidente che l’ampiezza dell’esame svolto in sede di AIA si riflette poi sul giudizio di VIA favorevole, in relazione al quale assumono necessariamente rilievo anche gli studi effettuati in vista del rilascio dell’AIA.
L’impatto ambientale di un’opera o di un impianto non potrebbe infatti essere compiutamente inquadrato senza prendere in considerazione gli approfondimenti tecnici che giustificano il rilascio dell’AIA, e neppure senza tenere conto delle prescrizioni collegate all’AIA e finalizzate a prevenire o rimuovere gli effetti disturbanti e inquinanti. Esiste quindi una retroazione dell’AIA sulla procedura di VIA, nel senso che la prima, benché cronologicamente successiva, conferma e precisa l’oggetto della seconda.
In altri termini, la decisione sulla VIA in parte anticipa le conclusioni della procedura di AIA, e in parte rinvia (del tutto legittimamente) agli studi successivi, da cui potranno arrivare conferme o limitazioni. Reciprocamente, la posizione acquisita dal privato con il giudizio di VIA favorevole è reversibile nella procedura di AIA.
Lo specifico della VIA è quindi l’inquadramento generale sulla localizzazione dell’opera o dell’impianto. Si tratta in sostanza di una condizione di procedibilità dell’AIA, in quanto accerta la sussistenza dei presupposti minimi per svolgere studi più approfonditi in relazione a una determinata area. La conseguenza è che le impugnazioni contro il giudizio di VIA favorevole non possono limitarsi a lamentare profili di incompletezza dell’istruttoria o figure simili, essendo evidente che l’istruttoria non è ancora conclusa.
Per ottenere il risultato di bloccare immediatamente l’opera o l’impianto i ricorrenti devono invece dimostrare che vi è una radicale incompatibilità con il sito prescelto, tale da non poter essere rimediata attraverso prescrizioni o con l’adozione delle migliori tecniche disponibili (BAT).
La compatibilità ambientale non è infatti un concetto naturalistico, ma una condizione di equilibrio tra l’idoneità dei luoghi a ospitare un’attività impattante e le prescrizioni limitative poste alla medesima attività. Graduando e aggiornando le limitazioni è quindi possibile migliorare l’equilibrio e confermare nel tempo il giudizio di compatibilità.
Un ruolo decisivo sotto questo profilo è svolto, da un lato, dai controlli sulla diffusione degli inquinanti, e dall’altro dall’applicazione delle BAT sopravvenute. In questo quadro, anche le verifiche successive alla messa in esercizio dell’impianto si possono considerare come la normale e necessaria prosecuzione dell’originaria valutazione di compatibilità ambientale.
Si osserva che integrare attraverso l’AIA, e quindi a posteriori, le valutazioni svolte in sede di VIA non è in contrasto con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria. Nel caso di mancata previa effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità l’omissione comporta, in generale, la sospensione o l’annullamento dell’autorizzazione, salvo casi eccezionali in cui risulti preferibile per l’interesse pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le conseguenze della violazione del diritto comunitario siano cancellate.
La sospensione o l’annullamento sono quindi soluzioni giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l’effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza (ovvero eseguita con un metodo inidoneo), o in alternativa attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito pregiudizi a causa dell’omissione.
A maggior ragione, quando la procedura di VIA sia stata regolarmente eseguita e si sia conclusa con un giudizio favorevole ma subordinato a ulteriori studi e approfondimenti, e da integrare mediante le prescrizioni che saranno formulate in sede di AIA, l’effetto utile del diritto comunitario appare assicurato. Vi è infatti la certezza che nessuna conseguenza derivante dalla nuova opera o dal nuovo impianto in un determinato sito possa sfuggire al controllo e al potere regolatorio dell’amministrazione.

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Sul rapporto tra VIA e AIA
32. I procedimenti di VIA e AIA sono rimasti distinti dopo l’introduzione di quest’ultima, tuttavia, come già sottolineato in casi analoghi (v. TAR Brescia Sez. I 22.01.2010 n. 211), tendono ormai a formare un unicum. La VIA precede il rilascio dell’AIA e ne condiziona il contenuto (v. art. 208, commi 1 e 2, del Dlgs. 152/2006), ma è evidente che l’ampiezza dell’esame svolto in sede di AIA si riflette poi sul giudizio di VIA favorevole, in relazione al quale assumono necessariamente rilievo anche gli studi effettuati in vista del rilascio dell’AIA.
L’impatto ambientale di un’opera o di un impianto non potrebbe infatti essere compiutamente inquadrato senza prendere in considerazione gli approfondimenti tecnici che giustificano il rilascio dell’AIA, e neppure senza tenere conto delle prescrizioni collegate all’AIA e finalizzate a prevenire o rimuovere gli effetti disturbanti e inquinanti. Esiste quindi una retroazione dell’AIA sulla procedura di VIA, nel senso che la prima, benché cronologicamente successiva, conferma e precisa l’oggetto della seconda.
In altri termini, la decisione sulla VIA in parte anticipa le conclusioni della procedura di AIA, e in parte rinvia (del tutto legittimamente) agli studi successivi, da cui potranno arrivare conferme o limitazioni. Reciprocamente, la posizione acquisita dal privato con il giudizio di VIA favorevole è reversibile nella procedura di AIA.
33. Lo specifico della VIA è quindi l’inquadramento generale sulla localizzazione dell’opera o dell’impianto. Si tratta in sostanza di una condizione di procedibilità dell’AIA, in quanto accerta la sussistenza dei presupposti minimi per svolgere studi più approfonditi in relazione a una determinata area. La conseguenza è che le impugnazioni contro il giudizio di VIA favorevole non possono limitarsi a lamentare profili di incompletezza dell’istruttoria o figure simili, essendo evidente che l’istruttoria non è ancora conclusa.
Per ottenere il risultato di bloccare immediatamente l’opera o l’impianto i ricorrenti devono invece dimostrare che vi è una radicale incompatibilità con il sito prescelto, tale da non poter essere rimediata attraverso prescrizioni o con l’adozione delle migliori tecniche disponibili (BAT).
34. La compatibilità ambientale non è infatti un concetto naturalistico, ma una condizione di equilibrio tra l’idoneità dei luoghi a ospitare un’attività impattante e le prescrizioni limitative poste alla medesima attività. Graduando e aggiornando le limitazioni è quindi possibile migliorare l’equilibrio e confermare nel tempo il giudizio di compatibilità.
Un ruolo decisivo sotto questo profilo è svolto, da un lato, dai controlli sulla diffusione degli inquinanti, e dall’altro dall’applicazione delle BAT sopravvenute. In questo quadro, anche le verifiche successive alla messa in esercizio dell’impianto si possono considerare come la normale e necessaria prosecuzione dell’originaria valutazione di compatibilità ambientale.
35. Si osserva che integrare attraverso l’AIA, e quindi a posteriori, le valutazioni svolte in sede di VIA non è in contrasto con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria. Nel caso di mancata previa effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità l’omissione comporta, in generale, la sospensione o l’annullamento dell’autorizzazione, salvo casi eccezionali in cui risulti preferibile per l’interesse pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le conseguenze della violazione del diritto comunitario siano cancellate (v. C. Giust. GS 28.02.2012 C-41/11, Inter-Environnement Wallonie, punto 63).
La sospensione o l’annullamento sono quindi soluzioni giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l’effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza (ovvero eseguita con un metodo inidoneo), o in alternativa attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito pregiudizi a causa dell’omissione (v. C. Giust. Sez. IV 14.03.2013 C-420/11, Leth, punto 37; C. Giust. Sez. V 07.01.2004 C-201/02, Wells, punto 65).
36. A maggior ragione, quando la procedura di VIA sia stata regolarmente eseguita e si sia conclusa con un giudizio favorevole ma subordinato a ulteriori studi e approfondimenti, e da integrare mediante le prescrizioni che saranno formulate in sede di AIA, l’effetto utile del diritto comunitario appare assicurato. Vi è infatti la certezza che nessuna conseguenza derivante dalla nuova opera o dal nuovo impianto in un determinato sito possa sfuggire al controllo e al potere regolatorio dell’amministrazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.07.2015 n. 1020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piani Particolareggiati e di Piani di Lottizzazione Convenzionati.
L'approvazione di interventi destinati a creare nuovi insediamenti in una zona per la quale P.R.G., subordina l'attività edificatoria all'adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.
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7. Al fine di meglio lumeggiare i fatti oggetto di esame, è necessario un breve inquadramento fattuale della vicenda, necessario per comprendere le ragioni della decisione di questa Corte, rilevando peraltro quanto già deciso da questa stessa Sezione chiamata in una precedente occasione a pronunciarsi sui fatti (v., amplius, sentenza n. 5870/2013, del 09/01/2013 - dep. 06/02/2013).
Secondo l'imputazione provvisoria e come è stato sostanzialmente recepito dal Tribunale, l'intervento riguardava un preesistente edificio (uno stabilimento ad uso industriale per la produzione di paste alimentari, edificato alla fine del 1800) e consisteva nella realizzazione di diverse unità, con destinazione residenziale e commerciale. Tale intervento, di carattere assenta mente lottizzatorio richiedeva un piano particolareggiato e/o di lottizzazione convenzionata, come, del resto, previsto dall'art. 32 delle NTA del PRG di Formia.
Questa Corte, pronunciandosi in relazione alla medesima fattispecie, aveva chiarito che andava qualificata come lottizzazione quell'insieme di opere o di atti giuridici che comportano una trasformazione urbanistica od edilizia di terreni a scopo edificatorio intesa quale conferimento all'area di un diverso assetto territoriale, attraverso impianti di interesse privato e di interesse collettivo, tali da creare una nuova maglia di tessuto urbano (così Sez. 3, n. 17663 del 03/03/2005 - dep. 11/05/2005, Del Medico, Rv. 231511).
Tanto che, secondo la giurisprudenza di legittimità,
integra il reato di lottizzazione abusiva anche la modifica di destinazione d'uso di una struttura alberghiera in complesso residenziale realizzata attraverso la parcellìzzazione dell'immobile in numerosi alloggi suscettibili di essere occupati stabilmente pur se l'area sia urbanizzata e gli strumenti urbanistici generali consentano una utilizzabilità alternativa di tipo alberghiero e residenziale, salvo che le opere già esistenti siano sufficienti non solo a soddisfare i bisogni degli abitanti già insediati, ma anche di quelli da insediare (Cfr. Sez. 3, n. 27289 del 06/06/2012 - dep. 10/07/2012, Dotta e altri, Rv. 253147; Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009 - dep. 29/04/2009, P.M. in proc. Quarta e altri, Rv. 243748).
Il reato di lottizzazione abusiva è, quindi, configurabile, ove, in difetto degli strumenti attuativi previsti dal PRG (adozione di piani particolareggiati o di piani di lottizzazione convenzionati), siano stati assentiti interventi edilizi destinati a creare nuovi insediamenti in area priva di opere di urbanizzazione primaria; né il reato è escluso dall'eventuale preesistenza di opere di urbanizzazione secondaria (Sez. 3, n. 35880 del 25/06/2008 - dep. 19/09/2008, Mancinelli, Rv. 241031; Sez. 3, n. 23646 del 12/05/2011 - dep. 13/06/2011, Tarantino e altri, Rv. 250521).
Invero, "
Il reato di lottizzazione abusiva si integra non soltanto in zone assolutamente inedificate, ma anche in quelle parzialmente urbanizzate nelle quali si evidenzia l'esigenza di raccordo con l'aggregato abitativo preesistente o di potenziamento delle opere di urbanizzazione pregresse, così che per escluderlo deve essersi verificata una situazione di pressoché completa e razionale edificazione della zona, tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo" (Sez. 3, n. 20373 del 20/01/2004 - dep. 30/04/2004, Iervolino, Rv. 228447; Sez. 3, n. 3074 del 17/12/2002 - dep. 22/01/2003, Russo, Rv. 223226).
Pertanto,
anche la necessità di una integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di modeste dimensioni, rende necessaria l'approvazione di un piano di lottizzazione.
Quando, poi, come nel caso di specie la necessità del piano di attuazione o di edilizia convenzionata, è richiesta espressamente dal PRG, la giurisprudenza amministrativa si è espressa in modo particolarmente rigoroso, affermando che "
L'esonero dal piano di lottizzazione previsto in un piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi assimilabili a quello del "lotto intercluso", nel quale nessuno spazio si rinviene per un'ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto" (Cons. Stato, Sez. 5, 01/12/2003, n. 7799, Soc. P. C. Comune di Roma, in Foro Amm. CDS, 2003, 3742; sostanzialmente conf. sez. 6, 03.11.2003 n. 6833, Min. Beni Culturali c. Maniviro - s.r.I.).
Peraltro, è stato altresì reiteratamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa che
l'approvazione del piano di lottizzazione, a differenza del permesso di costruire, non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell'autorità chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr. Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2004, n. 957; Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2001, n. 1181).
Appare, pertanto, indubbio, alla luce degli enunciati principi di diritto, che
l'approvazione di interventi destinati a creare nuovi insediamenti in una zona per la quale P.R.G., subordina l'attività edificatoria all'adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità dell'intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33033 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore generale, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, occorre tenere distinte le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) dalle altre regole che disciplinano le modalità dell'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano e nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva).
Ciò posto,
occorre ritenere che, in generale, al disposto delle N.T.A. vada assegnata natura regolamentare. Ed invero, si deve ritenere che solo i vincoli di inedificabilità preordinati all'esproprio o quelli di carattere strumentale, in quanto incidenti in via diretta e immediata sulle potenzialità edificatorie di singoli beni, assumano connotato provvedimentale.
A tal riguardo la giurisprudenza ha infatti chiarito che "
nel caso in cui le N.T.A. di un P.R.G. stabiliscano che ogni intervento edilizio in una determinata zona presuppone la previa approvazione di uno strumento urbanistico attuativo di esclusiva iniziativa pubblica, il vincolo gravante sulla zona è di tipo strumentale e non con formativo".
Nell'ipotesi di vincolo strumentale secondo la giurisprudenza deve trovare applicazione l'art. 2, comma primo, della L. 19.11.1968 n. 1187 (v. oggi l'analogo art. 9 del T.U. sulle espropriazioni n. 327 del 2001), che ha fissato entro il limite temporale del quinquennio l'efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali "
nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettando i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità".
Tale disposto è infatti applicabile "
non solo con riferimento ai vincoli preordinati all'esproprio o a quei vincoli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà, rendendolo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ma anche ai vincoli c.d. "strumentali", a quei vincoli cioè che subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale, oppure alla formazione di uno strumento esecutivo".
Le disposizioni delle norme tecniche di attuazione del piano e del regolamento edilizio, dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, hanno, conclusivamente, natura regolamentare, poiché non solo sono suscettibili di una ripetuta applicazione, ma possiedono altresì i caratteri della generalità ed astrattezza ed hanno validità a tempo indeterminato (ex art. 11 della L. 17.08.1942, n. 1150).
Alla stregua di tali rilievi
al disposto delle N.T.A. è da assegnarsi portata regolamentare e non provvedimentale.
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La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
a mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
   a) che
quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento;
   b) che
in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
   c)
l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
   d)
l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
   e)
la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
A fronte di tale principio fondamentale e dei suoi corollari,
la prassi giurisprudenziale ha coniato una deroga eccezionale, dagli incerti confini, in presenza di una peculiare situazione di fatto che ha preso il nome di "lotto intercluso".
Tale fattispecie si realizza, secondo una preferibile rigorosa impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a)
sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b)
si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c)
sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d)
sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
In sintesi,
si consente l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo dì evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico.
Tali essendo la ratio e la natura eccezionale della regola sottesa al c.d. "lotto intercluso", deve ritenersi che, in assenza di strumento attuativo:
   a)
la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento discrezionale del comune;
   b)
il comune, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva:
I)
non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale;
II)
non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g.;
   c)
incombe sul comune l'obbligo di puntuale motivazione solo nell'ipotesi in cui venga rilasciato il permesso di costruire, essendo in caso contrario sufficiente il richiamo alla mancanza del piano attuativo;
   d)
l'equivalenza fra pianificazione esecutiva e stato di sufficiente urbanizzazione della zona ai fini del rilascio del titolo edilizio non opera nel procedimento di formazione del silenzio assenso sulla domanda di costruzione.

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9. Ritiene il Collegio necessario procedere alla valutazione della questione esaminata in relazione al disposto dell'art. 9, d.P.R. n. 380 del 2001, verificando quindi se l'Amministrazione abbia correttamente proceduto al rilascio del p.d.c. n. 102/2012.
9.1. Ai fini della qualificazione degli interventi edilizi, occorre prendere le mosse dalla disciplina contenuta nel D.P.R. 380/2001, in quanto inderogabile ad opera dei regolamenti comunali e delle previsioni di P.R.G., secondo quanto espressamente sancito dall'art. 3, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, in forza del quale "le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Resta ferma la definizione di restauro prevista dall'articolo 34 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490".
Il comma primo del medesimo disposto normativo, alla lettera d) -come modificata dall'articolo 1 del D.Lgs. del 27.12.2002, n. 301 e dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. 21.06.2013, n. 69 , convertito, con modificazioni, dalla Legge 09.08.2013, n. 98- qualifica gli "interventi di ristrutturazione edilizia", come "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria [e sagoma] di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
Tale disposto normativo si completa con quello dell'art. 10, comma primo, lett. c), -lettera integrata dall'articolo 1 del D.Lgs. del 27.12.2002, n. 301 e successivamente modificata dall'articolo 30, comma 1, lettera c), del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 09.08.2013, n. 98 e dall' articolo 17, comma 1, lettera d), del D.L. 12.09.2014, n. 133 , convertito con modificazioni dalla Legge 11.11.2014 n. 164- che disciplina gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitanti di permesso di costruire, prevedendo che tali siano "c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni".
Non v'è dubbio che l'intervento edilizio realizzato, sia soggetto a p.d.c., essendo del resto stato assentito dal Comune già nel 2008 con tale titolo abilitativo, tenuto conto, poi, che nel 2012 con il p.d.c. adottato in "riforma" del precedente, l'Amministrazione abbia autorizzato la ripresa dei lavori nei limiti del 25% della variazione delle destinazioni d'uso preesistenti, pari a mq. 1525,04 di commerciale/direzionale.
9.2. Più complessa si presenta la censura, del pari sollevata con il primo motivo di ricorso, secondo cui l'intervento de quo, anche a volerlo considerare quale intervento di ristrutturazione edilizia, doveva intendersi consentito nelle more di approvazione del piano esecutivo, ai sensi dell'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380/01, come già ritenuto dal Comune di Formia.
Secondo il ricorrente, infatti, del tutto immotivatamente il tribunale del riesame avrebbe escluso l'applicabilità di tale disposizione all'intervento edilizio assentito nel 2012.
9.3. Ai fini della corretta valutazione di tale problematica occorre previamente verificare se l'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001 consenta interventi quale quello di specie, come ritenuto dal Comune.
Al quesito, secondo il ricorrente, dovrebbe darsi risposta positiva.
Ed invero,
mentre le previsioni di cui al comma primo dell'art. 9 si riferiscono solamente alla aree sprovviste dello strumento urbanistico generale (consentendo, salvo disciplina più restrittiva ad opera dalla legislazione regionale, interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro o risanamento conservativo), il comma secondo dello stesso art. 9 disciplina in termini meno restrittivi quelle prive del necessario piano attuativo, ma dotate di uno strumento urbanistico generale idoneo a fornire le coordinate di fondo dello sviluppo del territorio.
Tali aree non possono pertanto essere propriamente qualificate quale "zone bianche", perché esse non sono prive di pianificazione generale, ma della disciplina urbanistica di dettaglio richiesta dal P.R.G. vigente. In questi casi, oltre agli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo, sono ammessi altresì quelli di ristrutturazione edilizia, alle condizioni esplicitate nel medesimo disposto normativo.
9.4. Osserva il Collegio come l'art. 9, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001 riproduce al riguardo in larga misura il contenuto del quarto comma dell'art. 27 della legge n. 457/1978 -da ritenersi tuttora vigente in relazione agli immobili ricompresi in zone di recupero- estendendone la disciplina a tutte le aree sprovviste della pianificazione attuativa prescritta dal P.R.G. quale condizione per l'edificazione.
La relazione parlamentare al D.P.R. n. 380/2001 chiarisce, in ordine all'art. 9 cit. che "il comma 2 riproduce un'estensione contenuta nel richiamato art. 27 della legge n. 457, prevedendo che la stessa disciplina si applichi anche alle aree nelle quali non siano approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti come condizione per l'edificabilità dell'area".
L'art. 9, comma secondo, del D.P.R. n. 380/01, non diversamente dall'art. 27 legge n. 457 del 1978, prevede la possibilità di intervenire solo su edifici esistenti, con opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo ex art. 3, lettera a), b), c) dello stesso D.P.R. 380/2001, senza particolari limitazioni. Lo stesso art. 9 ammette, inoltre, gli interventi di ristrutturazione di cui alla lett. d) dell'art. 3, purché riguardino singole unità immobiliari o loro parti.
Ove invece, i suddetti interventi di ristrutturazione edilizia interessino l'intero fabbricato, o più edifici, la loro ammissibilità è subordinata ad una duplice condizione:
1) il mantenimento delle "destinazioni preesistenti" almeno nella misura del 75%;
2) il convenzionamento con il Comune "limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale" in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché il concorso negli oneri di urbanizzazione.
Rimangono esclusi per converso tutti gli altri interventi edilizi.
Dal tenore letterale della norma si evince che
ai fini dell'ammissibilità dell'intervento di ristrutturazione non rileva una specifica destinazione (la norma recita infatti: "Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, ..."); si dichiarano infatti ammissibili gli interventi che modifichino "fino al 25% delle destinazioni preesistenti"; l'uso del plurale depone senz'altro per il riferimento non ad una sola destinazione, ma a tutte quelle preesistenti. Infatti, laddove il legislatore ha inteso riferire la disciplina dell'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001 ad una specifica destinazione lo ha fatto esplicitamente, ad esempio imponendo il convenzionamento "limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale" (art. 27 legge n. 457/1978).
L'art. 9, comma secondo, del T.U. edilizia consente pertanto, secondo quanto evidenziato da attenta dottrina, la ristrutturazione edilizia in mancanza della pianificazione di dettaglio anche al di fuori delle zone di recupero, al fine evidentemente di prevenire i fenomeni di degrado e di tutelare la proprietà immobiliare, altrimenti esposta alle conseguenze economiche negative dei ritardi della pubblica amministrazione nell'attività di pianificazione, contenendo peraltro le trasformazioni funzionali nella misura del 25% in mancanza di una previa pianificazione di dettaglio.
In tale contesto,
le trasformazioni più rilevanti, eccedenti la misura del 25% di tutte le destinazioni d'uso preesistenti, rimangono assoggettate alla previa pianificazione attuativa. Tali previsioni, ad esempio, consentono di modificare anche la destinazione residenziale prima intangibile, con il solo limite del convenzionannento con il Comune limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, in ordine ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, nonché il concorso negli oneri di urbanizzazione.
Alla stregua di tale ricostruzione sembrerebbe -nell'ottica del ricorrente- che l'intervento di cui è causa, seppure riferito ad un intero edificio e non a singole unità immobiliari o a parti di esso, e ricadente quindi nella disciplina della seconda parte dell'art. 9 comma secondo, sia assentibile, in base alla prescrizione di legge, secondo quanto a tal riguardo ritenuto dal Comune di Formia, in quanto nell'ipotesi di specie si avrebbe comunque la conservazione della precedente destinazione, ad uso commerciale, destinazione questa non ostativa all'assentibilità degli interventi di ristrutturazione, secondo quanto innanzi evidenziato.
Pertanto, alla luce delle suesposte argomentazioni, sarebbe errata la interpretazione contenuta nell'impugnata ordinanza, che ha escluso l'applicabilità dell'art. 9 citato al caso in esame.
9.6. Tale interpretazione del ricorrente, fatta propria dall'Amministrazione all'atto del la "riforma" del p.d.c. del 2012, si noti, osserva il Collegio, è destinata ad incidere anche sulla questione relativa alla valutazione dell'illegittimità del procedimento per l'annullamento in via di autotutela del precedente p.d.c., ritenuto rilasciato in difformità rispetto alle NTA ed in assenza della preventiva redazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata.
Detta valutazione presuppone peraltro la risoluzione di altra problematica, ovvero quella della natura delle N.T.A..
Secondo una consolidata giurisprudenza in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore generale, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 08.09.2009, n. 5258),
occorre tenere distinte le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) dalle altre regole che disciplinano le modalità dell'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano e nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva).
Ciò posto,
occorre ritenere che, in generale, al disposto delle N.T.A. vada assegnata natura regolamentare. Ed invero, si deve ritenere che solo i vincoli di inedificabilità preordinati all'esproprio o quelli di carattere strumentale, in quanto incidenti in via diretta e immediata sulle potenzialità edificatorie di singoli beni, assumano connotato provvedimentale.
A tal riguardo la giurisprudenza ha infatti chiarito che "
nel caso in cui le N.T.A. di un P.R.G. stabiliscano che ogni intervento edilizio in una determinata zona presuppone la previa approvazione di uno strumento urbanistico attuativo di esclusiva iniziativa pubblica, il vincolo gravante sulla zona è di tipo strumentale e non con formativo".
Nell'ipotesi di vincolo strumentale secondo la giurisprudenza deve trovare applicazione l'art. 2, comma primo, della L. 19.11.1968 n. 1187 (v. oggi l'analogo art. 9 del T.U. sulle espropriazioni n. 327 del 2001), che ha fissato entro il limite temporale del quinquennio l'efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali "
nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettando i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità".
Tale disposto è infatti applicabile "
non solo con riferimento ai vincoli preordinati all'esproprio o a quei vincoli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà, rendendolo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ma anche ai vincoli c.d. "strumentali", a quei vincoli cioè che subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale, oppure alla formazione di uno strumento esecutivo" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV - sentenza 24.03.2009, n. 1765).
Le disposizioni delle norme tecniche di attuazione del piano e del regolamento edilizio, dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, hanno, conclusivamente, natura regolamentare, poiché non solo sono suscettibili di una ripetuta applicazione, ma possiedono altresì i caratteri della generalità ed astrattezza ed hanno validità a tempo indeterminato (ex art. 11 della L. 17.08.1942, n. 1150).
Alla stregua di tali rilievi
al disposto delle N.T.A. è da assegnarsi portata regolamentare e non provvedimentale.
Tuttavia, deve rilevarsi -ed è questa una prima ragione dell'annullamento dell'impugnata ordinanza- come la insufficiente descrizione nel provvedimento impugnato dei contenuti delle norme N.T.A. applicate (si legge a pag. 10 del ricorso solo che "il riferimento al PPE o alle Convenzioni di lottizzazione, contenuto nell'art. 32 cit., è volto ad impedire che possano avvenire lottizzazioni operate in spregio agli strumenti urbanistici ritenuti necessari.."), non consente a questa Corte di verificare se le predette norme N.T.A. disciplinino in via immediata le potenzialità edificatorie dell'area de qua e se, dunque, le stesse siano idonee a derogare al disposto dell'art. 9, comma secondo, d.P.R. citato.
Peraltro, come sottolineato, mentre l'art. 9, comma secondo, del D.P.R. n. 380/2001 consente gli interventi di ristrutturazione edilizia, nei limiti in precedenza evidenziati e consentirebbe l'intervento de quo, in quanto non comportante una modifica della preesistente destinazione d'uso commerciale, non è chiaro se le norme delle N.T.A. precludano tale intervento.
Da qui, dunque, l'annullamento con rinvio dell'impugnata ordinanza, con rinvio al tribunale di LATINA al fine di chiarire tale imprescindibile questione, alla luce della esegesi giurisprudenziale amministrativa di cui al paragrafo che segue.
9.7. Una volta acclarata la natura sostanzialmente regolamentare del disposto delle N.T.A. invocato dal Comune a sostegno del provvedimento di autotutela, deve aversi riguardo alla successiva problematica, relativa alla derogabilità o meno del disposto dell'art. 9, comma secondo, D.P.R. n. 380 del 2001 ad opera di disposizioni, come nella specie, di portata regolamentare.
Sul punto, la posizione della giurisprudenza amministrativa ha subito un'evoluzione nel corso di questi anni.
La più recente esegesi (v., Cons. Stato Sez. IV, sentenza 10.05.2012, n. 2707), è chiara nel precisare che
il secondo comma della predetta norma, per cui "Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente testo unico...", deve essere inteso alla luce del canone teleologico dell'interpretazione della norma giuridica, nel senso che alla sua applicazione si fa luogo solo quando, nella disciplina urbanistica, manchino del tutto le prescrizioni c.d. "dirette" aventi natura conformativa dell'uso della proprietà. Pertanto, si deve notare che, sotto il profilo funzionale, il secondo comma dell'art. 9 cit. ha natura di norma "di chiusura del sistema", in quanto reca una disciplina per così dire "minima" delle trasformazioni ammissibili.
Da ciò discende -secondo tale interpretazione- che
le prescrizioni del PRG che disciplinano, in senso più restrittivo rispetto all'art. 9 del D.P.R. n. 380 del 2001, le possibilità di intervento sugli edifici preesistenti, in sede di salvaguardia delle finalità di riequilibrio territoriale di una zona, devono ritenersi prevalenti sia perché dirette ad assicurare un regime di maggiore tutela dell'area interessata, sia al fine di stimolare l'iniziativa dei privati a diventare protagonisti dei processi di risanamento.
In altri termini,
quando le prescrizioni di piano contengano specifiche disposizioni destinate al riequilibrio urbanistico e territoriale dell'area, le relative norme transitorie -anche in considerazione della prevalenza del ruolo dei Comuni in materia urbanistico-edilizia- sono normalmente destinate ad evitare che le richieste di modifiche dell'esistente finiscano per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale.
La pianificazione urbanistica attuale, si osserva, è infatti diretta sovente a ricomporre in un quadro omogeneo realtà territoriali spesso estremamente variegate e tra loro confliggenti.
In ogni caso,
onde evitare che, nella temporanea fase antecedente alla concretizzazione dei piani attuativi, vengano in essere interventi contrastanti, deve ammettersi la possibilità, in linea di principio, di una disciplina transitoria che salvaguardi, nelle more della sua attuazione, le destinazioni delle aeree in questione. La previsione di una disciplina urbanistica transitoria non configura né un vincolo preordinato all'espropriazione, né un'inedificabilità assoluta, ma dà luogo a vincoli di natura conformativa, costituenti tipica espressione della potestà dello strumento urbanistico generale di individuare i vincoli al fine di raggiungere le destinazioni d'uso previste anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797).
9.8. La giurisprudenza amministrativa, peraltro, ha chiarito (v., Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2010, n. 3699) che
a mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che
quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) che
in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c)
l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. Sr., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
d)
l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e)
la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
A fronte di tale principio fondamentale e dei suoi corollari,
la prassi giurisprudenziale ha coniato una deroga eccezionale, dagli incerti confini, in presenza di una peculiare situazione di fatto che ha preso il nome di "lotto intercluso".
Tale fattispecie si realizza, secondo una preferibile rigorosa impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a)
sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b)
si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c)
sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d)
sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g..
In sintesi,
si consente l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo dì evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013).
Tali essendo la ratio e la natura eccezionale della regola sottesa al c.d. "lotto intercluso", deve ritenersi che, in assenza di strumento attuativo:
a)
la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento discrezionale del comune (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276);
b)
il comune, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva:
   I)
non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale;
   II)
non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g. (cfr. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n. 772);
c)
incombe sul comune l'obbligo di puntuale motivazione solo nell'ipotesi in cui venga rilasciato il permesso di costruire, essendo in caso contrario sufficiente il richiamo alla mancanza del piano attuativo;
d)
l'equivalenza fra pianificazione esecutiva e stato di sufficiente urbanizzazione della zona ai fini del rilascio del titolo edilizio non opera nel procedimento di formazione del silenzio assenso sulla domanda di costruzione (cfr. Cons. St., sez. V, 14.04.2008, n. 1642).
Orbene, alla luce dei predetti principi, l'impugnata ordinanza presta il fianco a censure in relazione al secondo motivo di impugnazione, con cui il ricorrente esprimeva le proprie doglianze con riferimento all'erronea interpretazione da parte dei giudici del riesame del disposto dell'art. 9 citato in merito al concetto di fondo intercluso, unica ipotesi, come detto, in relazione alla quale la giurisprudenza ha coniato la predetta deroga eccezionale.
E' ben vero che nel provvedimento impugnato (pag. 10) v'è un corretto riferimento alla giurisprudenza amministrativa (si richiama, in tal senso, Cons. Stato, n. 790/2001) relativamente al tema della deroga per il c.d. lotto intercluso, ma è altrettanto vero che tale richiamo risulta essere fine a se stesso, non essendo stata valutata dal giudice del riesame la riconducibilità dello stato di fatto (che legittimerebbe, se positivamente riscontrato, l'applicabilità della predetta regola eccezionale) alla disciplina del lotto intercluso.
Tale omissione motivazionale si risolve, a bene vedere, in un vizio assoluto inquadrabile, come detto, nel vizio di violazione di legge ex art. 325 cod. proc. pen., giustificando l'accoglimento del ricorso (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33033 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: i residui da demolizione non sono sottoprodotti.
La demolizione non è mai finalizzata alla produzione di alcunché, ma all'eliminazione dell'edificio medesimo, quindi i residui che ne derivano non sono sottoprodotti.

Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione - Sez. III penale (sentenza 28.07.2015 n. 33028) secondo cui i materiali derivanti dalla demolizione di un palazzo sono rifiuti e non un sottoprodotto.
E ciò neanche se la demolizione, come nel caso di specie, sia finalizzata alla costruzione di un nuovo edificio.
Infatti una delle quatto condizioni per aversi un sottoprodotto è che «la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione» (art. 184-bis dlgs n. 152/2006). Insomma si ritorna sulla «vexata quaestio» della definizione di «processo di produzione» alla cui definizione la giurisprudenza amministrativa aveva dato un notevole contributo.
Infatti, già con la sentenza n. 4978 del 06.10.2014, il Consiglio di stato, a distanza di poco più di un anno dalla sua precedente e innovativa pronuncia n. 4151/20132 si era affermato la possibile qualificazione come sottoprodotto del fresato d'asfalto che ha problematiche del tutto simili a residui di demolizione.
Il Consiglio di stato aveva il merito di aver inequivocabilmente confermato la possibile natura di sottoprodotti di tali materiali, che residuano dalla demolizione della pavimentazione stradale e che vengono reimpiegati per rifare la pavimentazione stradale in quanto si tratta di un'attività che configura un «processo di produzione».
Introducendo, certo, qualche criticabile paletto non previsto dalla normativa vigente. E cioè che il fresato deve essere utilizzato in loco e cioè nel luogo di produzione e non deve essere sottoposto a fasi di stoccaggio e deposito. Ma la Corte di cassazione è ancora più recisa: nega a prescindere la natura di processo di produzione all'attività di demolizione sia pure legata alla costruzione di un nuovo edificio.
Insomma in via giurisprudenziale vengono aggiunte condizioni e limitazioni non rinvenibili nelle norme di legge.
Una sorte di «sottospecie di sottoprodotto». Va ricordato che la nozione di «sottoprodotto» viene introdotta dalla Corte europea di giustizia che, in ripetute sentenze, ne dà un quadro definitorio ad iniziare proprio dalle modalità produttive.
All'evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia europea segue la Comunicazione interpretativa in materia di rifiuti e di sottoprodotti (datata 21.02.2007 COM 2007/59) che, benché antecedente alla Direttiva del 2008, è ancora attuale e offre spunti di confronto e di riflessione (articolo ItaliaOggi del 18.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. La demolizione non è processo di produzione ai fini della qualificazione del sottoprodotto.
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L'articolo 184-bis del d.lgs. 152/2006 stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
- la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione;
- deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
- la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
- l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.

La dizione dell'art. 184, comma 1, lett. a), lascia chiaramente intendere che
il sottoprodotto deve «trarre origine», quindi provenire direttamente, da un «processo di produzione», dunque da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali (sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla tecnologia), tanto è vero che si è da più parti escluso, in dottrina, che il riferimento alla derivazione del sottoprodotto dall'attività produttiva comprenda le attività di consumo ed in alcuni casi, sebbene con riferimento alla disciplina previgente, si è giunti ad analoghe conclusioni per le attività di servizio).
Dunque
la demolizione di un edificio, che può avvenire per motivi diversi, non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì all'eliminazione dell'edificio medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da questa Corte, il fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato il prodotto finale della demolizione, in quanto tale attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che può essere effettuata anche indipendentemente da precedenti demolizioni.
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L'attività di demolizione di un edificio non può essere definita un «processo di produzione» quale quello indicato dall'art. 184-bis, comma 1, lett. a), del d.lgs. 152/2006, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti.
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Il deposito temporaneo è descritto nell'articolo 183, lettera nn), del d.lgs. 152/2006, come il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a determinate condizioni dettagliatamente specificate:
- il raggruppamento dei rifiuti deve avvenire nel luogo di produzione dei rifiuti medesimi;
- il deposito temporaneo non può riguardare rifiuti prodotti da terzi, come si desume chiaramente dalla legge, ma solo rifiuti propri;
- i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004 e successive modificazioni devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
- sono previsti limiti quantitativi e temporali entro i quali i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento.

Tali limiti consentono al produttore di scegliere, in alternativa, di contenere il quantitativo dei rifiuti entro un certo volume (30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi ), superato il quale deve recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali operazioni, indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, con cadenza trimestrale.
In ogni caso, pur rispettando il dato quantitativo appena indicato:
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il deposito non può avere durata superiore ad un anno (per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate specifiche modalità di gestione del deposito temporaneo);
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il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
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devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura dei rifiuti pericolosi.
L'osservanza di tutte condizioni previste dalla legge per il deposito temporaneo solleva il produttore dagli obblighi previsti dal regime autorizzatorio delle attività di gestione tranne quelli di tenuta dei registri di carico e scarico e per il divieto di miscelazione previsto dall'art. 187.
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1. Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente osservare che, sebbene nell'imputazione sia indicato l'art. 56 del d.lgs. 152/2006, che pure il ricorrente menziona ripetutamente in ricorso, risulta evidente, dalla descrizione dei fatti riportata nell'imputazione medesima, che si tratta di un mero refuso e che la contestazione riguarda la illecita gestione di rifiuti, sanzionata dall'art. 256 d.lgs. 152/2006.
2. Ciò premesso, rileva il Collegio che il giudice del merito, nel dare atto della sostanziale ammissione dell'addebito da parte dell'imputato, non ha posto in dubbio la natura di rifiuto dei materiali da demolizione trasportati ed utilizzati in altro cantiere per la realizzazione di un sottofondo stradale, dando atto della distanza tra il luogo di produzione del rifiuto e quello dell'ultima collocazione, nonché del fatto che il mezzo utilizzato per il trasporto non era autorizzato allo svolgimento di tale attività, avendo l'imputato effettuato, successivamente al sequestro, la regolarizzazione mediante comunicazione all'Albo dei gestori ambientali.
A fronte di ciò, il ricorrente prospetta in ricorso due soluzioni interpretative, tra loro alternative, che sarebbero state, a suo avviso, tralasciate dal Tribunale e, nel far ciò, non specifica, tuttavia, in quali termini le abbia sottoposte all'attenzione del primo giudice, limitandosi ad osservare che questi non avrebbe provveduto ad una corretta applicazione della legge penale.
Le censure mosse in ricorso, in ogni caso, risultano prive di fondamento per diverse ragioni.
3. Un primo, determinante, elemento ostativo all'applicazione, nella fattispecie, della disciplina dei sottoprodotti o, in alternativa, del deposito temporaneo, è data dal fatto che le due discipline cui fa riferimento il ricorrente comportano l'applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che, come più volte affermato da questa Corte, l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione (in tema di sottoprodotti v. Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504. In tema di deposito temporaneo v. Sez. 3, n. 15680 del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non massimata; Sez. 3, n. 30647 del 15/06/2004, Dell'Angelo, non massimata. Il principio è stato affermato anche con riferimento ad altre ipotesi: si vedano, ad esempio, Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini Rv. 258860 in tema di impianti mobili adibiti alla sola attività di riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee; con riferimento alle terre e rocce da scavo, Sez. 3, n. 16078 del 17/04/2015, Fortunato non ancora massimata; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone Rv. 244784; Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n. 9794 del 29/11/2006 (dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto; in tema di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate rinvenute in battigia, art. 39, undicesimo comma, d.lgs. 152/2006, Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014 dep. (2015), Aloisio, Rv. 262159).
Più recentemente (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo, non ancora massimata) questa Corte ha affermato il principio, che qui va ribadito, secondo il quale
i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge.
Nel caso di specie non risulta in alcun modo che la prova richiesta sia stata fornita dall'interessato e ciò basterebbe ad escludere la fondatezza dei motivi di ricorso.
4. Nondimeno, la stessa ricostruzione dei fatti in contestazione effettuata dal giudice del merito e dallo stesso ricorrente
consentono di escludere comunque la possibilità di ricondurre i residui di demolizione per cui è processo nel novero dei sottoprodotti o di applicare agli stessi la speciale disciplina del deposito temporaneo.
Come si è accennato in precedenza, risulta, dalla sentenza impugnata e dal ricorso, che
l'impresa del ricorrente aveva proceduto, in comune di Paré, alla demolizione di un manufatto e che aveva successivamente trasportato i residui della demolizione, meglio descritti nell'imputazione, per la realizzazione di un fondo stradale, definito provvisorio, per il transito di mezzi pesanti utilizzati per la realizzazione di fabbricati residenziali nel comune di Loveno.
Considerati, dunque, tali dati fattuali,
deve certamente escludersi la natura di sottoprodotto dei residui da demolizione che viene ad essi attribuita nel primo motivo di ricorso.
5. Giova preliminarmente ricordare, a tale proposito, che
l'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006 definisce come rifiuti speciali quelli derivanti dalle attività di demolizione e costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando, attualmente (poiché, in precedenza, il riferimento riguardava l'ormai abrogato art. 186), quanto disposto dall'articolo 184-bis in materia di sottoprodotti.
Il richiamo all'art. 184-bis, in questo caso, è esclusivamente riferito ai materiali provenienti dalle sole attività di scavo, come emerge dal tenore letterale della disposizione e dal richiamo, prima della modifica ad opera del d.lgs. 205/2010, all'art. 186, che riguardava le terre e rocce da scavo.
La collocazione dei materiali derivanti da attività di demolizione nel novero dei sottoprodotti si porrebbe dunque in evidente contrasto con quanto stabilito dall'art. 184, che li qualifica espressamente come rifiuti. In ogni caso, tale collocazione imporrebbe comunque il rispetto di una serie di condizioni.
6. La categoria dei «sottoprodotti», come è noto, non era originariamente contemplata dalla disciplina di settore, lo è ora nell'art. 184-bis d.lgs. 152/2006, introdotto dal d.lgs. 205/2010 ed è definita dall'articolo 183, lettera qq), del medesimo d.lgs., il quale si riferisce a «qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'articolo 184-bis, comma 2».
L'articolo 184-bis, stabilisce che
è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
- la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione;
- deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
- la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
- l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.

7. Nel caso sottoposto all'attenzione di questa Corte, considerata la natura dei materiali, appare evidente che difetterebbe, in ogni caso, la prima delle condizioni richieste, quella concernente l'origine del sottoprodotto, non potendosi ritenere che i materiali utilizzati provengano da un «processo di produzione» tale non essendo la demolizione di un edificio.
La dizione dell'art. 184, comma 1, lett. a), lascia chiaramente intendere che
il sottoprodotto deve «trarre origine», quindi provenire direttamente, da un «processo di produzione», dunque da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali (sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla tecnologia), tanto è vero che si è da più parti escluso, in dottrina, che il riferimento alla derivazione del sottoprodotto dall'attività produttiva comprenda le attività di consumo ed in alcuni casi, sebbene con riferimento alla disciplina previgente, si è giunti ad analoghe conclusioni per le attività di servizio, opinione però non condivisa in una pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 41839 del 30/9/2008, Righi, Rv. 241423).
Dunque
la demolizione di un edificio, che può avvenire per motivi diversi, non è finalizzata alla produzione di alcunché, bensì all'eliminazione dell'edificio medesimo, né può assumere rilevanza, come già ritenuto da questa Corte, il fatto che la demolizione sia finalizzata alla realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato il prodotto finale della demolizione, in quanto tale attività non costituisce il prodromo di una costruzione, che può essere effettuata anche indipendentemente da precedenti demolizioni (Sez. 3, n. 42342 del 09/07/2013 RG. in proc. Massucco, Rv. 258329. V. anche Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014 (dep. 2015), Giaccari, Rv. 262128; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012, Celano, Rv. 252617, ove si è esclusa la riconducibilità dei residui da demolizione alla categoria dei sottoprodotti, seppure senza prendere direttamente in considerazione la qualificazione dell'attività di demolizione come «processo produttivo»).
8. Va conseguentemente affermato che
l'attività di demolizione di un edificio non può essere definita un «processo di produzione» quale quello indicato dall'art. 184-bis, comma 1, lett. a), del d.lgs. 152/2006, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti.
9. Riconosciuta la natura di rifiuto dei materiali indicati nell'imputazione, deve comunque escludersi che, nella fattispecie, possa ritenersi configurata un'ipotesi di deposito temporaneo come sostenuto nel secondo motivo di ricorso.
10. Deve a tale proposito ricordarsi che
il deposito temporaneo è descritto nell'articolo 183, lettera nn), del d.lgs. 152/2006, come il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a determinate condizioni dettagliatamente specificate:
- il raggruppamento dei rifiuti deve avvenire nel luogo di produzione dei rifiuti medesimi;
- il deposito temporaneo non può riguardare rifiuti prodotti da terzi, come si desume chiaramente dalla legge, ma solo rifiuti propri;
- i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004 e successive modificazioni devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
- sono previsti limiti quantitativi e temporali entro i quali i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento.

Tali limiti consentono al produttore di scegliere, in alternativa, di contenere il quantitativo dei rifiuti entro un certo volume (30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi ), superato il quale deve recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali operazioni, indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, con cadenza trimestrale.
In ogni caso, pur rispettando il dato quantitativo appena indicato:
-
il deposito non può avere durata superiore ad un anno (per alcune categorie di rifiuto, individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate specifiche modalità di gestione del deposito temporaneo);
-
il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
-
devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura dei rifiuti pericolosi.
L'osservanza di tutte condizioni previste dalla legge per il deposito temporaneo solleva il produttore dagli obblighi previsti dal regime autorizzatorio delle attività di gestione tranne quelli di tenuta dei registri di carico e scarico e per il divieto di miscelazione previsto dall'art. 187.
11. Dalla mera disamina delle condizioni richieste dalla legge per il deposito preliminare appare di tutta evidenza che, nella fattispecie, tale speciale disciplina non avrebbe potuto trovare applicazione.
Il deposito temporaneo dei rifiuti, come chiaramente si desume dalla norma, è prodromico alla loro raccolta per l'avvio al recupero o allo smaltimento mentre, nella fattispecie, i rifiuti erano stati utilizzati come sottofondo stradale per il transito di mezzi pesanti.
Inoltre, come si è detto in precedenza, i rifiuti sono stati prodotti in un comune e collocati in un comune diverso, difettando così il requisito del raggruppamento nel luogo stesso di produzione, a nulla rilevando che l'area in cui i rifiuti sono stati collocati fosse comunque nella disponibilità dell'imputato non prevedendo la legge alcuna eccezione, fatto salvo quanto disposto dallo stesso art. 183, lett. nn) e dall'art. 193, comma 9-bis, per gli imprenditori agricoli.
Infine, l'utilizzazione con le modalità descritte evidenzia anche il mancato rispetto delle norme tecniche ed il raggruppamento per categorie omogenee.
La sentenza impugnata risulta, pertanto, del tutto immune da censure (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2015 n. 33028 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In area paesaggisticamente vincolata, per l'occupazione temporanea con strutture mobili, tipo chioschi bar, non superiore a 120 gg. occorre l'autorizzazione paesaggistica semplificata, la cui mancanza, al pari dell'autorizzazione paesaggistica ordinaria, configura il reato previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004.
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RITENUTO IN FATTO
1. Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Nuoro ricorre per cassazione impugnando l'ordinanza emessa in data 26.08.2014 con la quale il tribunale della libertà ha annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip presso il medesimo tribunale per la violazione degli articoli 44, comma 1, lettera c), del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 e 181, comma 1-bis, decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 in relazione ad un chiosco bar costituito da tre moduli prefabbricati adibiti a servizi igienici, locale di lavoro e bar, di superficie totale pari a 35 mq. e altezza di metri 2,70, collegati ad una rete di urbanizzazione primaria, rete idrica fognaria ed elettrica realizzate in condotte interrate.
2. Per la cassazione dell'impugnata ordinanza il ricorrente deduce la violazione dell'articolo 146 del decreto legislativo n. 42 del 2004, dell'articolo 1, comma 1, d.p.r. n. 139 del 2010, con riferimento all'articolo 181, comma 1-bis, decreto legislativo n. 42 del 2004 e dell'articolo 10, comma 1, lettera a), d.p.r. n. 380 del 2001 in relazione all'articolo 44, lettera c), stesso decreto [articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale].
Assume il ricorrente come il tribunale abbia erroneamente sostenuto che non fosse necessario, nel caso di specie, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per la realizzazione delle opere sequestrate sul rilievo della loro amovibilità e siccome destinate ad essere utilizzate per un tempo inferiore a 120 giorni, con ciò interpretando erroneamente l'articolo 1, comma 1, d.p.r. 139 del 2010 che, all'allegato I del suo punto n. 38, prevede solamente per le strutture
ivi indicate, da installare per un periodo superiore a 120 giorni, un'autorizzazione paesaggistica semplificata. Tale semplificazione tuttavia non esclude, secondo il ricorrente, la necessità dell'autorizzazione paesaggistica neppure per strutture che comportano, come nel caso in esame, una occupazione del suolo inferiore a 120 giorni, essendo pacifico che l'opera fosse collegata ad una rete di urbanizzazione primaria, alla rete idrica fognaria ed elettrica sicché l'esistenza di tali opere primarie conferiva alla struttura carattere di stabilità e, di conseguenza, tutta l'opera doveva considerarsi nuova costruzione ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera e.5), del d.p.r. 380 del 2001 e, come tale, necessitava del titolo abilitativo rappresentato dal permesso di costruire ai sensi dell'articolo 10 d.p.r. 380 del 2001, la cui inosservanza è presupposto di applicazione della legge penale e quindi dell'articolo 44, lettera c), d.p.r. 380 del 2001.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Il tribunale della libertà ha sostenuto che le opere non richiedessero l'autorizzazione paesaggistica, quantunque semplificata, in quanto tale procedimento sarebbe richiesto soltanto per gli interventi di lieve entità e sempre che questi comportino una alterazione dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici, indicati nell'elenco di cui all'allegato I (d.P.R. 09.07.2010, n. 139 Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni).
Escluso che l'intervento richiesto dall'indagato avesse in qualsiasi modo comportato un'alterazione dello stato dei luoghi e dell'aspetto esteriore degli edifici, il tribunale cautelare ha affermato che il procedimento semplificato di autorizzazione amministrativa può applicarsi esclusivamente alle "occupazioni temporanee su suolo privato, pubblico o di uso pubblico, con strutture mobili, chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni", con la conseguenza che lo stesso procedimento non era pertanto necessario nel caso di specie in quanto l'occupazione da parte della società amministrata dall'indagato era prevista soltanto per un periodo di tempo non superiore a 120 giorni e ciò avrebbe comportato la perfetta legittimità della condotta posta in essere dalla società del Palau per la realizzazione della struttura nei tempi previsti.
3. La questione posta con il gravame del pubblico ministero -sebbene attraverso una diversa interpretazione della normativa che regola la materia e con una causa petendi ulteriore quanto al collegamento degli interventi con le opere di urbanizzazione primaria- è se, con riferimento a detti interventi, fosse o meno necessaria l'autorizzazione paesaggistica, sia pure in forma semplificata.
Il tribunale cautelare ha escluso tale eventualità sulla base di un'interpretazione del punto 38 dell'allegato I del d.P.R. n. 139 del 2010 secondo il quale sono assoggettati a procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, gli interventi di lieve entità, da realizzarsi su aree o immobili sottoposti alle norme di tutela della parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sempre che comportino un'alterazione dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici e tra questi interventi è compresa (al punto 38 dell'allegato I) "l'occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, con strutture mobili, chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni".
Da ciò il tribunale cautelare ha tratto il convincimento che, necessitando gli interventi de quibus di in un lasso temporale inferiore ai 120 giorni, per essi non occorreva alcuna autorizzazione paesaggistica, ancorché in forma semplificata, essendo quest'ultima necessaria solo per le occupazioni temporanee superiori ai 120 giorni, con la conseguenza che al di sotto di tale limite temporale l'attività (nella specie: chiosco bar realizzato dalla società Lu. e costituito da tre moduli prefabbricati adibiti a servizi igienici, locale di lavoro e bar, di superficie totale pari a 35 mq. e altezza di metri 2,70, collegati ad una rete di urbanizzazione primaria, rete idrica fognarie ed elettrica realizzate in condotte interrate) sarebbe del tutto "libera".
4. Tale interpretazione, sebbene apparentemente confortata dalla lettera della legge, non appare condivisibile per le seguenti ragioni.
Scrutinando, senza particolare approfondimento, il dato letterale dell'allegato I, punto 38 del d.p.r. 09.07.2010, n. 139, tale disposizione, in applicazione dell'articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, sembra prevedere la procedura diretta al conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica semplificata solo in caso di "occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, con strutture mobili, chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni", con la conseguenza che, oltre tale termine, sarebbe richiesta l'autorizzazione paesaggistica semplificata mentre l'occupazione temporanea di durata inferiore al predetto termine (inferiore cioè ai 120 giorni) non sarebbe soggetta ad alcuna autorizzazione, configurandosi perciò come intervento paesaggisticamente "libero", così come ha in effetti ritenuto, nel caso in esame, il tribunale cautelare.
Va subito chiarito che
per l'occupazione temporanea con strutture mobili, tipo chioschi bar, non è applicabile il punto 39 dell'allegato I che, senza alcun riferimento a limiti temporali, assoggetta alla procedura semplificata le "strutture stagionali non permanenti collegate ad attività turistiche, sportive o del tempo libero, da considerare come attrezzature amovibili" e ciò in quanto le strutture, tipo chioschi, sono espressamente elencate nel punto 38.
La ragione di fondo per la quale non è sostenibile l'interpretazione secondo cui l'autorizzazione paesaggistica non sarebbe necessaria per le occupazioni di durata inferiore ai 120 giorni risiede nel fatto che esclusivamente l'art. 149 del d.lgs. 42 del 2004, con norma di principio, elenca i casi in cui l'autorizzazione paesaggistica non è necessaria (ossia:
1. per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici;
2. per gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio;
3. per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1, lettera g, purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia).
All'ambito di operatività dell'art. 149 del Codice sono dunque sottratte le nuove costruzioni di durata temporanea che sono perciò soggette senza alcun dubbio all'autorizzazione paesaggistica.
L'allegato al d.p.r. 139 del 2010 non poteva ampliare gli interventi paesaggisticannente "liberi", oltre la previsione di legge contenuta nell'articolo 149 del Codice, perché l'art. 146 del Codice, che è norma di sistema quanto alla disciplina dell'autorizzazione paesaggistica, al comma 9 rinviava ad un regolamento (emanato appunto con il d.P.R. n. 139 del 2010) di stabilire le "procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti".
Perciò, l'allegato I al d.P.R. 139 del 2010, individuando gli interventi di lieve entità al fine di semplificare il procedimento per conseguire l'autorizzazione paesaggistica, non poteva estendere ai casi non previsti dall'art. 149 del Codice, e quindi ulteriori rispetto alla previsione legislativa (il d.P.R. n. 139 del 2010 è un regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400 quindi una fonte - atto di rango secondario), gli interventi paesaggisticamente "liberi", con la conseguenza che tutti gli interventi in zone paesaggisticamente vincolate che non rientrano nel campo dì applicazione del d.p.r. 139 del 2010 (che prevede i casi in cui è possibile fare ricorso all'autorizzazione semplificata) e nel campo di applicazione dell'articolo 149 del codice (che prevede i casi di attività paesaggisticamente libera) sono soggetti al procedimento autorizzatorio ordinario, con il risultato paradossale che, assoggettate ad autorizzazione semplificata le strutture mobili di durata superiore a 120 giorni, deriverebbe che per quelle di durata inferiore si dovrebbe richiedere la procedura ordinaria, pervenendosi in tal modo ad una conclusione del tutto illogica ed in contrasto con l'articolo 146, comma 9, del codice, in quanto la procedura più onerosa sarebbe richiesta per l'occupazione  di durata più ristretta.
E' stato correttamente sostenuto che evidenti ragioni di coerenza logica e giuridica vorrebbero che fossero soggette a procedura semplificata l'occupazione di suolo avente durata non superiore a 120 giorni, termine oltre il quale dovrebbe essere esperito il procedimento ordinario.
Peraltro, come è stato osservato, la lettura dei singoli punti dell'allegato al d.p.r. 139 del 2010 conferma tale approdo: i numeri 1, 7, 8, 9, 13, 19, 23, 24, 25, 26, 34, 35, 37 prevedono espressamente che gli interventi ivi contemplati devono rispettare un limite previsto per ciascuno di essi "non superiore a ..." una determinata misura, oltre la quale l'intervento non può considerarsi di lieve entità e richiede il regime autorizzatorio ordinario. Anche i punti 15 e 30 esprimono diversamente il rispetto di un limite massimo imponendo per i rispettivi interventi "dimensioni inferiori a 18 mq." e "fino a 4". In nessun caso, oltre a quello considerato, l'allegato prevede interventi superiori a uno specifico parametro.
Pertanto
è stato ipotizzato che, per mero errore materiale nella formulazione del punto 38 dell'allegato I del regolamento 139 del 2010, sia stato omesso l'avverbio "non" e che conseguentemente la norma assume perciò un significato diametralmente opposto a quello effettivamente voluto dal legislatore.
Sul punto, va osservato come, volendo rimanere ancorati alla lettera della norma e al significato stesso delle parole utilizzate nella disposizione, non sia corretto valorizzare nell'economia della fattispecie esclusivamente il dato cronologico di riferimento (120 giorni) sottostimando il segno linguistico "occupazione temporanea", che costituisce il vero contenuto precettivo della fattispecie e che per ciò stesso esclude ogni possibilità di ricorso ad interventi "incertus quando" perché senza uno sbarramento circa il termine finale (dies ad quem) l'occupazione, contrariamente all'intento del legislatore, può assumere connotati di non temporaneità e quindi non rientrare nel novero degli interventi lievi, i soli che giustificano il ricorso ad una procedura semplificata, il che dà il senso di una antinomia interna alla fattispecie che consente una interpretazione conforme al sistema (come in precedenza delineato) riportando alla coerenza la disposizione, nel senso che
l'autorizzazione paesaggistica semplificata sarebbe consentita per le occupazioni temporanee inferiori a 120 giorni mentre per quelle superiori sarebbe necessario il ricorso alla procedura ordinaria.
Deve ribadirsi -in conformità ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice- che
quando l'interpretazione letterale di una norma sia sufficiente a esprimere un significato chiaro e univoco, l'interprete non deve ricorrere all'interpretazione logica, specie se attraverso questa si tenda a modificare la volontà della legge chiaramente espressa, mentre quando il significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, non sia, come nella specie, chiaro e univoco tanto da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico: ciò al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione del legislatore", avendo cura, però, di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di esame.
Ne consegue che
il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione normativa sia incompatibile, situazione nella specie sussistente, con il sistema normativo (Sez. L, n. 3495 del 13/04/1996,Rv. 497000; Sez. 3, n. 9700 del 21/05/2004, Rv. 572999).
5. Il tribunale cautelare ha rinunciato a percorrere un siffatto approccio esegetico ed è pervenuto all'erronea conclusione che, nel caso di specie, non occorresse alcuna autorizzazione paesaggistica, vertendosi al cospetto di un'attività, a tal fine, libera, laddove invece
era necessario munirsi di un'autorizzazione semplificata, la cui mancanza, al pari dell'autorizzazione paesaggistica ordinaria, configura il reato previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004.
E' ovvio che, ai fini della sussistenza del fumus criminis ed in particolare dell'integrazione dell'elemento soggettivo, va considerato, in relazione agli aspetti del caso concreto, come non sia possibile esigere dal privato cittadino una corretta interpretazione della normativa di per sé intrinsecamente ed oggettivamente antinomica, con la conseguenza che va accertato quale ricaduta abbia avuto il testo normativo su un eventuale comportamento assunto in "buona fede" da parte dell'indagato circa la mancata richiesta dell'autorizzazione semplificata, impregiudicate le misure di carattere amministrative a tutela degli interessi paesaggistici, posto che "la buona fede" è predicabile ove la mancata coscienza della illiceità del fatto derivi da un elemento positivo, cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un comportamento o un provvedimento dell'autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. 3, n. 6160 del 08/03/1989, Greco, Rv. 181118).
Dal testo del provvedimento impugnato risulta infine come fosse pacifica la circostanza, che il ricorrente sostanzialmente deduce, ossia che il chiosco bar fosse costituito da tre moduli prefabbricati adibiti a servizi igienici, locale di lavoro e bar, collegati ad una rete di urbanizzazione primaria, rete idrica fognarie ed elettrica realizzate in condotte interrate, senza che, al cospetto di tale evidenza, il tribunale cautelare abbia motivato (concretizzando la violazione di legge denunciata) sulla riconducibilità o meno, nel caso di specie, di tali interventi nel novero di quelli subordinati al rilascio del permesso di costruire perché qualificabili come interventi di nuova costruzione (ex art. 3, comma 1, lett e.5) in relazione all'art. 10 d.p.r. 380 del 2001) e dunque connotati da una tipica stabilità inconcepibile con la temporaneità dell'invocata occupazione, dovendosi, a tal fine, considerare che, in materia edilizia, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710).
Non rileva la pronuncia incidentale del Tar Sardegna non essendo la stessa vincolante ai fini della presente delibazione.
6. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame ed il giudice del rinvio si atterrà ai principi di diritto in precedenza enunciati (ai paragrafi 4 e 5 del considerato in diritto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2015 n. 29080).

EDILIZIA PRIVATAEntrambe le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente interrato quale una piscina, in quanto i piani interrati devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali.
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e dalle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione”.

... per l'annullamento del permesso di costruire n. 7/2009 per la realizzazione di una piscina e relative pertinenze.
...
Con ricorso notificato il 05.06.2009 e depositato il 03.07.2009 Ma.Pi., Pa. e Gi.Pi. del Ve. hanno impugnato il permesso di costruire in sanatoria n. 7/2009 rilasciato dal Comune di Pignataro Maggiore a Lu.Ar..
I ricorrenti hanno esposto di essere comproprietari del terreno composto dalle particelle 84 e 122 del Foglio 5 del Comune di Pignataro Maggiore, confinante con il suolo di proprietà di Lu.Ar.; quest’ultimo aveva avviato in assenza di permesso di costruire i lavori per la realizzazione di una piscina, un pergolato ed altri locali e, a seguito dell’esposto presentato dai ricorrenti e del sopralluogo dei tecnici comunali, aveva richiesto ed ottenuto il permesso di costruire in sanatoria impugnato.
...
Quanto alle distanze minime dal confine e dalla strada comunale, oggetto del terzo e quarto motivo di ricorso, l’istruttoria svolta nel corso del giudizio ha evidenziato l’insussistenza delle violazioni lamentate.
Il Servizio Tecnico comunale ha precisato, in particolare, che le zone E2, quale quella in cui insistono le opere in contestazione, sono disciplinate dall’art. 22 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., e destinate “prevalentemente ad attività agricola”; in tale quadro risulta consentita la realizzazione di opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti, quale può essere considerata la piscina di modeste dimensioni al servizio del fabbricato del controinteressato.
Con riferimento ai locali al servizio della piscina, inoltre, nella relazione dei tecnici comunali si rileva che gli stessi sono completamente interrati e che i locali interrati, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento Edilizio comunale, non sono considerati a fini volumetrici se hanno un’altezza inferiore a m. 2,50.
È stato chiarito altresì che l’art. 22 citato non prevede per le zone E2 distanze minime né dai confini, né dalle strade vicinali, né può essere applicata la distanza minima di m. 10 dalle strade vicinali di tipo “F” prevista dall’art. 26 del D.P.R. 495/1992 trattandosi di area ricompresa nel perimetro del centro abitato; l’intervento risulta invece rispettoso delle distanze previste dal codice civile (la cui violazione non è stata peraltro nemmeno contestata).
In ogni caso, poi, entrambe le opere (piscina e annessi vani tecnici) non risultano rilevanti ai fini della violazione delle distanze legali trattandosi di opere interrate o che comunque non si innalzano oltre il livello del terreno, con conseguente inconfigurabilità di un corpo edilizio idoneo a creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità dell’ambiente collocato tra gli edifici.
Infatti, essendo la normativa dettata in materia di distanze legali diretta ad evitare la formazione di strette e dannose intercapedini per evidenti ragioni di igiene, areazione e luminosità, ne deriva che la suddetta normativa è inapplicabile relativamente ad un manufatto completamente interrato quale una piscina (TAR Lombardia, Milano, 20.12.1988 n. 428), in quanto i piani interrati devono ritenersi esonerati dal rispetto delle distanze legali (TAR Puglia, Lecce, sez. III 30.12.2014 n. 3200).
In tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione affermando che “Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali, stabilite dall'art. 873 c.c. e dalle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi costruzione qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione” (Cassazione civile sez. II 06.05.2014 n. 9679).
Infine deve rilevarsi che il pergolato non è ricompreso tra le opere sanate in quanto il permesso impugnato contiene l’espressa prescrizione dell’esclusione di tale opera ed il controinteressato ha rinunciato alla sua realizzazione.
In conclusione il ricorso va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla classificazione e disciplina comunale di tunnel adibiti a serre (tunnel-serra). Si tratta di strutture formate da archi di tubolare metallico infissi nel terreno e non cementati, collegati longitudinalmente da una barra metallica. La copertura è assicurata da teli in materiale plastico, fissati al tubolare con anelli elastici e trattenuti alla base da un riporto di terra. L’altezza è di circa 4 metri, la larghezza di circa 7,5 metri, mentre la lunghezza varia da 30 a 100 metri.
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Sulla classificazione dei tunnel-serra

I tunnel-serra collocati e progettati dalla ricorrente, pur essendo sprovvisti di strutture in muratura e di fondazioni in cemento, non possono essere qualificati come serre mobili stagionali ex art. 6, comma 1-e, del DPR 380/2001, e dunque non ricadono nella fattispecie dell’attività edilizia libera.
L’ostacolo principale è rappresentato dalla nozione di stagionalità, che non deve necessariamente essere intesa in senso naturalistico, ma implica comunque una sospensione dell’attività al termine del ciclo produttivo. Tale sospensione è rilevante sul piano edilizio, perché consente la rimozione del manufatto, o quantomeno della copertura che crea il volume e l’ingombro visivo.
In questo modo, essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato, analogamente a quanto avviene con le vere e proprie costruzioni destinate a durare solo per una frazione dell’anno solare.
Applicando le categorie edilizie attualmente codificate a livello legislativo, se un tunnel-serra non può essere considerato una serra mobile stagionale, dovrebbe essere assimilato alle serre fisse disciplinate dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, che hanno un impatto sul territorio molto vicino a quello degli edifici produttivi.
Tuttavia, è evidente che una piena assimilazione alle serre fisse non riuscirebbe a catturare il carattere specifico dei tunnel-serra utilizzati per la produzione agricola di IV gamma, che nell’attuale processo di industrializzazione dell’agricoltura sono essenzialmente dei luoghi di lavoro all’aperto, dotati di copertura leggera e direttamente insistenti sul terreno.
La separazione dall’intorno è costituita appunto dalla copertura in materiale plastico, che rileva sotto il profilo del drenaggio delle acque meteoriche, mentre le pareti frontali sono aperte per consentire le lavorazioni delle macchine operatrici.
La qualificazione preferibile è pertanto quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). L’inquadramento in questa nicchia classificatoria lascia inalterato l’obbligo di permesso di costruire, ma attribuisce margini significativi alla pianificazione comunale per l’introduzione di una disciplina di favore, ossia meno restrittiva di quella prevista per le serre fisse e per i fabbricati agricoli produttivi.
In particolare, possono essere superati i limiti di copertura previsti dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, a condizione che vi siano adeguate garanzie idrologiche e ambientali.
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Sulla disciplina comunale delle serre
Per i tunnel-serra o serre mobili (che, come si è visto sopra, sono luoghi di lavoro in ambito agricolo) è quindi preferibile accantonare il concetto di stagionalità e parlare di temporaneità o reversibilità del titolo edilizio. Poiché un luogo di lavoro è collegato alle esigenze produttive di una determinata azienda, che variano nel tempo, è possibile (e preferibile dal punto di vista ambientale) che i titoli edilizi siano provvisori, purché siano anche sufficientemente ampi da consentire una ragionevole programmazione dell’attività.
Alla scadenza del titolo, il privato dispone soltanto di un’aspettativa al rinnovo, che sarà valutata dall’amministrazione verificando la continuità dell’azienda (non le specifiche esigenze produttive, che ricadono nella libertà di iniziativa economica) e la sostenibilità ambientale. Il carattere leggero e facilmente amovibile dei manufatti è compatibile con un titolo edilizio temporaneo.
1. La ricorrente Azienda Agricola Ca.Ag. & C. è una società agricola con sede nel Comune di Mairano, specializzata nella produzione di ortaggi. I fondi coltivati sono in gran parte di proprietà di terzi.
2. Per lo svolgimento dell’attività orticola la ricorrente utilizza tunnel adibiti a serre (tunnel-serra). Si tratta di strutture formate da archi di tubolare metallico infissi nel terreno e non cementati, collegati longitudinalmente da una barra metallica. La copertura è assicurata da teli in materiale plastico, fissati al tubolare con anelli elastici e trattenuti alla base da un riporto di terra. L’altezza è di circa 4 metri, la larghezza di circa 7,5 metri, mentre la lunghezza varia da 30 a 100 metri.
3. Il Comune con ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 558 del 07.04.2008 ha ingiunto la demolizione di 54 tunnel-serra con le caratteristiche sopra descritte, realizzati abusivamente sui mappali n. 33-39-77. L’area dove sono collocate queste strutture si trova in parte in zona agricola e in parte in zona di rispetto ambientale.
Nell’ordinanza di demolizione le strutture sono qualificate come serre permanenti ai sensi dell’art. 59, comma 4, della LR 11.03.2005 n. 12, come tali subordinate a permesso di costruire e ammissibili con un rapporto di copertura massimo del 40% della superficie aziendale (48% per le aziende esistenti alla data di prima approvazione del PGT).
4. Contro questo provvedimento la ricorrente ha proposto impugnazione con atto notificato il 10.06.2008 e depositato il 16.06.2008 (ricorso n. 614/2008).
La tesi della ricorrente è che i tunnel-serra, utilizzati per la produzione agricola di IV gamma, costituirebbero coperture stagionali, esonerate dal permesso di costruire ai sensi dell’art. 33, comma 2-d, della LR 12/2015 nel testo in vigore all’epoca (v. ora il comprensivo rinvio all’art. 6 del DPR 06.06.2001 n. 380 inserito nell’art. 33, comma 1, della LR 12/2015 dall'art. 12, comma 1-h, della LR 21.02.2011 n. 3).
5. In seguito, il Comune è intervenuto nuovamente nei confronti della ricorrente. In particolare, (a) il responsabile dell’Area Tecnica con ordinanza n. 631 del 20.02.2010 ha ingiunto la demolizione di 153 tunnel realizzati abusivamente sui mappali n. 332, n. 159-160-161, n. 162-163, n. 147 (foglio 11), n. 17, n. 147 (foglio 12), tutti in zona agricola di salvaguardia o comunque in ambiti inedificabili, e (b) ancora il responsabile dell’Area Tecnica con ordinanza n. 635 del 16.03.2010 ha ingiunto una seconda volta la demolizione dei 54 tunnel realizzati abusivamente sui mappali n. 33-39-77.
6. Poiché la ricorrente non ha ottemperato, il segretario comunale con decreto prot. n. 4373 del 27.08.2010 ha accertato la mancata esecuzione dell’ordinanza n. 631 del 20.02.2010, e con decreto prot. n. 4491 del 03.09.2010 ha accertato la mancata esecuzione dell’ordinanza n. 635 del 16.03.2010.
In entrambi i casi è stata disposta l’immissione nel possesso delle aree, finalizzata alla demolizione d’ufficio dei manufatti abusivi.
7. Contro questi provvedimenti la ricorrente ha proposto impugnazione con atto notificato il 03.05.2010 e depositato il 14.05.2010, integrato con motivi aggiunti (ricorso n. 483/2010). Anche in questo caso la tesi del ricorso è che, in mancanza di un ancoraggio in cemento, i tunnel-serra non dovrebbero essere qualificati come serre fisse ma come strutture stagionali (intendendo la stagionalità in senso economico: per gli ortaggi di IV gamma i sottocicli produttivi hanno una durata pari a circa due mesi).
8. In data 03.04.2013 la ricorrente ha chiesto il permesso di costruire per la realizzazione di 21 tunnel mobili e di 7 tunnel mobili stagionali. Tutte le strutture avrebbero dovuto essere posizionate sul mappale n. 29, classificato in zona agricola. La tipologia dei tunnel è stata poi variata con istanza del 18.06.2013 (i 7 tunnel mobili stagionali sono stati sostituiti da serre fisse). Nella relazione allegata a questa seconda istanza si precisa che a quella data la superficie aziendale coperta da tunnel mobili (identificabili con i tunnel-serra) era pari al 41,46% del totale, e che con il titolo edilizio richiesto la predetta superficie coperta sarebbe passata al 46,17%, a cui si sarebbe aggiunto un ulteriore 2% rappresentato dalla superficie coperta da tunnel fissi.
9. Il Comune con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 4234 del 21.10.2013 ha negato il titolo edilizio, in quanto il progetto contrasterebbe con le norme del PGT, che impongono una distanza minima di 10 metri tra le serre in zona agricola strategica (v. art. 3, punto 16, e art. 27, punto a3.2, delle NTA).
10. Contro il diniego la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 13.12.2013 e depositato il 07.01.2014 (ricorso n. 25/2014). È stata censurata l’interpretazione degli art. 3 e 27 delle NTA fatta propria dagli uffici comunali, e in subordine la stessa disciplina urbanistica, di cui è chiesto l’annullamento nella parte in cui fissa la distanza minima tra le serre.
La tesi del ricorso è che sarebbe irragionevole imporre un corridoio di 10 metri tra i tunnel-serra (al posto della distanza di circa 2,2 metri indicata nel progetto) come se si trattasse di edifici con pareti finestrate.
11. Il Comune si è costituito in giudizio in tutti i ricorsi, chiedendone la reiezione. Con identica richiesta si è costituito il signor Gi.Ar., titolare dell’azienda agricola Ag. e proprietario di un fondo confinante con l’area dei tunnel-serra.
12. Vista l’omogeneità della materia contenziosa trattata nei tre ricorsi, questo TAR con ordinanza n. 990 del 15.09.2014 ha disposto la riunione, che viene confermata in questa sede.
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla classificazione dei tunnel-serra
14. In primo luogo, occorre sottolineare che i tunnel-serra collocati e progettati dalla ricorrente, pur essendo sprovvisti di strutture in muratura e di fondazioni in cemento, non possono essere qualificati come serre mobili stagionali ex art. 6, comma 1-e, del DPR 380/2001, e dunque non ricadono nella fattispecie dell’attività edilizia libera.
15. L’ostacolo principale è rappresentato dalla nozione di stagionalità, che non deve necessariamente essere intesa in senso naturalistico, ma implica comunque una sospensione dell’attività al termine del ciclo produttivo. Tale sospensione è rilevante sul piano edilizio, perché consente la rimozione del manufatto, o quantomeno della copertura che crea il volume e l’ingombro visivo.
In questo modo, essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato, analogamente a quanto avviene con le vere e proprie costruzioni destinate a durare solo per una frazione dell’anno solare.
16. Applicando le categorie edilizie attualmente codificate a livello legislativo, se un tunnel-serra non può essere considerato una serra mobile stagionale, dovrebbe essere assimilato alle serre fisse disciplinate dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, che hanno un impatto sul territorio molto vicino a quello degli edifici produttivi.
17. Tuttavia, è evidente che una piena assimilazione alle serre fisse non riuscirebbe a catturare il carattere specifico dei tunnel-serra utilizzati per la produzione agricola di IV gamma, che nell’attuale processo di industrializzazione dell’agricoltura sono essenzialmente dei luoghi di lavoro all’aperto, dotati di copertura leggera e direttamente insistenti sul terreno.
La separazione dall’intorno è costituita appunto dalla copertura in materiale plastico, che rileva sotto il profilo del drenaggio delle acque meteoriche, mentre le pareti frontali sono aperte per consentire le lavorazioni delle macchine operatrici.
18. La qualificazione preferibile è pertanto quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). L’inquadramento in questa nicchia classificatoria lascia inalterato l’obbligo di permesso di costruire, ma attribuisce margini significativi alla pianificazione comunale per l’introduzione di una disciplina di favore, ossia meno restrittiva di quella prevista per le serre fisse e per i fabbricati agricoli produttivi.
In particolare, possono essere superati i limiti di copertura previsti dall’art. 59, commi 4 e 4-bis, della LR 12/2015, a condizione che vi siano adeguate garanzie idrologiche e ambientali.
Sulla disciplina comunale delle serre
19. Il Comune ha in effetti utilizzato lo spazio concesso dalla legislazione nazionale per introdurre nel PGT una disciplina speciale sulle serre. L’art. 27, punto a3.2, delle NTA distingue (1) le serre fisse, sottoposte ai limiti degli art. 59 e 60 della LR 12/2015, (2) le serre mobili per l’attività ortofrutticola e florovivaistica, con “stagionalità massima di anni sei” e un rapporto di copertura non superiore al 70% dell’area interessata dalla coltivazione, e (3) le serre mobili stagionali, sottoposte a semplice comunicazione, con “stagionalità massima di mesi sei” e un rapporto di copertura non superiore al 70% dell’area interessata dalle coltivazioni stagionali.
Per tutte le tipologie di serre è stabilito il limite di copertura complessivo del 40% della superficie aziendale “al fine di non procurare danni di carattere idrogeologico, saturando i corsi d’acqua durante i periodi di pioggia”.
Tra le serre mobili non stagionali e le abitazioni deve esservi una distanza minima di 100 metri, salvo deroghe autorizzate dall’ARPA. Sono previsti inoltre distacchi minimi dal cimitero e dal depuratore (50 metri), nonché dal reticolo idrico minore e dalle strade (5 metri). In via generale è poi fissata una distanza minima di 10 metri tra le singole serre, fisse e mobili.
20. I tunnel-serra della ricorrente ricadono nella categoria delle serre mobili. La regolamentazione comunale fa riferimento alla stagionalità lunga, fino a sei anni, ma la denominazione appare impropria, perché l’arco temporale è molto ampio e all’interno dello stesso non sono previste sospensioni dell’attività (in effetti, queste serre sono anche definite non stagionali, in contrapposizione a quelle propriamente stagionali, sottoposte al limite dei sei mesi).
Per i tunnel-serra o serre mobili (che, come si è visto sopra, sono luoghi di lavoro in ambito agricolo) è quindi preferibile accantonare il concetto di stagionalità e parlare di temporaneità o reversibilità del titolo edilizio. Poiché un luogo di lavoro è collegato alle esigenze produttive di una determinata azienda, che variano nel tempo, è possibile (e preferibile dal punto di vista ambientale) che i titoli edilizi siano provvisori, purché siano anche sufficientemente ampi da consentire una ragionevole programmazione dell’attività.
Alla scadenza del titolo, il privato dispone soltanto di un’aspettativa al rinnovo, che sarà valutata dall’amministrazione verificando la continuità dell’azienda (non le specifiche esigenze produttive, che ricadono nella libertà di iniziativa economica) e la sostenibilità ambientale. Il carattere leggero e facilmente amovibile dei manufatti è compatibile con un titolo edilizio temporaneo.
21. In questo quadro, le indicazioni contenute nell’art. 27, punto a3.2, delle NTA circa il rapporto di copertura devono intendersi come limiti derogabili a parità di garanzie idrologiche e ambientali. La finalità delle prescrizioni sul rapporto di copertura è esplicitata direttamente nel testo della norma. Se dunque attraverso uno studio del drenaggio delle acque meteoriche e di quelle irrigue non utilizzate viene dimostrata la sostenibilità di un rapporto di copertura più elevato, anche applicando le cautele imposte dal principio di precauzione, non vi sono ragioni per negare l’approvazione del progetto o la sanatoria delle installazioni abusive. Quando invece non si raggiunga un livello di sicurezza adeguato, è legittima la riduzione del rapporto di copertura al di sotto della previsione del PGT.
22. Per le altre indicazioni contenute nell’art. 27, punto a3.2, delle NTA, riguardanti le distanze minime, l’unica interpretazione possibile è invece quella letterale. Alcune prescrizioni sono senz’altro ragionevoli (distacchi dal cimitero, dal depuratore, dal reticolo idrico minore, dalle strade), in quanto il limite all’iniziativa economica è quello strettamente necessario a evitare interferenze pericolose o moleste. Altre prescrizioni impongono limitazioni più gravose, e dunque sono ragionevoli solo se accompagnate dal potere di deroga, come è previsto per la distanza dalle abitazioni.
23. Vi è poi la prescrizione che impone una distanza minima tra le serre (fisse e mobili) pari a 10 metri. Si tratta di un vincolo che per le serre mobili è palesemente sproporzionato. Non vi sono infatti elementi di analogia con la distanza tra pareti finestrate prevista dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444, non solo per la mancanza di finestre ma anche per il fatto che i tunnel-serra sono strutture produttive progettate per utilizzare in modo razionale tutta la superficie agricola disponibile.
Non è neppure possibile individuare la giustificazione della norma nella prevenzione di criticità legate al drenaggio delle acque meteoriche, perché questo problema è valutato sotto il profilo del rapporto di copertura, come si è visto sopra. La prescrizione della distanza minima di 10 metri, per quanto riguarda le serre mobili, deve quindi essere annullata.
Sui tunnel-serra realizzati o progettati dalla ricorrente
24. Una volta definito il contesto normativo, possono essere esaminati i singoli provvedimenti oggetto di impugnazione.
25. Per quanto riguarda gli ordini di demolizione e i provvedimenti consequenziali, deve essere riconosciuta come fondata l’aspettativa della ricorrente a regolarizzare i tunnel-serra abusivi, ad eccezione di quelli situati nelle fasce di rispetto sopra descritte (cimitero, depuratore, reticolo idrico minore, strade).
Per la regolarizzazione, trattandosi di opere ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001, è applicabile la procedura stabilita dall’art. 36 del medesimo testo normativo. In proposito, possono essere fissati i seguenti criteri interpretativi:
(a) nelle zone agricole la regolarizzazione è sempre possibile, con la precisazione che in quelle di salvaguardia o di rispetto ambientale gli uffici comunali potranno stabilire limitazioni riferite a criticità sito-specifiche, da motivare adeguatamente;
(b) la distanza minima dalle abitazioni non può costituire un ostacolo alla regolarizzazione, qualora l’ARPA riconosca i presupposti per la deroga (in mancanza di una pronuncia dell’ARPA dovrà essere interpellata la ASL, per affinità di competenza tecnica);
(c) poiché la distanza minima tra i tunnel-serra non è più applicabile a causa dell’annullamento della relativa prescrizione, il problema dei distacchi dovrà essere esaminato all’interno dello studio circa la sostenibilità del rapporto di copertura.
26. Sulla base degli stessi criteri potranno essere autorizzati, in tutto o in parte, i tunnel-serra oggetto dell’istanza del 03.04.2013 e successive modifiche.
27. Qualora i procedimenti di sanatoria o di autorizzazione siano definiti in senso favorevole alla ricorrente, gli atti finali, essendo titoli edilizi temporanei, dovranno stabilire anche il periodo di efficacia nel limite di 6 anni previsto dal PGT, ferma restando la possibilità di rinnovo alla scadenza.
Conclusioni
28. I ricorsi riuniti devono pertanto essere accolti, con le precisazioni e le limitazioni sopra indicate.
29. Questa decisione determina l’annullamento degli atti impugnati, compreso l’art. 27, punto a3.2, delle NTA, nella parte in cui prevede una distanza minima tra le serre mobili pari a 10 metri.
30. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune a rideterminarsi tramite provvedimenti di regolarizzazione o di autorizzazione, secondo le indicazioni sopra esposte. Il termine ragionevole per questi adempimenti è fissato in 120 giorni, rispettivamente dalla presentazione della domanda di regolarizzazione per quanto riguarda i tunnel-serra abusivi, e dal deposito della presente sentenza per quanto riguarda l’autorizzazione delle nuove strutture.
La ricorrente ha l’onere di chiedere la regolarizzazione dei tunnel-serra abusivi entro 60 giorni dal deposito della presente sentenza, esponendosi altrimenti alla riedizione del potere comunale di repressione degli abusi edilizi.
31. La complessità di alcune questioni consente l’integrale compensazione delle spese in tutti i ricorsi.
32. Il contributo unificato, in tutti i ricorsi, è a carico del Comune ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.06.2015 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.09.2015

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IN EVIDENZA

Dal TAR Lazio-Roma una "bomba Nimby"
(acronimo inglese per Not In My Back Yard, lett. "Non nel mio cortile")
:

LAVORI PUBBLICII giudici hanno rilevato nella delibera con cui il comune revocava il bando di project financingalcuni profili inerenti una nuova valutazione dell’interesse pubblico” vale a dire “la manifestazione da parte della popolazione del comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione”.
Per il tribunale “tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità della nuova scelta, con conseguente conferma della qualificazione del provvedimento in termini di revoca”.

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Nella delibera di Giunta (e nella conseguente determina dirigenziale) sono evidenziati alcuni profili inerenti una nuova valutazione dell’interesse pubblico (la manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione).
Tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità della nuova scelta, con conseguente conferma della qualificazione del provvedimento in termini di revoca. Nel caso di specie, la già citata motivazione del provvedimento di revoca è costituita appunto da una nuova valutazione dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del c.d. jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a fondamento della revoca non sia affetta da vizi di legittimità.

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La giurisprudenza, ancora, ha precisato che “la mancata liquidazione dell’indennizzo unitamente alla disposta revoca non costituisce un vizio dell’atto di autotutela, ma consente al privato di agire per ottenere l’indennizzo”.
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nell’ordinamento precedente all’introduzione dell’art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, l’orientamento prevalente era nel senso di escludere qualsiasi indennizzo per il soggetto nei cui confronti intervenisse la revoca in modo legittimo di un precedente provvedimento amministrativo vantaggioso per il privato o per lo meno un indennizzo veniva ammesso solo in casi particolari.
Dopo l’introduzione del menzionato art. 21-quinquies nella legge generale del procedimento amministrativo, ad opera dell’art. 14 l. 11.02.2005, n. 15, come integrato dal comma 1-bis introdotto dall’art. 13 d.l. 31.01.2007, n. 7, (convertito dalla l. 02.04.2007, n. 40), ha fatto ingresso la c.d. responsabilità della p.a. per atti legittimi.
Nel caso che occupa, dunque, la domanda risarcitoria, deve essere interpretata –secondo i canoni di effettività della tutela– come contenente in sé quella di indennizzo.
Peraltro,
l’indennizzo ex art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 non spetta in caso di revoca di atti ad effetti instabili ed interinali, ma solo in caso di revoca di atti definitivamente attributivi di vantaggi. Deve quindi escludersi che spetti un indennizzo, ex art. 21-quinquies cit., per revoca (come nella specie) di una dichiarazione di pubblico interesse della proposta di progetto di finanza.
Tale dichiarazione non attribuisce, infatti, all’interessato una posizione giuridica definitiva, ben potendo l’Amministrazione dar luogo o meno a successiva procedura di affidamento della concessione o non dare corso affatto alle proposte che pure abbia ritenuto di pubblico interesse. Pur differenziando, in vero, tale dichiarazione di p.i. la posizione del proponente, essa non assicura al promotore alcune diretta, definitiva ed immediata ultilità.
Né nella specie la posizione della ricorrente potrebbe avere assunto maggiore consistenza dall’indizione della gara che è stata infatti revocata prima ancora della partecipazione dell’istante stessa ed atteso che il rimborso spese, in caso di gara, spetta a favore del promotore solo ove questo non risulti aggiudicatario della concessione quando la gara stessa si sia peraltro conclusa.
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... per l'annullamento:
- della delibera di G.C. n. 67 del 04.08.2014, con cui era revocata la precedente deliberazione n. 40 del 2014 avente ad oggetto la dichiarazione di pubblica utilità e l’individuazione del soggetto promotore per la costruzione e gestione economico funzionale di un impianto di cremazione per salme con annessa sala del commiato presso il cimitero comunale;
- e della determina dirigenziale n. 371 dell’08.08.2014, resa pubblica con avviso pubblico dell’08.08.2014 sul portale del Comune, con cui era revocata la precedente determinazione n. 316 del 2014 avente ad oggetto la determina a contrarre relativa al predetto affidamento e, per l’effetto, era revocata la procedura di gara indetta;
- di tutti gli atti e provvedimenti consequenziali o comunque connessi;
...
FATTO
Con il ricorso indicato in epigrafe, la Società Altair s.r.l., in proprio e quale mandataria della ATI “ALTAIR”, esponeva che ad esito del procedimento di valutazione della proposta di project financing della ricorrente medesima, conclusosi con la motivata dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e con l’individuazione dell’ATI ALTAIR come promotore il Comune di Borgorose avviava la procedura di gara per l’affidamento in concessione della progettazione, realizzazione e successiva gestione economico funzionale di un impianto di cremazione; del tutto inaspettatamente, dunque, mentre la ricorrente si accingeva e partecipare alla seconda fase della procedura, il Comune, tuttavia, revocava il precedente provvedimento di pubblica utilità e la conseguente gara.
...
DIRITTO
I - L’oggetto del giudizio è costituito dalla contestazione, da parte dell’ATI costituenda, della legittimità dell’esercizio del potere di autotutela in ordine a un provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità di una proposta di project financing e di avvio della procedura di affidamento di pubblici lavori da parte della p.a. e dalle connesse pretese patrimoniali, di carattere risarcitorio o indennitario.
II - Con un primo gruppo di censure la parte ricorrente contesta la competenza della Giunta a disporre la revoca di atti posti in essere dal Consiglio comunale.
Tale assunto è smentito per tabulas; infatti, la Giunta si è limitata a revocare un proprio atto ed il dirigente, lo stesso. Mentre successivamente è intervenuto l’atto consiliare di revoca della precedente delibera del Consiglio, atto gravato anch’esso con i motivi aggiunti. Risulta, dunque, rispettato il principio del contrarius actus. E neanche le competenze consiliari risultano, di fatto, violate.
Anche ove si volesse considerare la necessità della previa deliberazione dell’Assemblea consiliare a modifica del precedente deliberato, si può con sicurezza affermare l’effetto sanante del successivo provvedimento, che ha inciso esplicitamente sulle scelte e la valutazione del pubblico interesse.
III – Con un ulteriore gruppo di censure, la parte istante si duole della mancanza dei presupposti per esercitare il potere di revoca con riguardo all’assenza di ragioni di pubblico interesse, alla omessa valutazione dell’affidamento delle parti destinatarie del provvedimento da rimuovere e del tempo trascorso, all’obbligo di motivazione.
Essa ha certamente interesse a dimostrare l’illegittimità del potere di autotutela esercitato dall’amministrazione per ottenere il pieno risarcimento dei danni. Infatti la parte ricorrente chiede la condanna dell’Amministrazione alla reintegra della posizione compromessa e, in via subordinata, il risarcimento dei danni patiti.
Il gravame è, dunque, teso a contestare la legittimità del potere di revoca esercitato al fine di ottenere il risarcimento dei danni, quanto meno a titolo di danno emergente.
IV - Passando, dunque, all’esame della fattispecie, nel caso che occupa, la Giunta ha revocato –con la delibera n. 67 del 2014- la precedente delibera n. 40 del 2014 avente ad oggetto l’approvazione del progetto preliminare e la dichiarazione di p.u. ed il responsabile del servizio –con la determina n. 371 del 2014– ha annullato la precedente determina dirigenziale n. 316 del 2014 contenente il parere di regolarità tecnica e l’attestazione della copertura finanziaria, e conseguentemente la procedura di gara indetta.
Nella delibera di Giunta (e nella conseguente determina dirigenziale) sono evidenziati alcuni profili inerenti una nuova valutazione dell’interesse pubblico (la manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione).
Tale motivazione rende prevalenti le ragioni di opportunità della nuova scelta, con conseguente conferma della qualificazione del provvedimento in termini di revoca. Nel caso di specie, la già citata motivazione del provvedimento di revoca è costituita appunto da una nuova valutazione dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del c.d. jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a fondamento della revoca non sia affetta da vizi di legittimità.

Nella specie, peraltro, l’Amministrazione non ha espressamente valutato la spettanza di un qualche indennizzo.
Tuttavia, va rilevato, che specie nel caso che occupa si era unicamente svolta la progettazione –ovvero la prima fase della procedura, mentre la ricorrente– soggetto promotore, non aveva ancora maturato alcune affidamento in ordine all’assegnazione dell’opera, né aveva ancora prodotto domanda di partecipazione alla gara.
Peraltro, non primo di rilevanza è il breve termine occorso tra la delibera di n. 40 (05.06.2014) e l’avviso di revoca dell’08.08.2014.
La giurisprudenza, ancora, ha precisato che “la mancata liquidazione dell’indennizzo unitamente alla disposta revoca non costituisce un vizio dell’atto di autotutela, ma consente al privato di agire per ottenere l’indennizzo (Cons. Stato, Sez., n. 2244 del 2010).
V – Orbene,
nel caso di legittimità del provvedimento di autotutela viene meno il presupposto su cui è stata fondata la domanda risarcitoria, costituito appunto dall’illegittimità provvedimentale.
Va precisato che
anche in caso di revoca legittima si può ipotizzare che al privato derivino danni risarcibili, e non meramente indennizzabili, ma ciò discende dal fatto che tali danni conseguono non già direttamente dall’atto di revoca, ma da altre illegittimità (procedimentali o di altro tipo) commesse dall’Amministrazione.
Nella specie, devono essere respinte le ulteriori censure mosse dalla parte ricorrente in ordine ai profili partecipativi e procedimentali. Infatti, è evidente come l’eventuale partecipazione della ricorrente non avrebbe in alcun modo potuto incidere sulla decisione dell’Amministrazione che si appalesa di carattere eminentemente discrezionale.
Del resto
i già evidenziati profili di tempestività dell’esercizio dell’autotutela non consentono di riscontrare alcuno degli addebiti mossi all’Amministrazione sotto il profilo della correttezza della condotta.
Ciò comporta che l’Amministrazione non è tenuta a corrispondere l’integrale risarcimento del danno.
VI – Le valutazioni sin qui svolte non possono che valere anche per i successivi motivi aggiunti, per i medesimi motivi evidenziati.
VII – Il Consiglio di Stato (cfr. sentenza n. 7334 del 2010) ha avuto modo di rilevare che
nell’ordinamento precedente all’introduzione dell’art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, l’orientamento prevalente era nel senso di escludere qualsiasi indennizzo per il soggetto nei cui confronti intervenisse la revoca in modo legittimo di un precedente provvedimento amministrativo vantaggioso per il privato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.1969, n. 266) o per lo meno un indennizzo veniva ammesso solo in casi particolari (Cass. S.U. 02.04.1959, n. 672).
Dopo l’introduzione del menzionato art. 21-quinquies nella legge generale del procedimento amministrativo, ad opera dell’art. 14 l. 11.02.2005, n. 15, come integrato dal comma 1-bis introdotto dall’art. 13 d.l. 31.01.2007, n. 7, (convertito dalla l. 02.04.2007, n. 40), ha fatto ingresso la c.d. responsabilità della p.a. per atti legittimi. n. 5266).
Nel caso che occupa, dunque, la domanda risarcitoria, deve essere interpretata –secondo i canoni di effettività della tutela– come contenente in sé quella di indennizzo.
Peraltro,
l’indennizzo ex art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990 non spetta in caso di revoca di atti ad effetti instabili ed interinali, ma solo in caso di revoca di atti definitivamente attributivi di vantaggi. Deve quindi escludersi che spetti un indennizzo, ex art. 21-quinquies cit., per revoca (come nella specie) di una dichiarazione di pubblico interesse della proposta di progetto di finanza.
Tale dichiarazione non attribuisce, infatti, all’interessato una posizione giuridica definitiva, ben potendo l’Amministrazione dar luogo o meno a successiva procedura di affidamento della concessione o non dare corso affatto alle proposte che pure abbia ritenuto di pubblico interesse. Pur differenziando, in vero, tale dichiarazione di p.i. la posizione del proponente (Ad. Plen. N. 1/12), essa non assicura al promotore alcune diretta, definitiva ed immediata ultilità.
Né nella specie la posizione della ricorrente potrebbe avere assunto maggiore consistenza dall’indizione della gara che è stata infatti revocata prima ancora della partecipazione dell’istante stessa ed atteso che il rimborso spese, in caso di gara, spetta a favore del promotore solo ove questo non risulti aggiudicatario della concessione quando la gara stessa si sia peraltro conclusa (cfr. Cons. Stato n. 3237 del 26.06.2015) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.09.2015 n. 11098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Sulla "dirompente" sentenza si leggano alcuni commenti:

LAVORI PUBBLICI: G. Comin, Come combattere la disinformazione dei NoTutto (dopo la bomba Nimby del Tar) (13.09.2015 - link a http://www.formiche.net).

LAVORI PUBBLICI: Le proteste giustificano il blocco dell’opera. Tar Lazio. Per i giudici le manifestazioni legittimano la marcia indietro dei Comuni.
L’effetto Nimby entra nella giurisprudenza. La rivolta popolare può, infatti, legittimare la revoca della decisione di un comune.
L’indicazione arriva da una sentenza del Tar del Lazio, chiamato a pronunciarsi su un impianto per servizi alla popolazione. È un principio consolidato, a livello normativo e giurisprudenziale, quello per cui alla Pa è consentito revocare i propri provvedimenti per effetto di una nuova (cioè rinnovata) valutazione dell’interesse pubblico. Così come è pacifico che, nell’esercizio di questo potere di ripensamento, l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità.
Ora, con la
sentenza 08.09.2015 n. 11098 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, viene chiarito che «deve ritenersi che la manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione, costituiscano espressione di una nuova valutazione dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del cosiddetto jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a fondamento della revoca non sia affetta da vizi di legittimità». Se il principio di fondo non è nuovo, fortemente innovativo è invece il riferimento espresso alla contrarietà della popolazione locale come fattore di legittimazione della revoca.
La decisione spinge a due considerazioni. La prima è che la sentenza è sul piano formale da ritenere corretta (anche nella parte in cui nega l’indennizzo richiesto dal proponente riguardo al project financing rimasto, per effetto del «legittimo» ripensamento, solo a metà del guado). La seconda considerazione è che, tuttavia, nel momento in cui si ammette la legittimità della revoca dei provvedimenti (nel caso di specie, di quelli intermedi nell’ambito dell’iter di realizzazione dell’opera pubblica) in nome, apertamente, della «manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera», assumendo che essa fonda «l’interesse primario ... a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione», ciò fa riesplodere l’irrisolto problema dell’effetto Nimby e della sua incidenza come freno a crescita e sviluppo.
Tema spinoso e difficile, schiacciato com’è fra spinte contrapposte: crisi di credibilità delle istituzioni rappresentative (per colpe oggettive e antipolitica), evidente insufficienza strutturale dello strumento asettico del procedimento amministrativo a comporre conflitti, diffidenze e incomprensioni fra opposti punti di vista (specie su questioni e aspetti a forte connotazione tecnica), carenze di completezza e obiettività delle fonti di informazione e dei processi di comunicazione utilizzati dall’apparato burocratico.
Per uscirne, appare essenziale cambiare metodo, sul piano legislativo. Per evitare questi conflitti a posteriori che disseminano il Paese di opere iniziate e non finite (con corredo di onerosi indennizzi dovuti ai privati delusi nei loro legittimi affidamenti, in molti casi) occorre istituire la verifica “a monte”, prima ancora di fare il progetto preliminare, della reale “fattibilità di contesto” di un’opera di livello medio/grande.
Confrontando (e se necessario, opponendo) argomenti tecnici, economici e sociali a controargomenti della stessa natura, nel contraddittorio –ove occorra– fra esperti di parte.
È lo schema del debat public alla francese, all’attenzione del Senato (AS 980, 1724 e 1845), che prova a conciliare il dovere di non prendere decisioni contro la volontà popolare con la necessità di evitare che un territorio resti ostaggio di minoranze ben organizzate
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2015).

LAVORI PUBBLICI: G. Zapponini, Caro Renzi, attento alla bomba Nimby del Tar. Parla Chicco Testa (11.09.2015 - link a http://www.formiche.net).
LAVORI PUBBLICI: G. Zapponini, Il Tar del Lazio sgancia una bomba Nimby (10.09.2015 - link a http://www.formiche.net).
 

IN EVIDENZA

Sull'adesione di un comune ad una SPA per affidarle [direttamente (ed illegittimamente):  in house providing] il servizio di gestione dei rifiuti urbani e assimilati:

APPALTI SERVIZILa giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione, ancorché in percentuale minima, di soggetti privati alle società in house e tale posizione è stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società "in house" debba sussistere in termini assoluti.
Invero,
l'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti,
in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.
Inoltre
non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa.
Al contrario,
per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non può essere considerata una società di “in house providing”, per cui risulta illegittima la delibera impugnata di adesione a detta società e di affidamento alla stessa del servizio di raccolta rifiuti.
... per l'annullamento:
- della delibera consiliare n. 25 dd. 26.05.2014, che dispone l'adesione ad Ambiente Servizi spa per affidarle il servizio di gestione dei rifiuti urbani ed assimilati a partire dal 01.07.2014;
- della delibera giuntale n. 96 dd. 19.06.2014, che autorizza il Segretario Generale alla sottoscrizione degli atti necessari a dare attuazione alla deliberazione consiliare n. 25/2014;
- della delibera consiliare n. 33 dd. 16.06.2014, relativa ad "approvazione Piano finanziario per l'esercizio 2014" (costi di gestione dei rifiuti);
...  
Oggetto del presente ricorso è la delibera consiliare n. 25 del 26.05.2014 del comune di Spilimbergo che dispone l'adesione alla Ambiente servizi per affidarle il servizio di gestione dei rifiuti urbani e assimilati nonché la conseguente delibera giuntale che autorizza alla sottoscrizione degli atti necessari a dare attuazione alla citata delibera consiliare.
Occorre innanzitutto farsi carico dell'eccezione di tardività del ricorso, in quanto asseritamente proposto tardivamente contro le deliberazioni di costituzione di Ambiente servizi nonché contro la deliberazione 152 del 31.10.2013 di conferma delle gestioni in essere.
L'eccezione così come prospettata non risulta fondata, in quanto la lesione per la ditta ricorrente si è concretata unicamente con la delibera in questa sede impugnata, con cui si provvede direttamente all’adesione e affidamento alla Ambiente servizi della gestione dei rifiuti, senza provvedere ad alcuna gara, e quindi non consentendo alla ditta attuale ricorrente di parteciparvi e di poter gestire il servizio. Prima della delibera in questa sede impugnata non vi era alcun interesse della ditta ricorrente a contestare la creazione di Ambiente servizi nonché la proroga delle sue gestioni in essere.
Sempre in via preliminare va osservato come la legge regionale 14 del 2012 all'articolo tre consente la prosecuzione delle forme di cooperazione in essere tra enti locali ma non le impone affatto, ammettendo anche la possibilità dell'indizione di apposite gare ad evidenza pubblica ovvero la gestione in house providing.
Ciò premesso ed entrando nel merito, va innanzitutto osservato come le motivazioni addotte dal comune per aderire all'Ambiente servizi nonché i contenuti della relazione allegata alla delibera in questa sede impugnata vengono contestate dalla ditta odierna ricorrente per motivi di merito, non suscettibili di riesame in sede di giudizio di legittimità. Si tratta di scelte strategiche effettuate da parte del consiglio comunale che sono sindacabili solo in caso di manifesta illogicità o palese incongruenza, non rinvenibili nel caso in esame.
Va invece considerata fondata la censura relativa al fatto che di Ambiente servizi facciano parte, sia pure in posizione minoritaria, anche soggetti privati. Infatti, il maggiore azionista dell'ambiente servizi è il consorzio Z.I.P.R. di cui fanno parte 40 società tra cui alcune indubbiamente private.
Orbene,
la giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione, ancorché in percentuale minima, di soggetti privati alle società in house e tale posizione è stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società "in house" debba sussistere in termini assoluti.
Invero,
l'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti,
in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.
Inoltre
non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa (TAR Puglia-Bari 02.04.2013 n 458).
Al contrario,
per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale (CSGAS 09.02.2009 n 48; TAR Puglia Bari 14.05.2010 n 1891; confronta anche Corte conti FVG 08.05.2009 n. 55).
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non può essere considerata una società di “in house providing”, per cui risulta illegittima la delibera impugnata di adesione a detta società e di affidamento alla stessa del servizio di raccolta rifiuti.
Ai fini della presente controversia, a nulla rileva poi la definizione contenuta nella normativa regionale della società come ente pubblico economico.
Per quanto fin qui evidenziato e per la fondatezza del motivo da ultimo esaminato il ricorso va accolto con annullamento degli atti impugnati (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 04.12.2014 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Sentenza del TAR confermata dal Consiglio di Stato:

APPALTI SERVIZISolo la partecipazione totalitaria delle amministrazioni pubbliche, e la totale assenza di soggetti privati nella compagine sociale, consentono di ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al cosiddetto “controllo analogo”.
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha inoltre affermato espressamente che esula dal sistema dell’“in house providing” il diverso fenomeno del cosiddetto “partenariato pubblico–privato” al quale sembra riconducibile l’assetto della s.p.a. appellante.
Il principio affermato dall’Adunanza Plenaria è applicabile al caso che ha originato la presente controversia, nel quale è pacifico che le amministrazioni che l’hanno costituita non esercitano, sulla s.p.a. appellante, un controllo totalitario, in quanto fra di esse se ne trova una partecipata, all’epoca, da soggetti privati.
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Il legislatore comunitario ha individuato un termine per il recepimento della direttiva 2014/24 nei diversi ordinamenti nazionali, e tale termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai legislatori nazionali una sfera di discrezionalità nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno immediatamente applicabili (ove suscettibili di utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati” devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie, tale ulteriore condizione non sussiste.
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia, S.N.U.A. s.r.l. impugnava la deliberazione n. 25 in data 26.05.2014 con la quale il Consiglio comunale di Spilimbergo aveva deciso l’adesione del Comune ad Ambiente Servizi s.p.a. per affidarle il servizio di gestione dei rifiuti urbani ed assimilati a partire dal 01.07.2014; l’impugnazione era estesa alla delibera n. 96 in data 19.06.2014 con la quale la Giunta comunale di Spilimbergo aveva autorizzato il Segretario comunale a sottoscrivere gli atti necessari a dare attuazione alla predetta delibera ed alla delibera consiliare n. 33 in data 16.06.2014 concernente l’approvazione del piano finanziario per l’esercizio 2014 (costi di gestione dei rifiuti).
La ricorrente deduceva i seguenti motivi:
1) difetto di motivazione e falsa rappresentazione della realtà;
2) difetto di istruttoria in quanto la deliberazione consiliare principalmente impugnata è stata assunta sulla base di una relazione istruttoria inficiata da numerose carenze;
3) la diversità dei servizi offerti dalla ricorrente e da Ambiente Servizi non sono comparabili, anche in relazione alla diversità dei tempi di somministrazione delle prestazioni richieste; manca la convenienza economica ed al Consiglio comunale non è stata adeguatamente prospettata la scelta alternativa;
4) mancato rispetto dei principi comunitari in tema di “in house providing” per la genericità delle finalità di Ambiente Servizi e per la partecipazione di privati al suo capitale sociale.
La ricorrente chiedeva quindi l’annullamento dei provvedimenti impugnati.
Con la sentenza in epigrafe, n. 629 in data 04.12.2014, il Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia accoglieva il ricorso, per l’effetto annullando gli atti impugnati.
2. Avverso la predetta sentenza propongono appello Ambiente Servizi s.p.a. (ricorso n. 2037/2015) ed il Comune di Spilimbergo (ricorso n. 2040/2015), contestando gli argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma ed il rigetto del ricorso di primo grado.
In entrambi i giudizi si è costituita SNUA s.r.l., chiedendo che gli appelli vengano dichiarati improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse ovvero respinti nel merito ovvero ancora, in caso di accoglimento dell’appello, venga dichiarata la nullità della delibera n. 25/2014 per difetto assoluto di attribuzione; in estremo subordine, chiede l’accoglimento delle censure assorbite dal primo giudice e riproposte nel presente grado.
Gli appellanti hanno depositato memoria.
I ricorsi sono stati congiuntamente discussi e assunti in decisione alla pubblica udienza del 09.07.2015.
3. Gli appelli in epigrafe devono essere riuniti onde definirli con unica sentenza in quanto sono rivolti avverso la stessa sentenza di primo grado.
3.a. Non può essere accolta l’eccezione di improcedibilità sollevata dalla parte appellata.
Il primo giudice ha accolto l’impugnazione proposta dall’odierna appellata affermando che Ambiente Servizi s.p.a. non può essere affidataria diretta di appalti, in questo caso di servizi in quanto manca il requisito del cosiddetto “controllo analogo” da parte dell’Amministrazione di riferimento che legittima il ricorso a tale sistema di attribuzione degli appalti della Pubblica Amministrazione secondo i principi dell’“in house providing”.
Nella compagine della predetta Società è infatti ricompreso il Consorzio per la Zona Industriale Ponte Rosso del quale –il dato è pacifico– all’epoca facevano parte soggetti privati.
L’appellata riferisce che dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado la s.p.a. appellante ha proceduto all’acquisto delle azioni di proprietà del suddetto Consorzio, con un notevole esborso, in tal modo dimostrando la volontà di modificare la propria compagine per adeguarla ai principi dettati dalla sentenza oggetto degli appelli ora in trattazione.
Tale ragionamento, come anticipato, non può essere condiviso.
In primo luogo, l’accoglimento dell’appello escluderebbe la proponibilità di azioni risarcitorie da parte dell’appellata, e tale profilo è di per sé sufficiente a fondare l’interesse alla proposizione del gravame.
In secondo luogo, la riforma della sentenza di primo grado consentirebbe agli appellanti di procedere ad una nuova attribuzione di quote al suddetto Consorzio e ad un nuovo affidamento diretto dell’appalto alla s.p.a. appellante secondo lo schema dell’“in house providing”.
Inoltre, la delibera 29.12.2014, n. 78, con cui il Comune ha proceduto alla riapprovazione dell’affidamento e dei relativi atti, è stata impugnato dalla Snua s.r.l. con ricorso al TAR, la cui udienza di discussione risulta fissata il 07.10.2015.
Gli appelli devono pertanto essere esaminati nel merito.
3.b. Gli stessi sono peraltro infondati.
Gli appellanti sostengono in primo luogo che il ricorso di primo grado doveva essere dichiarato inammissibile in quanto l’atto effettivamente lesivo degli interessi dell’odierna appellata è costituito da quello con il quale è stata costituita la s.p.a. Ambiente Servizi, ovvero dalla deliberazione con la quale l’assemblea di coordinamento intercomunale ha stabilito la prosecuzione delle gestioni affidate alla predetta Società fino al 31.12.2030.
La tesi non può essere condivisa.
La controversia ora sottoposta al Collegio riguarda esclusivamente la gestione dei rifiuti urbani del Comune di Spilimbergo, affidata alla s.p.a. appellante solo con la deliberazione di quel Consiglio Comunale n. 25 in data 26.05.2014, tempestivamente impugnata.
Deve quindi essere condiviso l’orientamento del primo giudice, il quale ha sottolineato come alla ricorrente non potesse essere accollato l’onere di impugnare atti non direttamente incidenti sull’affidamento del servizio alla cui gestione aspira e di cui ora si tratta.
3.c. Vanno poi condivise le argomentazioni del primo giudice, che rileva come la presenza di un socio privato nell’ambito della compagine sociale della s.p.a. appellante esclude che nei suoi confronti la stazione appaltante eserciti un controllo analogo a quello che esercita nei confronti dei propri uffici.
La tesi del primo giudice è, invero, conforme a giurisprudenza sostanzialmente pacifica.
C. di S., A.P., 03.03.2008, n. 1, che il Collegio condivide, ha infatti affermato che
solo la partecipazione totalitaria delle amministrazioni pubbliche, e la totale assenza di soggetti privati nella compagine sociale, consentono di ravvisare nel soggetto affidatario la sottoposizione al cosiddetto “controllo analogo (l’orientamento consacrato dall’Adunanza Plenaria è pacificamente seguito dalla giurisprudenza successiva: da ultimo, C. di S., III, 27.04.2015, n. 2154).
La stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria ha inoltre affermato espressamente che esula dal sistema dell’“in house providing” il diverso fenomeno del cosiddetto “partenariato pubblico–privato” al quale sembra riconducibile l’assetto della s.p.a. appellante.
Il principio affermato dall’Adunanza Plenaria è applicabile al caso che ha originato la presente controversia, nel quale è pacifico che le amministrazioni che l’hanno costituita non esercitano, sulla s.p.a. appellante, un controllo totalitario, in quanto fra di esse se ne trova una partecipata, all’epoca, da soggetti privati.
Le parti appellanti obiettano, sulla base del parere della Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato 30.01.2015, n. 298, che il principio affermato dall’Adunanza Plenaria non è ulteriormente applicabile in quanto l’art. 12, par. 1, della direttiva 2014/24 ammette l’esistenza del controllo analogo anche in casi in cui il soggetto che opera in regime privatistico è partecipato da soggetti privati, purché tale partecipazione sia ristretta nei limiti ivi stabiliti.
Ad avviso della Seconda Sezione, fatto proprio dagli appellanti, il richiamato art. 12, par. 1, avendo contenuto sufficientemente preciso, è immediatamente applicabile nel nostro ordinamento.
L’orientamento espresso dalla Seconda Sezione non è condiviso dal Collegio che condivide, invece, quanto diversamente affermato dalla Sesta Sezione con la sentenza 26.05.2015, n. 2660.
Osserva, infatti, il Collegio che
il legislatore comunitario ha individuato un termine per il recepimento della suddetta direttiva nei diversi ordinamenti nazionali, e che tale termine è ancora pendente.
Il legislatore comunitario ha quindi attribuito ai legislatori nazionali una sfera di discrezionalità nell’individuazione dei tempi per la trasposizione dei nuovi principi nei diversi ordinamenti, e per il necessario coordinamento con la normativa interna vigente.
Tali elementi impongono di escludere che i nuovi principi acquistino immediata efficacia nei singoli ordinamenti nazionali, fermo restando che gli stessi diventeranno immediatamente applicabili (ove suscettibili di utilizzazione immediata in ragione della loro sufficiente specificazione).
Tra l’altro, in forza dell’art. 12 della nuova direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati” devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati”. Nella specie, tale ulteriore condizione non sussiste.
Il ragionamento degli appellanti non può, in conclusione, essere condiviso.
4. Gli appelli devono, di conseguenza, essere respinti; deve essere assorbito l’esame degli ulteriori profili proposti nel presente grado dalla parte appellata.
Le spese di entrambi i gradi del giudizio devono essere integralmente compensate fra le parti, in ragione della complessità della controversia e degli elementi di dubbio introdotti dal richiamato parere della Seconda Sezione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.09.2015 n. 4253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

LAVORI DI SOMMA URGENZA:

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 31.12.2014 abbiamo approfondito la questione in ordine al soggetto che li può ordinare e come si regolarizzano dal punto di vista contabile.
     Ebbene, una recentissima sentenza della Corte dei Conti ritorna sull'argomento con
interessanti princìpi circa la responsabilità erariale in relazione al modus procedendi operato dai funzionari/amministratori comunali e relativi soggetti coinvolti.
     Come sempre,
prestate molta attenzione, molta... (se non volete rispondere col proprio portafoglio).

LAVORI PUBBLICI: Sull'esecuzione dei c.d. "lavori di somma urgenza": gli affidamenti illegittimi (di lavori e forniture) non vincolano l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore. Ergo, sono forieri di danno erariale.
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Nella vicenda in esame si ravvisano tutti i presupposti necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione amministrativo-contabile.
Con la delibera di riconoscimento di debiti fuori bilancio in esame l’Amministrazione ha valutato la sussistenza dei presupposti sostanziali di riconoscibilità del debito, tra i quali il riconoscimento dell’utilità della prestazione e dell’arricchimento dell’Ente ex art. 194, 1° comma, lett. e), del D.Lgs. 267/2000.
Tutto questo
si è svolto in presenza di indici di illegittimità, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della mancata applicazione delle procedure previste in tema di “lavori d’urgenza”.
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La violazione, da parte di tutti i soggetti convenuti e non
, degli obblighi di servizio se non caratterizzata da animus doloso sicuramente integra la cd. colpa grave, sottoposta al sindacato di questa Corte.
Ciò premesso,
le norme violate attengono alla disciplina della procedura dei lavori d’urgenza, così come era dettata dagli artt. 146 e 147 del D.P.R. n. 554/1999, all’epoca vigenti.
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Gli affidamenti illegittimi di lavori e forniture non vincolano l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore.

Nel caso di specie
le acquisizioni documentali provano che gli affidamenti dei tre lavori in esame sono avvenuti su presupposti assolutamente non attendibili sì da violare i principi di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa nonché il criterio del confronto concorrenziale, sancito dalla normativa di settore di cui al D.Lgs. 163/2006.
In buona sostanza nella fattispecie sussiste l’incompletezza e l’inattendibilità della contabilità dei lavori reperita, l’inattendibilità di quanto attestato in ordine alla reale tempistica di esecuzione dei lavori nonché degli atti redatti e firmati, con le relative certificazioni su fatti ed eventi, da parte dei soggetti istituzionalmente competenti.
Sussistono anche gravi profili critici in ordine ai costi effettivamente sostenuti dall’azienda affidataria dei lavori, per l’esecuzione dei lavori di cui trattasi.
Risulta, infine, disatteso quanto normativamente stabilito in materia di procedure amministrativo-contabili, stante che all’ordine di esecuzione di lavori non è seguita la deliberazione autorizzativa con la quale si sarebbe dovuto provvede anche alla copertura della spesa.
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I
l Collegio condivide la tesi di parte attrice per la quale sono chiamati a rispondere dei fatti i convenuti:
- il Direttore dei Lavori e Tecnico incaricato per gli asseriti lavori di somma urgenza, considerato che dagli atti risulta che egli avrebbe provveduto ad effettuare il sopralluogo di verifica dei lavori di cui trattasi, a sottoscrivere il verbale di consegna dei lavori, a redigere il computo metrico nello stesso giorno del sopralluogo, ad attestare, quale Direttore dei lavori, che i lavori erano stati ultimati nelle date del 07-14-18.04.2008, certificandone poi l'avvenuta esecuzione “a regola d'arte e in conformità alle prescrizioni contrattuali” solo nelle date del 05-24.11.2008, momento posteriore al riconoscimento di debito (30.09.2008);
- il Segretario generale che ha assistito alla seduta consiliare del 30.09.2008, ed in relazione alle funzioni di assistenza giuridico amministrativa avrebbe dovuto rilevare la carente documentazione o quantomeno la violazione di quanto normativamente previsto in tema di regolarizzazione dell’ordinazione fatta a terzi, con i correlati limiti oggettivi relativi al riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio;
- l’Assessore, relatore della proposta di riconoscimento del debito che, in considerazione degli specifici obblighi di sovrintendenza che fanno carico all’assessore delegato dal Sindaco per il settore di sua specifica competenza, non ha, quantomeno, rilevato che, alla data del 30.09.2008, la documentazione agli atti dell’Ente non consentiva di asserire che la somma complessiva di euro 225.737,00 (IVA inclusa) fosse correlata ad una accertata e dimostrata utilità ed arricchimento per l’Ente, requisiti normativamente richiesti al fine del riconoscimento di un debito fuori bilancio.
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Per quanto riguarda la richiesta risarcitoria deve essere integralmente accolta sia pure non nelle percentuali indicate dalla Procura.
In particolare il Collegio ritiene che l’apporto causale del Responsabile del procedimento e Dirigente del Servizio responsabile del parere di regolarità tecnica sia meritevole di una potenziale condanna pari al 40%, misura maggiore di quella indicata dalla Procura (35%),
il tutto in quanto ha apposto il proprio visto sui verbali di regolare esecuzione, sul computo metrico degli stessi e sui consuntivi di spesa ed ha, altresì, istruito la delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Per quanto concerne la posizione del Tecnico incaricato della Direzione lavori il Collegio valuta di elevare la percentuale di responsabilità al 45%, rispetto al 40% della tesi attorea, alla luce del fatto che
il medesimo avrebbe redatto i verbali di somma urgenza, datati senza alcun numero di protocollo di riferimento, il giorno dopo l’evento atmosferico in uno con i verbali di consegna dei lavori nonché con il computo metrico dei lavori stessi.
Considerato che si sarebbe trattato di ben tre affidamenti distinti la contemporanea formazione di tutti questi atti tecnici di relativa complessità non pare plausibile, da qui la maggior responsabilità del convenuto.
Diversamente la responsabilità del Segretario Generale e dell’Assessore ai Lavori pubblici e relativa esecuzione sig. Fa.Br. deve essere ridimensionata rispettivamente nel 10% e nel 5%
in considerazione della loro partecipazione alla delibera in esame sulla quale non hanno espresso alcuna riserva pur trattandosi di una procedimento “a sanatoria” che avrebbe meritato opportuna ponderazione da parte dei convenuti che, pur non avendo partecipato alla formazione degli elaborati tecnici, ne hanno, sia pure in parte minima avallato gli effetti.
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FATTO
Con l’atto di citazione in esame la Procura regionale ha convenuto in giudizio i nominati per sentirli condannare “al pagamento, della complessiva somma di euro 58.690,00 ciascuno nella misura suindicata, in favore del Comune di Massa, salva ogni diversa valutazione da parte del Collegio, oltre rivalutazione, interessi legali e spese di giudizio”.
Nel merito dei fatti, dalle allegazioni processuali risulta che con deliberazione n. 69 del 30.09.2008, il Consiglio comunale di Massa, udita la relazione dell’Assessore Fa.Br., sulla base del documento istruttorio predisposto dal responsabile del procedimento arch. La.Me., riconosceva “la legittimità del debito fuori bilancio derivante dall’esecuzione dei lavori di somma urgenza per la messa in sicurezza dei cimiteri urbani e frazionali a seguito del fortunale abbattutosi nel Comune di Massa il 05.03.2008 per un importo complessivo di € 225.737,00 I.V.A. compresa”.
Dalla lettura della citata deliberazione emerge che veniva rappresentato all’organo consiliare che “i lavori sono stati affidati esclusivamente per motivi improcrastinabili ai sensi dell’art. 147 del DPR n. 554/1999 (Regolamento d’attuazione della legge 11.02.1994, n. 109 legge quadro in materia di lavori pubblici) e che ad oggi gli interventi …sono stati completati” e che l’esecuzione degli interventi “si sono rivelati essenziali per l’Amministrazione, garantendo agli utenti dei cimiteri la possibilità di usufruire in sicurezza e senza pericoli per l’incolumità pubblica e igienico sanitari”.
La deliberazione veniva assunta con il parere favorevole di regolarità tecnica reso dal dott. La.Me., di regolarità contabile reso dal dott. Ma.To. e con il visto di conformità all’azione amministrativa reso dal Segretario generale dott. Ca.Fe..
Nei verbali di somma urgenza -allegati alla deliberazione- che sarebbero stati redatti in data 06.03.2008 (privi però di protocollo) da Gi.Be., in qualità di tecnico incaricato dal dirigente del settore, veniva affermata la necessità di tali interventi, atteso che per le eccezionali avverse condizioni atmosferiche si erano verificati distacchi di vari materiali dalle coperture dei tetti delle strutture dei cimiteri di Turano e Mirteto nonché dei cimiteri frazionali di Canevara, Casette, Forno, Casania, Resceto, Pariana, Altagnana e Antona.
Pertanto, il tecnico delegato Be. dichiarava che per l’esecuzione dei lavori ivi menzionati, da dettagliarsi nella perizia giustificativa, ricorrevano gli estremi della somma urgenza ex art. 147 del DPR n. 554/1999.
La delibera di riconoscimento di debito di cui sopra è stata poi trasmessa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23, comma 5, della legge 27.12.2002 n. 289, alla competente Procura cui è pervenuta in data 27.10.2008.
In relazione a quanto sopra, la Procura erariale delegava la Guardia di Finanza Nucleo di Polizia Tributaria Massa Carrara –Sezione Tutela Finanza Pubblica– a svolgere accertamenti istruttori.
...
DIRITTO
A parere di questo Collegio,
nella vicenda in esame si ravvisano tutti i presupposti necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione amministrativo-contabile.
In primo luogo è indubitabile che all’epoca degli eventi le parti convenute erano direttamente legate all’Ente erogante da un rapporto funzionale di servizio o perché dipendenti di ruolo della Amministrazione locale (Tecnico ufficio lavori) o perché inseriti nella struttura, sia pure temporaneamente, (Assessore e Segretario generale) come figure funzionali all’azione amministrativa dell’Ente.
Altrettanto evidente è il nesso causale tra la condotta delle parti convenute e l’evento dannoso.
Con la delibera di riconoscimento di debiti fuori bilancio in esame l’Amministrazione ha valutato la sussistenza dei presupposti sostanziali di riconoscibilità del debito, tra i quali il riconoscimento dell’utilità della prestazione e dell’arricchimento dell’Ente ex art. 194, 1° comma, lett. e), del D.Lgs. 267/2000.
Tutto questo
si è svolto in presenza di indici di illegittimità, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della mancata applicazione delle procedure previste in tema di “lavori d’urgenza”.
A questo punto rilevanti nella fattispecie sono l’indagine sull’elemento soggettivo e la individuazione della posta di danno azionabile.
Elemento soggettivo
Come già accennato
la violazione, da parte di tutti i soggetti convenuti e non (nella specie, risultando medio-tempore deceduto il Responsabile del procedimento e Dirigente del settore Arch. Me., non è stato ravvisato l’illecito arricchimento degli aventi causa), degli obblighi di servizio se non caratterizzata da animus doloso sicuramente integra la cd. colpa grave, sottoposta al sindacato di questa Corte.
Ciò premesso,
le norme violate attengono alla disciplina della procedura dei lavori d’urgenza, così come era dettata dagli artt. 146 e 147 del D.P.R. n. 554/1999, all’epoca vigenti.
In base alla citata normativa, l’esecuzione di lavori in economia determinata dalla necessità di provvedere d’urgenza doveva risultare da un verbale, nel quale dovevano essere indicati i motivi dello stato di urgenza, le cause che lo avevano provocato e i lavori necessari per rimuoverlo (art. 146, 1° comma).
Il verbale doveva poi essere compilato dal responsabile del procedimento o da un tecnico all’uopo incaricato e, unitamente alla perizia estimativa, andava trasmesso alla stazione appaltante, per la copertura della spesa e l’autorizzazione dei lavori (art. 146, 2° comma).
Per altro verso, l’art. 147, 1° comma, disponeva che: “In circostanze di somma urgenza che non consentono alcun indugio, il soggetto fra il responsabile del procedimento e il tecnico che si reca prima sul luogo, può disporre, contemporaneamente alla redazione del verbale di cui all’articolo 146, l'immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 200.000 Euro o comunque di quanto indispensabile per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.”
Pertanto, l’esecuzione dei lavori di cui trattasi può essere affidata in forma diretta ad una o più imprese individuate dal responsabile del procedimento o dal tecnico, da questi incaricato.
Ai sensi poi dell’art. 147, 4° comma, “il responsabile del procedimento o il tecnico incaricato compila entro dieci giorni dall’ordine di esecuzione dei lavori una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei lavori.”
Sotto il profilo prettamente contabile, ex art. 191 del D.Lgs. 267/2000, “1. Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5...
3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, l'ordinazione fatta a terzi è regolarizzata, a pena di decadenza, entro trenta giorni e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente alla regolarizzazione.
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura
.”.
In estrema sintesi
gli affidamenti illegittimi di lavori e forniture non vincolano l’Amministrazione ma danno origine ad un rapporto obbligatorio tra il soggetto ordinante ed il fornitore.
Nel caso di specie
le acquisizioni documentali provano che gli affidamenti dei tre lavori in esame, di cui in narrativa, sono avvenuti su presupposti assolutamente non attendibili sì da violare i principi di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa nonché il criterio del confronto concorrenziale, sancito dalla normativa di settore di cui al D.Lgs. 163/2006.
In buona sostanza nella fattispecie sussiste l’incompletezza e l’inattendibilità della contabilità dei lavori reperita, l’inattendibilità di quanto attestato in ordine alla reale tempistica di esecuzione dei lavori nonché degli atti redatti e firmati, con le relative certificazioni su fatti ed eventi, da parte dei soggetti istituzionalmente competenti.
Sussistono anche gravi profili critici in ordine ai costi effettivamente sostenuti dall’azienda affidataria dei lavori, per l’esecuzione dei lavori di cui trattasi.
Risulta, infine, disatteso quanto normativamente stabilito in materia di procedure amministrativo-contabili, stante che all’ordine di esecuzione di lavori non è seguita la deliberazione autorizzativa con la quale si sarebbe dovuto provvede anche alla copertura della spesa
(per inciso intervenuta il 24.11.2008 dopo la delibera di riconoscimento di debito del 30.09.2008).
Quanto sopra risulta dalle esaurienti acquisizioni istruttorie che, distinte per i singoli affidamenti, conseguono a specifici verbali di accesso effettuati dal Nucleo di Polizia tributaria di Massa-Carrara, nel mese di settembre 2013, presso le Ditte aggiudicatarie.
Tutto ciò premesso
il Collegio condivide la tesi di parte attrice per la quale sono chiamati a rispondere dei fatti i convenuti:
- geom. Gi.Be.,
nella qualità di Direttore dei Lavori e Tecnico incaricato per gli asseriti lavori di somma urgenza, considerato che dagli atti risulta che egli avrebbe provveduto ad effettuare il sopralluogo di verifica dei lavori di cui trattasi, a sottoscrivere il verbale di consegna dei lavori, a redigere il computo metrico nello stesso giorno del sopralluogo, ad attestare, quale Direttore dei lavori, che i lavori erano stati ultimati nelle date del 07-14-18.04.2008, certificandone poi l'avvenuta esecuzione “a regola d'arte e in conformità alle prescrizioni contrattuali” solo nelle date del 05-24.11.2008, momento posteriore al riconoscimento di debito (30.09.2008);
- del Segretario generale dott. Ca.Fe.
che ha assistito alla seduta consiliare del 30.09.2008, ed in relazione alle funzioni di assistenza giuridico amministrativa avrebbe dovuto rilevare la carente documentazione o quantomeno la violazione di quanto normativamente previsto in tema di regolarizzazione dell’ordinazione fatta a terzi, con i correlati limiti oggettivi relativi al riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio;
- dell’Assessore Fa.Br.,
relatore della proposta di riconoscimento del debito che, in considerazione degli specifici obblighi di sovrintendenza che fanno carico all’assessore delegato dal Sindaco per il settore di sua specifica competenza, non ha, quantomeno, rilevato che, alla data del 30.09.2008, la documentazione agli atti dell’Ente non consentiva di asserire che la somma complessiva di euro 225.737,00 (IVA inclusa) fosse correlata ad una accertata e dimostrata utilità ed arricchimento per l’Ente, requisiti normativamente richiesti al fine del riconoscimento di un debito fuori bilancio.
Sussisterebbero, quindi, presupposti oggettivi per ritenere che le condotte omissive e commissive poste in essere dai soggetti suindicati abbiano determinato un pregiudizio patrimoniale al Comune di Massa, in relazione agli oneri accollati al bilancio comunale nella misura di cui infra.
Danno azionabile
Venendo al profilo della stima del danno, secondo la Procura regionale, emerge che “una quota parte quantomeno pari al 40% della somma accollata al bilancio comunale costituisca una spesa priva di utilità ed in quanto tale un danno patrimoniale per il Comune di Massa”.
Tale condivisibile riduzione in via equitativa conseguirebbe al
non computo dell’utile di impresa pari al 10% (che non spetterebbe in caso di affidamenti illegittimi), del risparmio non conseguito dall’Ente per mancato ricorso al mercato concorrenziale nonché della non applicazione delle penali per tardiva esecuzione dei lavori.
Al riguardo il tenore dei verbali di consegna ed ultimazione dei lavori, tutti privi di protocollo, sono contraddetti dalle fatture e dai documenti di trasporto acquisiti dalla GdF.
Risultano noleggi di macchinari industriali e consegne di materiali in data anteriore alla affidamento ufficiale dei lavori nonché in data posteriore alla dichiarazione di ultimazione degli stessi, tutti fatti idonei a dubitare del tenore degli atti tecnici redatti dalla Amministrazione.
Da qui la sostanziale riduzione dell’utilitas della spesa nei termini prospettati dalla Procura e, pertanto, della spesa sostenuta pari nel totale ad €. 225.737,00 il 40% della stessa pari ad €. 90.294,80 sarebbe danno azionabile e di questo, sempre secondo la Procura, il 35% andrebbe (teoricamente) attribuito al de cuis Me., il 40% al Tecnico incaricato della Direzione lavori, il 15% all’Assessore proponente ed il 10% al Segretario generale, in ragione della diversa incidenza causale delle singole condotte fonte del danno oggi azionato, parametrate in relazione alle funzioni intestate nell’ambito dell’Amministrazione comunale.
Ciò premesso in primo luogo deve essere disattesa l’eccezione di prescrizione avanzata in quanto, dalle acquisizioni istruttorie del Nucleo di polizia tributaria di Massa-Carrara della GdF disposte nel settembre 2013, emerge che tutti gli importi di cui trattasi sono stati oggetto di mandati di pagamento (n. 145 del 20.01.2009 e n. 328 del 26.01.2009) emessi nell’arco quinquennale di prescrizione, decorrente dalla notifica degli inviti a dedurre (dicembre 2013).
Per quanto sopra la richiesta risarcitoria deve essere integralmente accolta sia pure non nelle percentuali indicate dalla Procura.
In particolare il Collegio ritiene che l’apporto causale del Responsabile del procedimento e Dirigente del Servizio responsabile del parere di regolarità tecnica arch. La.Me. sia meritevole di una potenziale condanna pari al 40%, misura maggiore di quella indicata dalla Procura (35%),
il tutto in quanto ha apposto il proprio visto sui verbali di regolare esecuzione, sul computo metrico degli stessi e sui consuntivi di spesa ed ha, altresì, istruito la delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio.
Per quanto concerne la posizione del Tecnico incaricato della Direzione lavori geom. Gi.Be. il Collegio valuta di elevare la percentuale di responsabilità al 45%, rispetto al 40% della tesi attorea, alla luce del fatto che
il medesimo avrebbe redatto i verbali di somma urgenza, datati senza alcun numero di protocollo di riferimento, il giorno dopo l’evento atmosferico in uno con i verbali di consegna dei lavori nonché con il computo metrico dei lavori stessi.
Considerato che si sarebbe trattato di ben tre affidamenti distinti la contemporanea formazione di tutti questi atti tecnici di relativa complessità non pare plausibile, da qui la maggior responsabilità del convenuto.
Diversamente la responsabilità del Segretario Generale dr. Ca.Fe. e dell’Assessore ai Lavori pubblici e relativa esecuzione sig. Fa.Br. deve essere ridimensionata rispettivamente nel 10% e nel 5%
in considerazione della loro partecipazione alla delibera in esame sulla quale non hanno espresso alcuna riserva pur trattandosi di una procedimento “a sanatoria” che avrebbe meritato opportuna ponderazione da parte dei convenuti che, pur non avendo partecipato alla formazione degli elaborati tecnici, ne hanno, sia pure in parte minima avallato gli effetti.
In tali termini percentuali deve essere disposta la condanna.
Detti importi dovranno, inoltre, essere maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria dalla data di emissione dei relativi mandati di pagamento.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono dovuti, infine, gli interessi nella misura del saggio legale fino al momento del saldo;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Toscana, definitivamente pronunciando sul giudizio n. 59846/R e respinta ogni contraria istanza ed eccezione, in parziale conformità delle conclusioni del Pubblico ministero,
CONDANNA
le parti convenute, in relazione alla richiesta risarcitoria di €. 90.294,00 e preso atto della non azionabilità della percentuale del 40% a carico di La.Me. medio-tempore deceduto, al pagamento in favore della Amministrazione comunale di Massa, senza vincolo di solidarietà, del residuo importo di €. 54.176,40 nelle seguenti percentuali:
- Gi.Be. – 45%;
- Ca.Fe. – 10%;
- Fa.Br. – 5%,
oltre interessi e rivalutazione come esposto in motivazione.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono dovuti gli interessi, nella misura del saggio legale, fino alla data di effettivo pagamento
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 08.09.2015 n. 177).

18.09.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Se, in caso di incarico di posizione organizzativa (P.O.), conferito dal Dirigente di un Ente locale a un dipendente inquadrato nella categoria D, ai sensi degli artt. 8 e 9 del CCNL 31.08.1999, per la durata di un anno, l'Ente debba, alla scadenza del termine, motivare il mancato rinnovo.
- l'istituzione delle posizioni organizzative in parola costituisce una facoltà e non un obbligo del datore di lavoro pubblico;
- il conferimento di tali posizioni organizzative è a tempo determinato e va disposto con atto scritto e motivato;
- il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato;
- al titolare della posizione organizzativa competono la retribuzione di posizione e quella di risultato;
- l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede anch'essa un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi;
- la revoca comporta la perdita delle retribuzioni di posizione e di risultato e la restituzione del dipendente alle funzioni del profilo di appartenenza;
- la valorizzazione delle alte professionalità di cui all'art. 10 CCNL 2002-2005 avviene nell'ambito della disciplina dell'art. 8, comma 1, lett. b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto delle disposizioni dell'art. 9 del medesimo CCNL e, quindi, contempla comunque, per la parte datoriale pubblica, la facoltà e non l'obbligo del rinnovo degli incarichi già conferiti.
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- l'incarico conferito di P.O. cessato alla sua naturale scadenza non comporta una qualsivoglia motivata determinazione da parte dell'Amministrazione, necessaria invece qualora l'incarico stesso fosse stato revocato prima della scadenza;
- l'Amministrazione non ha alcun obbligo di rinnovare l'incarico di P.O., indipendentemente dai risultati positivi dal medesimo soggetto conseguiti e dal fatto che abbia ritenuto di rinnovare le altre posizioni organizzative istituite;
- la valorizzazione dell'alta professionalità posseduta dalla P.O. può, eventualmente, assumere rilievo soltanto se l'Amministrazione conferisce il medesimo incarico ad altro dipendente in violazione dei criteri di cui all'art. 10, comma 3, CCNL 2002-2005.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
All'esito dell'espletata fase cautelare, Sc.Cl. convenne in giudizio la Provincia Regionale di Enna (qui di seguito, per brevità, indicata anche come Provincia) chiedendo che venissero dichiarati:
- il suo diritto ad espletare l'attività professionale di avvocato, quale responsabile dell'Ufficio Contenzioso Lavoro e quale difensore dell'Ente, in posizione di staff e alle dirette dipendenze del Presidente della Provincia;
- l'illegittimità delle disposizioni di servizio n. 3126 del 16.03.2004 e n. 3381 del 19.03.2004 e di qualsiasi intromissione realizzata dal Dirigente del Settore Personale della Provincia nella sua attività professionale legale;
- il suo diritto ad essere inquadrato nel profilo di Avvocato (cat. D3);
- l'illegittimità della mancata proroga dell'incarico di titolarità della posizione organizzativa, con condanna della Provincia al pagamento delle relative indennità a decorrere dal 01.04.2004.
...
MOTIVI DELLA DECISIONE
...
3. Con il quinto motivo, denunciando violazione di disposizioni di legge e di CCNL, la ricorrente principale si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto, in relazione alla mancata proroga della posizione organizzativa a favore dello Sc., l'obbligo della motivazione al riguardo da parte dell'Amministrazione e la violazione, in concreto, dei canoni di correttezza e buona fede.
A conclusione del motivo è stato formulato il seguente quesito di diritto: "
Se, in caso di incarico di posizione organizzativa, conferito dal Dirigente di un Ente locale (la Provincia di Enna) a un dipendente inquadrato nella categoria D, ai sensi degli artt. 8 e 9 del CCNL 31.08.1999, per la durata di un anno, l'Ente debba, alla scadenza del termine, motivare il mancato rinnovo o applicare i principi di correttezza e buona fede, oppure non debba, come ritiene la Provincia, odierna ricorrente, semplicemente, secondo le fonti contrattuali, restituire il dipendente al profilo di appartenenza".
3.1 Il motivo, contrariamente all'assunto del controricorrente, deve ritenersi ammissibile, sia perché affronta specificamente le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale, a cui, in termini pertinenti, contrappone criticamente l'interpretazione asseritamente corretta della normativa pattizia di riferimento, sia perché il quesito di diritto è coerente con la regula iuris che viene espressa a fondamento del motivo.
3.2 L'allegato al CCNL 1998-2001 - Comparto del personale delle regioni e delle autonomie locali, CCNL per la revisione del sistema di classificazione del personale, prevede, per quanto qui rileva, che:
- "Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: (...) b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o all'iscrizione ad albi professionali; (...)" (art. 8, comma 1);
- "Tali posizioni (...) possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d'un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all'ad. 9" (art. 8, comma 2);
- "Gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a 5 anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità" (art. 9, comma 1);
- "Per il conferimento degli incarichi gli enti tengono conto -rispetto alle funzioni e attività da svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D" (art. 9, comma 2);
- "Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi" (art. 9, comma 3);
- "La revoca dell'incarico comporta la perdita della retribuzione di cui all'art. 10 da parte del dipendente titolare. In tal caso il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza e viene restituito alle funzioni del profilo di appartenenza" (art. 9, comma 5);
- "Il trattamento economico accessorio del personale della categoria D titolare delle posizioni di cui all'ad. 8 è composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di risultato. (...)" (art. 10, comma 1).
Il CCNL Comparto del personale delle regioni e delle autonomie locali, quadriennio normativo 2002-2005, prevede che:
- "Gli enti valorizzano le alte professionalità del personale della categoria "D" mediante il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina dell'ad. 8, comma 1, lett. b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL" (art. 10, comma 1);
- "Gli incarichi del comma 1 sono conferiti dai soggetti competenti secondo gli ordinamenti vigenti:
(a) ipotesi comma 1, lett. b), dell'ad. 8 citato: per valorizzare specialisti portatori di competenze elevate e innovative, acquisite, anche nell'ente, attraverso la maturazione di esperienze di lavoro in enti pubblici e in enti e aziende private, nel mondo della ricerca o universitario rilevabili dal curriculum professionale e con preparazione culturale correlata a titoli accademici (lauree specialistiche, master, dottorati di ricerca e altri titoli equivalenti) anche, per alcune delle suddette alte professionalità, da individuare da parte dei singoli enti, con abilitazioni o iscrizioni ad albi; (...)
" (art. 10, comma 2);
- "Gli enti adottano atti organizzativi di diritto comune, nel rispetto del sistema di relazioni sindacali vigente:
(a) per la preventiva disciplina dei criteri e delle condizioni per la individuazione delle competenze e responsabilità di cui al precedente comma 2, lett. a) e b) e per il relativo affidamento; (...)
" (art. 10, comma 3).
3.3 In applicazione dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 e 1363 cc deve pertanto convenirsi che:
- l'istituzione delle posizioni organizzative in parola costituisce una facoltà e non un obbligo del datore di lavoro pubblico;
- il conferimento di tali posizioni organizzative è a tempo determinato e va disposto con atto scritto e motivato;
- il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato;
- al titolare della posizione organizzativa competono la retribuzione di posizione e quella di risultato;
- l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede anch'essa un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi;
- la revoca comporta la perdita delle retribuzioni di posizione e di risultato e la restituzione del dipendente alle funzioni del profilo di appartenenza;
- la valorizzazione delle alte professionalità di cui all'art. 10 CCNL 2002-2005 avviene nell'ambito della disciplina dell'art. 8, comma 1, lett. b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto delle disposizioni dell'art. 9 del medesimo CCNL e, quindi, contempla comunque, per la parte datoriale pubblica, la facoltà e non l'obbligo del rinnovo degli incarichi già conferiti.

3.4 Da quanto sopra discende che:
- l'incarico conferito allo Sc. è cessato alla sua naturale scadenza (del 31.03.2004),
senza che ciò dovesse comportare una qualsivoglia motivata determinazione da parte dell'Amministrazione, necessaria invece qualora l'incarico stesso fosse stato revocato prima della scadenza;
-
l'Amministrazione non aveva alcun obbligo di rinnovare l'incarico allo Sc., indipendentemente dai risultati positivi dal medesimo conseguiti e dal fatto che avesse ritenuto di rinnovare le altre posizioni organizzative istituite;
-
la valorizzazione dell'alta professionalità posseduta dallo Sc. avrebbe potuto, eventualmente, assumere rilievo soltanto se l'Amministrazione avesse conferito il medesimo incarico ad altro dipendente in violazione dei criteri di cui all'art. 10, comma 3, CCNL 2002-2005; il che però non si è verificato, avendo la Corte territoriale irretrattabilmente accertato in punto di fatto che la posizione organizzativa relativa al Contenzioso Lavoro era rimasta vacante;
- la cessazione dell'incarico ha comportato il venir meno del diritto alle connesse retribuzioni di posizione e di risultato.
Essendosi la Corte territoriale discostata da tali principi, il motivo all'esame deve essere accolto (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 10.07.2015 n. 14472).

UTILITA'

ENTI LOCALI - VARI: Associazioni Sportive Dilettantistiche: come fare per non sbagliare (Agenzia delle Entrate, Direzionale Regionale del Piemonte, luglio 2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto del Ministero dell’Interno 03.08.2015, “Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell'articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139” (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, Del Soccorso Pubblico e della difesa Civile - Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Avellino, nota 11.09.2015 n. 10297 di prot.).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc on-line – chiarimenti. Istruttoria imprese non iscritte alla Cassa Edile (ANCE di Bergamo, circolare 11.09.2015 n. 189).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Applicazione art. 266, comma 4, d.lgs. 152/2006 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota 30.06.2015 n. 7692 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 17.09.2015 n. 216 "Definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale" (D.P.C.M. 26.06.2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Società in house. Condannate le assunzioni «vietate» dall’ente socio.
L’assunzione di personale in una società in house in violazione delle direttive dell’ente locale socio che impongono un divieto assoluto comportano danno erariale imputabile agli amministratori della partecipata.

La Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Sicilia, con la sentenza 01.09.2015 n. 778, condanna gli amministratori di una società affidataria diretta di servizi, partecipata dalla Regione, a rifondere il danno causato (circa 180mila euro) dalle assunzioni effettuate dalla società violando un esplicito divieto posto dall’amministrazione regionale socia, con specifico atto di indirizzo rivolto alle società da essa controllate, ma anche non considerando il riscontro negativo del comitato per il controllo analogo.
Il cda della società in house aveva deliberato in merito al reclutamento di alcune risorse umane, in sostituzione di alcuni dipendenti deceduti, pur avendo conoscenza del divieto di assunzioni stabilito da un atto della Regione Sicilia (socio controllante), a fini di contenimento della spesa: consapevole di questo limite, il cda aveva deciso di dar corso alle assunzioni solo dopo riscontro dal comitato di controllo analogo (previsto dallo statuto sociale).
Questo organismo, tuttavia, aveva negato sostanzialmente la possibilità di assunzione, indicando al cda di rimettere la decisione all’assemblea, nella quale la Regione, come socio, avrebbe potuto eventualmente disporre deroghe in relazione a presupposti particolari.
Uno degli amministratori della società ha invece deciso di dar corso alle procedure di assunzione prima che ciò avvenisse e pur a fronte di altri atti della Regione confermativi del divieto di reclutamento. Rispetto a questa decisione, il presidente del cda non è intervenuto, non esercitando i doveri a lui assegnati dagli obblighi di vigilanza.
La sentenza evidenzia che il divieto di assunzione, previsto all’evidente fine di raggiungere determinati obiettivi di finanza pubblica (a loro volta derivanti dalla legge e dalla Costituzione) costituisce il mero mezzo che è stato individuato quale strumento per raggiungere il fine del contenimento dei costi: conseguentemente la violazione del divieto finisce col sortire effetti pregiudizievoli sul superiore vincolo di finanza pubblica che sta sullo sfondo.
Inoltre i giudici rilevano che la cogenza di quel vincolo nei confronti degli amministratori della partecipata fa parte dell’ordinamento della stessa, proprio perché questa è una società in house, i cui amministratori non possono invocare l’autonomia gestionale generalmente prevista per le ordinarie società commerciali.
La sentenza stabilisce quindi che la spesa sostenuta per remunerare i lavoratori assunti in violazione di quell’espresso divieto assoluto deve ritenersi inutile, con la conseguenza che essa costituisce danno erariale, con esclusione della possibilità di valutare eventuali vantaggi comunque conseguiti dalla società di appartenenza.
La pronuncia evidenzia indirettamente l’importanza degli atti di indirizzo che gli enti locali soci devono assumere, in base all’articolo 18, comma 2-bis, della legge 133/2008, nei confronti delle partecipate, per specificare entro quali limiti esse possono operare assunzioni (potendo stabilire anche divieti assoluti), per perseguire il contenimento dei costi del personale.
Proprio questi atti di indirizzo consentono la definizione di deroghe per società che svolgono particolari attività (si pensi al ciclo integrato dei rifiuti in caso di cambiamento del modello di raccolta), ma secondo motivazioni che devono rendere evidenti queste peculiarità
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: L'ESPERTO RISPONDE/L'interrogativo di una docente, ma la legge non è cambiata.
Permessi straordinari per 104, il dirigente non può sindacare. Salvo non sussistano gravi e documentati motivi.

Domanda
Usufruisco della legge 104/1992 per assistere mio marito disabile. Il 7 agosto ho presentato domanda di un permesso straordinario nel periodo 21/30.10.2015. Il dirigente scolastico si è riservato di accogliere o respingere la domanda motivandola con le modifiche introdotte recentemente alla predetta legge.
Vorrei sapere quali sono i termini delle modifiche alla 104; che discrezionalità ha il dirigente nel concedere i giorni di permesso e a quanti giorni corrispondono esattamente i due anni di congedo straordinario.
Risposta
La risposta che di seguito si fornisce parte dal presupposto che suo marito sia stato riconosciuto dall'apposita commissione medica handicappato in situazione di gravità e non sia ricoverato in una struttura sanitaria a tempo pieno. Ai sensi del comma 5 e seguenti dell'articolo 42 del decreto legislativo 151/2001, per assistere suo marito lei ha diritto, nell'arco della vita lavorativa, a un periodo di congedo retribuito fino ad un massimo di due anni (730 giorni di calendario) da fruire anche in modo non continuativo.
In relazione alla sua domanda il dirigente scolastico non può esercitare alcun potere discrezionale, può solo accoglierla. A meno che non sussistano gravi e documentati motivi, neppure il periodo da lei richiesto può essere messo in discussione dal dirigente.
Le assicuro che le più recenti modifiche apportate alla legge 104/1992 non hanno inciso in alcun modo sull'istituto di cui al citato articolo 42 (articolo ItaliaOggi del 15.09.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'assessore non subentra. L'ex membro della giunta decade dal consiglio. Il primo dei non eletti voleva prendere il posto di un consigliere deceduto.
Un consigliere comunale, risultato primo dei non eletti alle ultime consultazioni amministrative, può subentrare, in qualità di componente del consiglio comunale, a un consigliere eletto nella medesima lista e successivamente deceduto?

Nella fattispecie in esame, il primo dei non eletti di una lista ha chiesto al sindaco e al presidente del consiglio dell'ente di riconoscere il proprio diritto a subentrare, in qualità di componente del consiglio comunale, a un consigliere eletto nella medesima lista e successivamente deceduto.
Già in precedenza il consiglio comunale aveva provveduto a deliberare la surroga di altro consigliere eletto sempre nella medesima lista e che lo stesso richiedente, in tale circostanza, non è stato tenuto in considerazione ai fini della surroga, in quanto, pur risultando primo dei non eletti, era stato nominato assessore del medesimo ente.
Essendosi successivamente dimesso dalla carica assessorile, il predetto ha chiesto di poter subentrare al consigliere deceduto in qualità di surrogante, atteso che, a suo avviso, nei suoi confronti non avrebbe spiegato effetti l'art. 64, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 che prevede, per i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, la cessazione dalla carica del consigliere che abbia accettato la nomina ad assessore della rispettiva giunta.
Ciò in considerazione della circostanza che non sarebbe mai stato «proclamato eletto» e pertanto, non avrebbe acquisito lo status di consigliere comunale.
Ai sensi del citato art. 64, comma 2, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, «qualora un consigliere comunale o provinciale assuma la carica di assessore nella rispettiva giunta, cessa dalla carica di consigliere all'atto dell'accettazione della nomina, ed al suo posto subentra il primo dei non eletti».
Il Consiglio di stato, sezione prima, con parere n. 2755 del 13.07.2005, reso in ordine all'art. 64 del decreto legislativo n. 267/2000, a suo tempo diramato dal ministero dell'interno con circolare n. 5 del 13.09.2005, ha evidenziato che, per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la cessazione dalla carica di consigliere costituisce un effetto legale automatico, cui segue, sempre ex lege, la sostituzione del consigliere nominato assessore con il consigliere risultato primo dei non eletti nella medesima lista.
Nella vicenda prospettata, l'avvenuta accettazione dell'incarico di assessore da parte del primo degli eletti nella lista, nelle ultime consultazioni elettorali, ha determinato, ex lege, l'acquisizione dello status di consigliere da parte dello stesso. Tuttavia, la nomina contestuale di quest'ultimo a membro della giunta ha determinato automaticamente la decadenza dello stesso dalla carica di consigliere comunale (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale? Se tra la fonte statutaria e quella regolamentare si determina un contrasto, quale delle due disposizioni dovrebbe essere applicata?

L'art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali hanno evidenziato un contrasto tra la previsione recata dello statuto comunale e il regolamento sul funzionamento del consiglio del citato ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede la presenza della metà dei consiglieri assegnati al fine della validità delle sedute (cinque componenti); mentre, ai sensi della norma regolamentare, il consiglio potrebbe validamente deliberare con la presenza di «almeno sette consiglieri». Si sarebbe, pertanto, determinato un contrasto tra la fonte statutaria e quella regolamentare.
In base al principio della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
Tuttavia, appare opportuna la revisione delle disposizioni statuarie e regolamentari che disciplinano i quorum e le maggioranze necessarie per il funzionamento del consiglio, al fine di comporre la discrasia evidenziata tra le disposizioni richiamate e consentire il corretto adeguamento alle disposizioni di legge che hanno innovato in merito alla riduzione del numero dei componenti del consiglio comunale (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

APPALTI: Diritto di accesso agli atti di una procedura negoziata. Questioni inerenti la sussistenza o meno dell'interesse all'accesso e decorrenza dei termini per la conclusione del procedimento di accesso.
1) Il soggetto che ha partecipato alla procedura concorsuale è titolare di un interesse qualificato e differenziato alla regolarità della procedura che, come tale, concretizza quell'interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che in puntuale applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è richiesto quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di accesso.
2) Il procedimento di accesso deve concludersi nel termine di trenta giorni decorrenti dalla presentazione della richiesta all'ufficio competente. Qualora la richiesta di accesso, relativa alla documentazione presentata dalla ditta aggiudicataria, abbia ad oggetto documenti 'non esistenti' in quanto l'amministrazione non ha ancora ultimato la procedura di aggiudicazione, vi è l'impossibilità di far decorrer i termini come indicati dal legislatore e l'amministrazione dovrebbe disporre il differimento dello stesso al momento della aggiudicazione definitiva.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito ad un'istanza di accesso agli atti pervenutagli da una ditta che era stata invitata a partecipare ad una procedura negoziata indetta dall'Ente ai sensi dell'articolo 30 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163.
[1]
Più in particolare, precisa di avere, in prima battuta, pubblicato un avviso di indagine volto ad individuare le imprese da invitare e di avere, successivamente, invitato tutte le ditte che avevano manifestato il loro interesse in tal senso. Riferisce, altresì, che l'indicata ditta, che non ha presentato nei termini la propria offerta, ha richiesto 'copia integrale dei verbali di gara e della documentazione amministrativa presentata dalla ditta aggiudicataria'; tale richiesta è stata inoltrata al Comune lo stesso giorno in cui si è tenuta la seduta pubblica destinata all'apertura dei plichi di gara.
[2]
A sostegno della propria istanza di diritto di accesso la ditta ha addotto le seguenti motivazioni: 'tutela del proprio legittimo diritto alla verifica dell'esistenza di eventuali vizi procedurali, di vizi nella documentazione di gara, nonché manifesta illogicità nelle previsioni della lex specialis' e 'aggiornamento delle proprie anagrafiche commerciali'. Attesa la fattispecie descritta l'Ente desidera sapere:
1) se sussista il diritto del richiedente ad ottenere l'accesso alla documentazione;
2) da quando decorre il termine di trenta giorni entro cui deve chiudersi il procedimento di accesso.
In via preliminare, si ricorda che compito dello scrivente Ufficio è fornire consulenza giuridico-amministrativa nelle materie di interesse per gli enti locali. Non spetta allo scrivente assumere decisioni o compiere valutazioni che competono unicamente al Comune che ha posto il quesito. Di conseguenza, di seguito, si forniscono una serie di considerazioni generali che possano orientare l'Ente nelle decisioni da assumere in relazione alla fattispecie concreta.
In termini generali, si osserva che l'articolo 22, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, precisa, alla lettera a), che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per 'interessati' debbano intendersi «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
Al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve, pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia. La domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore.
Come rilevato dalla giustizia amministrativa, si osserva, in particolare, che 'deve pur sempre sussistere un legame tra finalità dichiarata e documento richiesto, con la conseguenza che il titolare deve esternare non solo le ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato.'
[3]
Ed, invero, per la giurisprudenza, l'articolo 22, legge 241/1990, lungi dall'aver introdotto una forma di azione popolare, diretta a consentire una sorta di verifica diffusa dell'attività amministrativa, 'deve correlarsi ad un interesse qualificato, che giustifichi la cognizione di determinati documenti, onde l'accesso agli atti della p.a. è consentito soltanto a coloro cui gli atti stessi, direttamente o indirettamente, si rivolgano e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva la quale, anche se non assurta alla consistenza dell'interesse legittimo o del diritto soggettivo, deve comunque essere giuridicamente tutelata, non essendo consentito identificarla con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa (v. art. 97, Cost.)'.
[4]
Che non possano ritenersi ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni è, del resto, sancito anche dalla legge 241/1990, all'articolo 24, comma 3, nella versione introdotta dalla legge 11.02.2005, n. 15.
Con riferimento alle procedure di gara occorre segnalare l'orientamento giurisprudenziale che sostiene come 'il soggetto che abbia partecipato alla procedura concorsuale è titolare di un interesse qualificato e differenziato alla regolarità della procedura che, come tale, concretizza quell'interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che in puntuale applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è richiesto quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di accesso'.
[5]
Circa la possibilità di applicare tale principio alla fattispecie in esame, caratterizzata dal fatto che la ditta che ha avanzato la richiesta di accesso agli atti, benché abbia manifestato il proprio interesse alla gara nel corso dell'indagine di mercato svolta dal Comune, non ha, successivamente, seppur invitata a partecipare, presentato la propria offerta,
[6] si riportano i contributi giurisprudenziali espressi sull'argomento.
In un caso concernente una ditta che aveva partecipato alle fasi di prequalificazione di una gara a procedura ristretta, ma che, benché ammessa alla fase finale, a causa della complessità del progetto, non aveva presentato la propria offerta,
[7] il giudice amministrativo ha ritenuto sussistere il diritto all'accesso ai documenti della fase finale della gara. [8]
A sostegno di un tanto ha affermato che: 'Anche ove si volesse interpretare la comunicazione dell'impresa di non essere in grado di formulare un'offerta come rinuncia alla gara, non vi è da dubitare che l'interesse alla regolarità di questa permanesse e fosse qualificato e specifico. [...] In primo luogo, [...] la procedura concorsuale in questione è unica, anche se suddivisa in due fasi le quali, a determinati fini, possono anche rispondere a norme e principi diversi, senza che per ciò venga meno l'unicità della gara.
[9] In secondo luogo, ed in conseguenza del primo punto, l'interesse della richiedente deve essere giudicato tenendo conto che essa è una partecipante alla gara stessa, vale a dire è un operatore del settore con un interesse concreto e specifico a quella determinata gara, al quale la giurisprudenza, come è noto, ha riconosciuto ormai una molteplicità di interessi. Oltre a quello tradizionale alla legittimità e regolarità della gara cui partecipa, anche alla demolizione della gara stessa quando ciò conduca alla non aggiudicazione del contratto ed alla sua ripetizione. [...]'.
Si ritiene interessante riportare anche le considerazioni di altra giurisprudenza
[10] che, con riferimento ad un caso similare [11] a quello in esame ha affermato: 'In primo luogo non vi è alcuna necessità di esternare nella istanza di accesso alla documentazione di una gara pubblica le ragioni giuridiche sottese alla richiesta stessa, l'accesso si giustifica con il diritto di chi alla gara ha partecipato di conoscere le modalità di svolgimento della procedura e le determinazioni prese dall'Amministrazione. [...] Non è, poi, dubbio, neanche per il primo giudice, [12] che la richiesta di partecipazione, seguita dall'invito dell'Amministrazione a presentare la propria offerta, integri una posizione di legittimazione all'accesso agli atti della gara che non è esclusa dalla circostanza della mancata presentazione dell'offerta. Da altra angolazione si deve rilevare che nel caso di specie vi era stato un contraddittorio, tra la Società appellante ed il Comune di XX, in ordine alle caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare [...]. Era, infatti, ben chiaro all'Amministrazione Comunale il motivo che induceva la Società attuale appellante a verificare le condizioni di realizzazione del parcheggio per tutelarsi eventualmente in sede giurisdizionale per il pregiudizio subito per non aver potuto partecipare alla gara in forza delle carenze progettuali di cui aveva rappresentato l'esistenza. Nella fattispecie qui considerata sussiste in modo evidente, ad avviso del Collegio, l'interesse diretto alla tutela di «situazioni giuridicamente rilevanti» che a tenore dell'art. 22, primo comma, della legge 07.08.1990, n. 241, consente l'accesso ai documenti amministrativi da parte dei privati'. [13]
In conclusione, su tale aspetto, si osserva che le pronunce sopra riportate hanno riconosciuto l'esistenza del diritto di accesso a tutta la documentazione di gara in capo a quelle imprese che, benché non presentatrici dell'offerta, avevano preso parte alla fase precedente di prequalificazione (o preselezione). Caratteristica comune ai casi giurisprudenziali citati, tuttavia, era l'avvenuta comunicazione o l'intervenuto scambio di note, da parte delle indicate imprese alla P.A. appaltante, concernenti le motivazioni a sostegno della non presentazione dell'offerta e consistenti nella paventata esistenza di carenze o complessità progettuali dell'opera da realizzare.
[14]
Passando a trattare della seconda questione posta, sempreché si ritenga esistente l'interesse all'accesso da parte del richiedente lo stesso, si forniscono le seguenti considerazioni.
Il D.P.R. 12.04.2006, n. 184, 'Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi', all'articolo 6, comma 4, recita: 'Il procedimento di accesso deve concludersi nel termine di trenta giorni, ai sensi dell'articolo 25, comma 4, della legge,
[15] decorrenti dalla presentazione della richiesta all'ufficio competente o dalla ricezione della medesima nell'ipotesi disciplinata dal comma 2'.
Il medesimo regolamento, all'articolo 2, comma 2, prevede, altresì, che: 'Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera e), della legge, nei confronti dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente. La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso'.
Con riferimento alla fattispecie in esame risulta evidente che la richiesta di accesso ha ad oggetto documenti 'non esistenti' ciò in quanto l'amministrazione non ha ancora ultimato la procedura di aggiudicazione con impossibilità di individuazione degli atti richiesti. Di qui l'impossibilità di far decorrere i termini come indicati dal legislatore.
A fronte della situazione prospettata, e nell'impossibilità di dare seguito alla richiesta di accesso agli atti, l'amministrazione dovrebbe disporre il differimento dello stesso al momento della aggiudicazione definitiva. In tal senso depone, infatti, l'articolo 24, comma 4, della legge 241/1990 il quale recita: 'L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento'.
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[1] L'articolo 30 del d.lgs. 163/2006 rubricato 'Concessione di servizi', al comma 3 prevede che: 'La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi'.
[2] L'Ente precisa, altresì, che tale seduta è stata sospesa non avendo un concorrente prodotto correttamente tutta la documentazione richiesta e che, pertanto, non essendosi proceduto all'apertura di tutte le buste, si procederà in tal senso in fase di riapertura della seduta stessa.
[3] In tal senso si legga TAR Ancona, sentenza del 30.03.2005, n. 274.
[4] TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del 09.02.2010, n. 52.
[5] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 05.08.2013, n. 861; TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 24.06.2013, n. 1408; TAR Lazio, Roma, sez. II, sentenza del 24.10.2012, n. 8772; TAR Lazio, Roma, sez. III, sentenza dell'08.07.2008, n. 6450.
[6] Si precisa che l'indicata ditta ha comunicato all'Amministrazione che si trovava nell'impossibilità di formulare un'offerta a causa di impegni precedentemente presi, che saturavano la sua attuale disponibilità.
[7] Si precisa che la ditta in questione aveva, dapprima, chiesto una proroga del termine di consegna dell'offerta formulando una serie di quesiti connessi alla complessità del progetto e, successivamente, 'presentava alla stazione appaltante una nota in ordine all'impossibilità, alla luce delle tecniche richieste, di prestare una qualsiasi offerta, impegnandosi, tuttavia, a formulare tale offerta in caso di gara deserta'.
[8] Cons. Giust. Amm., sentenza del 05.12.2007, n. 1087.
[9] Sul tema del rapporto intercorrente tra la trattativa privata vera e propria e la c.d. indagine di mercato si veda, anche, TAR Veneto, sez. I, sentenza del 04.11.2002, n. 6199.
[10] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 10.05.2005, n. 2340.
[11] Più in particolare, si trattava di una società che aveva presentato una richiesta di partecipazione alla gara cui aveva fatto seguito la lettera di invito del Comune; la medesima società non aveva, tuttavia, successivamente presentato l'offerta. Nel caso di specie vi era stato, tra l'altro, un contraddittorio tra la società e il Comune instaurato con un duplice scambio di note avente ad oggetto le perplessità esternate dalla impresa sulla progettazione dell'opera e sugli eventuali rischi idraulici derivanti dalla realizzazione della stessa secondo le modalità progettate.
[12] Si osserva, più precisamente, che il giudice di primo grado ha ricordato il principio che vede la legittimazione all'accesso documentale da parte della ditta ammessa ad una gara ma non offerente correlandolo, tuttavia, all'ulteriore requisito, presente nel caso esaminato dal giudice amministrativo, della contestazione da parte dell'impresa del comportamento di non collaborazione della pubblica amministrazione, il quale radicherebbe in capo alla stessa un interesse giuridicamente rilevante a conoscere gli ulteriori atti del procedimento di gara.
[13] Per completezza espositiva, si riportano le considerazioni espresse sempre dalla magistratura amministrativa (TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, sentenza del 10.05.2011, n. 4081) in ordine ad una fattispecie relativa ad un'impresa che, benché non partecipante alla gara (non essendovi stata alcuna fase prodromica all'espletamento della procedura concorsuale vera e propria) aveva motivato di essere titolare di un interesse qualificato all'accesso, 'in qualità di primaria operatrice nel settore della locazione a lungo termine di veicoli senza conducente, aspirando, attraverso l'impugnativa di tali atti, alla rinnovazione della procedura concorsuale ed alla partecipazione a seguito di rinnovazione della gara'.
Il caso, benché differente nei suoi presupposti dalla fattispecie in esame, si ritiene interessante nel punto in cui il giudice, nel negare la sussistenza del diritto all'accesso, afferma che: 'Con riferimento ai fatti in controversia, la ricorrente afferma di avere una posizione giuridica differenziata in quanto mira alla riedizione della procedura concorsuale di cui si tratta, ancorché la medesima non vi abbia preso parte, né abbia lamentato l'impossibilità di prendervi parte a causa della apposizione di clausole del bando impeditive o limitative della partecipazione alla gara. [...] Ritiene il Collegio che il diritto di accesso agli atti amministrativi non può estendersi ad un sindacato generalizzato dell'intera attività nell'ambito di una procedura concorsuale cui si è rimasti volontariamente estranei, attraverso l'enunciazione di un interesse meramente esplorativo, e privo dell'indicazione di alcun principio di prova in ordine alle illegittimità che si sarebbero perpetrate [...]'.
[14] Per completezza espositiva, si segnala come utile il riferimento alla previsione di cui all'articolo 13, del D.Lgs. 163 benché lo stesso non sia direttamente applicabile alla fattispecie in esame atteso il disposto di cui all'articolo 30, comma 1, del Codice dei contratti pubblici il quale recita: 'Salvo quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi'. Tale articolo, concernente 'Accesso agli atti e divieti di divulgazione', al comma 2, lett. b), prevede che il diritto di accesso sia differito 'nelle procedure ristrette e negoziate, e in ogni ipotesi di gara informale, in relazione all'elenco dei soggetti che hanno fatto richiesta di invito o che hanno segnalato il loro interesse, e in relazione all'elenco dei soggetti che sono stati invitati a presentare offerte e all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte medesime [...]'.
Al riguardo merita segnalare che, impregiudicata la questione sull'esistenza del diritto ad accedere alla documentazione presentata dalla ditta aggiudicataria, la legge riconosce l'esistenza del diritto all'accesso ai documenti ivi indicati ma con differimento della loro ostensione al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte. Come affermato dalla giurisprudenza la ratio della norma va individuata 'nell'esigenza che, per quanto possibile, le imprese si presentino alla gara non sulla base di accordi più o meno sotterranei, ma sulla base delle regole dettate dal principio della concorrenza, dato che la suindicata disposizione è orientata non tanto alla tutela della sfera di riservatezza delle imprese partecipanti al pubblico incanto o aspiranti all'invito alla gara (ristretta o informale), quanto alla garanzia della correttezza e trasparenza dei comportanti connessi alla presentazione delle offerte o degli inviti alla gara'. Così, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 12.04.2005, n. 1678; TAR Puglia Lecce, sez. I, sentenza del 03.09.2002, n. 3827.
[15] L'articolo 25, comma 4, della legge 241/1990 prevede che 'decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta [...]'
(25.08.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

A.N.AC. (ex AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi sotto i fari Anac. I responsabili corruzione spesso non vigilano. In un report al governo l'Authority chiede correttivi al dlgs 39/2013.
Incarichi p.a. sotto la tutela dell'Anac. Dovranno essere concentrati in capo all'Autorità nazionale anticorruzione, presieduta da Raffaele Cantone, i poteri di vigilanza, accertamento, ordine e sanzione in materia di incarichi pubblici, perché le norme del dlgs 39/2013 hanno fallito.

Si è rivelato, infatti, illusorio pensare che il responsabile per la prevenzione della corruzione (Rpc), soggetto attorno a cui ruota tutto il sistema di controlli disegnato dalla normativa del 2013, potesse svolgere un efficace ruolo preventivo e di accertamento visto che è nominato dagli stessi soggetti che dovrebbe controllare.
I responsabili corruzione degli enti, invece che dichiarare tempestivamente la nullità degli incarichi irregolari, spesso hanno «procrastinato nel tempo la dichiarazione» soprattutto perché la nullità del contratto porta come automatica conseguenza la sospensione per tre mesi dal conferimento di nuovi incarichi. Una sanzione, questa, che però nella sua automaticità va rivista. Meglio sarebbe una sanzione amministrativa, di natura pecuniaria, da irrogare ai componenti degli organi di indirizzo delle amministrazioni e da graduare in rapporto al grado di partecipazione alla condotta.
In un report, depositato il 14 settembre e inviato al governo e al parlamento, Raffaele Cantone ha illustrato le possibili proposte di modifica al dlgs 39, dopo aver evidenziato nel precedente atto di segnalazione (n. 4 del 10 giugno) tutte le criticità rilevate in due anni di applicazione della normativa. Due anni, in cui, sottolinea l'Anac, molte cose sono cambiate. A cominciare proprio dai poteri dell'Autorità che sono stati rafforzati e ora ne impongono un maggiore coinvolgimento.
«Se nel 2013 il legislatore non aveva ancora costruito l'allora Civit/Anac come vera autorità indipendente e la stessa Commissione non era sicuramente in grado di fare fronte a questi adempimenti», scrive Cantone, «ora la situazione è radicalmente mutata, grazie soprattutto al dl 90/2014. L'Autorità, se chiamata a svolgere il ruolo di vigilanza e sanzione, può oggi garantire un corretto e imparziale svolgimento di questi compiti, considerato che, rafforzando soprattutto la fase di controllo preventivo, anche il numero dei procedimenti potrebbe ridursi sensibilmente».
Oltre all'eliminazione del carattere automatico della sanzione in caso di conferimenti di incarichi dichiarati nulli, l'Anac chiede di svolgere un «ampio potere suppletivo» qualora i responsabili della prevenzione della corruzione non si attivino. Con la possibilità di procedere a un proprio accertamento (con dichiarazione di nullità) «quando agisca su segnalazione dei cittadini, d'ufficio o su richiesta degli stessi Rpc».
Anche il procedimento sanzionatorio, secondo Cantone, potrebbe essere affidato all'Anac «perché non è credibile che esso sia svolto dal Rpc dell'amministrazione».
Ma soprattutto bisognerà puntare sulla prevenzione. Perché con l'attuale sistema i Rpc non svolgono un'attenta verifica sull'insussistenza delle cause di inconferibilità degli incarichi, fidandosi delle dichiarazioni degli interessati che spesso, osserva l'Authority nell'Atto di segnalazione 09.09.2015 n. 5, risultano fuorvianti, non perché ci sia dolo, «ma perché fondate su personali interpretazioni sulla sussistenza o meno dell'inconferibilità» (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Anac, dalla nomina nulla responsabilità alla Giunta. Anticorruzione. Gli assessori rispondono economicamente.
Uno stop di tre mesi per il Presidente della Regione Calabria da parte dell’Autorità nazionale anticorruzione.
Galeotta è stata la nomina a commissario straordinario dell’Asp di Reggio Calabria di un candidato a sindaco al comune di Seminara. Una scelta che non poteva essere fatta in base al Dlgs 39/2013 (articolo 8).
Ciò in quanto il precetto interessato chiarisce che gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e amministrativo nelle aziende sanitarie, locali e ospedaliere, non possono essere conferiti a chi è stato candidato in precedenti elezioni europee, nazionali e regionali ma anche in Comuni ricadenti nella medesima provincia dell’azienda di competenza. Così com’è, per l’appunto, quello di Seminara (Reggio Calabria).
Un errore che si paga (Cantone dixit) con l’interdizione dei componenti dell’organo che l’ha adottata che, al netto degli assessori che c’erano e che non ci sono più, conta come saldo solo il presidente Mario Oliverio.
La vicenda, da una parte, sa di incredibile, dal momento che nessuna perplessità e/o eccezione al riguardo è stata fatta presente alla Giunta all’epoca deliberante, che appare essere stata ignara dell’evento impeditivo per non essere stata neppure informata dell’eventualità dalla dirigenza preposta. Dall’altra, che la misura contenuta nella delibera 02.09.2015 n. 66 dell’Anac comporta, in base all’articolo 17 del Dlgs 39/2013, la nullità dell’originario atto di nomina e del relativo contratto di lavoro successivamente stipulato (articolo 17).
Non solo. Sancisce la responsabilità di tutti i componenti della Giunta sulle conseguenze economiche derivanti dagli atti adottati. Insomma, un chiaro esempio di responsabilità contabile punitiva che, nel caso di specie, rischia di apparire sproporzionato, anche perché mette in gioco valori economici consistenti. Ciò per due ordini di motivi. Prioritariamente, perché nella fattispecie esaminata dall’Anac si tratta di nomina a commissario straordinario e non anche a direttore generale dell’Asp reggina. In proposito, prescindendo dalle assimilazioni rintracciabili in una certa giurisprudenza ad esse favorevoli, ve ne sono altre dalle quali si desume l’esatto contrario, avallate pure da una eminente dottrina.
La particolarità della provvisorietà e dell’urgenza di procedere a nomine commissariali straordinarie, indispensabili per sopperire a vuoti di gestione pericolosi per la salute dell’utenza e l’economia pubblica, dovrebbe costituire una buona motivazione per non assimilarle a nomine definitive, con previsioni contrattuali della durata minima di un triennio, del tipo quelle esplicitamente codificate nella norma di riferimento.
Ciò vale anche in relazione alla responsabilità “erariale” che il Dlgs 39/2013 attribuisce agli organi trasgressori. Una sanzione che, proprio perché derivante dalla nullità della nomina interviene ex tunc su tutti gli atti conseguenti, potrebbe raggiungere entità economiche sproporzionate. Sanzioni che non dovrebbero trovare alcun positivo riscontro, da parte della magistratura contabile, per una colpa grave non affatto riscontrabile nel caso di specie.
Quanto alle nomine che urgono, occorre in ogni caso un’attenzione particolare nel determinarle per evitare di incappare in nullità sopravvenienti e conseguenti ulteriori responsabilità, anche economiche
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

LAVORI PUBBLICIOpere, niente varianti. Modifiche solo con gara. Anac: affidamenti negoziati in casi urgenti per evitare danni.
In un appalto pubblico è illegittimo ricorrere alla variante in corso d'opera se cambia lo stato dei luoghi dopo l'aggiudicazione del contratto e occorre rinnovare la procedura di gara. È, invece, ammesso l'affidamento dei lavori a trattativa privata per prevenire ulteriori danni.

È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere sulla normativa 22.07.2015 - rif. AG 52/2015/AP  che delinea con precisione i limiti per l'applicazione dell'istituto della variante in corso d'opera.
Il caso esaminato dall'Autorità su richiesta di parere della stazione appaltante riguardava la possibilità di procedere alla stipula di un contratto d'appalto integrato, avviando immediatamente dopo, con ordine di servizio da impartire all'aggiudicataria, le procedure della variante progettuale in corso d'opera nell'ambito della somma aggiudicata. Era accaduto che la stipula del contratto era stata ritardata da un contenzioso maturato a valle dell'aggiudicazione e nel frattempo era avvenuto un crollo che aveva modificato lo stato dei luoghi.
L'idea della stazione appaltante era stata quella di proporre all'aggiudicatario una variante al progetto originario da fare rientrare nel prezzo del contratto che si sarebbe dovuto stipulare.
L'Autorità, preliminarmente, ha ricostruito il quadro normativo all'interno del quale è ammesso il ricorso alla variante in corso d'opera che è possibile (ai sensi dell'articolo 132 del codice dei contratti pubblici) per introdurre in un progetto in corso di esecuzione variazioni non previste dal contratto e che danno luogo ad alterazioni del prezzo d'appalto.
La normativa circoscrive le fattispecie di variante perché le modifiche o le estensioni apportate all'oggetto del contratto dopo l'aggiudicazione o dopo la stipula sono illegittime per violazione delle direttive comunitarie e delle norme nazionali che dispongono l'obbligo della gara pubblica a garanzia della concorrenza.
Nel caso di specie, quindi, la stazione appaltante non poteva ordinare una variante in primo luogo perché l'evento era sopravvenuto prima della stipula del contratto e perché tale circostanza aveva reso il contratto non più coerente, in ragione delle circostanze sopravvenute, con lo stato di fatto alla base del progetto e, dunque, non più rispondente alle esigenze dell'amministrazione. In secondo luogo, l'Autorità ritiene che il ricorso alla variante non sia possibile anche perché le variazioni al progetto posto a base di gara, dopo il crollo, non erano di scarsa entità.
In sostanza la presenza di modifiche progettuali di non scarsa importanza, idonee con ogni probabilità a condurre a un esito diverso della procedura selettiva (diverso aggiudicatario e diverso prezzo di aggiudicazione), imponevano anche ai sensi della giurisprudenza comunitaria, la rinnovazione della procedura di gara.
L'Anac ha riconosciuto invece alla stazione appaltante, per fare fronte con estrema urgenza a una situazione che appariva avviata a un progressivo deterioramento, senza potere attendere i tempi imposti dai termini delle procedure delle gare, la possibilità di affidamento tramite procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando. Ma per il resto occorreva ricominciare con una nuova gara (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

NEWS

APPALTI: Riforma appalti, niente regolamento. Edilizia. Delrio conferma la semplificazione.
Via al recepimento tramite il Codice, senza transitare dal regolamento. E più poteri alle linee guida dell’Anac di Raffaele Cantone, che saranno però sottoposte a un parere (non vincolante) del Parlamento.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri in commissione Ambiente alla Camera si è per la prima volta pronunciato sulle modifiche che il Governo ha intenzione di portare al Ddl delega di recepimento delle direttive appalti
(Atto Camera n. 3194).
Tutto ruota attorno a un emendamento che cancellerà il regolamento dai radar della riforma e che sarà presentato all’inizio della prossima settimana. Anche se non è il solo intervento in preventivo: qualcosa cambierà sul fronte dei lavori in house delle concessionarie.
Il presidente dell’ottava commissione, Ermete Realacci fa il punto sul calendario. «È evidente che non possiamo far proseguire i lavori senza la proposta di modifica del Governo». Il riferimento è all’emendamento annunciato ieri formalmente da Delrio: cancellazione del regolamento di attuazione del Codice, con un ruolo più pesante per le linee guida dell’Anac. A monitorare il lavoro dell’Autorità ci sarà il Parlamento. Alcuni dettagli dell’intervento, però, sono oggetto di limature. In attesa di questi aggiustamenti, la commissione starà ferma. «Tra lunedì e martedì -prosegue Realacci- aspettiamo le proposte del Governo. Le votazioni partiranno lunedì 28 settembre». Sul piatto non c’è solo il tema del regolamento. Dal Governo è attesa una proposta anche sul tema dei lavori in house delle concessionarie.
A completare il quadro ci saranno alcune proposte della maggioranza e della relatrice, Raffaella Mariani. Che ieri in una giornata di studi sugli appalti, organizzata da Tor Vergata e ospitata dall’Antitrust, ha confermato anche la scelta di spostare sui controlli il bonus del 2% riconosciuto ai progettisti della Pa. Norme più stringenti arriveranno anche per facilitare l’accesso agli appalti da parte delle Pmi, come chiesto ieri dal presidente della Piccola Industria di Unindustria Angelo Camilli.
Dall’Antitrust sono arrivate la proposta di una patente a punti per valutare la reputazione delle imprese e la richiesta di stringere le maglie sugli appalti in house, limitando questa possibilità alle società a capitale interamente pubblico. Vero che le direttive su questo punto aprono alla presenza di privati. «Ma si tratta di una norma a recepimento volontario», ha chiarito Valentina Guidi, dirigente del dipartimento Politiche europee di palazzo Chigi
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Sono ancora fuorilegge i semafori troppo moderni.
Devono ancora restare spenti i diffusi semafori laser in grado di attivarsi all'arrivo di veicoli troppo veloci. E non possono neanche essere posizionati regolarmente i tabelloni luminosi che evidenziano all'utente il tempo residuo di accensione delle lanterne semaforiche.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere n. 3805/2015.
Un comune friulano ha richiesto indicazioni sulle nuove opportunità tecnologiche introdotte dall'art. 60 della legge 120/2010, ovvero sulla possibilità di installare ai semafori sistemi avanzati in grado di misurare la velocità dei veicoli e variare conseguentemente il ciclo delle lanterne. Oppure semplicemente posizionare tabelloni luminosi agli incroci per evidenziare agli utenti in transito la durata residua dei cicli semaforici.
Al momento resta tutto invariato ovvero vietato, ha specificato il ministero. L'art. 60 della legge di riforma stradale dell'agosto 2010 rinvia infatti ad un decreto ministeriale la definizione delle caratteristiche per l'omologazione e per l'installazione di questi ingegnosi dispositivi.
Questo decreto, anche se in fase di completamento, non è però ancora stato emanato, specifica il parere centrale, e peraltro diventerà efficace solo dopo 6 mesi dalla sua emanazione. I dispositivi di count down, specifica la nota, non dovranno interferire con alcun sistema di controllo del traffico e nemmeno con il ciclo semaforico.
Inoltre secondo il ministero non sarà possibile installare dispositivi che variano il ciclo delle lanterne in relazione alla velocità dei veicoli, nonostante le diverse indicazioni della legge 120/2010. Sul territorio nazionale sono state effettuate sperimentazioni ma ancora nessun congegno è stato omologato e può essere utilizzato. In pratica allo stato attuale i semafori più o meno intelligenti restano fuori legge.
L'unica funzione ammessa dalla normativa per gli impianti semaforici è ancora quella prevista dall'art. 158 del regolamento stradale, ovvero regolare i flussi del traffico senza interferenze tecnologicamente troppo sviluppate. Tutte le postazioni attive e troppo creative non sono pertanto conformi alla normativa stradale e vanno spente (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Diplomati tecnici in forse. Accesso al tirocinio a misura di professione. Le posizioni delle categorie in attesa di chiarimenti di Miur e Giustizia.
Nuovi diplomati tecnici appesi a un filo. O meglio, in balia dei ministeri della giustizia e dell'istruzione.
Dopo la circolare con cui il Miur ha fissato nel IV livello di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate dal nuovo titolo di istruzione tecnica, i ragazzi che a luglio scorso sono entrati in possesso del diploma stanno andando incontro a sorti differenti (si veda ItaliaOggi del 28.08.2015).
A seconda della categorie interessate (periti industriali, geometri, periti agrari e agrotecnici) le soluzioni proposte per le iscrizioni ai tirocini cambiano. Almeno per ora. Il 22 settembre prossimo, infatti, presso il Miur è in programma un incontro interlocutorio tra i presidenti delle categorie e i funzionari che si stanno occupando della vicenda nella speranza che anche il dicastero del ministro Andrea Orlando si faccia sentire. In attesa, però, che la politica faccia il suo corso le categorie hanno dovuto scegliere quale strada percorre.
Divisi tra coloro che ritengono che il contenuto della circolare non imponga alcun tipo di restrizione e coloro che invece ritengono che la circolare metta un punto ad una questione su cui il Miur aveva sempre taciuto, in ballo c'è il futuro di migliaia di ragazzi in fila per le iscrizioni. E se i neodiplomati in questione sono aspiranti periti agrari la risposta che si sentiranno dare è un «forse».
Come, infatti, ha sottolineato il presidente del Centro studi Aspera (Associazione periti agrari) Andrea Bottaro, «è necessario che i ragazzi abbiano pazienza. Posto che secondo noi i neodiplomati non hanno effettivamente i requisiti per l'accesso al tirocinio in quanto, di fatto, non in possesso del titolo di periti agrari perché il nuovo diploma non lo prevede, stiamo mettendo in piedi una confronto con il ministero della giustizia affinché questi giovani possano usufruire dell'equivalenza del titolo», ha spiegato Bottaro, «così facendo, in un secondo momento potremo, prima farli iscrivere al tirocinio e, successivamente, fare arrivare i ragazzi ad un livello di preparazione tale da permettergli di fare l'esame finale». Per ora, quindi, tutti in fila in attesa. Situazione diversa, invece, quella dei periti industriali che ritengono che la circolare non lascia dubbi di sorta circa l'impossibilità di far accedere i ragazzi al tirocinio.
«Al momento abbiamo dato l'input ai nostri uffici di non accettare le iscrizioni dei neodiplomati», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale dei periti industriali e dei periti industriali Laureati, Giampiero Giovannetti, «fino a che non arriveranno chiarimenti dai ministeri le porte sono chiuse. Non possiamo, infatti, correre il rischio di far iscrivere dei ragazzi e poi dover dire loro a percorso iniziato che non possono più avere accesso all'esame perché privi dei requisiti necessari».
Strade percorribili, quindi, o l'iscrizione all'università o un percorso presso gli istituti tecnici superiori, con tutte le conseguenze del caso. Ipotesi diametralmente opposta, quella di geometri e agrotecnici. Per entrambi, infatti, se pur con motivazioni differenti non sussistono dubbi di sorta circa la possibilità di fare iscrivere i ragazzi neodiplomati.
«Per quanto riguarda la nostra categoria», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale geometri e geometri laureati Maurizio Savoncelli, «i riferimenti normativi sono chiari ( dpr 328/2010 e legge 75/1985) e ci danno la possibilità di far iscrivere senza nessun problema i ragazzi al praticantato. Esiste, infatti, raccordo normativo tra il vecchio e il nuovo diploma». Per gli aspiranti geometri, quindi, nessun problema e iscrizioni aperte. Stessa sorte, infine, anche per gli aspiranti agrotecnici (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Riforma appalti, progetti della Pa senza bonus 2%. Delrio in commissione per sciogliere il nodo regolamento.
Contratti pubblici. Semplificazioni sul subappalto tra gli emendamenti della relatrice Mariani.

Sarà Graziano Delrio oggi in commissione Ambiente della Camera a sciogliere gli ultimi nodi sulla riforma degli appalti (Atto Camera n. 3194). Primo fra tutti quello della normativa secondaria che dovrà attuare il nuovo codice degli appalti: il ministro delle Infrastrutture confermerà la sua posizione, che si può fare a meno del regolamento generale, per fare posto a una soft law guidata dall'Anac di Raffaele Cantone.
Il ministro dovrà anche spiegare che tipo di soft law ha in mente e dovrà in sostanza anticipare i contenuti dell'emendamento che i suoi uffici stanno ancora predisponendo e che dovrebbe essere presentato fra domani e l'inizio della prossima settimana.
Intanto la relatrice del disegno di legge in commissione, Raffaella Mariani (Pd), ha pronti alcuni emendamenti che dovrebbero riformulare parzialmente alcuni dei criteri di delega contenuti nel testo approvato a Palazzo Madama.
Sul subappalto, per esempio, Mariani è orientata a semplificare la procedura di gara spostando l'obbligo di presentazione della terna di subappaltatori per ogni tipologia di lavorazione (prevista dalla lettera LLL) dal momento della presentazione dell'offerta in gara a quello dell'aggiudicazione.
L'altra questione che si dovrebbe risolvere, con un emendamento della relatrice, è l'incentivo del 2% dato ai dipendenti pubblici o alle strutture della PA che effettuano progettazioni. Una vecchia questione fortemente distorsiva del mercato della progettazione in termini di concorrenza e di qualità del risultato finale. L'emendamento Mariani dovrebbe lasciare l'incentivo del 2% alle strutture interne delle amministrazioni, ma dovrebbe essere sposato su attività che la Pa svolge effettivamente in esclusiva, come la programmazione o l'esecuzione contrattuale.
Quella dell'eliminazione del regolamento e del tipo di soft law che dovrebbe sostituirlo è l'ultima grande questione aperta del nuovo codice appalti, ma non è affatto secondaria. Non a caso sta bloccando i lavori della commissione Ambiente che ha sul tavolo già dai primi di agosto gli emendamenti dei gruppi.
«Non ha senso riprendere i lavori per affrontare aspetti marginali quando abbiamo davanti questa questione fondamentale da affrontare», dice il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci. «La correttezza e la trasparenza del passaggio parlamentare -aggiunge- richiede questa condizione. C'è accordo con il ministro che la discussione debba riprendere da questo emendamento, anche perché i gruppi e i relatori avranno poi la possibilità di presentare subemendamenti».
Il primo obiettivo che l'abolizione del regolamento vuole ottenere è una grande semplificazione della struttura normativa che governa il settore. Il secondo, non meno importante nella decisione iniziale di procedere su questa strada, è consentire realisticamente il recepimento delle direttive europee 23, 24 e 25 del 2014 entro il termine del 18 aprile con l'approvazione del solo codice senza dover approvare contemporaneamente anche il regolamento, come aveva previsto il testo del Senato (ma non quello originario del Governo).
L'altro aspetto per cui si attende da Delrio un'indicazione è come debba essere prodotta la «soft law», a quale condizione essa possa procedere senza trovare ostacoli di legittimità generale e come possa essere ricondotta a coerenza l'enorme mole di poteri affidati all'Autorità nazionale anticorruzione, che, dopo i poteri di vigilanza, acquisirà quelli fondamentali di regolazione del settore e ora anche di regolamentazione.
La scuola di pensiero che oggi sembra prevalere è che il regolamento dovrebbe essere sostituito da una o più linee guida generali dell'Anac, approvate subito dopo l'entrata in vigore del codice. Una sorta di regolamento semplificato e flessibile che poi sarebbe a sua volta attuato con linee-guida di settore.
Non è escluso che i tempi lunghi dell'emendamento governativo siano dati anche dalla necessità di stabilire un coordinamento con l'Autorità Anticorruzione che ha fatto già sapere di essere in grado di far fronte al nuovo compito, ma ha bisogno di conoscere anche le modalità in cui esso sarà esercitato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Verbali stradali, salgono le spese. Notifiche, da oggi via agli aumenti.
Da oggi, le spese di accertamento e notifica sui verbali di violazione al codice della strada, accertate dalla Polizia Stradale, passano a 15,23 euro. Somme che, a seguito di intervenute modifiche normative o sulla base di maggiori o minori costi di accertamento, potranno essere rideterminate con successivi provvedimenti.

È quanto si prevede nel testo del dm Interno 08.07.2015 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 214 di ieri con cui si determinano i nuovi importi a carico dei trasgressori di norme del Codice della strada, quando tali violazioni sono accertate dal personale della Polizia di stato.
Pertanto, a partire dal 16.09.2015, i verbali di accertamento conteranno, oltre all'importo della sanzione amministrativa, anche la somma di 15,23 euro quale spesa di notifica, i cui costi sono anticipati da Poste Italiane. Il dm specifica, altresì, che entro il 30 novembre e il 31 maggio di ogni anno il Servizio Polizia Stradale provvede a verificare le spese di accertamento e di notifica dei verbali di contestazione dovute a Poste, così da assicurare l'idonea copertura economica delle suddette attività.
Con tali somme, si leggo e nel decreto, si rimborsa la società Poste Italiane per la fornitura degli adeguamenti dei software, già nella disponibilità della Polizia Stradale, nonché per i costi relativi all'hardware e al software di base necessari a supportare tali applicativi.
Sotto questo profilo, il dm in osservazione, prevede inoltre che i vertici della Polstrada potranno segnalare una rideterminazione degli importi dovuti a titolo di spese di notifica, alla luce di intervenute modifiche normative, ovvero sulla base dei maggiori o minori costi di accertamento per il responsabile del pagamento, derivanti dalle innovazioni tecnologiche e dall'applicazione di nuove soluzioni informatiche ai servizi resi da Poste Italiane alla stessa Polizia Stradale (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Disabili, nuovi contrassegni. Niente sanzioni.
Da ieri non si possono più utilizzare i vecchi contrassegni arancioni che agevolano la circolazione e la sosta delle persone invalide. Ma i comuni che non hanno ancora adeguato la segnaletica stradale con i nuovi simboli blu europei non rischiano sanzioni. Purché gli impianti siano ancora dignitosi e comprensibili.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere n. 3630/2015.
Il dpr 151/2012 ha introdotto novità per i veicoli al servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art. 381 del regolamento stradale. Il nuovo contrassegno, di colore blu, deve essere esposto sempre in originale nella parte anteriore del veicolo in modo chiaramente visibile per consentire i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati. L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili.
Per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il simbolo della carrozzella diventa blu. La sostituzione del vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica dovevano però completarsi entro il 14.09.2015. Per questo motivo un comune ritardatario ha richiesto chiarimenti al ministero.
A parere dell'organo centrale è consentito mantenere in opera, temporaneamente, anche la segnaletica obsoleta purché ancora comprensibile. In buona sostanza il comune non rischia multe (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, Madia firma il decreto sulla mobilità. Ora il testo andrà alla corte conti e poi in g.u..
Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha firmato il decreto ministeriale sulla mobilità del personale delle province. Il provvedimento sarà quindi inviato alla Corte dei conti per poi essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. E a quel punto scatterà il cronoprogramma, fissato dal provvedimento, che porterà i 18 mila dipendenti provinciali in sovrannumero ad accasarsi presso altri enti (in primis regioni e comuni, ma anche enti del Servizio sanitario nazionale, mentre per quanto riguarda le amministrazioni statali il principale ricettore dei dipendenti provinciali sarà il ministero della giustizia).
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov» gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i dipendenti in sovrannumero (compreso il personale di polizia provinciale e i dipendenti della Croce rossa italiana) avranno 30 giorni di tempo per presentare le istanze di mobilità in relazione all'offerta di posti, compilando il modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov». Al fine di favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo schema di decreto prevede una serie di criteri.
I dipendenti in comando o fuori ruolo verranno prioritariamente assegnati alle amministrazioni in cui prestano servizio. Analogamente, la polizia provinciale verrà prioritariamente destinata ai comuni con funzione di polizia locale, mentre al ministero delle infrastrutture andranno coloro che nelle province si occupavano della gestione degli albi provinciali degli autotrasportatori.
A parte questi criteri particolari, regola generale sarà l'assegnazione dei dipendenti in sovrannumero alle regioni e agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e quelli del Ssn. Per i lavoratori della Croce rossa, la mobilità sarà verso le amministrazioni statali con priorità per il ministero della giustizia. Sul piano individuale sarà favorito chi gode dei benefici della legge 104/1992 e chi ha figli fino a tre anni di età.
Sul provvedimento, come si ricorderà, non è stata raggiunta l'intesa in Conferenza unificata. Ma ciononostante il 4 settembre scorso il consiglio dei ministri ha deciso di «autorizzare» ugualmente il ministro Madia «a dare corso alla definizione dei criteri per la mobilità del personale dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta dichiarati in sovrannumero» (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARIAccensione caldaie per zone. Deroghe con i contabilizzatori che consentono di regolare la temperatura.
Impianti. Entro poche settimane in funzione in buona parte d’Italia con vincoli di orari giornalieri.

Tra un mese, in buona parte d’Italia, si accenderanno le caldaie nei condomìni con impianto centralizzato. Un appuntamento fondamentale per l’economia, dato che uno studio della Ue sul piano di efficienza energetica 2011 ha sottolineato che gli immobili rappresentano il 40% del consumo finale di energia dell’Unione. Inoltre, gli edifici sono stati ritenuti fondamentali per conseguire l'obiettivo dell’Unione di ridurre dell’80-95% le emissioni di gas serra entro il 2050 rispetto al 1990.
Presso ogni impianto termico centralizzato, che serva quindi almeno due unità immobiliari residenziali e assimilate, il proprietario o l'amministratore devono esporre una tabella contenente:
- l’indicazione del periodo annuale di esercizio dell'impianto termico e dell'orario di attivazione giornaliera prescelto;
- le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto termico;
- il codice dell’impianto assegnato dal Catasto territoriale degli impianti termici istituito dalla Regione o Provincia autonoma.
Non in tutta Italia è possibile mettere in funzione l'impianto di riscaldamento nello stesso giorno. Il legislatore ha infatti suddiviso l’Italia in sei zone climatiche (si veda la scheda qui a lato). E per ciascuna di esse è stata stabilita la durata giornaliera di accensione. La maggioranza del territorio ricade, nel Centro-Nord, in zona E o D, mentre al Sud in zona B e C; in zona F è l’arco alpino e in zona A pochi Comuni delle isole meridionali.
Al di fuori di tali periodi, gli impianti termici possono essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche che ne giustifichino l'esercizio e, comunque, con una durata giornaliera non superiore alla metà di quella consentita in via ordinaria. I sindaci, con propria ordinanza, possono ampliare o ridurre, a fronte di comprovate esigenze, i periodi annuali di esercizio e la durata giornaliera di attivazione, nonché stabilire riduzioni di temperatura ambiente massima consentita sia nei centri abitati sia nei singoli immobili.
Nell’arco temporale indicato, i condomìni possono scegliere gli orari di funzionamento purché lo stesso sia compreso tra le ore 5 e le ore 23.
È però consigliabile non interrompere il funzionamento. Il maggior dispendio di energia (e quindi il maggior costo) si ha infatti con l’accensione per portare l'acqua alla temperatura utile. Per il resto della giornata vi è dunque solo la necessità di mantenere tale temperatura. Lo spegnimento della caldaia durante il giorno per alcune ore non porta quindi a un risparmio ma a un maggior costo.
Negli edifici a uso residenziale, sono però ammesse deroghe al funzionamento dell’impianto di riscaldamento per quanto riguarda la durata giornaliera. Tra le principali vengono indicate le seguenti:
se il calore proviene da centrali di cogenerazione oppure se vi siano pannelli radianti incassati nell'opera muraria;
se vi è un gruppo termoregolatore pilotato da una sonda di rilevamento della temperatura esterna con programmatore che consenta la regolazione almeno su due livelli della temperatura ambiente nell'arco delle 24 ore; la temperatura negli ambienti deve essere pari a 16°C + 2°C di tolleranza nelle ore al di fuori della durata giornaliera;
se in ogni unità immobiliare sia installato un sistema di contabilizzazione del calore e un sistema di termoregolazione della temperatura con un programmatore che consenta la regolazione almeno su due livelli della temperatura nell'arco delle 24 ore;
se l’impianto termico è condotto mediante “contratto di servizio energia” purché la temperatura negli ambienti, durante le ore al di fuori della durata di legge, non siano superiori ai 16°C + 2°C di tolleranza.
Si consideri, infine, che entro il 31.12.2016 tutti gli edifici nei quali vi è un impianto centralizzato, ove tecnicamente possibile e se vi sia un buon rapporto costi/benefici, dovranno essere dotati di sistemi di contabilizzazione e termoregolazione.
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Non si possono superare i 22 gradi. Comfort. Nulle le delibere in contrasto.
Negli edifici a carattere residenziale, durante il funzionamento dell'impianto di riscaldamento (prodotto da impianti sia centralizzati sia autonomi), la media delle temperature dell'aria, misurate nei singoli ambienti riscaldati di ciascuna unità immobiliare, non deve superare i 20°C + 2°C di tolleranza (si veda la scheda nella pagina).
È nulla (quindi impugnabile in ogni tempo) la delibera condominiale che dovesse decidere di tenere una temperatura più elevata.
L’impianto termico condominiale, quindi, deve essere in grado di erogare tale calore. In caso contrario, il condòmino che non riuscisse ad avere la temperatura di legge nella propria unità immobiliare, può provocare una delibera attinente agli eventuali interventi necessari per la piena funzionalità dell’impianto. Nel caso in cui l’assemblea non deliberasse le opere necessarie, può rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che obblighi il condominio ad adottare quanto necessario per sopperire guasti o deficienze dell’impianto ed eventualmente, ove ne ricorrono i presupposti, richiedere il risarcimento del danno.
Nel frattempo, però, non può sospendere il pagamento degli oneri condominiali lamentando il disservizio. Il condominio, d’altro canto, non può pretendere che per ovviare al malfunzionamento il condomino stesso sia tenuto ad effettuare interventi a proprie spese nella suo appartamento (Cassazione sentenza 19616/2012).
La norma, però, non va intesa nel senso che anche i condòmini siano costretti a tenere questa temperatura nelle proprie unità immobiliari. Le leggi in materia di contenimento dei consumi energetici e di riduzione dello scarico in atmosfera dei prodotti della combustione (gas ad effetto serra) incentivano la riduzione della temperatura negli ambienti.
Il Dlgs 04.07.2014 n. 102, all’articolo 9, comma 5, prevede che ciascuno sia tenuto a contribuire ai costi per il riscaldamento solo per il calore che effettivamente ha prelevato dai termosifoni (oltre a una quota fissa riferita alle dispersioni e alle spese generali per la manutenzione dell’impianto). Ne consegue che per risparmiare danari o perché l’alloggio non è abitato, i condomini potranno tenere le valvole termostatiche parzialmente o totalmente chiuse, con conseguente minore temperatura nell’appartamento.
I condomini confinanti che devono prelevare maggior calore dai propri termosifoni per compensare quel calore che viene ceduto agli alloggi freddi, non possono pretendere nulla né dal vicino né nei confronti del condominio in sede di ripartizione della spesa complessiva del riscaldamento mediante l’adozione dei cosiddetti coefficienti correttivi. Questi, infatti, sono vietati dalla legge, anche per quegli appartamenti posti all’ultimo piano o a Nord.
Nemmeno un regolamento avente natura contrattuale (allegato al primo atto di vendita e richiamato per accettazione in tutti i successivi) potrà prevedere “compensazioni” o obblighi di tenere una determinata temperatura negli alloggi. Lo stesso, infatti, sarebbe contrario a norme imperative.
Nel caso in cui in un’unità immobiliare dovessero passare le tubazioni della rete di distribuzione che porta il calore negli altri alloggi, non potrà essere richiesto alcun pagamento al condomino. Infatti, l’attraversamento della proprietà individuale non determina alcuna appartenenza, ma semmai implica una servitù a carico dell’appartamento interessato (Tribunale Milano, sezione XIII, sentenza del 26.01.2012)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova «pagella verde» per gli immobili. Dal primo ottobre cambiano calcoli e documenti per misurare i consumi.
Efficienza energetica. Ape obbligatorio per affittare o vendere l’immobile ma i vecchi certificati sono validi se non si eseguono lavori.

Dopo tre mesi di rodaggio, per adeguarsi al sistema, il nuovo modello di attestato energetico per gli immobili è pronto a entrare in vigore: dal 1° ottobre cambiano le modalità per la compilazione dell’attestato di prestazione energetica (o Ape) degli edifici e delle unità immobiliari.
La normativa di riferimento, che modifica il Dlgs 192/2005 e attua in Italia la direttiva europea 2010/31/Ue, è contenuta nelle linee guida emanate dal ministero dello Sviluppo economico lo scorso 26 giugno (pubblicate sulla Gazzetta n. 162/2015). Il nuovo «certificato» che attesta i consumi energetici dell’immobile è composto da cinque pagine, suddivise in due parti: una prima più generica, di facile comprensione per tutti, dove viene indicata la classe energetica dell’immobile, l’indice di prestazione energetica globale (da energia non rinnovabile e rinnovabile) e dove sono riportate le raccomandazioni per migliorare l’efficienza dell’edificio attraverso gli interventi più significativi ed economicamente convenienti. Nella seconda parte si trovano informazioni più di dettaglio e di maggior contenuto tecnico, utili agli addetti al lavori per una conoscenza più approfondita dell’edificio o dell’appartamento.
Cosa cambia
Anche se nella denominazione l’attestato di prestazione energetica ha sostituito ormai da due anni il vecchio attestato di certificazione energetica (Ace) fino ad oggi, di fatto, le modalità di compilazione erano rimaste ferme al passato. Ora si cambia. Innanzitutto, aumenta il numero dei servizi energetici presenti in casa che vengono presi in considerazione ai fini dell’esame di efficienza: oltre alla climatizzazione invernale e alla produzione di acqua calda sanitaria, vengono esaminati –se presenti– la climatizzazione estiva e la ventilazione meccanica.
Per gli edifici terziari si tiene conto anche dell’illuminazione e dei servizi di trasporto a persone o cose (ascensori e montacarichi). Non solo. Dal 1° ottobre, la performance del fabbricato o dell’alloggio è ricavata confrontando l’unità con il cosiddetto edificio standard, un fabbricato “ombra” in tutto e per tutto analogo al progetto reale, ma progettato in condizioni ottimali. Come in passato, il giudizio finale è espresso in classi di merito identificate da lettere, dalla A (la più virtuosa) alla G.
I livelli complessivi sono 10 (prima erano sette): i primi quattro fanno tutti riferimento alla lettera A, con quattro gradazioni, da A4 (il più efficiente) ad A1.
Ultima novità di rilievo è che decadono i sistemi regionali per il calcolo delle prestazioni dell’edificio. Pregio della nuova norma, infatti, è essere riuscita infatti a far dialogare le Regioni, riportando la metodologia di esame delle prestazioni a un unico sistema nazionale, con poche eccezioni.
Per chi è obbligatorio
La nuova targa energetica è composta secondo le nuove regole in tutti i casi di nuova costruzione o risanamento di uno stabile già esistente. Nei casi di vendita o affitto dell’unità immobiliare l’attestato è prodotto secondo il nuovo modello solo se non è già presente un vecchio Ape o Ace ancora in corso di validità (il documento ha una vita di 10 anni, salvo lavori di ristrutturazione tali da modificare le prestazioni energetiche del fabbricato).
Per chi dovrà rifare l’Ape (non a fronte di lavori di recupero, ma per naturale scadenza), uno dei risvolti (forse non graditi) nel passaggio dal sistema regionale a quello unico nazionale sarà la possibilità che si verifichino “declassamenti”. In pratica, la casa, che magari era stata venduta come performante e in classe A secondo la scala adottata dal territorio di riferimento, potrebbe finire bruscamente in classe B.
Le sanzioni
Se in passato la verifica sugli attestati è sempre stata blanda, dal prossimo mese i controlli scatteranno d’obbligo da parte delle Regioni almeno sul 2% degli Ape, a partire da quelli che dichiarano classi più efficienti. Se manca l’attestato per gli edifici di nuova costruzione e per quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o il proprietario sono puniti con una sanzione amministrativa che parte da un minimo di tremila euro, ma può arrivare fino a 18mila.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la nullità dell’atto di trasferimento dell’immobile o del contratto di affitto.
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L’attestato trova lo standard unico. L’iter. Stop ai diversi sistemi regionali.
Una delle principali novità che scatteranno con l’entrata in vigore del nuovo attestato di prestazione energetica sarà il ritorno a un sistema di calcolo unico, nazionale, per arrivare alla definizione delle performance energetiche dell’edificio e dunque all’attribuzione delle classi di merito.
Il lavoro per il ritorno all’omogeneità, anche dove erano stati sviluppati negli anni passati sistemi regionali di certificazione, è partito da settimane: la prospettiva è una semplificazione per i cittadini che devono far redigere la targa energetica.
Dal 1° ottobre, ad esempio, il modello di Ape sarà conforme a quello nazionale anche in Lombardia, la Regione che più di altre aveva tenuto in passato una linea autonoma. A stabilirlo è una delibera, la n. 3868 del 16.07.2015. L’attestato –che in questa Regione è necessario anche per gli immobili senza impianti– sarà ritenuto valido tuttavia solo se prodotto attraverso l’utilizzo del software Cened+2.0 (la versione beta è già disponibile online) o di un software commerciale che però abbia ricevuto il via libera da parte di Infrastrutture Lombarde (la società che gestisce l’accreditamento locale). Ogni targa energetica continuerà, inoltre, a prevedere un costo di emissione di 50 euro. Infine, sul territorio amministrato dalla Giunta Maroni, continueranno a poter rilasciare gli Ape solo le persone fisiche e non le società.
Nessuna differenza fra il sistema nazionale e quello regionale, invece, in Emilia Romagna, dove la Regione ha recepito in estate le linee guida con la Dgr 967 del 20.07.2015. Stessa linea quella che dovrebbe essere adottata dal Piemonte, dove da qualche tempo è stata abrogata la legge 13/2007, che dettava la metodologia per la certificazione energetica degli edifici e dove sta per uscire una delibera di recepimento del Decreto del 26 giugno scorso.
L’unica eccezione a un quadro di generale uniformità arriva dalle Province autonome. La Provincia di Bolzano, che con il sistema Casaclima ha dimostrato da tempo di aver recepito interamente la direttiva comunitaria 2010/31/Ue, potrà mantenere attivo (come prescrive lo stesso decreto di giugno) un proprio sistema, che pur deve essere il più possibile reso vicino a quello statale. Ciò significa che, in Alto Adige, gli Ape continueranno a seguire il sistema locale, che già tiene conto per il residenziale delle performance dell’edificio per la climatizzazione estiva dell’immobile e della ventilazione meccanica dello stesso.
In Provincia di Trento, dove il metodo di calcolo da sempre è quello nazionale della norma Uni, è infine in corso una verifica per capire se sia possibile o meno mantenere un sistema peculiare di attribuzione delle classi, che (come già in passato) si basa sul consumo effettivo di energia, anziché sul raffronto con l’edificio tipo. «Una riflessione –spiegano dagli uffici tecnici– che è in corso e che presto definiremo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, sul personale niente risparmi nel 2015. Senza la ridefinizione delle funzioni in tutte le Regioni non partono gli elenchi nominativi degli «esuberi».
Riforma Delrio. Gli enti che hanno stanziato solo parte delle risorse in previsione dei trasferimenti devono rivedere i conti per garantire gli stipendi.

Quali speranze hanno i dipendenti della provincia di vedere la conclusione della loro vicenda? Potranno trovarsi, un giorno, tranquilli, anche se presso un diverso datore di lavoro?
I dubbi sono oggi più che legittimi in quanto, rispetto alla tabella di marcia disegnata dal Governo, i tempi si stanno allungando parecchio. Uno dei primi passi per poter dar corso all’incontro fra domanda e offerta di lavoro prospettato dalla Funzione pubblica è rappresentato dall’atto, adottato dalle amministrazioni provinciali, con il quale vengono individuati nominativamente i dipendenti da considerare in soprannumero. Ma quale è il dirigente che si prende la responsabilità, oggi, di adottare questa determina?
Tuttora, ci sono elementi che incidono su questa scelta e che non risultano delineati. Per poter procedere alla compilazione dell’elenco nominativo è necessario che vengano individuate le funzioni che restano in capo agli enti di area vasta, siano esse fondamentali oppure delegate dalle regioni. In sostanza, serve la legge regionale con la quale si individuano i compiti che le stesse amministrazioni si riservano di svolgere direttamente e quelle che invece scelgono di ri-delegare agli enti di area vasta. In questo modo, sono quantificati i dipendenti che vengono trasferiti e quelli che restano nei ruoli delle ex Province.
Molte regioni non hanno ancora provveduto in tal senso, e per questa ragione il processo è bloccato. Anche nell’ipotesi in cui questa fase dovesse subire un’improvvisa accelerazione, magari per effetto delle sanzioni introdotte dal decreto enti locali per le Regioni che non chiuderanno la procedura entro fine ottobre, lo stop verrebbe dalla mancanza dei criteri sulla mobilità, previsti dal comma 423 della legge di stabilità 2015. Infatti, mentre è stato approvato il decreto con il quale sono fissate le tabelle di equiparazione fra le categorie dei diversi comparti pubblici, il provvedimento sui criteri è stato esaminato in sede di conferenza unificata (e anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio), ma non ha ancora visto il varo definitivo. È evidente che, in assenza di regole, la procedura non può essere portata a termine.
Ne consegue che il calendario delle operazioni inevitabilmente slitta. Ma questo procrastinarsi non è del tutto indolore. Sorge, innanzitutto, il problema di dare certezza allo stipendio dei dipendenti ex provinciali. Le norme garantiscono loro, in caso di mobilità, il trattamento fondamentale e il salario accessorio, limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa. Stante l’assenza di una definizione, a livello sia normativo sia contrattuale, di tali caratteristiche, la battaglia sarà inevitabile. Ancora, questo salario accessorio non ha trovato, ad oggi, un suo pacifico e condiviso finanziamento, a causa delle incertezze che le norme di riferimento hanno creato sul tema.
Superate anche queste perplessità, la bozza di provvedimento sui criteri della mobilità disegna un cronoprogramma che, nella migliore delle ipotesi, di pubblicazione del decreto nei prossimi giorni, vede la conclusione del processo alla fine dell’anno, bruciando, di fatto, la prima annualità del biennio 2015-2016 a disposizione. Questo significa che, per l’anno corrente, gli stipendi di tutti i dipendenti delle ex Province, compresi quelli dichiarati in soprannumero, devono trovare spazio nei bilanci degli enti di area vasta.
E non è così scontato che questi bilanci reggano. Gli input che provenivano dalla Funzione pubblica a inizio anno avevano fatto ipotizzare che i trasferimenti del personale in esubero potessero avvenire attorno alla fine del primo semestre 2015 o, al massimo, in autunno. L’aver previsto la spesa solo per una parte dell’anno, magari per poter far quadrare un bilancio che sopportava tagli non indifferenti, mette a rischio le casse degli enti di area vasta.
Inevitabili sono, quindi, interventi che, da un lato, aumentino gli stanziamenti di bilancio per gli stipendi dei dipendenti e dall’altro, allarghino l’arco temporale dal biennio al triennio, includendo anche il 2017. Forse non a caso, la scorsa primavera, la Funzione pubblica ha chiesto alle singole amministrazione anche le cessazioni dal servizio del 2016.
Una cosa è certa: la storia insegna che, spesso, le proroghe sono state il viatico per far naufragare ovvero posticipare sine die intere operazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’impasse blocca anche i Comuni. Effetto domino. Le conseguenze dell’obbligo di riservare gli spazi assunzionali agli ex provinciali.
I Comuni e le Regioni possono effettuare pochissime assunzioni a tempo indeterminato nel 2015; ciò sta determinando problemi assai pesanti in numerosi municipi di piccola e media dimensione dove si sono avute cessazioni di personale che occupava posizioni strategiche (quali ad esempio i responsabili dei settori finanziari, dei lavori pubblici, dei servizi sociali) e che non possono rimpiazzarli se non a tempo determinato.
Le assunzioni del 2015 e del 2016 sono dalla legge di stabilità 2015 riservate al personale degli enti di area vasta collocati in sovrannumero. Ma sono pochissime le realtà in cui queste dichiarazioni sono state rese.

Lo schema di Dpcm sui criteri dei trasferimenti che doveva essere approvato entro la scorsa primavera è stato adottato nei giorni scorsi dal Governo.
Ma ciononostante ci vuole del tempo alle Province delle regioni che legifereranno (forse, visto che la norma statale solleva dubbi di legittimità costituzionale) nelle prossime settimane, per individuare il personale in eccedenza.
E dal momento in cui il Dpcm sui trasferimenti sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» ci vogliono almeno quattro mesi perché il personale in sovrannumero degli enti di area vasta possa essere effettivamente trasferito ai Comuni oppure alle Regioni.
Con il Dl 78/2015 le assunzioni a tempo indeterminato di vigili urbani sono bloccate in attesa della messa in disponibilità di quelli provinciali.
È in discussione che si possano effettuare assunzioni in mobilità, anche di personale delle Province. Per la Funzione Pubblica e gli Affari Regionali (circolare n. 1/2015) le mobilità volontarie possono essere effettuate, fino a che non sarà stata attivata l’apposita piattaforma telematica, purché riservate al personale degli enti di area vasta.
Ma la successiva deliberazione n. 19/2015 della sezione Autonomie della Corte dei Conti ha limitato questa possibilità solamente al personale degli enti di area vasta collocato in esubero. Il che produce, in pratica, l’effetto che questo strumento può essere utilizzato in misura molto limitata.
Lo strumento di maggiore rilievo che rimane ai Comuni è l’utilizzazione per assunzioni con procedure ordinarie dei risparmi derivanti dalle cessazioni degli anni dal 2011 al 2014 che non sono stati già spesi per finanziare nuove assunzioni.
Questa possibilità si può considerare acquisita sulla base delle indicazioni del Dl 78/2015 e del parere della sezione Autonomie della Corte dei Conti n. 26/2015, ma produce effetti solamente per un numero ridotto di amministrazioni locali.
I Comuni possono inoltre dare corso ad assunzioni di personale in possesso di specifici titoli abilitanti da destinare ai servizi educativi e scolastici, per profili non esistenti tra quelli degli enti di area vasta. Questa possibilità si può, sulla base del parere della sezione autonomie della Corte dei Conti n. 19/2015, estendere a tutti i profili che non esistono negli enti di area vasta.
Le ultime possibilità di assunzione che restano ai Comuni e alle Regioni sono le seguenti due.
In primo luogo, l’assunzione di personale appartenente alle categorie protette per coprire le quote minime obbligatorie.
E infine, possibilità ammessa implicitamente dal parere n. 26/2015 della sezione autonomie della Corte dei Conti, di trasformazione a tempo pieno del personale assunto su posti in part-time. Cioè, tutto sommato, assunzioni in misura assai ridotta
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per la polizia trasferimenti automatici in deroga ai vincoli su spese e ingressi. Decreto enti locali. Da rispettare i limiti di fabbisogno e organici.
La mobilità dei dipendenti degli enti territoriali è ormai un concetto estremamente flessibile. Se fino a qualche mese fa i casi si potevano ricondurre al massimo a tre fattispecie, l’obbligo di riassorbimento dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta ha mescolato le carte e gli enti si trovano in un vero e proprio labirinto.
Alla luce delle diverse interpretazioni, come la circolare n. 1/2015 della Funzione pubblica o le deliberazioni n. 19 e 26 della Corte dei conti Sezione Autonomie, non si riesce, ad esempio, a conciliare il concetto di «nuova assunzione» con il principio di «neutralità» da sempre posto in capo alle procedure di mobilità. Ma non solo. L’evoluzione dell’istituto transita anche da trasferimenti forzati come nel caso della polizia locale, destinate ad accogliere obbligatoriamente i dipendenti della polizia provinciale.
Entro il 31 ottobre prossimo, infatti, le Province hanno l’obbligo di individuare quali lavoratori appartenenti al corpo rimarranno a propria disposizione per altre attività; dopo questo termine i dipendenti in soprannumero o non individuati transiteranno presso gli enti locali, all’interno delle funzioni di polizia locale. Si tratta, di un’ulteriore complicazione rispetto alla già difficile partita da giocarsi sull’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Questa disposizione chiede ai Comuni di vincolare la capacità assunzionale per gli anni 2015 e 2016 a favore dei dipendenti degli enti di area vasta. Prima di attivare le procedure concorsuali o di scorrere le graduatorie per assumere gli idonei, è necessario utilizzare il turn-over per il riassorbimento dei lavoratori di Province e Città metropolitane.
Per la polizia locale, però, la questione si fa più drastica. Infatti, fino a quando non vi sarà il totale passaggio dei dipendenti della polizia provinciale, è fatto divieto agli enti locali di procedere ad assunzione di qualsiasi tipo per la medesima funzione, fatta eccezione per le esigenze di stagionalità valutata per un massimo di cinque mesi per anno solare. Con un’aggravante: per la polizia locale non sarà neppure possibile attingere ai “resti” della capacità assunzionale degli anni precedenti, che la Corte dei Conti Sezione Autonomie, con la deliberazione n. 26/2015 ha sdoganato rendendoli liberi da ogni vincolo.
Siamo così di fronte all’ennesimo trasferimento di mobilità imposto dal legislatore. Per la polizia locale, questa procedura potrà avvenire nel rispetto della dotazione organica e del fabbisogno di personale, ma in deroga alle disposizioni in materia di limitazioni alle spese e alle assunzioni di personale.
Riassumendo: le procedure di mobilità volontaria possono essere attivate in tutti i settori dell’ente (polizia locale esclusa), esclusivamente nei confronti dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta erodendo, a questo punto, capacità assunzionale; è possibile, come indicato dalla nota 20506/2015 della Funzione pubblica, la mobilità per interscambio e questa dovrebbe rimanere «neutra»; i dipendenti della polizia provinciale in soprannumero transiteranno obbligatoriamente negli enti locali in barba ad ogni regola su spese e assunzioni.
Il nodo mobilità, quindi, non è per niente risolto e neppure il decreto con le tabelle di equiparazione viene in aiuto. I tempi, peraltro si allungano, ed è difficile credere che le cose si sistemeranno entro il 2016 come prevede la normativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ciascun rifiuto ha una gestione. Focus su toner, Raee, pile, parti di veicoli e vegetali. Precisazioni da Minambiente, Arpa e Corte di cassazione su regole per specifici residui.
Dalla gestione dei toner aziendali esauriti alla raccolta in aree urbane di residui vegetali, passando per il commercio di oggetti in disuso ad alto potenziale d'impatto ambientale.

Arrivano da Ministero dell'ambiente, Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana e Corte di cassazione gli ultimi chiarimenti in merito alle norme che disciplinano particolari categorie di rifiuti.
Toner esauriti. Affinché un'azienda sia esonerata dagli oneri imposti dal Codice ambientale per la gestione dei toner esauriti delle proprie stampanti occorre che essa affidi a terzi tramite regolare contratto l'intero ciclo della manutenzione delle apparecchiature, dalla sostituzione delle cartucce al loro ritiro e trasporto, senza procedere a deposito in loco. Diversamente, essa azienda soggiace agli obblighi formali e sostanziali previsti dal dlgs 152/2006 in funzione delle attività poste in essere su tali rifiuti speciali e alla natura pericolosa o meno degli stessi, obblighi che possono andare dal tracciamento dei residui tramite scritture ambientali al rispetto delle regole sul loro deposito (anche se effettuato con i noti «ecobox»).
È quanto si evince dalla nota 30.06.2015 n. 7692 di prot. elaborata dal Minambiente in risposta a un quesito sulla portata dell'articolo 266, comma 4, del citato decreto, a mente del quale: «I rifiuti provenienti da attività di manutenzione ( ) si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività», norma che consente dunque in via di principio al titolare delle apparecchiature da cui detti rifiuti derivano di spostare su terzi i citati oneri ambientali.
Al riguardo il dicastero indica come le condizioni per invocare l'applicazione della norma siano: l'esistenza di un valido contratto stipulato tra committente e terzo manutentore; l'essere l'attività commissionata svolta esclusivamente e interamente dai tecnici dall'impresa di manutenzione; il comprendere tale attività sia il mantenimento delle stampanti (sostituzione delle cartucce compresa) che il contestuale trasporto dei rifiuti coincidenti con i toner esauriti verso la destinazione di trattamento. Rispettate tali condizioni, chiarisce il dicastero, nella documentazione per il trasporto dei rifiuti dovrà dunque essere indicato quale produttore l'impresa di manutenzione, evidenziando nelle note il luogo in cui si è svolta fisicamente l'attività.
È utile in tale contesto ricordare come alla luce della riformulata definizione di «produttore di rifiuto» ex dlgs 152/2006 in vigore dallo scorso luglio (e in base alla quale è tale anche «il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione») sia altresì diventata condizione necessaria per evitare di concorrere nell'eventuale reato di gestione illecita di rifiuti posta in essere dal soggetto affidatario della manutenzione la verifica da parte dell'azienda committente sia sulla sussistenza in capo a quest'ultimo delle necessarie autorizzazioni ambientali che sul buon fine della destinazione finale dei residui.
Commercio ambulante. Batterie usate, apparecchiature elettriche ed elettroniche non funzionanti, parti meccaniche di veicoli così come oggetti in disuso anche presumibilmente contenenti sostanze pericolose non possono essere raccolti e trasportati dai cosiddetti «robivecchi» senza onorare gli obblighi previsti dal Codice ambientale.
Con la sentenza 17.08.2015 n. 34917 la Corte di Cassazione, Sez. III penale ha, infatti, precisato come per tali materiali non valga il regime derogatorio previsto dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, in base al quale: «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 (obblighi di denuncia annuale rifiuti, tenuta dei registri di carico/scarico, formulario di trasporto, iscrizione all'Albo gestori ambientali, ndr) non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Il giudice di legittimità ha sottolineato come tale deroga sia infatti giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la salute e per l'ambiente operata dal legislatore in relazione alle attività in parola e non può dunque essere applicata alla gestione di materiali (come i citati) oggetto di puntuale disciplina. Per questi, specifica la Corte, non solo vanno osservate le regole direttamente richiamate dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, ma anche tutte le altre disposizioni dettate dalle speciali norme di settore (come il dlgs 49/2014 sui Raee, il dlgs 188/2008 sulle pile, quelle dello stesso Codice ambientale sui rifiuti pericolosi e quelle sui veicoli fuori uso previste dal dlgs 152/2006 unitamente al dlgs 209/2003). Dalla sentenza della Suprema corte appare altresì evincibile come tali oggetti non possano dunque essere eventualmente offerti in vendita tal quali dagli stessi soggetti tramite bancarelle o banchi dei propri negozi.
L'abilitazione di cui parla il citato articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006 è, infatti, quella prevista dal dlgs 114/1998 che ammette il commercio ambulante esclusivamente nell'ambito del commercio al dettaglio, ossia indirizzato ai consumatori, i quali (essendo diversi dai professionisti) non dispongono della necessaria autorizzazione al trattamento dei rifiuti.
Residui naturali da eventi atmosferici. Nelle aree urbane, sia pubbliche che private, è possibile gestire fuori dal regime dei rifiuti la raccolta di legno e altri residui naturali generati da particolari eventi di origine non antropica.
È l'Agenzia regionale per protezione ambientale della Toscana con un comunicato pubblicato il 27.08.2015 sul proprio portale internet a dare alcuni utili chiarimenti sul regime di favore introdotto nel 2014 nell'articolo 183, comma 1, lettera n), del Codice ambientale, nel tenore del quale «Non costituiscono attività di gestione dei rifiuti le operazioni di prelievo, raggruppamento, cernita e deposito preliminari alla raccolta di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene, anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario, presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno depositati».
L'Arpa ha individuato quali condizioni per l'applicazione dell'istituto in parola le seguenti: deposito mono-materiale dei residui naturali identificati tramite la preliminare cernita (separato dunque da quello degli eventuali materiali di origine antropica, che restano rifiuti, e identificabile quale deposito temporaneo ex dlgs 152/2006); rispetto della tempistica prevista dal Codice ambientale, eventualmente declinata dagli Enti pubblici di competenza per determinate fattispecie (come l'organizzazione per la rimozione dei materiali depositatisi su spiagge a causa di mareggiate o prima dell'inizio della stagione balneare). Non è contemplata, ricorda infine l'Arpa, la possibilità di abbruciamento di tali residui legnosi in situ.
Ciò evidentemente, in quanto le descritte disposizioni derogatorie ex articolo 183, comma 1, lettera n) del Codice ambientale si pongono come regime fondato su presupposti (si pensi alla possibile presenza di materiale antropico nei residui) e scopi (di ripristino dei luoghi interessati dai fenomeni atmosferici) diversi rispetto a quelli sottesi alle apparentemente analoghe regole di favore per gli scarti vegetali previste dalle altre disposizioni del dlgs 152/2006.
Le ipotesi di deroga previste dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 per la gestione dei residui verdi da aree agricole e forestali, così come quelle per la combustione degli analoghi scarti vegetali ex articoli 182, comma 6-bis, e 256-bis dello stesso Codice sono infatti giustificate dalla natura a monte esclusivamente naturale dei materiali e dalla finalità del loro riutilizzo nello stesso ambito produttivo (articolo ItaliaOggi Sette del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, a fine anno le liste per la mobilità. Enti locali. Pronto il decreto sui passaggi da una Pa all’altra.
Entro l’anno il ministero della Pubblica amministrazione elaborerà gli elenchi del personale delle Province in esubero e le liste dei posti liberi nelle altre Pa, a partire da Regioni e Comuni.
A prevederlo è la bozza del decreto sui criteri per la mobilità negli enti di area vasta (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 15 luglio) che sta ancora aspettando la registrazione della Corte dei conti e che verrà emanato nonostante il mancato accordo in conferenza unificata.
Al momento la prima scadenza è fissata per il 31 ottobre quando le Province dovranno fornire i dati sui dipendenti in soprannumero. Entro la stessa data infatti le Regioni dovranno avere definito le leggi con cui decidono le funzioni, e quindi i dipendenti, delle Province da assorbire in attuazione della riforma Delrio. Quanti non hanno trovato una collocazione nel passaggio devono essere quindi inseriti in elenchi ad hoc, da spedire al portale dedicato alla mobilità (www.mobilità.gov.it).
A quel punto tutte le altre Pa, centrali e locali, avranno tempo fino a fine novembre per indicare quanti e quali posti mettono a disposizione. Serviranno infine altri 30 giorni, e arriviamo così a fine 2015, al ministero della Pubblica amministrazione per pubblicare i posti a disposizione e l’elenco nominativo del personale in soprannumero. Personale che dovrà esprimere le sue preferenze entro fine gennaio. Altrimenti la Funzione pubblica a procedere unilateralmente
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, esuberi ancora al palo.
I trasferimenti dei dipendenti in sovrannumero delle province restano ancora al palo.

Il dpcm 26.06.2015, contenente la «Definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale» registrato dalla Corte dei conti e ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, non è in grado di risolvere i problemi posti dalla riforma delle province, che restano tutti sul tappeto e, anzi, si aggravano.
Mobilità al palo. Il Dpcm che tra breve entrerà in vigore da molti è considerato la chiave per aprire le procedure di mobilità intercompartimentale e sbloccare, quindi, la situazione dei circa 20 mila dipendenti provinciali in sovrannumero. Le cose non stanno così. Il Dpcm è utile solo per le tabelle di equiparazione nel caso di trasferimenti tra diversi comparti della p.a., ma di per sé non fornisce alcuna spinta al complicatissimo processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Del resto, in attesa che si avvii la piattaforma telematica per gestire la mobilità prevista da un altro Dpcm ancora fermo per l'opposizione delle regioni, i dipendenti provinciali avrebbero potuto senza alcuna necessità di tabelle di equiparazione passare a comuni e regioni, che fanno parte del medesimo comparto. Le mobilità tra province e altri enti locali, invece, ci sono state col contagocce, anche perché la gran parte delle province non ha formalmente approvato liste nominative dei propri dipendenti in sovrannumero.
Trattamento economico. Il Dpcm sulle tabelle di equiparazione garantisce ai dipendenti che passino da un'amministrazione all'altra «il trattamento economico fondamentale e accessorio ove più favorevole - limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Non si rispetta, per quanto riguarda i provinciali, la previsione di cui all'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014, che invece garantisce ai dipendenti provinciali l'intero trattamento economico, ponendone il finanziamento a carico delle province. Il governo ha inserito questa clausola che modifica l'assetto normativo consapevole che la legge 190/2014, avendo imposto un prelievo forzoso di 3 miliardi a regime alle province non consente di prelevare da esse le risorse per finanziare anche integralmente il personale da trasferire (la cifra si aggira intorno agli 840 milioni).
Tuttavia, è evidente che non essendo stato abolito l'articolo 1, comma 96, della legge Delrio ciascun dipendente ha un diritto fondato dalla legge a non vedersi decurtato lo stipendio e potrebbe rivolgersi giudizialmente avverso la provincia, per ottenere da questa il trasferimento delle risorse che finanziano il trattamento economico verso l'ente di destinazione. Anche in questo caso il rischio di un contenzioso incontrollabile è enorme e altrettanto grande è la probabilità di un salasso per le province.
Bandi in corso. C'è poi il problema dei bandi di mobilità in corso, quelli che ai sensi della circolare 1/2015 della Funzione pubblica si sono considerati legittimi se riservati ai dipendenti provinciali in sovrannumero.
Di particolare delicatezza è quello per 1031 posti presso il ministero della giustizia, la cui procedura si avvicina verso i colloqui selettivi. Oltre a non essere stato interamente riservato ai dipendenti provinciali, il bando e la connessa procedura sono particolarmente delicati perché hanno partecipato moltissimi dipendenti provinciali e di città metropolitane non formalmente inseriti nelle liste dei soprannumerari (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti poteri e può pretendere, se non vengano adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente.
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Se anche il proprietario finitimo può utilmente invocare l’esercizio, da parte degli organi preposti, dei poteri di accertamento e repressivi di abusi edilizi, a maggior ragione può farlo colui che vanta un diritto di proprietà sull’area interessata da questi ultimi, quand’anche detto diritto sia oggetto di contestazione, nella competente sede giurisdizionale civile.
Del resto un abuso edilizio (ove, in ipotesi, accertato) non perde certamente tale sua connotazione, per il solo fatto che esso sia stato realizzato dal proprietario dell’area, oggetto di una controversia giudiziaria.
Il soggetto –che agisce per l’affermazione del proprio diritto di proprietà, sulla medesima area– ben può, quindi, quale titolare di uno specifico interesse, tutelato dall’ordinamento, legittimamente diffidare i competenti organi amministrativi, e segnatamente gli uffici comunali, deputati al controllo dell’uso del territorio, a effettuare i dovuti accertamenti al riguardo, e conseguentemente ad adottare –ove gli abusi realmente sussistano– i provvedimenti repressivi, idonei allo scopo.

... per l’annullamento del silenzio, serbato dall’Amministrazione Comunale in ordine all’atto di diffida, con contestuale specificazione, del 19.12.2014, prot. n. 19035/2014, con cui si chiedeva, previo accertamento, d’adottare gli opportuni provvedimenti di competenza, nell’ambito della gestione dell’assetto urbanistico del territorio;
...
Il ricorso è fondato.
Vale, nella specie, il richiamo all’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo il quale: “Il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti poteri e può pretendere, se non vengano adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 17/01/2014, n. 233).
Il principio è sicuramente applicabile alla specie, a nulla rilevando, in contrario, la circostanza, riferita dallo stesso ricorrente, della pendenza di una controversia, in sede civile, circa la proprietà dell’area, sulla quale gli abusi edilizi sarebbero stati posti in essere.
Se, infatti, anche il proprietario finitimo può utilmente invocare l’esercizio, da parte degli organi preposti, dei poteri di accertamento e repressivi di abusi edilizi, a maggior ragione può farlo colui che vanta un diritto di proprietà sull’area interessata da questi ultimi, quand’anche detto diritto sia oggetto di contestazione, nella competente sede giurisdizionale civile.
Del resto un abuso edilizio (ove, in ipotesi, accertato) non perde certamente tale sua connotazione, per il solo fatto che esso sia stato realizzato dal proprietario dell’area, oggetto di una controversia giudiziaria.
Il soggetto –che agisce per l’affermazione del proprio diritto di proprietà, sulla medesima area– ben può, quindi, quale titolare di uno specifico interesse, tutelato dall’ordinamento, legittimamente diffidare i competenti organi amministrativi, e segnatamente gli uffici comunali, deputati al controllo dell’uso del territorio, a effettuare i dovuti accertamenti al riguardo, e conseguentemente ad adottare –ove gli abusi realmente sussistano– i provvedimenti repressivi, idonei allo scopo.
Ne deriva, quanto al caso concreto –stante la pacifica assenza di qualsivoglia risposta, da parte dell’U.T.C. di Roccapiemonte, alla diffida del ricorrente –l’ordine, da parte del Tribunale, rivolto all’Amministrazione Comunale, di fornire esplicito e motivato riscontro circa l’esposto– diffida di cui in epigrafe, nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale inottemperanza, da parte del detto Comune, ai dettami della presente decisione, di nominare, su istanza di parte, un commissario ad acta, che a tanto provveda in vece dell’Amministrazione inadempiente (TAR Campania-Napoli, SEz. I, sentenza 14.09.2015 n. 2019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' fondata la censura con la quale il ricorrente lamenta l’illegittima utilizzazione del potere straordinario di ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione, fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall'ordinamento.

E’ impugnata l’epigrafata ordinanza con la quale il Sindaco del Comune di Leverano ha intimato al ricorrente di “provvedere, con immediatezza, allo spostamento dei cani di sua proprietà in modo da impedire loro l’accesso nell’area a ridosso dell’abitazione della sig. Z., nonché di installare, al confine con la proprietà di quest’ultima, una barriera idonea ad attutire la rumorosità procurata dall’abbaiare dei suddetti animali entro dieci giorni”.
A sostegno del ricorso sono dedotte le seguenti censure:
Violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, così come modificato dall’art. 6 del D.L. n. 92/2008.
Eccesso di potere e sviamento di potere – travisamento dei fatti – contraddittorietà e illogicità della motivazione.
Violazione e falsa applicazione art. 7 ss. L. 241/1990.
Con ordinanza n. 704/2009 la Sezione ha accolto l’istanza cautelare presentata dal ricorrente.
Nella pubblica udienza del 21.05.2015 la causa è stata introitata per la decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
In particolare, è fondata la censura con la quale il ricorrente lamenta l’illegittima utilizzazione del potere straordinario di ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione, fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata è stata adottata sul presupposto della presenza di due cani all’interno di una proprietà privata a cagione del loro abbaiare nelle vicinanze di una proprietà privata “quando gli stessi si rendevano conto della presenza di estranei”.
Appare quindi evidente che la stessa non è stata adottata al fine di tutelare la salute e incolumità pubblica, bensì il disturbo di un vicino, peraltro accertato solo ove si verifichi la presenza di estranei, e quindi una circostanza non rientrante nella eccezionalità e imprevedibilità (dato che è piuttosto normale che i cani abbaino in presenza di estranei) ben superabile con altri rimedi apprestati dall’ordinamento.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e conseguentemente annullato l’atto impugnato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 10.09.2015 n. 2684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la prevalente giurisprudenza formatasi in relazione al disposto dell’art. 6 D.P.R. 380/2001 vigente ratione temporis, non è necessario il permesso di costruire solamente per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno, (TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 26.08.2009, n. 299, con la quale è stato ritenuto non soggetto al preventivo rilascio del permesso di costruire un intervento di pavimentazione con plotte forate, per permettere la crescita dell’erba, di una parte del terreno di pertinenza di un condominio, destinato anche ad area di parcheggio per autovetture).
Occorre invece il permesso di costruire, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi.
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Per costante giurisprudenza l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Del pari la P.A. nell’irrogare la sanzione demolitoria delle opere realizzate sine titulo non deve motivare sulla conformità delle opere medesime alla normativa urbanistica ed edilizia, sussistendo tale onere solo a fronte di istanze di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001.
Irrilevante poi, ai fini dell’annullamento dell’atto gravato, si appalesa la censura fondata sulla dedotta violazione dell’art. 7 l. 241/1990, in quanto vertendosi in tema di attività vincolata ed essendo risultato all’esito del giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, ben può farsi applicazione del disposto sanate dell’art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. 241/1990.

... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di opere edili n. 59 Reg. Ord/10 (1177/AB) del 24.05.2010 a firma del Funzionario Direttivo della Quinta Unità Organizzativa del Comune di S. Agnello, con cui è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive consistenti nella realizzazione di un viale interpoderale in getto di cls. per una lunghezza complessiva di circa ml. 91.00 con larghezza media di m. 3.50, con esecuzione delle relative murature di delimitazione e/o cordoletti, nonché nella pavimentazione, esternamente al fabbricato e sul lato sud-est e per. circa mq. 74.30 con murature di contenimento del terrapieno parte in pietra calcarea e parte in conci di tufo per complessivi m. 25.50 con altezze di m 1.00;
b) di ogni atto antecedente, susseguente o comunque connesso, tra cui la relazione dell’Ufficio Tecnico Comunale redatta a seguito di sopralluogo effettuato in data 19.10.2007, richiamata nel provvedimento impugnato sub a).
... 
6. Il ricorso è infondato.
7. Preliminarmente va osservato che del tutto inappropriato risulta il richiamo operato da parte ricorrente al disposto dell’art. 31 D.P.R. 380/2001 non avendo il Comune fatto applicazione di tale disposto normativo, ma correttamente del combinato disposto normativo degli artt. 27, 29 e 33 D.P.R. 380/2001, venendo in rilievo opere (da qualificarsi quali opere di ristrutturazione) eseguite in difformità dal permesso di costruire, in zona tra l’altro gravata da vincolo paesaggistico e senza il previo permesso di costruire (nonché dell’autorizzazione paesaggistica).
Pertanto correttamente il Comune ha preannunciato, in ipotesi di inottemperanza, non l’acquisizione al patrimonio comunale, conseguente all’inottemperanza dell’ordinanza ex art. 31 D.P.R. 380/2001, ma la demolizione in danno.
8. Ciò posto la censura con cui parte ricorrente contesta che le opere oggetto del provvedimento impugnato siano soggette al preventivo rilascio del permesso di costruire risulta destituita di fondamento in quanto, secondo la prevalente giurisprudenza formatasi in relazione al disposto dell’art. 6 D.P.R. 380/2001 vigente ratione temporis, non è necessario il permesso di costruire solamente per la realizzazione di modeste opere di pavimentazione, laddove non siano state realizzate opere murarie o eliminato verde preesistente, ovvero urbanizzato il terreno, (TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 26.08.2009, n. 299, con la quale è stato ritenuto non soggetto al preventivo rilascio del permesso di costruire un intervento di pavimentazione con plotte forate, per permettere la crescita dell’erba, di una parte del terreno di pertinenza di un condominio, destinato anche ad area di parcheggio per autovetture), ipotesi questa non ravvisabile nella fattispecie.
Occorre invece il permesso di costruire, quando le opere di pavimentazione, in ragione delle dimensioni delle stesse e dei materiali utilizzati determinino una irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 21.04.2009, n. 2084; TAR Piemonte Torino, Sez. I, 02.02.2005, n. 208; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 20.11.2002, n. 4514).
8.1. Inoltre parte ricorrente non ha offerto alcun principio di prova, come sarebbe stato suo onere, in ordine alle preesistenza delle opere murarie di contenimento.
9. Parimenti da disattendere è la censura, peraltro formulata solo in rubrica, circa il difetto di motivazione della gravata ordinanza, atteso che per costante giurisprudenza (fra le tante Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470; sez. VI, 05.08.2013, n. 4086; sez. II, 26.06.2013, n. 649/13; sez. VI, 04.03.2013, n. 1268; sez. IV, 15.02.2013, n. 915; sez. VI, 08.02.2013, n. 718; sez. IV, 02.02.2012, n. 615, Cass. pen., sez. fer., 01.09.2011, n. 33267; Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 28/04/2014 n. 2196) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Del pari la P.A. nell’irrogare la sanzione demolitoria delle opere realizzate sine titulo non deve motivare sulla conformità delle opere medesime alla normativa urbanistica ed edilizia, sussistendo tale onere solo a fronte di istanze di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 (istanza che nella specie peraltro non risulta essere stata presentata, nonostante quanto preannunciato dalla parte).
10. Irrilevante poi, ai fini dell’annullamento dell’atto gravato, si appalesa la censura fondata sulla dedotta violazione dell’art. 7 l. 241/1990, in quanto vertendosi in tema di attività vincolata ed essendo risultato all’esito del giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, ben può farsi applicazione del disposto sanate dell’art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. 241/1990.
11.Il ricorso va dunque rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.09.2015 n. 4373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2 del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.

E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali proprietari pretendono la salvezza incondizionata della propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte, rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla presentazione delle istanze di condono, attestanti una non veritiera data di ultimazione del manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di condono edilizio, il silenzio-assenso si forma laddove si presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale.
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Circa il pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli interessati di permanere nell’indebito godimento di un immobile realizzato senza titolo.

B) Quanto a quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei lavori, successiva al 01.10.1983), è sufficiente richiamare il contenuto dei verbali di sopralluogo sopra citati, dai quali emerge che fino al 09.01.1984 esisteva solo una recinzione sul lotto poi interessato dall’edificazione, poi attestata nell’aprile 1984.
Da tale circostanza, neppure contestata dagli interessati, deriva l’infondatezza delle censure attinenti alla formazione del preteso silenzio-assenso, formazione che presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli interessati di permanere nell’indebito godimento di un immobile realizzato senza titolo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla posa in opera di sei containers utilizzati quali spogliatoi al servizio degli atleti che fruiscono del Circolo sportivo.
I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario (nel caso di specie: container) non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo destinato ad essere protratto nel tempo.
La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società che gestisce in Roma un impianto sportivo (campo di calcio) su area di proprietà comunale avverso la sentenza del TAR del Lazio con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il competente dirigente comunale ha ordinato la rimozione di alcuni container destinati ad uso spogliatoio (container per i quali, nel 2003, era stato assentito “l’utilizzo temporaneo”).

2. L’appello è infondato.
2.1. Risulta del tutto centrale ai fini del decidere stabilire se l’installazione e il mantenimento in loco di sei (degli otto) containers inizialmente collocati sull’area al servizio delle opere di cantierizzazione finalizzate al ripristino funzionale dell’impianto siano riconducibili:
- alla previsione di cui all’art. 6, co. 2, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (secondo cui rientrano nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni” (si tratta della tesi sostenuta dall’appellante), ovvero
- alla previsione di cui costituisce intervento di ‘nuova costruzione’ (inter alia) “e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti”.
Va qui segnalato che, a seguito del passaggio in decisione del presente ricorso, la Corte costituzionale, con sentenza 24.07.2015, n. 189 ha dichiarato la (parziale) illegittimità costituzionale della disposizione da ultimo richiamata per violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost..
Si osserva, tuttavia, che (anche prescindendo da qualunque rilievo in ordine agli effetti di una pronuncia di incostituzionalità intervenuta all’indomani del passaggio in decisione di un ricorso nel cui ambito si faccia –appunto– questione dell’applicazione della disposizione dichiarata illegittima), la richiamata pronuncia di incostituzionalità non determina effetti ai fini del presente giudizio in quanto la declaratoria di incostituzionalità ha riguardato una parte della disposizione (quella che va dalle parole “e salvo che” fino a “turisti”) che non rileva ai fini della presente decisione.
2.2. Ad avviso del Collegio, al fine di impostare in modo corretto la soluzione della vicenda di causa occorre in primo luogo domandarsi se sussistano in atti sufficienti indizi i quali depongono nel senso che i sei containers in questione fossero effettivamente utilizzati quali spogliatoi al servizio degli atleti che fruiscono del Circolo sportivo e, in caso di risposta affermativa, quali siano le conseguenze ai fini della corretta qualificazione urbanistico-edilizia di tale cambiamento di destinazione d’uso.
2.3. Ebbene, per quanto riguarda il primo dei richiamati quesiti il Collegio ritiene che sussistano agli atti di causa elementi i quali dimostrano in modo inequivoco l’effettivo utilizzo dei richiamati containers quali spogliatoi al servizio degli atleti. Si ritiene, infatti, che costituiscano indici del tutto persuasivi (e difficilmente confutabili) in tal senso:
- la circostanza per cui, nel rilasciare un’autorizzazione in deroga alle previsioni di cui all’art. 3 del d.P.R. 380 del 2001 (atto in data 11.07.2012) il Presidente del V Municipio ebbe espressamente ad affermare che tale autorizzazione fosse –appunto- volta a consentire l’utilizzo dei baraccamenti di cantiere “a funzione di spogliatoi sportivi”;
- la circostanza per cui, nel richiedere tale autorizzazione, la stessa società appellante (e con valenza sostanzialmente confessoria) avesse in effetti chiesto “[l’]utilizzo temporaneo di una parte dei baraccamenti di cantiere situati nell’impianto sportivo monotematico di via degli Alberini a funzione di spogliatoi sportivi”;
- la circostanza per cui, nel rendere la propria relazione alla Procura della Repubblica in data 30.11.2012, i tecnici comunali geomm. Ro. e Sc. avessero –appunto– rilevato che i sei containers in questione fossero “allestiti ed accessoriati con panchine appendiabiti, w.c. e docce, idonei all’uso di spogliatoi”. Vero è che, nell’ambito di tale relazione si riferisce che “nel corso dei sopralluogo non è stato possibile verificare il cambio di destinazione d’uso dei containers da spogliatoi a servizio dei campi sportivi, in quanto i suddetti containers risultavano liberi da persone e cose, vestiario e suppellettili varie”.
Tuttavia, quanto nell’occasione riferito non assume affatto la valenza definitivamente liberatoria invocata dalla società appellante. Ed infatti, la relazione dei tecnici comunali -per un verso– conferma l’assoluta idoneità funzionale e strutturale dei containers in parola a fungere da spogliatoi per gli atleti; per altro verso si limita ad attestare che, al momento degli accessi, non fossero presenti gli atleti e le loro suppellettili. Tale circostanza è stata del tutto plausibilmente ricostruita dal Funzionario di P.L. della Sezione di P.G. nella sua relazione al Sostituto procuratore in data 15.01.2013 (‘relazione Acquistucci’).
Nell’occasione il F.P.L. ha osservato che la verifica al cui esito non era stata riscontrata la presenza di atleti nei containers “ha avuto luogo, presumibilmente, previo accordo intercorso col suddetto concessionario che, probabilmente, al fine di ovviare all’inconveniente di incorrere negli stessi addebiti che, a suo tempo, sono stati constatati dal locale Comando del V Gruppo (…), ha provveduto, per tempo, a interdire l’accesso e/o a rimuovere qualsivoglia elemento che avrebbero potuto indurre i tecnici a dare una diversa valutazione circa il loro uso”;
- dalla circostanza (richiamata a pag. 5 della ‘relazione Acquistucci’ e che non è stata puntualmente smentita dall’appellante) secondo cui, nell’informativa in data 21.05.2012 resa dagli Operatori comunali del V Gruppo all’esito del sopralluogo ispettivo del precedente 15 maggio, era emerso che “i lavori erano fermi e non v’era alcun operaio nel cantiere sopra indicato, parimenti, all’interno di alcuni containers, presumibilmente, gli stessi avventori dei campi di calcio, avevano collocato sulle panche e sugli appendiabiti presenti, svariati capi di abbigliamento e varie borse sportive, tutte riportanti la dicitura ‘ASD Torsapienza’, ritenendo, per tale motivo, che detti locali fossero utilizzati dai vari atleti”.
2.4. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle appena tracciate può giungersi in relazione al fatto che il provvedimento impugnato in primo grado abbia descritto i containers in questione come poggianti “su una serie di plinti prefabbricati in cemento” (e non, come affermato dall’appellante, su una serie di manufatti in c.a.v. –pozzetti per cavidotti-).
Il Collegio si soffermerà nel prosieguo sul se tale diversa prospettazione in fatto possa incidere sulla corretta individuazione del carattere di contingenza e temporaneità dei containers in questione.
Ciò che interessa qui osservare è che tale circostanza non apporta alcun elemento effettivo in ordine alla circostanza, che qui rileva, relativa all’effettivo utilizzo dei containers in questione quali spogliatoi per gli atleti.
2.5. Ma una volta rilevato (lo si ripete, sulla base di elementi univoci e difficilmente confutabili) che i containers in questione fossero stati effettivamente destinati (e per un periodo senz’altro lungo –almeno dal luglio 2012-) alla diversa destinazione di spogliatoi per gli atleti, il Collegio ritiene che la fattispecie in esame sia stata correttamente inquadrata, da parte del Dirigente tecnico del IV Municipio (già V Municipio), nell’ambito applicativo dell’arti. 3, comma 1, lett. e.5) del d.P.R. 380 del 2001 (il quale, come si è già rilevato, ascrive alla nozione di ‘nuove costruzioni’ e assoggetta all’obbligo di permesso di costruire “[i] manufatti leggeri, anche prefabbricati, e [le] strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come (…) ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee (…)”.
E il fatto che i manufatti in questione non fossero destinati a soddisfare “esigenze meramente temporanee” risulta confermato dal diuturno utilizzo in questione e dalla circostanza per cui, secondo quanto rilevato dalla stessa appellante, tale utilizzo è destinato a perdurare fino a quando non sarà possibile completare le opere di ripristino funzionale del complesso (anche attraverso il completamento dei nuovi spogliatoi).
Tuttavia, è la stessa appellante a riferire che al momento non si dispone di alcuna certezza in ordine a tale tempistica, anche a causa della mancata erogazione dei necessari finanziamenti (erogazione che, a sua volta, viene resa difficoltosa dalle complesse vicende amministrative e giudiziarie che hanno caratterizzato la vicenda).
Ma al di là di qualunque valutazione di merito, il Collegio ritiene che il complesso di circostanze appena richiamate confermi ancora una volta il fatto che l’utilizzo dei containers quali spogliatoi per gli atleti non risulti certamente finalizzato a soddisfare “esigenze meramente temporanee”, in tal modo rendendo inapplicabile la previsione di cui all’art. 6, comma 2, lett. b) del richiamato d.P.R. 380 del 2001 (il quale richiama, al contrario, “opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee”).
Al riguardo si ritiene di richiamare l’orientamento secondo cui
i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario (nel caso di specie: container) non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo destinato ad essere protratto nel tempo.

La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo.
Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante
(in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842).
2.6. Pertanto, deve essere qui confermata la tesi secondo cui gli interventi per cui è causa fossero riconducibili alla previsione di cui all’art. 3, co. 1, punto e.5), e non anche a quella di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), del d.P.R. 380 del 2001.
Ciò esime il Collegio dall’esame dell’ulteriore argomento dell’appellante (invero, non persuasivo) secondo cui la disposizione in questione non riferirebbe il termine di novanta giorni alla durata complessiva delle “esigenze contingenti e temporanee”, bensì al tempus necessario per la rimozione delle opere una volta venute meno le richiamate esigenze.
2.7. Né a conclusioni diverse rispetto a quelle sin qui delineate può giungersi in considerazione degli esiti dei due procedimenti penali avviati a carico del legale rappresentante dell’appellante a fronte dell’attività edilizia che qui viene in rilievo (si tratta dei procedimento numm. 13236/12 e 29031/12).
L’appellante ha a più riprese sottolineato che il Sostituto Procuratore presso il Tribunale penale di Roma abbia chiesto l’archiviazione del procedimento ritenendo in ambo i casi che si trattasse di interventi di straordinaria manutenzione soggetti a semplice D.I.A. (e risulta in atti che almeno per il primo dei richiamati procedimenti sia in effetti stata disposta l’archiviazione).
Al riguardo il Collegio si limita ad osservare il consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui l'efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell'art. 530, comma 1, cod. proc. pen., vale a dire quando all'esito del dibattimento è stata raggiunta la prova positiva dell'insussistenza dei fatti o della loro non attribuibilità all'imputato (in tal senso –ex multis-: Cass. civ., Sez. II, 30.08.2004, n. 17401; Sez. III, 09.03.2010, n. 5676, 30.10.2007, n. 22883, 20.09.2006, n. 20235; Sez. III, 19.05.2003, n. 7765; Sez. lav., 11.02.2011, n. 3376; Sez. VI, ord. 13.11.2013, n. 25538).
Si tratta di un’ipotesi che, evidentemente, non ricorre nel caso in esame, in cui risulta disposta l’archiviazione all’esito delle indagini preliminari.
Pertanto, le richieste formulate dal P.M. e le statuizioni adottate dal G.I.P. non sortiscono alcun effetto vincolante ai fini della definizione della presente vicenda né per quanto riguarda la qualificazione giuridica dei fatti e degli istituti pertinenti, né per quanto riguarda la valutazione complessiva delle circostanze in atti.
3. Per le ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Cauzione soltanto con la fideiussione. Non c'è potere di regolarizzazione.
Qualora la cauzione provvisoria sia priva dall'impegno incondizionato di un fideiussore a presentare cauzione definitiva in caso di aggiudicazione, la stazione appaltante è tenuta a escludere la stessa dalla gara, senza che possa residuare alcun potere di regolarizzazione.

È quanto hanno ribadito i giudici della IV Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 03.09.2015 n. 1936.
Si premette che nessuna disposizione vieta a una stazione appaltante di richiedere, nell'ambito di una procedura di affidamento mediante cottimo fiduciario, le garanzie previste dalla normativa applicabile agli affidamenti di maggiore importo, come peraltro espressamente statuito dall'autorità nazionale anticorruzione.
I giudici amministrativi milanesi hanno, altresì, evidenziato che la ratio sottesa alla richiesta di un impegno al rilascio della cauzione definitiva proveniente da un fideiussore si può facilmente rinvenire nella necessità di assicurare alla stazione appaltante una garanzia volta a tutelare la stessa da eventuali inadempimenti dell'appaltatore, il quale, ovviamente, avrà interesse a non volere, o a non potere, rispondere degli eventuali danni cagionati, ciò che, per l'appunto, giustifica la richiesta di tale garanzia a un soggetto terzo, contrattualmente tenuto per tale eventualità.
Pertanto, una dichiarazione avente a oggetto l'impegno a rilasciare la cauzione definitiva da parte del concorrente non può essere oggetto di regolarizzazione in sede di gara, poiché risulta «ontologicamente e funzionalmente diversa da quella proveniente da un fideiussore, infatti richiesta dalla normativa, dovendosi pertanto dare luogo alla sua esclusione nel caso in cui, come avvenuto nella fattispecie, tale sanzione fosse stata espressamente prevista dalla lex specialis».
Nella sentenza in commento si è poi richiamato un costante orientamento giurisprudenziale secondo cui non sarebbe affetta da nullità la clausola della lex specialis nella parte in cui preveda, a pena di esclusione, la costituzione della cauzione, in quanto espressiva di un interesse rilevante e qualificato dell'amministrazione aggiudicatrice, non violando pertanto il principio di tassatività delle cause di esclusione (si vedano: C.s., sez. IV, 21.10.2014 n. 5192; C.g.a., 18.06.2014 n. 327, C.s., sez. V, 22.01.2015 n. 278) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il presente ricorso è infondato nel merito, potendo pertanto prescindersi dallo scrutinio dell’eccezione di inammissibilità del medesimo sollevata dalla resistente.
I) Con il primo motivo la ricorrente evidenzia che la procedura di che trattasi è un cottimo fiduciario, conseguentemente disciplinato solo dagli artt. 125 del codice dei contratti pubblici e dall’art. 334 del relativo regolamento di esecuzione, da cui conseguirebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato, incentrato invece sulla mancanza, nella cauzione provvisoria, della dichiarazione prevista dall’art. 75, c. 8, del D.Lgs. cit..
Osserva in contrario il Collegio che detta norma è stata tuttavia espressamente richiamata dal punto 1.3.1 del disciplinare di gara, il quale ha previsto l’obbligo, in capo ai partecipanti, di corredare la propria offerta con una dichiarazione di un fideiussore, contenente l’impegno a rilasciare la cauzione definitiva, e che, in particolare, tale adempimento era espressamente previsto a pena di esclusione.
Conseguentemente, a prescindere dalla questione dell’applicabilità del citato art. 75 alla procedura di che trattasi, in forza di quanto previsto dalla lex specialis, i concorrenti erano chiamati a produrre, a pena di esclusione, la vista dichiarazione di impegno al rilascio della cauzione definitiva proveniente da un fideiussore, a cui tuttavia, come detto, la ricorrente non ha provveduto, dovendo pertanto essere esclusa.
La stessa giurisprudenza citata dalla ricorrente a supporto delle proprie ragioni conferma peraltro l’operato della stazione appaltante, laddove la stessa afferma che il citato art. 75, c. 8, non è applicabile, ex se, ai cottimi fiduciari, e non dunque nei casi in cui, come avvenuto nel caso di specie, la lex specialis vi operi un richiamo espresso.
II) Con il secondo ed il quarto motivo la ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui il medesimo ha ritenuto che la descritta carenza documentale fosse “essenziale”, non potendosi pertanto applicarsi alla fattispecie l’istituto del soccorso istruttorio di cui agli artt. 38, c. 2-bis, e 46, c. 1-ter, del D.Lgs. n. 163/2006.
II.1) Il motivo è infondato atteso che, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente,
qualora la cauzione provvisoria sia priva dall’impegno incondizionato di un fideiussore a presentare cauzione definitiva in caso di aggiudicazione, la stazione appaltante è tenuta ad escludere la stessa dalla gara, senza che possa residuare alcun potere di regolarizzazione (C.S., Sez. V, 03.06.2015 n. 2717).
Nella fattispecie per cui è causa non si sarebbe peraltro trattato di integrare un documento incompleto, ciò che effettivamente costituisce l’oggetto della regolarizzazione, quanto invece di autorizzare la produzione tardiva di una dichiarazione ab origine mancante, peraltro proveniente da un soggetto terzo, ciò che tuttavia esula dall’ambito di tale istituto (TAR Campania, Napoli, Sez. I, 13.04.2015 n. 2088, C.S., Sez. V, 25.02.2015 n. 927).
II.2) La ricorrente evidenzia in particolare, nel quarto motivo, che il proprio rappresentante legale “si è impegnato personalmente a rilasciare la garanzia ai sensi dell’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006, assolvendo in tal modo all’interesse della stazione appaltante di vedersi garantita anche nella fase di esecuzione del contratto” (pag. 16), ciò che, dimostrando la sostanziale mancanza di conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione commessa, avrebbe dovuto comportare l’applicazione del soccorso istruttorio.
Ritiene il Collegio che l’erroneità delle premesse da cui muovono detti argomenti, e cioè che l’interesse della stazione appaltante sia garantito dall’impegno del concorrente stesso al rilascio della garanzia definitiva, comporti conseguentemente l’inconsistenza delle stesse conclusioni, dovendosi pertanto confermare, anche sotto tale aspetto, la doverosità dell’esclusione in questa sede impugnata.
La ratio sotteso alla richiesta di un impegno al rilascio della cauzione definitiva proveniente da un fideiussore è infatti di assicurare alla stazione appaltante una garanzia volta a tutelare la stessa da eventuali inadempimenti dell’appaltatore, il quale, ovviamente, tenderà a non volere, o a non potere, rispondere degli eventuali danni cagionati, ciò che, per l’appunto, giustifica la richiesta di tale garanzia ad un soggetto terzo, contrattualmente tenuto per tale eventualità.
In conclusione,
una dichiarazione avente ad oggetto l’impegno a rilasciare la cauzione definitiva da parte del concorrente non può essere oggetto di regolarizzazione in sede di gara, essendo ontologicamente e funzionalmente diversa da quella proveniente da un fideiussore, infatti richiesta dalla normativa, dovendosi pertanto dare luogo alla sua esclusione nel caso in cui, come avvenuto nella fattispecie, tale sanzione fosse stata espressamente prevista dalla lex specialis.
III) Con il terzo motivo la ricorrente, in via subordinata, deduce la nullità del disciplinare di gara nella parte in cui il medesimo disponeva l’esclusione del concorrente nel caso di mancata presentazione dell’impegno al rilascio della cauzione definitiva da parte di un fideiussore, per contrasto con l’art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Il motivo è infondato atteso che,
in generale, per giurisprudenza costante, non è affetta da nullità la clausola della lex specialis nella parte in cui preveda a pena di esclusione la costituzione della cauzione, in quanto espressiva di un interesse rilevante e qualificato dell'Amministrazione aggiudicatrice, non violando pertanto il principio di tassatività delle cause di esclusione (C.S., Sez. IV, 21.10.2014 n. 5192; C.G.A., 18.06.2014 n. 327, C.S. Sez. V, 22.01.2015 n. 278).
Conseguentemente,
non possono essere considerate nulle le clausole preordinate alla costituzione della stessa garanzia, tra cui quella che rileva nella fattispecie per cui è causa, la cui violazione, per le ragioni già evidenziate nel precedente punto II.2, non garantisce alla stazione appaltante l’effettiva disponibilità della stessa.
IV) Con l’ultimo motivo la ricorrente sostiene che la sua esclusione sarebbe stata determinata dalla scarsa chiarezza della lex specialis che inoltre, contraddittoriamente, ha aggravato la procedura di che trattasi, richiedendo ai concorrenti adempimenti estranei alla disciplina semplificata del cottimo fiduciario di cui all’art. 125, il quale infatti non prevede che i partecipanti alla stessa producano la cauzione provvisoria.
Osserva il Collegio che detta censura, peraltro genericamente formulata, è infondata atteso che, in primo luogo, il tenore della lex specialis era in realtà sufficientemente chiaro e comprensibile (“ai sensi dell’art. 75 c. 8 del D.Lgs. n. 163/2006 l’operatore economico deve allegare copia firmata digitalmente di dichiarazione espressa di un fideiussore, contenente l’impegno a rilasciare al cauzione definitiva di cui all’art. 113 D.Lgs. n. 163/2006”).
Inoltre,
nessuna disposizione vieta ad una stazione appaltante di richiedere, nell’ambito di una procedura di affidamento mediante cottimo fiduciario, le garanzie previste dalla normativa applicabile agli affidamenti di maggior importo, come peraltro espressamente statuito dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (parere n. 41 del 08.03.2012).

PATRIMONIO: Paletti selvaggi. Sul passo carraio l'ufficio risponde entro un mese.
Il passo carrabile del palazzo è prigioniero del parcheggio selvaggio nella strada stretta e il comune non può far finta di niente: deve rispondere entro un mese all'istanza dei condomini che chiedono l'istallazione di paletti o di un divieto di sosta all'altezza del numero civico in modo da poter entrare e uscire dal palazzo usando anche loro la macchina. E se la p.a. locale non provvede in tempo arriva il commissario indicato dal prefetto.

Lo stabilisce il TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 02.09.2015 n. 4280.
Illegittimo il silenzio-rifiuto serbato dall'ente locale. La grana scoppia perché uno dei condomini in preda a una colica non può uscire dal cancello con l'auto per essere accompagnato al pronto soccorso. La polizia municipale conferma: lo spazio di manovra davanti al passo carrabile è troppo angusto anche a causa delle macchine parcheggiate sul marciapiede. E in caso di emergenza un'ambulanza avrebbe difficoltà a intervenire in zona.
L'amministrazione locale, dunque, non può rimanere inerte: ha un preciso obbligo di vigilanza sulle strade e sulle relative pertinenze in quanto proprietaria delle infrastrutture, ne deve garantire «la destinazione pubblica e il pacifico utilizzo da parte degli utenti».
È lo stesso codice della strada a imporre al comune di installare la segnaletica stradale a partire dal divieto di sosta (art. 37) e i paletti dissuasori autorizzati dai Trasporti da «utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva» dei veicoli (articolo 42) (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015).

PATRIMONIOIl Comune deve tutelare l’accesso di casa. Tar Campania. Condannato il municipio di Napoli che non aveva risposto all’istanza dei condòmini per l’installazione di paletti contro la sosta selvaggia.
Se i condòmini di un caseggiato che si affaccia sulla pubblica via, agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al fabbricato, chiedono all’autorità comunale l’installazione di paletti dissuasori per impedire la sosta indiscriminata di veicoli privati, il Comune è tenuto ad adottare le misure concretamente richieste.
È questo il principio affermato dal TAR Campania-Napoli, Sez. I, con la sentenza 02.09.2015 n. 4280.
I condòmini di un caseggiato, al fine di impedire la sosta indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati che ostacolavano le manovre carrabili di accesso e uscita dall’edificio, richiedevano all’amministrazione comunale di installare paletti dissuasori e segnaletica orizzontale con divieto di sosta nel tratto antistante il portone del caseggiato.
Anche la polizia municipale constatava il disagio per i residenti e richiedeva al comune la messa in opera di paletti o, in alternativa, l’apposizione di segnaletica verticale di divieto di sosta. L’autorità comunale, però, rimaneva totalmente inerte.
Di conseguenza i condomini si vedevano costretti a impugnare il silenzio–rifiuto davanti al Tar Napoli, cui chiedevano la condanna dell’amministrazione comunale ad assumere una decisione, con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia.
Il Tar Napoli ha dichiarato l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune che, dopo la diffida della collettività condominiale, avrebbe dovuto pronunciarsi in merito al problema.
Come hanno notato i giudici amministrativi, infatti, spetta all’amministrazione vigilare sulle strade di cui è proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali deve garantire la destinazione pubblica ed il corretto utilizzo da parte degli utenti.
Di conseguenza, rientra certamente nella competenza del comune proprietario della strada, l’apposizione e la manutenzione della segnaletica stradale e l’installazione di paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli privati (che devono però essere autorizzati dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e posti in opera previa ordinanza comunale).
Alla luce di queste considerazioni, il Tar ha accolto il ricorso e condannato il Comune a pronunciarsi espressamente sull’istanza dei condomini con un provvedimento motivato (entro e non oltre giorni 30 dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza).
In ogni caso, nella stessa sentenza è stato nominato un commissario ad acta che, in caso di perdurante inerzia dell’autorità comunale, provvederà entro i successivi 30 giorni a trovare una soluzione (previa presentazione di apposita nuova istanza dei condomini)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2015).

APPALTI: Dichiarazioni pure per affitti d'azienda. Lo ha ribadito il Consiglio di stato.
Ai fini della partecipazione alle gare d'appalto la fattispecie dell'affitto di azienda rientra tra quelle che soggiacciono all'obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. c, del Codice degli appalti, riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici dell'impresa cedente, nel caso in cui sia intervenuta un'operazione di cessione d'azienda in favore del concorrente nell'anno anteriore alla pubblicazione del bando.

Lo hanno ribadito i giudici della IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 01.09.2015 n. 4100.
Inoltre i giudici di palazzo Spada hanno sottolineato che nel caso delle gare pubbliche, al fine della definizione del cosiddetto «soccorso istruttorio» si renderà opportuno distinguere tra i concetti di «regolarizzazione documentale» e «integrazione documentale»: la linea di demarcazione discende naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante nel bando di gara, nel senso che il principio del «soccorso istruttorio» si dovrà considerare inoperante ogni volta che vengano in rilievo omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara (specie se si è in presenza di una clausola univoca), dato che la sanzione scaturisce automaticamente dalla scelta operata a monte dalla legge, senza che si possa ammettere alcuna possibilità di esercizio del «potere di soccorso»; e pertanto, come logica conseguenza, l'integrazione non sarà consentita, risolvendosi in un effettivo vulnus del principio di parità di trattamento.
Sarà consentita, invece, la mera regolarizzazione, che attiene a circostanze o elementi estrinseci al contenuto della documentazione e che si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e refusi.
Quindi, qualora ci si trovi in presenza di un obbligo dichiarativo ex lege, non potrà trovare spazio l'ipotizzata regolarizzazione documentale, altrimenti violandosi la par condicio dei concorrenti, poiché non può ritenersi consentita la produzione tardiva della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa.
Infine, i giudici amministrativi, all'interno di una sentenza molto articolata, hanno posto l'attenzione sulla necessità degli obblighi dichiarativi, sconfessando, allo stato, la teoria del cosiddetto «falso innocuo» (si parla di teoria sostanzialistica), sostenendo che nessuno spazio può esservi per un rinvio pregiudiziale su questo profilo, nonché sugli obblighi dichiarativi in materia di cessione e affitto d'azienda (articolo ItaliaOggi Sette del 14.09.2015).
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MASSIMA
2. Quanto al primo versante di indagine, esso è in realtà piuttosto semplice: il quesito cui rispondere è il seguente:
alla strega delle prescrizioni normative (d.Lgs. n. 163/2006, art. 38, lett. c) e di quelle contenute nella lex specialis, l’aggiudicataria ed odierna appellante avrebbe –o meno- dovuto rendere la dichiarazione ex art. 38 TUCP relativa alla compagine imprenditoriale della quale aveva affittato l’azienda?
Ove la risposta al quesito fosse positiva, occorrerebbe ulteriormente chiedersi se –riscontrata sul punto una omissione di dichiarazione- essa sarebbe stata (o meno) sanabile attraverso il c.d. “soccorso istruttorio” (tematica, quest’ultima, è forse superfluo evidenziarlo, che lambisce quello che dovrà essere il secondo versante di scrutinio demandato al Collegio).
2.1.Quanto al primo profilo, si osserva schematicamente che:
a) l’art. 38 del d. Lgs. n. 163/2006, alla lett. c) così prevede: “nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, paragrafo 1, direttiva CE 2004/18; l'esclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio. In ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l'impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; l’esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima”;
b) il bando di gara era stato pubblicato il 09.06.2014 e quindi antecedentemente alla entrata in vigore del d.L. 24-6-2014 n. 90: ne discendeva che per l’espresso dettato di cui al comma 3 dell’art. 39 del D.L. 24.06.2014 n. 90.
(“Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano alle procedure di affidamento indette successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.”) la disposizione di cui al comma 1 del predetto art. 39 del D.L. 24.06.2014 n. 90, nella parte in cui aveva inserito il comma 2-bis in seno all’art. 38 del d. Lgs. n. 163/2006 (“La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara. Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte»”) non poteva trovare applicazione alla presente vicenda contenziosa;
c) la costante e condivisibile giurisprudenza amministrativa -pienamente condivisa dal Collegio – ha, ancora in epoca assai recente, ribadito che (Cons. Stato Sez. V, 05.11.2014, n. 5470) “
ai fini della partecipazione alle gare d'appalto la fattispecie dell'affitto di azienda rientra tra quelle che soggiacciono all'obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti), riguardante anche gli amministratori e direttori tecnici dell'impresa cedente nel caso in cui sia intervenuta un'operazione di cessione d'azienda in favore del concorrente nell'anno anteriore alla pubblicazione del bando".
Alla stregua delle superiori emergenze processuali, appare palese che, nel merito, l’appellante doveva essere esclusa dalla gara avendo del tutto omesso di allegare alla propria offerta anche le dichiarazioni ex art. 38 degli "amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci" della Newtec System S.r.l..
E’ poi evidente, che non doveva essere impugnata (da parte della originaria ricorrente ed odierna appellata) alcuna prescrizione del bando (nella parte in cui non sanzionava con l’esclusione detta violazione) trattandosi di conseguenza discendente dalla legge.
2.3. Quanto all’ulteriore profilo il cui esame si rende necessario a cagione delle critiche esposte nell’atto di appello (id est: suscettibilità di regolarizzazione della predetta omissione totale), non si può che richiamare il consolidato approdo giurisprudenziale, (ribadito assai di recente: Cons. Stato Sez. V, 22.01.2015, n. 278) secondo cui "
Nelle gare pubbliche per definire il perimetro del "soccorso istruttorio" è necessario distinguere tra i concetti di "regolarizzazione documentale" ed "integrazione documentale": la linea di demarcazione discende naturaliter dalle qualificazioni stabilite ex ante nel bando, nel senso che il principio del "soccorso istruttorio" è inoperante ogni volta che vengano in rilievo omissioni di documenti o inadempimenti procedimentali richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara (specie se si è in presenza di una clausola univoca), dato che la sanzione scaturisce automaticamente dalla scelta operata a monte dalla legge, senza che si possa ammettere alcuna possibilità di esercizio del "potere di soccorso"; conseguentemente, l’integrazione non è consentita, risolvendosi in un effettivo vulnus del principio di parità di trattamento; è consentita, invece, la mera regolarizzazione, che attiene a circostanze o elementi estrinseci al contenuto della documentazione e che si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e refusi.”
Pare, poi, opportuno al Collegio richiamare un passo della sentenza prima richiamata (Cons. Stato Sez. V, 05.11.2014, n. 5470) che appare plasticamente traslabile alla presente vicenda contenziosa. Ivi, è stato osservato che “
per quanto riguarda il terzo motivo d'appello formulato ove si lamenta la mancanza di obblighi dichiarativi nella lex specialis, con conseguente preteso obbligo di ricorso al potere/dovere di soccorso istruttorio da parte della Stazione appaltante ex art. 46, D.Lgs. n. 163 del 2006, nonché la mancata applicazione della teoria sostanzialistica (o c.d. del falso innocuo), quest'ultima legata al terzo motivo esso è da ritenersi privo fondamento".
Infatti, la gara in oggetto è stata bandita nell'aprile del 2013, a distanza di quasi un anno dalle citate pronunce dell'Adunanza Plenaria richiamate, n. 10 e n. 21 del 2012, ove è stato chiarito che l'obbligo dichiarativo in questione scaturisce direttamente dalla legge.
Pertanto, in presenza di un obbligo dichiarativo ex lege, non può trovare spazio l'ipotizzata regolarizzazione documentale, altrimenti violandosi la par condicio dei concorrenti, come peraltro chiarito di recente dal Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25.02.2014, n. 9, non essendo consentita la produzione tardiva della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa.
Tale ultima pronuncia, inoltre, ha posto l'accento sulla necessità degli obblighi dichiarativi, sconfessando, allo stato, la teoria del cd. "falso innocuo" (id est, la teoria sostanzialistica); pertanto, nessuno spazio può esservi per un rinvio pregiudiziale su questo profilo, nonché sugli obblighi dichiarativi in materia di cessione ed affitto d'azienda (cfr., anche, sul punto, la citata pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 21/2012; cfr., anche, Consiglio di Stato, Sez. III, 06.02.2014, n. 583, ove
si è chiarito che il valore della completezza delle dichiarazioni da fornire in sede di offerta, insito nell'art. 38 cit., corollario di principi di matrice comunitaria come quelli di trasparenza, par condicio e proporzionalità, non si pone in contrasto con l'art. 45 della Direttiva 2004/18/CE).
2.4. Nulla ritiene il Collegio vi sia da aggiungere sul punto: sulla questione di merito, la sentenza di primo grado è corretta ed immune da mende.

LAVORI PUBBLICI: Il project financing è impugnabile dall'inizio.
Project financing impugnabile fin dalle prime battute. E basta un parametro fuori posto rispetto al bando di gara per far scattare l'esclusione del progetto presentato dall'aspirante promotore.

È quanto emerge dalla sentenza 31.08.2015 n. 4035, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Interesse pubblico - Accolto solo parzialmente il ricorso di un'azienda in un mega progetto romano.
Quando la stazione appaltante chiude la prima fase di selezione di una proposta da porre a fondamento della successiva gara, l'atto conclusivo ben può essere impugnato dalle imprese che hanno presentato proposte concorrenti sulla stessa opera pubblica da realizzare.
E ciò perché la scelta della proposta migliore ritenuta di pubblico interesse avviene comune sulla base di una valutazione di idoneità tecnica: l'atto risulta insomma sindacabile dal giudice amministrativo, anche perché con esso termina il primo subprocedimento nel quale si articolo l'iter della finanza di progetto. Con questo step si identifica il promotore finanziario, il quale si vede dunque attribuire un vantaggio. E soprattutto solo così sorge in capo all'amministrazione il vincolo che l'obbliga a procedere alla gara e dunque a realizzare l'opera.
La stazione appaltante comunque è tenuta a selezionare non la proposta migliore ma quella che più va nella direzione dell'interesse pubblico: ecco perché, allora, per escludere il progetto di una società promotrice basta la valutazione negativa su uno dei parametri indicati dal bando (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

EDILIZIA PRIVATALa mostra diventa moschea, la Scia non basta. Tar Venezia. Se c’è culto, la segnalazione non esime dalle autorizzazioni.
La Scia non può essere una scorciatoia amministrativa: lo sottolinea il TAR Veneto - Sezz. unite (ordinanza 27.08.2015 n. 346), esaminando il caso di uno spazio espositivo in una ex chiesa, che con una Scia era diventato una moschea con attività di culto.
La Scia, indirizzata al Comune, si riferiva solo a una «mostra in area privata», intervento temporaneo nell’ambito di una biennale d’arte che, proprio perché «attività libera» sotto l’aspetto urbanistico (articolo 3, lettera e.5 e articolo 6, comma 2, lettera b, del Dpr 380/2001) sembrava realizzabile con mera segnalazione al Comune. Accentuando invece l’uso religioso, la manifestazione ha perso il carattere “artistico” ed è tornata soggetta alle norme urbanistiche, che prevedono la possibilità di realizzare luoghi di culto solo in zone per «attrezzature religiose».
Mancando la conformità urbanistica, il Comune di Venezia ha annullato la Scia, imponendo il ripristino dei luoghi. Questo è un esempio di uso azzardato della Scia, basato sull’incerto confine tra esposizione d’arte (urbanisticamente neutra) e destinazione a «servizi di culto» (che utilizzano i luoghi artistici).
La soluzione adottata dal Comune di Venezia (e condivisa dal Tar) è la stessa che impedisce, ai venditori ambulanti di padelle o attrezzi da cucina, di vendere i prodotti cucinati a fine dimostrativo con le attrezzature commercializzate. Con questo principio generale, la moschea realizzata «a fini artistici» è stata riclassificata come luogo di culto effettivo, sulla base di taluni dettagli caratterizzanti, quali la presenza del mihrab (una sorta di abside) orientato verso la Mecca o l’utilizzo di un lavatoio per abluzioni rituali.
La Scia in generale è oggetto della legge 124/2015, che dal 28 agosto incentiva l’utilizzo della segnalazione confermando la possibilità di un inizio immediato dell’attività e limitando a 30 giorni (salvo annullamento, entro 18 mesi) la possibilità per il Comune di opporsi all’intervento. La Scia ha ancora zone incerte: ad esempio, in materia di manifestazioni e spettacoli, la disciplina urbanistica consente di realizzare palchi con la procedura di Scia (articoli 3 e 6, Dpr 380/2001).
Ma se la manifestazione che usa il palco ha necessità di verifiche da parte della Commissione prefettizia di vigilanza, la Scia inviata al Comune non basta più: va corredata dal parere della Commissione (circolare ministero dell’Interno 21.05.2015).
Problemi analoghi hanno gli home restaurant, cioè le residenze dove si preparano cibi e bevande per invitati (a pagamento): se l’attività è svolta in zone tutelate (quali i centri storici), la Scia vale solo se vi è compatibilità urbanistica e igienico-sanitaria, poiché la somministrazione prevale sulla mera attività conviviale (risoluzione ministero dello Sviluppo economico 10.04.2015, n. 50481)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.09.2015).
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MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, della comunicazione prot. n. 225016/2015 del 21/05/2015, della comunicazione prot. 189901 del 29.04.2015 e della comunicazione prot. n. 202447 del 07.05.2015.
...
- Considerato come, a prescindere da ogni valutazione sulla ammissibilità della procura rilasciata tardivamente al difensore della ricorrente,
risulta sussistente l’inadempimento alle prescrizioni imposte dal Comune di Venezia in relazione alla SCIA presentata avente a oggetto una mostra espositiva in area privata, nell’ambito della manifestazione “Biennale Arte (cfr. contratto di locazione uso immobile, art. 2), consistente in allestimento riproducente una moschea, laddove invece gli accessi superlocali effettuati hanno acclarato un uso anche religioso dello spazio de quo (significativo appare, per esempio l’utilizzo in concreto del lavatoio per le abluzioni), legittimandosi per tal modo l’adozione del provvedimento inibitorio contestato;
- considerato peraltro che lo spazio espositivo resta comunque utilizzabile per uso conforme a una nuova SCIA eventualmente presentata secondo le indicate prescrizioni...

TRIBUTITassa rifiuti, il comune può istituire tariffe differenziate per i B&B.
Il comune può del tutto legittimamente, ai fini delle determinazione delle tariffe Tarsu, se lo ritenga opportuno, stabilire una differenziazione tra l'attività di bed and breakfast (B&B), svolta in una civile abitazione, rispetto alla tariffa ordinariamente dovuta da quest'ultima.

Questa è la massima di una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V civile (sentenza 19.08.2015 n. 16972), che inerisce la Tarsu, che come è noto, è stata ormai sostituita prima dalla Tares e poi, attualmente dalla Tari, istituita con l'art. 1, c. 639, della legge 147/2013.
La giurisprudenza in esame riguarda il ricorso avverso l'avviso di accertamento di un ente locale, di un contribuente che, nell'immobile censito al catasto come civile abitazione, dove risiede esercita congiuntamente l'attività di bed and breakfast: tale attività consiste nell'erogazione dei servizi di alloggio e nell'erogazione della prima colazione, includendo in essa anche la biancheria, la conseguente pulizia dei locali e la fornitura dei beni di consumo, inclusi i beni igienico-sanitari e alimentari messi a disposizione degli avventori, da parte del proprietario che le gestisce avvalendosi della normale organizzazione dei propri familiari.
La Cassazione ricorda che il comune può istituire, ai sensi dell'art. 49 del dlgs n. 22 del 1997, tariffe differenziate per fasce di utenza che distinguano l'uso domestico e quello non domestico, previo accertamento dell'uso effettivo dei relativi immobili, essendo irrilevante la classificazione catastale (cfr. Cass. sez. 5, sentenza n. 18501 del 10/08/2010).
L'applicazione della tassa smaltimento rifiuti di cui al dlgs n. 507/1993, come ricordano i giudici della Cassazione, è disciplinata dal regolamento comunale in materia e dai provvedimenti allo stesso correlati, con particolare riferimento alla determinazione del costo complessivo del servizio, della percentuale di copertura del medesimo, nonché alla individuazione e strutturazione delle categorie di contribuenza e alla loro specificazione, e quindi alle valutazioni e accertamenti effettuati in merito alla effettiva produzione dei rifiuti, che risultano differenziati in relazione alle peculiari caratteristiche di ciascun territorio comunale.
Ricordando che l'attività esercitata di B&B non necessita di una modifica di destinazione d'uso dell'immobile in cui detta attività è esercitata, i giudici hanno ritenuto che quindi sarebbe illegittima una tassa relativa ai B&B determinata con le stesse modalità di quella dovuta dagli alberghi, in quanto le due fattispecie non sono assimilabili a tali fini, in quanto i bed & breakfast, svolgendo attività ricettiva in maniera occasionale e priva di carattere imprenditoriale, non possono, per espressa previsione normativa, essere equiparati alle strutture ricettive che svolgono l'attività professionalmente come alberghi, hotel ecc.
Invece ciò che risulta effettivamente rilevante ai fini di cui trattasi sono le qualità e quantità di rifiuti prodotti e non la destinazione d'uso dell'immobile.
Infatti le attività di accoglienza ricettiva esercitate da privati che, in via occasionale o saltuario, senza carattere di imprenditorialità e avvalendosi della organizzazione familiare utilizzano parte della propria abitazione fino a un numero massimo di camere o posti letto, fornendo ai turisti alloggio e prima colazione sono classificate come B&B.
Deve, quindi, ritenersi legittimo da parte del comune istituire, pur nell'ambito della destinazione a civile abitazione, una tariffa differenziata per l'uso che si fa di un immobile, a prescindere dalla destinazione catastale, verificando l'utilizzo in concreto da parte del proprietario di servizi come il cambio della biancheria, la pulizia dei locali, la fornitura del materiale di consumo a fini igienico-sanitari, la manutenzione ordinaria degli impianti e gli altri analoghi, quando tali servizi non siano riferibili solo al proprietario, ma anche ai clienti della struttura adibita a bed & breakfast.
Essendo l'imposta correlata alla capacità produttiva di rifiuti (come ricordato anche dalla giurisprudenza europea), deve ritenersi legittima la determinazione, assunta con la delibera commissariale citata, di prevedere una sottocategoria con valori e coefficienti di quantità e qualità intermedi tra le sottocategorie di civile abitazione e alberghi che tenga conto della promiscuità tra l'uso normale abitativo e la destinazione ricettiva a terzi.
Non si ravvisano, quindi, profili di illegittimità nella delibera dell'ente locale, che possa tener conto dei principi illustrati dalla Cassazione e finora illustrati (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

EDILIZIA PRIVATACirca 'avvenuta realizzazione abusiva di: 1) realizzazione di una parete in muratura al piano terra lato sud dell’immobile, a chiusura di un preesistente patio aperto sul lato sud, con realizzazione di un vano abitativo di mq. 9,00 circa con copertura in legno e tegole;
2) realizzazione sul fronte dell’ingresso lato sud e parzialmente sul lato est, di una tettoia in legno e tegole di mt. lineari 11,00 circa sul lato sud e di mt. 5,00 circa sul lato est, della lunghezza di mt. 2,50 circa;
3) realizzazione al primo piano lato sud, di un balcone di mt. 5.50 di lunghezza e mt. 1,00 circa di larghezza, con trasformazione di una finestra a porta di accesso al balcone;
4) chiusura di un preesistente patio al piano terra lato nord con ricavo di un vano abitativo di mq. 14,00 circa;
5) realizzazione al primo piano lato nord (sul vano di cui al punto 4) di un vano ex novo di mq. 14,00 circa con antistante balcone della lunghezza di mt. 9,50 circa e di larghezza di mt. 1,00 circa, nonché l’apertura di due nuovi vani porta di accesso al balcone”,
osserva il Collegio:
- che per la realizzazione delle opere prese in considerazione nell’ordinanza suddetta, sarebbe effettivamente occorso il previo rilascio di un permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 DPR 380/2001, trattandosi di un unitario intervento (non valutabile perciò in modo parcellizzato) di ristrutturazione edilizia con modifiche essenziali quanto al volume, alle superfici, alla sagoma e ai prospetti preesistenti, ed in conseguenza del quale l’organismo edilizio è risultato essere ben diverso dal precedente;
- che, in particolare, hanno determinato aumento di volume e superfici, le chiusure di due patii (così da ricavare due ulteriori ed ampi vani abitabili, non qualificabili come volumi tecnici in assenza di prova circa l’impossibilità di allocare impianti tecnici all’interno della parte preesistente del fabbricato), la realizzazione di una grande tettoia (come tale avente incidenza urbanistica e non qualificabile come pertinenza, stante anche l’assenza di autonomia rispetto al resto dell’edificio; e incidenza sui prospetti anche le modifiche di finestre e balconi;
- che, anche se tale tipologia di interventi può essere realizzata ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 tramite DIA, ciò non esclude il potere-dovere del Comune di ordinare la demolizione dato che, per espressa previsione di legge, gli artt. 31 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 si applicano anche agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 22, comma 3, eseguiti in assenza di denuncia di inizio attività o in totale difformità dalla stessa;
- che trattandosi di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di demolizione costituisce atto doveroso e vincolato nel contenuto, e, peraltro, il provvedimento appare dotato di adeguata motivazione, consistente nel richiamo alle norme violate e nella descrizione delle opere abusive, non occorrendo nella specie alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati;
- che l’evidenziata natura di atto doveroso e vincolato nel contenuto dell’ordinanza in questione, fa sì che la stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del relativo procedimento, anche in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990.

Il presente giudizio è incentrato sull’impugnazione dell’ordinanza n. 145 del 30.04.2009, con la quale il dirigente dell’Ufficio Abusivismo del Comune di Castel Volturno, richiamato il contenuto dell’informativa di reato n. 48/PM del 06.04.2009 del Comando di Polizia Municipale (a sua volta recettiva della relazione prot. n. 15771/2009 del 02.04.2009, riguardante l’esito del sopralluogo eseguito dal tecnico comunale unitamente a personale della Polizia Municipale), ha ingiunto alla proprietaria B.P. di demolire, nel termine di gg. 90 dalla notifica dell’atto, una serie di opere da lei poste in essere alla località Baia Verde – via ... n. 32, qualificate come abusive in quanto in assenza del prescritto permesso di costruire (nonché prive dell’autorizzazione paesaggistica, necessaria per essere la zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale ai sensi del Decr. Leg.vo 42/2004), e così descritte: “1) realizzazione di una parete in muratura al piano terra lato sud dell’immobile, a chiusura di un preesistente patio aperto sul lato sud, con realizzazione di un vano abitativo di mq. 9,00 circa con copertura in legno e tegole;
2) realizzazione sul fronte dell’ingresso lato sud e parzialmente sul lato est, di una tettoia in legno e tegole di mt. lineari 11,00 circa sul lato sud e di mt. 5,00 circa sul lato est, della lunghezza di mt. 2,50 circa;
3) realizzazione al primo piano lato sud, di un balcone di mt. 5.50 di lunghezza e mt. 1,00 circa di larghezza, con trasformazione di una finestra a porta di accesso al balcone;
4) chiusura di un preesistente patio al piano terra lato nord con ricavo di un vano abitativo di mq. 14,00 circa;
5) realizzazione al primo piano lato nord (sul vano di cui al punto 4) di un vano ex novo di mq. 14,00 circa con antistante balcone della lunghezza di mt. 9,50 circa e di larghezza di mt. 1,00 circa, nonché l’apertura di due nuovi vani porta di accesso al balcone
”.
Il gravame è affidato a nove articolati motivi, specificamente descritti nella parte in fatto.
Resiste il Comune intimato, contestando la fondatezza delle avverse censure, ed in particolare evidenziando come, per le opere in discussione, non sia stata presentata alcuna istanza di sanatoria.
Ciò così sommariamente delineato l’ambito della controversia, osserva il Collegio:
- che per la realizzazione delle opere prese in considerazione nell’ordinanza suddetta, sarebbe effettivamente occorso il previo rilascio di un permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 DPR 380/2001, trattandosi di un unitario intervento (non valutabile perciò in modo parcellizzato) di ristrutturazione edilizia con modifiche essenziali quanto al volume, alle superfici, alla sagoma e ai prospetti preesistenti, ed in conseguenza del quale l’organismo edilizio è risultato essere ben diverso dal precedente;
- che, in particolare, hanno determinato aumento di volume e superfici, le chiusure di due patii (così da ricavare due ulteriori ed ampi vani abitabili, non qualificabili come volumi tecnici in assenza di prova circa l’impossibilità di allocare impianti tecnici all’interno della parte preesistente del fabbricato), la realizzazione di una grande tettoia (come tale avente incidenza urbanistica e non qualificabile come pertinenza, stante anche l’assenza di autonomia rispetto al resto dell’edificio – cfr. Cons. di Stato sez. VI, n. 319 del 26.1.2015; TAR Campania-Napoli n. 6425 del 09.12.2014; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; Cass. Pen. Sez. III, n. n. 30564 del 16.05.2014); e incidenza sui prospetti anche le modifiche di finestre e balconi;
- che, anche se tale tipologia di interventi può essere realizzata ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 tramite DIA, ciò non esclude il potere-dovere del Comune di ordinare la demolizione dato che, per espressa previsione di legge, gli artt. 31 e 33, d.P.R. n. 380 del 2001 si applicano anche agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 22, comma 3, eseguiti in assenza di denuncia di inizio attività o in totale difformità dalla stessa (cfr. TAR Campania-Napoli n. 6382 del 05.12.2014);
- che trattandosi di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di demolizione costituisce atto doveroso e vincolato nel contenuto, e, peraltro, il provvedimento appare dotato di adeguata motivazione, consistente nel richiamo alle norme violate e nella descrizione delle opere abusive, non occorrendo nella specie alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2529 del 27.04.2004; TAR Emilia Romagna-Parma n. 154 del 25.05.2011; TAR Campania-Napoli n. 16526 dell’01.07.2010; TAR Campania-Napoli n. 13422 del 07.10.2008);
- che l’evidenziata natura di atto doveroso e vincolato nel contenuto dell’ordinanza in questione, fa sì che la stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del relativo procedimento, anche in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell’art. 21-octies L. 241/1990 (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2227 del 10.04.2009; Cons. di Stato sez. IV, n. 4659 del 26.09.2008; Cons. di Stato sez. V, n. 4530 del 19.09.2008; TAR Piemonte n. 752 del 16.03.2009; TAR Campania-Napoli n. 1376 dell’11.03.2009; TAR Basilicata n. 44 del 06.02.2009) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.08.2015 n. 4252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Progettisti senza requisiti. Nei raggruppamenti temporanei.
Negli appalti integrati di lavori, i progettisti indicati non assumono la qualità di concorrenti e non sono tenuti alla dimostrazione dei requisiti e agli adempimenti prescritti per i raggruppamenti temporanei.

Lo stabilisce il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 14.08.2015 n. 1335 rispetto a un ricorso nel quale si eccepiva che il raggruppamento di progettisti indicato dall'impresa partecipante a un appalto integrato di progettazione e costruzione, non fosse in possesso dei requisiti di capacità previsti dal disciplinare di gara per i raggruppamenti di progettisti indicato dalle imprese.
I giudici hanno respinto il ricorso affermando che le norme del regolamento del codice (dpr 207/2010) «si riferiscono ai soggetti che presentano l'offerta in associazione temporanea e che assumono la qualifica di concorrenti (prima) e di contraenti (poi, in caso di aggiudicazione) con la stazione appaltante».
La sentenza chiarisce che se i progettisti indicati non assumono la qualità di concorrenti, non sono tenuti alla dimostrazione dei requisiti e agli adempimenti prescritti dalla normativa vigente per i raggruppamenti temporanei. Da ciò discende, dice la sentenza, che le regole sulla conformazione interna dei raggruppamenti e sulla qualificazione in misura maggioritaria del progettista capogruppo risultano direttamente applicabili soltanto ai veri e propri raggruppamenti temporanei di progettisti. E non possono essere estese in modo cogente alle ipotesi in cui la concorrente si avvalga, per l'appalto integrato, di uno staff di progettisti indicati in sede di offerta, ai quali non può imporsi il rispetto di determinate forme organizzative.
Per i progettisti indicati, secondo i giudici, la stazione appaltante ha lasciato libertà organizzativa, limitandosi a richiedere il possesso globale e cumulativo delle qualificazioni nelle classi e categorie di progettazione, senza imporre percentuali minime o maggioritarie di fatturato per il capogruppo e per i mandanti.
Ancora di più è legittimo che il giovane professionista (obbligatorio nei raggruppamenti di progettisti) non abbia indicato alcun servizio utile alla qualificazione, in considerazione della peculiarità delle figura all'interno del raggruppamento e dello scopo perseguito dal legislatore (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAQuanto alla distanza di 5 metri dalla strada, il Collegio osserva che essa è pubblica.
Dalle foto, difatti, si rileva agevolmente che su di essa insistono gli impianti della pubblica illuminazione nonché la numerazione civica, e se ne deduce quindi la destinazione pubblica con conseguente presunzione di pubblicità della medesima.
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Il Collegio rileva che, laddove le pertinenze abbiano dimensioni trascurabili, esse secondo giurisprudenza condivisibile devono non rispettare la disciplina in materia di distanze né sono soggette a permesso di costruire.
In particolare, è stato ritenuto pertinenza un deposito agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad un immobile principale, con conseguente insussistenza dei presupposti per la demolizione non trattandosi di opera soggetta a concessione edilizia o permesso di costruire.
Nel caso di specie, dalla produzione fotografica, emerge che, per la destinazione, le ridotte dimensioni, i materiali utilizzati e l’oggettiva destinazione, sia il cd. deposito per attrezzi (che impegna un’area di mt. 4,30 di profondità, 8,10 di lunghezza e 2,40 di altezza) sia la tettoria adibita a copertura dei posti auto presentano i caratteri della pertinenza edilizia.
Il Collegio, difatti, condivide la Giurisprudenza secondo cui la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi e peculiari rispetto a quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto e non solo il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico; e assume inoltre rilievo la circostanza che si tratti di opere di modeste dimensioni, inidonee, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.

1.- I ricorrenti chiedono l’annullamento del provvedimento con il quale il Comune di Cepagatti ha rigettato la richiesta di sanatoria per una tettoia in legno adibita a parcheggio coperto e di una rimessa per attrezzi.
Il provvedimento impugnato è motivato, quanto alla sola rimessa per attrezzi, con riferimento al mancato rispetto della distanza minima di 5 metri dal ciglio di una strada pubblica prevista dalle NTA del Prg; per entrambi i manufatti, con la circostanza che, in ogni caso, non è stato prodotto l’atto pubblico, registrato e trascritto, per la deroga alla distanza minima di 5 metri dal confine di proprietà (quindi anche per il deposito ad attrezzi, qualora, come sostenuto dai ricorrenti, detta strada dovesse ritenersi privata e non pubblica); che non è stata allegata alla domanda di sanatoria l’attestazione di avvenuto deposito presso l’Amministrazione provinciale di Pescara, servizio sismico, di quanto previsto ai sensi della legge regionale n. 138 del 1996.
I ricorrenti espongono che innanzitutto si tratta di opere pertinenziali (quantomeno con riferimento alla rimessa per attrezzi) e quindi non sarebbe necessario il permesso di costruire.
La strada in questione inoltre avrebbe natura di strada privata in quanto attualmente ancora catastalmente intestata all’originario proprietario il quale avrebbe peraltro costituito in favore dei vicini il diritto di servitù di passaggio su di essa; inoltre non avrebbe le caratteristiche dimensionali previste dalla legge per una strada pubblica; la mera inclusione nell’elenco delle strade pubbliche poi non sarebbe ragione sufficiente per determinarne la natura pubblica; mancherebbero le opere di urbanizzazione tipiche di una strada pubblica.
L’articolo 14 della legge regionale n. 138 del 1996 poi non si applicherebbe al caso di specie, atteso che l’attestato di avvenuto deposito degli atti prescritti da detta legge sarebbe previsto solo al momento dell’inizio dei lavori.
Quanto alla richiesta dell’atto pubblico trascritto, ai fini della deroga della distanza minima di 5 metri dal confine di proprietà, i ricorrenti osservano che la disciplina di cui all’articolo 49.3 del regolamento edilizio non ne impone l’allegazione ai fini della improcedibilità della domanda di permesso di costruire, ma potrebbe semmai avere efficacia simile ad una condizione sospensiva dell’efficacia del permesso, anche in virtù del principio di proporzionalità (declinato nella specie come divieto di aggravamento) che impone di non gravare i privati di incombenti eccessivi rispetto alla funzione perseguita.
E a tal proposito i ricorrenti allegano al ricorso una dichiarazione del proprietario del lotto confinante con la quale questi si dice disposto a ad autorizzare dette opere mediante atto notarile.
1.2.- I ricorrenti chiedono, in via subordinata alla condanna, l’adozione di un provvedimento di accoglimento, nonché il risarcimento del danno ingiusto.
1.3.- All’udienza del 25.06.2015 la causa è passata in decisione.
2. - Il Comune eccepisce preliminarmente che vi è stato già un primo diniego di sanatoria (in data 09.08.2012) ed una conseguente ordinanza di demolizione (del 27.02.2013).
Il diniego sulla seconda istanza di sanatoria, qui impugnato, sarebbe pertanto un atto meramente confermativo, con la conseguente inammissibilità del ricorso, rafforzata peraltro dalla circostanza che i ricorrenti hanno omesso di impugnare la precedente ordinanza di demolizione, che non può dirsi divenuta inefficace, a fronte di una nuova identica domanda di sanatoria cui sarebbe appunto conseguito un diniego meramente confermativo del precedente.
L’eccezione appare infondata, in quanto dagli atti emerge che il primo diniego conteneva anche ragioni ulteriori, che poi sono state superate in risposta alla seconda istanza, sicché non può sostenersi che quest’ultima sia stata presentata al solo fine strumentale di ottenere la sospensione di efficacia della ordinanza di demolizione.
E’ la stessa Amministrazione che, nel secondo diniego qui impugnato, afferma che le ragioni impeditive al rilascio del permesso in sanatoria “in buona parte sussistono ancora”, con ciò ammettendosi appunto che a seguito di una rinnovata istruttoria esse sono venuto in parte meno (cfr. Tar Molise, sentenza, n. 406 del 2014).
3.- Nel merito il ricorso è fondato.
3.1.- Quanto alla distanza di 5 metri dalla strada, il Collegio osserva che essa è pubblica.
Dalle foto, difatti, si rileva agevolmente che su di essa insistono gli impianti della pubblica illuminazione nonché la numerazione civica, e se ne deduce quindi la destinazione pubblica con conseguente presunzione di pubblicità della medesima (cfr. Cassazione civile sentenza n. 23733 del 2012; Consiglio di Stato, sentenza n. 7504 del 2009; Tar Catanzaro, sentenza n. 643 del 2008).
3.2.- Quanto alla mancanza del previsto accordo tra privati per la deroga alla distanza dalla proprietà privata, ad avviso del Collegio, la posizione dell’Amministrazione non appare eccessivamente formalistica, vista l’esigenza di garantire la stabilità delle scelte edilizie nonché la circostanza che nel caso di specie ci si trova in una fase successiva alla realizzazione delle opere, sicché l’onere imposto al privato non è preventivo, ma successivo all’intervento.
3.3.- Quanto al regime delle distanze dai confini, si rileva dal provvedimento impugnato che tale disciplina sarebbe prevista dal regolamento edilizio comunale, ed essa risulta censurata con il rilievo secondo cui normalmente le pertinenze non soggiacciono alle distanze previste per le opere principali.
A tal proposito, il Collegio rileva che, laddove le pertinenze abbiano dimensioni trascurabili, esse secondo giurisprudenza condivisibile devono non rispettare la disciplina in materia di distanze (cfr. Cassazione civile, sentenza n. 72 del 2013) né sono soggette a permesso di costruire.
In particolare, è stato ritenuto pertinenza un deposito agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad un immobile principale, con conseguente insussistenza dei presupposti per la demolizione non trattandosi di opera soggetta a concessione edilizia o permesso di costruire (cfr. Tar Genova, sentenza n. 137 del 2015).
Nel caso di specie, dalla produzione fotografica, emerge che, per la destinazione, le ridotte dimensioni, i materiali utilizzati e l’oggettiva destinazione, sia il cd. deposito per attrezzi (che impegna un’area di mt. 4,30 di profondità, 8,10 di lunghezza e 2,40 di altezza) sia la tettoria adibita a copertura dei posti auto presentano i caratteri della pertinenza edilizia.
Il Collegio, difatti, condivide la Giurisprudenza secondo cui la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi e peculiari rispetto a quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto e non solo il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico; e assume inoltre rilievo la circostanza che si tratti di opere di modeste dimensioni, inidonee, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 3178 del 2014 e Tar Bologna sentenza n. 301 del 2014) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 11.08.2015 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per i proprietari. Violazioni del conduttore, inerzia pericolosa.
In caso di abuso costa cara l'inerzia al proprietario anche se a violare il regolamento edilizio è il conduttore. Il comune acquisisce al suo patrimonio l'immobile per demolire le opere contro legge: non risulta infatti che il locatore abbia diffidato l'inquilino a mettersi in regola né che abbia minacciato altrimenti la risoluzione del contratto d'affitto. Affinché il primo possa dirsi estraneo alla condotta del secondo, è necessario che ponga in essere condotte che puntano davvero alla tutela dell'abuso.

È quanto emerge dal Consiglio di Stato -Sez. VI- nella sentenza 07.08.2015 n. 3897.
Tutta colpa delle videolottery: il proprietario dell'immobile affittato alla sala giochi si vede portar via i locali dal comune per l'attività illecita compiutavi dal conduttore. E ciò perché l'installazione delle Vlt risulta contraria alla variazione del regolamento edilizio, mentre il contratto di locazione risulta peraltro anteriore alla modifica.
Il punto è che l'affitto viene sottoscritto con obbligo di adeguamento alle esigenze e il proprietario del cespite ben poteva rendersi conto che l'utilizzo attivato dal locatario nell'immobile commerciale non era consentito. Per chiamarsi fuori dall'illecito compiuto dall'inquilino il proprietario deve dimostrare di avergli intimato di cessarlo con toni ultimativi.
Non basta dunque dissociarsi dall'abuso del conduttore quando il comune ha notificato la comunicazione di avvio del procedimento oltre che all'inquilino allo stesso proprietario, il quale però non ha ritenuto di depositare alcuna memoria difensiva. Spese compensate per la peculiarità della vicenda (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio osserva che potrebbe condividersi la prima parte della doglianza, secondo cui eventuali dissidi con i confinanti non possono costituire ragione sufficiente per negare un permesso di costruire o per annullarlo in autotutela dopo il suo rilascio.
Tuttavia, l’Amministrazione deve invece spingersi oltre, individuando la ragione del dissidio e valutando se questa possa influire sui presupposti per il rilascio del titolo quali, ad esempio, la disponibilità del bene o la sua legittimazione ad essere trasformato attraverso l’attività edilizia successiva.

1. Con il ricorso introduttivo del giudizio viene impugnato il provvedimento del 09.04.2014 prot. n. 4056 con cui veniva annullato, in autotutela, il permesso di costruire n. 31 del 14.10.2013 rilasciato in deroga alle distanze, ai sensi dell’art. 79 del DPR n. 380/2001, per l’installazione di un ascensore esterno finalizzato all’abbattimento di barriere architettoniche.
Le ragioni dell’annullamento vengono individuate nella falsa attestazione, resa in sede di domanda, secondo cui sarebbe stata risolta la vertenza con i confinanti riguardante l’area interessata dai lavori, oltre all’esigenza di non interferire nell’esecuzione della sentenza del Tribunale Civile di Ascoli Piceno n. 79/2013 che disponeva la demolizione del manufatto su cui tale ascensore avrebbe dovuto appoggiare, dovendosi quindi provvedere attraverso soluzioni alternative. Il Comune si determinava inoltre sul rilievo che, alla data di adozione del provvedimento impugnato, i lavori non erano iniziati.
Si è costituita in giudizio la sola contro interessata per dedurre eccezioni in rito e per contestare, nel merito, le deduzioni di parte ricorrente chiedendone il rigetto. Propone, inoltre, ricorso incidentale avverso il permesso di costruire n. 31 del 14.10.2013 per ragioni analoghe a quelle che hanno determinato l’annullamento d’ufficio, chiedendo infine l’adempimento alle sentenze del giudice civile nn. 53/2002 e 79/2003.
2. Il ricorso introduttivo del giudizio è infondato, per cui il Collegio ritiene di soprassedere dall’esame dell’eccezione preliminare.
3. Con il primo motivo viene dedotta violazione degli artt. 78 e 79 del DPR n. 380/2001 nonché eccesso di potere per carenza di presupposti e di istruttoria, poiché la deroga di cui all’art. 79 deve essere concessa indipendentemente dai rapporti tra confinanti. Rientra poi nei rapporti privatistici anche l’esecuzione della sentenza del giudice ordinario. In ogni caso deve prevalere il diritto del ricorrente all’eliminazione delle barriere architettoniche.
Al riguardo il Collegio osserva che potrebbe condividersi la prima parte della doglianza, secondo cui eventuali dissidi con i confinanti non possono costituire ragione sufficiente per negare un permesso di costruire o per annullarlo in autotutela dopo il suo rilascio.
L’Amministrazione deve invece spingersi oltre, individuando la ragione del dissidio e valutando se questa possa influire sui presupposti per il rilascio del titolo quali, ad esempio, la disponibilità del bene o la sua legittimazione ad essere trasformato attraverso l’attività edilizia successiva.
Nel caso specifico ricorre quest’ultima circostanza.
La sentenza n. 53/2002 del Tribunale Civile di Ascoli Piceno, confermata dalla Corte d’Appello di Ancona con sentenza n. 79/2013, influisce sulla realizzabilità del progetto, poiché l’ascensore verrebbe appoggiato su un manufatto che deve essere demolito per ordine del giudice (ma anche dell’autorità amministrativa, come si vedrà meglio di seguito).
Non è quindi solo una questione circoscritta ai rapporti interprivati, ma riguarda la legittimazione dello stato di fatto su cui il progetto dell’ascensore si inserisce e ne determina una trasformazione definitiva, incompatibile con il suo adeguamento allo stato di diritto.
Sarebbe come chiedere il permesso di costruire per sopraelevare un edificio completamente abusivo e di cui ne è stata ordinata la demolizione.
La mera sussistenza di conflitti di vicinato risulta inoltre esclusa dal fatto che il manufatto, su cui dovrebbe appoggiare il realizzando ascensore, era stato anche oggetto di ordinanza di demolizione emessa dal Comune in applicazione dei poteri di vigilanza sull’attività edilizia (poiché realizzato senza titolo); ordinanza impugnata davanti a questo Tribunale e oggetto di misura cautelare sospensiva, ma con ricorso poi estinto per perenzione, con conseguente ripristino dell’efficacia del provvedimento amministrativo qualora non superato da atti e provvedimenti successivi.
Il diritto del ricorrente all’eliminazione delle barriere architettoniche non può quindi prevalere fino al punto di rendere irrilevanti provvedimenti legittimamente adottati dell’autorità giudiziaria e dall’autorità amministrativa.
Nel caso di specie va osservato che anche qualora non esistessero soluzione alternative, l’installazione dell’ascensore potrebbe comunque essere rivalutata una volta rimossa l’opera abusiva che avrebbe servito da basamento (TAR Marche, sentenza 24.07.2015 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va applicato l’indirizzo, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui laddove intercorra un breve lasso temporale tra il rilascio del premesso di costruire (che è avvenuto in data 14.10.2013) e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento (effettuata in data 08.03.2014), previa sospensione dei lavori in data 26.11.2013 (con opera quindi mai iniziata), è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento alla conservazione di un titolo che non ha prodotto alcun effetto.

4. Con il secondo motivo viene dedotta violazione ed errata applicazione dell’art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, nonché eccesso di potere per difetto di motivazione.
Nello specifico il ricorrente lamenta l’omessa indicazione dell’interesse pubblico all’annullamento da compararsi con l’interesse privato alla conservazione del provvedimento. Rimarca inoltre la doglianza già dedotta con il motivo precedente, secondo cui l’interesse all’eliminazione delle barriere architettoniche prevale sull’interesse pubblico all’esecuzione di una sentenza.
Anche tale censura va disattesa.
Al riguardo va applicato l’indirizzo, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui laddove, come nel caso all’esame, intercorra un breve lasso temporale tra il rilascio del premesso di costruire (che è avvenuto in data 14.10.2013) e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento (effettuata in data 08.03.2014), previa sospensione dei lavori in data 26.11.2013 (con opera quindi mai iniziata), è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.
In tale contesto, infatti, non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento alla conservazione di un titolo che non ha prodotto alcun effetto (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 04.05.2012 n. 772; idem, Milano, Sez. IV, 13.04.2011 n. 971; TAR Lecce, Sez. III, 06.06.2008 n. 1680; TRGA, Bolzano, 07.10.2006 n. 379; TAR Lombardia, Brescia, 04.06.2004 n. 609) (TAR Marche, sentenza 24.07.2015 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIProject financing, limiti agli enti. L'autotutela della p.a., se la società fallisce, va circoscritta. Per il Consiglio di stato il comune non può appropriarsi dei beni dell'azienda.
Dal Consiglio di stato arriva uno stop per gli enti pubblici concedenti all'esercizio di poteri di natura pubblicistica nell'ambito delle concessioni di lavori pubblici realizzate in project financing.

Con la sentenza 21.07.2015 n. 3631, i giudici di palazzo Spada -Sez. V- hanno esaminato il ricorso presentato dalla curatela fallimentare di una società mista incaricata della realizzazione e gestione di un parcheggio in finanza di progetto contro il provvedimento con il quale il comune concedente, nonché socio di maggioranza della società, esercitando i poteri di autotutela demaniale ex articolo 826 codice civile, acquisiva l'area su cui insiste il parcheggio al proprio patrimonio indisponibile.
La società mista concessionaria, al momento del fallimento, risultava titolare di due distinte concessioni: una avente ad oggetto la costruzione e gestione di un parcheggio multipiano e una avente ad oggetto esclusivamente la gestione di aree pubbliche di sosta. In seguito al fallimento, il comune procedeva a dichiarare la società decaduta da entrambe le concessioni e, con provvedimento successivo, accertava la caducazione automatica di tutti gli accordi accessori alle concessioni, tra i quali il contratto di cessione del diritto di superficie sulle aree adibite ai parcheggi, ordinandone, di conseguenza, lo sgombero e disponendone l'acquisizione al proprio patrimonio indisponibile.
Nell'accogliere le motivazioni su cui si basa l'impugnativa al Consiglio di stato da parte degli organi del fallimento, i giudici richiamano la precedente sentenza n. 1600 del 14.04.2008, con la quale viene chiarito che la distinzione tra concessione di lavori pubblici e concessione di pubblico servizio si fonda su un criterio di tipo «funzionale», oltre a quello della «prevalenza economica».
Di conseguenza, si configura una concessione di lavori pubblici qualora la gestione del servizio si renda strumentale alla costruzione dell'opera, in quanto funzionale al reperimento dei mezzi finanziari necessari alla sua realizzazione; d'altra parte, una concessione si qualifica di servizio pubblico nei casi in cui la realizzazione dei lavori è necessaria a garantire la gestione di un servizio, il cui funzionamento è comunque assicurato da un'opera esistente.
Nel caso in questione, quindi, la concessione per la realizzazione e gestione del parcheggio si inquadra nell'ambito delle concessioni di lavori pubblici: il parcheggio multipiano interrato, infatti, aumentando la capacità di spazi di sosta sul territorio comunale, si configura come opera di pubblica utilità, la cui costruzione non è imposta da alcuna norma di legge e per la cui realizzazione mediante project financing viene fatto ricorso principalmente a capitali di origine privata. Viceversa, la concessione per la gestione delle aree pubbliche di sosta risulta essere strumentale alla gestione di un servizio previsto dal Codice della strada, quello della riscossione dei proventi dei parcheggi a pagamento, afferendo così alla categoria delle concessioni di servizio pubblico.
Sulla base della suddetta distinzione, i giudici amministrativi procedono a chiarire le diverse conseguenze del fallimento della società sulle due concessioni in essere.
Sebbene venga riconosciuta la legittimità da parte del comune a dichiarare la decadenza di entrambe le concessioni, solo relativamente alla concessione di servizio pubblico, ovvero quella consistente nella gestione delle aree pubbliche di sosta, l'ente concedente può procedere, al fine di far fronte all'interruzione di pubblico servizio, all'acquisizione in autotutela delle aree in concessione.
Viceversa, per quanto riguarda la concessione per la costruzione e gestione del parcheggio multipiano, la riacquisizione delle aree al proprio patrimonio indisponibile comporterebbe l'appropriazione illegittima da parte del comune di un bene privato, essendo il parcheggio realizzato su un'area concessa dal comune con diritto di superficie alla società concessionaria, che ne risulta pertanto proprietaria ai sensi dell'articolo 952 codice civile.
A questa conclusione si giunge anche nel caso in oggetto, in cui l'amministrazione comunale possiede la maggioranza nella società mista fallita: non appare, infatti, ammissibile che il Comune possa sollevarsi dal rischio di impresa implicitamente assunto al momento della costituzione della società, ricorrendo alle prerogative proprie degli enti pubblici, quali l'esercizio dell'autotutela demaniale.
I giudici di Palazzo Spada, accogliendo le istanze della curatela, rilevano anche la violazione del principio della par condicio creditorum, dal momento che l'amministrazione comunale, soddisfacendo le proprie ragioni di credito derivanti dal fallimento tramite l'esercizio dei propri poteri autoritativi, sottrae alla massa passiva dei creditori l'unico cespite patrimoniale caduto nella procedura concorsuale.
Infine, l'impossibilità per il comune di agire in autotutela emerge anche in merito alla realizzazione delle opere tramite project financing: infatti, dal momento che il ritorno per i finanziatori del progetto è garantito esclusivamente dai flussi finanziari derivanti dall'investimento stesso, appare necessario prevedere forme di garanzia patrimoniale che consentano a questi di mitigare gli effetti negativi di un eventuale default del concessionario.
In conclusione, il ricorso da parte del Comune ai propri poteri di autotutela al fine di riacquisire le aree adibite alla costruzione del parcheggio multipiano in finanza di progetto, non solo risulta essere in conflitto con la natura privata del bene, ma lede anche il principio della par condicio creditorum e indebolisce il sistema di garanzie a tutela dei finanziatori, minando pericolosamente le basi stesse del project financing (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione agli articoli 31 e 34 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, dette norme, nella parte in cui prevedono la “rimozione” delle difformità rilevate, rispetto al progetto assentito, debbono trovare lettura conforme ai principi –di rilevanza anche comunitaria– di proporzionalità e ragionevolezza.
In base a tali principi, ove sussista un manufatto regolarmente assentito ed autonomamente utilizzabile, l’esecuzione di altre opere, che comportino la realizzazione di un “quid novi”, ugualmente suscettibile di utilizzazione autonoma, comporta applicazione del citato art. 31 solo per quanto abusivamente realizzato, quando lo “scorporo” della parte assentita sia materialmente possibile (come nel caso in esame, potendosi riportare il terreno al livello originario,con ripristino del carattere di fondazione della parte interrata).
Per le difformità parziali della parte regolarmente edificata, invece, la sanzione deve essere pure di tipo demolitorio, ma ai sensi dell’art. 34 del medesimo d.P.R. n. 380, per quanto riguarda il volume aggiuntivo, ricavato con mere tamponature del porticato autorizzato ed eventuale sanzione pecuniaria per altre difformità minori, ove non eliminabili “senza pregiudizio della parte eseguita in conformità” (come sembra ipotizzabile per il modesto eccesso di altezza e di superficie, fatto salvo in ogni caso anche il ripristino della destinazione d’uso, a suo tempo assentita).
Deve infatti ritenersi che la demolizione di un intero fabbricato, realizzato in parte con regolare titolo abilitativo, sia ammessa solo quando gli interventi abusivi risultino tali, da rendere non più identificabile e ripristinabile quanto regolarmente edificato: situazione che non si ravvisa nel caso di specie e che, soprattutto, non appare adeguatamente valutata da parte del Comune, con immotivata e, a tal punto, sproporzionata compromissione degli interessi del proprietario dell’immobile, che potrebbe salvare il valore della proprietà, nella esatta misura corrispondente all’edificazione già assentita, senza alcuna lesione dell’’interesse pubblico al rispetto delle regole per la trasformazione del territorio, tenuto conto anche dei vincoli gravanti sullo stesso.

... il Collegio rileva l’illegittimità dell’ordine di demolizione, impugnato in primo grado, sotto il duplice profilo del già accennato travisamento, circa la natura degli interventi effettuati, nonché della falsa applicazione degli articoli 31e 34 del citato d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Dette norme infatti, nella parte in cui prevedono la “rimozione” delle difformità rilevate, rispetto al progetto assentito, debbono trovare lettura conforme ai principi –di rilevanza anche comunitaria– di proporzionalità e ragionevolezza.
In base a tali principi, ove sussista un manufatto regolarmente assentito ed autonomamente utilizzabile, l’esecuzione di altre opere, che comportino la realizzazione di un “quid novi”, ugualmente suscettibile di utilizzazione autonoma, comporta applicazione del citato art. 31 solo per quanto abusivamente realizzato, quando lo “scorporo” della parte assentita sia materialmente possibile (come nel caso in esame, potendosi riportare il terreno al livello originario,con ripristino del carattere di fondazione della parte interrata).
Per le difformità parziali della parte regolarmente edificata, invece, la sanzione deve essere pure di tipo demolitorio, ma ai sensi dell’art. 34 del medesimo d.P.R. n. 380, per quanto riguarda il volume aggiuntivo, ricavato con mere tamponature del porticato autorizzato ed eventuale sanzione pecuniaria per altre difformità minori, ove non eliminabili “senza pregiudizio della parte eseguita in conformità” (come sembra ipotizzabile per il modesto eccesso di altezza e di superficie, fatto salvo in ogni caso anche il ripristino della destinazione d’uso, a suo tempo assentita).
Deve infatti ritenersi che la demolizione di un intero fabbricato, realizzato in parte con regolare titolo abilitativo, sia ammessa solo quando gli interventi abusivi risultino tali, da rendere non più identificabile e ripristinabile quanto regolarmente edificato: situazione che non si ravvisa nel caso di specie e che, soprattutto, non appare adeguatamente valutata da parte del Comune, con immotivata e, a tal punto, sproporzionata compromissione degli interessi del proprietario dell’immobile, che potrebbe salvare il valore della proprietà, nella esatta misura corrispondente all’edificazione già assentita, senza alcuna lesione dell’’interesse pubblico al rispetto delle regole per la trasformazione del territorio, tenuto conto anche dei vincoli gravanti sullo stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.06.2015 n. 3179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune non può disapplicare una norma del PRG/PGT palesemente illegittima ma, semmai, provvedervi in autotutela.
Il tema centrale nella fattispecie non è quello della legittimità o meno della citata normativa di cui all’art. 178 delle N.T.A. che, come si è visto, collide frontalmente con la cogente disciplina nazionale.
Il nocciolo della questione attiene alla diversa tematica della possibilità o meno da parte del Comune di disapplicare la propria norma di pianificazione o, meglio, la possibilità di un organo tecnico del Comune di disapplicare una disciplina urbanistica adottata dall’organo consiliare del Comune stesso. E tale potere è palesemente in contrasto con l’ordinamento.
In questo senso il Comune non ha il potere di disapplicare una propria disposizione cogente, per quanto questa sia pacificamente in contrasto con l’ordinamento, ma ha, al più, il dovere di agire in autotutela, autoannullandola, e ciò non certamente tramite l’intervento di un organo tecnico, carente di competenze in tema pianificatorio, ma attraverso l’azione dello stesso strumento consiliare deputato all’adozione della disciplina urbanistica.

3. - Con il primo motivo di appello, viene lamentata violazione dell’art. 12, comma 3, del Testo unico dell’edilizia e dell’art. 10, comma 5, della legge urbanistica, quali principi generali di governo del territorio. Seguendo la posizione del Comune, la norma de qua non potrebbe essere applicata in quanto in palese contrasto con la cogente normativa nazionale in tema di efficacia delle misure di salvaguardia a seguito di adozione di variante urbanistica.
La detta censura è poi sviluppata, sotto un diverso profilo, con il secondo motivo di appello, che si riferisce ad una diversa interpretazione dottrinale della disciplina de qua.
3.1. - La censura, come articolata in entrambi i motivi, va respinta in quanto inconferente.
Come correttamente evidenziato dalla difesa della parte appellata, il tema qui in esame non è quello della legittimità della norma di cui all’art. 178 delle N.T.A. del Comune di Cesenatico, atteso che nessuna delle parti può proporre censure sotto questo aspetto (non il Comune, che tale disposizione ha adottato e che, non potendo disapplicarla, può solo autoannullarla; né la controparte, che di tale disciplina vuole giovarsi), ma quello diverso della possibilità o meno che la stessa norma possa essere applicata al caso concreto, dove l’applicabilità è vicenda diversa e più complessa, di cui la vantata illegittimità costituisce uno, ma non l’unico, dei parametri di riferimento.
Partendo proprio dall’esame della disciplina vigente nel Comune di Cesenatico ed applicabile alla situazione in scrutinio, non vi sono dubbi che la disposizione in esame sia del tutto configgente con la disciplina nazionale in tema di misure di salvaguardia, come già evidenziato dal primo giudice.
La fattispecie è, infatti, regolata, nell’ambito degli strumenti urbanistici applicabile ratione temporis, dalla disciplina dell’articolo 178 delle N.T.A., il quale dispone che “i procedimenti relativi all’attività edilizia in corso alla data di adozione di nuovi strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica… per i quali non sia stato possibile garantire la partecipazione degli interessati al procedimento di formazione degli strumenti medesimi, come previsto dall’articolo 8, comma terzo della legge regionale n. 20 del 24.03.2000, sono conclusi secondo la normativa previgente”.
Si tratta in concreto della disciplina valevole alla data della presentazione della domanda di rilascio del titolo edilizio da parte della società ricorrente e perciò applicabile alla fattispecie, in quanto il procedimento amministrativo era già in corso nel momento in cui sono sopravvenuti i nuovi strumenti urbanistici ostativi.
Tuttavia, pur muovendo da una concordante valutazione del fatto, deve però ritenersi errata la ricostruzione del primo giudice sulla coerenza di tale disciplina comunale con quella nazionale in quanto, al contrario di quanto da questi ritenuto, la normativa in esame è palesemente in contrasto con l’art. 12 del D.P.R. 380/2001 e con la corrispondente disposizione, di analogo tenore, della legge regionale n. 20 del 2000.
Infatti, il comma 3 del citato art. 12 “Presupposti per il rilascio del permesso di costruire” così recita: “In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.”
Quindi, mentre la norma nazionale impedisce, sospendendola, l’ulteriore attività di rilascio dei titoli abilitativi, la norma comunale la permette, sebbene con alcune precisazioni. Il contrasto tra le disposizioni è quindi frontale.
Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, la norma tecnica attuativa contrastava con il disposto delle norme nazionali, seguendo proprio i principi già evocati in giudizio (rinviando per brevità alle citate decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2008 e della Corte Costituzionale 29.05.2013, n. 102 in merito al rapporto tra il potere normativo nazionale e regionale evidenziando che la disciplina dell’articolo 12 così come le ulteriori disposizioni del D.P.R. 380 del 2001 contengono principi fondamentali della materia non derogabili dalla normativa regionale).
L’ipotesi ricostruttiva proposta in sentenza, quella per cui il Comune, in una situazione di tale cogenza, possa adottare una norma derogatoria, di carattere dispositivo e integrabile dalla pianificazione urbanistica, è quindi assolutamente non condivisibile, essendosi qui in presenza di una norma dal marcato carattere dell’illegittimità.
Il tema centrale nella fattispecie non è tuttavia quello della legittimità o meno della citata normativa di cui all’art. 178 delle N.T.A. che, come si è visto, collide frontalmente con la cogente disciplina nazionale. Il nocciolo della questione attiene alla diversa tematica della possibilità o meno da parte del Comune di disapplicare la propria norma di pianificazione o, meglio, la possibilità di un organo tecnico del Comune di disapplicare una disciplina urbanistica adottata dall’organo consiliare del Comune stesso. E tale potere è palesemente in contrasto con l’ordinamento.
In questo senso (per le diverse declinazioni dell’impossibilità dell’amministrazione di disattendere i propri atti vincolanti, si veda da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, 23.09.2014 n. 3150, in merito alle regole dei bandi di gara; Consiglio di Stato, sez. VI, 16.09.2011 n. 5178, sull’efficacia dell’atto illegittimo e sulla possibilità di rilievo di tale vizio con i soli rituali strumenti previsti dall'ordinamento, e non tramite la disapplicazione; in senso conforme Consiglio di Stato, sez. V, 17.02.2010 n. 934), il Comune non aveva il potere di disapplicare una propria disposizione cogente, per quanto questa fosse pacificamente in contrasto con l’ordinamento, ma avrebbe dovuto al più agire in autotutela, autoannullandola, e ciò non certamente tramite l’intervento di un organo tecnico, carente di competenze in tema pianificatorio, ma attraverso l’azione dello stesso strumento consiliare deputato all’adozione della disciplina urbanistica.
In concreto, come già correttamente affermato dal primo giudice, essendo del tutto pacifico che il progetto presentato dalla società ricorrente fosse in contrasto con la variante agli strumenti urbanistici sopravvenuti ed approvati dal comune, la parte ha chiesto di giovarsi di una norma esistente nello strumento urbanistico e il Comune, ossia lo stesso soggetto che aveva imposto tale disposizione, non aveva alcun potere per eludere la sua stessa normativa.
Conclusivamente, pur in presenza di una palese violazione dell’ordinamento urbanistico, il Comune era vincolato a dare attuazione alla disciplina che esso stesso aveva adottato. Il motivo di appello va quindi respinto, seppure con una motivazione diversa dal giudice di prime cure (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la legittimità di un intervento edilizio di sopraelevazione di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione paesaggistica rilasciata e la D.I.A. presentata, la legittimazione della parte è fondata sull’esistenza della vicinitas.
Osserva la Sezione come, sulla sufficienza di tale solo requisito, siano registrabili orientamenti giurisprudenziali difformi.
Secondo una tesi più ampliativa, la legittimazione a impugnare un titolo edilizio non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale.
Per una concezione più limitativa, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione della vicinitas andrebbe ponderata in base ad un giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera.
Ritiene tuttavia la Sezione di doversi rifare all’orientamento ampliativo prima indicato, in ragione del diverso atteggiarsi della prova del requisito ulteriore, come è andata evolvendosi in tempi recenti.
Infatti, l’evoluzione delle tematiche connesse alla pianificazione territoriale ha trasferito nel campo urbanistico temi prima ad esso estranei (come la salvaguardia dei valori ambientali o culturali), determinando una ricerca più puntuale in questi settori di ulteriori fatti di legittimazione.
Appare quindi necessario ribadire, in tale contesto evolutivo, il principio della maggiore tutelabilità di quegli interessi che, contrastando una nuova edificazione, mirano a preservare le condizioni dell'area, il pregiudizio in capo alla proprietà preesistente e anche l'assetto edilizio ed urbanistico ed ambientale della zona. E ciò può aversi riconoscendo ad essi, forse in modo più intenso che nel passato, il connotato della legittimazione in relazione alla sola vicinanza, senza ulteriori qualificazioni che, invece, ben si addicono a forme di tutela di maggiore ampiezza e più difficile esperibilità.

3. - Con il primo motivo di appello, viene riproposta l’eccezione di inammissibilità dell’impugnativa per difetto di interesse, in relazione alla circostanza dell’insufficienza del criterio della vicinitas per radicare il potere di impugnativa.
3.1. - La censura va respinta.
Come evidenziato, la controversia in scrutinio concerne la legittimità di un intervento edilizio di sopraelevazione di immobile esistente, attraverso l’autorizzazione paesaggistica rilasciata e la D.I.A. presentata.
La legittimazione della parte è fondata sull’esistenza della vicinitas, visto che non è oggetto di contestazione la circostanza che gli immobili siano distanti solo pochi metri, che appartengano allo stesso contesto urbanistico territoriale e si pongano ai lati della medesima strada.
Osserva la Sezione come, sulla sufficienza di tale solo requisito, siano registrabili orientamenti giurisprudenziali difformi (per l’esame di alcuni profili della questione si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 29.11.2012 n. 6081; id., sez. VI, 20.10.2010, n. 7591).
Secondo una tesi più ampliativa, la legittimazione a impugnare un titolo edilizio non postulerebbe necessariamente l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale (Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2010, n. 1535).
Per una concezione più limitativa, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia la condizione della vicinitas andrebbe ponderata in base ad un giudizio che tenga conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera (Consiglio di Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2849).
Ritiene tuttavia la Sezione di doversi rifare all’orientamento ampliativo prima indicato, in ragione del diverso atteggiarsi della prova del requisito ulteriore, come è andata evolvendosi in tempi recenti.
Infatti, l’evoluzione delle tematiche connesse alla pianificazione territoriale ha trasferito nel campo urbanistico temi prima ad esso estranei (come la salvaguardia dei valori ambientali o culturali), determinando una ricerca più puntuale in questi settori di ulteriori fatti di legittimazione (si veda, in materia di impugnazione di titoli che incidano su interessi ambientali, da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 21.11.2013 n. 5528).
Appare quindi necessario ribadire, in tale contesto evolutivo, il principio della maggiore tutelabilità di quegli interessi che, contrastando una nuova edificazione, mirano a preservare le condizioni dell'area, il pregiudizio in capo alla proprietà preesistente e anche l'assetto edilizio ed urbanistico ed ambientale della zona. E ciò può aversi riconoscendo ad essi, forse in modo più intenso che nel passato, il connotato della legittimazione in relazione alla sola vicinanza, senza ulteriori qualificazioni che, invece, ben si addicono a forme di tutela di maggiore ampiezza e più difficile esperibilità.
Nel caso di specie, non sono in dubbio né il tema della vicinanza né quello dell’identità del contesto territoriale ed urbanistico, rendendo quindi insostenibile l’eccezione de qua
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del decreto 02.04.1968, n. 1444, deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela
Nel computo delle distanze vanno considerati tutti gli elementi costruttivi aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione; pertanto vanno ricompresi tra i manufatti rilevanti a fini di distanze, anche i muri di contenimento quale quello in questione.

4. - Con il secondo motivo di appello, vengono sollevate censure in relazione al motivo che ha determinato l’accoglimento del ricorso da parte del TAR, lamentando erroneità della sentenza per travisamento, perplessità, difetto di motivazione e contraddittorietà; violazione e falsa applicazione dell’art. 117 della Costituzione, dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, dell’art. 3 della L.R. Liguria n. 49 del 2009 e dell’art. 100 c.p.c.; mancato giudizio di inammissibilità.
Nel dettaglio, si evidenzia (punto a) la derogabilità degli standard di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 e (punto b) la presenza della distanza minima di dieci metri tra le costruzioni.
4.1. - Entrambi i profili del motivo sono infondati.
In relazione alla derogabilità o meno degli standard previsti dall’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, va rimarcato come il tema della loro cogenza abbia avuto una conferma espressa, in senso diametralmente opposto a quanto voluto dalla parte appellante, proprio con la disciplina di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (introdotta dall'articolo 30, comma 1, del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98).
La detta disposizione ha attribuito ex novo un potere di predisporre deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati, “ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative”, alle regioni ed alle province autonome che potranno fruire di tale opportunità tramite “proprie leggi e regolamenti”, confermando quindi l’esigenza di una positiva ed espressa valutazione dei modi di deroga alla disciplina generale di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444, e quindi negando una recessività sui generis della norma.
Peraltro, proprio l’ipotesi di deroghe allo stesso D.M. era stata vagliata dalla Corte costituzionale, con sentenza del 23.01.2013 n. 6, nella quale si è evidenziato che la legislazione regionale che interviene in tema “è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico” e che “le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.”
Enunciando un principio del tutto valevole nel caso in esame, il giudice delle leggi ha quindi affermato “Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest'ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio
.”
È quindi evidente che, nel caso in esame, non vertendosi in alcuna delle eccezioni sopra vagliate, correttamente il primo giudice ha ritenuto la disciplina ministeriale del tutto inderogabile.
Venendo poi al secondo punto, attinente alla questione della distanza tra i fabbricati, va evidenziato che non è qui in contestazione il fatto oggettivo, ma la sua applicabilità alla vicenda in esame, in relazione ai presupposti esistenti. Infatti, la parte appellante contesta che la disciplina sia applicabile alla fattispecie sia perché la nuova edificazione “non dista meno di dieci metri da alcun fabbricato di proprietà dell’attuale appellata (che risiede nell’appartamento a piano terra del civico 8 di via privata Giovo)” sia perché la distanza di dieci metri, come computata dal TAR, è riferita al muro di contenimento frontistante la via privata Giovo e quindi non è riferibile ad una parete finestrata.
Le questioni sono però inconferenti.
Iniziando dal secondo dei profili di doglianza, va notato, come correttamente notato dal TAR, che “nella specie appaiono pacifici i dati di fatto: l’intervento comporta un nuovo volume (con parete finestrata) in altezza del preesistente edificio, rispetto al quale il limite dei dieci metri non viene rispettato in confronto al muro di contenimento frontistante del fabbricato di via privata Giovo n. 6 e per una porzione nei confronti dell’edificio della stessa via privata nn. 3a e 3b posto in posizione latistante.”
Infatti, è incontestabile l’esistenza di una parete finestrata, che è quella dell’edificio che si andrà a realizzare (fatto peraltro rinvenibile dall’esame dei progetti presentati a corredo della D.I.A. e inserito al n. 7 dei documenti presentati dalla ricorrente Galli al TAR e, peraltro, non contestato dalla parte appellante, che evidenzia la natura di immobile non finestrato del muro di contenimento, senza mai accennare alla condizione dell’immobile che sarà realizzato).
La doglianza è quindi smentita in fatto (e peraltro, nemmeno aggredita dalla parte che, si ripete, fa riferimento solo ad uno dei due manufatti contrastanti, trascurando completamente quello che essa stessa andrà a realizzare).
In merito poi alle modalità di calcolo della distanza predicabile, il primo giudice ha fatto buon governo delle precedenti decisioni in tema, evidenziando: che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del decreto 02.04.1968, n. 1444, deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909); che nel computo delle distanze vanno considerati tutti gli elementi costruttivi aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268); che pertanto vanno ricompresi tra i manufatti rilevanti a fini di distanze, anche i muri di contenimento quale quello in questione (da ultimo, Cassazione civile, sez. VI, 13.09.2012 n. 15391).
Anche in questo caso, il primo giudice ha valutato la fattispecie correttamente.
I rilievi appena svolti consentono di respingere il motivo anche in relazione al primo profilo, dove la parte fondava le proprie affermazioni sulla disaggregazione del concetto di edificio, ritenendo che l’abitazione della parte appellante non comprendesse anche il muro di contenimento, ricostruzione del tutto infondata, come appena visto.
Il motivo di appello è quindi infondato e va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR n. 06.06.2001, n. 380 può essere chiesta solo per interventi realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività prevista dall'art. 22, commi 1 e 2, e non è estensibile anche agli interventi assoggettati a permesso di costruire per i quali trova applicazione la procedura di accertamento di conformità di cui all'art. 36.
Nel caso di specie i lavori modificano la sagoma dell’edificio e, ai sensi dell’art. 22, comma 2, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'articolo 30, comma 1, lettera e), del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98 applicabile ratione temporis alla fattispecie all’esame, gli interventi comportanti modifica alla sagoma non erano autorizzabili con denuncia di inizio attività.
Ne consegue che, rispetto agli abusi realizzati, non può trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 37 del DPR 06.06.2001, n. 380 e, in mancanza dei requisiti minimi per ritenere efficace la denuncia di inizio attività, la sanatoria non può ritenersi accolta per silenzio-assenso.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Albaredo d’Adige del 28.07.2006 n. 9074., con il quale è stata negata la D.I.A. presentata in data 25.05.2006 per la variante in sanatoria al permesso di costruire del 19.09.2005 n. 3839;
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico del 03.10.2006 n. 11279, con il quale è stato negato il rilascio del permesso di costruire in sanatoria domandato con istanza del 03.08.2006;
- del provvedimento del Responsabile dell’Ufficio Tecnico del 27.10.2003 n. 12292, con il quale è stata ordinata la rimozione delle opere in difformità;
- del verbale di sopralluogo ed accertamento redatto dal Comando di polizia municipale in data 11.04.2006 n. 4703 e l’ordinanza di sospensione lavori del 12.04.2006 n. 4768.
...
1. Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo con il quale i ricorrenti lamentano la tardività del diniego dell’istanza di sanatoria presentata con denuncia di inizio attività ai sensi degli artt. 22, 23 e 37 del DPR 06.06.2001, n. 380, con conseguente formarsi dell’accoglimento della medesima per silenzio-assenso, deve essere respinto.
Infatti la sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR n. 06.06.2001, n. 380, può essere chiesta solo per interventi realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività prevista dall'art. 22, commi 1 e 2, e non è estensibile anche agli interventi assoggettati a permesso di costruire per i quali trova applicazione la procedura di accertamento di conformità di cui all'art. 36 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873).
Nel caso di specie i lavori modificano la sagoma dell’edificio e, ai sensi dell’art. 22, comma 2, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall'articolo 30, comma 1, lettera e), del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98 applicabile ratione temporis alla fattispecie all’esame, gli interventi comportanti modifica alla sagoma non erano autorizzabili con denuncia di inizio attività.
Ne consegue che, rispetto agli abusi realizzati, non può trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 37 del DPR 06.06.2001, n. 380 e, in mancanza dei requisiti minimi per ritenere efficace la denuncia di inizio attività, la sanatoria non può ritenersi accolta per silenzio-assenso.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2015 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune ha apposto un’espressa prescrizione, da ritenersi prevalente sulla indicazione di massima delle altezze riportate negli elaborati grafici, secondo la quale “l’altezza del muro della parte di fabbricato adibito a ripostiglio–cantina sui prospetti nord e sud non dovrà superare quella media esistente, ai fini del rispetto della distanza dal confine”.
Poiché il permesso di costruire specificava che l’accoglimento della domanda doveva ritenersi subordinato ad una modifica progettuale necessaria al fine di rispettare le altezze preesistenti, la consistenza delle opere abusivamente realizzate deve essere valutata in rapporto all’altezza preesistente, e non a quella prevista dall’elaborato grafico.
Pertanto, poiché l’altezza media del tetto originario era di m 2,97, e l’altezza realizzata arriva a circa m 3,35, non è configurabile una violazione riconducibile ad una mera “tolleranza di cantiere”, e risulta posta in essere una vera e propria sopraelevazione che ha natura di nuova costruzione e richiede il rispetto delle distanze.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano che, se si tengono in considerazione, quale parametro di riferimento, gli elaborati grafici allegati al permesso di costruire, che prevedono altezze dell’edificio superiori a quelle precedenti, e se si calcolano le altezze alla gronda come prescrive lo strumento urbanistico, non vi è un sostanziale aumento delle altezze, o comunque gli scostamenti rientrano nella c.d. tolleranza di cantiere.
La doglianza è infondata.
L’utilizzo degli elaborati grafici quale parametro di riferimento non è corretto.
Infatti nel caso di specie al fine di semplificare al procedura, anziché respingere il progetto che avrebbe altrimenti dovuto essere rivisto dagli istanti, secondo una modalità la cui legittimità è ammessa dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.06.2013, n. 3447; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 02.11.2010, n. 4520), il Comune ha apposto un’espressa prescrizione, da ritenersi prevalente sulla indicazione di massima delle altezze riportate negli elaborati grafici, secondo la quale “l’altezza del muro della parte di fabbricato adibito a ripostiglio–cantina sui prospetti nord e sud non dovrà superare quella media esistente, ai fini del rispetto della distanza dal confine”.
Poiché il permesso di costruire specificava che l’accoglimento della domanda doveva ritenersi subordinato ad una modifica progettuale necessaria al fine di rispettare le altezze preesistenti, la consistenza delle opere abusivamente realizzate deve essere valutata in rapporto all’altezza preesistente, e non a quella prevista dall’elaborato grafico.
Pertanto, poiché l’altezza media del tetto originario era di m 2,97, e l’altezza realizzata arriva a circa m 3,35, non è configurabile una violazione riconducibile ad una mera “tolleranza di cantiere”, e risulta posta in essere una vera e propria sopraelevazione che ha natura di nuova costruzione e richiede il rispetto delle distanze (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 11.09.2013, n. 4501; Consiglio di Stato, Sez. IV 31.03.2009, n. 1998).
Tale considerazione, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, comporta anche la violazione delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore che ammettono che possano essere non rispettate le distanze in caso di demolizione e ricostruzione sullo stesso sedime, ma alla condizione implicita, nel caso di specie violata, del rispetto dei precedenti limiti planovolumetrici.
Le censure di cui al secondo motivo devono pertanto essere respinte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2015 n. 636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome noto, in costanza di approvazione del piano regolatore generale …, è consentito il rilascio del permesso di costruire solo qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione. In caso contrario grava a carico del Comune l’onere di sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere.
In materia di pianificazione urbanistica, la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determina l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale, ma ha lo scopo di inibire il rilascio di concessioni edilizie in contrasto con il nuovo strumento urbanistico in itinere …
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La censura di ingiustizia manifesta evoca le motivazioni che hanno condotto all’elaborazione della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”, che “risponde ad una chiara esigenza di economicità e di buon andamento dell'azione amministrativa, giudicandosi illogico demolire manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma e consistenza”.
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria giurisprudenziale era stata sostenuta dal Consiglio di Stato, ma deve tuttavia osservarsi che è si è ormai largamente affermata la conclusione opposta, secondo cui “l’art. 36 del T.U. Edilizia non ha recepito, nonostante l’auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001 dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato, l’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel vigore dell’art. 13 della L. 47/1985, il quale consentiva il rilascio della concessione in sanatoria per gli interventi edilizi che fossero conformi alla sola pianificazione in vigore al momento della domanda di sanatoria (cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”); ne consegue che il permesso di costruire in sanatoria, in quanto provvedimento tipico oggetto di una disciplina puntuale ed esaustiva nell’art. 36 Testo Unico dell’Edilizia, è insuscettibile di ampliamento in via interpretativa, e il suo rilascio postula la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda”.
In termini analoghi atri pronunciamenti, evidenziandosi che il dato letterale e il principio di legalità escludono l’operatività dell’istituto, peraltro in conflitto con la funzione deterrente del regime sanzionatorio in materia edilizia, suscettibile di essere frustrata dall’applicazione generalizzata della sanatoria di origine pretoria.

Costituisce oggetto di impugnazione l’ordinanza con cui è stato negato permesso di costruire in sanatoria ed è stata contestualmente disposta la demolizione di quanto abusivamente costruito, consistente nell’ampliamento di un fabbricato con realizzazione di un nuovo piano destinato a civile abitazione.
Il Comune ha rigettato la domanda di sanatoria sul rilievo che le opere, seppur conformi alla disciplina urbanistica vigente, non lo erano rispetto a quella ancora in vigore all’epoca della loro realizzazione, risultando così carente il requisito della “doppia conformità” di cui all’art. 36 t.u. edilizia.
Il Collegio -chiarito che il diniego, dopo comunicazione del rituale preavviso, è contenuto nel medesimo atto con cui è ingiunta la demolizione- ritiene innanzitutto di disattendere la censura in cui si sostiene che, in realtà, la costruzione era conforme anche allo strumento urbanistico allora vigente.
I ricorrenti evidenziano che la costruzione fu realizzata “sul finire dell’anno 2006” (asserzione di cui l’ordinanza prende atto) e che il PRG fu approvato con deliberazione CC n. 7 del 28.03.2007 (BURA del 18.04.2007), dopo che con del. CC n. 10 del 14.07.2006 era stata accolta la loro osservazione con conseguente attribuzione all’area della destinazione “zona residenziale B3 di completamento”, in conformità ai cui parametri la costruzione è stata poi eseguita.
Trattandosi di previsione del piano adottato (e che sarebbe stato approvato di lì a pochi mesi) si deduce quindi la conformità delle opere a tale strumento in itinere, ritenendosi consentito il rilascio di permessi edilizi con esso conformi e conseguente sussistenza del doppio requisito richiesto per ottenere la sanatoria.
Tali deduzioni vanno disattese in quanto, come osservano gli stessi ricorrenti (pag. 7, con riferimento a Cons. St., IV, 09.10.2012 n. 5257), fino all’approvazione del nuovo PRG l’attività edificatoria rimane regolata dallo strumento urbanistico vigente (salvo l’impedimento al rilascio di permessi edilizi conformi a tale strumento, ma in contrasto con le norma del piano in attesa di approvazione) non essendo prevista l’efficacia anticipata delle previsioni del piano adottato.
Va infatti evidenziato che “come noto, in costanza di approvazione del piano regolatore generale …, è consentito il rilascio del permesso di costruire solo qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione. In caso contrario grava a carico del Comune l’onere di sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere. In materia di pianificazione urbanistica, la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determina l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale, ma ha lo scopo di inibire il rilascio di concessioni edilizie in contrasto con il nuovo strumento urbanistico in itinere …” (TAR Campania, Napoli, IV, 13.11.2006 n. 9463).
La legge regionale 18 del 1983 conteneva una previsione in tal senso [Art. 15 -Efficacia del P.R.G. e del P.R.E. in attesa di approvazione- "Salva l'applicazione obbligatoria delle misure di salvaguardia …, le previsioni e prescrizioni del P.R.G. e del P.R.E. sono immediatamente efficaci dal momento della loro trasmissione per l'approvazione, limitatamente: … - alle autorizzazioni e concessioni edilizie relative ad aree comprese in settori del territorio comunale parzialmente edificati e integralmente provvisti delle opere di urbanizzazione primaria, nei limiti di 1,5 mc/mq di edificabilità fondiaria …”], tuttavia abrogata dall’art. 59 della L.R. 27.04.1995, n. 70 (fatta salva la disciplina a carattere transitorio di cui all’art. 58 della medesima L.R. 70/1995, che non interessa il caso di specie).
La tesi che sia consentito il rilascio di permessi edilizi sulla base del piano in attesa di approvazione, ma in contrasto con quello vigente, non trova perciò alcuna conferma ed è anzi smentita dall’abrogazione della norma regionale che in tal senso disponeva, nonché dall’esplicita previsione dell’art. 43, comma 2, L.R. 11/1999 (“L'efficacia degli atti di pianificazione urbanistica comunale è subordinata alla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo dell'avviso della loro approvazione”).
Posto che il PRG le cui previsioni si assumono rispettate ha pacificamente acquisito efficacia in epoca successiva a quella in cui l’intervento è stato realizzato, risulta evidente la insussistenza della “doppia conformità” di cui all’art. 36 t.u. edilizia.
Parte ricorrente sostiene che ritenere la non sanabilità dell’opera ed ordinarne la demolizione sarebbe manifestamente ingiusto, considerata l’epoca di costruzione in rapporto all’entrata in vigore del nuovo PRG e la sostanziale conformità alle relative previsioni.
Seppure non richiamate espressamente, la censura di ingiustizia manifesta evoca le motivazioni che hanno condotto all’elaborazione della cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”, che “risponde ad una chiara esigenza di economicità e di buon andamento dell'azione amministrativa, giudicandosi illogico demolire manufatti non più in contrasto con la disciplina edilizia, per poi doverne eventualmente assentire la ricostruzione nella stessa forma e consistenza” (Tar Sardegna, II, 17.03.2010, n. 314; sulla questione la sentenza 11.05.2007 n. 534 di questa Sezione: oltre alla concessione edilizia in sanatoria di cui all'art. 13, della L. 47 del 1985, sostituito ora dall'art. 36 del DPR 380 del 2001 deve ritenersi consentita anche la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, in virtù della quale può sanarsi un'opera abusivamente realizzata qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo, rinvenendo tale orientamento la sua ratio nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente).
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria giurisprudenziale era stata sostenuta dal Consiglio di Stato (sez. V, 28.05.2004 n. 3431; id., 21.10.2003, n. 6498; sez. VI, 07.05.2009 n. 2835), ma deve tuttavia osservarsi che è si è ormai largamente affermata la conclusione opposta, secondo cui “l’art. 36 del T.U. Edilizia non ha recepito, nonostante l’auspicio in tal senso espresso nel parere del 29.03.2001 dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato, l’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel vigore dell’art. 13 della L. 47/1985, il quale consentiva il rilascio della concessione in sanatoria per gli interventi edilizi che fossero conformi alla sola pianificazione in vigore al momento della domanda di sanatoria (cosiddetta “sanatoria giurisprudenziale”); ne consegue che il permesso di costruire in sanatoria, in quanto provvedimento tipico oggetto di una disciplina puntuale ed esaustiva nell’art. 36 Testo Unico dell’Edilizia, è insuscettibile di ampliamento in via interpretativa, e il suo rilascio postula la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda” (Cons. St., IV, 26.04.2006 n. 2306).
In termini analoghi Cons. St., V, 27.05.2014 n. 2755; 17.03.2014 n. 1324; 11.06.2013 n. 3220; 06.07.2012 n. 3961; sez. IV, 08.01.2013, n. 32, evidenziandosi che il dato letterale e il principio di legalità escludono l’operatività dell’istituto, peraltro in conflitto con la funzione deterrente del regime sanzionatorio in materia edilizia, suscettibile di essere frustrata dall’applicazione generalizzata della sanatoria di origine pretoria (cfr. Tar Lazio, Roma, II-ter, 11.06.2013, n. 5832; Tar Campania, Napoli, sezione VII, 26.11.2012, n. 4976 nonché, tra le più recenti, TAR Molise, 13.03.2015 n. 110; TAR Umbria, 03.12.2014 n. 590, con riferimento anche alla manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata previsione dell’istituto, ma con la precisazione che non sarebbe peraltro “escludibile a priori, in nome dei richiamati principi di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici, la possibilità per l’Amministrazione di valutare discrezionalmente, in sede sanzionatoria, la possibilità di applicare misure alternative alla demolizione”; TAR Campania-Napoli, VIII, 20.03.2014 n. 1690, con ampia trattazione dell’argomento; TAR Valle d'Aosta, 11.03.2014 n. 13) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.05.2015 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONon ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p..
Tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, L. n. 241 del 1990.
Ne consegue come l’Amministrazione ora costituita non avrebbe che potuto negare l’accesso agli atti del fascicolo in questione in virtù del combinato disposto di cui all’art. 24 della L. n. 241/1990 e dell’art. 329 c.p.p..
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Sono infondate anche le argomentazioni con le quali si sostiene l’erroneità dell’interpretazione dell’art. 22, comma 3, del Decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali del 15/01/2014 (denominato codice di comportamento ad uso degli ispettori del lavoro), nella parte in cui detto decreto prevede l’obbligo per il personale ispettivo, sia nel corso dell’ispezione sia nelle fasi successive, di garantire la segretezza della fonte della denuncia e/o degli atti che hanno dato origine all’accertamento.
Al fine di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni dedotte, non solo è possibile richiamare quanto sopra evidenziato circa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 329 del c.p.p., ma nel contempo è necessario ricordare che un orientamento giurisprudenziale ha sancito che, al fine di ottenere l’accesso a specifici atti non è sufficiente richiamare -magari anche genericamente- le necessità difensive riconducibili ai principi tutelati dall'art. 24 della Costituzione, risultando necessario poter evincere un’effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi e, ciò, specie nei casi in cui si tratti di acquisire la conoscenza di documenti, contenenti "dati sensibili e giudiziari".
Si è, altresì, sostenuto che vada sottratta al diritto di accesso la documentazione acquisita dagli ispettori del lavoro nell'ambito dell'attività di controllo loro affidata e, ciò, qualora il datore di lavoro-richiedente non abbia dimostrato in base a quali argomentazioni o elementi gli sia indispensabile accedere alle dichiarazioni dei lavoratori.
Si consideri, infatti, che il ricorrente non ha esplicitato le ragioni in relazione alle quali ha la necessità di acquisire le dichiarazioni dei lavoratori, limitandosi ad affermare “genericamente” la necessità di esperire il proprio diritto alla difesa avverso gli accertamenti sopra citati.
Si è affermato, infatti, della necessità di effettuare una valutazione "caso per caso", che potrebbe talvolta consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive in questione (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/2008 del 29.07.2008, che ammette l'accesso al contenuto delle dichiarazioni di lavoratori agli ispettori del lavoro, ma "con modalità che escludano l'identificazione degli autori delle medesime") e che, nel contempo, non possa affermarsi in modo aprioristico una generalizzata recessività dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad ispezione.
A norma dell' art. 24, comma 4, l. n. 241/1990 e dell'art. 8 del dPR n. 352/1992 sono, infatti, le singole amministrazioni che in sede di emanazione dei regolamenti volti ad individuare i documenti sottratti all'accesso debbono concretamente valutare se l'accesso ai documenti possa arrecare pregiudizio a tali interessi.

... per l'annullamento della nota della Direzione Territoriale del Lavoro di Treviso prot. n. 3179 del 04.02.2015 con cui è stato denegato il diritto di accesso azionato con istanza depositata in data 28.01.2015.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Non sono condivisibili le argomentazioni sostenute nel primo e nel quarto motivo, nell’ambito del quale si asserisce la lesione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Cost. e, nel contempo, che l’attività posta in essere dagli ispettori del lavoro non doveva considerarsi esperita nell’ambito dei poteri di polizia giudiziaria, interpretazione che avrebbe impedito di applicare l’esclusione del diritto di accesso riconducibile all’art. 329 del cpp.
Sul punto è dirimente constatare come l’accertamento posto in essere dagli ispettori del Lavoro ha avuto ad oggetto la violazione dell’art. 18 del D.Lgs. 276/2003, nella parte in cui sanziona i casi di illegittima somministrazione di mano d’opera.
E’, altresì, evidente che ai sensi dell’art. 8 del Dpr 529/1995, dell’art. 15 del D.Lgs. 124/2004 l’attività posta in essere dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro, diretta com’è a contestare violazioni di carattere penale, costituisce esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, sussistendo, tra l’altro l’obbligo dell’organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero l’eventuale notizia di reato.
Si consideri, inoltre, che l’art. 8 del Dpr 19/03/1955 n. 520 ha qualificato gli ispettori del lavoro quali ufficiali di polizia giudiziaria.
Costituisce, peraltro, orientamento consolidato (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 29/01/2013, n. 547) quello in base al quale “non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, L. n. 241 del 1990 (in tal senso: Cons. Stato, VI, 09.12.2008, n. 6117)".
Ne consegue come l’Amministrazione ora costituita non avrebbe che potuto negare l’accesso agli atti del fascicolo in questione in virtù del combinato disposto di cui all’art. 24 della L. n. 241/1990 e dell’art. 329 c.p.p..
Sono infondate anche le argomentazioni contenute nel secondo e terzo motivo con le quali si sostiene l’erroneità dell’interpretazione dell’art. 22, comma 3, del Decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali del 15/01/2014 (denominato codice di comportamento ad uso degli ispettori del lavoro), nella parte in cui detto decreto prevede l’obbligo per il personale ispettivo, sia nel corso dell’ispezione sia nelle fasi successive, di garantire la segretezza della fonte della denuncia e/o degli atti che hanno dato origine all’accertamento.
Al fine di dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni dedotte, non solo è possibile richiamare quanto sopra evidenziato circa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 329 del c.p.p., ma nel contempo è necessario ricordare che un orientamento giurisprudenziale ha sancito che, al fine di ottenere l’accesso a specifici atti non è sufficiente richiamare -magari anche genericamente- le necessità difensive riconducibili ai principi tutelati dall'art. 24 della Costituzione, risultando necessario poter evincere un’effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi e, ciò, specie nei casi in cui si tratti di acquisire la conoscenza di documenti, contenenti "dati sensibili e giudiziari".
Si è, altresì, sostenuto che vada sottratta al diritto di accesso la documentazione acquisita dagli ispettori del lavoro nell'ambito dell'attività di controllo loro affidata e, ciò, qualora il datore di lavoro-richiedente non abbia dimostrato in base a quali argomentazioni o elementi gli sia indispensabile accedere alle dichiarazioni dei lavoratori.
Si consideri, infatti, che il ricorrente non ha esplicitato le ragioni in relazione alle quali ha la necessità di acquisire le dichiarazioni dei lavoratori, limitandosi ad affermare “genericamente” la necessità di esperire il proprio diritto alla difesa avverso gli accertamenti sopra citati.
Si è affermato, infatti, della necessità di effettuare una valutazione "caso per caso", che potrebbe talvolta consentire di ritenere prevalenti le esigenze difensive in questione (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/2008 del 29.07.2008, che ammette l'accesso al contenuto delle dichiarazioni di lavoratori agli ispettori del lavoro, ma "con modalità che escludano l'identificazione degli autori delle medesime") e che, nel contempo, non possa affermarsi in modo aprioristico una generalizzata recessività dell'interesse pubblico all'acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad ispezione.
A norma dell'art. 24, comma 4, l. n. 241/1990 e dell'art. 8 del dPR n. 352/1992 sono, infatti, le singole amministrazioni che in sede di emanazione dei regolamenti volti ad individuare i documenti sottratti all'accesso debbono concretamente valutare se l'accesso ai documenti possa arrecare pregiudizio a tali interessi.
Nel caso di specie, il Ministero del lavoro, con d.m. 04.11.1994, n. 757, ha individuato all'art. 2, comma 1, lett. c), tra le categorie di atti sottratte all'accesso in relazione all'esigenza di salvaguardare la riservatezza delle persone anche quella dei «documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi». Lo stesso regolamento ha anche cura di stabilire la durata del divieto di accesso, «finché perduri il rapporto di lavoro».
In presenza di siffatta, compiuta disciplina, in cui si è tenuto conto di tutti i contrapposti interessi, e in mancanza di un’espressa motivazione sottostante la richiesta di accesso, il diniego opposto dall'amministrazione appare pienamente giustificato, potendo l’esigenza di difesa riconducibile all’art. 24 della Costituzione essere ampiamente soddisfatta dalla semplice conoscenza del verbale ispettivo nel quale sono riportati tutti gli elementi di fatto sui quali è basata l'ispezione.
Analogamente va evidenziato come non sussista nemmeno la violazione, né l’illegittimità dell’art. 22, comma 3, del Decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali del 15/01/2014 nella parte in cui prevede che il personale ispettivo garantisca la segretezza delle ragioni che hanno dato origine all’accertamento.
Detta disposizione nell’integrare il contenuto di una disposizione di principio non ha un carattere assoluto e preclusivo di una qualunque istanza di accesso, rinviando a specifiche disposizioni che circoscrivano i singoli la cui ostensione è esclusa.
Le censure sopra citate sono, pertanto, da respingere (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 25.05.2015 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.09.2015

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R.U.P. nei LL.PP.:
tutti coloro che "ambiscono" a svolgere le mansioni di Responsabile Unico del Procedimento, in relazione alle molteplici responsabilità personali in materia di sicurezza del lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), devono prestare molta attenzione, molta...
Ergo: se non si vuol finire in "galera" per colpa di altri, bisogna presenziare assiduamente il cantiere edile, e non stare comodamente seduti dietro la scrivania
poiché -tanto- ci pensa il "Direttore dei Lavori" ovvero il "coordinatore per l'esecuzione dei lavori"!!

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Ai sensi del d.PR. n. 554 del 1999, art. 7, comma 2 (regolamento di attuazione della legge Quadro dei Lavori Pubblici), il responsabile del procedimento (RUP) provvede a creare le condizioni affinché il processo realizzativo dell’intervento risulti condotto nei tempi e costi preventivati e nel rispetto della sicurezza e della salute dei lavoratori, in conformità a qualsiasi altra disposizione di legge in materia.
Inoltre egli, ai sensi dell’art. 8, lett. f), deve coordinare le attività necessarie alla redazione del progetto definitivo ed esecutivo, verificando che siano rispettate le indicazioni contenute nel documento preliminare alla progettazione e nel progetto preliminare, nonché alla redazione del piano di sicurezza e di coordinamento e del piano generale di sicurezza.
Inoltre, ai sensi dell’art. 8, comma 3, egli vigila sulla attività, valuta il piano di sicurezza e di coordinamento e l’eventuale piano generale di sicurezza e il fascicolo predisposti dal coordinatore per la progettazione.
In sostanza a carico del RUP (responsabile unico del procedimento) grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza, non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, fase nella quale vige l’obbligo di sorvegliarne la corretta attuazione, controllando anche l’adeguatezza e la specificità dei piani di sicurezza rispetto alla loro finalità, preordinata alla incolumità dei lavoratori.

Con sentenza del 03.03.2010 il Tribunale di Sassari condannava Ch.G.B.F. e altri in ordine al reato di cui all'articolo 590, co. 1, 2 e 3, c.p. alla pena di mesi due di reclusione, concesse le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante contestata, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione ex art. 175 c.p..
All'imputato, nella sua qualità di responsabile del procedimento e dell'esecuzione dei lavori, era stato contestato di avere cagionato per colpa generica e specifica lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai quaranta giorni all'operaio C.R. (costituito parte civile nel processo), che il 25.07.2002, a Siligo, era stato colpito violentemente alla testa dall'entrata della pompa di una betoniera erogante calcestruzzo.
In particolare al Ch., quale coordinatore in fase di progettazione e di esecuzione dei lavori (per conto della committente Amministrazione comunale di Siligo) era stato contestato di avere omesso di far applicare all'impresa esecutrice il piano di sicurezza e di coordinamento (P.S.C.), ai sensi dell'art. 5, 1 co., lett. b), d.lgs. 494/1996.
...
Va premesso che la responsabilità del Ch. è stata ritenuta sulla base della sua qualità di "responsabile del procedimento" e "responsabile dei lavori".
Sul responsabile dei lavori incombe, ai sensi del d.PR. n. 494 del 1996, art. 6, l'obbligo della verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in attuazione dei relativi piani (art. 4 e art. 5, comma 1, lett. a) d.PR. citato).
Orbene, ciò premesso, deve ricordarsi che ai sensi del d.PR. n. 554 del 1999, art. 7, comma 2 (regolamento di attuazione della legge Quadro dei Lavori Pubblici), il responsabile del procedimento provvede a creare le condizioni affinché il processo realizzativo dell'intervento risulti condotto nei tempi e costi preventivati e nel rispetto della sicurezza e della salute dei lavoratori, in conformità a qualsiasi altra disposizione di legge in materia. Inoltre egli, ai sensi dell'art. 8, lett. f), deve coordinare le attività necessarie alla redazione del progetto definitivo ed esecutivo, verificando che siano rispettate le indicazioni contenute nel documento preliminare alla progettazione e nel progetto preliminare, nonché alla redazione del piano di sicurezza e di coordinamento e del piano generale di sicurezza.
Inoltre, ai sensi dell'art. 8, comma 3, egli vigila sulla attività, valuta il piano di sicurezza e di coordinamento e l'eventuale piano generale di sicurezza e il fascicolo predisposti dal coordinatore per la progettazione.
In sostanza a carico del RUP (responsabile unico del procedimento) grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza, non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, fase nella quale vige l'obbligo di sorvegliarne la corretta attuazione, controllando anche l'adeguatezza e la specificità dei piani di sicurezza rispetto alla loro finalità, preordinata alla incolumità dei lavoratori (cfr, Cass., sez. 4, sent. n. 7597 dell'08.11.2013, Rv. 259123; Cass., sez. 4, sent. n. 41993 del 14.06.2011, Rv. 251925).
Orbene, nel caso di specie, come correttamente rilevato dal giudice di merito, il Ch. è venuto meno all'adempimento degli oneri gravanti a suo carico. I giudici della Corte territoriale hanno infatti evidenziato a tal proposito che i compiti dell'imputato non potevano esaurirsi nella mera redazione del P.S.C., dovendo egli anche svolgere l'indispensabile opera di coordinatore che prevedeva innanzitutto il controllo che il sub-appaltatore Fe. avesse a sua volta predisposto il P.O.S e lo avesse a sua volta portato a conoscenza dei lavoratori interessati. Egli inoltre avrebbe dovuto accertarsi che in cantiere sussistesse una buona coordinazione tra appaltatore (E. s.r.l.), sub-appaltatore (impresa individuale Fe.) e ditta incaricata del solo gettito del calcestruzzo.
Le predette attività demandate al Ch. erano state da lui omesse e tale omissione è collegata con nesso di causalità all'evento lesivo per cui è giudizio.
La difesa ha sostenuto che la sentenza impugnata non aveva spiegato da dove il Ch. avrebbe dovuto trarre la conoscenza di un sub-appalto in favore del Fe. e soprattutto della sua ritualità. Sul punto si osserva che si tratta di una questione di fatto non introdotta in appello e comunque entrambe le sentenze, sia quella di primo, sia quella di secondo grado, hanno ritenuto di non porre in dubbio la conoscenza da parte del ricorrente del subappalto.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.08.2015 n. 34088).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: P. Stoja, Individuazione di obblighi e responsabilità penale in tema di sicurezza sul lavoro nell’ambito degli appalti pubblici: aspetti problematici (03.02.2015 - tratto da www.giustizia.lazio.it).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: M. Trapè, I compiti del responsabile unico del procedimento in materia di sicurezza dei cantieri dopo l’entrata in vigore del regolamento sui contratti pubblici (01.09.2014 - link a www.studiocataldi.it).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza: RUP deve sorvegliare anche durante la fase di svolgimento dei lavori.
A carico del responsabile unico del procedimento grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un'attività di sorveglianza del loro rispetto.
E’ questo il principio ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 15.11.2011 n. 41993.
Nel caso di specie il giudice di prime cure condannava per il delitto di cui all’art. 589 c.p. per omicidio colposo, il responsabile del procedimento amministrativo di lavori pubblici e responsabile dei lavori, il coordinatore in materia di sicurezza e il titolare della ditta subappaltatrice, rispettivamente a 6 mesi di reclusione il primo e a 5 mesi di reclusione gli altri due con l’ulteriore risarcimento danni in favore della parte civile.
Ai tre, infatti, era stato addebitato di avere consentito, in violazione degli obblighi di sicurezza a loro carico gravanti, che un operaio, intento alla posa in opera della copertura di una piscina, lavorasse in totale assenza delle opere di protezione collettiva previste dal piano di sicurezza e senza precauzioni atte ad evitare la caduta dall'alto. In tale frangente l’operaio cadeva da un'altezza di circa 10 m. decedendo per gravi lesioni al capo.
La situazione viene confermata anche in secondo grado, ad eccezione del titolare della ditta dichiarando l'estinzione del reato a suo carico per morte dell'imputato. Il ricorso per cassazione procede solo per il responsabile del procedimento amministrativo di lavori pubblici, in quanto quello presentato dal coordinatore in materia di sicurezza è dichiarato inammissibile per presentazione tardiva.
Sul responsabile dei lavori, ai sensi dell'art. 6 del d.p.r. 494 del 1996, incombe l’obbligo delle verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in attuazione dei relativi piani (art. 4 ed art. 5, co. 1, lett. a) d.p.r. cit.). Inoltre, il responsabile del procedimento provvede a creare le condizioni affinché il processo realizzativo dell'intervento risulti condotto nei tempi e costi preventivati e nel rispetto della sicurezza e la salute dei lavoratori, in conformità a qualsiasi altra disposizione di legge in materia.
Sommando i diversi compiti a carico del responsabile deriva quella posizione di garanzia ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durate il loro svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un'attività di sorveglianza del loro rispetto.
Da ciò ne consegue che in ogni caso era onere del RUP, a fronte di modifiche progettuali, in adempimento degli obblighi sopra richiamati, controllare la adeguatezza dei piani di sicurezza alla salvaguardia dell'incolumità dei lavoratori.
Né il lamentato comportamento negligente della persona offesa (che non avrebbe utilizzato le cinture), può escludere la rilevanza causale della condotta omissiva dell'imputato. Infatti, «la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio propria della lavorazione svolta».
La vittima ha subito l'infortunio mentre svolgeva, senza alcuna abnormità di condotta, la sua ordinaria attività di lavoro. Da qui il rigetto del ricorso da parte dei giudici del Palazzaccio e la condanna al pagamento delle spese processuali
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 15.11.2011 n. 41993 - link a www.altalex.com).

LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Responsabilità del RUP e posizione di garanzia nei lavori pubblici. Responsabilità per omicidio colposo occorso ad un lavoratore.
Furono imputati del reato il responsabile del procedimento amministrativo di lavori pubblici e responsabile dei lavori, il coordinatore in materia di sicurezza, il titolare della ditta subappaltatrice, per aver consentito, in violazione degli obblighi di sicurezza a loro carico gravanti, che il lavoratore, intento alla posa in opera della copertura di una piscina, lavorasse in totale assenza delle opere di protezione collettiva previste dal piano di sicurezza e senza precauzioni atte ad evitare la caduta dall'alto e in tale frangente cadeva da un'altezza di circa 10 mt., decedendo per gravi lesioni al capo.
Condannati in primo grado, la Corte di Appello di Genova confermava la pronuncia di condanna per il Responsabile del Procedimento e del coordinatore per la sicurezza, dichiarando l'estinzione del reato a carico del titolare della ditta subappaltatrice per morte dell'imputato.
Ricorso in Cassazione - Il ricorso proposto dal coordinatore per la sicurezza è inammissibile perché tardivo; La Corte rigetta invece il ricorso del Responsabile del procedimento amministrativo.
"La Corte afferma che va premesso che la sua responsabilità è stata ritenuta sulla base della qualità di "Responsabile del procedimento amministrativo" e responsabile dei lavori, figura che nei lavori pubblici rappresenta il committente.
Sul responsabile del lavori incombe, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 494 del 1996, l'obbligo della verifica delle condizioni di sicurezza del lavoro in attuazione dei relativi piani (art. 4 ed art. 5, co. 1, lett. a), d.P.R. cit.).
Orbene ciò premesso, deve ricordarsi che ai sensi dell'art. 7, co. 2°, del d.P.R. 554 del 1999 (Regolamento di attuazione della Legge Quadro dei Lavori Pubblici), il "Responsabile del procedimento" provvede a creare le condizioni affinché il processo realizzativo dell'intervento risulti condotto nei tempi e costi preventivati e nel rispetto della sicurezza e la salute dei lavoratori, in conformità a qualsiasi altra disposizione di legge in materia
."
... In sostanza a carico del RUP (responsabile unico del procedimento) grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durate il loro svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un'attività di sorveglianza del loro rispetto.
Orbene, nel caso di specie, come correttamente rilevato dal giudice di merito, l'imputato è venuto meno all'adempimento degli oneri a suo carico gravanti.
Per quanto detto, va ribadito che la radicata posizione di garanzia in capo all'imputato, rende rilevante causalmente la sua negligente condotta omissiva, non avendo l'imputato controllato l'adeguatezza e specificità dei piani di sicurezza rispetto alle loro finalità; nonché non avendo vigilato sulla loro corretta attuazione.
Né il lamentato comportamento negligente della persona offesa (che non avrebbe utilizzato le cinture), può escludere la rilevanza causale della condotta omissiva dell'imputato.
Nel caso di specie la vittima ha patito l'infortunio mentre svolgeva, senza alcuna abnormità di condotta, la sua ordinaria attività di lavoro nel pozzo citato, che era privo di presidi anticaduta (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 15.11.2011 n. 41993 - link a http://olympus.uniurb.it).

Ed altra questione sempre attinente al R.U.P.:

LAVORI PUBBLICI: Condannato per danno erariale il RUP che non applica la penale di contratto.
Anche il Giudice di primo grado ha, motivatamente, escluso la responsabilità del Dirigente tecnico, ing. Te., che delegò al Ca. le funzioni di RUP responsabile unico del procedimento. Non si tratta di delega di poteri, ma di nomina, di assegnazione di funzioni a soggetto sottoposto e fornito dei titoli.
Il Te. era il dirigente, quindi ben poteva nominare il RUP e il Ca. non può affermare di essere stato un mero esecutore, perché era un ingegnere, non un impiegato di mero ordine.
L’articolo 10, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) così definisce il RUP: "Il responsabile del procedimento deve possedere titolo di studio e competenza adeguati in relazione ai compiti per cui è nominato. Per i lavori e i servizi attinenti all'ingegneria e all'architettura deve essere un tecnico. Per le amministrazioni aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo. In caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, le amministrazioni aggiudicatrici nominano il responsabile del procedimento tra i propri dipendenti in servizio".
Nell’atto con cui il suo dirigente gli conferiva l’incarico specifico erano indicati i compiti tra cui proprio il problema delle eventuali penali. La Sezione territoriale ha correttamente individuato il nesso di causalità tra il comportamento del Ca., in relazione ai compiti attribuitigli, e il danno, con particolare riferimento al parere reso al Consiglio di amministrazione (CdA) sulla penale da applicare al Gr. che aveva maturato lunghissimi ritardi nell’esecuzione dell’attività di progettazione commessagli (oltre 900 giorni).
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Afferma l’appellante che l’incarico affidato al Gr. venne modificato (ampliato) e, pertanto, non era applicabile la clausola penale.
Si tratta di difesa già svolta in primo grado e su cui la Sezione territoriale ha correttamente deciso, con motivazione congrua e priva di vizi logici, rilevando che l’ing. Gr. non chiese neppure la modifica dei termini contrattuali per la consegna degli elaborati e, comunque, il ritardo accumulato, si può aggiungere, supera qualsiasi tolleranza e possibilità di giustificazione con la maggiore ampiezza dell’oggetto contrattuale.
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L’appellante deduce che il danno non gli è imputabile, perché imputabile a decisione del CdA.
A parte che il Ca. espresse il proprio parere al CdA il quale sospese l’applicazione della penale proprio sulla scorta del parere reso dall’appellante, resta da dire che ha ragione il PG quando afferma che -sulla base del principio di separazione tra potere di indirizzo e potere di gestione– che spettava al Ca., nella sua qualità di RUP di provvedere all’applicazione della penale; il CdA si sarebbe assunto la responsabilità della sospensione; ma nel caso di specie è il Ca. che ha mancato, gravemente, ai suoi doveri professionali.

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Con la sentenza impugnata l’appellante, in parziale accoglimento delle domande avverso lo stesso proposte dalla Procura contabile territoriale, è stato condannato (con altra persona) a pagare –individualmente- alla società C.I.I.P. S.p.A. la somma di euro 2.117,08 oltre la rivalutazione monetaria dal 14.02.2008 e fino alla data di pubblicazione della sentenza con gli interessi legali decorrenti dalla data del deposito della sentenza e fino al pagamento; oltre le spese del giudizio, liquidate in complessivi euro 2.940,74.
Il Ca. propone appello per i seguenti motivi.
1) Errore di fatto e di diritto su un punto decisivo del giudizio. Inderogabilità dell’ordine legale delle competenze.
2) Inesistenza del danno erariale, inapplicabilità della clausola penale.
3) Non imputabilità all’ing. Ca. della responsabilità per non aver applicato all’ing. Am.Gr. la sanzione prevista nel contratto di affidamento dell’incarico.
Conclusioni dell’appellante: riforma della sentenza impugnata, con assoluzione dell’ing. Ca. da ogni addebito di responsabilità contestata, il tutto con il favore delle spese di giudizio come per legge.
...
L’appello non merita accoglimento e la sentenza impugnata deve essere confermata.
La Procura regionale ha contestato all’odierno appellante (e ad altri due soggetti, uno dei quali assolto e l’altro condannato, ma che non risulta abbia appellato) il danno consistente nella mancata applicazione della penale contrattuale nei confronti del professionista (tale ingegner Gr.) incaricato della progettazione del consolidamento dei Ponti Tubo della rete di distribuzione idrica dei tratta Pescara d’Arquata Sibillini, per il ritardo nell’adempimento della prestazione.
Preliminarmente il Collegio osserva che l’atto d’appello è proposto con insolita formula “e con”, nei confronti degli altri soggetti evocati nel giudizio di primo grado, in quanto “controinteressati” (così, il difensore presente in udienza all’atto del deposito della relazione di notifica nei loro confronti); il Collegio osserva che nei confronti di costoro non è proposta domanda alcuna e che il giudizio di responsabilità amministrativa si differenzia dal giudizio amministrativo, nel quale è prevista la figura del controinteressato cui deve essere partecipato il giudizio. Inoltre manca la vocatio in ius anche nei confronti dell’altra parte (necessaria) del giudizio e cioè il Procuratore generale.
Tanto premesso, il Collegio può affrontare l’esame del primo motivo d’appello.
Il motivo è infondato e anche il Giudice di primo grado ha, motivatamente, escluso la responsabilità del Dirigente tecnico, ing. Te., che delegò al Ca. le funzioni di RUP responsabile unico del procedimento. Non si tratta di delega di poteri, ma di nomina, di assegnazione di funzioni a soggetto sottoposto e fornito dei titoli.
Il Te. era il dirigente, quindi ben poteva nominare il RUP e il Ca. non può affermare di essere stato un mero esecutore, perché era un ingegnere, non un impiegato di mero ordine.
L’articolo 10, comma 5, del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) così definisce il RUP: "Il responsabile del procedimento deve possedere titolo di studio e competenza adeguati in relazione ai compiti per cui è nominato. Per i lavori e i servizi attinenti all'ingegneria e all'architettura deve essere un tecnico. Per le amministrazioni aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo. In caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, le amministrazioni aggiudicatrici nominano il responsabile del procedimento tra i propri dipendenti in servizio".
Nell’atto con cui il suo dirigente gli conferiva l’incarico specifico erano indicati i compiti tra cui proprio il problema delle eventuali penali. La Sezione territoriale ha correttamente individuato il nesso di causalità tra il comportamento del Ca., in relazione ai compiti attribuitigli, e il danno, con particolare riferimento al parere reso al Consiglio di amministrazione (CdA) sulla penale da applicare al Gr. che aveva maturato lunghissimi ritardi nell’esecuzione dell’attività di progettazione commessagli (oltre 900 giorni).
Per quanto esposto, il motivo deve essere respinto.
Con il secondo motivo d’appello si eccepisce l’inesistenza del danno per inapplicabilità della clausola penale.
Afferma l’appellante che l’incarico affidato al Gr. venne modificato (ampliato) e, pertanto, non era applicabile la clausola penale.
Si tratta di difesa già svolta in primo grado e su cui la Sezione territoriale ha correttamente deciso, con motivazione congrua e priva di vizi logici, rilevando che l’ing. Gr. non chiese neppure la modifica dei termini contrattuali per la consegna degli elaborati e, comunque, il ritardo accumulato, si può aggiungere, supera qualsiasi tolleranza e possibilità di giustificazione con la maggiore ampiezza dell’oggetto contrattuale.
La sentenza della Corte di Cassazione citata dall’appellante afferma che la clausola penale non opera se, variata quantitativamente la prestazione, la clausola penale viene meno se non viene fissato un nuovo termine; nel caso di specie il termine rimase immutato, ma un termine esisteva e doveva essere rispettato nell’ipotesi, come nel caso di specie in cui il contraente (ing. Gr.) non ebbe a richiedere un nuovo diverso termine per l’adempimento delle sue obbligazioni progettuali.
Con un terzo motivo, l’appellante deduce che il danno non gli è imputabile, perché imputabile a decisione del CdA.
A parte che il Ca. espresse il proprio parere al CdA il quale sospese l’applicazione della penale proprio sulla scorta del parere reso dall’appellante, resta da dire che ha ragione il PG quando afferma che -sulla base del principio di separazione tra potere di indirizzo e potere di gestione– che spettava al Ca., nella sua qualità di RUP di provvedere all’applicazione della penale; il CdA si sarebbe assunto la responsabilità della sospensione; ma nel caso di specie è il Ca. che ha mancato, gravemente, ai suoi doveri professionali.
Conclusivamente, per quanto esposto, il Collegio respinge l’appello (Corte dei Conti, Sez. I Centrale d'Appello, sentenza 20.07.2015 n. 441).

Ed un'altra ancora attinente al R.U.P. che risulta essere anche responsabile dell'U.T.C. (e quante se ne leggono di determinazioni "illegittime" pubblicate all'albo pretorio comunale qua e là... E NESSUNO CONTROLLA!!):

PUBBLICO IMPIEGO: Il pagamento in favore del responsabile dell'ufficio del compenso incentivante -che lo stesso si è auto-attribuito- deve considerarsi alla stregua di un pagamento indebito e, pertanto, produttivo di danno erariale.
Invero, il responsabile dell'ufficio non può procedere all’auto-liquidazione dei compensi incentivanti poiché sussiste l’evidente vulnus al principio dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) conseguente alla determinazione adottata in palese conflitto di interessi.
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A' termini dell’art. 1, secondo comma, della L. 20/1994, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
Nella specie, dovendosi escludere che vi sia stato occultamento doloso del danno, reputa la Sezione che, in conformità all’insegnamento delle SS.RR., debba assumersi, quale dies a quo del termine prescrizionale, la data del pagamento.
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Nel caso di specie il responsabile dell'ufficio
non poteva procedere all’auto-liquidazione dei compensi incentivanti, sicché appare assorbente il rilievo dell’evidente vulnus al principio dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) conseguente alle censurate determine adottate in palese conflitto di interessi.
In proposito si osserva che il D.M. P.C.M. - Dip. funz. pubbl. 28.11.2000 (recante il “codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, più di recente sostituito dal D.P.R. 16.04.2013 n. 62, ma applicabile ratione temporis ai fatti che ne occupano) prevedeva, all’art. 6 (rubricato “obbligo di astensione”), che “
il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o conviventi…..”, secondo un principio parimenti desumibile dall’art. 51, primo comma, n. 1 c.p.c., che prevede che il giudice abbia l’obbligo di astenersi “se ha interesse nella causa”, dall’art. 78, secondo comma, D.Lgs. 267/2000 che prevede che gli amministratori locali debbano “astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado”, dall’art. 53, settimo comma, D.Lgs. 165/2001 che prevede che, ai fini dell’autorizzazione di incarichi retribuiti, l'amministrazione verifichi “l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi” nonché dalla previsione del reato di abuso d’ufficio di cui l’art. 323 c.p.c. [cfr. inoltre, l’ art. 6-bis. della L. 241/1990 , introdotto dall’articolo 1, comma 41, della legge n. 190/2013, che stabilisce che “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endo-procedimentali ed il provvedimento finale, devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale” nonché l’art. 7 del D.P.R. 62/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'art. 54 del D.Lgs. 165/2001) che stabilisce che i dipendenti pubblici devono astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di loro parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi ed in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza].
Sulla base della definizione di cui all’art. 3 della L. 215/2004 (recante “norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi”) -che, ancorché dettata con riferimento ai titolari di cariche di governo, è evidentemente suscettibile di generale applicazione- deve ritenersi che sussista “
situazione di conflitto di interessi … quando il titolare …..partecipa all'adozione di un atto, anche formulando la proposta …… quando l'atto o l'omissione ha un'incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare…..”.
Non può revocarsi in dubbio che l’autoliquidazione del compenso incentivante da parte del SA. abbia un incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio dello stesso SA., ciò che evidentemente esclude che lo stesso potesse adottare tale determinazione.
In proposito si osserva che
l’art. 1395 cod.civ. -applicabile, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., con il limite della compatibilità, agli atti unilaterali fra vivi aventi contenuto patrimoniale- contempla il “contratto con se stesso” prevedendo che lo stesso possa ammettersi, e cioè non sia viziato, solo quando il soggetto in conflitto di interessi sia stato “autorizzato specificatamente” ovvero “il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi”.
Sennonché, in disparte il rilievo che né la delibera n. 20/2005 né la successiva delibera n. 306/2006, recano alcun autorizzazione, né tam poco, alcuna autorizzazione specifica al SA., ad auto-attribuirsi ed auto-liquidarsi il compenso incentivante, appare assorbente la considerazione che,
in ragione dell’inderogabilità della disciplina in materia di obbligo di astensione, deve, comunque, escludersi che, quando, come nella specie, si verta in ipotesi di esercizio di pubbliche funzioni, un’autorizzazione, ancorché specifica, dell’organo di governo dell’amministrazione o ente, possa legittimare il dipendente o amministratore pubblico ad adottare provvedimenti incidenti in senso favorevole sulla propria sfera giuridica, in presenza di un conflitto di interessi.
D’altro canto,
solo la predeterminazione dettagliata e puntuale -tale da escludere qualsiasi discrezionalità in sede applicativa- dei criteri di ripartizione ed attribuzione del compenso incentivante, attraverso l’adozione, da parte della Giunta comunale -competente in materia di ordinamento degli uffici ai sensi dell’art. 48, terzo comma, D.Lgs. 267/2000- di un apposito regolamento e/o sulla base di accordi collettivi decentrati/integrativi, avrebbe consentito di escludere la configurabilità, in capo al SA., di un conflitto di interessi.
Non v’è chi non veda, infatti, che
solo ove l’attribuzione e la liquidazione del compenso incentivante si fosse risolta in un’attività scevra da scelte e valutazioni discrezionali ma meramente e meccanicamente ricognitiva degli elementi che -sulla base di una “griglia” di predefiniti parametri oggettivi- consentissero di determinare in modo automatico l’importo che potesse eventualmente spettare, a tale titolo, al Dirigente, il SA. avrebbe potuto legittimamente auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Sennonché,
considerato che di una tale disciplina regolamentare e/o collettiva non vi è menzione nelle determinazioni di liquidazione del compenso incentivante, deve ritenersi che non ve ne fosse alcuna presso l’Amministrazione comunale di Cerignola, per cui deve escludersi che il SA. potesse auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Il comportamento del SA. che, in palese conflitto di interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato il compenso incentivante deve, pertanto, qualificarsi non iure.
D’altro canto,
se è vero che non è sufficiente l’illegittimità del comportamento per ritenerne, altresì, l’illiceità, e cioè che il comportamento stesso sia causativo di danno erariale, non è men vero che, nella specie, non può revocarsi in dubbio che, in dipendenza del comportamento del SA., il Comune abbia subito un danno patrimoniale pari all’ammontare dei compensi incentivanti auto-liquidati.
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Reputa inoltre, la Sezione che debba essere disattesa l’istanza di “oscuramento” dei dati proposta dal convenuto.
L’art. 52 del D.Lgs. 196/2003 dopo aver previsto, al primo comma, che l'interessato possa chiedere “per motivi legittimi”, che sia apposta a cura della cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, la indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento, dispone al successivo secondo comma, che sulla suddetta richiesta “provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento”.
E’ evidente, pertanto, come
l’adozione dell’invocato provvedimento di oscuramento sia subordinato alla sussistenza ed all’allegazione di motivi legittimi sindacabili dal giudice, cui compete valutare comparativamente le ragioni addotte a fondamento dell’istanza proposta con l’interesse generale alla conoscibilità del contenuto integrale dei provvedimenti giurisdizionali, quale strumento di democrazia e di informazione giuridica.
E’, del pari, evidente come
la prevalenza dell’interesse dell’istante sul suddetto interesse generale possa essere assicurata, disponendo l’oscuramento dei dati personali, solo in presenza di circostanze particolari e cioè quando dalla diffusione completa della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale possa derivare un pericolo di grave pregiudizio per i diritti dell’interessato.
Di converso,
deve escludersi che l’invocato provvedimento di “anonimizzazione” possa essere adottato, quando, come nella specie, venga allegato, senza dedurre alcuna circostanza idonea ad attribuirgli particolare rilevanza, il mero interesse al riserbo del convenuto nel giudizio di responsabilità amministrativa che, anche in considerazione dell’oggetto del giudizio -relativo al pregiudizio arrecato alle finanze di una pubblica amministrazione- deve considerarsi recessivo rispetto all’interesse generale a conoscere il contenuto integrale del provvedimento giurisdizionale.
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2. Con la comparsa di risposta il convenuto SA. ha eccepito la prescrizione quinquennale per quanto concerne il danno conseguente alla determina dirigenziale n. 1079 del 04.12.2008, messa in esecuzione in data 11.12.2008, “data in cui con il pagamento il presunto danno patrimoniale è divenuto per il Comune di Cerignola concreto ed attuale”.
Reputa la Sezione che, in detti limiti, l’eccezione di prescrizione sia fondata e meriti accoglimento.
E’ appena il caso di premettere che
a termini dell’art. 1, secondo comma, della L. 20/1994, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
Nella specie, dovendosi evidentemente escludere che vi sia stato occultamento doloso del danno, reputa la Sezione che, in conformità all’insegnamento delle SS.RR. (cfr. sentenza n. 7/200/Q.M.) debba assumersi, quale dies a quo del termine prescrizionale, la data del pagamento e cioè, avuto riguardo alla suddetta determina n. 1079 del 04.12.2008, la data dell’11.12.2008, indicata dal convenuto con allegazione non contestata dall’organo requirente (cfr. art. 115, primo comma, c.p.c. come mod. dalla L. 69/2009).
Considerato che, in difetto della prova di precedenti atti interruttivi, nemmeno allegati dall’organo requirente, il primo atto interruttivo della prescrizione è costituito dall’invito a dedurre, espressamente formulato anche a fini di costituzione in mora, ai sensi degli artt. 1219 e 2943 cod. civ. (cfr. SS.RR. 20.12.2000 n. 14/2000/Q.M. e 20.03.2003 n. 06/2003/Q.M.), notificato al SA. in data 27.01.2014, è evidente che il corso della prescrizione deve considerarsi tempestivamente interrotto con riferimento ai danni verificatisi successivamente al 26.01.2009, mentre deve considerarsi prescritto il credito risarcitorio dedotto in giudizio con riferimento ai danni verificatisi anteriormente al quinquennio antecedente alla suddetta data del 27.01.2014.
Ne consegue che, in accoglimento dell’eccezione proposta dal convenuto, il credito risarcitorio deve essere dichiarato prescritto, limitatamente al danno conseguente alla determina dirigenziale n. 1079 del 04.12.2008.
3. Passando all’esame, nel merito, della domanda proposta, occorre premettere, ai fini di una piana esposizione dei termini della controversia, che l’art. 3, 57° comma, della L. 23.12.1996 n. 662 ha previsto che “una percentuale del gettito dell'imposta comunale sugli immobili può essere destinata al potenziamento degli uffici tributari del comune”.
L’art. 59 (rubricato “Potestà regolamentare in materia di imposta comunale sugli immobili”) del D.Lgs. 15.12.1997 n. 446 ha poi disposto che, con il regolamento adottato a norma del precedente art. 52, i comuni possano: “….p) prevedere che ai fini del potenziamento degli uffici tributari del comune, ai sensi dell'articolo 3, comma 57, della legge 23.12.1996, n. 662, possono essere attribuiti compensi incentivanti al personale addetto”.
In applicazione delle summenzionate disposizioni normative, l’art. 19 (rubricato “potenziamento degli uffici ed incentivi per il personale addetto”) del regolamento per la disciplina dell’I.C.I., approvato con deliberazione C.C. n. 11 del 19.04.2004, prevede, al primo comma, che “ai sensi dell’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 e ai sensi dell’art. 59, lett. p), del D.Lgs. 446/1997, una percentuale del gettito dell’I.C.I., nella misura determinata dalla Giunta comunale, è destinata alla copertura delle spese relative al potenziamento degli uffici tributari del Comune e ai collegamenti con banche dati utili” e, al secondo comma, che “ai sensi dell’art. 59, lett. p), del D.Lgs. 446/1997, informate le OO.SS., è attribuito un compenso incentivante in aggiunta agli istituti previsti in sede di contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, nella misura determinata dalla Giunta comunale, per l’attività espletata dagli uffici e per progetti specifici che impegnino direttamente il personale addetto e quello coinvolto nel progetto, sulla base dell’individuazione effettuata dall’organo competente”.
Con delibera n. 20 del 28.01.2005, la Giunta comunale ha deliberato, al punto 1) del dispositivo, di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma 1, del regolamento comunale ICI una percentuale del gettito ordinario dell’I.C.I. pari all’1% dell’incassato a competenza”, al punto 2), di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma 2, del suddetto regolamento, una percentuale del gettito ordinario dell’I.C.I. pari allo 0,50% dell’incassato a competenza e una percentuale pari al 3% del gettito dell’I.C.I. derivante da attività tese al perseguimento dell’evasione tributaria e dall’attività di controllo”, prevedendo, inoltre, al punto 3), che l’incentivo di cui al punto 2) sia “ripartito e liquidato dal Dirigente del Settore Servizi Finanziari con proprio provvedimento sulla base dell’ impegno individuale e dei risultati raggiunti anche nell’attività di recupero dell’imposta evasa e sulla base di appositi progetti da sottoporre alla preventiva approvazione della Giunta comunale”.
Deve ritenersi che la quota percentuale del gettito ICI destinato al compenso incentivante dovesse confluire fra le “risorse per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività”, di cui all’art. 15 del C.C.N.L. 01.04.1999 (CCNL normativo 1998–2001 economico 1998–1999) del comparto del personale delle regioni-autonomie locali, che, al primo comma, prevede che “presso ciascun ente, a decorrere dal 01.01.1999, sono annualmente destinate” oltre che “all’attuazione della nuova classificazione del personale, fatto salvo quanto previsto nel comma 5, secondo la disciplina del CCNL del 31.03.1999”, anche “a sostenere le iniziative rivolte a migliorare la produttività, l’efficienza e l’efficacia dei servizi”, le risorse ivi elencate sub lett. da a) ad n), nel novero delle quali figurano, sub lett. k), “le risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di prestazioni o di risultati del personale, da utilizzarsi secondo la disciplina dell’art. 17”, che, a sua volta prevede, al primo comma, che “le risorse di cui all’art. 15 sono finalizzate a promuovere effettivi e significativi miglioramenti nei livelli di efficienza e di efficacia degli enti e delle amministrazioni e di qualità dei servizi istituzionali mediante la realizzazione di piani di attività anche pluriennali e di progetti strumentali e di risultato basati su sistemi di programmazione e di controllo quali-quantitativo dei risultati” (primo comma) ed, al secondo comma, che in relazione a dette finalità, “le risorse di cui all’art. 15 sono utilizzate”, inter alios, “per:…… g) incentivare le specifiche attività e prestazioni correlate alla utilizzazione delle risorse indicate nell’art. 15, comma 1, lettera k)”.
L’art. 4 dello stesso C.C.N.L. (rubricato “contrattazione collettiva decentrata integrativa a livello di ente”) prevede, al primo comma, che “in ciascun ente, le parti stipulano il contratto collettivo decentrato integrativo utilizzando le risorse di cui all’art. 15 nel rispetto della disciplina, stabilita dall’art. 17” e, al primo cpv., che “in sede di contrattazione collettiva decentrata integrativa sono regolate” le materie ivi elencate sub lett. da a) ad m), fra le quali figurano, sub lett. a) “i criteri per la ripartizione e destinazione delle risorse finanziarie, indicate nell’art. 15, per le finalità previste dall’art. 17, nel rispetto della disciplina prevista dallo stesso articolo 17” e, sub lett. h), “i criteri delle forme di incentivazione delle specifiche attività e prestazioni correlate alla utilizzazione delle risorse indicate nell’art. 15, comma 1, lettera k)”.
Il C.C.N.L. del 22.02.2006 dell’area della dirigenza del comparto regioni e autonomie locali per il quadriennio normativo 2002-2005 e il biennio economico 2002-2003 reca “dichiarazione congiunta n. 4” con la quale le parti stipulanti hanno congiuntamente dichiarato che “le risorse per il finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato derivanti dall’art. 26, comma 1, lett. e), del CCNL del 23.12.1999, ricomprendono, oltre quelle già espressamente indicate e sempre a titolo meramente esemplificativo, anche quelle derivanti dall’applicazione: dell’art. 3, comma 57, della legge n. 662 del 1996 e dell’art. 59, comma 1, lett. p), del D.Lgs. n. 446/1997 (recupero evasione ici); dell’art. 12, comma 1, lett. b) del D.L. n. 437 del 1996, convertito nella legge n.556 del 1996” (e cioè i compensi liquidati in favore dell’ente locale nel processo tributario).
Il richiamato art. 26 (rubricato “finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato”) del C.C.N.L. 23.12.1999 (C.C.N.L. normativo 1998-2001 ed economico 1998-1999 dell’area della dirigenza del comparto regioni-enti locali) prevede che “a decorrere dall’anno 1999, per il finanziamento della retribuzione di posizione e della retribuzione di risultato sono utilizzate” le risorse ivi elencate nel novero delle quali figurano, sub lett. e), “le risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione della dirigenza….”.
L’art. 4 del cit. C.C.N.L. 23.12.1999, disciplina la contrattazione collettiva decentrata integrativa a livello di ente, demandandole, fra l’altro, sub lett. f), i “criteri delle forme di incentivazione delle specifiche attività e prestazioni correlate all’utilizzo delle risorse indicate nell’art. 26, lett. e)”.
Con delibera n. 306 del 26.10.2006, la Giunta comunale ha deliberato di prendere atto delle disposizioni del nuovo C.C.N.L. 22.02.2006 dell’Area Dirigenziale Regione e Autonomie Locali e, conseguentemente, di riconoscere i compensi di cui all’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 ed all’art. 59, comma 1, lettera p), del D.Lgs. 446/1997 anche al Dirigente del Settore competente (Area finanziaria), di modificare il punto 1 della delibera G.C. n. 20/2005 nel senso di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma 1, del regolamento comunale ICI una percentuale del gettito ordinario dell’I.C.I. pari all’0,50% dell’incassato”, di modificare il punto 2 della delibera G.C. n. 20/2005, nel senso di “destinare per le finalità di cui all’art. 19, comma 2, del regolamento comunale ICI, una percentuale del gettito ordinario dell’I.C.I. pari allo 1% dell’incassato e una percentuale pari al 3% del gettito dell’I.C.I. derivante da attività tese al perseguimento dell’evasione tributaria e dall’attività di controllo” e di mantenere invariati gli altri punti della già cit. delibera G.C. n. 20/ 2005.
L’art. 20, secondo comma, C.C.N.L. 02.02.2010, del Personale Dirigente del comparto Regioni e autonomie locali (Area II), relativo al quadriennio normativo 2006-2009 ed al biennio economico 2006-2007, ha, quindi, previsto che “in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti possono essere erogati direttamente, a titolo di retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite”, nel novero dei quali figurano i compensi di cui all’art. 3, comma 57, della L. 662/1996 e art. 59, comma 1, lett. p), del D.Lgs. 446/1997 (recupero evasione ICI) e che l'ente definisca “l'incidenza delle suddette erogazioni aggiuntive sull'ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale, ai sensi dell'art. 6 del CCNL del 22.02.2006”.
Premesso quanto innanzi, si osserva che, con l’atto di citazione, la Procura regionale ha dedotto, a fondamento della domanda risarcitoria proposta, mercé richiamo del summenzionato precedente della Sezione, che
la gravità della colpa del SA., “si individua in tutta la sua evidenza nell’essersi autonomamente liquidato con propri atti dirigenziali” i suddetti importi, sottraendoli, “così, indebitamente al fondo dell’amministrazione e non consentendo, in tal modo, quella preliminare definizione di incidenza di tale erogazione aggiuntiva sull’ammontare della retribuzione di risultato”.
Reputa la Sezione che, salvi gli effetti dell’eccepita prescrizione con riferimento al danno conseguente alla suddetta determina n. 1079/2008, la domanda sia fondata e meriti accoglimento.
In proposito si osserva che se è vero che con delibera G.C. n. 20 del 28.01.2005, la Giunta comunale aveva previsto che l’incentivo fosse “ripartito e liquidato dal Dirigente del Settore Servizi Finanziari con proprio provvedimento sulla base dell’ impegno individuale e dei risultati raggiunti anche nell’ attività di recupero dell’imposta evasa e sulla base di appositi progetti da sottoporre alla preventiva approvazione della Giunta comunale”, in un contesto, peraltro, che ancora non prevedeva che il Dirigente avesse titolo a fruirne, e che la successiva delibera n. 306 del 26.10.2006, con la quale nel prendere atto delle disposizioni del nuovo C.C.N.L. 22.02.2006 dell’Area Dirigenziale Regione e Autonomie Locali, nel riconoscere, conseguentemente, il detto compenso anche al Dirigente del Settore competente (Area finanziaria) e nel modificare le percentuale di gettito da destinare per le finalità di cui alla cit. delibera G.C. n. 20/2005, ne ha mantenuto fermi gli altri punti e pertanto anche la suddetta attribuzione di competenza in capo al Dirigente in ordine alla ripartizione e liquidazione dell’incentivo, non è men vero che detta attribuzione di competenza deve essere intesa in conformità ai principi dell’ordinamento che illuminano la conclusione nel senso che la stessa non è riferibile alla attribuzione ed alla liquidazione del compenso incentivante che potesse eventualmente spettare allo stesso Dirigente.
Occorre osservare che mentre l’art. 45 del D.Lgs. 165/2001, che disciplina il trattamento economico fondamentale ed accessorio della generalità dei pubblici dipendenti prevedendo che lo stesso sia definito dai contratti collettivi, stabilisce che “i dirigenti sono responsabili dell'attribuzione dei trattamenti economici accessori”, analoga attribuzione di competenza e responsabilità non è prevista dall’art. 24 dello stesso decreto legislativo, che disciplina il trattamento economico del personale con qualifica dirigenziale.
Il cit. art. 24 D.Lgs. 165/2001 stabilisce, infatti, che la retribuzione del personale con qualifica di dirigente sia determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali prevedendo che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite (nonché -a seguito della novella di cui al D.Lgs. 150/2009- alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti) e che la graduazione delle funzioni e responsabilità ai fini del trattamento sia definita con provvedimenti degli organi di governo dell’amministrazione o ente.
Sennonché, nel senso che il SA. non potesse procedere all’auto-liquidazione dei compensi incentivanti appare nella specie assorbente il rilievo dell’evidente vulnus al principio dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) conseguente alle censurate determine adottate in palese conflitto di interessi.
In proposito si osserva che il D.M. P.C.M. - Dip. funz. pubbl. 28.11.2000 (recante il “codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, più di recente sostituito dal D.P.R. 16.04.2013 n. 62, ma applicabile ratione temporis ai fatti che ne occupano) prevedeva, all’art. 6 (rubricato “obbligo di astensione”), che “
il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o conviventi…..”, secondo un principio parimenti desumibile dall’art. 51, primo comma, n. 1 c.p.c., che prevede che il giudice abbia l’obbligo di astenersi “se ha interesse nella causa”, dall’art. 78, secondo comma, D.Lgs. 267/2000 che prevede che gli amministratori locali debbano “astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado”, dall’art. 53, settimo comma, D.Lgs. 165/2001 che prevede che, ai fini dell’autorizzazione di incarichi retribuiti, l'amministrazione verifichi “l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi” nonché dalla previsione del reato di abuso d’ufficio di cui l’art. 323 c.p.c. [cfr. inoltre, l’ art. 6-bis. della L. 241/1990 , introdotto dall’articolo 1, comma 41, della legge n. 190/2013, che stabilisce che “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endo-procedimentali ed il provvedimento finale, devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale” nonché l’art. 7 del D.P.R. 62/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'art. 54 del D.Lgs. 165/2001) che stabilisce che i dipendenti pubblici devono astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di loro parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi ed in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza].
Sulla base della definizione di cui all’art. 3 della L. 215/2004 (recante “norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi”) -che, ancorché dettata con riferimento ai titolari di cariche di governo, è evidentemente suscettibile di generale applicazione- deve ritenersi che sussista “
situazione di conflitto di interessi … quando il titolare …..partecipa all'adozione di un atto, anche formulando la proposta …… quando l'atto o l'omissione ha un'incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare…..”.
Non può revocarsi in dubbio che l’autoliquidazione del compenso incentivante da parte del SA. abbia un incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio dello stesso SA., ciò che evidentemente esclude che lo stesso potesse adottare tale determinazione.
In proposito si osserva che
l’art. 1395 cod.civ. -applicabile, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., con il limite della compatibilità, agli atti unilaterali fra vivi aventi contenuto patrimoniale- contempla il “contratto con se stesso” prevedendo che lo stesso possa ammettersi, e cioè non sia viziato, solo quando il soggetto in conflitto di interessi sia stato “autorizzato specificatamente” ovvero “il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi”.
Sennonché, in disparte il rilievo che né la delibera n. 20/2005 né la successiva delibera n. 306/2006, recano alcun autorizzazione, né tam poco, alcuna autorizzazione specifica al SA., ad auto-attribuirsi ed auto-liquidarsi il compenso incentivante, appare assorbente la considerazione che,
in ragione dell’inderogabilità della disciplina in materia di obbligo di astensione, deve, comunque, escludersi che, quando, come nella specie, si verta in ipotesi di esercizio di pubbliche funzioni, un’autorizzazione, ancorché specifica, dell’organo di governo dell’amministrazione o ente, possa legittimare il dipendente o amministratore pubblico ad adottare provvedimenti incidenti in senso favorevole sulla propria sfera giuridica, in presenza di un conflitto di interessi.
D’altro canto,
solo la predeterminazione dettagliata e puntuale -tale da escludere qualsiasi discrezionalità in sede applicativa- dei criteri di ripartizione ed attribuzione del compenso incentivante, attraverso l’adozione, da parte della Giunta comunale -competente in materia di ordinamento degli uffici ai sensi dell’art. 48, terzo comma, D.Lgs. 267/2000- di un apposito regolamento e/o sulla base di accordi collettivi decentrati/integrativi, avrebbe consentito di escludere la configurabilità, in capo al SA., di un conflitto di interessi.
Non v’è chi non veda, infatti, che
solo ove l’attribuzione e la liquidazione del compenso incentivante si fosse risolta in un’attività scevra da scelte e valutazioni discrezionali ma meramente e meccanicamente ricognitiva degli elementi che -sulla base di una “griglia” di predefiniti parametri oggettivi- consentissero di determinare in modo automatico l’importo che potesse eventualmente spettare, a tale titolo, al Dirigente, il SA. avrebbe potuto legittimamente auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Sennonché,
considerato che di una tale disciplina regolamentare e/o collettiva non vi è menzione nelle determinazioni di liquidazione del compenso incentivante, deve ritenersi che non ve ne fosse alcuna presso l’Amministrazione comunale di Cerignola, per cui deve escludersi che il SA. potesse auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Il comportamento del SA. che, in palese conflitto di interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato il compenso incentivante deve, pertanto, qualificarsi non iure.
D’altro canto,
se è vero che –come evidenziato dal convenuto- non è sufficiente l’illegittimità del comportamento per ritenerne, altresì, l’illiceità, e cioè che il comportamento stesso sia causativo di danno erariale, non è men vero che, nella specie, non può revocarsi in dubbio che, in dipendenza del comportamento del SA., il Comune di Cerignola abbia subito un danno patrimoniale pari all’ammontare dei compensi incentivanti auto-liquidati.
Considerato, infatti, che la stessa insorgenza di un ipotetico credito del SA. a tale titolo era integralmente subordinata sia nell’an che nel quantum a valutazioni e scelte ampiamente discrezionali riservate alla Giunta comunale (sulla base degli eventuali accordi sindacali decentrati/integrativi), che, pertanto, assumono valenza costitutiva del credito, deve escludersi che, in difetto delle stesse, il SA. potesse considerarsi titolare di alcun credito nei confronti dell’ Amministrazione.
Non può revocarsi in dubbio, invero, che all’Amministrazione e, per essa, ai suoi organi di governo, competeva valutare l’apporto del Dirigente sia singolarmente sia in confronto ed il relazione al contributo del restante personale (unitariamente considerato atteso che alla ripartizione fra gli altri dipendenti interessati del compenso incentivante spettante loro ben poteva procedere il Dirigente SA.), così come all’Amministrazione, e per essa ai suoi organi di governo, competeva valutare l’incidenza del compenso incentivante che potesse eventualmente spettare al Dirigente, sull’ammontare della retribuzione di risultato, avuto altresì riguardo ai “criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale” di cui all’art. 20, secondo comma, C.C.N.L. 02.02.2010.
Deve, pertanto, ritenersi che il SA. vantasse una mera aspettativa a fruire del suddetto incentivo se e nella misura in cui lo stesso fosse risultato dovuto all’esito delle scelte e valutazioni discrezionali innanzi menzionate.
E’ appena il caso di osservare che il SA., che poteva vantare un legittimo interesse all’esercizio, da parte del Comune di Cerignola, del proprio potere discrezionale in subiecta materia, non risulta che ne abbia mai sollecitato l’esercizio né che abbia dedotto detto interesse in giudizio al fine di ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’ amministrazione di provvedere, ma ha preferito auto-liquidarsi il compenso incentivante.
Considerato che, nella specie, le suddette scelte e valutazioni discrezionali non sono state operate dall’amministrazione, deve escludersi, come innanzi rilevato, che il SA. potesse vantare alcun credito a tale titolo.
Ne consegue che
il pagamento in favore del SA. del compenso incentivante che lo stesso si è auto-attribuito deve considerarsi alla stregua di un pagamento indebito e, pertanto, produttivo di danno erariale.
Le considerazioni innanzi esposte illuminano la conclusione nel senso che il diritto e la misura del compenso incentivante che potesse eventualmente spettare al SA. non può essere stabilita da questo giudice; la previsione di cui all’art. 1, primo comma, della L. 20/1994, che fa espressamente salva l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, comporta, quale logico corollario, che il giudice non può sostituirsi all’amministrazione nell’operare valutazioni discrezionali alla stessa riservate, in ordine all’eventuale spettanza ed all’ammontare del suddetto emolumento.
Sicché evidentemente, non essendovi stato il riconoscimento e la quantificazione, da parte dei competenti organi dell’Amministrazione, del compenso incentivante che potesse eventualmente spettargli, deve ritenersi che l’intero importo che il SA. si è auto-liquidato, a tale titolo, costituisca danno ingiusto per il Comune di Cerignola.
La difesa del SA. ha allegato che non sarebbe configurabile il dedotto danno erariale “in quanto la valutazione dello stesso non può che essere legata all'ipotesi di un maggior esborso sostenuto dall'ente, ipotesi non dimostrata o dimostrabile atteso ché la spesa sostenuta dall'Ente civico per tale fattispecie è stata liquidata in modo inequivocabile entro quella prevista dal regolamento e solo ed esclusivamente al raggiungimento degli obiettivi desumibili dal conto consuntivo” in quanto “con regolamento approvato con Delibera G.C. n. 20 del 28.01.2005 l'amministrazione ha deliberato di destinare, per le finalità di cui al comma 2 dell'articolo 19, una percentuale pari al 3% per gli importi derivanti da gettito pregresso”.
Sennonché lo stesso SA. ha evidenziato, a pag. 17 della comparsa di costituzione, che gli importi dallo stesso SA. complessivamente liquidati per il 2007, il 2008 ed il 2009 sono stati notevolmente inferiori agli importi maturati “in base a tali aliquote e in base ai risultati ottenuti a consuntivo”, ciò che dimostra come la spesa “prevista dal regolamento” costituisse solo un limite o “tetto” massimo da non superare.
E’ evidente, pertanto, che dalla circostanza che l’ammontare dei compensi liquidati fosse contenuta entro il limite previsto dal regolamento non possono inferirsi illazioni nel senso dell’ insussistenza del danno.
Si duole il convenuto che la domanda attorea non terrebbe “conto, come invece imposto dall’art. 1, comma 1–bis, della L. 20/1994, dei cospicui vantaggi conseguiti dal Comune di Cerignola”, presumibilmente in termini di gettito e recupero dell’I.C.I. evasa.
Reputa questo giudice che debba escludersi che ricorrano nella specie i presupposti per l’applicazione dell’invocata disposizione normativa.
Giusto il consolidato orientamento della Cassazione civile (cfr. ex multis, Sez. III, 22.06.2005 n. 13401, Sez. II, 12.05.2003 n. 7269), l'operatività dell’istituto della compensatio lucri cum damno postula che tanto il pregiudizio quanto l'incremento patrimoniale siano conseguenza immediata e diretta del medesimo fatto.
Avuto riguardo al caso di specie, ove anche si ipotizzasse che il Comune di Cerignola abbia conseguito i dedotti cospicui vantaggi, essi non deriverebbero certamente dall’illecito contestato e cioè dall’abusiva autoliquidazione da parte del SA. del compenso incentivante.
Inoltre,
il conseguimento del gettito dei tributi comunali, e quindi anche dell’ I.C.I., ed il recupero della relativa evasione, costituiscono precipui compiti e doveri sia del Dirigente preposto che del personale addetto all’ufficio tributi così come, più in generale, di tutti i dipendenti dell’ amministrazione, che, pertanto, anche a prescindere dall’incentivo, avrebbero dovuto, comunque, provvedervi.
Nella specie, non vi è, inoltre, prova che i risultati che sarebbero stati conseguiti dal Comune di Cerignola siano dipesi dall’apporto del dirigente SA. anziché dall’apporto dei dipendenti, considerato, altresì, che, mentre l’apporto dei dipendenti è stato valutato dal Dirigente, l’apporto di quest’ultimo non è stato valutato dall’amministrazione.
In proposito, si osserva che evidentemente inconferente si palesa il “nulla osta” del Nucleo di Valutazione di cui è menzione nella delibera G.C. n. 142 del 17.04.2008, nella delibera del C.S. n. 79 del 10.08.2009 e nella delibera C.S. n. 96 del 23.03.2010 di liquidazione della retribuzione di risultato in favore dei dirigenti, ivi compreso il SA., nonché del segretario generale, per, rispettivamente, gli esercizi 2007, 2008 e 2009, considerato che dalla menzione del suddetto “nulla osta” non si evince alcunché in ordine al concreto contributo del SA. al conseguimento dei risultati in termini di gettito e recupero evasione ICI.
E’, d’altro canto, appena il caso di osservare come le summenzionate delibere della G.C. e del C.S. di liquidazione, con riferimento a ciascuno dei suddetti anni, della retribuzione di risultato, non rechino alcuna valutazione dell’ incidenza del compenso incentivante “sull'ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale, ai sensi dell'art.6 del CCNL del 22.02.2006”, come previsto dall’art. 20, secondo comma, C.C.N.L. 22.02.2010 dell’area dirigenziale; valutazione che, oltre tutto, non sarebbe stata nemmeno possibile dal momento che, come evidenziato dal SA., le suddette delibere di liquidazione della retribuzione di risultato sono precedenti all’assunzione e/o all’ esecuzione delle determine con le quali, con riferimento agli stessi anni, il SA. ha liquidato e si è auto-liquidato il compenso incentivante.
Deve essere, inoltre, disatteso, siccome infondato, l’assunto del SA. per cui il danno deve “essere quantificato al netto delle ritenute fiscali e previdenziali al fine di evitare un’indebita locupletazione della finanza generale”.
Quanto alle ritenute previdenziali, occorre osservare come le stesse abbiano incrementato la posizione contributiva del convenuto, per cui, a fronte di dette ritenute, non vi è stata alcuna “indebita locupletazione della finanza generale”. Di converso sarebbe il SA. -che, come risulta dalle determinazioni de quibus, con il proprio comportamento ha dato, altresì, causa al pagamento, a carico dell’Amministrazione comunale di Cerignola, oltre che dell’IRAP, anche degli “oneri riflessi”, e cioè dei contributi previdenziali per la parte a carico del datore di lavoro (voci di danno estranee alla domanda attorea)- a trarne ulteriore indebita locupletazione ove l’importo del danno fosse determinato al netto anziché al lordo delle ritenute previdenziali stesse.
Quanto alle ritenute fiscali operate, a titolo di acconto, sugli emolumenti corrisposti, reputa la Sezione che, nel senso che l’importo del danno debba essere assunto al lordo e non al netto delle ritenute stesse, depone univocamente la natura sostanzialmente restitutoria dell’azione di danno esercitata dalla Procura regionale con l’atto di citazione in epigrafe.
In proposito, si osserva che, da un lato, la disposizione di cui alla lett. d-bis (aggiunta dall'art. 5, D.Lgs. 314/1997) dell'art. 10 (oneri deducibili) del testo unico delle imposte sui redditi (D.P.R. 917/1986), annovera, fra gli oneri deducibili, “le somme restituite al soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni precedenti”, con previsione evidentemente applicabile all’ipotesi di restituzione di emolumenti indebiti, dall’altro, la disposizione di cui al successivo art. 51 dello stesso testo unico nel disciplinare la determinazione del reddito di lavoro dipendente prevede, al secondo comma lett. h), che non concorrino alla relativa formazione, fra le altre, le somme trattenute al dipendente per oneri di cui all'articolo 10 e alle condizioni ivi previste, ivi comprese, pertanto, “le somme restituite al soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni precedenti”.
Non può revocarsi in dubbio che, per effetto delle summenzionate disposizioni normative, gli effetti fiscali conseguenti all’erogazione di emolumenti indebiti siano sostanzialmente sterilizzati, per cui evidentemente priva di fondamento è la richiesta del convenuto di quantificazione dell’importo dallo stesso dovuto in restituzione al netto delle ritenute fiscali.
Quanto all’ulteriore deduzione difensiva per cui occorrerebbe “considerare che il dott. SA. comunque conserverebbe il diritto alla percezione degli incentivi ai sensi del comb. disp. di cui agli artt. 3, comma 57, della L. 662/1996 e 59, lett. p), L.446/1997 con obbligo del Comune di Cerignola di effettuarne il relativo riconoscimento”, si osserva che la questione relativa all’eventuale configurabilità, alla data odierna, nonostante il tempo trascorso, di un ipotetico obbligo in tal senso (rectius: dell’obbligo di valutare l’ eventuale apporto del SA. al conseguimento del gettito ed al recupero dell’evasione ICI nonché l’incidenza del compenso incentivante che potesse, in ipotesi, spettargli “sull'ammontare della retribuzione di risultato, sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale”) da parte dell’amministrazione datrice di lavoro esula dall’oggetto del presente giudizio, siccome evidentemente irrilevante, per le ragioni innanzi esposte, ai fini della quantificazione dei danni che ne occupano.
Alla luce delle suesposte considerazioni, reputa la Sezione che in dipendenza del comportamento del SA., l’Amministrazione comunale di Cerignola abbia subito una deminutio patrimonii pari all’intero importo che il SA. si è auto-liquidato.
Considerato, peraltro, che, come innanzi evidenziato, deve considerarsi prescritto il danno conseguente alla determina n. 1079 del 04.12.2008, con il quale il SA. si è auto-liquidato l’importo di €. 20.000,00, il suddetto importo deve essere detratto dall’ammontare complessivo dei danni dei quali il SARACINO deve rispondere, che devono essere conseguentemente rideterminati in complessivi €. 82.821,76.
Non può d’altro canto, revocarsi in dubbio la sussistenza, nella specie, dell’elemento soggettivo necessario ai fini dell’integrazione della responsabilità amministrativa, limitata, ai sensi dell’art. 1, primo comma, L. 20/1994, alle ipotesi di comportamenti dolosi o gravemente colposi.
Il SA. che, anche in ragione della sua qualifica dirigenziale, non poteva evidentemente ignorare l’obbligo di astenersi dall’ assumere provvedimenti nei quali fosse personalmente interessato e, comunque, in situazione di conflitto di interessi, si è, ciò nondimeno, auto-liquidato, con le determine de quibus, rilevanti importi, a carico dell’ Amministrazione di appartenenza, a titolo di compensi incentivanti, con un comportamento che, appare, pertanto, palesemente connotato, quanto meno, da colpa grave, siccome improntato a straordinaria negligenza ed imperizia ed a manifesto disinteresse per gli interessi finanziari dell’ Amministrazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il SA. deve rispondere dei danni come innanzi quantificati in €. 82.821,76.
Non ricorrendo i presupposti per l’esercizio del potere riduttivo, il SA. deve essere, pertanto, condannato al pagamento, in favore del Comune di Cerignola, del suddetto importo di €. 82.821,76, oltre rivalutazione, secondo indici ISTAT – F.O.I.., maturata dal 31.03.2010 (fine del mese della più recente delle liquidazioni de quibus) sino alla data di deposito della presente sentenza ed interessi, nella misura legale, maturandi, sull’importo rivalutato, dalla data della presente sentenza sino al dì dell’effettivo soddisfo.
4.
Reputa inoltre, la Sezione che debba essere disattesa l’istanza di “oscuramento” dei dati proposta dal convenuto.
L’art. 52 del D.Lgs. 196/2003 dopo aver previsto, al primo comma, che l'interessato possa chiedere “per motivi legittimi”, che sia apposta a cura della cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, la indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento, dispone al successivo secondo comma, che sulla suddetta richiesta “provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento”.
E’ evidente, pertanto, come
l’adozione dell’invocato provvedimento di oscuramento sia subordinato alla sussistenza ed all’allegazione di motivi legittimi sindacabili dal giudice, cui compete valutare comparativamente le ragioni addotte a fondamento dell’istanza proposta con l’interesse generale alla conoscibilità del contenuto integrale dei provvedimenti giurisdizionali, quale strumento di democrazia e di informazione giuridica.
E’, del pari, evidente come
la prevalenza dell’interesse dell’istante sul suddetto interesse generale possa essere assicurata, disponendo l’oscuramento dei dati personali, solo in presenza di circostanze particolari e cioè quando dalla diffusione completa della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale possa derivare un pericolo di grave pregiudizio per i diritti dell’interessato.
Di converso,
deve escludersi che l’invocato provvedimento di “anonimizzazione” possa essere adottato, quando, come nella specie, venga allegato, senza dedurre alcuna circostanza idonea ad attribuirgli particolare rilevanza, il mero interesse al riserbo del convenuto nel giudizio di responsabilità amministrativa che, anche in considerazione dell’oggetto del giudizio -relativo al pregiudizio arrecato alle finanze di una pubblica amministrazione- deve considerarsi recessivo rispetto all’interesse generale a conoscere il contenuto integrale del provvedimento giurisdizionale.
5. Le spese del procedimento seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 14.04.2015 n. 203).

11.09.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: Cemento armato, stop ai geometri. Parere Consiglio di Stato.
Le costruzioni in cemento armato o in zona sismica non possono essere progettate in autonomia da un geometra. La progettazione e la direzione lavori relative alle opere in cemento armato va affidata all'ingegnere o all'architetto. Questi ultimi infatti sono in grado di eseguire i calcoli e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità pubblica.

Questo è quanto espresso dal Consiglio di Stato, Sez. II, nel parere 04.09.2015 n. 2539 in risposta ad una richiesta del ministero della giustizia.
Il parere del consiglio di stato proprio perché è in risposta al ministero delle giustizia ha il valore ricostruire il complicato quadro legislativo e dettare le linee di carattere generale sulla possibilità da parte dei geometri di costruire opere in cemento armato. Il professionista, che svolge la progettazione con l'uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità delle opere in cemento armato.
I giudici del Cds sottolineano che non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli. Nel senso appunto che l'incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell'ingegnere, ma deve essere fin dall'inizio affidata a quest'ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
Per quanto concerne invece la formazione dei geometri, la costante giurisprudenza ha sostenuto la inidoneità a giustificare una competenza professionale, che attiene a calcoli complessi, i quali specie nelle zone sismiche, attengono a un gioco di spinte e controspinte e all'ipotizzazione di sollecitazioni, che esulano dalla specifica preparazione dei geometri. Del resto, la prova scritto grafica per il superamento dell'esame per l'abilitazione alla professione di geometra demanda al candidato di fissare liberamente le scelte ritenute utili e necessarie per la redazione del progetto fra le quali anche la struttura in cemento armato, la natura del terreno di fondazione, sicché anche l'esame stesso non esige necessariamente che il futuro geometra sia in grado di affrontare le difficoltà derivanti alle suddette variabili.
Ai geometri, infatti, «anche se in ipotesi tutte da dimostrare» risulterebbe concessa la possibilità di progettare in città piccoli edifici in cemento, mentre nel campo degli edifici agricoli tale possibilità sarebbe ridotta a «piccole costruzioni in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare un pericolo per le persone». L'attività di progettazione e la direzione lavori , incentrata sugli aspetti architettonici della «modesta» costruzione civile vanno affidati invece a un geometra (articolo ItaliaOggi del 09.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMPETENZE PROGETTUALICemento armato, progetti solo a ingegneri e architetti. Professioni. Il parere del Consiglio di Stato sulle competenze dei geometri.
Uno schiaffo alla professione. I geometri non possono progettare le strutture di opere in cemento armato o costruzioni in zona sismica, almeno stando a quanto è scritto nel parere 04.09.2015 n. 2539 del Consiglio di Stato (II Sez.) a seguito di una questione posta dalla Regione Toscana.
Il progetto andrà firmato e coordinato da un ingegnere o da un architetto. Nelle altre zone i geometri potranno invece effettuare la progettazione architettonica degli edifici in autonomia ma in ogni caso la firma sarà di un ingegnere o di un architetto.
Il parere del Consiglio di Stato parte da un dato di fatto normativo: l’abrogazione dell’articolo 1 del Regio decreto 2229/1939 che riservava a ingegneri e architetti la possibilità di progettare opere in cemento semplice o armato: di conseguenza, quanto meno per le “modeste costruzioni civili”, i geometri potrebbero progettare con il cemento armato.
Di fatto, sinora le sentenze sulla questione si dividevano: alcune ritengono che i geometri possono progettare opere in cemento (se di «modestia della costruzione»), altre «continuano ad applicare alla professione di geometra il divieto assoluto di progettazione» di opere in cemento armato.
Una liberalizzazione che per il Consiglio di Stato appare eccessiva: stando alla lettera della legge, i geometri possono progettare in città piccoli edifici in cemento, mentre per gli edifici agricoli dovrebbero limitarsi a «piccole costruzioni in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare un pericolo per le persone».
Per i giudici amministrativi questa situazione sarebbe «al di fuori di ogni ragionevolezza in relazione alla tutela della pubblica incolumità». Il Consiglio di Stato, dopo aver rilevato le due circolari dei consigli nazionali di geometri e ingegneri che pervengono “a conclusioni opposte” ha dettato un principio generale, che pende a favore di architetti e ingegneri.
In sostanza, quando entra in scena il cemento armato negli edifici civili spetterà a ingegneri e architetti il compito di calcolare le strutture, mentre il geometra (che non potrà fare lavori in autonomia) potrà occuparsi di progettazione e direzione lavori degli aspetti architettonici
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Competenze geometri vs ingegneri e architetti, il principio regolatore è la pubblica incolumità.
Anche per le “modeste” costruzioni civili il geometra può progettare, con l’uso del cemento armato, piccole costruzioni accessorie, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e non implichino per destinazione pericolo per l’incolumità delle persone.

Se ci si domanda, poi, in cosa consista in dettaglio la competenza di geometri alla progettazione ed esecuzione di “modeste costruzioni civili”, vista l’indeterminatezza del requisito della modestia, modestia che, secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, va valutata sia sotto l’aspetto quantitativo che sotto quello qualitativo (con riferimento ai problemi tecnici che l’opera solleva), occorre mantenere ferme le limitazioni scaturenti dalla lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929, ed in particolare quella del pericolo alla pubblica incolumità, che nel caso delle costruzioni civili implica sia valutata secondo criteri di particolare rigore.
Pertanto,
se non si può rinunciare alla competenza tecnica in ordine all’effettuazione dei calcoli ed alla direzione dei conseguenti lavori per i conglomerati cementizi, specificamente connessa alla funzionalità statica delle opere in cemento armato, non può, tuttavia, non essere mantenuta in capo al geometra la possibilità di procedere alla semplice progettazione architettonica delle modeste costruzioni civili, evitando nel contempo, però, comportamenti elusivi del combinato disposto delle lett. l) ed m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929.
In tale prospettiva, che si basa anche sul principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali,
nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra. Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato,
nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
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Quanto, invece, alle fonti normative riguardanti la formazione del geometra, va rilevato come la costante giurisprudenza ne abbia affermato l’assoluta inidoneità a giustificare una competenza professionale che attiene a calcoli complessi, i quali, specie nelle zone sismiche, attengono ad un gioco di spinte e controspinte ed all’ipotizzazione di sollecitazioni, che esulano dalla specifica preparazione dei geometri.
Del resto, la prova scritto-grafica per il superamento dell’esame per l’abilitazione alla professione di geometra demanda al candidato di fissare liberamente le scelte ritenute utili e necessarie per la redazione del progetto, fra le quali anche la struttura in cemento armato, il calcolo delle sollecitazioni ammissibili dei materiali e la natura del terreno di fondazione, sicché l’esame stesso non esige necessariamente (e quindi non garantisce) che il futuro geometra sia in grado di affrontare le difficoltà derivanti alle suddette variabili.
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Pur non potendosi accettare nella sua assolutezza la tesi, per la quale nelle zone sismiche l’edificazione con l’uso del cemento armato esclude di per sé che la costruzione civile possa ritenersi “modesta”
, ché, altrimenti, si verrebbe a determinare un’irrazionale eccezione per le costruzioni rurali e per uso di industrie agricole– deve ritenersi che il grado di pericolo sismico della zona, in cui insiste la costruzione, non può non trovare considerazione nella valutazione di un progetto relativo alle piccole costruzioni accessorie e alle “modeste” costruzioni civili, nel senso appunto che ben possono le Amministrazioni competenti esigere che la “modestia” di una costruzione, che faccia uso di cemento armato, sia valutata con particolare rigore, al fine di considerare con prevalente attenzione la progettazione, esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche, che dovrà essere demandata alla responsabilità di un professionista titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte, controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la costruzione.
Sicché la progettazione statica, in questi casi, avrà prevalenza sulla progettazione architettonica e, se si vuole, il professionista capofila non potrà che essere l’ingegnere o l’architetto.

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OGGETTO: Regione Toscana. Limiti delle competenze professionali dei tecnici geometri per quanto rilevante ai fini dello svolgimento delle funzioni degli uffici tecnici regionali (c.d. genio civile) in ambito strutturale.
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PREMESSO
Il Presidente della Giunta regionale Toscana chiede un parere sui limiti delle competenze professionali esercitabili da questa categoria, in riferimento alla normativa di settore, ed in particolare all’art. 16 del R.D. 11.02.1929, n. 274, recante “Regolamento per la professione di geometra”, e ciò allo scopo di garantire il corretto esercizio delle funzioni amministrative degli uffici tecnici regionali in materia di denunce dei lavori di opere in conglomerato cementizio armato o da realizzarsi in zona sismica progettate da geometri.
Come già premesso nel parere interlocutorio del 17.10.2012, va ricordato che la Regione ha sottoposto una prima questione relativa alla competenza nella progettazione di civili costruzioni, che comportino la realizzazione di strutture in cemento armato, chiedendo se per tale tipo di costruzioni sia sempre da escludersi la competenza dei geometri per la progettazione di opere in cemento armato ovvero se sia ammissibile tale tecnica costruttiva con il limite della “modestia” dell’opera.
Ritiene, al riguardo, la Regione che la questione potrebbe essere rivalutata alla luce dell’abrogazione, per effetto dell’emanazione del d.lgs. 13.12.2010, n. 212, del R.D. 16.11.1939, n. 2229, che riserva all’ingegnere ovvero all’architetto iscritto all’albo la firma del progetto esecutivo di ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone.
Potrebbe, inoltre, costituire –secondo la Regione Toscana– indizio di un'estensione delle competenze professionali dei geometri la circostanza che sovente le prove d’esame somministrate in occasione degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio della libera professione di geometra (che, secondo il D.M. 15.03.1986 pubblicato in G.U. n. 117 del 22.05.2006, devono attenere alle competenze professionali dei geometri) menzionino l’uso del cemento armato e che nella descrizione della tariffa professionale (art. 57 l. n. 144 del 1949) l’ossatura di cemento armato compaia esclusa solo per le costruzioni antisismiche a due piani.
La seconda questione sottoposta riguarda i limiti delle competenze di progettazione da parte dei geometri in riferimento alle costruzioni da realizzare in zona sismica (in cui ricade interamente la Regione Toscana).
In particolare, la Regione chiede se si possa considerare ammissibile la progettazione da parte di geometri di modeste costruzioni civili in zona sismica, valorizzando la portata del secondo comma dell’art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001, che prevede la presentazione della domanda con allegato il progetto debitamente firmato “da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori” e della già richiamata tariffa nonché considerando l’avvenuta estensione a tutto il territorio nazionale, con eccezione della sola Sardegna, della classificazione come zona sismica.
In conclusione, chiede se i tecnici geometri siano abilitati a svolgere la progettazione e la direzione di lavori per la realizzazione di costruzioni civili con strutture di cemento armato nei limiti della modestia della costruzione e se sia preclusa qualsiasi attività di progettazione e direzione di lavori di strutture civili in zona sismica.
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CONSIDERATO
È opportuno preliminarmente richiamare le disposizioni che riguardano la materia oggetto della richiesta di parere, distinguendo tra:
a) quelle disposizioni che, regolando in generale l’esercizio della professione di geometra, ne disciplinano le competenze;
b) quelle riguardanti le costruzioni che utilizzano il conglomerato cementizio;
c) quelle che disciplinano specificamente le opere da realizzare nelle zone sismiche.
Quanto alla prima categoria, viene innanzitutto in rilievo l’art. 16 R.D. 11.02.1929, n. 274, recante il regolamento per la professione di geometra, che recita: “L’oggetto ed i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono regolati come segue: …..
l) progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d’industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d’arte, lavori d’irrigazione e di bonifica, provvista d’acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione;
m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili...
”.
A tale disposizione si aggiunge l’art. 57 della legge 02.03.1949, n. 11, relativa alla tariffa degli onorari per le prestazioni professionali dei geometri, che nella categoria “Costruzioni rurali, modeste costruzioni civili, edifici pubblici per comuni fino a 10.000 abitanti", cui si applicano le tabelle H ed I, prevede le costruzioni per aziende rurali con annessi edifici per la conservazione dei prodotti o per industria agraria, le case di abitazione popolari nei centri urbani, gli edifici pubblici, magazzini, capannoni, rimesse in più locali ad uso di ricovero e di industrie, case di abitazione comuni ed economiche, costruzioni asismiche a due piani senza ossatura in cemento armato o ferro, edifici pubblici etc..
Quanto poi alle norme riguardanti le opere in conglomerato cementizio semplice ed armato, occorre far riferimento, sia pure da un punto di vista storico, all’art. 1 R.D. 16.11.1939, n. 2229, che recita: “Ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell’albo, nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della L. 24.06.1923, n. 1395, e del R.D. 23.10.1925, n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto e delle successive modificazioni”.
Tale disposizione risulta oggi abrogata dal D.lgs. 13.12.2010, n. 212.
Queste disposizioni erano completate dagli artt. 1 e 2 della L. 05.11.1971, n. 1086, oggi trasfusi all’interno del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il testo unico dell’edilizia, che reca l’art. 53, che prevede: “1. Ai fini del presente testo unico si considerano:
a) opere in conglomerato cementizio armato normale, quelle composte da un complesso di strutture in conglomerato cementizio ed armature che assolvono ad una funzione statica;
b) opere in conglomerato cementizio armato precompresso, quelle composte di strutture in conglomerato cementizio ed armature nelle quali si imprime artificialmente uno stato di sollecitazione addizionale di natura ed entità tali da assicurare permanentemente l’effetto statico voluto;
c) opere a struttura metallica quelle nelle quali la statica è assicurata in tutto o in parte da elementi strutturali in acciaio o in altri metalli
”.
Il successivo art. 64 disciplina la progettazione, esecuzione, direzione relative alle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso, stabilendo: “1. La realizzazione delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, deve avvenire in modo tale da assicurare la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità.
2. La costruzione delle opere di cui all’art. 53, comma 1, deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali.
3. L’esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali.
4. Il progettista ha la responsabilità diretta della progettazione di tutte le strutture dell’opera comunque realizzate.
5. Il direttore dei lavori ed il costruttore, ciascuno per la parte di sua competenza, hanno la responsabilità della rispondenza dell’opera al progetto, dell’osservanza delle prescrizioni di esecuzione del progetto, della qualità dei materiali impiegati, nonché, per quanto riguarda gli elementi prefabbricati, della posa in opera
”.
Infine, per quanto riguarda le zone sismiche, l’art. 93 del d.P.R. n. 380 del 2001 cit. dispone, riprendendo gli artt. 17, 18 e 19 L. 02.02.1974, n. 64: “1. Nelle zone sismiche di cui all’art. 83, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione, indicando il proprio domicilio, il nome e la residenza del progettista, del direttore dei lavori e dell’appaltatore.
2. Alla domanda deve essere allegato il progetto, in doppio esemplare e debitamente firmato da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei limiti delle rispettive competenze, nonché dal direttore dei lavori.
3. Il contenuto minimo del progetto è determinato dal competente ufficio tecnico della regione. In ogni caso il progetto deve essere esauriente per planimetria, piante, prospetti e sezioni ed accompagnato da una relazione tecnica, dal fascicolo dei calcoli delle strutture portanti, sia in fondazione sia in elevazione, e dai disegni dei particolari esecutivi delle strutture.
4. Al progetto deve inoltre essere allegata una relazione sulla fondazione, nella quale devono essere illustrati i criteri seguiti nella scelta del tipo di fondazione, le ipotesi assunte, i calcoli svolti nei riguardi del complesso terreno-opera di fondazione.
5. La relazione sulla fondazione deve essere corredata da grafici o da documentazioni, in quanto necessari.
6. In ogni comune deve essere tenuto un registro delle denunzie di lavori di cui al presente articolo.
7. Il registro deve essere esibito, costantemente aggiornato, a semplice richiesta, ai funzionari, ufficiali ed agenti indicati nell’articolo 103
”.
L’art. 94 seguente prevede inoltre che: “1. Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
2. L’autorizzazione è rilasciata entro sessanta giorni dalla richiesta e viene comunicata al comune, subito dopo il rilascio, per i provvedimenti di sua competenza.
3. Avverso il provvedimento relativo alla domanda di autorizzazione, o nei confronti del mancato rilascio entro il termine di cui al comma 2, è ammesso ricorso al presidente della giunta regionale che decide con provvedimento definitivo.
4. I lavori devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell’albo, nei limiti delle rispettive competenze
".
La questione all’attenzione della Sezione,
già in passato ritenuta altamente controversa e non suscettibile di univoche soluzioni, si è ulteriormente complicata in seguito all’abrogazione dell’art. 1 R.D. 16.11.1939, n. 2229 cit., recante norme per la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice od armato.
Tale abrogazione, verificatasi in seguito al processo del c.d. taglia-leggi (D.lgs. 13.12.2010, n. 212), ha consentito che
la questione, oggetto del quesito principale, trovasse il principio di regolamentazione nell’art. 64 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 cit., che, dopo aver stabilito il principio per cui la realizzazione delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, deve avvenire in modo tale da assicurare la stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità, stabilisce che il progetto esecutivo delle opere debba essere redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali, prevedendo che l’esecuzione delle opere debba aver luogo sotto la direzione di un tecnico abilitato, iscritto al relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionale.
Sembra pertanto che,
per quanto riguarda le opere in cemento armato normale o precompresso e di quelle a struttura metallica, ci si debba riferire alla normativa riguardante gli ordini professionali: id est, nel caso in esame, alla specifica normativa contenuta nell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929, cui la giurisprudenza civile ed amministrativa avevano fatto costante ed indiscusso riferimento (exempli gratia Cons. Stato, Sez. IV, 09.02.2012, n. 686; Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2011, n. 2537; Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2010, n. 1457; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2012, n. 6036; TAR Lombardia (Brescia), Sez. II, 18.04.2013, n. 361).
Salvo che
questa disposizione –così come formulata– si giustificava in presenza della regola generale, oggi abrogata, dell’art. 1 R.D. n. 2229 del 1939. Infatti, quest’ultima regola generale, mentre era idonea a porre un limite a quanto disposto della lett. m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929, per la quale oggetto e limiti dell’esercizio professionale del geometra sono costituiti da “progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili”, poteva tollerare un’eccezione solo per quanto stabilito dalla lett. l) del medesimo articolo, che contempla “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso di industria agricola, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone… (Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2012, n. 6036).
Ma, una volta abrogata la regola generale, la normativa introdotta dall’art. 16 appare squilibrata, nel senso che le modeste costruzioni civili potrebbero essere, in ipotesi tutta da dimostrare, progettate dai geometri, anche se implicanti strutture in cemento armato normale o precompresso, mentre per le costruzioni rurali e per gli edifici di uso industriale agricolo -certamente implicanti una ridotta frequentazione da parte di persone- i geometri potrebbero progettare solo “piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone”.
Ciò che era un’eccezione nel senso dell’ampliamento delle funzioni dei geometri, diverrebbe, oggi, un’eccezione in senso riduttivo delle funzioni stesse, al di fuori di ogni ragionevolezza in relazione alla tutela della pubblica incolumità.
In tale situazione l’interpretazione delle norme ha visto schierarsi la giurisprudenza su due lati opposti.
Da un lato
,
vi è chi ritiene che ormai non sussistano più limiti alla possibilità che i geometri siano responsabili dei progetti, purché si tratti di modeste costruzioni civili, e che l’unico limite rinvenibile sia quello derivante dalla identificazione della c.d. “modestia” della costruzione (cfr. exempli gratia, Cons. Stato, Sez. IV, 09.08.1997, n. 784; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 15.05.2013, n. 1108).
Dall’altro,
vi sono, però, pronunce che, anche dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 212 del 2010 –oltre a non dare a quest’ultima abrogazione efficacia retroattiva neppure sul piano interpretativo della normativa precedente (Cass. civ., sez. II, 30.08.2013, n. 19989)- continuano ad applicare alla professione di geometra il divieto assoluto di progettazione, allorché si tratti di costruzioni civili aventi strutture in cemento armato (cfr. exempli gratia, Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; 14.02.2012, n. 2153).
La prima soluzione data al problema
non regge, perché trascura quanto disposto dalla lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929 (Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2011, n. 2537) e perché non considera che quanto disposto dagli artt. 1 e 2 L. 05.11.1971, n. 1086, e 17 l. 02.02.1974, n. 64 faceva riferimento ad un consolidato sistema di competenze, che escludeva i geometri dalla progettazione di opere in cemento (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038; 07.09.2009, n. 19292).
Essa, inoltre, rinvia ad un limite alquanto indeterminato, essendo stati finora del tutto diversi ed evanescenti i criteri secondo i quali la giurisprudenza stabilisce quando una costruzione civile possa dirsi “modesta” (cfr. in vario senso, le fattispecie concrete ricordate nella memoria del Consiglio nazionale dei geometri del 13.12.2012).
L’altra impostazione data al problema
sembra trascurare il dato inoppugnabile nascente dall’ordinamento positivo, che ha abrogato la riserva in favore degli architetti ed ingegneri della progettazione ed esecuzione di “ogni opera di conglomerato cementizio, semplice o armato, la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone”.
Ad avviso della Sezione la strada da percorrere è diversa da quelle sopra accennate.
Si tratta di individuare innanzitutto un principio regolatore, che deve sovrintendere all’esercizio delle competenze dei vari ordini professionali, e di applicare tale principio regolatore nel delineare la linea di demarcazione tra le competenze di ingegneri ed architetti, da un lato, e quelle di geometri o periti industriali, dall’altro.
Tale principio è senza dubbio ispirato al pubblico e preminente interesse rivolto alla tutela della pubblica incolumità
(Cass. civ., Sez. II, 07.09.2009, n. 19292; Cass. civ., Sez. II, 13.01.1984, n. 286; Cons. Stato, Sez. V, 10.03.1997, n. 248; Sez. IV, 14.03.2013, n. 1526).
Si tratta di un principio espressamente codificato nell’art. 64, co. 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (e già prima nell’art. 1, co. 4, l. n. 1086 del 1971) e del quale l’art. 16, lett. l), R.D. n. 274 del 1929 faceva puntuale applicazione.
Del resto
la stessa L. 02.03.1949, n. 143 (Testo unico della tariffa degli onorari per le prestazioni professionali dell'ingegnere e dell'architetto), muove dal presupposto che per le costruzioni antisismiche a più di un piano l’ossatura in cemento armato non possa essere progettata da geometri.
Pertanto la lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929 esprime un limite intrinseco all’attività professionale dei geometri, che non può esplicarsi per opere che fanno uso di conglomerato cementizio, se esse siano tali da “interessare l’incolumità delle persone”.
Ne deriva che
sarebbe illogico non applicare per analogia, anche con riferimento alle costruzioni civili, la facoltà di progettazione, che l’art. 16, lett. l), attribuisce ai geometri, per quanto riguarda l’uso del cemento armato in piccole costruzioni accessorie a quelle rurali ed agli edifici per uso di industrie agricole, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e non implichino per destinazione pericolo per l’incolumità delle persone; il che può esprimersi dicendo che le modeste costruzioni civili non debbono comportare l’impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti astrattamente suscettibili di arrecare pericolo all’incolumità delle persone (Cass. civ., Sez. II, 13.01.1984, n. 286; Cons. Stato, Sez. V, 08.06.1998, n. 779).
In altri termini,
anche per le “modeste” costruzioni civili il geometra può progettare, con l’uso del cemento armato, piccole costruzioni accessorie, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e non implichino per destinazione pericolo per l’incolumità delle persone.
Se ci si domanda, poi, in cosa consista in dettaglio la competenza di geometri alla progettazione ed esecuzione di “modeste costruzioni civili”, vista l’indeterminatezza del requisito della modestia (come riconosciuto dallo stesso Consiglio nazionale dei geometri nella nota del 25.10.2012), modestia che, secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (ex multis Cons. Stato, Sez. V, 12.11.1985, n. 390; Sez. II, 12.05.1993, n. 202), va valutata sia sotto l’aspetto quantitativo che sotto quello qualitativo (con riferimento ai problemi tecnici che l’opera solleva), occorre mantenere ferme le limitazioni scaturenti dalla lett. l) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929, ed in particolare quella del pericolo alla pubblica incolumità, che nel caso delle costruzioni civili implica sia valutata secondo criteri di particolare rigore.
Pertanto,
se non si può rinunciare alla competenza tecnica in ordine all’effettuazione dei calcoli ed alla direzione dei conseguenti lavori per i conglomerati cementizi, specificamente connessa alla funzionalità statica delle opere in cemento armato, non può, tuttavia, non essere mantenuta in capo al geometra la possibilità di procedere alla semplice progettazione architettonica delle modeste costruzioni civili, evitando nel contempo, però, comportamenti elusivi del combinato disposto delle lett. l) ed m) dell’art. 16 R.D. n. 274 del 1929.
In tale prospettiva, che si basa anche sul principio generale della collaborazione tra titolari di diverse competenze professionali,
nulla impedisce che la progettazione e direzione dei lavori relativi alle opere in cemento armato sia affidata al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, e che l’attività di progettazione e direzione dei lavori, incentrata sugli aspetti architettonici della “modesta” costruzione civile, sia affidata, invece, al geometra. Non si tratta, quindi, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli (Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038).
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e ad assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18.04.2013, n. 361, ed implicitamente TAR Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559), nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità (Cass. Civ. Sez. II, 30.08.2013, n. 19989).
Irrilevanti sembrano alla Sezione le ulteriori considerazioni riportate nella memoria inviata dal Consiglio Nazionale dei Geometri e dei Geometri laureati. Quanto ai decreti ministeriali relativi alle opere da eseguire in zone sismiche, essi si limitano a ripetere la formula dell’art. 64 d.P.R. n. 380 del 2001. Tale formula rinvia, come si è visto, alle discipline relative alle singole professioni e pertanto non vuole implicare un’attribuzione di competenza alla professione dei geometri.
Quanto, invece, alle fonti normative riguardanti la formazione del geometra, va rilevato come la costante giurisprudenza ne abbia affermato l’assoluta inidoneità a giustificare una competenza professionale che attiene a calcoli complessi, i quali, specie nelle zone sismiche, attengono ad un gioco di spinte e controspinte ed all’ipotizzazione di sollecitazioni, che esulano dalla specifica preparazione dei geometri.
Del resto, la prova scritto-grafica per il superamento dell’esame per l’abilitazione alla professione di geometra demanda al candidato di fissare liberamente le scelte ritenute utili e necessarie per la redazione del progetto, fra le quali anche la struttura in cemento armato, il calcolo delle sollecitazioni ammissibili dei materiali e la natura del terreno di fondazione, sicché l’esame stesso non esige necessariamente (e quindi non garantisce) che il futuro geometra sia in grado di affrontare le difficoltà derivanti alle suddette variabili.

In ordine al secondo quesito formulato dalla Regione Toscana –
pur non potendosi accettare nella sua assolutezza la tesi, per la quale nelle zone sismiche l’edificazione con l’uso del cemento armato esclude di per sé che la costruzione civile possa ritenersi “modesta (Cons. Stato, 08.06.1998, n. 779), ché, altrimenti, si verrebbe a determinare un’irrazionale eccezione per le costruzioni rurali e per uso di industrie agricole– deve ritenersi che il grado di pericolo sismico della zona, in cui insiste la costruzione, non può non trovare considerazione nella valutazione di un progetto relativo alle piccole costruzioni accessorie e alle “modeste” costruzioni civili, nel senso appunto che ben possono le Amministrazioni competenti esigere che la “modestia” di una costruzione, che faccia uso di cemento armato, sia valutata con particolare rigore, al fine di considerare con prevalente attenzione la progettazione, esecuzione e direzione dei lavori delle opere statiche, che dovrà essere demandata alla responsabilità di un professionista titolare di specifiche competenze tecniche all’effettuazione dei calcoli necessari ed alla valutazione delle spinte, controspinte e sollecitazioni, cui può essere sottoposta la costruzione.
Sicché la progettazione statica, in questi casi, avrà prevalenza sulla progettazione architettonica e, se si vuole, il professionista capofila non potrà che essere l’ingegnere o l’architetto
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 04.09.2015 n. 2539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il ricorrente pone due quesiti e chiede:
se le norme sulle competenze professionali dei geometri vietino la scissione della progettazione architettonica da quella strutturale ponendo come obbligatorio che sia lo stesso soggetto a realizzare entrambe;
se le norme sulle competenze professionali dei geometri escludono che tali professionisti possano svolgere progettazione di modeste costruzioni civili ogni qual volta sia richiesta l'utilizzazione di strutture, anche molto semplici, in cemento armato.
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Il successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al momento genetico del rapporto
.
Occorre inoltre osservare che
non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto; infatti chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto.
L'esclusione del compenso professionale, nel caso considerato, discende dall'applicazione del disposto dell'art. 2331, comma primo c.c. che, nei casi in cui l'esercizio di un'attività professionale sia condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, espressamente nega l'azione per il pagamento del compenso al professionista non iscritto.
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La legge n. 1086 del 1971 disciplina le opere di conglomerato cementizio armato e all'art. 2 stabilisce che la costruzione di tali opere deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze.
La normativa, nel ribadire i "limiti delle rispettive competenze", chiaramente rinvia, senza introdurre autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza, alle previgenti rispettive normative professionali di riferimento, tra le quali, dunque, per quanto riguarda i geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta immutata.
La norma, in altri termini, non incide sull'ambito delle competenze fissate dalle norme precedenti, ma stabilisce che
ogni qual volta si deve realizzare un'opera in cemento armato la costruzione deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo e la direzione lavori e l'esecuzione delle opere deve avere luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo.

Siccome l'art. 16 r.d. 274/1929 alla lettera l) estende la competenza del geometra, quanto alle "costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole di limitata importanza" alle piccole "costruzioni accessorie in cemento armato", ma solo a determinate condizioni, mentre la lettera m) non contiene identica estensione per le costruzioni civili di modesta importanza,
si deve ritenere che resti confermata l'esclusione della competenza del geometra per le modeste costruzioni civili in cemento armato.
Ne consegue che la normativa all'epoca vigente non consentiva al geometra la progettazione e la direzione delle costruzioni civili, ancorché modeste, ma in cemento armato.
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Giusta quanto assolutamente pacifico, in dottrina come in giurisprudenza, e contrariamente a quanto si invoca da parte del ricorrente,
i requisiti di validità dei contratti sono regolati dalla legge del tempo in cui essi vengono conclusi.
Alla luce di tale consolidato insegnamento si deve concludere che
il negozio giuridico nullo, all'epoca della sua perfezione, perché contrario a norme imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia per effetto della semplice abrogazione di tali disposizioni, in quanto, perché questo effetto si determini, è necessario che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore
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Il ricorrente nella successiva memoria sostiene che la soluzione da lui patrocinata oggi si imporrebbe in ragione anche della nuova disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 212/010 che disciplinerebbe in modo diverso la materia ed avrebbe altresì carattere interpretativo di quello precedente.
La normativa di cui al D.Lgs. 212/2010 ha abrogato il R.D. n. 2229/1939, introducendo, per quanto qui interessa, una diversa disciplina e, alla luce della giurisprudenza, sopra richiamata, deve considerarsi innovativa; la nuova normativa è inoltre del tutto priva di carattere interpretativo della disciplina in materia di competenze del geometra non rinvenendosi in essa alcun dato testuale che possa portare a questa conclusione. Lo stesso ricorrente, del resto, non indica alcun elemento in favore della sua tesi.
Per contro va qui ribadito il principio che
la natura interpretativa di una disposizione normativa, comportando una deroga al principio della irretroattività della legge, dal momento che porta ad applicare la nuova disposizione anche al passato, principio senz'altro valido anche nel diritto comunitario, deve risultare chiaramente dal suo contenuto, che deve non solo enunciare il significato da attribuire ad una norma precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre questa interpretazione, escludendone ogni altra.
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In conclusione devono essere confermati, nella fattispecie, i principi costantemente affermati da questa Corte secondo i quali:
-
ai tecnici solo diplomati (geometri e periti in edilizia) è consentita soltanto la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione in ogni caso di opere che prevedano l'impiego di strutture in cemento armato a meno che non si tratti di piccoli manufatti accessori, trattandosi di una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, i limitati margini di discrezionalità attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo;
- tale disciplina professionale non è stata modificata dalla legge 05.11.1971, n. 1086 e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze né tale disciplina professionale è stata modificata dalla legge 05.11.1971, n. 1086, e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze;
-
resta in ogni caso esclusa la competenza del geometra per le modeste costruzioni civili che siano anche in cemento armato.
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Con citazione del 06/06/1992 De L.D. proponeva opposizione al decreto ingiuntivo con il quale gli era stato ingiunto di pagare al geometra Vitale Donato un compenso di lire 41.105.604 per attività professionale.
Il D.L. assumeva di avere conferito al V. l'incarico di progettare la costruzione di un edificio, di averlo altresì incaricato della direzione lavori, del disbrigo delle pratiche amministrative e della predisposizione dei calcoli del cemento armato che il V. aveva fatto redigere, a sue spese, da un ingegnere; per tutte le prestazioni era stato convenuto il corrispettivo di lire 12.000.000 oltre lire 4.000.000 per le pratiche di accatastamento e per quelle necessarie per i certificato di abitabilità ed era stata già pagata la complessiva somma di lire 16.400.000 senza emissione di fattura.
...
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 2231 c.c. e delle norme sulla competenza dei geometri e, in particolare, la violazione del R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, lett. m), e della L. n. 1086 del 1971, art. 2 (contenente norme per la disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato).
Il ricorrente censura la ritenuta esclusione della competenza dei geometri nella progettazione di opere in cemento armato sostenendo di avere limitato il proprio intervento alla progettazione architettonica affidando i compiti relativi alla progettazione strutturale, relativa ai calcoli delle strutture in cemento armato ad un ingegnere che, quindi si è assunto le responsabilità sugli aspetti rilevanti per la pubblica incolumità.
Il ricorrente formulando il quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiede se le norme sulle competenze professionali dei geometri vietino la scissione della progettazione architettonica da quella strutturale ponendo come obbligatorio che sia lo stesso soggetto a realizzare entrambe.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 2231 c.c. e delle norme sulla competenza dei geometri e, in particolare la violazione del R.D. 11.02.1929, n. 274, art. 16, lett. m), e dell'art. 2 L. n. 1086/1971.
Il ricorrente sostiene che le norme in materia di competenza professionale dei geometri non sarebbero state correttamente applicate dalla Corte di Appello che avrebbe escluso la legittimazione del geometra a progettare e dirigere costruzioni dotate anche solo parzialmente di cemento armato, mentre l'art. 2 L. n. 1086/1971 prevede che la costruzione di opere in conglomerato cementizio possa avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto anche da un geometra iscritto nel relativo albo nei limiti delle sue competenze e, nel caso concreto, la competenza sarebbe riconosciuta dallo stesso r.d. 274/1929 che, all'art. 16, lett. m), attribuisce ai geometri la competenza in materia di progetto, direzione vigilanza di modeste costruzioni civili.
Il ricorrente formulando il quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiede se le norme sulle competenze professionali dei geometri escludono che tali professionisti possano svolgere progettazione di modeste costruzioni civili ogni qual volta sia richiesta l'utilizzazione di strutture, anche molto semplici, in cemento armato.
2. I due motivi devono essere esaminati congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione e interdipendenza.
3.1 Il primo motivo, che ripropone argomenti già più volte esaminati e disattesi dalla giurisprudenza civile di questa Corte, è infondato e il quesito non pertinente rispetto alla fattispecie.
Il successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al momento genetico del rapporto (v. Cass. 08/04/2009 n. 8543 e, in precedenza, Cass. 467/1976).
Occorre inoltre osservare che
non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto; infatti chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 28.04.2011, n. 2537).
L'esclusione del compenso professionale, nel caso considerato, discende dall'applicazione del disposto dell'art. 2331, comma primo c.c. che, nei casi in cui l'esercizio di un'attività professionale sia condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, espressamente nega l'azione per il pagamento del compenso al professionista non iscritto (Cass. 02/09/2011 n. 18038).
Il quesito non è pertinente in quanto non si nega la astratta possibilità di scindere la progettazione architettonica da quella strutturale, ma si nega che ciò possa assumere rilievo alcuno al fine di escludere la nullità del contratto quando il contratto, nel suo momento genetico non l'abbia prevista essendo stato, invece, conferito al geometra, con il contratto, l'incarico di progettazione e direzione della costruzione.
3.2 Anche il secondo motivo è infondato e al quesito si deve dare risposta negativa.
L'art. 1 R.D. 16.11.1939 n. 22291 (ora abrogato dal DLVO n. 212/2010) per quanto attiene alle costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, prevedeva che ogni competenza dovesse essere riservata agli ingegneri ed architetti iscritti nell'albo.
L'art. 16 r.d. 274/1929, per quanto interessa ai fini della presente controversia, così delimita l'ambito delle competenze professionali dei geometri:
- alla lettera l) prevede la legittimazione del geometra relativamente a: progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone;
- al punto m) prevede la legittimazione del geometra relativamente a: progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili.
La legge n. 1086 del 1971 disciplina le opere di conglomerato cementizio armato e all'art. 2 stabilisce che
la costruzione di tali opere deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze.
La normativa, nel ribadire i "limiti delle rispettive competenze", chiaramente rinvia, senza introdurre autonomi ed innovativi criteri attributivi di competenza, alle previgenti rispettive normative professionali di riferimento, tra le quali, dunque, per quanto riguarda i geometri, quella in precedenza esaminata, che è rimasta immutata (v. Cass. 08/04/2009 n. 8543).
La norma, in altri termini, non incide sull'ambito delle competenze fissate dalle norme precedenti, ma stabilisce che
ogni qual volta si deve realizzare un'opera in cemento armato la costruzione deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo e la direzione lavori e l'esecuzione delle opere deve avere luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo.
Siccome l'art. 16 r.d. 274/1929 alla lettera l) estende la competenza del geometra, quanto alle "costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole di limitata importanza" alle piccole "costruzioni accessorie in cemento armato", ma solo a determinate condizioni, mentre la lettera m) non contiene identica estensione per le costruzioni civili di modesta importanza,
si deve ritenere che resti confermata l'esclusione della competenza del geometra per le modeste costruzioni civili in cemento armato.
Ne consegue che la normativa all'epoca vigente non consentiva al geometra la progettazione e la direzione delle costruzioni civili, ancorché modeste, ma in cemento armato.
Giusta quanto assolutamente pacifico, in dottrina come in giurisprudenza, e contrariamente a quanto si invoca da parte del ricorrente,
i requisiti di validità dei contratti sono regolati dalla legge del tempo in cui essi vengono conclusi (cfr. Cass. 12.10.1979, n. 5349; Cass. 12.04.1980, n. 2370; Cass. 27/03/2002 n. 4434).
Alla luce di tale consolidato insegnamento si deve concludere che
il negozio giuridico nullo, all'epoca della sua perfezione, perché contrario a norme imperative, non può divenire valido e acquistare efficacia per effetto della semplice abrogazione di tali disposizioni, in quanto, perché questo effetto si determini, è necessario che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore (Cass. 21.02.1995, n. 1877).
3.3 Il ricorrente nella successiva memoria sostiene che la soluzione da lui patrocinata oggi si imporrebbe in ragione anche della nuova disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 212/010 che disciplinerebbe in modo diverso la materia ed avrebbe altresì carattere interpretativo di quello precedente.
3.4 La normativa di cui al D.Lgs. 212/2010 ha abrogato il R.D. n. 2229/1939, introducendo, per quanto qui interessa, una diversa disciplina e, alla luce della giurisprudenza, sopra richiamata, deve considerarsi innovativa; la nuova normativa è inoltre del tutto priva di carattere interpretativo della disciplina in materia di competenze del geometra non rinvenendosi in essa alcun dato testuale che possa portare a questa conclusione. Lo stesso ricorrente, del resto, non indica alcun elemento in favore della sua tesi.
Per contro va qui ribadito il principio che
la natura interpretativa di una disposizione normativa, comportando una deroga al principio della irretroattività della legge, dal momento che porta ad applicare la nuova disposizione anche al passato, principio senz'altro valido anche nel diritto comunitario, deve risultare chiaramente dal suo contenuto, che deve non solo enunciare il significato da attribuire ad una norma precedente, ma anche la volontà del legislatore di imporre questa interpretazione, escludendone ogni altra (cfr. Cass. 23827/2012; Cass. n. 9895 del 2003; Cass. n. 7182 del 1986), aspetti che non si rinvengono nel D.Lgs. 212/2010.
3.5 In conclusione devono essere confermati, nella fattispecie, i principi costantemente affermati da questa Corte secondo i quali:
-
ai tecnici solo diplomati (geometri e periti in edilizia) è consentita soltanto la progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione in ogni caso di opere che prevedano l'impiego di strutture in cemento armato a meno che non si tratti di piccoli manufatti accessori, trattandosi di una scelta inequivoca del legislatore dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, i limitati margini di discrezionalità attesa la chiarezza e tassatività del precetto normativo (v. Cass. 08/04/2009 n. 8543 e la giurisprudenza ivi richiamata: Cass. 8545/2005, 7778/2005, 6649/2005, 3021/2005, 19821/2004, 5961/2004, 15327/2000, 5873/2000);
- tale disciplina professionale non è stata modificata dalla legge 05.11.1971, n. 1086 e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze né tale disciplina professionale è stata modificata dalla legge 05.11.1971, n. 1086, e dalla legge 02.02.1974, n. 64, le quali si sono limitate, pur senza esplicito richiamo, a recepire la previgente ripartizione di competenze (cfr., ex multis, Cass. 02/09/2011 n. 18038);
-
resta in ogni caso esclusa la competenza del geometra per le modeste costruzioni civili che siano anche in cemento armato (con riferimento all'ultimo quesito del secondo motivo).

4. Con il terzo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata quanto alla valutazione delle caratteristiche della costruzione essendo stato escluso che potesse trattarsi di costruzione modesta.
Il ricorrente sostiene che la Corte di Appello avrebbe escluso che la costruzione potesse considerarsi di modesta importanza ai fini della legittimazione del geometra riconosciuta dal r.d. 274/1929 all'art. 16, lett. m), secondo un criterio meramente quantitativo, fondato sulle dimensioni dell'edificio, senza considerare il criterio tecnico-qualitativo con riferimento alla struttura dell'edificio e alle relative modalità costruttive.
Invece, secondo il ricorrente, la costruzione, di cubatura di poco superiore ai 2000 metri cubi fuori terra e, comunque, di struttura semplice, non richiedeva soluzioni di particolari problemi tecnici; richiama al riguardo giurisprudenza del Consiglio di Stato che individua la soglia della modesta entità dell'opera nei 5000 metri cubi e una sentenza della Cassazione penale che avrebbe ritenuto rientrare nella competenza dei geometri la costruzione di un capannone industriale di 8.200 metri cubi.
3.1 La questione come sopra introdotta con il motivo di ricorso diventa una questione di puro merito (sulla quale peraltro la Corte di Appello ha adeguatamente motivato) che comunque resta assorbita dal rilievo (v. supra) che è in ogni caso esclusa la competenza del geometra per le modeste costruzioni civili in cemento armato come, appunto, quella per la quale è chiesto il compenso (
Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.08.2013 n. 19989).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: E' corruzione l'istruzione delle pratiche edilizie non secondo il loro ordine cronologico, conclamando favoritismi connessi all'inversione dell'ordine temporale della trattazione delle pratiche d'ufficio.
Sono da considerarsi atti contrari ai doveri di ufficio anche quelli che, se pure formalmente regolari, siano posti in essere dal pubblico ufficiale prescindendo volutamente in costanza di trama corruttiva dall'osservanza dei doveri su di lui incombenti, al fine di assicurare e promuovere il regolare e più corretto svolgimento dell'azione pubblica.
E tra tali doveri è compreso certamente quello di cui al D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, comma 5, che impone al pubblico funzionario di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza tempestivamente e secondo il loro ordine cronologico, evitando quindi favoritismi connessi all'inversione dell'ordine temporale della trattazione delle pratiche d'ufficio
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 17.01.2006 n. 1777).

IN EVIDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI: Impianto di depurazione inefficiente, condannato il sindaco che omette il controllo analogo sulla società in house.
La Corte dei Conti, sez. giurisdizionale per il Lazio,
condanna al risarcimento di 900 mila euro il sindaco che, in qualità di socio unico della partecipata in house, non esercita i doveri connessi all’esercizio del “controllo analogo” sulla società comunale, omettendo di intraprendere le azioni risarcitorie per il recupero dei costi sostenuti per la realizzazione di un impianto di depurazione, rivelatosi poi inefficiente e fonte di spreco del denaro pubblico.
In base al piano industriale approvato, tale impianto doveva essere autonomo energeticamente per la previsione di coprire i costi del servizio di depurazione del percolato con l’apporto di biogas proveniente da un altro impianto di di un’impresa privata, nei termini disciplinati da un’apposita convenzione tra quest’ultima e la società pubblica.
Come però talvolta accade, il progetto non raggiunge gli obiettivi per impreviste difficoltà connesse a problemi tecnici nel sistema dì estrazione del biogas, peraltro segnalati tempestivamente al comune con la perizia di un esperto incaricato dalla partecipata.
Di qui l’avvio dell’istruttoria da parte della procura contabile nei confronti del sindaco e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale, con la contestazione di un danno erariale a carico sia della società in house, sia dell’ente pubblico.
In esito al giudizio
la Corte assolve il tecnico comunale, dacché il capo d’accusa si riferisce alla condotta omissiva nell’ambito dei rapporti tra il comune e società in house (quale articolazione organizzativa soggetta a speciale vigilanza da parte del socio), mentre il dipendente del comune non è competente nella gestione delle partecipate, né ha mai fatto parte dell’ufficio del “controllo analogo”.
La responsabilità di carattere omissivo viene perciò interamente addebitata al primo cittadino, colpevole di non aver impartito indirizzi e/o intrapreso azioni risarcitorie volte a tutelare l’investimento e a scongiurare una perdita di valore della partecipazione, pur essendo egli a conoscenza del grave pregiudizio che avrebbe arrecato il funzionamento inefficiente dell’impianto di depurazione.
In definitiva, trova conferma la circostanza che nelle partecipate il socio pubblico è tenuto a vagliare e mettere in atto gli occorrenti rimedi, anche giurisdizionali, per la tutela degli interessi societari, dato che in caso contrario è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei suoi confronti, in relazione al pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione e al depauperamento del patrimonio pubblico che essa inevitabilmente comporta (commento tratto da www.leggioggi.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 06.08.2015 n. 367).

UTILITA'

CONDOMINIO - PATRIMONIO - VARILe locazioni a uso abitativo (articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 09.09.2015 n. 209 "Proroga, con modifica, dell’ordinanza contingibile e urgente 06.08.2013 concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 03.08.2015).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: G.U. 08.09.2015 n. 208 "Disposizioni in materia di agricoltura sociale" (Legge 18.08.2015 n. 141).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Aggiornamento della procedura on-line per la presentazione telematica delle domande di congedo parentale, anche prolungato in caso di figli con disabilità, per i periodi fruiti tra gli 8 ed i 12 anni (INPS, messaggio 09.09.2015 n. 5626 - link a www.inps.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Indicazioni operative e chiarimenti forniti agli enti interessati dal Settore Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati della Regione Toscana in merito all'applicazione dell'articolo 242-bis del D.Lgs. 152/2006.
Il nuovo articolo 242-bis del TU Ambientale D.Lgs 152/2006 introdotto dalla Legge 116/2014 (di conversione del decreto legge 91/2014 detto “Sblocca Italia”) prevede la procedura semplificata per le operazioni di bonifica.
L'art. 242-bis consente all’operatore interessato (responsabile dell'inquinamento - soggetto non responsabile della potenziale contaminazione) di effettuare, a proprie spese, interventi di bonifica del suolo con riduzione della contaminazione ad un livello uguale o inferiore ai valori di Concentrazione Soglia di Contaminazione (CSC).
Il Settore Rifiuti e bonifiche dei siti inquinati della Regione Toscana ha trasmesso agli enti interessati una nota condivisa con ARPAT (Oggetto: Precisazioni in merito all’applicazione dell’articolo 242-bis del d.lgs. 152/2006 - Procedura semplificata per le operazioni di bonifica) in cui fornisce indicazioni operative e chiarimenti in merito alla sua corretta applicazione.
Le precisazioni riguardano sostanzialmente le condizioni discriminanti per l'applicazione dell'art. 242-bis, le competenze in materia di bonifiche, la permanenza dell'obbligo di attivazione del procedimento di cui all'art. 242, le modalità di decorrenza del termine di 45 giorni previsto per la validazione dei risultati da parte di ARPAT, le modalità di interruzione della procedura semplificata, l'utilizzo dell'applicativo SISBON.
Riportiamo in sintesi alcune indicazioni:
Le condizioni discriminanti per l’applicazione dell’articolo 242-bis sono:
1. la matrice da bonificare è il suolo (anche in presenza di falda contaminata);
2. la bonifica ha come obiettivo i valori di Concentrazione Soglia di Contaminazione (CSC) relativa alla destinazione d’uso del sito prevista dallo strumento urbanistico vigente;
3. gli interventi di bonifica devono essere completati entro 18 mesi più eventuali 6 mesi di proroga (salvo motivata sospensione);
4. l’intervento di bonifica è sottoposto a validazione ex post dell’avvenuta bonifica da parte di ARPAT.
L’applicazione dell’articolo 242-bis presuppone sempre la conoscenza dello stato di qualità della falda ma nel caso in cui risulti contaminata o potenzialmente contaminata:
- resta fermo l’obbligo di adottare le misure di prevenzione, messa in sicurezza e bonifica delle acque di falda, se necessarie, secondo le procedure di cui agli articoli 242 o 252;
- conseguiti i valori di concentrazione soglia di contaminazione del suolo, il sito può essere utilizzato in conformità alla destinazione d’uso prevista secondo gli strumenti urbanistici vigenti, salva la valutazione di eventuali rischi sanitari per i fruitori del sito derivanti dai contaminanti volatili presenti nelle acque di falda, mediante la predisposizione di una specifica analisi di rischio sanitario.
Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito o all’atto di individuazione di contaminazioni storiche dovranno essere attuate le “Modalità applicative della Parte IV, Titolo V del D.Lgs. 152/2006” così come descritte nella deliberazione della Giunta Regionale Toscana (DGRT) n. 301/2010 che prevedono la notifica e le misure di prevenzione e indagini mediante l'utilizzo di SISBON.
Successivamente all’attivazione del procedimento, l’operatore interessato potrà optare per l'applicazione dell’articolo 242-bis.
Il termine dei 45 giorni per la validazione dei dati decorre dalla presentazione ad ARPAT dei risultati da parte del soggetto interessato.
L’esecuzione della bonifica deve concludersi nei successivi 18 mesi (salvo 6 mesi di proroga) dalla data di avvio della bonifica.
Decorso tale termine, salvo proroga motivata, il procedimento ordinario torna ad essere istruito ai sensi degli articoli 242 o 252 del D.Lgs. 152/2006.
Ove i risultati del piano di caratterizzazione di collaudo finale dimostrino che non sono stati conseguiti i valori di CSC devono essere presentate, entro 45 giorni successivi alla comunicazione di difformità da parte di ARPAT, le necessarie integrazioni al progetto di bonifica che torna ad essere istruito nel rispetto delle procedure ordinarie ai sensi degli articoli 242 o 252 del D.Lgs. 152/2006 (04.09.2015 - link a www.arpat.toscana.it).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: Accesso alla professione di geometra - Articoli pubblicati sul quotidiano "ItaliaOggi" (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 03.09.2015 n. 10268 di prot.).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Applicazione del D.M. 143/2013: ulteriori chiarimenti (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 26.08.2015 n. 584).
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Si legga, al riguardo, un commento: Decreto Parametri, nuovi chiarimenti dal gruppo paritetico CNAPPC-CNI - Obbligatorietà da parte della stazione appaltante di dar conto del percorso seguito per la determinazione del corrispettivo (09.09.2015 - link a www.casaeclima.com).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIOGGETTO: Lavoro accessorio. Decreto legislativo 15.06.2015, n. 81 artt. 48; 49; 50: Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10.12.2014, n. 183 (INPS, circolare 12.08.2015 n. 149 - link a www.inps.it).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ccnl integrativi da inviare online. Accordi da trasmettere ad Aran e Cnel.
Dal 1° ottobre, le p.a. dovranno trasmettere la contrattazione integrativa all'Aran e al Cnel esclusivamente per via telematica, grazie all'avvio della nuova «procedura unificata». Procedura che, con un semplice clic, permetterà il contemporaneo inoltro della documentazione ai due soggetti istituzionali. Pertanto, dalla predetta data, non sarà più possibile l'invio dei contratti tramite altri canali di comunicazione, inclusa la posta elettronica certificata.

È quanto evidenzia la circolare congiunta Aran-Cnel 08.09.2015 n. 21279/2015 di prot., con cui viene dato risalto alle novità che coinvolgeranno a breve la p.a. nella trasmissione della contrattazione di secondo livello.
Novità che eviteranno il doppio invio ai due soggetti istituzionali sopra menzionati semplificando i successivi passaggi relativi al monitoraggio, alla catalogazione ed all'archiviazione della documentazione contrattuale. Per poter correttamente inoltrare in forma telematica i contratti integrativi, la circolare ricorda che i responsabili legali degli enti dovranno preliminarmente utilizzare le credenziali già in proprio possesso.
Le chiavi di accesso, infatti, sono le stesse che le p.a. hanno utilizzato nella scorsa primavera per comunicare on-line la quantificazione delle deleghe sindacali ed i verbali per l'elezione delle rappresentanze sindacali unitarie. Il secondo passo richiesto, poi, è che il responsabile dell'ente nomini, all'interno dell'area utenti riservata, il soggetto «responsabile della trasmissione dei contratti integrativi».
Nulla vieta, ammette la circolare, che entrambe le figure possano essere rivestite dallo stesso soggetto. Effettuato questo necessario passaggio, l'utente scelto per l'invio telematico riceverà delle apposite credenziali che dovrà utilizzare per la specifica procedura. Il responsabile della trasmissione dovrà compilare un breve modulo, procedere al caricamento del contratto integrativo, della relazione illustrativa e della relazione tecnica.
Con la conferma dell'invio, i documenti saranno trasmessi ed acquisiti contemporaneamente sia dall'Aran che dal Cnel. Sino al 30/9, l'invio dei contratti integrativi dovrà avvenire secondo le vecchie regole: per l'Aran tramite l'inoltro via Pec, per il Cnel attraverso la procedura indicata sul proprio sito (articolo ItaliaOggi del 10.09.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Rotazioni? Meglio di no. Scambiare gli assessori appesantisce l'ente. Sono condivisibili le perplessità manifestate dal Tar della Puglia.
E' legittima la rotazione nella nomina, da parte del sindaco, di uno dei due assessori nell'ambito della giunta municipale del comune?

Nella fattispecie in esame il consiglio comunale ha specificato, con delibera, che il sindaco «ha deciso di dare stabilità alla figura del vicesindaco, mentre per l'altro assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra più consiglieri, alternandoli». Pertanto il vertice dell'ente, al termine di ogni seduta di giunta, procede alla revoca dell'assessore e alla contestuale nomina alla stessa carica di un diverso consigliere, con riserva di comunicazione al primo consiglio comunale utile.
In merito, l'articolo 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
In tema di revoca degli assessori, la giurisprudenza ha sempre affermato l'obbligo di motivazione del relativo provvedimento sindacale, in virtù di quanto previsto dal sopra citato comma 4.
Il Consiglio di stato, sez. V con sentenza 12.10.2009 n. 6253, ha affermato che «l'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo assessore (o di più assessori) può senz'altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco».
Anche il Tar della Puglia, Bari, sez. I, con sentenza 29.05.2012 n. 106, ha affermato che è «noto il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell'incarico di assessore consente di ritenere ammissibile una motivazione basata sulle più ampie valutazioni di opportunità politica e amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente locale, in quanto aventi a oggetto un incarico fiduciario (cfr. Cons. stato, sez. V, 23.02.2012 n. 1053 e i numerosi precedenti ivi richiamati)».
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia particolare rilevanza l'ordinanza n. 788/2009 del 21/10/2009 con la quale il Tar della Puglia, Lecce, sez. I, ha affermato che il decreto di revoca della nomina ad assessore adottato dal sindaco non può certamente trovare giustificazione nell'accordo in ordine all'alternanza alla carica di assessore raggiunto in seno a una delle forze politiche che sostengono il sindaco; inoltre, la validità di un simile accordo si presenta altamente problematica, in considerazione dell'innegabile contrasto con interessi pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon andamento dell'amministrazione o al rispetto della volontà del corpo elettorale.
Si condividono, pertanto, le perplessità evidenziate dal Tar Puglia con la citata ordinanza n. 788/2009, anche in considerazione del fatto che la giunta, secondo la previsione dell'articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, è uno degli organi di governo del comune, e in quanto tale assume una responsabilità di tipo collegiale di fronte al consiglio, ai sensi dell'articolo 48 dello stesso decreto, il quale tra l'altro, al comma 2, assegna a tale organo compiti di collaborazione con il sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio, rispondendo allo stesso con cadenza annuale in merito alla propria attività espletata e svolgendo compiti di proposta e di impulso nei confronti del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo sempre la conseguente comunicazione al consiglio, comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure formali, non agevolerebbe il lavoro collegiale della giunta e impedirebbe di risalire con chiarezza a eventuali responsabilità in caso di non corretta gestione degli assessorati di competenza.
Inoltre nell'eventualità del mancato rispetto del patto politico all'interno del consiglio, l'eventuale revoca di un assessore, non supportata da adeguata motivazione nei termini richiesti dalla giurisprudenza, potrebbe esporre l'ente a possibili contenziosi (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI SERVIZI: Non può essere imposta la tutela degli occupati. Alle imprese che subentrano in un appalto pubblico.
La stazione appaltante può prevedere l'obbligo di assorbimento del personale utilizzato in un contratto di appalto pubblico, ma soltanto se ciò sia coerente con l'organizzazione dell'impresa che subentra nel contratto.

Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere sulla normativa 22.07.2015 - rif. AG 58/15/AP in merito a una procedura di gara per l'affidamento di un appalto pubblico di servizi (contact center).
La stazione appaltante aveva posto alcuni dubbi in merito alla legittimità dell'inserimento di una «clausola sociale» consistente nel vincolo inserito negli atti di gara che si sostanzia nell'obbligo, per la ditta che subentra in un contratto, di assorbire e utilizzare il personale già precedentemente impiegato.
Il punto sul quale il parere siglato dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, si sofferma è quello del contemperamento dell'esigenza di tutela dell'occupazione con quello della libertà organizzativa dell'impresa subentrante nel contratto.
In particolare l'Autorità sottolinea che la clausola sociale, anche al fine di garantire la sostenibilità dell'impresa sul mercato, non può alterare o forzare la valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento dell'impresa. Pertanto, se la stazione appaltante può inserire la clausola sociale negli atti di gara, essa non può però imporre un obbligo di assorbimento di personale, senza adeguata considerazione delle condizioni dell'appalto, del contesto sociale e di mercato o del contesto imprenditoriale in cui dette maestranze si inseriscono.
Esiste quindi un limite che va individuato nella compatibilità con l'organizzazione dell'impresa subentrante: le legittime esigenze sociali devono essere bilanciate da una adeguata tutela della libertà di concorrenza, anche nella forma della libertà imprenditoriale degli operatori economici potenziali aggiudicatari, i quali assumono l'obbligo subordinatamente alla compatibilità con la loro organizzazione d'impresa.
L'Autorità suffraga il proprio orientamento citando, per analogia, la giurisprudenza costituzionale sul cosiddetto «imponibile di manodopera» (nel caso specifico reinserimento prioritario in azienda dei lavoratori messi in mobilità) che è stato comunque ammesso a condizione che l'impresa si determini effettivamente ad assumere nuovo personale.
Pertanto anche nel caso dell'appalto pubblico in cui si prevede la clausola sociale, il vincolo può essere previsto precisando che scatta «qualora ciò sia coerente con la organizzazione di impresa». Non ci devono quindi essere automatismi nell'applicazione dell'istituto e si deve contemperare espressamente l'obbligo di assunzione con la condizione che il numero dei lavoratori e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa della ditta aggiudicataria e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste.
Soltanto così la clausola può essere ritenuta conforme agli orientamenti sulle misure atte a favorire condizioni di concorrenzialità nel mercato e coerente con una lettura comunitariamente orientata della libertà di iniziativa economica (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti agricoli come carburante. Attestati sull'origine dei residui. Paletti ad hoc sui depositi. ItaliaOggi anticipa la bozza di decreto del Minambiente sull'utilizzo dei sottoprodotti.
Gli scarti da lavorazione agricola e alimentare diventeranno carburante per produrre energia. Sarà necessario disporre di ampia documentazione tecnica per attestare che il sottoprodotto è «originato da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza o oggetto».

Questo è quanto si legge nella bozza decreto del ministero dell'ambiente di cui Italia oggi è in grado di anticipare i contenuti.
Il decreto è attuativo dell'articolo 184-bis, comma 2, del dlgs 152 del 03.04.2006, in merito all'utilizzo energetico dei sottoprodotti. Un decreto molto atteso dagli operatori del settore in quanto eliminerebbe ogni interpretazione soggettiva del testo normativo in vigore, dando certezze agli stessi. «Il decreto non intende favorire l'uso energetico dei sottoprodotti rispetto ad altri possibili impieghi» si legge nell'articolo 1 della bozza di decreto, segno questo della volontà del ministero dell'ambiente di mettere paletti ben definiti a questo specifico settore.
Impiego. Il detentore del residuo dovrà dimostrare che la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Al fine di consentire la verifica delle caratteristiche del residuo e la conformità dello stesso con il processo di destinazione, il produttore, prima dell'utilizzo, predisporrà, per ciascuna categoria di materiale o sostanza, una scheda tecnica in base al modello allegato 2 al decreto in commento. La scheda tecnica sarà conservata, anche su supporto elettronico, presso l'impianto di produzione per i tre anni successivi alla produzione e presso l'utilizzatore.
In caso di modifiche del processo di produzione del residuo tali da comportare variazioni delle informazioni rese oggetto della relativa scheda tecnica, il produttore provvede all'emissione di una nuova scheda tecnica. Il produttore e l'utilizzatore conserveranno presso l'impianto di produzione o presso la propria sede legale, anche su supporto elettronico, una copia della dichiarazione di conformità per tre anni dalla data del rilascio della stessa, mettendola a disposizione delle autorità di controllo che la richiederanno.
Deposito. Nelle fasi che ne precedono l'utilizzo, il residuo sarà depositato e movimentato nel rispetto delle norme tecniche e delle regole di buona pratica, evitando spandimenti accidentali e la contaminazione di aria, acqua, suolo e in modo da prevenire e minimizzare la formazione di emissioni diffuse e la diffusione di odori.
L'area di deposito dovrà essere chiaramente individuata, controllata e, laddove necessario in base alle caratteristiche del residuo, dotata di idonea pavimentazione e di copertura adeguata alla tipologia del residuo. Lo stoccaggio del sottoprodotto dovrà essere distinto e separato dal deposito di rifiuti, di prodotti e di residui con differenti caratteristiche chimico fisiche, o destinati a diversi utilizzi (articolo ItaliaOggi del 10.09.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Per i congedi parentali la domanda si fa online. Dal 14 settembre stop al regime provvisorio cartaceo.
A partire da lunedì 14 settembre, le domande per fruire del congedo parentale, riformato dal Jobs act, saranno accettate dall'Inps solo se trasmesse per via telematica.

È quanto si legge nel messaggio 09.09.2015 n. 5626, in cui l'ente di previdenza comunica la cessazione del regime provvisorio, valido sino al 13 settembre, durante il quale è stato possibile presentare domande cartacee.
Di cosa parliamo. La novità riguarda il dlgs 80/2015, attuativo dell'art. 1, commi 8 e 9, della legge delega n. 183/2014, che tra l'altro ha modificato l'art. 32 T.u. maternità, in materia di congedo parentale. Il provvedimento, in vigore dal 25 giugno, consente ai genitori lavoratori o lavoratrici dipendenti di fruire dei periodi di congedo parentale fino ai 12 anni di vita del figlio oppure fino ai 12 anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, in luogo del precedente limite di 8 anni di vita operativo fino al 24 giugno.
Il prolungamento dell'astensione facoltativa, ha precisato l'Inps (messaggio 06.07.2015 n. 4576) è possibile per ora solo con riferimento ai periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e fino al 31.12.2015.
Fino a 12 anni. La riforma stabilisce che i periodi congedo parentale fruiti dai 2 ai 6 anni di vita del figlio (dai 3 e 6 anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato), sono indennizzati, entro il limite massimo complessivo tra i due genitori di 6 mesi, in misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a prescindere dal condizioni di reddito.
Anche tale estensione, dice l'Inps, è per ora limitata ai periodi di congedo fruiti (o da fruire) tra il 25 giugno e il 31.12.2015. I periodi di congedo fruiti tra i 6 e gli 8 anni di vita del bambino (tra i 6 anni e 8 otto anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato) sono indennizzabili, sempre in misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a condizione che il reddito del genitore che ne fa richiesta sia inferiore a 2,5 volte il minimo di pensione (16.312 euro nel 2015).
I periodi di congedo fruiti tra gli 8 anni e i 12 anni di vita del bambino (tra gli 8 e i 12 anni dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato), invece, non sono mai indennizzabili.
La domanda. Nelle more dell'adeguamento degli applicativi informatici usati ai fini della trasmissione online delle domande, l'istituto ha consentito la presentazione delle richieste in forma cartacea, utilizzando il modello rinvenibile sul sito internet, seguendo il percorso: www.inps.it, modulistica, e digitando nel campo «ricerca modulo» il codice SR23.
Come accennato, con la nota di ieri l'Inps comunica che sono disponibili le procedure per la presentazione telematica delle domande, ferma restando la validità delle domande di congedo presentate in modalità cartacea sino al 13 settembre (articolo ItaliaOggi del 10.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, mobilità per 18mila con rischio blocco.
Enti locali. Dopo il decreto sugli spostamenti tra comparti in arrivo quello sui criteri generali, con l’opposizione dei sindacati.
Dopo il decreto sulla mobilità fra i diversi settori della Pubblica amministrazione, che con il via libera ottenuto in Corte dei conti aspetta ora solo la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale», per la complessa architettura della riforma delle Province è ora la volta del decreto sui criteri generali della mobilità, che deve dettar le regole per gli spostamenti del personale anche nel caso in cui la nuova destinazione sia rappresentata da Regioni ed enti locali e quindi non preveda un cambio di contratto.
Venerdì scorso il consiglio dei ministri ha deciso di andare avanti con il provvedimento, che (come anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio) è fondamentale anche perché fissa le scadenze per avviare le istanze di mobilità e il censimento dei posti disponibili in organico, anche se non è stata raggiunta l’intesa con le Regioni in Conferenza Unificata.
Dopo i tempi lunghi degli ultimi mesi, insomma, il Governo prova ad accelerare, anche se proprio i mancati accordi con enti territoriali e sindacati moltiplicano i rischi di blocco nell’attuazione.
Il punto più delicato è stato confermato dalla versione definitiva del decreto di Palazzo Chigi con le «tabelle di equiparazione», cioè lo strumento (previsto fin dalla riforma Brunetta ma finora mai attuato) per disciplinare i passaggi da un comparto all’altro.
Il decreto (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri) dovrebbe riguardare almeno 8mila persone, al netto dei prepensionamenti, mette nero su bianco il fatto che la parte “variabile” dello stipendio che non rientra nei parametri del nuovo inquadramento sarà garantito solo per le voci «con carattere di generalità e natura fissa e continuativa», se l’ente di destinazione trova i fondi anche a valere sulle risorse assunzionali.
Questa previsione ha sollevato le proteste sindacali, ed è concreto il rischio di ricorsi a catena quando le mobilità partiranno davvero: la prima prova del nove si avrà con le procedure avviate dal ministero della Giustizia, che secondo l’ultima manovra (comma 425 della legge 190/2014) dovrebbe assorbire fino a 2mila esuberi provinciali.
Un’incognita analoga riguarda l’altro provvedimento, quello in arrivo sui criteri generali per la mobilità. Agli spostamenti interni al comparto di Regioni ed enti locali sono interessati prima di tutto circa 10mila persone, cioè i dipendenti dei centri per l’impiego che dovrebbero passare alle Regioni in attesa del varo dell’agenzia nazionale prevista dal Jobs Act e una quota dei poliziotti provinciali, in «transito» verso i Comuni.
A prevederlo è il decreto enti locali approvato prima della pausa estiva, ma il compito di questo secondo provvedimento ministeriale è ancora più ampio perché dà 20 giorni alle Province per pubblicare l’elenco degli “esuberi” nel Portale nazionale della mobilità, e 40 giorni a Comuni e Regioni per inserire nello stesso Portale i posti disponibili in dotazione organica.
L’incrocio di domanda e offerta rappresenta ovviamente la condizione indispensabile per consentire gli spostamenti, ma anche in questo provvedimento (articolo 10 della bozza) torna la garanzia sulla busta paga concentrata sulle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa.
In ogni caso, saranno poi i dirigenti delle amministrazioni di destinazione a dire l’ultima parola sugli inquadramenti dei nuovi arrivi, perché i provvedimenti chiedono loro di valutare anche titoli e curricula per definire le collocazioni: un’altra operazione delicata, stretta fra i rischi di impugnazione da parte dei diretti interessati e le possibili obiezioni della Corte dei conti quando ci si discosta dai parametri generali
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La nuova impresa «sociale» pronta per il debutto. Agricoltura. Pubblicata ieri in Gazzetta Ufficiale la legge 18.08.2015 n. 141.
Debutta in Italia l’impresa agricola sociale con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 208 di ieri della Legge 18.08.2015 n. 141.
Si tratta di quei soggetti giuridico che svolgono le attività agricole previste dall’articolo 2135 del Codice Civile oppure sotto forma di cooperativa sociale (legge 381/1991) e che procede all’inserimento socio lavorativo di lavoratori svantaggiati (regolamento Ue 651/2014).
Inoltre l’impresa agricola sociale può svolgere la prestazione di attività di servizio per la comunità mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura, il tutto per promuovere ed accompagnare azioni che portino allo sviluppo di abilità e capacità lavorative.
L’impresa agricola sociale è altresì indirizzata a formare progetti finalizzati all’educazione ambientale e alimentare, a salvaguardare la biodiversità nonché la diffusione della conoscenza del territorio attraverso l’organizzazione di fattorie sociali e didattiche; in particolare tali servizi dovranno essere rivolti ai bambini in età prescolare e alle persone in difficoltà fisica e psichica.
Le modalità di svolgimento di queste attività saranno indicate da un decreto del ministero delle Politiche agricole e alimentari da emanare entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge. Tutte queste attività hanno natura di attività connesse (articolo 2135 del Codice Civile) e quindi aventi natura agricola. Attività che devono essere svolte in collaborazione con i servizi socio-sanitari e con gli enti pubblici competenti per territorio.
Le regioni e le province autonome sono chiamate a favorire l’integrazione delle imprese agricole sociali del proprio territorio. Gli operatori della agricoltura sociale possono anche costituirsi in organizzazione di produttori (decreto del 27.05.2005 n. 102).
I locali destinati alle attività di agricoltura sociale mantengono il riconoscimento della ruralità e pertanto i fabbricati aventi natura strumentali (D/10) sono esenti da Imu. Alle queste attività si applicano infine i regimi fiscali previsti per gli altri imprenditori agricoli
 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., va a regime la mobilità obbligatoria tra i comparti.
La mobilità intercompartimentale, con la prossima pubblicazione del dpcm registrato nei giorni scorsi dalla Corte dei conti, andrà a regime.

Saranno operative, infatti, le tabelle di corrispondenza fra i livelli economici di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione, che consentiranno i trasferimenti tra gli 11 comparti pubblici ancora oggi esistenti, in attesa che l'attuazione del dlgs 150/2009 li riduca a 4.
Il dpcm consentirà alle amministrazioni pubbliche di equiparare le aree funzionali e le categorie di inquadramento del personale appartenente ai diversi comparti di contrattazione, confrontando gli ordinamenti professionali disciplinati dai rispettivi contratti collettivi nazionali di lavoro attraverso le tabelle allegate. Allo scopo di inquadrare correttamente il personale degli altri comparti, occorrerà tenere conto delle mansioni, dei compiti, delle responsabilità e dei titoli di accesso relativi alle qualifiche ed ai profili professionali indicati nelle declaratorie delle medesime aree funzionali e categorie.
L'articolo 2, comma 1, del dpcm garantisce espressamente che le mobilità non pregiudichino, rispetto al requisito del titolo di studio, le progressioni di carriera legittimamente acquisite: ciò significa che le progressioni verticali a suo tempo effettuate anche da parte di chi non possedeva il titolo di studio necessario all'accesso dall'esterno mediante concorsi pubblici, saranno fatte salve, purché legittimamente assegnate. Non è dato capire, tuttavia, con quali mezzi sarà possibile sindacare sulla legittimità delle progressioni verticali acquisite.
Sempre l'articolo 2 precisa che «la fascia economica derivante da progressione economica nel profilo di appartenenza non può comunque dare luogo all'accesso a profili professionali con superiore contenuto professionale per i quali è previsto un più elevato livello di inquadramento giuridico iniziale»: insomma, la posizione economica acquisita a seguito di progressioni orizzontali che risulti maggiore della posizione iniziale della categoria superiore non può dare diritto a una «promozione» appunto alla categoria superiore.
Laddove il dipendente trasferito in mobilità intercompartimentale abbia un profilo professionale di provenienza caratterizzato da specifiche abilitazioni professionali, queste condizioneranno anche il profilo di inquadramento presso l'ente di destinazione.
In quanto al trattamento economico, l'articolo 3 del dpcm distingue due ipotesi. La prima è quella delle mobilità volontaria. In questo caso, si applica il comma 2-quinquies dell'articolo 30 del dlgs 165/2001, ai sensi del quale «a seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione». Insomma, la mobilità volontaria non garantisce la conservazione di alcun tipo di trattamento economico in godimento presso l'ente di provenienza.
Nel caso di mobilità «obbligatoria», invece, i dipendenti trasferiti mantengono il trattamento economico fondamentale e accessorio ove più favorevole, ma limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa, mediante assegno ad personam riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti.
La norma pone il problema di individuare trattamenti accessori con voci a carattere fisso e continuativo, una contraddizione in termini. Non solo: se applicata al caso dei dipendenti in sovrannumero delle province, si pone in chiaro contrasto con l'articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), della legge 56/2014, oltre che con l'Accordo stato-regioni dell'11.09.2014, che garantiscono, invece, la conservazione dell'intero trattamento economico, compreso quello accessorio, ponendo a carico delle province l'onere di finanziarlo.
Il dpcm, invece, subordina la solo parziale copertura del salario accessorio «fisso e continuativo» esclusivamente laddove «sia individuata la relativa copertura finanziaria ovvero a valere sulle facoltà assunzionali». Insomma: gli enti destinatari dei dipendenti in mobilità obbligatoria potranno finanziare il loro salario accessorio o con risorse del proprio bilancio, tratte dal fondo della contrattazione decentrata, oppure erodendo le risorse da destinare alle assunzioni (articolo ItaliaOggi del 09.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, con la mobilità tagli agli stipendi.
I confini per le garanzie per gli stipendi dei dipendenti pubblici che cambieranno comparto si fanno più precisi, ma non arriva la tutela integrale della busta paga “originaria” chiesta dai sindacati.

Dopo la registrazione da parte della Corte dei conti, la Funzione pubblica ha diffuso il testo definitivo del decreto con le «tabelle di equiparazione» per la mobilità fra i comparti del pubblico impiego, indispensabile per regolare i passaggi da un settore all’altro della Pa e quindi per avviare un capitolo centrale della riforma delle Province: quello che per ricollocare 7-8mila dipendenti «in soprannumero» prevede di spostarli in aree disciplinate da contratti diversi da quello di Regioni ed enti locali (a questi ultimi dovrebbero andare invece circa 10mila persone, in particolare chi lavora nella polizia provinciale e nei centri per l’impiego).
La questione riguarda “solo” la mobilità «non volontaria», che rappresenta però il grosso degli spostamenti in programma nella Pa proprio per l’esigenza di alleggerire gli organici delle Province; per quella volontaria, che ogni anno riguarda una manciata di dipendenti, non c’è discussione, nel senso che chi chiede di spostarsi accetta il trattamento della Pa di destinazione.
Il punto più delicato, che in occasione del primo confronto in primavera aveva acceso le accuse sindacali sulla volontà del Governo di introdurre «tagli d’ufficio agli stipendi», si incontra all’articolo 3 del provvedimento. Rispetto alle bozze iniziali, il testo spende qualche parola in più sulle garanzie stipendiali per la mobilità, ma non modifica la sostanza del meccanismo: il dipendente che si sposta in un comparto pubblico diverso da quello di appartenenza, e che nel suo posto di lavoro ha uno stipendio superiore a quello previsto nella nuova destinazione, manterrà il trattamento fondamentale e accessorio «limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Un sistema di questo genere si spiega anche con l’impossibilità di replicare voci stipendiali che nella nuova organizzazione perderebbero di senso. Sarebbe difficile, per esempio, giustificare un’indennità di «posizione organizzativa» o per «specifiche responsabilità» a chi nell’ente di provenienza svolgeva un ruolo di direzione che nella nuova amministrazione non trova corrispondenza (il nuovo testo introduce un paracadute in più per le «progressioni di carriera legittimamente acquisite»). I nodi, però, non finiscono qui.
La garanzia per le voci fisse e continuative, spiega il decreto, si attiva «nei casi in cui sia individuata la relativa copertura finanziaria, ovvero a valere sulle facoltà assunzionali». Tradotto, significa che l’ente di destinazione dovrà finanziare con i propri fondi integrativi il trattamento accessorio da mantenere al nuovo dipendente: è importante la precisazione in base alla quale alla bisogna potranno servire gli spazi liberati dal turn-over, che dopo l’ultima manovra sono in pratica riservati al riassorbimento degli esuberi delle Province, ma in più di un caso le amministrazioni di destinazione potrebbero dover redistribuire le stesse risorse di oggi su una platea accresciuta.
C’è poi un terzo aspetto caldo: anche nei casi in cui scattasse la tutela completa sullo stipendio attuale, le voci in più rispetto a quanto previsto per il nuovo inquadramento confluirebbero in un «assegno ad personam, riassorbibile con i successivi miglioramenti economici». La norma serve a evitare la corsa all’aumento strutturale della spesa negli enti che accolgono nuovo personale ma, visto che non si può certo prevedere una dinamica vivace per i prossimi rinnovi contrattuali pubblici, il meccanismo finirebbe per congelare a lungo le buste paga.
La questione fondamentale, che può produrre battaglie di carta bollata in tutti i casi di stipendi a rischio, nasce dal fatto che la riforma delle Province prevedeva un meccanismo diverso: in caso di mobilità, spiega infatti il comma 96 della legge Delrio, il dipendente in uscita delle Province si sarebbe dovuto portare dietro «le corrispondenti risorse» necessarie a garantirgli «il trattamento economico fondamentale e accessorio in godimento all’atto del trasferimento».
Questo “zainetto”, inserito a suo tempo proprio per ottenere l’ok sindacale alla riforma, è stato “superato” dagli eventi anche perché, come spiegato qualche mese fa in una nota diffusa dalla Funzione pubblica, anche alla luce dei tagli miliardari chiesti alle Province dalla manovra «il trasferimento di personale non comporta trasferimento di risorse finanziarie»; e la stessa impostazione si incontra anche nelle bozze del decreto sui criteri generali della mobilità (anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio), che riguarda anche chi si sposterà senza cambiare contratto pubblico.
Se però la legge e i decreti ministeriali parlano due lingue diverse, il conflitto è dietro l’angolo soprattutto quando si parla di stipendi
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.09.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATAI giudici danno un taglio ai «finti» locali tecnici. Tre condizioni per escludere dalla cubatura gli spazi di servizio.
Urbanistica. Il divieto di classificare mansarde, sottotetti e vani interrati.

Una delle problematiche più ricorrenti in materia edilizia, dovuta anche alla varietà della casistica, è rappresentata dai volumi tecnici, cioè quelli che non vengono computati nella cubatura utile di un edificio in occasione del rilascio del titolo abilitativo per la sua costruzione.
Manca una norma generale che li disciplini e la loro definizione si rinviene in una vecchia circolare dell’allora ministero dei Lavori pubblici, la n. 2474 del 1973, secondo cui si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico»,
La giurisprudenza ha supplito alla carenza legislativa delineando alcuni punti fermi dell’istituto, recentemente riassunti dal Tar Campania-Napoli nella sentenza n. 3490/2015, che riafferma i principi già fissati con la precedente decisione n. 4132/2013 e consolida l’orientamento espresso anche dai giudici di appello (Consiglio di stato, sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014).
Per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati:
- all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno;
- ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
Le esclusioni
In relazione a questi parametri, la nozione di volume tecnico è stata applicata dalla giurisprudenza in senso restrittivo. Così, ad esempio, è stato escluso che possa considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa «una operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa» (Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati» (Consiglio di giustizia ammnistrativa siciliana, sentenza n. 207/2014; Consiglio di stato, sezione IV, sentenza n. 3666/2013; Tar Puglia-Lecce, sezione III, n. 2170/2011).
In questi casi saremmo in presenza di una mansarda, che deve essere computata «per la determinazione della superficie lorda di pavimento e della volumetria ai fini della concessione edilizia».
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi tecnici anche i vani scala (Consiglio di stato, sezione IV, sentenza n. 2565/2010), le verande, se di dimensioni superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una caldaia (Consiglio di stato, sezione VI, n. 2226/2015; Tar Campania-Napoli sezione VIII, sentenza n. 4132/2013) ed i piani interrati, se utilizzati come locali complementari all’abitazione (Tar Marche, sentenza n. 21/2003).
Le conseguenze
Dalla non configurabilità di un volume tecnico deriva l’obbligo di dotarsi di titolo abilitativo, in assenza del quale si configura il correlato reato edilizio, come nel caso di realizzazione di cisterne interrate di ingombro rilevante (Cassazione penale, sezione III, n. 38338/2013 e n.7217/2010) o della trasformazione di sottotetti in mansarde abitabili (Cassazione penale, sezione III, n. 11956/2010).
Sul piano civilistico la non configurabilità del volume tecnico comporta l’obbligo di rispettare le altezze massime (Cassazione civile, sezione II, n. 2566/2011) e le distanze legali dalle altre costruzioni (Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 20886/2012; Consiglio di stato, sezione V, sentenza n. 1272/2014).

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la rassegna
01 - AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA
Nuove costruzioni
Il divieto di nuove costruzioni, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude in ogni caso qualsiasi nuova edificazione che comporti comunque la creazione di edifici, senza che sia possibile distinguere tra volumi tecnici, residenziali, commerciali - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.04.2014 n. 2222
La sopraelevazione
Va escluso che, ai fini dell’accertamento postumo circa la compatibilità paesaggistica di taluni lavori ai sensi dell’articolo 167 del Dlgs 22.01.2004 n. 42, possa parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del fabbricato che si pongono a sua integrazione, come ad esempio un vano scale, di cui il torrino rappresenta la prosecuzione. Il torrino, infatti, è una costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato e, implicandone la sopraelevazione, determina un aumento della volumetria precedente - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2014 n. 1512
La compatibilità
In tema di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, gli interventi che abbiano dato luogo alla realizzazione di soli volumi tecnici rientrano nell’accezione di cui all’articolo 167, comma 4, lett. a), del Dlgs 22.01.2004 n. 42 e sono suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.12.2014 n. 6431
02 - DEFINIZIONE DI LOCALE TECNICO
Il rapporto con gli impianti
Si definisce volume tecnico il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale e non collocabili all’interno dell’edificio.
Un tale volume non è di norma computato nella volumetria massima assentibile.
Tale natura è stata ritenuta ravvisabile per cabine contenenti impianti idrici, termici, motori dell’ascensore e simili, nonché per i sottotetti termici, con esclusive funzioni di isolamento dell’ultimo piano dell’edificio stesso, purché non utilizzabile per attività connesse all’uso abitativo, come nel caso di soffitte, stenditoi chiusi o locali di sgombero - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.01.2015 n. 175
L’uso del sottotetto
Nel campo urbanistico, per volumi tecnici si intendono quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita, le soffitte, gli stenditoi chiusi, nonché il piano di copertura impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda; in particolare, la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna costituisce indice rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati - C.G.A.R.S., sentenza 14.04.2014 n. 207
Le condizioni
Rientra nel concetto di volume tecnico l’opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, perché destinata a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, volti esclusivamente a soddisfare esigenze tecniche e funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati all’interno di questa.
Tre sono i parametri utili per identificare la nozione di volume tecnico: il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo; il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale - TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.06.2013 n. 1429
03 - DISTANZE
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione e irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, soltanto l’opera edilizia priva di autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima, e tale non può considerarsi il balcone che non si connoti per una mera funzionalità decorativa - Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 13.03.2014, n. 1272
04 - LOCALE INTERRATO
Qualora una disposizione volta alla tutela di beni paesaggistici preveda il divieto di incremento dei volumi, il divieto riguarda anche la realizzazione di volumi tecnici o di garage interrati - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.08.2013 n. 4114
05 - MANSARDA
Una mansarda dotata di rilevante altezza media e una terrazza da utilizzare quale stenditoio non rientrano nella nozione di volume tecnico, riferibile soltanto alle opere edilizie completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi una costruzione principale - TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 15.12.2011 n. 2170
06 - SERRE
Costituiscono volumi tecnici -non rientranti nel conteggio dell’indice edificatorio in quanto non sono generatori del c.d. carico urbanistico- solo quelli adibiti alla sistemazione di impianti o, come previsto dall’articolo 4 lr Lombardia n. 39/2004, le serre bioclimatiche e le logge addossate od integrate nell’edificio (opportunamente chiuse e trasformate per essere utilizzate come serre per lo sfruttamento dell’energia solare passiva) aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione e che non possono essere ubicati all’interno della parte abitativa - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.02.2010 n. 712
07 - SOTTOTETTO
La realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna costituisce indice rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati - C.G.A.R.S., sentenza 14.04.2014 n. 207
08 - TAMPONATURE
La tamponatura delle finestre è un’operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa; e quindi non può considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.05.2014 n. 2825 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARIPiù spazio ai voucher con il nuovo limite di 7mila euro all’anno. Innalzata la soglia dei compensi netti per singolo prestatore senza limiti di settore.
Jobs act. Le nuove regole per gli impieghi occasionali.

Il Jobs act ha reso più accessibile il lavoro accessorio, quello retribuito con i voucher: il Dlgs 81/2015 di riordino dei contratti ha aumentato il tetto massimo dei compensi che possono essere versati allo stesso lavoratore con questa tipologia di impiego, portandolo a 7mila euro netti all’anno. Questo intervento potrebbe consolidare il trend di crescita del ricorso al lavoro accessorio, che già nel primo semestre 2015 ha fatto segnare un record, con 50 milioni di voucher emessi (+75% sul 2014).
I buoni lavoro, introdotti nel 2008 per le attività stagionali e come veicolo di emersione del lavoro nero, hanno visto una estensione progressiva nel tempo e una generalizzazione in tutti i settori economici, soprattutto nel commercio e nel turismo. Infatti, le vecchie causali soggettive e oggettive sono state sostituite già dalla riforma Fornero con i soli limiti economici. Oggi è dunque sempre possibile attivare il lavoro accessorio tenendo conto soltanto del limite di 7mila euro percepiti dal lavoratore in un anno solare.
In quest’ottica il Dlgs 81/2015, con gli articoli da 48 a 50, ha abrogato e sostituito integralmente gli articoli da 70 a 73 del Dlgs 276/2003, consentendo il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative in tutti i settori produttivi e garantendo, nel contempo, la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati.
I compensi massimi
L’articolo 48, comma 1, del Dlgs 81/2015 ha innalzato il limite massimo del compenso che il prestatore può percepire da 5mila a 7mila euro (rivalutabili annualmente), stabilendo che «per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7mila euro (9.333 euro lordi) nel corso dell’anno solare (dal 1° gennaio al 31 dicembre), annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati».
Non cambia, invece, il limite dei 2mila euro per le prestazioni rese nei confronti del singolo committente imprenditore o professionista. Con la circolare 149/2015 l’Inps ha chiarito che il valore per il 2015 è pari a 2.020 euro netti ovvero 2.693 euro lordi.
Una disciplina ad hoc si applica nel settore agricolo: le aziende con volume d’affari oltre 7mila euro netti all’anno possono impiegare solo pensionati e giovani under 25, se iscritti a un istituto scolastico o all’università, per svolgere attività agricole stagionali. Le imprese con fatturato inferiore possono impiegare invece qualsiasi soggetto in qualunque tipologia di attività agricola, purché non sia stato iscritto l’anno precedente nell’elenco dei lavoratori agricoli.
Percettori di ammortizzatori
L’attuazione del Jobs act ha reso strutturale la possibilità per i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito di effettuare prestazioni di lavoro accessorio in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite di 3mila euro (4mila lordi) di compenso per anno civile.
Con la circolare 149/2015, l’Inps ha precisato che il limite di 3mila euro, per il 2015, è da intendersi comprensivo anche delle prestazioni di lavoro accessorio già rese dal 1° gennaio al 24.06.2015 (giorno precedente all’entrata in vigore del Dlgs 81/2015).
Acquisto tracciabile
Un’importante novità si registra sull’obbligo, per i committenti imprenditori e liberi professionisti, di acquistare esclusivamente con modalità telematiche i buoni lavoro (procedura FastPoa).
In sostanza, oggi i canali per l’acquisto sono: la procedura telematica Inps (cosiddetto voucher telematico); i tabaccai che aderiscono alla convenzione Inps-Fit; il servizio internet banking Intesa Sanpaolo e le banche popolari abilitate. I committenti non imprenditori o professionisti possono continuare ad acquistare i voucher, oltre che attraverso questi canali, anche presso gli uffici postali.
In pratica, non potranno essere più acquistati buoni lavoro presso le sedi Inps a eccezione -e comunque fino al 31.12.2015- dei voucher per i servizi di babysitting introdotti, in via sperimentale, dalla legge 92/2012 per il triennio 2013-2015 (circolare Inps 169/2014).
L’istituto previdenziale ha confermato la prassi amministrativa per la quale, in attesa del decreto ministeriale, il valore nominale del buono lavoro sarà pari a 10 euro (di cui 7,5 netti al lavoratore e la restante somma suddivisa per il 13% alla gestione separata Inps, 7% all’Inail e il 5% al concessionario del servizio). Nel settore agricolo il buono lavoro sarà pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuate dal Ccnl stipulato dai sindacati più rappresentativi sul piano nazionale.
  
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L’autocertificazione mette al riparo da sanzioni. Controlli. Il lavoratore dichiara il non superamento dei limiti di reddito per l’anno.
Il sistema dei buoni lavoro consente ai committenti di beneficiare di prestazioni nella completa legalità, con copertura assicurativa Inail per eventuali incidenti sul lavoro, senza rischiare vertenze sulla natura della prestazione e senza dover stipulare alcun tipo di contratto.
I datori di lavoro, però, dovranno prestare attenzione agli adempimenti previsti e ai limiti per l’uso dei voucher se non vorranno incorrere in sanzioni.
Le possibili violazioni della disciplina del lavoro accessorio riguardano principalmente al superamento dei limiti quantitativi previsti dalla riforma. Il ministero del Lavoro, con la circolare 4/2013, ha precisato che il limite quantitativo diventa elemento «qualificatorio» della fattispecie e, pertanto, in sede di verifica ispettiva, è necessario che non sia stato superato l’importo massimo consentito. Del resto –ha precisato il ministero– è proprio il modesto apporto economico in capo al lavoratore che caratterizza l’occasionalità della prestazione. Una conferma è l’esenzione da ogni imposizione fiscale del lavoro accessorio o la non incidenza sullo stato di disoccupazione o inoccupazione del lavoratore.
Dunque, sarà il sistema informatico dell’Inps che potrà consentire ai datori di lavoro di verificare le soglie. In attesa del sistema informatizzato di monitoraggio dell’accredito dei voucher, il committente potrà richiedere al lavoratore una dichiarazione sul non superamento degli importi massimi previsti. Per il ministero (lettera circolare del 18.02.2013) quindi, l’acquisizione dell’autocertificazione firmata dal lavoratore è sufficiente a evitare sanzioni.
Invece, se manca l’autocertificazione del lavoratore,ovvero questa sia falsa, a parte le conseguenze penalmente rilevanti in capo al lavoratore, il superamento dei limiti economici determinerà una trasformazione del rapporto in uno di natura subordinata a tempo indeterminato, con applicazione delle sanzioni civili e amministrative.
Questo almeno con riferimento alle ipotesi in cui le prestazioni siano rese nei confronti di una impresa o di un lavoratore autonomo e risultino funzionali all’attività di impresa o professionale. In sostanza, sarà possibile operare la trasformazione del rapporto ogniqualvolta le prestazioni del lavoro accessorio siano verosimilmente fungibili con le prestazioni rese da un altro lavoratore già dipendente dell’imprenditore o del professionista (vademecum 22.04.2013).
Il ministero del Lavoro (circolare 4/2013) ha poi precisato che la mancata denuncia preventiva di utilizzo del lavoro accessorio, da effettuare per via telematica all’Inps, comporterà l’applicazione della maxi sanzione per lavoro nero.
Invece, nel caso in cui la comunicazione sia stata fatta ma, in sede di controllo, alcune giornate non risultino retribuite, la mancata erogazione dei voucher non potrà dar luogo alla maxi sanzione ma –nel caso in cui le prestazioni siano rese nei confronti di un’impresa o di un lavoratore autonomo secondo i canoni della subordinazione– si avrà la conversione in lavoro subordinato a tempo indeterminato con applicazione delle relative sanzioni amministrative e civili (nota del ministero del Lavoro del 12.07.2013, n. 37/12695).
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L’utilizzo è escluso in tutti gli appalti. I divieti. Salvo ipotesi specifiche da individuare.
Con il decreto di riordino dei contratti (Dlgs 81/2015) è diventato legge il divieto di usare i voucher nell’esecuzione di appalti. Infatti, se sino a oggi il divieto era lasciato alla prassi amministrativa, l’articolo 48, comma 6, del decreto legislativo 81/2015 prevede espressamente che «è vietato il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto».
Già la circolare del ministero del lavoro 34/2010 aveva affermato che le prestazioni di lavoro devono essere svolte direttamente a favore dell’utilizzatore della prestazione, senza intermediari. Il ricorso ai buoni lavoro è dunque limitato al rapporto diretto tra prestatore e utilizzatore finale, mentre è escluso che una impresa possa reclutare e retribuire lavoratori per svolgere prestazioni a favore di terzi come nel caso dell’appalto e della somministrazione (circolari Inps 88/2009 e 17/2010).
Alla base del ragionamento ministeriale c’è l’esigenza di escludere fenomeni di “destrutturazione” di altre tipologie contrattuali e possibili fenomeni di dumping sociale negli appalti a sfavore di imprese che ricorrono a contratti più stabili (circolare del ministero del Lavoro 4/2013).
La somministrazione
Da un confronto tra l’intervento legislativo e la prassi amministrativa sinora seguita dagli organi di controllo, sembrerebbe oggi possibile l’utilizzo dei voucher nell’ambito dei contratti di somministrazione e in tutte le ipotesi in cui non sia presente un contratto di appalto di opere e servizi.
Del resto, già il tribunale di Milano con la sentenza 318/2014 aveva affermato che il lavoro accessorio costituisce una categoria speciale all’interno delle collaborazioni occasionali, mediante il quale qualsiasi attività può essere svolta da qualsiasi soggetto, nei limiti del compenso economico previsto, con la sola eccezione del settore agricolo in cui talune limitazioni persistono.
«Non si rinvengono –continua la sentenza– nella normativa vigente (ante Job act), indicazioni che confinino la liceità del lavoro accessorio nell’ambito dell’utilizzazione diretta dei lavoratori da parte dell’utilizzatore con esclusione dei rapporti di appalto o somministrazione».
I settori in deroga
La norma appare, tuttavia, porre alcuni problemi di applicazione dove è lasciata alla discrezionalità amministrativa, seppur nel confronto con le parti sociali, la possibilità di individuare specifici settori in deroga per l’utilizzo dei buoni lavoro. Infatti, l’individuazione di «specifiche ipotesi» di derivazione amministrativa consentirà al giudice di valutare la legittimità dei voucher, rischiando di vanificare i principi ispiratori della riforma.
C’è già un precedente: il decreto ministeriale 24.02.2010 per il lavoro degli steward negli stadi di calcio, grazie al quale le società organizzatrici, gli istituti di vigilanza, le agenzie di somministrazione e le altre società appaltatrici dei servizi possono ricorrere a tutte le forme di lavoro subordinato, compreso il lavoro intermittente e a prestazioni di lavoro occasionale accessorio
 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2015).

VARI: La Provincia di Como (giornale) risarcita per lite temeraria.
Lite temeraria. Per questo motivo un professionista di Como è stato condannato a un risarcimento al quotidiano della città contro cui aveva intentato una causa civile per diffamazione. Il tribunale ha infatti stabilito che il professionista aveva agito in giudizio con «evidente colpa grave».

Alla base della denuncia del professionista, un articolo della Provincia di Como nel quale si dava notizia della sua condanna penale e civile nell'ambito di un procedimento che lo vedeva accusato di truffa.
Il Tribunale ha escluso la diffamazione e nella sentenza i giudici hanno sottolineato come la libertà «di diffondere notizie e commenti» è riconosciuta «anche a livello sovrannazionale dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo che, all'art. 10, la consacra come uno tra i più importanti diritti dell'individuo» e che «secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo detta libertà di diffusione del pensiero non riguarda solo le informazioni o opinioni neutre o inoffensive, ma anche tutte quelle che possano colpire negativamente “essendo ciò richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica”».
Secondo il giudice del tribunale di Milano, inoltre, «La Provincia aveva assunto informazioni frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca» mentre le omissioni dell'articolo contestate dal professionista erano «di scarso rilievo e prive di valore informativo».
Da una parte è stata rigettata l'accusa di diffamazione, dall'altra è stata accolta la domanda di «lite temeraria», motivata con «la totale soccombenza dell'attore, l'inesistenza del diritto vantato, l'allungamento del tempo generale nella trattazione dei processi (causato dalla proposizione di una causa solo strumentale), il danno provocato» al quotidiano.
Il professionista è stato condannato a risarcire 2.500 euro (articolo ItaliaOggi del 05.09.2015).

APPALTICentrali acquisto, caos da scadenze. In attesa della stretta governativa.
Ennesimo caos sulle centrali uniche di acquisto. In attesa della nuova stretta (annunciata dal governo come piatto forte del prossimo ciclo di spending review), occorre fare i conti con le scadenze previste dalla legislazione vigente, che dal prossimo 1° novembre inibisce ai comuni non capoluogo di provincia la contrattazione autonoma in tema di lavori, servizi e forniture e impone loro di eseguire le relative procedure di gara in forma aggregata (tramite unioni e convenzioni, ovvero mediante ricorso ai soggetti aggregatori o alle province), salvi i casi di acquisti con procedure telematiche (comprensivi anche degli acquisti Consip), ancora effettuabili in forma autonoma.
Unica deroga riguarda gli acquisiti per importi fino a 40 mila euro, che potranno continuare a essere effettuati in proprio, ma solo dai municipi con più di 10 mila abitanti.
Tuttavia, l'Anci ha ribadito in diverse occasioni l'intenzione di riproporre, nel primo decreto utile, l'emendamento già presentato durante la conversione del dl 78/2015 e in quella sede non recepito, per estendere la predetta deroga a tutti i comuni, anche al di sotto di tale soglia demografica.
Dal canto, suo, invece, la camera ha approvato lo scorso 4 agosto un ordine del giorno che impegna il governo a valutare la possibilità, nei prossimi provvedimenti legislativi, di prevedere l'obbligatorietà del ricorso alle centrali uniche di committenza da parte dei comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti solo per l'acquisto di beni, servizi e lavori di importo superiore a euro 20 mila.
Ove tale atto di indirizzo venisse accolto, tuttavia, si verrebbe a creare una situazione paradossale, con una sorta di vincolo a geometria variabile. Infatti, in sostanza, l'obbligo scatterebbe per i comuni sotto i 5 mila abitanti per gli acquisti sopra i 20 mila euro, per quelli tra 5 mila e 10 mila abitanti per qualunque acquisto indipendentemente dall'importo e per i comuni sopra i 10 mila abitanti per gli acquisti sopra i 40 mila euro.
L'intera materia, è evidente, richiede un restyling complessivo, anche tenendo conto dei ritardi fatti registrare dal parallelo percorso di costruzione delle forme associative preposte all'esercizio delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni (si veda ItaliaOggi di ieri).
Proprio in questa prospettiva, un'ulteriore proroga dei termini pare inevitabile per scongiurare un nuovo blocco delle gare, come già verificatosi in occasione delle precedenti scadenze (articolo ItaliaOggi del 05.09.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Le Cdc? Saranno 60 in tutto. Ci sarà almeno un ente a regione. Taglio alle partecipazioni. ItaliaOggi anticipa contenuti del dlgs attuativo della riforma Madia. La vigilanza al Mise.
Conferma sulla stretta delle sedi camerali. Dalle attuali 105 sedi si passerà a 60 mediante l'accorpamento di due o più camere di commercio.
Queste non avranno più una sede per ogni provincia italiana, ma opereranno «nelle circoscrizioni territoriali esistenti» con la presenza di almeno una sede «in ciascuna regione».
Vigilanza del ministero dello sviluppo economico sul registro delle imprese. Riduzione drastica sulle partecipazioni delle Cciaa a enti, consorzi e società consortili. Questo il perimetro in cui si muove una bozza di decreto legislativo a cui sta lavorando il ministero dello sviluppo economico di cui ItaliaOggi ha preso visione, atteso per il mese prossimo in consiglio dei ministri che attua le norme sulla riforma del sistema camerale previste dal decreto-legge 24.06.2014, n. 90 coordinato con la legge di conversione 11.08.2014, n. 114 recante: «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari». (c.d. ddl Madia).
Diritto annuale. L'articolo 28 della legge n. 114/2014 di conversione del decreto legge «pubblica amministrazione» n. 90/2014 prevede che il diritto annuale da corrispondere alle camere di commercio a carico delle imprese sia ridotto del 35% nel 2015, del 40% nel 2016 e del 50% nel 2017. Il diritto annuale, pari a 865 milioni di euro, costituiva nel 2012 il 68% dei proventi del sistema camerale, cui si sommano introiti per altri 430 milioni derivanti da altri diritti e trasferimenti.
L'art. 28 prevede inoltre che le tariffe e i proventi diversi dal diritto annuale (derivanti dalla gestione di attività e dalla prestazione di servizi, dai proventi di natura patrimoniale, dai diritti di segreteria sull'attività certificativa e sull'iscrizione a elenchi, registri e albi nonché dai contributi volontari o lasciti) siano fissati sulla base di costi standard definiti dal Ministero dello sviluppo economico, sentiti la società per gli studi di settore e Unioncamere, secondo criteri di efficienza da conseguire anche attraverso l'accorpamento degli enti e degli organismi del sistema camerale e lo svolgimento in forma associata delle funzioni. Dall'attuazione di tali provvedimenti non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
L'articolo 4 del dlgs di attuazione dell'articolo 28 della legge n. 114/2014 di conversione del decreto legge «pubblica amministrazione» n. 90/2014 stabilisce che «le variazioni del diritto annuale conseguenti alla rideterminazione annuale del fabbisogno» non potranno «in nessun caso» determinare «almeno fino al 2020, alcun significativo aumento rispetto agli effetti della riduzione percentuale dei diritti stabili per l'anno 2016».
Le camere di commercio potranno ottenere nuove risorse finanziare grazie «al potenziamento dei controlli» e si concretizzerà nella possibilità di intascare una quota delle sanzioni pecuniarie «per le materie in cui le camere di commercio sono individuate quale autorità competente ad adottare la relativa ordinanza».
Parliamo ad esempio del mancato deposito dei bilanci, dei verbali assembleari di modifiche di atti costitutivi e del mancato deposito dell'atto costitutivo societario (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mini-enti, associazionismo flop. Resistenze politiche e disorganizzazione frenano le gestioni. Dalle ricognizioni dei prefetti emerge il fallimento dell'obbligo di mettere insieme le funzioni.
Le gestioni associate comunali sono un flop.

Dopo la Corte dei conti (si veda ItaliaOggi del 21/08/2015), anche il ministero dell'interno tira le somme della riforma avviata nel 2010 per aggregare i piccoli comuni attraverso l'obbligo di conferire le loro funzioni fondamentali a unioni o convenzioni. E conferma che il bilancio è pesantemente negativo, a causa di un lungo elenco di problematiche, puntualmente elencate in un documento presentato alla Conferenza stato-città e autonomie locali prima della pausa estiva.
L'analisi è demoralizzante proprio perché molto accurata, essendo stata realizzata grazie al lavoro di ricognizione sul territorio svolto dalle prefetture, che hanno raccolto le segnalazioni di chi si è cimentato sul campo nella costruzione dei nuovi modelli. Le difficoltà riguardano quattro principali aspetti: geografico, organizzativo, politico e normativo. Sotto il primo profilo, pesa la complessa morfologia dei territori, con numerosi casi di comuni isolati e talora addirittura interclusi, ossia confinanti solo con centri maggiori, non soggetti agli obblighi e poco inclini a collaborare su base volontaria.
Sul piano organizzativo emergono criticità nella suddivisione delle risorse, degli oneri e del personale dei singoli comuni. Specie quest'ultimo aspetto è molto grave, visti i diffusi problemi concernenti la scarsità delle unità disponibili, l'età avanzata delle stesse, la mancanza di effettiva propensione all'innovazione (soprattutto a causa dei dubbi sulla possibilità di conservare le indennità acquisite nel comune di appartenenza) e di adeguata preparazione tecnico-amministrativa.
Dal punto di vista politico, si è registrata la tendenza ad associarsi per affinità politica e non territoriale, nonché il perdurante timore di taluni enti di subire un sostanziale svuotamento della funzione identitaria delle proprie realtà territoriali. È, inoltre, emersa, in taluni territori, la scarsa propensione di comuni obbligati finanziariamente virtuosi ad associarsi con enti in dissesto.
Infine, la stessa normativa che disciplina la materia risulta assai poco chiara, per quanto concerne, in particolare, l'esatta perimetrazione delle funzioni da associare. Alcune di esse, infatti, risultano anche incluse negli ambiti territoriali ottimali la cui istituzione è demandata alle regioni, ovvero conferite alle neo costituite città metropolitane.
Se questa è la diagnosi, la cura non può che prevedere un radicale ripensamento di tutta la legislazione statale che si è stratificata in questi anni, ivi compresa le recente legge Delrio, il cui intervento non è certo stato risolutivo. Come già evidenziato, tuttavia, fra gli addetti ai lavori (in primis, fra i sindaci) ci sono ricette diverse per uscire dall'impasse: alcuni predicano maggiore flessibilità e spingono per il potenziamento degli incentivi, altri sono favorevoli ad un rafforzamento dei vincoli (e delle relative sanzioni) con l'obiettivo di medio termine delle fusioni.
Tale varietà di schemi tattici si riflette anche nella normativa regionale, che il documento del Viminale riassume senza tuttavia riuscire a individuare neppure una linea di indirizzo condivisa. In pratica, ognuno va per la sua strada e i risultati si vedono.
Come evidenziato dalla magistratura contabile (si veda la tabella in pagina), le forme associative effettivamente operative sono poche e gestiscono risorse assai limitate, perlopiù trasferite dai comuni associati, spesso con ritardi pesanti che costringono gli enti sovracomunali a un ampio ricorso alle anticipazioni di tesoreria (con annesso pagamento di interessi). In più, esse vengono frequentemente sciolte o cambiano composizione. Difficile, in questo modo, farle funzionare davvero e renderle un volano per conseguire economie di scala e incrementare gli investimenti (e infatti gestiscono quasi solo spesa corrente).
La prossima scadenza al momento è fissata al 31/12/2015, ma un'altra proroga è quasi inevitabile: sarebbe la quinta, quasi un record (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

APPALTILa riforma appalti torna in pista. Entro settembre al Cipe la nuova lista delle opere prioritarie. Il provvedimento dovrà essere approvato entro ottobre, poi toccherà al regolamento attuativo.
Legge delega sugli appalti pubblici da varare entro ottobre; istituzione di una commissione di inchiesta sugli appalti pubblici; messa a punto dell'allegato infrastrutture; programmazione delle risorse Cipe, nuovo allegato infrastrutture al Def.
Sono questi i principali dossier relativi agli appalti pubblici che dalla prossima settimana verranno affrontati in sede governativa e parlamentare.
Senza dubbio uno dei più delicati dal punto di vista politico è quello della riforma degli appalti pubblici che dovrebbe portare al recepimento delle direttive europee e alla contestuale sostituzione del codice dei contratti pubblici e del regolamento attuativo.
L'esame del testo del disegno di legge delega, già approvato a giugno dal senato, verrà ripreso dalla commissione ambiente della camera (relatori Angelo Cera e Raffaella Mariani) a partire dal 7 settembre. Si tratterà di esaminare i 480 emendamenti depositati alla vigilia della chiusura dei lavori prima della pausa estiva. Non sono pochi i punti da affrontare, anche di un certo rilievo, come la disciplina dell'appalto integrato, la riforma degli incentivi alla progettazione di cui ha più volte fatto cenno la relatrice Mariani e, ancora, la «rivoluzione» voluta dal senato sull'obbligo di affidare in gara il 100% dei contratti oggi gestiti «in house» dei concessionari autostradali, tema sul quale si gioca una importante partita sotto più profili (concorrenza, investimenti e occupazione).
Il grosso del lavoro è stato svolto al senato (relatore Stefano Esposito) e non si dovrebbe andare verso uno stravolgimento del testo ma soltanto verso aggiustamenti su alcuni punti, fra cui, probabilmente quelli citati. L'obiettivo è comunque quello di arrivare alla conclusione rapida dell'esame in commissione per portare il testo entro i primi di ottobre al varo da parte dell'aula (e poi un rapido ritorno al senato).
Successivamente si aprirà la partita dell'attuazione della delega (che riguarderà non solo il nuovo codice ma anche il nuovo regolamento attuativo che sostituirà il dpr 207/2010) con la messa a punto dei decreti delegati da parte della commissione ministeriale di cui al decreto firmato da ministro Del Rio a luglio, che sarà seguita da una consultazione pubblica e dai numerosi pareri (Parlamento, Consiglio di stato, Conferenza unificata).
Diversi altri provvedimenti sono poi all'esame del parlamento, dal disegno di legge del senato con il quale si istituirà una commissione di inchiesta sugli appalti pubblici a quello sui contratti cosiddetti segretati (in deroga alle ordinarie regole del codice dei contratti pubblici per ragioni di sicurezza), oltre a quelli sul débat public e sulla qualità architettonica che però sembrano sovrapporsi in qualche misura con la delega appalti pubblici.
Sul fronte governativo l'impegno più rilevante pare essere quello della programmazione delle risorse derivanti dai fondi di coesione 2014-2020 che appare però in ritardo visto che entro il 31 marzo il presidente del consiglio avrebbe dovuto individuare dove allocare le risorse e, entro il successivo mese di aprile il Cipe avrebbe dovuto materialmente ripartire le risorse (si tratterebbe di più di 40 miliardi).
Il Cipe dovrà anche procedere all'assegnazione delle risorse previste dal decreto «Sblocca Italia» (1,5 miliardi) da destinare a opere cantierabili (non più entro fine agosto ma entro fine ottobre).
Infine, il ministero delle infrastrutture dovrà presentare al Cipe entro fine settembre il nuovo allegato infrastrutture al Def per il quale si parla già di un taglio di opere della «Legge Obiettivo» che non verranno più considerate prioritarie (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

TRIBUTI: Contribuenti in difficoltà nel pagare i debiti agli enti.
In un periodo di estrema difficoltà economica per i cittadini, il recupero dei tributi non versati è diventato sempre più difficoltoso per i comuni. Da una parte la scarsa liquidità dei debitori, dall'altra norme sempre più caotiche e mutevoli, comprese quelle relative alla riscossione, la cui riforma annunciata da tempo non è stata ancora attuata.
In questo contesto è stato accolto con favore da molti sindaci il «baratto amministrativo», istituito con dl 133/2014, convertito in legge 164/2014, in virtù del quale viene offerta ai comuni la facoltà di definire i criteri per la realizzazione di progetti presentati da cittadini e finalizzati a pulizia strade, manutenzione, abbellimento aree verdi, decoro urbano, recupero immobili inutilizzati, ecc., a fronte dei quali riconoscere riduzioni/esenzioni di tributi.
Nella delibera vanno indicati i tipi di interventi e la riduzione/esenzione che viene applicata (entità, tributo, periodo, eventuale limite di Isee). La norma risulta lodevole dal punto di vista dell'opportunità che offre al debitore in difficoltà, ma nulla dispone circa il rapporto «lavorativo» che si instaura tra ente e soggetto che presta l'intervento, con particolare riferimento agli aspetti assicurativi e contributivi.
Oltre al sanare la propria posizione debitoria fornendo una prestazione «in natura», ricordiamo che esistono già da tempo altri strumenti per agevolare il saldo dei debiti dei contribuenti nei confronti del comune. Alcuni tendono ad ottenere sconti sulle sanzioni (ravvedimento operoso, adesione all'accertamento), altri ad una riduzione della base imponibile (accertamento con adesione).
Sempre più cittadini ricorrono alla rateizzazione e su questo tema i comuni devono stabilire regole precise nei propri regolamenti, fissando il numero massimo di rate (attenzione ai termini di decadenza per la riscossione coattiva, in caso di inadempienza), i requisiti, eventuali garanzie (tenendo presente le attuali difficoltà che incontrano i debitori nel farsele rilasciare da banche e assicurazioni).
Prende sempre più piede, inoltre, la compensazione, e anche in questo caso occorre definire con regolamento casi e procedure per prevedere compensazioni tra annualità diverse dello stesso tributo o compensazioni tra tributi comunali diversi. Molti enti ricorrono altresì alla compensazione tra debiti tributari e crediti di altra natura vantati dai medesimi soggetti: in tal caso il comune versa la somma che spetta al cittadino trattenendo l'importo del tributo non versato.
Fondamentale è che il debito sia certo, liquido ed esigibile e che si regolarizzi contabilmente la compensazione, rendendo palese la correlazione tra mandato di pagamento e reversale di incasso. Per tutte le procedure esposte è infine indispensabile che l'ufficio competente organizzi al meglio la gestione operativa, supportato da strumenti informatici «elastici», modulistica e creando sinergia con l'ufficio contabile (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: In caso in cui il bando di gara non contenga una comminatoria espressa, l’omessa indicazione nell’offerta dello scorporo matematico degli oneri per la sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé l’esclusione dalla gara ma rileva solo ai fini dell’anomalia del prezzo
Quanto all’obbligo di indicazione nella offerta economica degli oneri di sicurezza le argomentazioni reiettive del Tar devono essere confermate atteso che nessuna comminatoria di esclusione era stata prevista dal bando di gara in caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza, né la mancata indicazione è prevista tra le cause di esclusione indicate dall’art. 46, co. 1-bis, del codice degli appalti.
Si richiamano i precedenti specifici di questo Consiglio in materia in cui si è evidenziato che in caso in cui il bando non contenga una comminatoria espressa, l’omessa indicazione nell’offerta dello scorporo matematico degli oneri per la sicurezza per rischio specifico non comporta di per sé l’esclusione dalla gara ma rileva solo ai fini dell’anomalia del prezzo (Cons. Stato III, 1030/2014; VI n. 3964/ 2014; V n. 4907/2014)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.09.2015 n. 4132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di ammissione alla gara per l'affidamento di un contratto di appalto di lavori pubblici o di servizi, in ordine alla dichiarazione di sopralluogo, occorre distinguere tra dichiarazione a cura del partecipante e verbale di sopralluogo a cura della stazione appaltante; pertanto, si considera sufficiente, ai fini dell'ammissione alla gara, la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, a meno che non sia espressamente richiesto anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relative modalità.
3. - Del pari non meritevole di accoglimento è il terzo motivo di appello, riproduttivo del motivo del ricorso incidentale in primo grado, con cui veniva censurata la mancata effettuazione del sopralluogo da parte del dottor Va. che si sarebbe avvalso per l’adempimento di altro soggetto.
Dall’esame della documentazione versata in atti si evinceva che effettivamente il sopralluogo, richiesto al punto 5.7 del bando di gara, era stato effettuato da un soggetto diverso dall’istante, ma che tale soggetto era stato espressamente delegato dal ricorrente a prendere visione degli elaborati progettuali e del contesto urbano dove avrebbe trovato spazio la nuova farmacia, e che il ricorrente aveva fatto propria l’attività del delegato mediante la produzione agli atti di gara di una dichiarazione sostitutiva di notorietà e certificazione, dichiarando espressamente di aver preso visione degli elaborati progettuali e di conoscere il luogo presso cui sarebbe stata insediata la nuova sede farmaceutica, ottemperando, dunque, alle prescrizioni del suddetto punto 5.7..
Rilevava esattamente il Tar che in tema di ammissione alla gara per l'affidamento di un contratto di appalto di lavori pubblici o di servizi, in ordine alla dichiarazione di sopralluogo, occorre distinguere tra dichiarazione a cura del partecipante e verbale di sopralluogo a cura della stazione appaltante; pertanto, si considera sufficiente, ai fini dell'ammissione alla gara, la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso sia stato eseguito, a meno che non sia espressamente richiesto anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relative modalità (Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3729)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.09.2015 n. 4132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La "sanatoria giurisprudenziale" non esiste più.
Predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

In proposito, il Collegio, pur non ignorando l’esistenza di un autorevole orientamento giurisprudenziale di segno contrario (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2003, n. 592; sez. V, 21.10.2003, n. 6498; 28.05.2004, n. 3431; 19.04.2005, n. 1796; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; TAR Abruzzo, Pescara, 11.05.2007, n. 534; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2008, n. 137; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.03.2010, n. 314; Cass. pen., sez. III, 15.02.2008, n. 11132; 28.05.2008, n. 21208), ritiene di dover escludere che la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e n. 1690 del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa dello ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost..
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.).
In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono –sul piano urbanistico– quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La norma del PRG che dispone “Le zone residenziali contermini al centro storico, caratterizzate da un’edificazione intensiva soprattutto in termini di occupazione dei lotti, hanno esaurito qualsiasi potenzialità edificatoria e sono da considerarsi sature. In esse è possibile procedere alla ristrutturazione dell’edilizia esistente. Il p.r.g. si attua mediante piani particolareggiati … Fino all’approvazione del piano particolareggiato sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, sempreché non vi siano aumenti di superficie, di volumi, di altezze dei fabbricati” non è sottesa alla definitiva ablazione del diritto di proprietà ovvero al totale svuotamento del ius aedificandi, ma pone un limite parziale all’esercizio di quest’ultimo –dacché circoscritto ai soli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria–, fino all’emanazione dell’obbligatorio strumento urbanistico attuativo.
Trattasi, dunque, non già di vincolo espropriativo, bensì di vincolo meramente ‘procedimentale’, non assoggettato, come tale, a decadenza ex artt. 2, comma 1, della l. n. 1187/1968 e 38, comma 1, della l.r. Campania n. 16/2004.
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A conclusioni più favorevoli per il ricorrente nemmeno sarebbe possibile addivenire, ove, per assurdo, si accreditasse la propugnata decadenza del vincolo di (parziale) inedificabilità gravante sul lotto de quo.
Ed invero, in tale ipotesi, l’area di intervento soggiacerebbe pur sempre ai parametri dettati dall’art. 9, comma 1, lett. a, del d.p.r. n. 380/2001 (dovendosene inferire –alla luce della documentazione in atti– l’ubicazione entro il perimetro del centro abitato) ed applicabile alle c.d. zone divenute ‘bianche’, ossia rimaste sprovviste di apposita disciplina urbanistica generale.
Cosicché su di essa sarebbero assentibili unicamente gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a, b e c, del d.p.r. n. 380/2001, e cioè unicamente gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di singole unità immobiliari o parti di esse, nonché di restauro e di risanamento conservativo, dai quali esula, di certo, la ristrutturazione edilizia mediante demolizione, ricostruzione e ampliamento posta in essere dal ricorrente.
In realtà, in mancanza della prescritta pianificazione di dettaglio, deve considerarsi operante la disciplina all’uopo dettata dall’art. 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001: “Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione –recita la disposizione richiamata–, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25% delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo”.
La norma in parola ammette, dunque, per le zone sprovviste dei prescritti strumenti urbanistici attuativi, oltre alle opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché di restauro e di risanamento conservativo, anche le opere di ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001 (nella versione applicabile, ratione temporis, al caso dedotto in giudizio), ivi comprese quelle eseguite mediante demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma originaria; e considera, altresì, assentibili le ristrutturazioni edilizie riguardanti interi edifici e comportanti modifiche (fino al 25%) delle destinazioni preesistenti, condizionandole all’impegno del titolare a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione.

3. Non è, poi, ravvisabile la dedotta decadenza del vincolo di inedificabilità imposto dall’art. 20 delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di San Cipriano d’Aversa sulla zona “satura” BR.
La richiamata disposizione urbanistica stabilisce, in particolare, che: “Le zone residenziali contermini al centro storico, caratterizzate da un’edificazione intensiva soprattutto in termini di occupazione dei lotti, hanno esaurito qualsiasi potenzialità edificatoria e sono da considerarsi sature. In esse è possibile procedere alla ristrutturazione dell’edilizia esistente. Il p.r.g. si attua mediante piani particolareggiati … Fino all’approvazione del piano particolareggiato sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, sempreché non vi siano aumenti di superficie, di volumi, di altezze dei fabbricati”.
All’evidenza, essa non è sottesa alla definitiva ablazione del diritto di proprietà ovvero al totale svuotamento del ius aedificandi, ma pone un limite parziale all’esercizio di quest’ultimo –dacché circoscritto ai soli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria–, fino all’emanazione dell’obbligatorio strumento urbanistico attuativo (la cui eventuale omissione da parte dell’amministrazione comunale sarebbe, comunque, rimediabile, in via giurisdizionale, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm. ovvero, in via sostitutiva, ai sensi dell’art. 39 della l.r. Campania n. 16/2004).
Trattasi, dunque, non già di vincolo espropriativo, bensì di vincolo meramente ‘procedimentale’, non assoggettato, come tale, a decadenza ex artt. 2, comma 1, della l. n. 1187/1968 e 38, comma 1, della l.r. Campania n. 16/2004 (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 09.02.2010, n. 122; TAR Molise, Campobasso, 24.09.2010, n. 1096; TAR Liguria, Genova, sez. I, 11.12.2013, n. 1492; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.05.2015, n. 1256).
4. A conclusioni più favorevoli per il ricorrente nemmeno sarebbe possibile addivenire, ove, per assurdo, si accreditasse la propugnata decadenza del vincolo di (parziale) inedificabilità gravante sul lotto in proprietà del D’Al..
Ed invero, in tale ipotesi, l’area di intervento soggiacerebbe pur sempre ai parametri dettati dall’art. 9, comma 1, lett. a, del d.p.r. n. 380/2001 (dovendosene inferire –alla luce della documentazione in atti– l’ubicazione entro il perimetro del centro abitato) ed applicabile alle c.d. zone divenute ‘bianche’, ossia rimaste sprovviste di apposita disciplina urbanistica generale (per intervenuta decadenza dei vincoli espropriativi da questa imposti su di esse: cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.03.2001, n. 1596; sez. IV, 17.07.2002, n. 3999; sez. V, 03.03.2003, n. 1172; 18.03.2003, n. 1443; 09.05.2003, n. 2449; sez. IV, 28.05.2005, n. 3437; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 08.10.2003, n. 5156; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 11.02.2004, n. 201; TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.05.2009, n. 2810).
Cosicché su di essa sarebbero assentibili unicamente gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a, b e c, del d.p.r. n. 380/2001, e cioè unicamente gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di singole unità immobiliari o parti di esse, nonché di restauro e di risanamento conservativo, dai quali esula, di certo, la ristrutturazione edilizia mediante demolizione, ricostruzione e ampliamento posta in essere dal ricorrente (cfr. relazione tecnica illustrativa allegata alla domanda di sanatoria, prot. n. 7495, del 13.07.2010).
5. In realtà, in mancanza della prescritta pianificazione di dettaglio, deve considerarsi operante la disciplina all’uopo dettata dall’art. 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001: “Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione –recita la disposizione richiamata–, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell'articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25% delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo”.
La norma in parola ammette, dunque, per le zone sprovviste dei prescritti strumenti urbanistici attuativi, oltre alle opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché di restauro e di risanamento conservativo, anche le opere di ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001 (nella versione applicabile, ratione temporis, al caso dedotto in giudizio), ivi comprese quelle eseguite mediante demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma originaria; e considera, altresì, assentibili le ristrutturazioni edilizie riguardanti interi edifici e comportanti modifiche (fino al 25%) delle destinazioni preesistenti, condizionandole all’impegno del titolare a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte pianificatorie effettuate dall’amministrazione costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e, quindi, sottratto al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da macroscopici vizi di arbitrarietà, illogicità o travisamento fattuale, risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
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L’imposizione, ad opera dello strumento urbanistico sovraordinato, dell’emanazione di una disciplina di dettaglio, propedeutica al rilascio di titoli abilitativi edilizi ed alle conseguenti attività di trasformazione del territorio, riflette una direttiva generale dell’ordinamento, emergente dagli artt. 13 ss. della l. n. 1150/1942 e 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001.
La ratio di tale regola generale risiede in ciò: soltanto attraverso l’intermediazione della pianificazione esecutiva è assicurata quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale è idonea a soddisfare le esigenze della collettività, in misura pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esime, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all’aggravio derivante da nuove costruzioni.
Gli strumenti attuativi hanno, cioè, lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti.
La pianificazione esecutiva, richiesta dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, pertanto, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema.
E ciò anche nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto; zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate.
Il principio giurisprudenziale secondo il quale nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello strumento attuativo può, dunque, trovare applicazione solo nel caso, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che consenta con sicurezza di prescindere dalla pianificazione di dettaglio, in quanto oggettivamente non più necessaria, essendo stato pienamente raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie, previste dal piano regolatore) cui è finalizzata.
Per l’applicazione del principio, insomma, è necessario che lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere assolutamente superflui gli strumenti attuativi.
Tale situazione, del tutto peculiare, deve riguardare l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale per gli strumenti attuativi e deve concernere le urbanizzazioni primarie e secondarie in relazione all’assetto definitivo dell’intero ambito territoriale di riferimento.
Ogni altra soluzione avrebbe evidentemente il torto di trasformare il piano esecutivo in un atto sostanzialmente facoltativo, non più necessario ogni qual volta, a causa di precedenti abusi edilizi sanati, di preesistenti edificazioni ovvero del rilascio di singoli permessi di costruire illegittimi, il comprensorio abbia già subito una qualche urbanizzazione, anche se non appieno soddisfacente i parametri del piano regolatore.

6. Fermo restando che, le scelte pianificatorie effettuate dall’amministrazione costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e, quindi, sottratto al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da macroscopici vizi di arbitrarietà, illogicità o travisamento fattuale, risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 08.05.2000, n. 2639; 01.03.2001, n. 1145; 06.02.2002, n. 664; 04.03.2003, n. 1191; 26.05.2003, n. 2827; 25.11.2003, n. 7771; 24.02.2004, n. 738; 13.04.2004, n. 1743; 21.05.2004, n. 3316; 22.06.2004, n. 4466; sez. V, 19.04.2005, n. 1782; sez. IV, 14.10.2005, n. 5713; e n. 5716; 19.02.2007, n. 861; 21.05.2007, n. 2571; 11.10.2007, n. 5357; 27.12.2007, n. 6686; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.07.2002, n. 3109; TAR Abruzzo, Pescara, 19.09.2005, n. 498; 28.08.2006, n. 445; 07.03.2007, n. 215; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 30.01.2007, n. 146; TAR Campania, Salerno, sez. I, 10.07.2007, n. 817; 13.03.2008, n. 292; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.03.2008, n. 279; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 06.02.2009, n. 206; TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.01.2009, n. 135), osserva, a questo punto, il Collegio che, a dispetto degli assunti di parte ricorrente, il censurato art. 20 delle n.t.a. del p.r.g del Comune di San Cipriano d’Aversa si rivela tutt’altro che illogico, nella misura in cui, in sostanziale convergenza col richiamato art. 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, (non vieta tout court, bensì) limita, fino all’approvazione dei prescritti strumenti urbanistici attuativi, l’edificabilità nella zona “satura” BR ai soli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
In effetti, l’imposizione, ad opera dello strumento urbanistico sovraordinato, dell’emanazione di una disciplina di dettaglio, propedeutica al rilascio di titoli abilitativi edilizi ed alle conseguenti attività di trasformazione del territorio, riflette una direttiva generale dell’ordinamento, emergente dagli artt. 13 ss. della l. n. 1150/1942 e 9, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625) e recepita dagli artt. 22, comma 2, lett. b, 27 e 28 della l.r. Campania n. 16/2004.
La ratio di tale regola generale risiede in ciò: soltanto attraverso l’intermediazione della pianificazione esecutiva è assicurata quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale è idonea a soddisfare le esigenze della collettività, in misura pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esime, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all’aggravio derivante da nuove costruzioni.
Gli strumenti attuativi hanno, cioè, lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013).
La pianificazione esecutiva, richiesta dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, pertanto, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013; 10.12.2003, n. 7799; sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
E ciò anche nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471; 10.06.2010, n. 3699; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Il principio giurisprudenziale secondo il quale nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello strumento attuativo può, dunque, trovare applicazione solo nel caso, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che consenta con sicurezza di prescindere dalla pianificazione di dettaglio, in quanto oggettivamente non più necessaria, essendo stato pienamente raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie, previste dal piano regolatore) cui è finalizzata.
Per l’applicazione del principio, insomma, è necessario che lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere assolutamente superflui gli strumenti attuativi.
Tale situazione, del tutto peculiare, deve riguardare l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale per gli strumenti attuativi e deve concernere le urbanizzazioni primarie e secondarie in relazione all’assetto definitivo dell’intero ambito territoriale di riferimento.
Ogni altra soluzione avrebbe evidentemente il torto di trasformare il piano esecutivo in un atto sostanzialmente facoltativo, non più necessario ogni qual volta, a causa di precedenti abusi edilizi sanati, di preesistenti edificazioni ovvero del rilascio di singoli permessi di costruire illegittimi, il comprensorio abbia già subito una qualche urbanizzazione, anche se non appieno soddisfacente i parametri del piano regolatore (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 18.05.2005 n. 6538)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La comunicazione ex art. 10-bis della l. n. 241/1990 è assimilabile alla comunicazione di avvio del procedimento di cui al precedente art. 7, in quanto entrambi gli atti hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto tra l’amministrazione e i privati anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo, in modo che non siano trascurati elementi istruttori utili alla decisione finale.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, l’identità di funzione consente, quindi, di affermare che anche la mancanza della comunicazione ex art. 10-bis cit. incide sulla validità dell’atto conclusivo del procedimento nei soli limiti previsti dal successivo art. 21-octies, comma 2, ossia qualora abbia determinato un deficit istruttorio; il che non si verifica, qualora il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, ossia quando la denunciata violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo provvedimento impugnato.

8. Il ricorrente neppure può fondatamente lamentare che i motivi ostativi all’accoglimento della propria domanda di sanatoria, prot. n. 7495, del 13.07.2010 non gli sarebbero stati preannunciati ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990.
A smentita di tale assunto milita, innanzitutto, la circostanza che, alla stregua della documentazione depositata in giudizio dall’amministrazione resistente il 23.07.2011, il preavviso di rigetto della richiesta sanatoria risulta regolarmente rivolto al D’A. con nota del 09.09.2010, prot. n. 9451.
Peraltro, la comunicazione ex art. 10-bis della l. n. 241/1990 è assimilabile alla comunicazione di avvio del procedimento di cui al precedente art. 7, in quanto entrambi gli atti hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto tra l’amministrazione e i privati anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo, in modo che non siano trascurati elementi istruttori utili alla decisione finale.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, l’identità di funzione consente, quindi, di affermare che anche la mancanza della comunicazione ex art. 10-bis cit. incide sulla validità dell’atto conclusivo del procedimento nei soli limiti previsti dal successivo art. 21-octies, comma 2, ossia qualora abbia determinato un deficit istruttorio; il che non si verifica, qualora il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, ossia quando la denunciata violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo provvedimento impugnato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; sez. III, 27.01.2009, n. 7; sez. V, 19.06.2009, n. 4031; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 10.05.2006, n. 1183; Brescia, 20.08.2008, n. 862; TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 15.06.2007, n. 5503; sez. II-bis, 03.05.2007, n. 3917; TAR Molise, Campobasso, 02.04.2008, n. 113; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 03.04.2008, n. 1245; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 25.03.2009, n. 1611).
Ebbene, nella specie, alla luce della disamina compiuta retro, sub n. 2-7, il contenuto del gravato diniego di sanatoria si è rivelato immune dai vizi sostanziali lamentati dal ricorrente; per modo che non può ricollegarsi portata infirmante alla dedotta omissione del preavviso di rigetto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio non ignora che la preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo titolo abilitativo edilizio.
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L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati, l’individuazione delle violazioni accertate e della normativa applicata.
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L’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
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In disparte il rilievo, di per sé dirimente, che le opere riguardate dal provvedimento di demolizione impugnato risultano compiutamente identificate nella loro localizzazione territoriale e spaziale, il Collegio osserva che la lamentata omissione dell’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.

9. Venendo ora a scrutinare i motivi di impugnazione avverso l’ordinanza di demolizione n. 11 del 17.05.2011, priva di pregio si rivela la censura secondo cui illegittimamente l’amministrazione comunale intimata avrebbe avviato l’iter repressivo-ripristinatorio prima di aver definito il procedimento di sanatoria instaurato con la domanda del 13.07.2010, prot. n. 7495.
Al riguardo, il Collegio non ignora che la preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2005, n. 5851; 16.01.2007, n. 226; 06.07.2009, n. 4335; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.05.2005, n. 3400; sez. I, 01.12.2005, n. 12727; 24.06.2005, n. 5254; 11.01.2006, n. 230; 08.06.2006, n. 4388; sez. II, 05.09.2007, n. 8575; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 14.06.2005, n. 3402; sez. III, 07.07.2008, n. 2056; 29.03.2010, n. 878; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.01.2006, n. 223; Salerno, sez. II, 04.05.2006, n. 597; Napoli, sez. IV, 02.10.2006, n. 8429; 06.12.2006, n. 10434: sez. VI, 28.03.2007, n. 312; sez. III, 21.05.2007, n. 5425; 06.06.2007, n. 5961; sez. IV, 08.10.2007, n. 9123; 21.03.2008, n. 1461; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; sez. IV, 03.04.2008, n. 2846; sez. VI, 30.04.2008, n. 3070 sez. VII, 07.05.2008, n. 3517; sez. IV, 06.03.2009, n. 1305; sez. VI, 13.07.2009; TAR Basilicata, Potenza, 03.03.2007, n. 137; TAR Liguria, Genova, sez. I, 16.05.2007, n. 785; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 06.12.2007, n. 1937; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 17.12.2007, n. 3704).
10. Infondato è pure l’ordine di doglianze in base al quale, in difetto di motivazione, la misura demolitoria sarebbe stata irrogata senza aver compiutamente valutato la tipologia di abuso contestato, l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria (trattandosi asseritamente di opere eseguite in parziale difformità dal progetto assentito) e le deduzioni fornite dall’interessato in sede di contraddittorio procedimentale, nonché senza aver individuato l’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
10.1. Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie, e a dispetto di quanto asserito da parte ricorrente– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.5), l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in totale difformità dalla d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, nonché in assenza di permesso di costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001) (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n. 4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI, 09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II, 07.10.2008, n. 13456; sez. IV, 29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n. 18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564; 02.12.2008, n. 20794; sez. VI, 17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV, 06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009, n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117; 06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
10.2. Ciò posto, giova, poi, chiarire che gli abusi accertati a carico del D’A. si sono sostanziati nell’ampliamento (per una volumetria complessivamente pari a circa mc. 630,00) del manufatto preesistente, demolito e ricostruito, il quale è risultato eseguito in totale difformità dalla la d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, e per il quale, stante la relativa natura e consistenza, ossia trattandosi di intervento comportante la creazione di un organismo edilizio integralmente diverso da quello originario –anziché di parziali difformità, come, invece, erroneamente inferito da parte ricorrente–, si imponeva il preventivo rilascio di apposito permesso di costruire (sul punto, cfr., TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 04.07.2013, n. 3427).
Ebbene, l’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui risulta senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (opere eseguite in assenza di permesso di costruire), non contempla l'irrogazione di una sanzione diversa da quella demolitoria (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899).
La sanzione alternativa pecuniaria è, infatti, prevista unicamente per le diverse ipotesi di opere di ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31 cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire.
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009, n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645).
10.3. Con riguardo al profilo di censura incentrato sull’omessa considerazione delle deduzioni fornite in sede di contraddittorio procedimentale dall’interessato con nota del 04.04.2011 (prot. n. 3035), è agevole obiettare che l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
Si aggiunga che l'obbligo di motivazione ex art. 3 della l. n. 241/1990 non avrebbe potuto tradursi –a discapito dei principi di efficacia e celerità dell’agire amministrativo– in un interminabile confronto dialettico e in una analitica replica alle osservazioni del 04.04.2011 (prot. n. 3035) (cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, 26.07.2004, n. 836; sez. I, 06.06.2007, n. 285; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 14.05.2005, n. 459; TAR Liguria, Genova, sez. II, 07.07.2005, n. 1022; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 07.04.2006, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.08.2006, n. 6950; 14.09.2007, n. 8951), avendo esso per oggetto i presupposti fattuali che, all’esito dell’istruttoria procedimentale, avevano evidenziato, in logica e insuperata antitesi alle anzidette osservazioni, nonché in senso confermativo delle preannunciate determinazioni, la legittimità della divisata irrogazione della sanzione demolitoria.
10.4. Infine, il D’A. neppure può fondatamente lamentare l’omessa individuazione dell’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
Sul punto, in disparte, il rilievo, di per sé dirimente, che le opere riguardate dal provvedimento impugnato risultano compiutamente identificate nella loro localizzazione territoriale e spaziale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.5), il Collegio osserva che la lamentata omissione non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.
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In materia di condono edilizio, la formazione del silenzio-assenso presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale.

per la riforma
- quanto al ricorso n. 5148 del 2015, della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n. 744/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune;
- quanto al ricorso n. 5149 del 2015, della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n. 745/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune.
...
A) Un primo gruppo di doglianze si incentra sulla incolpevolezza degli appellanti rispetto alla realizzazione delle opere abusive e all’estraneità alle ordinanze di demolizione, indirizzate, come si è detto, al padre Edmondo e al fratello Salvatore.
Esse sono infondate.
Giova innanzitutto puntualizzare che le pronunce in sede penale intervenute a carico degli attuali appellanti hanno accertato la prosecuzione degli abusi edilizi per i quali erano stati assolti per prescrizione il padre e il fratello, e che per tale ragione in data 10.10.2014 l’Ufficio esecuzioni penali e misure di sicurezza presso la Procura della Repubblica di Cagliari ha incaricato, come si è ricordato, il Sindaco di Cagliari di provvedere alla demolizione del fabbricato abusivo e al ripristino dell’area su cui esso insiste.
E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali proprietari pretendono la salvezza incondizionata della propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte, rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla presentazione delle istanze di condono, attestanti una non veritiera data di ultimazione del manufatto.
B) Quanto a quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei lavori, successiva al 01.10.1983), è sufficiente richiamare il contenuto dei verbali di sopralluogo sopra citati, dai quali emerge che fino al 09.01.1984 esisteva solo una recinzione sul lotto poi interessato dall’edificazione, poi attestata nell’aprile 1984.
Da tale circostanza, neppure contestata dagli interessati, deriva l’infondatezza delle censure attinenti alla formazione del preteso silenzio-assenso, formazione che presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli interessati di permanere nell’indebito godimento di un immobile realizzato senza titolo.
C) Le considerazioni che precedono sono ampiamente sufficienti ad evidenziare l’infondatezza dell’appello, dal momento che i provvedimenti impugnati in primo grado si manifestano correttamente motivati anche solo in base ad esse.
Per completezza, il Collegio ritiene di aggiungere che anche l’ulteriore censura, relativa alla pretesa inconferenza del richiamo al Piano territoriale pesistico Molentargius Monte Urpinu e alle connesse esigenze di tutela, pure richiamate dal Comune nella motivazione dei provvedimenti di rigetto delle istanze di condono, non è fondata.
Sostengono gli appellanti che alla data di presentazione delle domande di condono (giugno 1986) il suddetto piano non era ancora entrato in vigore, essendo stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale solo in data 24.12.1992.
La tesi non ha pregio poiché tale piano, approvato con decreto regionale 12.01.1979, è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS) il 16.01.1979, e tale pubblicazione ne costituisce la condizione di efficacia legale, avendo il dPR 22.05.1975, n. 480 trasferito alla Regione Sardegna le funzioni relative all’adozione e all’approvazione dei piani territoriali paesistici, con i connessi adempimenti e conseguenze (cfr. Cass. civ. sez. I, 09.04.2015, n. 7139) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività edilizia deve essere compatibile con le destinazioni impresse sull’area dagli strumenti urbanistici.
L’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone, inoltre, che: «Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, per definire l’ambito applicativo della norma riportata, che:
i) «manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale»;
ii) «non vi è dubbio sulla assenza della natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio essendo ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti:
   a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
   b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico', confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato».

5.2.– Con il secondo e terzo motivo si deduce, in primo luogo, l’erroneità della sentenza per avere il Tribunale affermato che le opere contestate avrebbero determinato il cambio di destinazione dell’area da agricola ad industriale.
La circostanza che il sig. Ca. sia socio e presidente di una attività di autotrasporto e che impieghi l’area in questione anche per parcheggiare sulla stessa gli automezzi di sua proprietà non potrebbe essere sufficiente a dimostrare il contestato mutamento di destinazione. Le opere, indicate nell’ordinanza di demolizione, si aggiunge, sarebbero tutte compatibili con l’attività agricola.
In secondo luogo, si assume come gli interventi edilizi singolarmente considerati avrebbero valenza precaria e in quanto tali per la loro esecuzione non sarebbe necessario il previo rilascio del permesso di costruire.
Infine, si deduce come, anche in relazione al motivo accolto dal primo giudice relativo alla recinzione, il Tribunale non avrebbe dovuto affermare che la recinzione non è conforme alla autorizzazione edilizia n. 11 del 1985 ma si sarebbe dovuto limitare, in conformità alla domanda, a rilevare come, in presenza di tale tipologia di interventi soggetti a denuncia di inizio attività, non si può adottare un ordine di demolizione.
I motivi non sono fondati.
L’attività edilizia deve essere compatibile con le destinazioni impresse sull’area dagli strumenti urbanistici.
L’art. 10 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) dispone, inoltre, che: «Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, per definire l’ambito applicativo della norma riportata, che:
i) «manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Cons. Stato, sez. IV, 03.06.2014, n. 2842);
ii) «non vi è dubbio sulla assenza della natura pertinenziale –ai fini edilizi– quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio essendo ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti:
   a) di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati;
   b) di opere che comportino un nuovo e modesto volume ‘tecnico', confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato
» (Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2015, n. 406).
Nella fattispecie in esame il terreno su cui sono state realizzati gli interventi ha natura agricola.
La valutazione contestuale della natura dell’attività svolta dal sig. Ca., dell’impiego di parte dell’area per il parcheggio degli automezzi, della natura di altre opere (descritte nei successivi punti) inducono a ritenere, avuto riguardo alle fotografie prodotte in giudizio, che di fatto si sia realizzato il cambio di destinazione ritenuto abusivo. La circostanza che alcune delle opere realizzate sarebbero compatibili con la natura agricola dell’area non è comunque in grado di inficiare la legittimità della valutazione complessiva opera dall’autorità comunale.
Quanto esposto sarebbe già di per sé a ritenere abusivi gli interventi compiuti.
A ciò si aggiunga come, anche a volere considerare tali interventi singolarmente, gli stessi sono comunque illeciti perché non sorretti dal necessario titolo abilitativo.
In particolare, le opere contestate sono le seguenti: ampliamento del fabbricato condonato esistente modificato mediante realizzazione di una veranda chiusa con vetri, utilizzata quale ufficio; prefabbricato in pannelli di alluminio coibentati dotato di porta e finestra in alluminio e vetro ad uso spogliatoio e ricreativo, appoggiato su traversine in cemento; buca in calcestruzzo per la riparazione dei mezzi di trasporto, avente profondità di circa 1,5 metri; servizio igienico prefabbricato ancorato al suolo; sei strutture tipo box, in lamiera e legno, appoggiati su una platea in calcestruzzo; tre porticati adiacenti alle baracche, appoggiati o ancorati a platea in calcestruzzo; tre container in lamiera, usati come deposito e appoggiati anch’essi ad una platea in calcestruzzo; serbatoio del gasolio, coperto da una tettoia appoggiata su un basamento in cemento; pavimentazione in ghiaia rullata e cemento di vasta parte del compendio.
E’ sufficiente la descrizione delle opere per comprendere come si tratti di interventi che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non possono definirsi né precari né pertinenziali, con conseguente necessità del permesso di costruire per la loro realizzazione.
Per quanto attiene, infine, alla censura relativa alla recinzione, è sufficiente rilevare come l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la non conformità di tale recinzione all’autorizzazione edilizia abbia costituito una mera argomentazione motivazionale. Non sussiste, pertanto, interesse alla sua contestazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIONon può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali deve garantire la destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che, agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania, quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella competenza del Comune proprietario della strada, con specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del codice della strada e all’art. 180 del regolamento di esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa ordinanza dell'ente proprietario della strada.

Con ricorso notificato il 28.04.2015 e depositato il 7 maggio successivo, i nominati in epigrafe, residenti in Sant’Antimo alla via Catania n. 16 impugnano il silenzio–rifiuto serbato dall’intimato ente locale in ordine all’istanza acquisita al protocollo il 19.02.2015.
Con tale richiesta, i ricorrenti invitavano l’amministrazione comunale ad installare paletti dissuasori alla sosta ovvero apposita segnaletica orizzontale con divieto di sosta nel tratto di via Catania antistante il portone del proprio fabbricato al fine di impedire la sosta indiscriminata, diurna e notturna, di autoveicoli privati la cui presenza, considerate le ridotte dimensioni della carreggiata, ostacola le manovre carrabili di accesso ed uscita dall’edificio, ivi compresi i mezzi di soccorso ed emergenza.
Gli esponenti lamentano il pregiudizio derivante dall’ostruzione dell’area di manovra specificando che, in un’occasione, è stato impedito al Sig. C.V. di recarsi presso il pronto soccorso dell’Ospedale di Frattamaggiore -benché afflitto da colica renale come da documentazione sanitaria in atti- proprio a causa della sosta ostruttiva di veicoli privati: all’esito di specifico sopralluogo conseguente ad un esposto degli istanti, il Comando di Polizia Municipale di Sant’Antimo ha constatato il disagio per i residenti ed ha richiesto al Comune la messa in opera di palettatura lungo la corsia di sinistra o, in alternativa, l’apposizione di segnaletica verticale di divieto di sosta.
Tanto premesso, gli esponenti propongono ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a. e chiedono la condanna dell’amministrazione comunale alla conclusione del procedimento di cui all’epigrafata istanza, con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune in ordine alla istanza di cui in premessa dal momento che, benché diffidato dalla parte ricorrente, l’ente non ha adottato alcuna determinazione conclusiva.
Non può dubitarsi che l’amministrazione abbia un obbligo di vigilanza sulle strade di cui è proprietaria (oltre che sulle relative pertinenze, come i marciapiedi destinati al transito dei pedoni), dei quali deve garantire la destinazione pubblica ed il pacifico utilizzo da parte degli utenti, nel rispetto delle disposizioni del codice della strada ex D.Lgs. n. 285/1992 e del regolamento esecutivo ed attuativo di cui al D.P.R. n. 495/1992.
In base a tale disciplina, al Comune compete l’adozione delle misure concretamente richieste dai ricorrenti che, agendo a tutela del proprio diritto al libero accesso al fabbricato con mezzi di locomozione, chiedono l’adozione di provvedimenti di regolazione della sosta su via Catania, quali l’installazione di paletti dissuasori alla sosta indiscriminata di veicoli privati e l’apposizione di segnaletica di divieto di sosta.
L’adozione di tali misure rientra certamente nella competenza del Comune proprietario della strada, con specifico riferimento:
- all’apposizione e la manutenzione della segnaletica stradale, ai sensi dell’art. 37 del codice della strada;
- all’installazione di paletti con funzione di dissuasione alla sosta dei veicoli privati in base all’art. 42 del codice della strada e all’art. 180 del regolamento di esecuzione e di attuazione, da utilizzare come impedimento materiale alla sosta abusiva e che, ai sensi del comma 6 del citato art. 180, devono essere autorizzati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e posti in opera previa ordinanza dell'ente proprietario della strada.
Le considerazioni svolte conducono, in definitiva, all’accoglimento del ricorso con conseguente condanna del Comune a pronunciarsi espressamente sull’istanza dei privati con un provvedimento motivato entro e non oltre giorni 30 dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza.
In caso di perdurante inerzia si nomina sin d’ora commissario ad acta il Sig. Prefetto di Napoli –con facoltà di delega ad un funzionario del proprio ufficio– il quale provvederà, previa presentazione di apposita istanza di parte ricorrente (da notificare al Comune), entro i successivi 30 giorni.
Il compenso del commissario ad acta sarà liquidato con separato provvedimento ad avvenuto espletamento dell’incarico (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 02.09.2015 n. 4280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata notifica alla parte interessata dell’atto con il quale l’amministrazione abbia accertato l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione non produce necessariamente effetti vizianti sulla procedura di repressione degli abusi edilizi. Va sottolineato, per un verso, come correttamente eccepito dalla difesa dell’ente resistente, che la legge collega l’effetto acquisitivo dell’opera abusiva al mero inutile decorso del termine di 90 giorni assegnato all’interessato per mezzo dell’ordinanza ingiunzione di demolizione.
È chiaro sul punto il dettato normativo, laddove prescrive che “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune” (art. 31, D.P.R. 380/2001).
Ne consegue che il verbale di accertamento di tale inottemperanza -del quale il ricorrente lamenta oggi la mancata notifica- ha valore di atto meramente dichiarativo, con il quale l’amministrazione verifica allo scadere del termine di 90 giorni la permanenza dello stato di fatto accertato con l’ingiunzione di demolizione (“Il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'Ente locale e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale”).
Secondo la previsione normativa, realizzatosi ipso iure l’effetto acquisitivo della proprietà del bene, la notifica del citato verbale alla parte privata costituisce solo titolo per l’immissione nel possesso (ossia, per l’acquisizione materiale dell’immobile da parte dell’amministrazione), e per la trascrizione nei registri immobiliari (ossia, per la pubblicizzazione di quell’acquisto già verificatosi precedentemente).
Il Collegio non ignora il dato normativo (art. 31, co. 4, del D.P.R. 380/2001) a tenore del quale l’atto ricognitivo della mancata demolizione debba essere preventivamente notificato alla parte; tuttavia, osserva anche che -come già rilevato- tale adempimento procedimentale assume solo una funzione ricognitiva, volta ad accertare se la demolizione sia stata eseguita o meno.
L’omessa notifica del verbale di accertamento al soggetto passivo del procedimento repressivo può, quindi, assumere effetto invalidante dell’intera procedura solo se ed in quanto lo stesso soggetto abbia provveduto a demolire l’abuso (contrariamente a quanto “accertato” dall’ufficio), ovvero voglia far valere delle ragioni che gli hanno impedito di ottemperare a tale obbligo.
In tutte le altre ipotesi, l’omissione procedimentale risulta ex se priva di rilevanza, e non incide sulla validità dell’acquisizione della proprietà del bene al patrimonio comunale, come ha chiarito in fattispecie analoga la giurisprudenza: “L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire ha il solo scopo di verificare l'adempimento della parte intimata rispetto al termine assegnato; in caso di inerzia rispetto all'intimata demolizione si verifica ope legis l'acquisizione del bene al patrimonio comunale e di fronte a questa sequenza procedimentale l'unico intervento in funzione dialettica che la parte può validamente effettuare è quello volto a dimostrare che la demolizione sia stata effettivamente realizzata dal destinatario del provvedimento e ove ciò non venga dimostrato l'eventuale vizio procedimentale della omessa o inesatta notificazione dell'accertamento di inottemperanza costituirebbe una irregolarità non invalidante, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, in quanto il provvedimento non potrebbe assumere un diverso contenuto”.
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Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore «contra legem».

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 85 del 07.07.2014 con la quale il Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di S. Giovanni La Punta ha acquisito al patrimonio comunale le opere abusive eseguite da I.G. nell’immobile sito in via ... ;
...
Sulla base di una più attenta lettura degli atti il Collegio ritiene che -contrariamente a quanto affermato in sede cautelare- il ricorso sia infondato e debba essere respinto.
1.- Infatti, in relazione al primo motivo, va rilevato come la mancata notifica alla parte interessata dell’atto con il quale l’amministrazione abbia accertato l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione non produce necessariamente effetti vizianti sulla procedura di repressione degli abusi edilizi. Va sottolineato, per un verso, come correttamente eccepito dalla difesa dell’ente resistente, che la legge collega l’effetto acquisitivo dell’opera abusiva al mero inutile decorso del termine di 90 giorni assegnato all’interessato per mezzo dell’ordinanza ingiunzione di demolizione (Tar Palermo 2898/2014 e 2760/2014).
È chiaro sul punto il dettato normativo, laddove prescrive che “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune” (art. 31, D.P.R. 380/2001).
Ne consegue che il verbale di accertamento di tale inottemperanza -del quale il ricorrente lamenta oggi la mancata notifica- ha valore di atto meramente dichiarativo, con il quale l’amministrazione verifica allo scadere del termine di 90 giorni la permanenza dello stato di fatto accertato con l’ingiunzione di demolizione (Tar Napoli, 3067/2014: “Il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'Ente locale e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale”).
Secondo la previsione normativa, realizzatosi ipso iure l’effetto acquisitivo della proprietà del bene, la notifica del citato verbale alla parte privata costituisce solo titolo per l’immissione nel possesso (ossia, per l’acquisizione materiale dell’immobile da parte dell’amministrazione), e per la trascrizione nei registri immobiliari (ossia, per la pubblicizzazione di quell’acquisto già verificatosi precedentemente).
Il Collegio non ignora il dato normativo (art. 31, co. 4, del D.P.R. 380/2001) a tenore del quale l’atto ricognitivo della mancata demolizione debba essere preventivamente notificato alla parte; tuttavia, osserva anche che -come già rilevato- tale adempimento procedimentale assume solo una funzione ricognitiva, volta ad accertare se la demolizione sia stata eseguita o meno.
L’omessa notifica del verbale di accertamento al soggetto passivo del procedimento repressivo può, quindi, assumere effetto invalidante dell’intera procedura solo se ed in quanto lo stesso soggetto abbia provveduto a demolire l’abuso (contrariamente a quanto “accertato” dall’ufficio), ovvero voglia far valere delle ragioni che gli hanno impedito di ottemperare a tale obbligo.
In tutte le altre ipotesi, l’omissione procedimentale risulta ex se priva di rilevanza, e non incide sulla validità dell’acquisizione della proprietà del bene al patrimonio comunale, come ha chiarito in fattispecie analoga la giurisprudenza: “L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire ha il solo scopo di verificare l'adempimento della parte intimata rispetto al termine assegnato; in caso di inerzia rispetto all'intimata demolizione si verifica ope legis l'acquisizione del bene al patrimonio comunale e di fronte a questa sequenza procedimentale l'unico intervento in funzione dialettica che la parte può validamente effettuare è quello volto a dimostrare che la demolizione sia stata effettivamente realizzata dal destinatario del provvedimento e ove ciò non venga dimostrato l'eventuale vizio procedimentale della omessa o inesatta notificazione dell'accertamento di inottemperanza costituirebbe una irregolarità non invalidante, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, in quanto il provvedimento non potrebbe assumere un diverso contenuto” (Tar Catania 3234/2011).
Si può quindi concludere, che la mancata notifica del verbale di accertamento lamentata col motivo di ricorso in esame non costituisca vizio della procedura di acquisizione del bene, e segnatamente dell’atto oggi impugnato con il quale l’amministrazione ha solo confermato e formalizzato l’effetto traslativo, indicando compiutamente l’area acquisita.
Né può assumere rilievo l’evidenziata circostanza che sia trascorso un ampio lasso di tempo dall’accertamento dell’abusività dell’opera fino all’irrogazione della sanzione acquisitiva. Infatti, per un verso, l’iter è stato rallentato legittimamente a causa della presentazione di un’istanza di sanatoria (cui è seguito un fitto scambio procedimentale tra le parti, poi definitivamente respinta con provvedimento non contestato); per altro verso, il trascorrere del tempo non può ingenerare affidamenti in capo al privato in ordine al mancato esercizio della potestà di repressione degli abusi che compete in materia ai Comuni.
In proposito, la prevalente giurisprudenza (condivisa dalla Sezione) è solita affermare che “Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore «contra legem»” (da ultimo Cons. Stato, VI, 13/2015, ma anche ex multis Tar Napoli 1329/2015, Tar Lecce 2127/2014, Tar Torino 237/2014, Cons. Stato, IV, 3182/2013) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.09.2015 n. 2182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIStop agli affidamenti senza verifica Ue. Per il Consiglio di Stato sempre obbligatoria l’analisi sulla conformità alla disciplina comunitaria.
Società. I giudici sanciscono la decadenza automatica per le modalità di gestione che non sono state adeguate entro il 31.12.2014.

L’affidamento avvenuto con modalità confliggenti con l’ordinamento comunitario prima del 2012 doveva essere adeguato entro il 31.12.2014, e in caso di impossibile esperimento di tale soluzione si determina la cessazione della gestione esistente.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 31.08.2015 n. 4041 chiarisce nel dettaglio il meccanismo previsto dai commi 20 e 21 dell’articolo 34 della legge 221/2012, evidenziando come per gli affidamenti già in essere al momento dell’entrata in vigore delle norme le amministrazioni locali erano tenute ad effettuare un’accurata analisi della coerenza del modulo a suo tempo scelto con l’attuale quadro dei principi comunitari.
Nel richiedere la verifica di conformità degli affidamenti esistenti ai requisiti previsti dalla normativa europea il comma 21 dell’articolo 34 non intende fare riferimento alle norme dell’epoca in cui gli stessi affidamenti sorsero, ma alla disciplina attuale.
La norma quindi non si fonda su un giudizio d’illegittimità in senso tecnico dei relativi atti di affidamento, ma su una valutazione di coerenza dell’assetto da essi instaurato rispetto alle regole del presente.
Nella sentenza viene rilevato inoltre che la normativa del comma 21 prescinde dalle soglie di rilevanza comunitaria, per fare invece perno sulla valorizzazione dei principi concorrenziali invalsi nella relativa disciplina, secondo una prospettiva legislativa che intende rimettere in discussione assetti concessori preesistenti il più delle volte da tempo cristallizzati per porre nuovamente sul mercato i relativi servizi, e promuovere così dinamiche di sviluppo dell’economia. Pertanto eventuali valori limitati degli affidamenti non comportavano l’esclusione dall’ambito applicativo della norma.
La disposizione, tuttavia, non ha determinato una cessazione immediata delle gestioni esistenti, ma ha obbligato le amministrazioni a svolgere una verifica puntuale, nella consapevolezza che le criticità dei singoli affidamenti concreti rispetto alla normativa europea potessero atteggiarsi di volta in volta in modo diverso, ed essere talora sanabili (ad esempio, in caso di un irregolare affidamento in house mediante un adeguato mutamento organizzativo).
Qualora l’amministrazione abbia invece rilevato un conflitto insanabile con i principi comunitari (ad esempio un affidamento diretto senza gara a un operatore economico privato) l’intervento si traduce in un accertamento vincolato, stante l’impraticabilità di un adeguamento dell’affidamento, con conseguente immediata cessazione della gestione esistente.
Questo percorso doveva essere completato entro il 31.12.2014 (in considerazione del differimento del termine originario operato dall’articolo 13 del Dl 150/2013) e non poteva subire deroga, nemmeno a fronte di investimenti recenti effettuati dall’affidatario.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha evidenziato come nell’ambito di un affidamento di servizio pubblico l’elemento del riequilibrio economico-finanziario degli investimenti dell’affidatario (valorizzato dalle previsioni degli articoli 30 e 143 del Dlgs 163/2006) sia connesso al momento costitutivo della concessione.
Qualora, invece, si verifichi il mancato raggiungimento del punto di equilibrio in prossimità della cessazione naturale del rapporto, questo non determina un prolungamento dello stesso, ma costituisce presupposto per la quantificazione del giusto indennizzo.
Pertanto il recupero degli investimenti non ammortizzati in conseguenza della cessazione dell’affidamento va ricondotto a una regolazione del tutto autonoma dell’aspetto patrimoniale (con l’eventuale assunzione dell’onere da parte dell’affidatario subentrante), ma non può influire sulla durata dell’affidamento, a rischio di andare a ridurre il “rischio operativo” che invece l’affidatario deve sopportare (anche in forza di quanto espressamente previsto in tal senso dalla direttiva 23/2014/Ue)
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2015).
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MASSIMA
4 L’appello è infondato.
5 Con il suo primo motivo viene ripresa la tesi dell’inapplicabilità alla materia oggetto di controversia della disciplina generale per i servizi pubblici locali di rilevanza economica recata dai commi 20 e 21 dell’art. 34 del d.l. n. 179/2012.
5a La tesi si ricollega alle previsioni specificamente dettate per l’illuminazione votiva dal comma 26 dello stesso articolo 34, che ai fini di tale particolare materia porrebbe i detti due commi fuori causa, mancando di richiamarsi ad essi e limitandosi a richiamare il d.lgs. n. 163/2006.
L’appellante assume, in particolare, che la concatenazione, rinvenibile nel comma 26, tra la modifica del D.M. 31.12.1983, da un lato, e l’applicabilità al servizio di illuminazione votiva della disciplina di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 163/2006, dall’altro, denoterebbe la volontà legislativa di sottrarre il peculiare servizio oggetto di causa alla disciplina dedicata ai servizi pubblici locali dai commi 20 e 21.
Diversamente opinando, viene detto, la seconda parte del comma 26 risulterebbe inutiliter data: la soggezione all’art. 30 del Codice dei contratti pubblici dell’illuminazione votiva, così come della generalità dei servizi locali soggetti ai commi 20-22, dovrebbe infatti reputarsi ovvia.
Una simile scelta legislativa non presenterebbe, inoltre, profili d’irragionevolezza, stanti le particolari caratteristiche dell’illuminazione votiva, e soprattutto la modesta consistenza economica della gran parte degli affidamenti di settore.
Infine, la previsione di una cessazione anticipata di questi ultimi finirebbe per restringere, invece che ampliare, la concorrenza nello specifico mercato, in quanto l’onere di corrispondere un indennizzo al concessionario uscente (per la perduta proprietà dell’impianto) si tradurrebbe in una barriera all’ingresso per gli aspiranti nuovi concessionari.
5b Il Collegio è dell’avviso che queste pur approfondite argomentazioni non possano trovare adesione, meritando conferma l’interpretazione seguita dal Giudice di prime cure.
Il comma 26 del già citato art. 34 non interferisce con il campo di applicazione dei commi 20-21 del medesimo articolo, ma si pone rispetto ad essi su un piano diverso.
Il comma 21, in particolare, si occupa degli affidamenti di servizi pubblici locali di rilevanza economica in corso all’entrata in vigore del decreto legge n. 179/2012, e della necessità di adeguarli con sollecitudine ai parametri concorrenziali di derivazione europea.
Il comma 26, per converso, si occupa essenzialmente della disciplina applicabile alle nuove procedure da indire nel futuro per gli affidamenti del servizio d’illuminazione votiva, senza stabilire alcunché per quelli in corso.
E’ immediato, pertanto, operare una lettura coordinata delle previsioni dei due commi dell’articolo, ritenendo applicabile il comma 21 anche all’
illuminazione votiva.
Tale servizio, del resto, è annoverato da una giurisprudenza consolidata tra i servizi pubblici locali di rilevanza economica (cfr. ad es. C.d.S., V, 27.05.2014, n. 2716, nonché 23.10.2012, n. 5409, e ulteriori citazioni ivi): sicché esso per sua natura soggiace alle previsioni dei commi 20-21, la cui portata generale ha fatto sì che non vi fosse bisogno di richiamarli nel corpo del comma 26.
Quando il legislatore, d’altra parte, ha voluto escludere l’applicazione a particolari settori economici dei commi 20-21 è stato univoco, come si desume dalla lettura del comma 25 dello stesso art. 34.
Se si considera, inoltre, che la ratio espressa della disciplina del comma 26 si identifica nel “fine di aumentare la concorrenza nell’ambito delle procedure di affidamento in concessione del servizio di illuminazione votiva”, deve convenirsi che una simile ratio può essere efficacemente perseguita solo a condizione di coordinare il comma 26 al 21 (collocando perciò anche l’illuminazione votiva nel novero dei servizi i cui affidamenti in corso sono soggetti a possibile cessazione anticipata), e non già seguendo l’opposta lettura patrocinata dalla ricorrente.
Questa seconda interpretazione, infatti, lasciando tutti gli affidamenti in atto alle loro naturali scadenze, limiterebbe considerevolmente l’impatto proconcorrenziale della disciplina innovativa del comma 26; e, come ha fatto osservare la difesa comunale, “spostando il momento di ingresso del servizio nel mercato nega la finalità stessa della disciplina d’urgenza introdotta nel 2012.”
5c Sarebbe poi paradossale se il servizio in rilievo, pur soggetto per sua natura alla disciplina dei commi 20-21 dell’art. 34 cit., dovesse risultare sottratto all’applicazione dei medesimi, e rimanere governato da concessioni di lunga durata che rischiano di ingessare il relativo mercato, solo a causa di una norma speciale quale il predetto comma 26, che si presenta tuttavia come espressione di una finalità pro-competitiva proprio per il settore dell’illuminazione votiva.
E quand’anche la sottrazione all’illuminazione votiva delle caratteristiche del servizio “a domanda individuale”, che è stata stabilita dal primo periodo del comma 26, dovesse tradursi in un mutamento de futuro della sua natura giuridica, neppure tale circostanza potrebbe comunque essere valorizzata per sottrarre il detto servizio all’impero dei citati commi 20-21, dal momento che una simile interpretazione contraddirebbe, appunto, la finalità “di aumentare la concorrenza nel settore” che sorregge e qualifica l’intero comma 26.
5d
A conferma dell’interpretazione seguita dal Tribunale si può aggiungere:
- che non esiste alcuna incompatibilità, come ha già rilevato lo stesso TAR, tra i commi 20-21 dell’art. 34 d.l. cit. e l’art. 30 d.lgs. n. 163/2006;
- che il richiamo del comma 26 a quest’ultimo articolo non è superfluo, avendo – tra l’altro, anche - la funzione di chiarire che, almeno nella prospettiva legislativa, l’innovazione apportata dal primo periodo del comma 26 non farebbe venire meno la configurazione concessoria degli affidamenti del servizio in questione, pur avendo esso perduto la connotazione del servizio “a domanda individuale”.

Non persuadono, infine, gli argomenti dell’appellante imperniati sulla modestia della consistenza economica della gran parte degli affidamenti di settore, come pure sul possibile effetto di barriera all’ingresso del mercato che potrebbe venire dalla necessità di indennizzare i concessionari uscenti, giacché simili deduzioni, alla luce delle considerazioni già svolte sull’interpretazione da dare alla normativa in esame, possono valere al più a segnalare degli eventuali aspetti d’inopportunità o inefficacia della scelta legislativa, senza poter tuttavia influire sull’esito del presente giudizio di legittimità.
5e Poiché, dunque, il comma 21 dell’art. 34 d.l. cit. si conferma applicabile anche al servizio di illuminazione votiva, il primo motivo di appello deve essere respinto.
6 Con il secondo mezzo si deduce che, anche a ritenere applicabili al caso concreto i suddetti commi 20 e 21, la deliberazione comunale n. 137/2013 sarebbe ugualmente illegittima.
6a Tanto essenzialmente per le seguenti ragioni.
L’affidamento concesso a EPIS non confliggerebbe con il diritto comunitario: la sua ultima proroga risale al 1999, quando l’affidamento delle concessioni di servizi senza procedura a evidenza pubblica doveva considerarsi ancora perfettamente legittimo anche sotto il profilo comunitario. E la successiva evoluzione della normativa europea non potrebbe incidere retroattivamente sugli affidamenti pregressi.
La deliberazione comunale impugnata meriterebbe quindi censura, anche alla luce del canone del tempus regit actum, per avere disposto la cessazione anticipata di una concessione che non recherebbe alcun aspetto di contrarietà all’ordinamento comunitario.
La ricorrente assume inoltre che il comma 26 dell’art. 34 d.l. cit., con il suo richiamo all’art. 125 d.lgs. n. 163/2006, tuttora consentirebbe la possibilità di un affidamento diretto, in forza del comma 11 di questo secondo articolo, per le gestioni di dimensione ridotta, ossia non superiori a un valore di 40mila euro per anno. E poiché il servizio della EPIS presenterebbe un valore limitato a circa 12mila euro annui, il suo affidamento diretto sarebbe ancora oggi perfettamente legittimo.
Sotto altro profilo, la ricorrente deduce che i commi 20-21 dell’art. 34 d.l. cit. non imporrebbero la cessazione anticipata della generalità degli affidamenti diretti in corso: eventualità che farebbe di tali norme, oltretutto, una nuova reiterazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, abrogato a suo tempo dal referendum popolare, esponendole pertanto a una censura d’incostituzionalità per violazione dell’art. 75 Cost. sulla scia di quanto già deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 199/2012.
L’adeguamento ai requisiti della normativa europea previsto dai detti commi si limiterebbe a riguardare i “contenutispecifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale” e le relative “compensazioni economiche”. In difetto, quindi, di una norma nazionale di cessazione anticipata degli affidamenti diretti in atto le concessioni in itinere, oltretutto legittimamente conferite in base alle norme dell’epoca, dovrebbero essere conservate.
6b Nemmeno queste deduzioni possono trovare consenso, poiché costituiscono espressione di un’interpretazione non condivisibile del più volte citato comma 21.
6c Il Collegio deve subito osservare che
il detto comma, nel richiamarsi agli affidamenti “non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea”, non intende fare riferimento alle norme dell’epoca in cui gli stessi affidamenti sorsero, come la ricorrente invece sostiene, bensì alla disciplina attuale.
La norma in esame non riposa quindi su un giudizio d’illegittimità in senso tecnico dei relativi atti di affidamento (che postulerebbe, appunto, una loro valutazione secondo la legge del tempo), bensì su una valutazione di coerenza dell’assetto da essi instaurato rispetto alle regole del presente.
Come la difesa comunale ha rilevato, infatti, la relazione prevista dal comma 20 dell’art. 34 d.l. cit. deve essere calibrata senza dubbio sulla disciplina europea attualmente vigente. Sicché il comma 21, nell’esigere anche ai propri fini “la relazione prevista al comma 20”, è alla disciplina attuale che chiede di avere riguardo, e non a quella dell’epoca di origine dell’affidamento.
Senza dire che, come la stessa difesa ha fatto notare, avrebbe ben poco senso oggi prescrivere alle Amministrazioni concedenti -per giunta, mediante lo strumento della decretazione d’urgenza- di svolgere un controllo di legittimità alla stregua di parametri normativi ormai superati.
Per quanto precede, anche il richiamo di parte ricorrente al canone del tempus regit actum e al principio di irretroattività si rivela fuori fuoco.

6d Dopo la precisazione appena fatta circa la rilevanza della sola disciplina vigente, occorre passare a sottolineare che la ricorrente non ha introdotto in giudizio alcuna puntuale deduzione tesa a sostenere la conformità all’attuale disciplina europea dell’affidamento in via diretta di un servizio pubblico, sì da poter avversare la posizione del TAR nel senso che “I principi comunitari impongono l’apertura al mercato e il superamento di tutte le situazioni di affidamento diretto fuori dagli specifici casi di in house providing.”
La parte, al riguardo, si è limitata ad allegare la modesta consistenza economica del proprio servizio, del valore annuale di 12mila euro, che ne farebbe un quid irrilevante dal punto di vista dell’ordinamento comunitario.
Il fatto è che la normativa del comma 21 dell’art. 34 d.l. cit. risulta prescindere dalle soglie di rilevanza comunitaria, per fare invece perno sulla valorizzazione dei principi concorrenziali invalsi nella relativa disciplina guardando ad essi nella loro consistenza intrinseca per la positività dei loro effetti per la vitalità del sistema economico.
La prospettiva legislativa, infatti, è quella di rimettere in discussione assetti concessori preesistenti il più delle volte da tempo cristallizzati per porre nuovamente sul mercato i relativi servizi, e promuovere così dinamiche di sviluppo dell’economia. Sicché da tale angolazione il valore dei singoli affidamenti diventa un elemento di valenza recessiva.
Né può accedersi all’idea che sarebbe il diritto interno a rendere tuttora possibile l’affidamento diretto di un servizio come quello della ricorrente.
L’art. 125 d.lgs. n. 163/2006, richiamato dal comma 26 dell’art. 34 d.l. cit., al suo comma 11 stabilisce quanto segue: “Per servizi o forniture di importo pari o superiore a quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante. Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento.”
L’affidamento della ricorrente non rientra, però, in quest’ultima ipotesi.
Per stabilire, infatti, se si versi in un caso di “servizi o forniture inferiori a quarantamila euro”, occorre fare applicazione dell’art. 29 dello stesso decreto, secondo il quale per gli appalti pubblici di servizi la base di calcolo del valore stimato dell'appalto si identifica, giusta il suo comma 12, considerando: “b.1) se trattasi di appalti di durata determinata pari o inferiore a quarantotto mesi, il valore complessivo stimato per l'intera loro durata;
b.2) se trattasi di appalti di durata indeterminata o superiore a quarantotto mesi, il valore mensile moltiplicato per quarantotto.

Ciò posto, poiché il servizio della EPIS presenta un valore di circa 12mila euro annui, l’applicazione di quest’ultima previsione porta al superamento della soglia dei quarantamila euro di valore.
Ne deriva che anche un affidamento di tal fatta richiede la “previa consultazione di almeno cinque operatori economici”, e pertanto una forma di gara.
6e Le precedenti considerazioni conducono a ritenere, dunque, che l’affidamento diretto di cui la EPIS ha beneficiato rientri nella materia soggetta all’applicazione del menzionato comma 21. Rimangono però da individuare le conseguenze che ciò comporta.
6f A questo riguardo, il Collegio non ha difficoltà a riconoscere che il testo del comma possa risultare a tutta prima ambiguo. Esso riposa su un enigmatico concetto di “adeguamento” alla normativa europea, e la cessazione anticipata degli affidamenti in corso al 31.12.2013 viene costruita dal legislatore come conseguenza del mancato adempimento degli obblighi tesi proprio a tale adeguamento.
E’ vero, in particolare, che il comma non reca una diretta previsione espressa tesa a disporre sic et simpliciter l’anticipata cessazione delle gestioni in atto in forza di affidamenti diretti.
Ciò si spiega, però, per l’ampiezza della prospettiva in cui il legislatore si è mosso, nella consapevolezza che le criticità dei singoli affidamenti concreti rispetto alla normativa europea potessero atteggiarsi di volta in volta in modo diverso, ed essere talora sanabili (ad es., in caso di un irregolare affidamento in house, mediante un adeguato mutamento organizzativo).
Questo non è però certo il caso dell’affidamento concesso senza alcuna gara, in presenza del quale, come ha obiettato la resistente difesa, il Comune, in applicazione del d.l. n. 179/2012, non poteva che disporre la cessazione anticipata del servizio. L’intervento dell’Amministrazione interessata, pur richiesto dal comma 21, in casi simili si traduce, infatti, in un accertamento vincolato, stante l’impraticabilità altrimenti di un “adeguamento” dell’affidamento. E le perentorie prescrizioni del comma sulla necessità di adeguamento entro il termine previsto, nonché sulla cessazione degli affidamenti alla stessa scadenza in caso di mancato adeguamento, confermano la natura vincolata della cessazione anticipata, natura la quale rende in simili casi recessivo il profilo valutativo della “economicità della gestione”, pur previsto in via generale tra le materie suscettibili di disamina in occasione della relazione prevista dal comma 20.
A far definitiva chiarezza sull’appartenenza anche degli affidamenti diretti al campo di applicazione del comma 21 vale la previsione speciale del comma 22, dalla quale si desume, a contrario, che gli affidamenti diretti non rientranti nell’ambito applicativo di quest’ultima norma debbano ricadere nello spettro della precedente.
Che poi il meccanismo delineato dal comma 21 possa e debba sfociare, alle condizioni stabilite, in una cessazione anticipata dell’affidamento risulta testualmente dall’ultimo periodo dello stesso comma. E il dato è ribadito dal posteriore art. 13 del d.l. n. 150/2013, che denota con chiarezza, nel differire i termini fissati dal comma 21, come nella valutazione legislativa le regole del comma stesso postulino, per lo meno nella normalità dei casi, in presenza di difformità dalla normativa europea, l’avvio di una nuova procedura di affidamento.
6g Né la norma nazionale presta il fianco, se così intesa, al dubbio di legittimità costituzionale prospettato dalla ricorrente sotto il profilo della violazione dell’art. 75 della Carta.
Tale dubbio risulta infatti manifestamente infondato.
L’iniziativa referendaria richiamata dalla ricorrente è stata dalla Corte Costituzionale così connotata (sentenza 26.01.2011, n. 24).
Come si è già osservato, l'abrogazione richiesta riguarda una normativa generale … che è diretta sostanzialmente a restringere, rispetto alle regole concorrenziali minime comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. … l'obiettiva ratio del quesito n. 1 va ravvisata … nell'intento di escludere l'applicazione delle norme, contenute nell'art. 23-bis, che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico).”
Tale essendo il proprium dell’iniziativa referendaria, si può quindi rilevare l’estraneità ad esso dello specifico punto della cessazione anticipata ex lege degli affidamenti in corso.
Tale punto, nell’economia complessiva dell’art. 23-bis d.l. n. 112/2008, costituiva solo una premessa servente rispetto all’introduzione delle regole proprie del regime alla cui instaurazione era in concreto collegata e strumentale.
Di riflesso la Consulta, con il suo intervento sfociato nella successiva decisione n. 199/2012, non ha censurato, in se stessa, la possibilità di un simile meccanismo di cessazione degli affidamenti preesistenti, né tantomeno precluso l’impiego legislativo di un analogo meccanismo in correlazione con discipline a regime dall’orientamento diverso, com’è il caso di quella che mette capo all’art. 34 d.l. n. 179/2012.
La questione prospettata si conferma perciò manifestamente infondata.
7 Il terzo mezzo dell’appello reitera la censura dell’omessa comunicazione alla ricorrente dell’avvio del procedimento teso all’elaborazione della relazione prevista dai commi 20-21 dianzi citati, e culminato nella conseguente deliberazione di Giunta.
Il primo Giudice ha disatteso il rilievo in considerazione della natura vincolata dell’attività compiuta dall’Amministrazione. Il TAR ha formulato l’ulteriore notazione che “l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, … in ogni caso non potrebbe condurre all’annullamento della deliberazione giuntale impugnata (e della relazione presupposta), atteso che parte ricorrente non ha evidenziato … alcuno specifico profilo che avrebbe potuto condurre l’Amministrazione a ravvisare l’opportunità di mantenere la concessione in essere. L’art. 21-octies esclude, quindi, l’annullabilità del provvedimento in ragione del suddetto vizio meramente formale.”
La ricorrente contesta le argomentazioni appena riassunte.
Il Collegio, tuttavia, ha avuto modo già in precedenza, nel paragr. 6f, di porre in luce la natura effettivamente vincolata rivestita nel caso concreto dall’applicazione del comma 21 dell’art. 34 d.l. cit.: da qui l’inevitabile rigetto anche di questo mezzo.
8a Con il quarto e ultimo motivo la ricorrente torna a fare riferimento all’elemento del riequilibrio economico-finanziario degli investimenti del concessionario, valorizzato dalle previsioni degli artt. 30 e 143 del d.lgs. n. 163/2006, lamentando che il TAR non le abbia ritenute applicabili alla fattispecie benché il primo di tali articoli richiami il secondo proprio ai fini delle concessioni di servizio pubblico.
I provvedimenti comunali sarebbero pertanto illegittimi anche da questa angolazione, per avere disposto la scadenza anticipata della concessione senza tenere conto della necessità del suddetto riequilibrio, che pure aveva indotto alle proroghe accordate dallo stesso Comune nel tempo.
Il Tribunale, sul punto, ha fatto però già correttamente notare come le norme invocate dalla ricorrente esprimano la necessità di avere riguardo al perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio solo con riferimento alla fase della sua impostazione costitutiva (e questo vale anche per l’art. 143, comma 7, del d.lgs. n. 163/2006, richiamato dall’art. 30, comma 7, della stessa fonte).
Da parte della EPIS non viene dunque offerto alcun elemento che possa indurre a ritenere che una simile esigenza, nel silenzio serbato al riguardo dal comma 21, possa integrare un impedimento all’applicazione del meccanismo di estinzione anticipata delineato dallo stesso comma.
Si rivela pertanto condivisibile la considerazione del primo Giudice che “il mancato raggiungimento dello stesso (n.d.r.: riequilibrio del sinallagma) a causa dell'imminente cessazione del rapporto concessorio, se può rilevare in termini di quantificazione del giusto indennizzo, non può, però, precludere gli effetti voluti dal legislatore, come già evidenziato più sopra.”
Questo anche in coerenza con una conclusione simile che la Sezione ha già raggiunto con la decisione 11.08.2010, n. 5620, in cui occorreva del pari applicare una norma di legge che comportava la cessazione anticipata di un analogo affidamento, ed è stato osservato che quello del recupero degli investimenti non ammortizzati in conseguenza della risoluzione anticipata integrava un aspetto patrimoniale del tutto autonomo, privo di incidenza sulla legittimità della cessazione anticipata.
Come ha osservato la difesa comunale, in altre parole, “ogni esigenza di riequilibrio economico-finanziario risulta nella vicenda in esame assorbita dalla previsione contrattuale dell’indennizzo, la cui quantificazione dovrà tenere conto degli investimenti … non ammortizzati nel periodo pregresso del rapporto gestorio.”
8b Dalla ricorrente viene inoltre nuovamente sottolineata la modesta consistenza economica dell’affidamento in controversia, che ne farebbe un quid irrilevante dal punto di vista dell’ordinamento comunitario. Anche da questo punto di vista emergerebbe l’impossibilità di giustificare la cessazione anticipata della concessione con la sua presunta non conformità all’ordinamento comunitario.
Si è però già esposto nei paragr. 5d e 6d come la tenuità del valore del servizio della EPIS non possa assurgere a motivo di deroga o esimente rispetto alla sua soggezione al più volte citato comma 21: soluzione coerente, del resto, anche con l’interpretazione giurisprudenziale che include l’illuminazione votiva tra i servizi pubblici locali di rilevanza economica anche in presenza di utili irrisori (Sez. V, 23.10.2012, n. 5409).
8c L’appellante riprende anche l’assunto che il proprio affidamento riguarderebbe una concessione di servizi a terzi ai sensi del comma 5 dell’art. 30 d.lgs. n. 163/2006. Questa precisazione definitoria non vale tuttavia in alcun modo a superare le considerazioni che sono state svolte in precedenza, nei paragr. 5b e segg., per illustrare come anche il servizio per cui è causa venga in rilievo quale servizio pubblico locale di rilevanza economica, e come tale sia pertanto soggetto alla disciplina dei più volte citati commi 20-21.
9 Con riferimento, infine, ai contenuti della memoria di discussione di parte ricorrente s’impongono le seguenti osservazioni conclusive.
Occorre ricordare che
la ricorrente ha agito in giudizio al fine di preservare il proprio affidamento nella durata stabilita, ossia fino al 31.05.2030, da proroghe accordatele a fronte degli investimenti da essa effettuati sull’impianto; ha domandato l’accertamento del proprio diritto a mantenere la concessione proprio al fine del riequilibrio economico-finanziario del rapporto; è tornata a lamentare anche in questo grado di giudizio che l’Amministrazione non avrebbe tenuto conto della necessità di assicurare il riequilibrio economico-finanziario degli investimenti del concessionario.
Alla stregua di tanto, la stessa ricorrente non può dunque ora, senza cadere in patente contraddizione, lamentarsi dell’interpretazione data dal TAR ai commi 20-21 dell’art. 34 d.l. cit. sotto l’innovativo profilo che gli indennizzi da corrispondere al concessionario colpito da una cessazione anticipata del rapporto, all’opposto, annullerebbero il rischio operativo voluto in capo al gestore dalla nuova direttiva europea “Concessioni” n. 2014/23/UE, poiché finirebbero per “
attribuirgli oggi ciò che non sarebbe stato sicuro di ottenere domani” (memoria cit., pag. 20).
La Sezione, di conseguenza, non può seguire le sollecitazioni di parte a valorizzare le previsioni di tale direttiva per addivenire a un’interpretazione dei commi più volte citati diversa da quella prescelta.
Oltre tutto, la tematica degli indennizzi da riconoscere alla ricorrente esorbita dalla presente controversia. E questo è già sufficiente a disattendere anche l’ulteriore argomento dell’EPIS per cui l’interpretazione normativa da essa avversata “potrebbe” costituire un aiuto di Stato per la ragione che “alle imprese concessionarie come Epis s.r.l. non verrebbe solo attribuito un indennizzo per l’esproprio degli impianti di illuminazione, ma si dovrebbe necessariamente remunerare l’investimento effettuato nel servizio”. Prospettazione che si presenta, del resto, di ben dubbia conciliabilità con gli interessi della stessa parte.
Ne consegue anche l’insussistenza dei presupposti per rimettere alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il quesito sulla non conformità al diritto europeo dei commi 20-22 dell’art. 34 del d.l. n. 179/2012, così come richiesto dall’appellante nella memoria depositata il 05.06.2015.

APPALTI SERVIZI: La concorrenza va garantita anche sui mezzi da usare. Tar Genova. Limiti alla discrezionalità dell’appaltante.
Vìola i principi di libera concorrenza e parità d’accesso delle imprese il bando di gara che obbliga la ditta esecutrice dell’appalto a utilizzare solo i mezzi estremamente costosi prodotti da un unico fornitore anziché quelli «equivalenti» a prezzi più bassi.
L’ha stabilito il TAR Liguria, Sez. II, nella sentenza 27.08.2015 n. 727, annullando un bando di un servizio comunale di raccolta integrata di rifiuti.
Tra le contestazioni, la ricorrente aggiudicataria riteneva che la gara violasse i dettami del Codice degli appalti pubblici in tema di “specifiche tecniche” (articolo 68, Dlgs n. 163/2006) avendo prescritto l’uso esclusivo di attrezzature robotizzate (presa bilaterale dall’alto) e contenitori speciali venduti, come accertato, da un solo produttore nazionale a prezzi doppi rispetto a quelli di altre tecnologie accessibili sul mercato anche europeo e in grado di svolgere lo stesso servizio.
Accogliendo il ricorso, il Tar ha chiarito che anche se «in generale la stazione appaltante esercita una discrezionalità tecnica nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento di un appalto e più in generale nell’imposizione di specifiche tecniche, tale discrezionalità incontra i limiti di cui all’articolo 68, comma 2, Dlgs 163/2006».
Limiti costituiti «dal rispetto della parità di accesso agli offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli ingiustificati alla concorrenza», posto che tali “specifiche”, in base alle stesse norme (comma 13, articolo 68), «non possono menzionare una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare né far riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti».
Come affermato dal collegio, in tali casi la Pubblica amministrazione appaltante deve «congruamente motivare le ragioni dell’imposizione di simili specifiche tecniche» e non limitarsi, come nel caso in esame, a giustificarla in termini generali «dall’esigenza di operare anche nella strade a senso unico e di riduzione e di ottimizzazione degli spazi di occupazione del suolo pubblico».
In assenza di “idonee” motivazioni della Pa e poiché nella fattispecie si è «dimostrato come la stessa esigenza di razionalizzazione e di ottimizzazione degli spazi potesse essere agevolmente perseguita anche mediante l’utilizzo di altre attrezzature», i giudici hanno quindi annullato il capitolato di gara per aver imposto «condizioni eccessivamente onerose per la formulazione dell’offerta» e concluso come «il prezzo particolarmente elevato dei mezzi e delle attrezzature determina una significativa restrizione delle possibilità concorrenziali» vietata dal Codice appalti
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.09.2015).
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MASSIMA
Alla luce delle evenienze successive allo svolgimento della camera di consiglio il Collegio ritiene che il proprio orientamento debba essere rimeditato.
Occorre premettere che
in generale la stazione appaltante esercita una discrezionalità tecnica nella scelta dei mezzi necessari per lo svolgimento di un appalto e più in generale nell’imposizione di specifiche tecniche. Peraltro tale discrezionalità tecnica incontra i limiti di cui all’art. 68, comma 2, d.lgs. 163/2006 costituiti dal rispetto della parità di accesso agli offerenti e dal divieto di creazione di ostacoli ingiustificati alla concorrenza.
L’imposizione di specifiche tecniche particolarmente gravose e sproporzionate rispetto all’oggetto dell’appalto può risolversi, infatti, in una lesione della concorrenza.

Nella specie è contestato l’art. 35 del capitolato di gara che impone che il servizio sia effettuato mediante l’utilizzo di 650 contenitori a carico bilaterale e due mezzi robotizzati a carico bilaterale con presa verticale dall’alto. Secondo la prospettazione della ricorrente tali modalità sarebbero irragionevoli e lesive della concorrenza in quanto tali attrezzature sono commercializzate in Italia da una unica società la No.En. e avrebbero un costo pressoché doppio rispetto ad analoghe attrezzature a presa bilaterale senza presa verticale dall’alto.
Il motivo è fondato.
La ricorrente ha dimostrato tramite due successive perizie (07.05.2015 e 11.06.2015) che le specifiche imposte dal capitolato, in particolare presa bilaterale dall’alto mediante processo robotizzato, possono essere soddisfatte esclusivamente da un unico produttore presente sul mercato italiano mentre sul mercato europeo sono presenti sistemi che, tuttavia, non consentono la piena robotizzazione del processo ovvero sono ancora a livello prototipale (perizia 07.05.2015).
Tale circostanza, in uno con il prezzo particolarmente elevato dei mezzi e delle attrezzature determina una significativa restrizione delle possibilità concorrenziali.
L’amministrazione, pertanto, avrebbe dovuto congruamente motivare le ragioni dell’imposizione di simili specifiche tecniche.
Le motivazioni rinvenibili a giustificazione di tale scelta sono costituite dall’esigenza di operare anche nella strade a senso unico (art. 35 del capitolato) e dall’esigenza di riduzione e di ottimizzazione degli spazi di occupazione del suolo pubblico (pag. 93 dell’allegato 2 al capitolato speciale di gara).
La prima esigenza non appare idonea ad imporre una così drastica limitazione della concorrenza in assenza di una dimostrazione puntuale dell’impossibilità di una ubicazione dei contenitori tale da rendere gli stessi movimentabili mediante presa laterale.
Quanto alla seconda esigenza la ricorrente ha impugnato gli atti presupposti di approvazione del progetto di esecuzione del servizio e ha dimostrato come la stessa esigenza di razionalizzazione di ottimizzazione degli spazi potesse essere agevolmente perseguita anche mediante l’utilizzo di altre attrezzature (perizia 11.06.2015) e che anzi l’impiego di queste ultime consentirebbe una migliore ottimizzazione degli spazi.
Tali affermazioni non sono state adeguatamente confutate dalla resistente onde possono essere poste a fondamento della decisione.
Pertanto gli atti di gara e i presupposti atti di approvazione del progetto si appalesano affetti quantomeno da un vizio di difetto di motivazione e devono essere annullati.

EDILIZIA PRIVATALa difformità non osta alla sanatoria.
In linea generale la difformità dell'opera dalle previsioni degli strumenti urbanistici non può ritenersi causa ostativa al rilascio della sanatoria. Ciò accade solo qualora la tipologia di utilizzazione dell'immobile che l'intervento ha reso possibile sia incompatibile con le tipologie d'uso ammesse dagli strumenti urbanistici in una determinata zona venendo a compromettere la ripartizione funzionale operata dal p.r.g..

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Toscana con la sentenza 24.08.2015 n. 1182.
Nel caso sottoposto all'attenzione del tribunale amministrativo Tizio aveva presentato al comune un'istanza di sanatoria per la trasformazione di un annesso agricolo in locali destinati a uso residenziale.
Il comune opponeva diniego alla predetta istanza sulla base del presupposto che il regolamento urbanistico prevedrebbe l'ammissibilità del cambio d'uso in zona agricola solo in collegamento con abitazioni preesistenti con ciò presumendo l'esistenza, solo in tal caso, di opere di urbanizzazione.
I giudici amministrativi fiorentini hanno, invece, osservato che il regolamento urbanistico ammetteva che in zona agricola accanto alle attività agricole potessero coesistere civili abitazioni e attività ricettive, mentre poneva dei limiti più stringenti per le destinazioni d'uso di tipo commerciale.
Pertanto in base al predetto strumento urbanistico, la realizzazione, anche mediante mutamento di destinazione d'uso, di una civile abitazione non può considerarsi in contrasto con le destinazioni d'uso ammesse in zona agricola.
E a nulla rileverebbe il fatto che il medesimo regolamento urbanistico preveda che gli annessi agricoli possano essere trasformati in abitazioni solo se facenti parte del resede di unità abitative esistenti.
Tale norma, infatti, detta una disciplina di dettaglio dei singoli interventi e non attiene, invece, alla disciplina tipologica delle destinazioni d'uso ammesse in zona agricola (articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015).
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MASSIMA
I ricorrenti hanno presentato al Comune di S. Giuliano Terme una istanza di sanatoria ex L.R. 53/2004 per la trasformazione di un annesso agricolo in locali destinati ad uso residenziale.
Il comune di S. Giuliano termine ha opposto diniego alla predetta istanza sulla base del presupposto che il regolamento urbanistico prevedrebbe la ammissibilità del cambio d’uso in zona agricola solo in collegamento con abitazioni preesistenti con ciò presumendo l’esistenza, solo in tal caso, di opere di urbanizzazione come da circolare della Regione Toscana n. 1158/2004.
...
Il ricorso è fondato.
L’art. 1, comma 1, della L.R. 53 del 2004 ammette a sanatoria gli interventi sottoposti a concessione edilizia ai sensi della L. R. 52 del 1999 “anche se non conformi agli strumenti urbanistici”.
Il comma 2 del medesimo articolo fra le condizioni ostative al rilascio del condono include anche l’ipotesi in cui l’intervento abusivo sia in contrasto con le destinazioni d’uso ammesse, nella zona interessata, dagli strumenti urbanistici vigenti.
Il combinato disposto delle due norme deve essere interpretato in base al rapporto fra regola ed eccezione.
In linea generale la difformità dell’opera dalle previsioni degli strumenti urbanistici non può ritenersi causa ostativa al rilascio della sanatoria. Ciò accade solo qualora la tipologia di utilizzazione dell’immobile che l’intervento ha reso possibile sia incompatibile con le tipologie d’uso ammesse dagli strumenti urbanistici in una determinata zona venendo a compromettere la ripartizione funzionale operata dal p.r.g..
Nel caso di specie l’art. 27 del regolamento urbanistico del comune di S. Giuliano terme ammette che in zona agricola accanto alle attività agricole possano coesistere civili abitazioni e attività ricettive, mentre pone dei limiti più stringenti per le destinazioni d’uso di tipo commerciale.
Sicché, in base al predetto strumento urbanistico, la realizzazione, anche mediante mutamento di destinazione d‘uso, di una civile abitazione non può considerarsi in contrasto con le destinazioni d’uso ammesse in zona agricola.
A nulla rileva il fatto che il medesimo regolamento urbanistico preveda all’art. 29 che gli annessi agricoli possano essere trasformati in abitazioni solo se facenti parte del resede di unità abitative esistenti.
Tale norma, infatti, detta una disciplina di dettaglio dei singoli interventi e non attiene, invece, alla disciplina tipologica delle destinazioni d’uso ammesse in zona agricola, l’unica che rileva ai sensi dell’art. 1 della L.R. 53 del 2004 per stabilire se la sanatoria può essere o meno rilasciata.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto con assorbimento dei restanti motivi.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAImpugnazione impossibile per gli atti di diffida dell’ente. Giustizia. Manca l’interesse perché l’atto non è direttamente lesivo.
La mera diffida dell’ente pubblico (locale) –nella fattispecie ad eseguire alcuni lavori sulla rete fognaria asservita a un condominio– non essendo atto immediatamente lesivo della sfera giuridica del soggetto intimato non integra l’interesse a ricorrere come invece accade nell’ipotesi, del tutto diversa, dell’ordinanza amministrativa emanata dall’ente.
Così si è pronunciata la V Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 20.08.2015 n. 3955.
La vicenda trae origine dal contenzioso attivato da un condominio che aveva impugnato l’atto dell’ente locale, con il quale gli era stato ordinato di effettuare alcuni lavori necessari a eliminare le infiltrazioni d’acqua presenti nei locali condominiali.
All’esito delle verifiche tecniche disposte nel corso del primo grado si era poi accertato che con ogni probabilità le infiltrazioni erano derivanti da un area più ampia di quella presa in esame e comunque non addebitabili a responsabilità del condominio ricorrente.
Contro la sentenza di primo grado –che aveva accolto il ricorso- ha proposto appello l’ente locale sostenendo l’inammissibilità del ricorso per difetto di lesività dell’atto impugnato, in quanto recante una mera diffida.
La sezione ha invece rimarcato la fondatezza dell’appello proposto, condividendo l’eccezione sollevata dal Comune appellante circa l’inammissibilità del ricorso; così evidenziando una sostanziale differenza, in termini di presupposti per l’azione giudiziale, tra l’impugnazione di una mera diffida (come nel caso in questione) o di un’ordinanza contingibile e urgente.
Nel caso specifico, gli atti del Comune, considerati dal condominio come immediatamente lesivi dell’interesse da tutelare attraverso la proposizione del ricorso, facevano riferimento a un fonogramma da parte degli uffici comunali competenti diretto alla Polizia municipale con cui si intimava di diffidare l’amministratore e i proprietari del condominio a eseguire i lavori di cui sopra e a un successivo verbale con cui la Polizia municipale diffidava il condominio a eseguire le opere.
Sia il primo atto (interno tra uffici amministrativi) sia il secondo, costituente la formale diffida, non sono considerabili come un’ordinanza contingibile ed urgente, tanto più che il primo atto doveva intendersi come atto interno tra due diversi uffici comunque riconducibili al Comune.
La mera diffida non può pertanto essere equiparata all’ordinanza sindacale disciplinata dall’articolo 54 del Testo unico degli enti locali, il quale prevede, tra le competenze del sindaco, anche quella di emanare provvedimenti «contingibili ed urgenti, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Ciò che rileva, pertanto, è la diretta lesività dell’atto, che nella fattispecie non sussiste quanto alla lettera di diffida impugnata. (si veda anche Consiglio di Stato, n. 1206/2015), che peraltro difetta anche dei requisiti di «provenienza e motivazione» (propri dell’ordinanza sindacale) dell’atto impugnato.
Non può soccorrere le ragioni del condominio il mero richiamo all’articolo 54 del Tuel contenuto nell’atto interno tra i due uffici amministrativi, trattandosi di riferimento semmai da intendere in prospettiva prodromica di ulteriori e diverse iniziative dell’ente.
Ne consegue che avverso atti –quali la diffida e l’atto interno ad essa allegato come nella vicenda esaminata– in quanto atti del tutto preliminari (e preparatori di possibili ulteriori atti del Comune) non lesivi della sfera giuridica del soggetto intimato, risulta inammissibile qualunque ricorso giurisdizionale
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.09.2015).
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4 L’appello è fondato.
Merita adesione, infatti, l’eccezione comunale, trascurata dal TAR ma riproposta in questo grado, di inammissibilità dell’originario ricorso del Condominio per difetto di lesività dell’atto impugnato, in quanto recante una mera diffida e non già un’ordinanza contingibile e urgente.
4a Gli atti complessivamente assunti nella vicenda dal Comune di Napoli sono stati a ben vedere due, vale a dire:
- l’atto n. 3056 del 05.06.2003, ossia un fonogramma diretto dal Servizio sicurezza abitativa al Servizio di Polizia municipale, con il quale il primo incaricava il secondo di diffidare amministratore e proprietari del Condominio a eseguire a vista le opere di assicurazione dei dissesti accertati e le verifiche degli impianti idrici e fognari privati;
- il verbale di diffida del successivo 07.06.2003, con il quale la Polizia municipale dava seguito al fonogramma diffidando, appunto, il Condominio a eseguire gli interventi appena detti, e consegnando nell’occasione una copia della precedente nota n. 3056/2003.
4b Per quanto appena detto, la Sezione deve escludere che quest’ultimo atto integrasse un’ordinanza contingibile e urgente.
La nota n. 3056/2003 non era diretta al Condominio, ma aveva quale unico destinatario la Polizia municipale: era, quindi, un semplice atto interno, con il quale i Vigili urbani erano stati incaricati solamente di “diffidare” il Condominio a eseguire le opere e verifiche indicate. E la Polizia municipale, dal canto suo, si è limitata a dare seguito alla richiesta pervenutale dal Servizio sicurezza abitativa, formulando la diffida in conformità allo schema ricevuto.
4c
Risulta pertanto fondata l’eccezione con la quale la difesa comunale ha fatto notare che il ricorso proposto in primo grado dal Condominio non era stato esperito avverso un’ordinanza sindacale assunta ai sensi dell’art. 54 T.U.EE.LL., bensì contro una mera diffida a eseguire le opere di assicurazione ritenute necessarie, e perciò contro un atto non lesivo (cfr. da ultimo C.d.S., IV, 10.03.2015, n. 1206).
Il ricorso del Condominio a base di tutti i propri motivi poneva l’erronea qualificazione come “ordinanza contingibile e urgente” della nota n. 3056, che si è però appena visto costituire solo un atto interno (del resto, dagli stessi motivi dell’originario gravame si desumeva che la nota non possedeva, dell’ordinanza extra ordinem, né la provenienza, né la motivazione).
Se è vero, inoltre, che la nota n. 3056 recava un riferimento all’art. 54 T.U. cit., non è meno vero, tuttavia, che tale richiamo, per il contesto in cui s’inquadrava, si giustificava unicamente in una prospettiva prodromica, dal momento che la diffida in questione aveva, appunto, una valenza (soltanto) preparatoria rispetto ad una futura ed eventuale ordinanza contingibile e urgente.
Per quanto precede, l’impugnativa condominiale aveva dunque complessivamente investito atti di natura soltanto preliminare rispetto alla successiva ordinanza sindacale, aventi quale scopo quello di promuovere un adempimento spontaneo del diffidato, mediante la rimozione da parte sua delle cause del pericolo emerso.
L’atto impugnato non era allora immediatamente lesivo della sfera giuridica del Condominio, in quanto integrava un mero atto preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto all’adozione della successiva ordinanza contingibile e urgente, la quale sarebbe seguita solo in caso d’inosservanza spontanea della diffida.
Né si può ovviare alla carenza del requisito della lesività dell’atto impugnato richiamandosi, come ha fatto la difesa condominiale, alla piena possibilità di un interesse a ricorrere anche solo di tipo strumentale. Anche la mera utilità consistente nel “rimettere in discussione” il rapporto controverso in vista di un nuovo esercizio del potere amministrativo presuppone, infatti, che in origine un atto amministrativo lesivo sia stato emesso, e vale unicamente a denotare che il relativo annullamento giurisdizionale non deve necessariamente essere subito satisfattivo del bene della vita perseguito da chi ricorre.
4d Stante la mancanza di lesività dell’atto impugnato il ricorso di primo grado risulta, quindi, integralmente inammissibile. Conseguentemente non vi è ragione per esaminare i motivi assorbiti dal primo giudice, riproposti dal Condominio appellato.
5 Per le ragioni esposte l’appello deve essere accolto, in virtù della fondatezza del suo primo, assorbente mezzo.
Il ricorso di primo grado va pertanto dichiarato inammissibile.

LAVORI PUBBLICIProgettista, non contraente. Il principio ribadito dal Tar Piemonte.
Negli appalti integrati di lavori, i progettisti indicati non assumono la qualità di concorrenti (poi contraenti) e non sono tenuti alla dimostrazione dei requisiti e agli adempimenti prescritti dalla normativa vigente per i raggruppamenti temporanei.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Piemonte, con la sentenza 14.08.2015 n. 1335.
Nella medesima sentenza in commento, i giudici amministrativi torinesi hanno poi citato una recentissima determinazione dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac, determinazione 08.01.2015 n. 1) secondo cui: «( ) l'obbligo dichiarativo in ordine alle quote di partecipazione al Rti non sussiste più per i servizi e le forniture ma permane esclusivamente per i lavori, in forza del novellato art. 92 del decreto del presidente della repubblica n. 207/2010 (così come modificato dall'art. 12, comma 9, della legge da ultimo citata). L'omissione di tale tipo di dichiarazione o eventuali carenze e/o incompletezza della stessa si ritiene che possano essere sanate, dietro pagamento della prevista sanzione».
Pertanto, per i raggruppamenti temporanei, l'omessa indicazione delle quote di partecipazione ed esecuzione risulta ormai sanabile, sulla base di quanto previsto dagli artt. 38 e 46 del codice (nel testo successivo alle modifiche apportate dal dl n. 90 del 2014, temporalmente applicabile al procedimento in esame).
E secondo il tribunale amministrativo piemontese anche per i raggruppamenti temporanei non ancora costituiti, deve giungersi a uguale conclusione, ma come è ovvio nell'ipotesi di omessa allegazione dell'atto di impegno di cui all'art. 37, ottavo comma, del codice.
Si tratta, infatti, sottolineano i giudici, «di dichiarazione “essenziale” prescritta da una specifica norma di legge che, proprio come tale, rientra nell'ampio spettro delle incompletezze documentali suscettibili di sanatoria con le modalità stabilite dall'art. 46, comma 1-ter, del Codice» (articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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2.1. Con il primo motivo, la società ricorrente afferma che all’aggiudicataria sarebbe stato illegittimamente concesso di integrare talune dichiarazioni essenziali, con il pagamento della sanzione pecuniaria prevista dagli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del Codice dei contratti pubblici.
In particolare, il soccorso istruttorio avrebbe consentito di regolarizzare la posizione del raggruppamento di professionisti indicati dall’a.t.i. C.S. Costruzioni s.r.l. per l’attività di progettazione, per il quale non erano stati prodotti l’atto di impegno a conferire mandato collettivo speciale al capogruppo e la dichiarazione delle parti di prestazioni che ciascun professionista associato avrebbe eseguito.
Il motivo è infondato.
Per i raggruppamenti temporanei, l’omessa indicazione delle quote di partecipazione ed esecuzione risulta ormai sanabile, sulla base di quanto previsto dagli artt. 38 e 46 del Codice (nel testo successivo alle modifiche apportate dal d.l. n. 90 del 2014, temporalmente applicabile al procedimento in esame).
In questo senso si è già espressa l’Autorità nazionale anticorruzione, affermando: “
(…) Allo stato attuale, tenuto conto sia delle modifiche introdotte al comma 13 del citato art. 37, ad opera del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135 -che aveva limitato ai soli lavori la corrispondenza tra la quota di partecipazione al RTI e la quota di esecuzione- ma soprattutto dell’intervenuta abrogazione dell’intero comma, ad opera del decreto-legge 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.05.2014, n. 80, le indicazioni sopra richiamate devono ritenersi in parte superate. Infatti, l’obbligo dichiarativo in ordine alle quote di partecipazione al RTI non sussiste più per i servizi e le forniture ma permane esclusivamente per i lavori, in forza del novellato art. 92 del decreto del Presidente della Repubblica n. 207/2010 (così come modificato dall’art. 12, comma 9, della legge da ultimo citata). L’omissione di tale tipo di dichiarazione o eventuali carenze e/o incompletezza della stessa si ritiene che possano essere sanate, dietro pagamento della prevista sanzione” (cfr. Anac, determinazione 08.01.2015 n. 1).
Ad uguale conclusione deve giungersi, per i raggruppamenti temporanei non ancora costituiti, nell’ipotesi di omessa allegazione dell’atto di impegno di cui all’art. 37, ottavo comma, del Codice. Si tratta, infatti, di dichiarazione “essenziale” prescritta da una specifica norma di legge che, proprio come tale, rientra nell’ampio spettro delle incompletezze documentali suscettibili di sanatoria con le modalità stabilite dall’art. 46, comma 1-ter, del Codice.
2.2. E’ infondato anche il secondo motivo, con cui la ricorrente lamenta che il raggruppamento di progettisti indicato dall’aggiudicataria non avrebbe i requisiti di capacità previsti dall’art. 12.2 del disciplinare di gara. A suo dire: il capogruppo ing. To. non possiederebbe in misura maggioritaria i requisiti attinenti al “fatturato”, ai “servizi” ed al “personale”; il mandante ing. Be. non concorrerebbe in alcun modo al requisito dei “servizi”.
Ciò integrerebbe la violazione della lex specialis di gara e del principio sancito, per i raggruppamenti temporanei di professionisti, dall’art. 261, settimo comma, del d.P.R. n. 207 del 2010, per il quale il mandatario possiede in ogni caso i requisiti di qualificazione in misura percentuale superiore rispetto a ciascun mandante.
In contrario, deve convenirsi con le argomentazioni difensive di S.C.R. e della controinteressata.
L’art. 261 del Regolamento e tutte le restanti disposizioni invocate dalla ricorrente si riferiscono ai soggetti che presentano l’offerta in associazione temporanea e che assumono la qualifica di concorrenti (prima) e di contraenti (poi, in caso di aggiudicazione) con la stazione appaltante.
Nella specie, l’a.t.i. costituenda è formata dalla C.S. Costruzioni s.r.l. (capogruppo) e dalla C.I.E.T. Impianti s.r.l. (mandante).
Il raggruppamento di professionisti è stato invece indicato per l’attività di progettazione, a norma dell’art. 53, terzo comma, del Codice, senza entrare a comporre l’a.t.i. aggiudicataria. Secondo la norma richiamata,
quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione “gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per i progettisti, secondo quanto previsto dal capo IV del presente titolo (progettazione e concorsi di progettazione), e l’ammontare delle spese di progettazione comprese nell’importo a base del contratto”.
Negli appalti integrati di lavori, i progettisti indicati non assumono la qualità di concorrenti (poi contraenti) e non sono tenuti alla dimostrazione dei requisiti ed agli adempimenti prescritti dalla normativa vigente per i raggruppamenti temporanei (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 04.06.2015 n. 2737; Id., sez. IV, 19.03.2015 n. 1425; Id., sez. VI, 21.05.2014 n. 2622; Avcp, determinazione 15.01.2014 n. 1; Id., parere 22.05.2013 n. 91).
Le regole sulla conformazione interna dei raggruppamenti e sulla qualificazione in misura maggioritaria del progettista capogruppo, ai sensi dell’art. 261, settimo comma, del Regolamento, risultano direttamente applicabili soltanto ai veri e propri raggruppamenti temporanei di progettisti e non possono essere estese in modo cogente alle ipotesi in cui la concorrente si avvalga, per l’appalto integrato, di uno staff di progettisti indicati in sede di offerta, ai quali non può imporsi il rispetto di determinate forme organizzative (cfr. su questione analoga: Cons. Stato, sez. VI, 14.07.2014 n. 3663).
Ciò perché la ratio del precetto risiede nell’esigenza di assicurare all’amministrazione che il soggetto capogruppo del raggruppamento temporaneo contraente sia, in concreto, quello più qualificato in rapporto all’oggetto dell’appalto.

EDILIZIA PRIVATAIl versamento di oneri di urbanizzazione riferibile ad opere assentite ma non realizzate diventa rimborsabile nel momento in cui matura la certezza che le opere stesse non saranno più realizzate e si può concordare sul fatto che, in linea di principio, in mancanza di un espresso atto di rinuncia alla realizzazione delle opere da parte dell’interessato, tale momento si può e si deve far coincidere con la scadenza del termine di efficacia del titolo edilizio -dovendosi in tal caso qualificare l’eventuale richiesta di rinnovo del titolo, presentata dopo la scadenza di esso, quale atto giuridico che fa rivivere l’obbligo del pagamento degli oneri di urbanizzazione e che pertanto legittima l’amministrazione comunale a ritenere quelli già percepiti e riferibili alle opere assentite (nuovamente) in sede di rinnovo del titolo edilizio.
Anche in giurisprudenza è già stato affermato che il diritto al rimborso di oneri di urbanizzazione versati in relazione ad opere mai iniziate può essere fatto valere dalla scadenza del termine annuale entro il quale i lavori devono avere inizio, e tale affermazione deve appunto correlarsi al principio per cui il mancato inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire comporta la perdita di efficacia del medesimo.
Mutatis mutandis alla medesima conclusione si deve pervenire laddove le opere, benché iniziate tempestivamente, non siano ultimate entro il triennio.

17.1.4. Si deve a questo punto rilevare che il versamento di oneri di urbanizzazione riferibile ad opere assentite ma non realizzate diventa rimborsabile nel momento in cui matura la certezza che le opere stesse non saranno più realizzate e si può concordare sul fatto che, in linea di principio, in mancanza di un espresso atto di rinuncia alla realizzazione delle opere da parte dell’interessato, tale momento si può e si deve far coincidere con la scadenza del termine di efficacia del titolo edilizio -dovendosi in tal caso qualificare l’eventuale richiesta di rinnovo del titolo, presentata dopo la scadenza di esso, quale atto giuridico che fa rivivere l’obbligo del pagamento degli oneri di urbanizzazione e che pertanto legittima l’amministrazione comunale a ritenere quelli già percepiti e riferibili alle opere assentite (nuovamente) in sede di rinnovo del titolo edilizio-: anche in giurisprudenza è già stato affermato che il diritto al rimborso di oneri di urbanizzazione versati in relazione ad opere mai iniziate può essere fatto valere dalla scadenza del termine annuale entro il quale i lavori devono avere inizio (TAR Bologna, sez. II, n. 489/2013), e tale affermazione deve appunto correlarsi al principio per cui il mancato inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso di costruire comporta la perdita di efficacia del medesimo.
Mutatis mutandis alla medesima conclusione si deve pervenire laddove le opere, benché iniziate tempestivamente, non siano ultimate entro il triennio (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 14.08.2015 n. 1327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Fabbricati D, rendite retroattive. Vale la richiesta di accatastamento e non l'attribuzione. Un sentenza della Corte di cassazione sul calcolo dell'Ici. Stessa regola per Imu e Tasi.
Per i fabbricati delle imprese, l'Ici deve essere calcolata sul valore risultante dalle scritture contabili fino alla richiesta di accatastamento e non già fino all'attribuzione della rendita catastale. Dal momento in cui viene presentata l'istanza, il titolare del fabbricato ha diritto a quantificare l'imposta sul valore catastale e se ha pagato più del dovuto in base al valore contabile ha diritto al rimborso. La stessa regola vale per l'Imu e Tasi.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 12.08.2015 n. 16742.
Le imprese, dunque, devono pagare l'Ici sul valore contabile fino alla richiesta di accatastamento dei fabbricati iscritti nella categoria «D» e non fino all'attribuzione della rendita catastale. Quindi, durante il periodo che va dall'istanza di accatastamento all'emanazione del provvedimento attributivo della rendita catastale, se l'impresa ha pagato più del dovuto ha diritto al rimborso dell'imposta.
Con la pronuncia in esame i giudici di legittimità ribadiscono il principio in base al quale il metodo di determinazione della base imponibile collegato alle iscrizioni contabili per i fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, fino all'anno nel quale i medesimi sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, «vale sino a che la richiesta di attribuzione della rendita non viene formulata, mentre, dal momento in cui fa la richiesta, il proprietario, pur applicando ormai in via precaria il metodo contabile, diventa titolare di una situazione giuridica nuova derivante dall'adesione al sistema generale della rendita catastale, sicché può essere tenuto a pagare una somma maggiore (ove intervenga un accertamento in tali sensi), o avere diritto di pagare una somma minore, potendo, quindi, chiedere il relativo rimborso nei termini di legge».
La rendita catastale retroagisce ai fini del calcolo dell'Ici, ma lo stesso vale per Imu e Tasi, alla data dell'istanza di accatastamento.
L'orientamento della giurisprudenza. In passato non era stata univoca la posizione della giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, sugli effetti che produce la rendita catastale. E cioè se una volta attribuita ai fabbricati di categoria D avesse carattere costitutivo o dichiarativo, e quindi retroattivo.
Ormai da diversi anni si è formato sulla materia un consolidato orientamento della Cassazione, la quale ha fissato la regola che il provvedimento di attribuzione della rendita catastale ha natura dichiarativa e non costitutiva, con efficacia retroattiva e applicazione anche ai periodi precedenti, fino all'epoca della presentazione dell'istanza di accatastamento.
È stato, infatti, riconosciuto il diritto a richiedere il rimborso dell'imposta versata sulla base delle scritture contabili, sin dal momento in cui i contribuenti hanno fatto l'istanza di accatastamento. Sulla questione sono intervenute anche le sezioni unite (sent. 3160/2011).
I giudici di piazza Cavour hanno ritenuto che dalla data della richiesta di accatastamento da parte del proprietario la base imponibile dell'immobile deve essere determinata attraverso la capitalizzazione della rendita attribuita e se questa comporta un esborso del tributo inferiore a quello calcolato sul valore contabile, sorge per il proprietario-contribuente il diritto a ottenere il rimborso di quanto versato in eccesso entro il termine di decadenza quinquennale fissato dalla legge.
Per i fabbricati posseduti delle imprese classificabili nella categoria D, infatti, l'imposta si paga sul valore contabile, fino a quando non viene richiesto l'accatastamento, e la base imponibile è costituita dai costi di acquisizione e incrementativi contabilizzati, ai quali vanno applicati dei coefficienti stabiliti annualmente con decreto del ministro delle finanze. Le regole su questi immobili, a destinazione speciale, sono contenute nell'art. 5, c. 3, del dlgs 504/1992.
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Rilevano anche i macchinari imbullonati.
Anche i macchinari imbullonati concorrono alla determinazione della rendita per i fabbricati iscritti nel gruppo catastale «D».
Lo ha stabilito la Sez. tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza 18.02.2015 n. 3166, che ha richiamato le disposizioni contenute nella legge di stabilità 2015 (190/2014) sui criteri di calcolo della rendita catastale degli immobili a destinazione industriale.
Nella stima rientrano il carroponte e tutte le componenti impiantistiche che assicurano all'unità immobiliare un'autonomia funzionale e reddituale. Quindi, di fatto, anche i macchinari sono soggetti a imposizione fiscale e al pagamento di Ici, Imu e Tasi.
Secondo la Cassazione, in virtù della combinazione della normativa fiscale e di quella codicistica, tutte le componenti che contribuiscono in via ordinaria ad assicurare a un immobile una specifica autonomia funzionale e reddituale, stabile nel tempo, sono da considerare elementi idonei a descrivere l'unità stessa e incidono sulla quantificazione della relativa rendita catastale.
Ciò trova conferma anche nella norma d'interpretazione autentica contenuta nell'articolo 1, comma 244, della legge 190/2014. Concorrono, dunque, alla determinazione della rendita catastale un complesso di elementi, ritenuti funzionalmente collegati, costituiti da impianti, macchine, generatori di corrente e relativi motori.
Con il recente intervento normativo, che proprio in questi giorni viene messo in discussione, il legislatore ha indicato le modalità tecnico-estimative per la determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari destinate alle attività industriali. Il citato articolo 1, comma 244, ha stabilito, dopo un acceso dibattito politico sul riconoscimento dell'esenzione Imu per queste tipologie di immobili, che nelle more dell'attuazione delle disposizioni relative alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, l'articolo 10 del regio decreto legge 652/1939 si applica in base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con la circolare 6/2012.
Con questa circolare sono state dettate le linee guida per individuare e valutare le componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale. Tuttavia, per l'Agenzia gli impianti che devono essere valutati per il calcolo della rendita hanno carattere esemplificativo, poiché gli immobili a uso produttivo sono caratterizzati da una costante evoluzione tipologica e tecnologica (articolo ItaliaOggi Sette del 07.09.2015).

APPALTI: No passoe, no multa. Per malfunzionamento informatico.
La mancata produzione del «passoe» in una procedura di appalto pubblico non costituisce una carenza documentale essenziale assoggettabile sanzioni.

È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 07.08.2015 n. 10753 che prende in considerazione gli effetti della mancata produzione in fase di gara del cosiddetto «passoe», previsto nell'ambito della procedura di verifica dei requisiti nelle gare di appalto pubbliche di cui al sistema Avcpass gestito dall'Autorità nazionale anticorruzione.
La materia è disciplinata dall' articolo 6-bis, comma 1, del codice dei contratti pubblici il quale, dal 01.01.2013, impone alle stazioni appaltanti di effettuare la verifica sul possesso dei requisiti «esclusivamente» tramite la Bdncp e il sistema Avcpass che negli anni scorsi l'Autorità ha messo a punto.
Si tratta di un sistema informatico che permette alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori di accedere, attraverso un'interfaccia web e le cooperazioni applicative con gli enti certificanti, ai documenti posti a comprova delle dichiarazioni fornite dai concorrenti. Nel caso specifico si era però verificato un malfunzionamento del sistema, cosa non infrequente, che aveva determinato la mancata produzione del «passoe» da parte di un concorrente.
I giudici affermano che il sistema si sostanzia in una «liberatoria ai fini della privacy» e che, in caso di impossibilità a generare il «passoe», si può ragionevolmente ritenere che si tratta di una carenza documentale «indispensabile» ai fini della verifica del requisito, ma non «essenziale» (quindi non soggetta ad alcuna sanzione)».
Nel caso esaminato dal Tar, peraltro, in base alla lex specialis, non rientrava, tra i documenti richiesti ai concorrenti per comprovare il possesso dei criteri di partecipazione alla gara, anche il «passoe». Il disciplinare, infatti, ha imposto a pena di esclusione soltanto la produzione delle consuete dichiarazioni ex dpr 445/2000 e dei documenti richiesti dagli articoli 38 e seguenti del codice dei contratti pubblici.
Ma, se il sistema Avcpass non funziona, la stazione appaltante non può escludere il concorrente o applicare le sanzioni previste dal meccanismo del cosiddetto «soccorso istruttorio» (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).
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Il ricorso è fondato e va accolto.
1). Con il primo motivo l’istante richiama l’art. 6-bis, comma 1, DLGS 163/2006, e sostiene che ha prodotto l’intera documentazione comprovante i requisiti secondo le precise modalità prescritte dal disciplinare a pena di esclusione (artt. 6 e 8) tra le quali non rientra il PASSOE; dunque, è illegittima l’esclusione dalla gara per il mancato invio fuori termine del PASSOE.
2). Con il secondo motivo si lamenta che l’allegazione del PASSOE non era imposta dalla lex specialis di gara ma risulta il frutto di una postuma integrazione della stessa lex specialis ad opera della Commissione.
3). Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, altresì, che la Commissione ha censurato l’inoltro del documento (quanto alle due consorziate del CNS) oltre il termine del 21.12.2014 fissato dalla stessa Commissione e qualificato come perentorio.
Nella specie, l’ultimo documento PASSOE è stato trasmesso dal CNS il 21.01.2015 e la richiesta dello stesso è del 05.12.2014.
4). Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, si precisa che la richiesta del PASSOE anche per le due consorziate non è di per sé legittima in quanto la produzione dello stesso documento ad opera del Consorzio CNS deve ritenersi esaustiva. Si richiama, sul punto, il disciplinare di gara all’art. 6 che prevede che: in caso di raggruppamento di concorrenti, i requisiti di cui ai precedenti 1 e 2 devono ritenersi posseduti almeno dalla mandataria ovvero dal consorzio o dall’impresa consorziata.
I). Occorre, in via preliminare, richiamare la normativa in materia.
L’art. 6-bis, comma 1, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 dispone che, dal 01.01.2013, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal Codice sia acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (di seguito “BDNCP”), istituita presso l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici.
Lo stesso articolo, al comma 3, primo periodo del Codice prevede che la verifica sia effettuata esclusivamente tramite la BDNCP.
Allo stesso comma, secondo periodo, del Codice si stabilisce che -ove la disciplina di gara richieda il possesso di requisiti economico-finanziari o tecnico-organizzativi diversi da quelli di cui è prevista l'inclusione nella BDNCP- il possesso di tali requisiti è verificato mediante l'applicazione delle disposizioni previste dal Codice e dal DPR n. 207/2010.
II). Tanto premesso, nel merito il ricorso è fondato.
In linea generale, si rammenta che
il PASSOE si sostanzia in una liberatoria ai fini della privacy, che permette alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori di utilizzare il sistema per accedere, attraverso un'interfaccia web e le cooperazioni applicative con gli enti certificanti, ai documenti posti a comprova delle dichiarazioni del concorrente.
Tuttavia,
nella gara sottoposta all’attenzione del Collegio, sono emersi dei malfunzionamenti del sistema e la conseguente impossibilità di ottenere il PASSOE.
Al riguardo, si può ragionevolmente ritenere che si tratta di una carenza documentale “indispensabile” ai fini della verifica del requisito, ma non “essenziale” (quindi non soggetta ad alcuna sanzione).

Il Comune –in relazione alla cronologia dei fatti- chiarisce che :
   a). in data 01.12.2014, come da verbale n. 1, emergeva l’assenza dei riferimenti alla procedura AVCPASS per la verifica dei requisiti dei partecipanti ex art. 6-bis DLGS 163/2006;
   b). la Commissione deliberava di assegnare a tutti i partecipanti un termine perentorio di giorni 15 per la presentazione della suindicata documentazione; a pena di esclusione;
   c). in data 04.12.2014, come da verbale n. 2, veniva comunicato a tutti i partecipanti come fosse emersa la presenza di una unica registrazione di PASSOE a fronte delle sette offerte pervenute;
   d). in data 09.12.2014 la stazione appaltante comunicava a tutti i partecipanti la richiesta del PASSOE da acquisire presso l’AVCP;
   e). in data 23.12.2014, come da verbale n. 3, la Commissione rendeva noto ai presenti che -entro il termine perentorio (21.12.2014)- erano pervenute le richieste documentazioni; veniva però evidenziata la mancata produzione del documento da parte delle consorziate esecutrici della costituenda RTI CNS del servizio nella misura del 50% cadauna della consorziata COOP Cooplat e della COOP 29 giugno.
Il Collegio condivide le argomentazioni del ricorso:
   a). sono condivisibili il primo e secondo motivo di doglianza in quanto, in base alla lex specialis, non rientra –tra i documenti richiesti ai concorrenti per comprovare il possesso dei criteri di partecipazione alla gara– anche il PASSOE.
Il disciplinare, infatti, ha imposto a pena di esclusione soltanto la produzione delle consuete dichiarazioni ex DPR 445/2000 e dei documenti richiesti dagli artt. 38 e ss. DLGS 163/2006;
   b). è poi condivisibile il quarto motivo di ricorso.
Come sostenuto dalla ricorrente la produzione del PASSOE ad opera del Consorzio CNS (oltre che della mandante Paoletti) deve ritenersi esaustiva senza che al riguardo possa opporsi la necessità del PASSOE anche per le due consorziate del CNS (COOP Cooplat e della COOP 29 giugno);
   c). nella legge (cfr., citato art. 6-bis) e nel bando <non> è detto che spetta ai concorrenti l’onere di produzione del PASSOE a pena di esclusione dalla gara;
   d). si condivide, infine, anche il terzo motivo di ricorso circa la non ragionevole imposizione di un termine perentorio.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, sono annullati gli atti impugnati.
Deve essere invece respinta la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance in quanto –nelle more del presente giudizio– il Comune di Cerveteri ha comunque riammesso l’istante alla gara in oggetto.

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio osserva che è pienamente condivisibile il generale principio secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, debbano essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, poiché il manufatto precario (es.: gazebo o chiosco) non sarebbe più deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma sarebbe destinato ad utilizzo che viene reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Tale principio generale, al quale si conforma la giurisprudenza, non può essere tuttavia pedissequamente applicato in presenza di normativa speciale e derogatoria di rango regionale che, in relazione a specifiche esigenze del territorio, in modo non irragionevole né illegittimo, sotto il profilo del riparto di competenze legislative (né, invero, ciò ha sostenuto il primo giudice), ha ritenuto di esentare dalla necessità del titolo edilizio i manufatti precari rientranti nelle dette classificazioni.
La possibilità che la normativa regionale nella detta materia preveda un regime più permissivo di quello previsto dal legislatore nazionale, con possibile esenzione dal titolo edilizio, è agevolmente riscontrabile, anche nella giurisprudenza di questo Consesso.
La collocazione di strutture mobili sarebbe, in astratto, definibile come “nuova costruzione” ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U. edilizio); la disposizione specifica dettagliatamente le caratteristiche dell’intervento, qualificabile come nuova costruzione, con riferimento, al punto e.5), alla installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Tale disposizione, tuttavia, in relazione ai c.d. preingressi, come sopra descritti, va coordinata con le disposizioni regionali che, per le peculiari esigenze di un’area destinata a campeggio o “strutture ricettive all’aria aperta” prevedano regole differenti, anche più favorevoli.
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Nella fattispecie in esame, è da escludere l’abuso edilizio –essendo a monte esclusa la necessità di acquisire il titolo abilitativo edilizio sotto forma di concessione o autorizzazione per i preingressi– per i manufatti come indicati dalla legge regionale (e dalla legge regionale successiva e dal regolamento attuativo).
Né può costituire valido argomento in contrario la valutazione di “permanenza” e non precarietà di opere come i c.d. preingressi, seppure utilizzate soltanto in un periodo stagionale (da aprile a settembre o comunque durante le vacanze estive), in quanto la legge regionale non pretende in modo letterale (e ciò sarebbe in vero irragionevole e dispendioso) che tali opere siano rimosse ogni volta per essere successivamente reinstallate.
Sotto tale profilo, rileva l’accertamento, in punto di fatto, della corrispondenza del manufatto a quanto previsto e consentito dalla legge regionale come attività libera, della precarietà strutturale del manufatto, della rimovibilità della struttura, dell’assenza di opere murarie.
Naturalmente, quindi, è fatta salva l’attività di vigilanza dell’amministrazione comunale, in relazione alla circostanza che le opere in questione, e in particolare i preingressi, rientrino pienamente nelle previsioni della legge regionale e non si concretino in qualcosa di diverso (per esempio, reali nuove costruzioni, strutture permanenti o di materiale diverso).

L’appello è fondato.
L’art. 5 della legge regionale 04.03.1982 n. 11, sotto la vigenza della quale, in modo incontestato, sono stati realizzati i manufatti e le opere in questione, prevede che essi non siano soggetti a concessioni o autorizzazioni edilizie.
Il comma 3 di tale articolo prevede che “Sono parchi per vacanze le aziende organizzate per la sosta e il soggiorno di turisti provviste di tende, caravan o altri mezzi autonomi di pernottamento che siano trasportabili dal turista per via ordinaria senza ricorrere a trasporto eccezionale, in cui l’occupazione delle piazzole con detti mezzi –consentita per periodi limitati, comunque non superiore al periodo annuale di apertura del complesso ricettivo e resa a fronte di corrispettivi forfettari– prescinde dalla continua effettiva presenza degli ospiti, purchè detti esercizi posseggano i requisiti indicati nelle Tabelle A e D dell’allegato”.
Il comma 4 prevede che “I mezzi autonomi e mobili di pernottamento di cui ai commi precedenti possono essere dotati di preingressi, funzionali all’utilizzo dei mezzi stessi e non indipendenti, realizzati in legno, plastica, laminato metallico ed altri materiali similari ed aventi caratteristiche di mobilità. I preingressi (questa è la disposizione rilevante ai fini del decidere), data la loro funzione e le loro caratteristiche, non sono soggetti a concessioni o autorizzazioni edilizie”.
La detta disciplina speciale e derogatoria, che esenta dal titolo edilizio la installazione dei preingressi se collocati all’interno di strutture ricettive all’aria aperta a servizio di caravan, roulottes ed altri mezzi simili di pernottamento, è stata confermata dalla disciplina successiva, operata dalla legge regionale 07.02.2008, n. 2 e dal relativo regolamento attuativo n. 1 del 21.02.2012.
L’art. 16, comma 2, della l.r. 2 del 2008 precisa che “gli allestimenti di cui al comma 1), lettere b) (case mobili aventi le caratteristiche individuate dal Regolamento) e c) ( manufatti realizzati con sistemi di prefabbricazione in materiali vari, aventi le caratteristiche individuate nel Regolamento stesso) non sono soggetti a titolo edilizio”.
L’art. 14, comma 2, del Regolamento attuativo precisa ulteriormente che tali manufatti non costituiscono volumi in termini edilizi e come tali l’installazione o la riqualificazione/adeguamento degli stessi non è soggetta al rilascio di titolo edilizio e al rispetto dei parametri urbanistico-edilizi.
L’art. 15 del regolamento, nello specificare le caratteristiche di tali strutture, le definisce come i preingressi (da mantenere) abbinati ai caravan funzionali all’utilizzo dei mezzi stessi e non indipendenti realizzati in materiale tessile o PVC non rigido, in legno, plastica, laminato metallico ed altri materiali similari.
L’art. 71, recante la normativa transitoria, specifica nuovamente che la installazione degli allestimenti di cui al comma 2 (caravan, preingressi, piazzole delle strutture, case mobili e manufatti realizzati con sistemi di prefabbricazione in materiali vari) non è soggetta al rilascio di titolo edilizio.
Il giudice di primo grado, con un ragionamento logico non condivisibile nella sua attuazione pratica, ha ritenuto che tale normativa eccezionale, derogatoria di un principio generale della legislazione statale, debba essere interpretato in modo restrittivo e pertanto non possa attagliarsi alla situazione di fatto, nella quale tali strutture in particolare i c.d. preingressi, occupano stabilmente le piazzole, anche se essi siano utilizzati in modo stagionale.
Il Collegio osserva che è pienamente condivisibile il generale principio secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, debbano essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, poiché il manufatto precario (es.: gazebo o chiosco) non sarebbe più deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma sarebbe destinato ad utilizzo che viene reiterato nel tempo in quanto stagionale (così, tra varie, Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842).
Tale principio generale, al quale si conforma la giurisprudenza, non può essere tuttavia pedissequamente applicato in presenza di normativa speciale e derogatoria di rango regionale che, in relazione a specifiche esigenze del territorio, in modo non irragionevole né illegittimo, sotto il profilo del riparto di competenze legislative (né, invero, ciò ha sostenuto il primo giudice), ha ritenuto di esentare dalla necessità del titolo edilizio i manufatti precari rientranti nelle dette classificazioni.
La possibilità che la normativa regionale nella detta materia preveda un regime più permissivo di quello previsto dal legislatore nazionale, con possibile esenzione dal titolo edilizio, è agevolmente riscontrabile, anche nella giurisprudenza di questo Consesso (tra varie, Cons. Stato, VI, 05.04.2013, n. 1885).
La collocazione di strutture mobili sarebbe, in astratto, definibile come “nuova costruzione” ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U. edilizio); la disposizione specifica dettagliatamente le caratteristiche dell’intervento, qualificabile come nuova costruzione, con riferimento, al punto e.5), alla installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Tale disposizione, tuttavia, in relazione ai c.d. preingressi, come sopra descritti, va coordinata con le disposizioni regionali che, per le peculiari esigenze di un’area destinata a campeggio o “strutture ricettive all’aria aperta” prevedano regole differenti, anche più favorevoli (nel caso del precedente della Sezione, n. 1885 del 2013 citato, legge regionale Abruzzo 23.10.2013, n. 16).
Nella fattispecie in esame, è da escludere l’abuso edilizio –essendo a monte esclusa la necessità di acquisire il titolo abilitativo edilizio sotto forma di concessione o autorizzazione per i preingressi– per i manufatti come indicati dalla legge regionale (e dalla legge regionale successiva e dal regolamento attuativo).
Né può costituire valido argomento in contrario la valutazione di “permanenza” e non precarietà di opere come i c.d. preingressi, seppure utilizzate soltanto in un periodo stagionale (da aprile a settembre o comunque durante le vacanze estive), in quanto la legge regionale non pretende in modo letterale (e ciò sarebbe in vero irragionevole e dispendioso) che tali opere siano rimosse ogni volta per essere successivamente reinstallate.
Sotto tale profilo, rileva l’accertamento, in punto di fatto, della corrispondenza del manufatto a quanto previsto e consentito dalla legge regionale come attività libera, della precarietà strutturale del manufatto, della rimovibilità della struttura, dell’assenza di opere murarie.
Naturalmente, quindi, è fatta salva l’attività di vigilanza dell’amministrazione comunale, in relazione alla circostanza che le opere in questione, e in particolare i preingressi, rientrino pienamente nelle previsioni della legge regionale e non si concretino in qualcosa di diverso (per esempio, reali nuove costruzioni, strutture permanenti o di materiale diverso).
L’accoglimento del primo motivo di appello, relativo alla mancanza di necessità di conseguire il titolo abilitativo edilizio per le opere di cui si contestava l’abusività, rende superfluo l’esame degli altri motivi di appello, per la regola dell’assorbimento dei motivi per il principio dell’economia del giudizio (così Ad. Plenaria n. 5 del 27.04.2015).
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va accolto e, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il ricorso originario, con conseguente annullamento degli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.08.2015 n. 3901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Tar Lazio. Procedimenti amministrativi senza scuse.
La pubblica amministrazione non può rimanere inerte, procrastinando la conclusione di un procedimento autorizzativo, solo perché non è stato ricostituito l'organismo tecnico incaricato di rilasciare un parere. Si determinerebbe, infatti, una situazione di impasse che non può ricadere su chi ha presentato l'istanza.

Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma (Sez. III-bis) con la sentenza 05.08.2015 n. 10674 che ha accolto il ricorso presentato dalla Società Quasar (istituzione privata di ricerca e formazione accreditata dalla regione Lazio) contro il ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca scientifica.
Nel ricorso la società contestava il comportamento omissivo e dilatorio del ministero che non aveva deliberato sull'autorizzazione richiesta dalla società per il rilascio dei titoli di Alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonostante l'istanza fosse stata presentata nel dicembre 2013.
Il Miur era rimasto silente giustificandosi con il fatto che, in base alla legge (art. 11 del dpr 08.07.2005 n. 212) l'autorizzazione doveva essere concessa su parere del Cnam (Consiglio nazionale per l'alta formazione artistica e musicale) relativamente al requisito della conformità dell'ordinamento didattico. Tuttavia, non essendo il Cnam operativo, in quanto il Miur non ha più proceduto a rinnovarne la composizione secondo nuovi criteri, l'iter autorizzativo era rimasto di fatto congelato.
Tale scelta, si legge nella sentenza del Tar depositata il 5 agosto scorso, è illegittima «giacché la mancata ricostituzione di un organismo tecnico dell'amministrazione non può andare a discapito della parte che ha correttamente avviato il procedimento amministrativo per ottenere il rilascio di un titolo ampliativo della propria capacità giuridica e che ha una legittima aspettativa di vedere concludere il procedimento in tempi ragionevoli».
Per questo, il Tar, accogliendo le tesi dei legali della società (Antonio Catricalà, Damiano Lipani e Francesca Sbrana) ha ordinato al Miur di decidere sulla richiesta riservandosi la nomina di un commissario ad acta che provveda in via sostitutiva (articolo ItaliaOggi del 10.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nelle società partecipate non si può assumere senza concorso.
Assunzioni nulle nelle società partecipate se non precedute da una procedura selettiva, sicché il rapporto di lavoro deve essere considerato invalido sin dall'origine, anche se al lavoratore spetta la remunerazione per il periodo lavorato.

La sentenza 04.08.2015 n. 420 del TRIBUNALE ordinario di Monza in veste di giudice del lavoro, è una tra le prime con le quali il giudice ordinario applica fino alle estreme conseguenze le disposizioni dell'articolo 18, comma 1, del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008.
Tale norma prevede che «le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell'articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
Nel caso affrontato dalla pronuncia del giudice del lavoro, un lavoratore era stato assunto come dirigente da parte di una società comunale partecipata al 100%, con contratto di lavoro a tempo indeterminato a part-time per 20 ore settimanali e aveva chiesto il risarcimento per il licenziamento a suo dire illegittimo, disposto nei suoi confronti dal datore di lavoro, proprio in relazione all'assenza di una procedura di reclutamento conforme alle disposizioni del citato datore di lavoro.
A dire del ricorrente, tale carenza non si sarebbe verificata, perché il consiglio d'amministrazione della società aveva indetto una selezione verificando i curriculum di esperti di urbanistica tra cui il proprio e aveva disposto la propria scelta per effetto dell'offerta economica del ricorrente, prodotta in applicazione del dm 04.04.2001. In effetti, dunque, il rapporto avrebbe dovuto essere di tipo autonomo e collegato con la realizzazione di un parcheggio multipiano.
In effetti, l'azione della società partecipata appare censurabile. Al di là delle carenze procedurali puntualmente rilevate dalla sentenza, è certamente fuori da ogni canone di corretto andamento della gestione attivare un incarico sostanzialmente in modo informale finalizzato all'assegnazione della funzione di responsabile unico del procedimento di realizzazione di un'opera pubblica, per sua natura a tempo determinato, per successivamente modificarlo in un contratto di lavoro subordinato, con qualifica dirigenziale a part-time (un controsenso, visto che i dirigenti non hanno un orario prefissato) e a tempo indeterminato, cioè ben oltre l'utilità dell'incarico da conferire.
In ogni caso, il giudice del lavoro di Monza ha respinto il ricorso, concludendo per l'assenza di una reale selezione pubblica improntata al concorso, osservando l'inesistenza di elementi per comprovare che la società avesse gestito un'effettiva procedura concorsuale, tanto che nel contratto di assunzione si dà atto che essa discende da «precedenti accordi verbali».
La sentenza, pertanto, conclude per la «totale assenza di un'evidenza pubblica sia sulla selezione, sia sui requisiti della figura professionale», tanto che l'assunzione effettuata «costituisce una violazione del principio di eguaglianza e del principio del pubblico concorso per l'accesso ai ruoli delle pubbliche amministrazioni», anche considerando che si è trattato di un tempo indeterminato, al quale non è applicabile l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001.
La società, dunque, ha doverosamente interrotto il rapporto di lavoro, basato su atti illegittimi, tanto che secondo il giudice del lavoro nel caso di specie «va dichiarata la nullità del contratto di assunzione a tempo indeterminato, in quanto posto in essere in violazione di norme imperative», quali l'articolo 18 citato della legge 133/2008 e dell'articolo 28 del dlgs 165/2001, che impone il concorso pubblico per l'accesso alla qualifica dirigenziale.
La nullità dichiarata dal giudice è la base per confermare la legittimità del recesso dal rapporto di lavoro e la reiezione delle domande del ricorrente.
La sentenza, invece, ha respinto la richiesta della società di riavere indietro le somme corrisposte, ritenendo applicabile l'articolo 2126 del codice civile, secondo il quale la nullità del titolo di costituzione del rapporto di lavoro non produce effetti per il periodo nel quale il rapporto ha avuto esecuzione.
«La sentenza è il primo precedente di applicazione dell'art. 18 del dl 112/2008 in materia di rapporti di lavoro», sottolinea l'avvocato Mariano Delle Cave dello Studio Legale Tonucci & Partners, che ha assistito la società pubblica nella controversia risolta dal Tribunale di Monza.
«Questa norma ha natura inderogabile e obbliga le società, totalmente partecipate da una p.a., esercenti servizi pubblici locali, ad adottare meccanismi analoghi a quelli delle amministrazioni controllanti, secondo l'art. 35 del dlgs n. 165/2001. D'altronde, è coerente con quanto sempre sostenuto dalla Corte dei conti sotto il profilo della responsabilità erariale. L'art. 18 non inventa nulla. È applicazione dell'art. 97 Cost., che riguarda tutto ciò che è gestito con risorse pubbliche e per finalità pubbliche. La violazione di queste norme non è solo un problema di responsabilità contabile di chi assume, ma anche di validità del rapporto, che potrebbe essere cessato in ogni momento in quanto nullo».
«Peraltro», conclude Delle Cave, «la sentenza cade in un momento storico particolar, visto che la riforma della p.a. delega il governo a intervenire sulla disciplina del personale delle partecipate. Sarà l'occasione per fare chiarezza tra processo di reclutamento, che deve essere rigorosamente pubblico, e gestione del rapporto, che è squisitamente di natura privatistica, senza applicazione del Testo unico del pubblico impiego» (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

EDILIZIA PRIVATAImpresa subentrata, tre anni di proroga. Permesso di costruire, sentenza Tar Piemonte.
Altro che decaduta dal permesso di costruire. Grazie al decreto fare l'impresa edile subentrata nella convenzione ha diritto alla proroga di tre e non di due anni sui termini di inizio e fine dei lavori di lottizzazione. E ciò perché la norma del decreto legge 69/2013, così come modificato dalla legge di conversione 98/2013, va interpretata in senso favorevole ai progetti edilizi più impegnativi quando c'è interesse alla conclusione delle opere urbanistiche.
Il differimento opera automaticamente e risulta ammissibile, anzi dovuta, quando qualora il termine originario è già venuto a scadenza.

È quanto emerge dalla sentenza 31.07.2015 n. 1304, pubblicata dalla II Sez. del TAR Piemonte.
Interesse pubblico. Accolto il ricorso dell'impresa edile chiamata a dare attuazione al piano esecutivo per la costruzione di undici villette residenziali dopo la convenzione firmata fra i proprietari delle aree e l'amministrazione locale. Sbaglia il Comune a dichiarare estinto il titolo edilizio per il mero decorso del tempo.
È vero: la norma introdotta dal decreto fare, riconoscono i giudici, «non brilla» certo «per chiarezza», ma deve essere interpretata nel senso che alla proroga dei permessi edilizi deve essere riconosciuta una maggiore ampiezza quando i titoli sono rilasciati per le lottizzazioni. E ciò non soltanto per le notevoli difficoltà che le imprese incontrano per portare a termine le convenzioni: c'è infatti anche un interesse pubblico a che siano concluse le urbanizzazioni primarie e secondarie.
Non si può infine ignorare la crisi congiunturale che patiscono le imprese di costruzione. Per la lottizzazione, dunque, non è prevista la ricorrenza di alcuni presupposti per l'operatività della proroga triennale: si tratta in particolare della «previa comunicazione del soggetto interessato» e della condizione che i termini iniziali e finali «non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato».
Ecco che è allora illegittimo il provvedimento del Comune: si dichiara l'impresa decaduta dal permesso di costruire senza tenere conto della proroga automatica del termine per l'inizio dei lavori. Spese di giudizio compensate per l'assoluta novità della questione (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Permessi ai morosi. Non conta la regolarità fiscale. Tar Campania sul rilascio del nulla osta a costruire.
Vietato subordinare il rilascio del permesso di costruire alla dimostrazione di essere in regola nel pagamento dei tributi comunali. I municipi, infatti, non possono confondere i piani perché i titoli edilizi vanno rilasciati in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, mentre la regolarità fiscale attiene «a un ordine di valutazioni e di interessi estraneo alla materia urbanistico-edilizia».

Il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con sentenza 22.07.2015 n. 1611 ha bacchettato il comune di Fisciano (Sa) che con delibera del consiglio comunale, finalizzata a «contrastare il fenomeno dell'evasione dei tributi» aveva imposto ai richiedenti dei permessi di costruire di allegare, assieme all'istanza, anche «la prova di essere in regola con i tributi comunali».
Il caso riguardava la domanda di permesso di costruire inoltrata da un'impresa di costruzioni per la realizzazione di un fabbricato residenziale. Nonostante il parere favorevole del responsabile dell'area tecnica dell'ente, il comune non aveva rilasciato il nulla osta nei tempi previsti (20 giorni), tanto che la società si era rivolta al Tar affinché dichiarasse il silenzio-assenso sull'istanza o, in subordine, imponesse al comune di rispondere all'istanza con atto espresso e motivato.
Nel frattempo, però, il comune aveva provveduto a contestare alla società il mancato pagamento dell'Ici per il triennio 2006-2008 e l'aveva invitata a regolarizzare la propria posizione, pena l'impossibilità a rilasciare il nulla osta edilizio, visto che in mancanza della documentazione, l'istanza «non sarebbe stata presa in esame».
L'impresa aveva ribattuto di essere in regola con il pagamento e aveva trasmesso all'ente le ricevute dei versamenti, ma il Tar non è neppure entrato nel merito della vicenda. Per i giudici amministrativi, infatti, il rifiuto a esaminare l'istanza di permesso a costruire, in presenza di irregolarità tributaria, costituisce «una vera e propria sanzione accessoria, estranea ai poteri e alle competenze» dell'ente.
Secondo il Tar, il comune di Fisciano «ha palesemente violato» la normativa in materia di permessi di costruire (dpr n. 380/2011), «piegando l'esercizio del potere de quo al perseguimento di interessi eterogenei rispetto a quelli tipici».
Né l'ente avrebbe potuto giustificare la propria condotta per il fatto di aver firmato con l'Agenzia delle entrate un'intesa anti-evasione fiscale. «La partecipazione dei comuni all'accertamento fiscale e contributivo», ha chiarito il Tribunale amministrativo, «non contiene alcun riferimento al rilascio di titoli edilizi» (articolo ItaliaOggi del 05.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di conservazione.
Il ritocco operato all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 con il quale è stato introdotto il concetto di "interventi di conservazione", fino ad ora assente nel panorama legislativo di settore è certamente di rilevante portata nella materia dell'edilizia ed urbanistica in quanto viene modificato il concetto di "manutenzione straordinaria" fino a quel momento attestato su interventi di tipo manutentivo non incidenti né sulle superfici né sulla volumetria complessiva, né sulla destinazione d'uso.
Si tratta di disposizioni che consentono interventi di rilevante incidenza ed impatto sul territorio (oltre che di impatto fiscale) consentendo lavori prima non eseguibili se non mediante il permesso di costruire.
In sostanza, quindi, la modifica normativa elimina ogni riferimento alle modifiche della superficie dell'immobile oggetto di opere di manutenzione straordinaria.

1. A giudizio del Collegio il ricorso del Pubblico Ministero non può essere condiviso. Da quanto indicato nella premessa emerge subito che il thema decidendum, come evidenziato dal Tribunale, è costituito dalla qualificazione giuridica degli interventi edilizi operati sul complesso immobiliare sito nella città di Firenze e destinato, per effetto di tali interventi, ad ospitare alcune unità abitative (il Tribunale ne indica nove) frutto di un frazionamento di una parte di un complesso immobiliare.
1.1 Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema si è sempre affermato che la figura della ristrutturazione edilizia, disciplinata dall'art. 3, comma 1, lett. d), -come modificato dal D.Lgs. 27.12.2002, n. 301- riguarda gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti". Per tali ragioni la ristrutturazione edilizia non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio esistente.
1.2 L'art. 3 del detto D.P.R. nel testo antecedente alle modifiche normative recentemente apportate dal D.L. 133/2014 convertito nella L. 164/2014 (cd. "Decreto del fare" o "sblocca Italia"), disciplina anche le diverse figure della manutenzione straordinaria (comma 1 lett. b) e del restauro e risanamento conservativo (art. 3, comma 1, lett. c).
1.3 La prima di tali due figure riguarda le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso; era quindi escluso che tali interventi potessero comportare aumenti della superfici utili o del numero delle unità immobiliari, ovvero la modifica della sagoma o il mutamento della destinazione d'uso).
1.4 La seconda figura concerne gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con esse compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio: anche in questo caso non sono consentite modifiche in senso sostanziale dell'assetto edilizio preesistente, mentre sono permesse variazioni d'uso "compatibili" con l'edificio conservato.
2. La materia degli interventi edilizi ha, però, subito importanti modifiche con il D.L. 133/2014 convertito nella L. 164/2014.
2.1 A norma dell'art. 17, comma 1, lett. b), n. 1 e 2, della detta legge
è stato ampliato il concetto degli interventi di manutenzione straordinaria ricomprendendovi oltre che le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso, anche quegli interventi "consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso".
2.2 E', invece, rimasta immutata sia la tipologia degli interventi di restauro e risanamento conservativo, sia quella della ristrutturazione in cui sono inclusi gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
2.3 In particolare, per quanto attiene agli interventi di ristrutturazione, essi, nel testo dell'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2001 come successivamente modificato prima dal D.L. 27.12.2002, n. 301 e, di seguito, dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, nella L. 09.08.2013, n. 98, comprendono -come già detto- "il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
2.4
Il ritocco operato all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 con il quale è stato introdotto il concetto di "interventi di conservazione", fino ad ora assente nel panorama legislativo di settore è certamente di rilevante portata nella materia dell'edilizia ed urbanistica in quanto viene modificato il concetto di "manutenzione straordinaria" fino a quel momento attestato su interventi di tipo manutentivo non incidenti né sulle superfici né sulla volumetria complessiva, né sulla destinazione d'uso.
2.5
Si tratta di disposizioni che consentono interventi di rilevante incidenza ed impatto sul territorio (oltre che di impatto fiscale) consentendo lavori prima non eseguibili se non mediante il permesso di costruire: tra questi -per quanto qui rileva- rientrano il frazionamento ed accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti una variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, mentre deve rimanere inalterata la volumetria complessiva degli edifici e mantenuta immutata l'originaria destinazione d'uso. In sostanza, quindi, la modifica normativa elimina ogni riferimento alle modifiche della superficie dell'immobile oggetto di opere di manutenzione straordinaria.
2.6 Nel caso in esame, quindi, le attività intraprese dagli imputati vanno riconsiderate alla luce delle modifiche normative di cui sopra, escludendosi, quindi, la necessità del preventivo permesso di costruire nelle ipotesi in cui siano state -ferme restando la volumetria complessiva originaria e la destinazione d'uso (in quanto gli interventi sono stati condotti su quella porzione di immobile con destinazione abitativa)- variate le superfici e sia stato operato un frazionamento con suddivisione della superficie complessiva in alcune unità abitative che hanno inciso certamente sul carico urbanistico, senza tuttavia richiedere per ciò solo il previo rilascio del permesso di costruire.
3. Ne consegue che la decisione impugnata, seppur riferita ad una operazione complessiva di restauro e risanamento conservativo non consentita secondo la legislazione dell'epoca tenuto conto della tipologia degli interventi, non poteva comunque riferirsi ad un intervento di ristrutturazione nei termini indicati dal Pubblico Ministero ricorrente.
4. Correttamente il P.M. ha enunciato alcuni principi quali l'immutabilità del carico urbanistico e la variazione per frazionamento delle originarie superfici compatibili con il concetto di ristrutturazione, ma non con il nuovo concetto di manutenzione straordinaria che ha inglobato lavori un tempo assoggettabili al regime concessorio (ovvero del permesso di costruire) ed oggi assentibili a mezzo D.I.A., come è avvenuto nel caso di specie (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.07.2015 n. 31618 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul campo di motocross l'occhio dei vicini. Tar Sicilia.
Chi abita in prossimità di un campo da motocross può richiedere al sindaco determinazioni in merito alla corretta conduzione dell'impianto da parte dell'associazione sportiva. E in caso di mancata risposta da parte del comune proporre censure contro l'inerzia della pubblica amministrazione.

Lo ha chiarito il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, con la sentenza 21.07.2015 n. 1798.
Una associazione dilettantistica ha realizzato una pista da motocross previa presentazione di una Scia al comune di Pantelleria. Contro questa determinazione un residente ha richiesto formalmente chiarimenti al primo cittadino, ma senza alcun risultato apprezzabile.
A seguito dell'inerzia dell'amministrazione comunale l'interessato ha quindi proposto con successo ricorso al Tar che ha dichiarato l'illegittimità del silenzio serbato dal comune. Nonostante questa sentenza il comune siciliano ha continuato a mantenere una posizione defilata sulla vicenda e per questo è stato nominato addirittura un commissario ad hoc. Con oneri completamente a carico del comune (articolo ItaliaOggi del 04.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Modificazione di una preesistente strada sterrata.
La modificazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una preesistente strada sterrata mediante innalzamento del piano e copertura del manto con massetto di cemento non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria e deve essere preceduta dal rilascio del permesso di costruire e dalla autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, comportando una modificazione di carattere stabile ed incidente sull'assetto urbanistico stante il potenziale incremento del traffico veicolare.
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Gli interventi di ristrutturazione edilizia, la cui realizzazione senza il preventivo rilascio del permesso di costruire integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, comprendono l'esecuzione di lavori consistenti nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, ovvero nella eliminazione, modificazione e inserimento di nuovi elementi ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di "risanamento conservativo", i quali si caratterizzano per il mancato apporto di modifiche sostanziali all'assetto edilizio preesistente, alla luce di una valutazione compiuta tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e delle finalità con questi perseguite.
Osserva, infatti, la Corte, alla luce della incontestata descrizione degli stessi contenuta nella sentenza impugnata, che i lavori realizzati della Lo B. esulano dal rivendicato concetto di mera manutenzione, come tale non necessitante del premesso a costruire, per rientrare, invece, in quello di ristrutturazione edilizia.
Rileva, infatti, il Collegio che le opere di cui alla contestazione sono consistite, oltre che nel completamento della impermeabilizzazione del manto di copertura, nella definizione degli intonaci esterni ed interni, nella pitturazione dei prospetti, nella realizzazione di tramezzature, pavimentazioni ed impianti idrici ed elettrici di un preesistente edificio lasciato al "rustico" dai precedenti proprietari„ anche nella realizzazione di una scala per congiungere il piano di campagna ad una quota sopraelevata rispetto a quello di oltre 7 metri, di una strada carrabile per rendere fruibuile il parcheggio posto ai piedi dell'edificio in questione ed in parte dei muri di contenimento della scarpata al di sopra della quale il detto edificio era stato realizzato.
Riguardo a tali opere, la cui portata materiale è stata accertata con valutazione in fatto della Corte di merito insindacabile in questa sede, non vi è dubbio che, esulando le stesse dal concetto di mera manutenzione, esse necessitavano del rilascio del permesso a costruire.
Ha, infatti, rilevato questa Corte -e la considerazione, perfettamente coerente col caso ora in questione nel quale, per stessa ammissione della ricorrente, le opere hanno avuto ad oggetto, per ciò che attiene alla strada interpoderale, la realizzazione di un manto di calcestruzzo su di una preesistente base sterrata, appare tuttora pienamente condivisibile- che
la modificazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una preesistente strada sterrata mediante innalzamento del piano e copertura del manto con massetto di cemento non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria e deve essere preceduta dal rilascio del permesso di costruire e dalla autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, comportando una modificazione di carattere stabile ed incidente sull'assetto urbanistico stante il potenziale incremento del traffico veicolare (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11.01.2013, n. 1442).
Parimenti, per quanto attiene alle restanti opere realizzate sul preesistente manufatto lasciato a rustico dai precedenti proprietari, va ricordato che
gli interventi di ristrutturazione edilizia, la cui realizzazione senza il preventivo rilascio del permesso di costruire integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, comprendono l'esecuzione di lavori consistenti nel ripristino o nella sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, ovvero nella eliminazione, modificazione e inserimento di nuovi elementi ed impianti, e sono distinguibili dagli interventi di "risanamento conservativo", i quali si caratterizzano per il mancato apporto di modifiche sostanziali all'assetto edilizio preesistente, alla luce di una valutazione compiuta tenendo conto della globalità dei lavori eseguiti e delle finalità con questi perseguite (Corte di cassazione, Sezione III penale 26.11.2014, n. 49221).
Nel caso in esame, a tacer d'altro, il completamento ex novo sia dei muri di contenimento che la realizzazione della scala, evidenzia la novità tipologica delle opere realizzate rispetto a quelle preesistenti, consistenti nella sola realizzazione del rustico di un edificio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2015 n. 30165 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla applicabilità della disciplina in materia antisismica alla realizzazione della scala, conducente dalla quota 0,00 alla quota +7,30, in calcestruzzo, questa Corte rileva che, nella materia in questione, la giurisprudenza di questa Corte ha più volta precisato che, integra la contravvenzione di cui all'art. 95 del dPR n. 380 del 2001, qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato.
Con riferimento al quarto motivo di ricorso la Corte osserva che, essendo adeguatamente e plausibilmente motivata, non è suscettibile di riesame di fronte alla Corte di legittimità la natura di nuova costruzione, e non di semplice ricostruzione delle precedenti parti ammalorate, attribuita dalla Corte territoriale, e già prima dal Tribunale di Palermo, alla realizzazione dei muri di contenimento di cui alla contestazione mossa alla Lo Brano, né vi è alcun elemento, trascurato dai giudici del merito per ritenere che tali opere siano state edificate nella attuale necessità di evitare la rovina della restante parte del preesistente manufatto.
Quanto alla applicabilità della disciplina in materia antisismica alla realizzazione della scala, conducente dalla quota 0,00 alla quota +7,30, in calcestruzzo operata dalla Lo B., questa Corte rileva che, nella materia in questione, la giurisprudenza di questa Corte ha più volta precisato che, integra la contravvenzione di cui all'art. 95 del dPR n. 380 del 2001, qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato (Corte di cassazione, Sezione, III penale, 20.11.2014, n. 48005).
La già dimostrata estraneità della realizzazione della predetta scala al concetto di manutenzione ordinaria, conferma, se necessario, la legittimità della impugnata sentenza sul punto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2015 n. 30165 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

APPALTI: Circa l'escussione parziale della cauzione provvisoria prodotta dalla ditta concorrente a titolo di pagamento della sanzione pecuniaria per irregolarità essenziale riscontrata nei documenti di gara, è condivisibile l’interpretazione del comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti data dall’ANAC e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in discorso, giacché sarebbe illogica e ingiustamente afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che, reso edotto dell'incompletezza o di altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante di procedere celermente con le operazioni di gara senza strascichi giudiziari.
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
- della determinazione n. 519 del 07.05.2015 emessa dal Comune di Piacenza, Direzione Operativa Riqualificazione e Sviluppo del Territorio, Servizio Infrastrutture e Lavori Pubblici avente ad oggetto "escussione parziale della cauzione provvisoria prodotta dalla Ditta ricorrente a titolo di pagamento della sanzione pecuniaria per irregolarità essenziale riscontrata nei documenti di gara";
- di ogni atto anteriore o successivo, comunque presupposto, connesso e consequenziale.
...
- Considerato che, ad un primo sommario esame, il ricorso appare fondato essendo condivisibile l’interpretazione del comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti data dall’ANAC e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in discorso;
- Rilevato, peraltro, che sarebbe illogica e ingiustamente afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che, reso edotto dell'incompletezza o di altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante di procedere celermente con le operazioni di gara senza strascichi giudiziari;
- Ritenuto, pertanto, che sussistano i presupposti per la concessione della misura cautelare pur potendosi compensare le spese della presente fase attesa la novità delle questioni trattate;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, Sezione Distaccata di Parma, accoglie la suindicata domanda incidentale di sospensione e, per l’effetto, sospende l’atto impugnato.
Fissa, per la trattazione del merito, l’udienza pubblica del 10.02.2016 (TAR Emilia Romagna-Parma, ordinanza 10.07.2015 n. 142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Materiali provenienti da demolizioni.
I materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi le invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge.
4. Ciò posto, deve rilevarsi anche come il Tribunale abbia chiaramente evidenziato che le allegazioni difensive risultavano meramente assertive, non fornendo alcun concreto elemento a sostegno dell'affermazione di una diversa natura e destinazione dei materiali rinvenuti sull'area in sequestro ed erano contraddette dalle risultanze investigative poste in evidenza.
Altrettanto avviene nel ricorso sottoposto all'attenzione di questa Corte, dove si continua a negare la natura di rifiuto dei materiali suddetti e la loro destinazione ad una successiva utilizzazione.
Tali argomentazioni, tuttavia, oltre a porsi nuovamente in contrasto con dati fattuali evidenziati dai giudici del riesame e non suscettibili di valutazione in questa sede di legittimità, si basano su affermazioni inconferenti e giuridicamente errate.
5. Va infatti rilevato come, ai fini della configurabilità del reato ipotizzato, non sia affatto necessario l'espletamento di una consulenza tecnica per accertare la natura e la composizione dei rifiuti né, tanto meno, la loro pesatura per verificarne la quantità esatta, quando, come nel caso di specie, tali dati siano verificabili attraverso l'esame diretto.
Invero l'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006 definisce come rifiuti speciali quelli derivanti dalle attività di demolizione e costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis in materia di sottoprodotti (v. Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014 (dep. 2015), Giaccari, Rv. 262128; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012, Celano, Rv. 252617; Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241088; Sez. 3, n. 33882 del 15/06/2006, RM. in proc. Barbati ed altri, Rv. 235114).
Dunque, le caratteristiche del rifiuto e la sua classificazione, considerata la natura, non necessitano, di regola, di particolari verifiche o analisi, essendone immediatamente rilevabile la provenienza e trattandosi di materiali del quale solitamente ci si disfa, salvo destinarli a successivi impieghi che vanno, però, dimostrati, cosa che non è avvenuta nel caso in esame.
6. I ricorrenti si riferiscono infatti, in un primo momento, del tutto incidentalmente, ad una non meglio specificata «temporaneità del deposito» che i giudici del riesame avrebbero omesso di considerare, per poi affermare che i materiali sarebbero classificabili come sottoprodotti.
Tali circostanze risultano, però, platealmente smentite da un dato fattuale inequivocabile posto in evidenza dai giudici del riesame laddove si evidenzia, nell'ordinanza impugnata, che i rifiuti risultavano livellati ed accumulati sul posto nel corso degli anni, verosimilmente mediante l'ausilio di mezzi meccanici.
Una simile evenienza è, da sola, chiaramente sintomatica della definitiva collocazione dei rifiuti sull'area sequestrata.
Inoltre, tanto il deposito temporaneo (se a quello definito dall'art. 183 comma 1, lett. bb), d.lgs. 152/2006 intendono riferirsi i ricorrenti) quanto i sottoprodotti, necessitano di specifici requisiti chiaramente indicati dalla legge, la cui sussistenza deve essere dimostrata da chi invoca l'applicazione di tali disposizioni che derogano alla disciplina generale sui rifiuti (v. Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504, in tema di sottoprodotti; Sez. 3, n. 15680 del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non massimata; Sez. 3, n. 30647de1 15/06/2004, Dell'Angelo, non massimata, in tema di deposito temporaneo e, con riferimento alle terre e rocce da scavo, Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone Rv. 244784; Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n. 9794 del 29/11/2006 (dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto) e, nel caso in esame, tale dimostrazione manca del tutto.
In ogni caso, difetterebbero, quanto meno, secondo quanto accertato in fatto nell'ambito della limitata cognizione attribuita ai giudici del riesame, la raccolta dei rifiuti nel luogo della produzione con riferimento al deposito temporaneo (atteso che gli stessi ricorrenti affermano, a pag. 6 del ricorso, che i materiali provenivano da «attività di escavazione compiuta su fondi limitrofi di loro proprietà») e, per ciò che riguarda i sottoprodotti, l'origine da un «processo di produzione», di cui costituiscono parte integrante.
7. Deve conseguentemente affermarsi il
principio secondo il quale i materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2015 n. 29084 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Nozione di disfarsi.
Certamente indice rivelatore dell'intenzione di disfarsi -ove essa non si sia sostanziata, in modo di per sé incompatibile con un altro diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo su detti beni- potrà essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i detti materiali sono depositati.
E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all'interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l'intenzione di disfarsene.
Col primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la erroneità della qualificazione di rifiuto attribuita dal giudice di prime cure ai materiali rinvenuti dagli agenti della Polizia municipale di Olevano Romano su di un terreno nella disponibilità del ricorrente.
Giova, prima di esaminare la correttezza o meno della qualificazione operata dal Tribunale di Tivoli, rilevare che, secondo quanto riportato in fatto nella sentenza impugnata, il materiale in questione (costituito da: cabine telefoniche rimosse, pali telefonici in metallo anch'essi rimossi dal loro originario luogo di impianto, fili e cabine elettriche, bombole di gas esaurite, pedane di legno, ferraglia, pneumatici in disuso, fresatura d'asfalto, bidoni di catrame, parti di veicoli in disuso, corrugati plastici e materiale bituminoso vario) appariva abbandonato in modo incontrollato sul terreno senza alcun accorgimento volto ad evitare la contaminazione del suolo.
Tanto premesso rileva la Corte che del concetto di rifiuto il legislatore ha dettato, all'art. 183, comma 1, lett. a), del dlgs n. 152 del 2006, una precisa definizione normativa, affermando che deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.
Trattasi, perciò, di una definizione che non si caratterizza per la individuazione di elementi intrinseci di determinati oggetti o sostanze che, se presenti, ne determinano la attribuzione della qualificazione di rifiuto, quanto, piuttosto, di una definizione di tipo funzionale, essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo.
E' di tutta evidenza che, in assenza di previsioni normative che prevedano, appunto, in determinati casi e con riferimento a determinate sostanze uno specifico obbligo in capo al detentore in ordine al loro smaltimento, prevedendone eventualmente anche le modalità di effettuazione, sarà compito del'interprete, in relazione alla generalità delle altre sostanze od oggetti, evidenziare se nella condotta del detentore di esse sia riscontrabile, in atto od in potenza, il concetto del "disfarsene" in ragione del quale è legittimo attribuire ai predetti beni la nozione di rifiuto.
Certamente indice rivelatore di tale intenzione -ove essa non si sia sostanziata, in modo di per sé incompatibile con un altro diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo su detti beni- potrà essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i detti materiali sono depositati.
E', infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all'interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l'intenzione di disfarsene.
Nel caso in esame il Tribunale di Tivoli del tutto legittimamente ha ritenuto che i beni sopra descritti, abbandonati alla rinfusa ed in stato di degrado progressivamente ingravescente, fossero stati lasciati dall'odierno ricorrente con la chiara intenzione di disfarsene e non, come invece sostenuto dal Da., per disporre di essi per un successivo riutilizzo.
D'altra parte la natura stessa di buona parte dei predetti beni è tale da non consentirne, se non a seguito di un articolato processo di ricondizionamento, certamente non in atto al momento dell'intervento della Polizia municipale descritto nella impugnata sentenza, un successivo riutilizzo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2015 n. 29069 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICANon hanno carattere espropriativo, ma solo conformativo, e non sono soggetti a decadenza e all'obbligo dell'indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità importino una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o mista pubblico-privata e non esclusivamente pubblica.
2.1.2. Né può ritenersi che le successive delibere –non gravate- del 2004 n. 29 del CC e n. 208 della Giunta comunale con cui il Comune aveva optato per l’esperimento di un piano di iniziativa pubblica affidandolo al Consorzio Sviluppo Valdera -stante la tipicità degli atti adottati in sede di procedure espropriativa- abbiano potuto “surrogare” tale mancanza originaria.
Ciò, sulla scorta del convincimento per cui, da un canto deve ribadirsi la validità del tradizionale insegnamento giurisprudenziale secondo il quale non hanno carattere espropriativo, ma solo conformativo, e non sono soggetti a decadenza e all'obbligo dell'indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità importino una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o mista pubblico-privata e non esclusivamente pubblica (ex aliis C.d.S., IV, 13.07.2011, n. 4242; C.d.S., IV, 12.05.2010, n. 2843; C.d.S., IV, 03.12.2010, n. 853; Tar Lazio, sez. II-bis, 29.11.2012, n. 9896: in termini Cons. Stato, sez. V, 02.12.2011, n. 6363).
Per altro verso, deve rimarcarsi che gli atti volti ad imprimere un vincolo preordinato all’esproprio sono “tipici” e tale vincolo non può discendere -come dal Comune invocato- da atti di tutt’altra natura
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il piano per gli insediamenti produttivi ha efficacia per dieci anni e ha valore di dichiarazione di pubblica utilità, come del resto meglio precisato dall'art. 12, comma 1, lett. a), del D.P.R n. 327/2001.
Il piano per insediamenti produttivi è, quindi, non solo e non tanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, quanto e soprattutto uno strumento di politica economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione, e ciò in quanto poiché l'indennità di espropriazione è di gran lunga inferiore al valore di mercato degli immobili espropriati, mediante questi piani si realizza, di fatto, un trasferimento di ricchezza dal proprietario espropriato all'assegnatario.
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● Le aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell'indennità di espropriazione, dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione appunto stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo".

3. Con la seconda articolazione della doglianza (pagg. 14 e segg. dell’atto di appello) l’appellante amministrazione comunale sostiene che, comunque, il vincolo preordinato all’esproprio sarebbe disceso dalla stessa delibera di approvazione del PIP avversata in primo grado. Si attribuisce infatti al PIP, non soltanto la natura di atto implicante la dichiarazione di pubblica utilità ex art. 12 del dPR n. 327/2001 ma anche, impositivo del vincolo preordinato all’esproprio.
3.1. Anche tale censura non persuade, collidendo con l’art. 10, comma 2, 9, e 12 del dPR n. 327/2001.
La tesi dell’amministrazione comunale collide con il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (TAR Sicilia Catania Sez. I Sent., 13.02.2008, n. 248 “il piano per gli insediamenti produttivi ha efficacia per dieci anni e ha valore di dichiarazione di pubblica utilità, come del resto meglio precisato dall'art. 12, comma 1, lett. a), del D.P.R n. 327/2001. Il piano per insediamenti produttivi è, quindi, non solo e non tanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, quanto e soprattutto uno strumento di politica economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione, e ciò in quanto poiché l'indennità di espropriazione è di gran lunga inferiore al valore di mercato degli immobili espropriati, mediante questi piani si realizza, di fatto, un trasferimento di ricchezza dal proprietario espropriato all'assegnatario”, ma si veda anche TAR Campania Napoli Sez. II, 18.01.2006, n. 700) e civile (Cass. civ. Sez. I, 24.03.2004, n. 5874: “le aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell'indennità di espropriazione, dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione appunto stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo".
Anche tale censura deve essere disattesa: nessuno degli indici normativi nazionali e regionali invocati dal comune alle pagg. 20 e 21 dell’appello è decisivo nel ritenere che al PIP possa attribuirsi natura di atto impressivo di un vincolo preordinato all’esproprio (si veda, ancora, per la natura attuativa del PIP: Cassazione civile sez. I 24/04/2007 n. 9891).
3.2. Tale vincolo è inesistente, non essendo mai stato apposto in precedenza,per quel che si è prima posto in luce, e pertanto la censura va disattesa
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla struttura -oggetto di istanza di sanatoria- costituita da una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad un preesistente immobile contiguo, destinato ad autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m. 5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in “zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio dell’attività di autolavaggio”.
La struttura oggetto della domanda di sanatoria in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata nell’immobile adiacente).
La stessa non presenta alcun intrinseco carattere di struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche, bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi (indipendentemente da quello attuale).
Conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione straordinaria, bensì, comportando una significativa alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova opera da assentire mediante rilascio di permesso di costruire.
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L’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
- del provvedimento prot. n. 12862 del 29/10/2008 – rif. Pratica n. 53/2008, con cui il responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Capodrise ha respinto l’istanza presentata dai ricorrenti in data 25.06.2008 – prot. n. 7847, al fine di conseguire il rilascio del permesso di costruire in sanatoria per una tettoia annessa ad opificio artigianale preesistente, ubicato in zona omogenea “B” – residenziale;
- di ogni altro atto ad esso preordinato, consequenziale o connesso.
...
M.A.E. e P.M. impugnano con il presente ricorso, articolato su due motivi, il provvedimento del Comune di Capodrise, con il quale il responsabile dell’Ufficio Tecnico, in “riferimento alla domanda presentata…in data 25.06.2008 prot. n. 7847 con la quale si richiedeva il permesso a costruire in conformità al testo unico dell’edilizia D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e successive modifiche ed integrazioni” ha espresso “diniego all’accoglimento della richiesta” con la seguente motivazione: “Trattasi di richiesta di permesso di costruire in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 DPR 380/2001 relativo ad un opificio artigianale in zona omogenea di tipo <B>, residenziale. In tale zona omogenea l’edificazione risulta regolata dalla vigente strumentazione urbanistica che non consente la realizzazione di capannoni ad uso deposito o opifici artigianali”.
Dalla prodotta copia della relazione tecnica allegata alla domanda ex art. 36 DPR 380/2001 (nonché dalle fotografie nella stessa presenti), emerge che la struttura oggetto di istanza di sanatoria è costituita da una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad un preesistente immobile contiguo, destinato ad autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m. 5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in “zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio dell’attività di autolavaggio”.
Ciò chiarito, può passarsi ad esaminare il secondo dei motivi di ricorso articolati (con il quale sono dedotte censure di tipo sostanziale), il quale è infondato e va disatteso sulle seguenti considerazioni:
- che la struttura oggetto della domanda di sanatoria in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata nell’immobile adiacente);
- che la stessa non presenta alcun intrinseco carattere di struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche, bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi (indipendentemente da quello attuale);
- che, conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione straordinaria, bensì, comportando una significativa alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova opera da assentire mediante rilascio di permesso di costruire (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 3939 del 19.07.2013; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 142 del 10.01.2014; TAR Campania-Napoli n. 5853 del 18.12.2013; TAR Piemonte n. 1050 del 09.10.2013; TAR Campania-Napoli n. 4254 del 12.09.2013; TAR Campania-Salerno n. 1376 del 21.06.2013; TAR Campania-Napoli n. 2924 del 05.06.2013);
- che la descritta tipologia di struttura, nonché la sua destinazione ad attività artigianale, risultano in contrasto con le prescrizioni urbanistico-edilizie di zona del vigente PRG, ricadendo l’intervento in zona omogenea “B” residenziale (ovvero in “zona ad espansione urbana”, come con dicitura più generica affermato nella relazione tecnica allegata all’istanza di sanatoria);
- che la presenza e vigenza di un PRG nel Comune di Capodrise esclude l’applicabilità nel relativo territorio della normativa richiamata dai ricorrenti (segnatamente il punto 1.6 delle “Direttive – Parametri di pianificazione” della L. Reg. Campania n. 14 del 20.03.1982 in tema di localizzazione di “impianti produttivi”, trattandosi nella specie di linee guida date agli enti locali per l’esercizio delle loro competenze in materia urbanistica);
- che l’evidenziato contrasto con quanto previsto in PRG neppure è superabile valutando la struttura in questione come collegata ad una preesistente attività, essendo essa comunque soggetta alle disposizioni in materia di nuove opere;
- che la sussistenza del contrasto dell’effettuata edificazione con le previsioni di PRG è sufficiente a giustificare il diniego, per cui risulta non necessario approfondire in questa sede l’ulteriore profilo riguardante l’affermata carenza documentale della pratica di sanatoria.
Quanto, poi, al primo motivo di ricorso, basato su di una censura di carattere prettamente formale, osserva il Collegio che l’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Pertanto, il proposto ricorso va, in definitiva, in toto respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.03.2015 n. 1870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANell'ambito di un Piano Attuativo, l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per il lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile (perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio assolutamente consolidato in giurisprudenza.
---------------
Tale approccio interpretativo ha trovato ulteriore consacrazione normativa a seguito dell’entrata in vigore del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia), ove all’art. 16, comma 2, si afferma che “2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
Quindi, una volta ricondotte al regime del patrimonio indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema di protezione di cui all’art. 828, comma 2, del codice civile, secondo cui “I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”, il che ne impedisce l’alienazione e l’usucapione da parte dei privati.
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), la loro proprietà necessariamente deve essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta.

... per l'accertamento e la declaratoria:
1) dell'obbligo del Comune di Sinnai di provvedere alla presa in carico delle opere di urbanizzazione primaria realizzate, in località Torre delle Stelle, nell'ambito dei comparti 1 e 2 individuati dal Piano di Fabbricazione del Comune di Sinnai, così come trasformati in zona di completamento urbano con deliberazione di Giunta Municipale n. 177/1974, nonché delle aree su cui queste insistono e ad assumere tutti gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, correlati alla gestione delle medesime opere di urbanizzazione;
2) nonché per la conseguente condanna dell'Amministrazione a porre in essere gli atti e i provvedimenti per adempiere agli obblighi discendenti dalla legge;
3) e per la conseguente condanna al risarcimento dei danni subiti dai ricorrenti per avere dovuto sostenere le spese di manutenzione delle suddette opere di urbanizzazione al posto dell'inadempiente Comune di Sinnai.
...
La domanda deve essere accolta.
Come innanzi riferito, con deliberazione n. 177 del 1974 la Giunta Municipale di Sinnai aveva disposto la classificazione dei comparti 1 e 2, ove ricadono gli immobili dei ricorrenti, “in zona di completamento urbano , in quanto compromessa con il seguente indice territoriale…dello 0,15; altezza massima ml 7, stacco dai confini e dalle strade ml 5, rapporto di copertura 1/10, lotto minimo mq 2.000”.
Nella delibera si prevedeva poi che per ottenere il rilascio delle licenze edilizie i “proprietari dovranno provvedere a consegnare al Comune le opere di urbanizzazione primaria e secondaria in opere finite o corrispettivo valore in denaro”.
L’atto della Giunta è stato poi ratificato dal Consiglio comunale con la deliberazione n. 103 del 27.04.1974, con l’unica modifica delle dimensioni del lotto minino di intervento, portandolo da mq 2000 a mq 1000.
Su detta delibera, come pure sulle altre delibere consiliari riguardanti la variante complessiva del Piano di Fabbricazione di Sinnai, è poi intervenuta l’approvazione della Regione con il decreto del suo Presidente, n. 164 del 24.07.1974; per i comparti 1 e 2 il decreto ha modificato l’indice fondiario, portandolo a 0,30 mc/mq.
La destinazione a zona B di completamento ha comportato il riconoscimento per i comparti in questione della possibilità di edificazione diretta, ossia senza la necessità della previa approvazione di un piano di lottizzazione, come richiesto dalle zone C e F; ciò è avvenuto sul presupposto dell’esistenza di una compromissione del territorio per effetto delle costruzioni ivi esistenti e sul presupposto, evidentemente, dell’esistenza di opere di urbanizzazione, sia pure incomplete, della zona interessata.
Proprio per ottenere il completamento delle opere di urbanizzazione le delibere richiedevano, quale condizione per il rilascio delle concessioni edilizie, la realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte dei privati oppure il pagamento di una corrispettiva somma di danaro.
Le opere sono state poi realizzate, almeno in parte (rete viaria, idrica ed elettrica), dal Condominio appositamente formato dai proprietari dei lotti.
La difesa del Comune rileva che le opere di urbanizzazione risultano incompiute e realizzate senza alcun disegno unitario, tanto da affermare che nel comprensorio non si rinvengono “opere di urbanizzazione né in senso formale, né in senso materiale”.
Da quanto sopra emerge con evidenza che nel comprensorio esistono alcune opere di urbanizzazione (rete viaria, rete idrica ed elettrica) sia pur realizzate senza una progettazione approvata dal Comune e senza una puntuale direzione dei lavori (al riguardo i ricorrenti non depositano alcun atto), ma ciò è dipeso unicamente da incuria dello stesso Comune nel seguire l’attuazione delle previsioni del proprio strumento urbanistico e segnatamente delle regole, prima richiamate, sulla necessità della realizzazione da parte dei privati delle opere di urbanizzazione oppure sul pagamento da parte degli stessi degli oneri di urbanizzazione.
L’inadempienza del Comune non può evidentemente costituire un alibi, per lo stesso, alla presa in carico delle opere di urbanizzazione effettivamente esistenti e nello stato in cui si trovano, che lo stesso Comune ha ritenuto tali da giustificare la classificazione del comprensorio come zona B di completamento.
Peraltro il Comune è ormai divenuto proprietario delle strade per usucapione, essendo stato esercitato un uso pubblico sulle stesse da ben oltre 20 anni. Come precisato dalla Sezione con la sentenza n. 1738 del 03.09.2008, l’uso di una strada da parte della collettività indifferenziata per il transito determina il passaggio della stessa nella proprietà del Comune per usucapione, a prescindere dall’esistenza o meno di una convenzione di lottizzazione e del connesso obbligo per il lottizzante di trasferire le opere di urbanizzazione ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 (sulla possibilità di acquisto per usucapione di una strada cfr. Consiglio Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618; Cassazione civile, sez. II, 10.10.2000, n. 13485).
Anche la conduttura idrica, quanto alla titolarità ha indubbie connotazioni pubblicistiche, vuoi perché le tubazioni accedono alla parte sottostante la rete stradale, vuoi per l’uso collettivo (esteso a tutti gli utenti) del servizio idrico fruibile a mezzo di detta conduttura (cfr. la sentenza del Cons. Stato, Sez. IV, n. 5487 del 2914, con la quale il giudice di Appello ha confermato le sentenze di questa Sezione n. 880/2011 e n. 602/2013 relative alle opere di urbanizzazione realizzate nella stessa località di Torre delle Stelle, ma in comune di Maracalagonis).
Una volta acclarata l’esistenza della opere di urbanizzazione, sia che esse siano realizzate in base ad un disegno unitario come avviene a seguito dei piani di lottizzazione, sia che le stesse siano riconosciute con lo strumento urbanistico, come nella specie, le conseguenze sulla loro presa in carico e gestione sono identiche.
In entrambi i casi l’Ente locale deve gestire i pubblici servizi connessi alle opere di urbanizzazione esistenti (servizio viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni svolte nelle pronunce e condivise dal Collegio di questa Sezione: sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e ordinanza 316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942- “l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile (perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio assolutamente consolidato in giurisprudenza (ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 03.05.2011, n. 606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187 e Sez. II, 21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n. 1373/2004; Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n. 1514)
”.
Nella stessa sentenza, la Sezione ha poi precisato che tale approccio interpretativo ha trovato ulteriore consacrazione normativa a seguito dell’entrata in vigore del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia), ove all’art. 16, comma 2, si afferma che “2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
Quindi, una volta ricondotte al regime del patrimonio indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema di protezione di cui all’art. 828, comma 2, del codice civile, secondo cui “I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”, il che ne impedisce l’alienazione e l’usucapione da parte dei privati (cfr., ex multis, Cassazione civile, Sez. II, 15.02.2010, n. 3465).
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), la loro proprietà necessariamente deve essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta (cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II, sentenza n. 990 del 2009).
Proprio perché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, il legislatore espressamente ne affida la titolarità all’autorità amministrativa (cfr., ad es., la legge regionale 17.10.1997, n. 29 e il D.L.gvo 02.02.2001, n. 31, per quanto riguarda il servizio idrico, nonché il d.lgvo 30.04.1992, n. 285 per la viabilità stradale).
La gestione di simili servizi deve necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei servizi pubblici -con la previsione della necessità di un piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e regolamentari quanto a contenuto e procedimento di approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che conducono all’inaccettabilità della tesi sostenuta della difesa del Comune sull’assenza di un obbligo per lo stesso di prendere in carica le opere di urbanizzazione; le strade sono oramai entrate nel patrimonio del Comune per utilizzo pubblico delle stesse da oltre quarant’anni, come già affermato dalla Sezione con la sentenza n. 1738 del 2008 in relazione ad una strada della località, cosicché i danni derivanti dalla circolazione per omessa o insufficiente manutenzione non potrebbero che gravare anche sullo stesso Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i ricorrenti potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri per la manutenzione delle strade, tenuto conto che non hanno alcuna quota di proprietà sulle stesse, tenuto anche conto che le stesse sono soggette al pubblico transito e tenuto conto che non potrebbero essere costretti a far parte di un condominio per la loro gestione, in assenza di contitolarità sulle stesse; la partecipazione ad un consorzio per la gestione di servizi comuni, in assenza di una contitolarità sui beni, implica l’adesione volontaria per la fruizione degli stessi, che sicuramente non potrebbe essere imposta ai ricorrenti, tantomeno ai sub acquirenti delle abitazioni presenti nel compendio, stante la proprietà Comunale sul sedime stradale ed il connesso uso pubblico sullo stesso.
Per le su esposte considerazioni va accolta la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune di Sinnai di prendere in carico le opere di urbanizzazione primaria presenti nei comparti in questione anche al fine di permettere ai cittadini di Torre delle Stelle di ottenere l’allaccio delle loro utenze ai servizi pubblici (idrico, fognario, elettrico…) erogati dai vari gestori.
2 - Per quanto riguarda l’ulteriore, ancorché correlata, domanda, come precisata nel corso del ricorso, di condanna del Comune a porre in essere tutte le attività necessarie alla manutenzione delle opere di urbanizzazione dopo la loro presa in carico, il Collegio la ritiene inammissibile.
Al riguardo, infatti, la Sezione ribadisce il proprio consolidato orientamento (già confermato dal giudice d’appello) in base al quale una domanda così prospettata è da considerarsi inammissibile e ciò non tanto sotto il profilo del difetto di giurisdizione quanto per carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti, i quali invocano la condanna del Comune a porre in essere dei comportamenti materiali (la manutenzione delle opere di urbanizzazione) che sono, invece, rimessi alle sue scelte politico-amministrative, anche in relazione alle contingenti disponibilità di bilancio; pertanto tale pretesa non corrisponde ad una posizione di vantaggio processualmente tutelata dall’ordinamento -id est ad una situazione soggettiva qualificabile alla stregua di interesse legittimo- essendo oggetto di un compito attribuito alla pubblica amministrazione al fine di soddisfare bisogni ascrivibili alla collettività nel suo complesso, come tali non differenziabili ed in definitiva classificabili alla stregua di interessi semplici e di fatto (in termini TAR Sardegna, Sezione II, 10.09.2013 n. 602 e 10.10.2012, n. 1154; Consiglio di Stato, Sezione V, 29.12.2004, n. 7773) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.03.2015 n. 469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che, in caso di inottemperanza sostanziale dell’ingiunzione di demolizione, l’effetto acquisitivo operi automaticamente e neppure occorra un avviso di inizio di un nuovo procedimento.
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Per quanto riguarda la impugnazione della sanzione pecuniaria, il combinato disposto dell’art. 31, comma 4-bis, e dell’art. 27, comma 2, DPR 380/2001 impone di irrogare la sanzione nella misura massima quando l’abuso insiste, come nel caso de quo, in area dove è vietato l’intervento edilizio.

- Considerato che, oggetto del presente ricorso è l’attività provvedimentale conseguente a un’ingiunzione di demolizione di un vasto complesso di opere abusive ex art. 31 D.lgs. 380/2001, ingiunzione non impugnata;
- Rilevato come dai sopralluoghi successivamente eseguiti dall’Amministrazione risulti che l’ingiunzione non è stata in gran parte ottemperata e che l’area, destinata a zona agricola (la destinazione C/3 di una parte è subordinata a un PUA non adottato), risulta attualmente alterata dagli abusi non rimossi, destinati ad attività di autorimessa, già negativamente accertata da questo TAR (sentenza n. 81/2015), conformemente all’orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Puglia, Bari, III, 26.02.2009 n. 404);
- Sottolineato che è pacifico che, in caso di inottemperanza sostanziale dell’ingiunzione di demolizione, l’effetto acquisitivo operi automaticamente (cfr CdS, IV, 26.02.2013 n. 1179) e neppure occorra un avviso di inizio di un nuovo procedimento;
- Rilevato come l’area de qua acquisita non sia costituita anche dalle c.d. pertinenze urbanistiche, bensì solo dal sedime, riguardando questo anche la parte del terreno agricolo trasformata con la pavimentazione abusiva in calcestruzzo e ghiaia, così che neppure è rilevante l’eccezione di incostituzionalità sollevata dalla parte ricorrente;
- Rilevato altresì che la superficie da acquisire è ricavabile dalle planimetrie allegate all’ordinanza di accertamento di inottemperanza e che la presupposta ordinanza di ripristino non è stata impugnata;
- Rilevato ancora che, anche a voler qualificare servitù di passaggio quella disposta a carico del mappale 541, la sua costituzione rientrerebbe comunque nel potere-dovere di confisca;
- Considerato –per quanto riguarda la impugnazione della sanzione pecuniaria– che il combinato disposto dell’art. 31, comma 4-bis, e dell’art. 27, comma 2, DPR 380/2001 impone di irrogare la sanzione nella misura massima quando l’abuso insiste, come nel caso de quo, in area dove è vietato l’intervento edilizio (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.03.2015 n. 358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine del calcolo della sanzione di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 - ora art. 34 DPR 380/2001 (pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n. 392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione), allorché la difformità si traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è logico e congruo che il Comune ricorra all’applicazione analogica del criterio di stima previsto della legge 28.02.1985, n. 47, relativamente al condono edilizio, che nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore dell’immobile, e deve conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume abusivamente realizzato con l’aumento di altezza.
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Altrettanto logico e congruo è che il Comune calcoli il dato mancante di superficie attraverso la divisione del volume accertato per l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici residenziali aventi caratteristiche analoghe.

Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione e l’illegittimità dell’applicazione della sanzione ragguagliata alla superficie virtuale, dato che si tratta di una violazione che ha comportato un aumento di volumetria senza aumento di superficie.
Le censure devono essere respinte.
Come sopra precisato, al provvedimento impugnato è allegata una nota nella quale viene dato conto dell’approfondita disamina svolta in merito alla problematica, e all’inaccettabilità della pretesa del ricorrente di lasciare senza sanzioni, dal punto di vista edilizio, un intervento abusivo che abbia comportato la violazione delle altezze e delle volumetrie assentibili rispetto ad un edificio sito in centro storico, ove si debba accedere ad un’interpretazione meramente letterale alla disposizione di cui all’art. 93, comma 1, della legge regionale 27.06.1985, n. 61.
Tale norma infatti, ai fini di quantificare la sanzione applicabile alle fattispecie nelle quali non può disporsi la demolizione senza pregiudizio per le parti conformi, fa riferimento al doppio del costo di produzione della parte realizzata in difformità, determinato ai sensi della L. 27.07.1978, n. 392, e la norma da ultimo richiamata, facendo riferimento alla superficie dell’edificio, secondo il suo tenore letterale sarebbe inapplicabile alle fattispecie di aumento di volume senza aumento di superficie.
Esclusa la percorribilità dell’ipotesi di lasciare l’abuso senza sanzione, il Comune accantona, perché sostanzialmente ingiusta e priva di proporzionalità, anche l’altra soluzione interpretativa astrattamente prospettabile, in base alla quale la sanzione dovrebbe essere parametrata a tutta la superficie del piano, dato che nel caso di specie l’abuso non ha comportato la realizzazione di nuove superfici.
Per risolvere il problema posto dalla norma che fa riferimento alle superfici, il Comune ricorre allora all’applicazione analogica del criterio di stima previsto della legge 28.02.1985, n. 47 (cfr. la prima nota alla tabella allegata alla legge), relativamente al condono edilizio, che nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore dell’immobile.
Orbene, il Collegio ritiene che la metodologia applicata con il ricorso all’analogia al fine di stimare in termini di superficie la violazione, sia corretta e conforme agli orientamenti giurisprudenziali emersi sul punto, atteso che, come è stato affermato “al fine del calcolo della sanzione di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n. 392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione), allorché la difformità si traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è logico e congruo che il Comune calcoli il dato mancante di superficie attraverso la divisione del volume accertato per l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici residenziali aventi caratteristiche analoghe” (cfr. Tar Lombardia, Milano, 08.10.2004, n. 5504) e deve conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume abusivamente realizzato con l’aumento di altezza” (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 22.04.2010, n. 2778) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.03.2015 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di condono edilizio, il parere dell'ente proprietario della strada (fascia di rispetto stradale) deve far riferimento al "centro abitato" al momento in cui si svolge l'istruttoria dell'istanza e non alla data di esecuzione dell'abuso.
La valutazione richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole, essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di fatto del contesto del quale il manufatto fa parte, esistenti al momento in cui si svolge il relativo procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare.
Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto concerne la sua identificazione formale (cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).

I) I signori F.A.C. e P.T., eredi del signor L.T., chiedono la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso proposto dal de cuius avverso il parere negativo espresso dall’Anas con nota del 06.04.2005 sull’istanza di sanatoria edilizia straordinaria (c.d. condono) presentata in data 03.12.1986 ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47 di un manufatto costruito abusivamente nel 1970, posto, secondo il Tribunale amministrativo, a distanza di 23 metri dal ciglio del Grande Raccordo Anulare.
Per ottenere l’esame della domanda da parte del Comune il ricorrente in data 16 settembre ha chiesto all’Anas, ente preposto alla tutela del vincolo stradale, il preliminare parere ex art. 32, quarto comma, lett. c), della suddetta legge n. 47 del 1985.
Con la nota oggetto del ricorso di primo grado l’Anas ha espresso parere negativo alla sanatoria, in quanto l’opera è stata realizzata posteriormente al 13.04.1968 a distanza non conforme a quanto stabilito dal decreto ministeriale 01.04.1968.
La sentenza ha rilevato che l’area su cui insiste la costruzione risulta gravata dal vincolo di rispetto della viabilità principale dell’autostrada Grande Raccordo Anulare ed è successiva all’imposizione del relativo vincolo di inedificabilità. Pertanto essa non è suscettibile di sanatoria, dato che l’art. 32, quarto comma, lettera c), della legge n. 47 del 1985 la consente solo per le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione […] sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
II) Ha ricordato il primo giudice che la legge 21.05.1955, n. 463, di approvazione del Piano autostradale nazionale, ha previsto che i tracciati delle quattro autostrade che interessano il territorio della città di Roma coincidano con l’inizio e con il termine del Grande Raccordo Anulare, per evitare al traffico autostradale l'attraversamento del centro cittadino. La legge 24.07.1961, n. 729, all’art. 13 ha autorizzato e finanziato la realizzazione dei raccordi autostradali, prevedendone la trasformazione in autostrade, poi effettuata per il Grande Raccordo Anulare con decreto del ministro dei lavori pubblici. Infine, nel 1962 è stato eseguito il primo raddoppio di carreggiata nel tratto interessato.
Pertanto legittimamente l’Anas ha escluso la sanabilità del manufatto, realizzato su un’area già gravata da vincolo di inedificabilità, e non assumono valore contrario né l’esistenza di altre costruzioni asseritamente autorizzate, né l’inapplicabilità, in ragione della collocazione dell’immobile, del decreto ministeriale 01.04.1968, richiamato nel provvedimento impugnato. A quest’ultimo riguardo la sentenza ha ritenuto non sufficiente la presenza di un certo numero di edifici nell’area in questione per ritenere l’esistenza di un centro abitato, e irrilevante la più recente classificazione dovuta all’evoluzione dell’area negli anni successivi.
III) La sentenza non può, sul punto appena evidenziato, essere condivisa.
Giova premettere che il decreto ministeriale 01.04.1968 (Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19 della legge 06.08.1967, n. 765), evocato dalla nota impugnata a preclusione della sanatoria, prevede per le autostrade di qualunque tipo (legge 07.02.1961, n. 59, art. 4) e per i raccordi autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di accesso fra le autostrade e la rete viaria della zona la distanza minima di sessanta metri da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale (artt. 3 e 4: distanza che comunque non risulterebbe rispettata neppure tenendo per provata quella, pari a quaranta metri, di cui alla perizia depositata in causa dagli appellanti).
Tale distanza, peraltro, deve essere osservata al di fuori del perimetro dei centri abitati, come testualmente precisano sia il decreto citato, sia l’art. 41-septies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’articolo 19 della legge 06.08.1967, n. 765, alla quale il citato decreto ha dato attuazione.
La risposta all’istanza di condono richiesto dal ricorrente sconta, pertanto, la collocazione del manufatto (pacificamente realizzato, come si è detto, dopo l’imposizione del vincolo autostradale e a distanza inferiore a quella prescritta) all’interno del centro abitato. Una tale effettiva collocazione conduce ad una risposta positiva, essendo all’esterno operante la preclusione per vincolo di inedificabilità imposto dal citato decreto.
Il Collegio ritiene fondate le censure rivolte, sul punto, avverso la sentenza impugnata dall’appellante.
IV) Deve, infatti, essere considerato che la valutazione richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole, essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di fatto del contesto del quale il manufatto fa parte, esistenti al momento in cui si svolge il relativo procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare. Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto concerne la sua identificazione formale (cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).
Nella fattispecie in esame il certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune di Roma il 21.01.2015, depositato in atti, attesta comunque che la costruzione di cui trattasi è attualmente inserita nel tessuto urbanistico ed edilizio all’interno del piano particolareggiato 13/F “La Rustica”, approvato con deliberazione della Giunta regionale del Lazio in data 13.11.1984, con tessuto prevalentemente residenziale secondo il Piano regolatore generale approvato il 12.02.2008.
Una tale essenziale caratteristica del luogo, non solo ormai nella sua realtà profondamente mutato rispetto al tempo della realizzazione del manufatto, ma anche assoggettato a una tale qualificazione formale, avrebbe dovuto essere considerata dall’Anas. Questa invece, prescindendo da una siffatta indagine, si è attestata sulla mera collocazione formale dell’area al tempo dell’intervento, allora esterna al qualificato centro abitato.
Ne deriva l’illegittimità del parere impugnato, che esclude l’ulteriore sviluppo del procedimento, dato che la regola di cui l’Anas ha fatto applicazione non è coerente con la concreta e attuale caratteristica dell’area, ora, come si è detto, anche formalmente inglobata dal centro abitato e fronteggiata da altre costruzioni limitrofe al bordo del Grande Raccordo Anulare.
Quanto al prosieguo del procedimento di condono qui in questione, resta integro il potere dell’Anas, in sede di rinnovo del parere prescritto dall’art. 32, 4° comma, lett. c), della legge n. 47 del 1985, di valutare la compatibilità dell’immobile con le esigenze di sicurezza del traffico.
È poi il caso di evidenziare, per la certezza dei rapporti, che ai fini dell’eventuale sanatoria edilizia ordinaria le considerazioni precluse all’Anas (in quanto attinenti al vincolo di cui è custode) potranno trovare espressione da parte del Comune, la cui valutazione prettamente edilizia non potrà prescindere dall’esaminare la cosiddetta doppia conformità dell’opera abusivamente realizzata, in rispetto alla regola introdotta dall’art. 13, primo comma, della legge n. 47 del 1985, oggi art. 36, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
V) In conclusione l’appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza di primo grado e annullamento del provvedimento oggetto del ricorso, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sagoma di una costruzione concerne il contorno che viene ad assumere l'edificio ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti rientrano nella nozione di sagoma e sono sottoposte al regime delle c.d. varianti in corso d'opera.
Con la sentenza in epigrafe il Gip del tribunale di Cuneo dichiarò C.M. colpevole del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.p.R. 06.06.2001, n. 380, per avere, quale direttore dei lavori, realizzato, in parziale difformità dalla DIA, una tettoia a copertura della scala di accesso al piano seminterrato, condannandolo alla pena dell'ammenda ritenuta di giustizia.
Osservò il giudice che la tettoia in questione era stata poi demolita; che essa aveva alterato la sagoma dell'edificio, e comunque che violava le NTA del PRG perché non poteva equipararsi ad una pensilina e quindi avrebbe dovuto  rispettare la distanza di m. 10 dalla strada vicinale.
L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo erronea applicazione dell'art. 44, lett. a), d.p.R. 06.06.2001, n. 380, e dell'art. 87 delle NTA. Osserva che la scala di accesso dall'esterno al piano interrato era già esistente e che la stessa era contornata da tre muri perimetrali.
L'intervento era consistito unicamente nella copertura di questa struttura. Pertanto non era stata modificata la sagoma e non erano state violate le distanze dalla strada vicinale, perché il preesistente filo di fabbricazione non è stato variato.
...
Il ricorso è fondato.
Dalla sentenza impugnata risulta:
- che esisteva già una scala di accesso al piano interrato situata all'esterno dell'edificio principale sul lato sud;
- che la scala era contornata da tre muri perimetrali, ma priva di copertura;
- che l'intervento in questione è consistito nell'apporre un tetto a copertura di questa struttura muraria già esistente;
- che la sua situazione anteriore corrisponde a quella attuale conseguente alla demolizione della struttura di copertura.
Il giudice ha giustamente ritenuto erronea la tesi del responsabile dell'ufficio tecnico comunale, secondo cui l'intervento andrebbe qualificato come «ampliamento» sicché mancherebbe la distanza di 10 metri dalla strada vicinale, come prescritto dall'art. 87, comma 1, lett. J, delle NTA del comune di Fossano.
Il giudice, peraltro, ha ritenuto ugualmente configurabile il reato innanzitutto perché sarebbe mutata la sagoma dell'edificio, come risulterebbe anche da due sentenze di questa Corte. Sennonché, va in primo luogo rilevato che con il capo di imputazione non risulta contestato il cambiamento di sagoma, ma unicamente la violazione delle distanze dalla strada vicinale.
In secondo luogo, una delle due massime citate (Sez. III, 09.02.1998, n. 3849, Maffullo, m. 210647) -dopo aver affermato il principio che «La sagoma di una costruzione concerne il contorno che viene ad assumere l'edificio ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti rientrano nella nozione di sagoma e sono sottoposte al regime delle c.d. varianti in corso d'opera»- si riferisce alla realizzazione ex novo di una scala esterna di accesso al primo piano, che pertanto aveva alterato la sagoma dell'edificio ed impedito la sanatoria, integrando l'ipotesi della parziale difformità.
Nella specie, invece, la scala già esisteva, compresi i muri perimetrali e l'opera è consistita unicamente nel coprire con un tetto una struttura muraria già esistente.
In terzo luogo, la seconda massima citata (Sez. 111, 09.02.2006, n. 8303, Nardini, m. 233563) ribadisce il principio che «In tema di disciplina edilizia, rientrano nel concetto di sagoma di una costruzione tutte le strutture perimetrali come gli aggetti e gli sporti, restandone escluse le sole aperture che non prevedono superfici sporgenti, soltanto per le quali è consentita la procedura della denunzia di inizio attività per varianti in corso d'opera».
Nella specie, pertanto, non si comprende come possa ritenersi alterata la sagoma, dal momento che dalla sentenza impugnata non risultano realizzati, rispetto all'edificio preesistente, nuovi aggetti o sporti o nuove strutture perimetrali, bensì solo la copertura di una preesistente struttura.
Del resto, il giudice non insiste sulla (non contestata) alterazione della sagoma e sembra fondare la sua decisione unicamente sulla violazione dell'art. 87, comma 1, lett. j, della NTA del PRG, secondo il quale la distanza rispetto alla strada vicinale di almeno 10 metri, va riferita al filo di fabbricazione, il quale è dato dal perimetro esterno delle pareti della costruzione, con esclusione degli elementi decorativi, dei cornicioni, delle pensiline, dei balconi e delle altre analoghe opere, aggettanti per non più di m. 1,50, mentre sono inclusi nel perimetro le verande, gli elementi portanti in risalto, gli spazi porticati, i vani semiaperti di scale e ascensori. Il giudice ha quindi ritenuto che l'opera in questione, ai fini del calcolo della distanza della costruzione dal ciglio stradale, andava «inclusa nel perimetro esterno, non essendo la stessa equiparabile a una semplice "pensilina", posto che poggia su pilastri infissi nel suolo».
Sennonché, giustamente la difesa osserva che il giudice non ha considerato che tale perimetro esterno già preesisteva, dal momento che i muri esterni della scala non erano stati oggetto d'intervento, che era consistito unicamente nella posa del tetto. Di conseguenza, proprio sulla base della norma regolamentare richiamata dal giudice, deve concludersi nel senso che il preesistente filo di fabbricazione non fu variato. E del resto, la norma regolamentare citata include espressamente nel perimetro esterno «i vani semi-aperti di scale e ascensori».
Nella specie risulta appunto già esistente un vano chiuso su tre lati e privo di copertura, che dunque costituiva vano semiaperto e che pertanto era incluso nel perimetro esterno della costruzione. L'opera contestata consiste appunto nella realizzazione del tetto di questo vano semiaperto, che non aggetta certamente per più di 1,5 m. e che di conseguenza non è computabile ai fini della distanza.
In conclusione, è chiaro l'errore in cui è incorso il giudice nel ritenere che l'intervento sia consistito nella realizzazione di una tettoia, la quale è un manufatto composto da una struttura di sostegno (pilastri o muri) e da un tetto di copertura.
Nel caso in esame, invece, la struttura di sostegno era già preesistente e costituiva a tutti gli effetti «perimetro esterno» ai sensi dell'art. 16 della NTA del PRG del comune di Fossano. L'apposizione di un tetto aggettante per meno di m. 1,50 non ha perciò variato il perimetro esterno e dunque non ha violato la distanza di m. 10 dalla adiacente strada vicinale.
Risulta quindi evidente che la violazione contestata con il capo di imputazione non sussiste. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2013 n. 14417).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia sono realizzabili con denuncia di inizio attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall'art. 10, comma primo, lett. c), DPR n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari o modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire.
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi da questa sezione con la sentenza n. 834 del 04.12.2008, con la quale è stato specificamente evidenziato che "In tema di reati edilizi, l'apertura di una porta al posto di una preesistente finestra necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta di intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
Altrettanto dicasi per la veranda con travetti frangisole. Perfino la realizzazione dl una tettoia di copertura di un terrazzo di un'abitazione non può qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza atteso che costituendo parte integrante dell'edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001.
Più di recente è stato ribadito che "Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del 2001 la realizzazione di una tettoia, in mancanza del preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la semplice DIA (In motivazione viene specificato che costituisce "nuova costruzione" qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato e che tale deve considerarsi la tettoia, anche se accessoria ad un manufatto preesistente, tenuto altresì conto che nella nozione di sagoma rientra anche lo sviluppo in altezza dell'immobile").

1. La Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 29.02.2012, confermava la sentenza del Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, resa il 25.02.2010, con la quale Tondi Rosa Margherita, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, era stata condannata alla pena (sospesa alle condizioni di legge) di giorni 20 di arresto ed euro 8.000,00 di ammenda per il reato di cui all'art. 44, lett. b), DPR 380/2001, limitatamente alla modifica del prospetto ed alla realizzazione di una veranda con travetti frangisole ed annessa scala in cemento armato in assenza di permesso di costruire.
Nel disattendere I motivi di appello, rilevava la Corte territoriale che tanto la scala in cemento armato quanto l'arretramento del portoncino costituivano modifica del prospetto per cui necessitavano d permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. c) DPR 380/01. Anche la realizzazione della veranda, che non costituisce una pertinenza, in quanto determina l'ampliamento del fabbricato, richiedeva il rilascio di permesso di costruire.
Infine, in ordine all'epoca di realizzazione di dette opere, assumeva la Corte che doveva farsi riferimento alla data di presentazione della DIA, come confermato dal tecnico comunale, e, non avendo l'imputata fornita alcuna prova in senso contrario, il reato non poteva ritenersi prescritto.
...
3.1.1. In ordine allo spostamento del portoncino ed alla realizzazione della scala, non c'è dubbio che si sia determinata una modifica del prospetto dell'edificio, per cui era necessario permesso di costruire.
"In materia edilizia sono realizzabili con denuncia di inizio attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall'art. 10, comma primo, lett. c), DPR n. 380 del 2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari o modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire" (con la sentenza n. 1893 del 13.12.2006; conf. Cass. pen. sez. 3 n. 12369 dei 25.02.2003).
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi da questa sezione con la sentenza n. 834 del 04.12.2008, con la quale è stato specificamente evidenziato che "In tema di reati edilizi, l'apertura di una porta al posto di una preesistente finestra necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera denuncia d'inizio attività poiché si tratta di intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti, in quanto tale non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore".
3.1.2. Altrettanto dicasi per la veranda con travetti frangisole. Perfino la realizzazione dl una tettoia di copertura di un terrazzo di un'abitazione non può qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza atteso che costituendo parte integrante dell'edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001 (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 40843 dell'11.10.2005).
Più di recente è stato ribadito che "Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del 2001 la realizzazione di una tettoia, in mancanza del preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la semplice DIA (In motivazione viene specificato che costituisce "nuova costruzione" qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato e che tale deve considerarsi la tettoia, anche se accessoria ad un manufatto preesistente, tenuto altresì conto che nella nozione di sagoma rientra anche lo sviluppo in altezza dell'immobile")- Cass. pen. sez. 3 n. 21351 del 06.05.2010 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza n. 4142/2013).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza urbanistica, diversamente da quella dettata dall'art. 817 del codice civile, ha peculiarità sue proprie, inerendo essa ad un'opera- che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale- preordinata ad un'esigenza oggettiva dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o dotata dì un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale una destinazione autonome e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede.
La strumentalità rispetto all'immobile principale deve essere in ogni caso oggettiva, e non può desumersi, a differenza di quanto consente la nozione civilistica di pertinenza, esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario o dal possessore. L'opera pertinenziale inoltre, non deve essere parte integrante o costitutiva di altro fabbricato, sicché non può considerarsi tale l'ampliamento di un edificio che, per la relazione di congiunzione fisica con esso, ne costituisca parte.
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La realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un'abitazione non può qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza atteso che costituendo parte integrante dell'edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001.
Anche più di recente è stato ribadito che "Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del 2001 la realizzazione, in mancanza del preventivo rilascio del permesso dì costruire, di una tettoia di copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la semplice DIA".

1) Con sentenza del 16.06.2010 la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Torre Annunziato, sez, dist. di Torre del Greco, in composizione monocratica, del 28.01.2008, con la quale F.F., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, applicata la diminuente per la scelta del rito, era stato condannato alla pena (sospesa) di mesi otto di reclusione per i reati di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001 (capo a), 64 e 71, 65 e 72 DPR 380/2001 (capo b), 93 e 95 DPR 380/2001 (capo c), 181, comma 1-bis, D.L.vo 42/2004 (capo d), 734 c.p. (capo e), 349 cpv.c.p. (capo f), unificati sotto il vincolo della continuazione.
Assumeva la Corte che il manufatto (una tettoia con copertura in tegole in laterizio, sostenuta da travi e pilastri in ferro, occupante una superficie di circa mq. 60,00) realizzato in aderenza al preesistente fabbricato non poteva certo integrare la nozione di pertinenza, come delineato dalla giurisprudenza di legittimità, e pertanto abbisognava di permesso di costruire e di tutte le altre autorizzazioni.
...
3) Il ricorso è inammissibile.
3.1) Il primo e secondo motivo sono manifestamente infondati, avendo la Corte territoriale adeguatamente motivato in ordine alla necessità del permesso di costruire, non potendo una tettoia, realizzata in aderenza ad un preesistente manufatto (come quella di cui alla contestazione), rientrare nella nozione di pertinenza.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, invero, "la nozione di pertinenza urbanistica, diversamente da quella dettata dall'art. 817 del codice civile, ha peculiarità sue proprie, inerendo essa ad un'opera- che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale- preordinata ad un'esigenza oggettiva dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o dotata dì un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale una destinazione autonome e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede" (vedi tra le molteplici decisioni, Cass. sez. 3, 09.12.2004, Bufano).
"La strumentalità rispetto all'immobile principale deve essere in ogni caso oggettiva, e non può desumersi, a differenza di quanto consente la nozione civilistica di pertinenza, esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario o dal possessore. L'opera pertinenziale inoltre, non deve essere parte integrante o costitutiva di altro fabbricato, sicché non può considerarsi tale l'ampliamento di un edificio che, per la relazione di congiunzione fisica con esso, ne costituisca parte..." (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 2017 del 25.10.2007-Giangrasso).
In particolare, proprio in relazione ad una tettoia, realizzata su un edificio preesistente, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, si è ritenuto necessario il permesso di costruire. Infatti, "La realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un'abitazione non può qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza atteso che costituendo parte integrante dell'edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 40843 dell'11.10.2005).
Anche più di recente è stato ribadito che "Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), DPR n. 380 del 2001 la realizzazione, in mancanza del preventivo rilascio del permesso dì costruire, di una tettoia di copertura di un manufatto, non essendo sufficiente la semplice DIA" (in motivazione viene specificato che costituisce "nuova costruzione" qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato e che tale deve considerarsi la tettoia, anche se accessoria ad un manufatto preesistente, tenuto altresì conto che nella nozione di sagoma rientra anche lo sviluppo in altezza dell'immobile) Cass. pen. sez. 3 n. 21351 del 06.05.2010 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza n. 4076/2012).

AGGIORNAMENTO AL 04.09.2015

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla fidejussione a garanzia del versamento rateizzato del contributo di costruzione.
Si ritiene che spetti al giudice amministrativo l’esame dell’atto con cui l’amministrazione chiede al fideiussore il pagamento del contributo di costruzione in caso di inadempimento del titolare del permesso di costruire.
Le fideiussioni che garantiscono un sottostante rapporto amministrativo, anche se dotate della formula a prima richiesta, rimangono intrinsecamente accessorie al suddetto rapporto. Si tratta di uno dei vari strumenti privatistici utilizzati per lo svolgimento di una funzione pubblica, secondo un’impostazione sempre più diffusa, che non modifica il confine del settore amministrativo.
L’escussione della fideiussione non è quindi un mero atto privatistico indirizzato a un soggetto terzo, ma ha la sostanza di un atto amministrativo, perfettamente equivalente all’esercizio del potere di vigilanza e repressione nei confronti degli inadempimenti del titolare del permesso di costruire.
Il fatto che il fideiussore non possa opporre le eccezioni proprie del titolare del permesso di costruire non significa che quest’ultimo debba subire l’iniziativa dell’amministrazione senza potersi difendere efficacemente, facendo valere la propria interpretazione della disciplina urbanistico-edilizia. L’interesse alla difesa appare invece evidente, in quanto l’escussione produce conseguenze rilevanti anche sul titolare del permesso di costruire.
Da un lato, infatti, attraverso l’escussione viene confermato l’importo del contributo di costruzione, che normalmente costituisce (come nel caso in esame) il punto centrale del conflitto con l’amministrazione, dall’altro il pagamento determina, con il diritto di regresso, una gravosa esposizione del debitore nei confronti del fideiussore escusso.

1. Il Comune di Arcene ha rilasciato alla società ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del 14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3 edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La Fornace”. Il contributo di costruzione (€ 197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche della superficie destinata ad autorimesse e aree di manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la rateizzazione del resto (v. provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011), con applicazione degli interessi legali, come previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del 09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate, ciascuna di importo pari a € 15.324, da corrispondere a intervalli trimestrali tra il 22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha presentato una polizza fideiussoria emessa da Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a € 192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di pagamento della quarta rata) la ricorrente ha effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione, ricalcolato escludendo la superficie destinata ad autorimesse e non computando la suddetta superficie ai fini dell’individuazione della classe degli edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta computati gli interessi per la rateizzazione, l’importo definitivo risulterebbe pari a € 98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10, effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha comunicato una nuova escussione parziale della fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il 30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il regime di gratuità integrale per i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed esclude le relative superfici dalla definizione della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR 06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con riferimento alle disposizioni della deliberazione giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono che il contributo di costruzione residuo venga rideterminato qualora il costo di costruzione subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del contributo di costruzione sarebbe stato versato ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una pronuncia che accerti il contributo di costruzione nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente condanna alla restituzione della somma versata o escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla giurisdizione
9. Per quanto riguarda i dubbi sulla giurisdizione sollevati dal Comune, si ritiene che spetti al giudice amministrativo l’esame dell’atto con cui l’amministrazione chiede al fideiussore il pagamento del contributo di costruzione in caso di inadempimento del titolare del permesso di costruire.
10. Le fideiussioni che garantiscono un sottostante rapporto amministrativo, anche se dotate della formula a prima richiesta, rimangono intrinsecamente accessorie al suddetto rapporto. Si tratta di uno dei vari strumenti privatistici utilizzati per lo svolgimento di una funzione pubblica, secondo un’impostazione sempre più diffusa, che non modifica il confine del settore amministrativo.
L’escussione della fideiussione non è quindi un mero atto privatistico indirizzato a un soggetto terzo, ma ha la sostanza di un atto amministrativo, perfettamente equivalente all’esercizio del potere di vigilanza e repressione nei confronti degli inadempimenti del titolare del permesso di costruire.
11. Il fatto che il fideiussore non possa opporre le eccezioni proprie del titolare del permesso di costruire non significa che quest’ultimo debba subire l’iniziativa dell’amministrazione senza potersi difendere efficacemente, facendo valere la propria interpretazione della disciplina urbanistico-edilizia. L’interesse alla difesa appare invece evidente, in quanto l’escussione produce conseguenze rilevanti anche sul titolare del permesso di costruire.
Da un lato, infatti, attraverso l’escussione viene confermato l’importo del contributo di costruzione, che normalmente costituisce (come nel caso in esame) il punto centrale del conflitto con l’amministrazione, dall’altro il pagamento determina, con il diritto di regresso, una gravosa esposizione del debitore nei confronti del fideiussore escusso (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla acquiescenza del titolo edilizio ritirato.
La circostanza che la ricorrente abbia inizialmente interloquito con gli uffici comunali sull’importo del contributo di costruzione, e poi abbia pagato gran parte della somma richiesta dal Comune, non determina alcuna acquiescenza.
Perché vi possa essere acquiescenza occorre che il privato sia perfettamente libero da timori o aspettative. Quando invece l’esecuzione di un obbligo imposto dall’amministrazione sia anche la condizione per ottenere un vantaggio immediato (ad esempio, il rilascio del titolo edilizio) o per non perdere vantaggi futuri (ad esempio, la proroga del titolo edilizio, o l’approvazione di varianti) è evidente che non vi è affatto una piena accettazione della volontà dell’amministrazione, ma solo una scelta dettata dall’opportunità di rinviare a un momento successivo l’inizio della controversia.
In questo caso, opera semplicemente il termine di prescrizione, che per i diritti di natura economica collegati a titoli edilizi è quello ordinario decennale. Una conseguenza secondaria dell’attesa del privato riguarda la data di decorrenza degli interessi legali sulle somme di cui è chiesta la restituzione: poiché il rinvio della controversia corrisponde anche a un’utilità per il privato stesso, gli interessi potranno decorrere solo dalla notifica del ricorso.
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1. Il Comune di Arcene ha rilasciato alla società ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del 14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3 edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La Fornace”. Il contributo di costruzione (€ 197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche della superficie destinata ad autorimesse e aree di manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la rateizzazione del resto (v. provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011), con applicazione degli interessi legali, come previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del 09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate, ciascuna di importo pari a € 15.324, da corrispondere a intervalli trimestrali tra il 22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha presentato una polizza fideiussoria emessa da Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a € 192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di pagamento della quarta rata) la ricorrente ha effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione, ricalcolato escludendo la superficie destinata ad autorimesse e non computando la suddetta superficie ai fini dell’individuazione della classe degli edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta computati gli interessi per la rateizzazione, l’importo definitivo risulterebbe pari a € 98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10, effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha comunicato una nuova escussione parziale della fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il 30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il regime di gratuità integrale per i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed esclude le relative superfici dalla definizione della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR 06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con riferimento alle disposizioni della deliberazione giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono che il contributo di costruzione residuo venga rideterminato qualora il costo di costruzione subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del contributo di costruzione sarebbe stato versato ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una pronuncia che accerti il contributo di costruzione nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente condanna alla restituzione della somma versata o escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sull’acquiescenza
12. La circostanza che la ricorrente abbia inizialmente interloquito con gli uffici comunali sull’importo del contributo di costruzione, e poi abbia pagato gran parte della somma richiesta dal Comune, non determina alcuna acquiescenza.
13. Perché vi possa essere acquiescenza occorre che il privato sia perfettamente libero da timori o aspettative. Quando invece l’esecuzione di un obbligo imposto dall’amministrazione sia anche la condizione per ottenere un vantaggio immediato (ad esempio, il rilascio del titolo edilizio) o per non perdere vantaggi futuri (ad esempio, la proroga del titolo edilizio, o l’approvazione di varianti) è evidente che non vi è affatto una piena accettazione della volontà dell’amministrazione, ma solo una scelta dettata dall’opportunità di rinviare a un momento successivo l’inizio della controversia.
In questo caso, opera semplicemente il termine di prescrizione, che per i diritti di natura economica collegati a titoli edilizi è quello ordinario decennale. Una conseguenza secondaria dell’attesa del privato riguarda la data di decorrenza degli interessi legali sulle somme di cui è chiesta la restituzione: poiché il rinvio della controversia corrisponde anche a un’utilità per il privato stesso, gli interessi potranno decorrere solo dalla notifica del ricorso (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In Lombardia, i box sono sempre e comunque gratuiti a prescindere se superino -o meno- il rapporto di legge di 1 mq/10 mc.. E la relativa snr non concorre alla determinazione della classe dell'edificio.
Circa la gratuità del permesso di costruire nella parte relativa alle autorimesse, questo TAR si è già pronunciato più volte in senso affermativo.
L’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 attribuisce la massima estensione al principio della gratuità, riferendolo espressamente a tutte le tipologie di parcheggi (“pertinenziali e non pertinenziali, realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge”).
Non è quindi possibile limitare il beneficio alle costruzioni esistenti, o ai parcheggi privati disciplinati da convenzioni urbanistiche o rientranti nel programma urbano dei parcheggi. La disciplina di favore è chiarita e completata dal comma 2 dell’art. 69, il quale espressamente stabilisce che “[a]i fini del calcolo del costo di costruzione, le superfici destinate a parcheggi non concorrono alla definizione della classe dell'edificio”.
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Non si ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 della LR 12/2005, proposta dal Comune in relazione all’asserito superamento dei limiti della competenza legislativa regionale.
In realtà, la realizzazione di parcheggi privati corrisponde a esigenze di interesse pubblico (minore ingombro degli spazi della viabilità, minori spese per parcheggi comunali) che possono presentarsi in forma differenziata sul territorio nazionale, ferma restando la necessità di una soglia minima omogenea. Non è dunque irragionevole o disfunzionale che le normative regionali siano a loro volta differenziate, e incentivino in grado maggiore o minore la realizzazione dei parcheggi privati, tenendo conto delle particolarità locali.
Del resto, la disposizione generale dell’art. 16 del DPR 380/2001 rinvia ai parametri stabiliti dalle regioni sia per gli oneri di urbanizzazione (comma 4) sia per il costo di costruzione (comma 9), ovvero le due voci in relazione alle quali viene determinato il contributo di costruzione. Vi sono quindi margini a disposizione del legislatore regionale per ottenere, attraverso la leva del costo delle edificazioni, risultati di interesse pubblico individuati e definiti su scala locale.
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Nel caso in esame, l’art. 69 della LR 12/2005 non è stato rispettato, e pertanto il calcolo del contributo di costruzione dovrà essere rinnovato escludendo i parcheggi, sia direttamente sia in relazione alla classe dell’edificio.
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1. Il Comune di Arcene ha rilasciato alla società ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del 14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3 edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La Fornace”. Il contributo di costruzione (€ 197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche della superficie destinata ad autorimesse e aree di manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la rateizzazione del resto (v. provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011), con applicazione degli interessi legali, come previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del 09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate, ciascuna di importo pari a € 15.324, da corrispondere a intervalli trimestrali tra il 22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha presentato una polizza fideiussoria emessa da Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a € 192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di pagamento della quarta rata) la ricorrente ha effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione, ricalcolato escludendo la superficie destinata ad autorimesse e non computando la suddetta superficie ai fini dell’individuazione della classe degli edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta computati gli interessi per la rateizzazione, l’importo definitivo risulterebbe pari a € 98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10, effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha comunicato una nuova escussione parziale della fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il 30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il regime di gratuità integrale per i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed esclude le relative superfici dalla definizione della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR 06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con riferimento alle disposizioni della deliberazione giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono che il contributo di costruzione residuo venga rideterminato qualora il costo di costruzione subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del contributo di costruzione sarebbe stato versato ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una pronuncia che accerti il contributo di costruzione nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente condanna alla restituzione della somma versata o escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sulla gratuita dei parcheggi
14. Circa la gratuità del permesso di costruire nella parte relativa alle autorimesse, questo TAR si è già pronunciato più volte in senso affermativo (v. sentenze n. 1709 del 29.09.2009, e n. 508 del 24.05.2013).
L’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 attribuisce la massima estensione al principio della gratuità, riferendolo espressamente a tutte le tipologie di parcheggi (“pertinenziali e non pertinenziali, realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge”).
Non è quindi possibile limitare il beneficio alle costruzioni esistenti, o ai parcheggi privati disciplinati da convenzioni urbanistiche o rientranti nel programma urbano dei parcheggi. La disciplina di favore è chiarita e completata dal comma 2 dell’art. 69, il quale espressamente stabilisce che “[a]i fini del calcolo del costo di costruzione, le superfici destinate a parcheggi non concorrono alla definizione della classe dell'edificio”.
15. Non si ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 della LR 12/2005, proposta dal Comune in relazione all’asserito superamento dei limiti della competenza legislativa regionale.
In realtà, la realizzazione di parcheggi privati corrisponde a esigenze di interesse pubblico (minore ingombro degli spazi della viabilità, minori spese per parcheggi comunali) che possono presentarsi in forma differenziata sul territorio nazionale, ferma restando la necessità di una soglia minima omogenea. Non è dunque irragionevole o disfunzionale che le normative regionali siano a loro volta differenziate, e incentivino in grado maggiore o minore la realizzazione dei parcheggi privati, tenendo conto delle particolarità locali.
Del resto, la disposizione generale dell’art. 16 del DPR 380/2001 rinvia ai parametri stabiliti dalle regioni sia per gli oneri di urbanizzazione (comma 4) sia per il costo di costruzione (comma 9), ovvero le due voci in relazione alle quali viene determinato il contributo di costruzione. Vi sono quindi margini a disposizione del legislatore regionale per ottenere, attraverso la leva del costo delle edificazioni, risultati di interesse pubblico individuati e definiti su scala locale.
16. Nel caso in esame, l’art. 69 della LR 12/2005 non è stato rispettato, e pertanto il calcolo del contributo di costruzione dovrà essere rinnovato escludendo i parcheggi, sia direttamente sia in relazione alla classe dell’edificio.
17. Poiché nelle memorie difensive si fa riferimento a una variante progettuale chiesta dalla ricorrente, che trasformerebbe una parte delle autorimesse in superficie con diversa destinazione, è ora necessario risolvere tale questione con precedenza su tutte le altre.
A tutela delle finanze pubbliche, il Comune può infatti legittimamente rinviare il nuovo calcolo (e la restituzione di quanto incamerato in eccedenza) in attesa che diventi definitivo il dato sulla superficie dei parcheggi. Il bilanciamento di tale posizione di vantaggio è costituito dall’obbligo di decidere sulla richiesta di variante in un termine breve (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di versamento rateizzato del costo di costruzione non è legittimo adeguare gli importi delle rate in ordine al sopravvenire di aumenti del costo base del medesimo costo di costruzione.
Le deliberazioni giuntali n. 20/2011 e 14/2005 prevedono che nel caso di rateizzazione, qualora sopravvengano aumenti del costo di costruzione, il contributo di costruzione residuo deve essere adeguato ai suddetti aumenti.
Queste disposizioni pongono il problema della compatibilità con l’art. 16, comma 3, del DPR 380/2001, in base al quale la quota di contributo relativa al costo di costruzione è determinata al momento del rilascio del titolo edilizio ed è corrisposta in corso d'opera.
In proposito si ritiene che, se i lavori sono ultimati nel termine di validità del titolo edilizio, e se i pagamenti delle rate sono regolari, l’importo del contributo di costruzione non possa variare, essendo necessario garantire la certezza del diritto e l’affidamento di chi inizia un intervento edificatorio.
Se però il privato non completa i lavori entro il termine massimo, oppure non completa il pagamento delle rate secondo le scadenze prefissate, fuoriesce dal quadro giuridico originario e si espone alle modifiche tariffarie intervenute nel frattempo. In queste ipotesi, dunque, l’amministrazione potrà legittimamente imporre l’integrazione della parte residua del contributo di costruzione.
Questo vale anche quando il differimento del termine finale del titolo edilizio sia una facoltà concessa direttamente dal legislatore in deroga alla disciplina ordinaria, come è avvenuto nel caso in esame (il 10.12.2013 la ricorrente ha comunicato al Comune il posticipo di due anni della conclusione dei lavori, ossia al 14.04.2016, avvalendosi della previsione di cui all’art. 30, comma 3, del DL 21.06.2013 n. 69).
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1. Il Comune di Arcene ha rilasciato alla società ricorrente E.A.srl il permesso di costruire n. 4 del 14.04.2011, autorizzando la realizzazione di 3 edifici per un totale di 42 appartamenti nel PL “La Fornace”. Il contributo di costruzione (€ 197.535,97) è stato calcolato tenendo conto anche della superficie destinata ad autorimesse e aree di manovra (1.870,63 mq).
2. La ricorrente ha versato € 49.384 al momento del rilascio del titolo edilizio, e ha ottenuto la rateizzazione del resto (v. provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 22.03.2011), con applicazione degli interessi legali, come previsto dalla deliberazione giuntale n. 20 del 09.03.2011.
La restituzione doveva avvenire in dieci rate, ciascuna di importo pari a € 15.324, da corrispondere a intervalli trimestrali tra il 22.07.2011 e il 22.10.2013.
A garanzia della restituzione la ricorrente ha presentato una polizza fideiussoria emessa da Atradius Credit Insurance NV per un valore pari a € 192.598.
3. La ricorrente ha versato per intero le prime quattro rate, ma senza rispettare, per la quarta, la scadenza prevista. Dopo il 13.06.2012 (data di pagamento della quarta rata) la ricorrente ha effettuato altri versamenti parziali, e ha quindi interrotto ogni pagamento.
Secondo la ricorrente, il contributo di costruzione, ricalcolato escludendo la superficie destinata ad autorimesse e non computando la suddetta superficie ai fini dell’individuazione della classe degli edifici, sarebbe pari a € 97.949,90. Una volta computati gli interessi per la rateizzazione, l’importo definitivo risulterebbe pari a € 98.394,35.
Questa somma era già stata interamente corrisposta alla data del 13.06.2012. Rispetto all’importo dovuto, la ricorrente avrebbe versato un esubero pari a € 48.257,65.
4. A questo si aggiunge l’escussione parziale della fideiussione, per un importo pari a € 34.568,10, effettuata il 17.12.2013.
5. Più recentemente, il Comune con provvedimento del responsabile dell’Ufficio Tecnico del 19.05.2014 ha comunicato una nuova escussione parziale della fideiussione per un importo pari a € 22.475,20.
6. Contro il suddetto provvedimento e contro gli atti presupposti (tra cui la deliberazione giuntale n. 20/2011) la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 23.06.2014 e depositato il 30.06.2014. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 69 della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il regime di gratuità integrale per i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali, ed esclude le relative superfici dalla definizione della classe dell'edificio;
(ii) violazione dell’art. 16, comma 3, del DPR 06.06.2001 n. 380, nonché irragionevolezza, con riferimento alle disposizioni della deliberazione giuntale n. 20/2011, che ammettono la rateizzazione solo per importi superiori a € 100.000 e prevedono che il contributo di costruzione residuo venga rideterminato qualora il costo di costruzione subisca degli incrementi;
(iii) mancanza dei presupposti per applicare le sanzioni da ritardo, in quanto l’intero importo del contributo di costruzione sarebbe stato versato ancora in data 13.06.2012. Viene inoltre chiesta una pronuncia che accerti il contributo di costruzione nell’importo di € 97.949,90, con la conseguente condanna alla restituzione della somma versata o escussa in eccedenza (€ 82.825,75), aumentata di interessi, rivalutazione e maggior danno.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sull’aggiornamento del costo di costruzione
19. Le deliberazioni giuntali n. 20/2011 e 14/2005 prevedono che nel caso di rateizzazione, qualora sopravvengano aumenti del costo di costruzione, il contributo di costruzione residuo deve essere adeguato ai suddetti aumenti.
Queste disposizioni pongono il problema della compatibilità con l’art. 16, comma 3, del DPR 380/2001, in base al quale la quota di contributo relativa al costo di costruzione è determinata al momento del rilascio del titolo edilizio ed è corrisposta in corso d'opera.
20. In proposito si ritiene che, se i lavori sono ultimati nel termine di validità del titolo edilizio, e se i pagamenti delle rate sono regolari, l’importo del contributo di costruzione non possa variare, essendo necessario garantire la certezza del diritto e l’affidamento di chi inizia un intervento edificatorio.
Se però il privato non completa i lavori entro il termine massimo, oppure non completa il pagamento delle rate secondo le scadenze prefissate, fuoriesce dal quadro giuridico originario e si espone alle modifiche tariffarie intervenute nel frattempo. In queste ipotesi, dunque, l’amministrazione potrà legittimamente imporre l’integrazione della parte residua del contributo di costruzione.
21. Questo vale anche quando il differimento del termine finale del titolo edilizio sia una facoltà concessa direttamente dal legislatore in deroga alla disciplina ordinaria, come è avvenuto nel caso in esame (il 10.12.2013 la ricorrente ha comunicato al Comune il posticipo di due anni della conclusione dei lavori, ossia al 14.04.2016, avvalendosi della previsione di cui all’art. 30, comma 3, del DL 21.06.2013 n. 69) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.08.2015 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il condono non blocca i lavori. Consiglio di Stato. La presentazione della domanda non impedisce altre modifiche all’immobile.
Nell’attesa della definizione di una domanda di condono edilizio, è possibile modificare l’immobile, purché sia ancora percepibile l’iniziale abusività da sanare.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la sentenza 14.08.2015 n. 3943, che esamina un’ipotesi frequente, connessa alla lunga durata delle pratiche di condono (nel caso deciso, pari a oltre 18 anni).
Mentre il Comune decide sull’esito della domanda di condono, all’edificio iniziale possono aggiungersi altri abusi edilizi: in questo caso, il Comune non può rifiutare di pronunciarsi sulla domanda iniziale di condono affermando solo che l’opera è stata modificata. Anche se i nuovi interventi sono consistenti, tutte le volte che l’abuso iniziale da sanare sia ancora leggibile, vi è l’onere per il Comune di pronunciarsi in modo esplicito, salva l’adozione di sanzioni per le modifiche successive alla domanda di sanatoria.
Questa conclusione è stata adottata dai giudici amministrativi prendendo atto della circostanza che manca un’espressa norma che impedisca di modificare immobili sui quali pende una domanda di sanatoria edilizia: in conseguenza, la realizzazione di modifiche all’immobile oggetto di domanda di sanatoria non può, da sola, giustificare un diniego del condono.
Vi può essere un’archiviazione del condono solo nel caso in cui le modifiche successive abbiano inciso in modo radicale sui beni e cioè quando l’amministrazione non è più in grado di valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono. Le domande di sanatoria edilizia, a cominciare da quella del febbraio 1985, possono ancora riservare sorprese a distanza di decenni, quando la domanda risulti incompleta e non sia possibile acquisire d’ufficio dati ed elementi (articolo 9-bis, Dpr 380/2001).
In particolare, vi possono essere richieste anche a distanza di decenni, quando vi siano vincoli di tutela o di inedificabilità o quando manchino allegati essenziali alla domanda di sanatoria (versamento dell’oblazione; descrizione delle opere abusive; documentazione fotografica circa lo stato dei lavori; certificato di residenza o di iscrizione alla Camera di commercio per ottenere riduzioni; perizia giurata per opere superiori a 450 metri cubi). In questi casi, infatti, non opera il termine biennale di formazione del silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sentenza 5090/2013).
Nel caso esaminato dai giudici, nei 18 anni tra la data di presentazione della domanda di condono e quella dell’adozione del provvedimento di risposta da parte dell’amministrazione, gli interessati avevano realizzato altri interventi abusivi, cioè alcuni nuovi vani, soppalchi, chiusura di balconi ed aumento unità immobiliari. Ma tali opere, per la loro autonoma identificabilità, non potevano impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda di condono.
Quindi l’amministrazione comunale dovrà da un lato verificare se ci sono i presupposti per il condono delle opere “originariamente” realizzate, dall’altro accertare la natura degli interventi successivi ed applicare in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità (a certe condizioni) di realizzare ulteriori opere edilizie successivamente alla presentazione dell'istanza di condono edilizio, laddove l'istanza medesima non sia stata ancora istruita e conclusa.
La questione posta all’esame della Sezione attiene alla incidenza di interventi realizzati su immobili successivamente alla presentazione di domande di condono edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell'oblazione, il presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di completamento con assunzione del rischio da parte di chi li effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di divieto, la realizzazione di detti interventi non può da sola giustificare il diniego del condono, occorrendo verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni oggetto del condono impedendo all’amministrazione di valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero all’applicazione delle sanzioni previste in caso di accertata “autonoma” abusività.

1.– Le parti indicate in epigrafe, in data 18.01.1995, hanno presentato al Comune di Afragola cinque domande di condono edilizio, ai sensi della legge 23.12.2004, n. 724 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica), tutte riferite al medesimo fabbricato, sito in Via ... ed aventi ad oggetto le seguenti opere: a) piano terra destinato a locali commerciali e ad abitazione; b) primo e secondo piano composto, ciascuno, da due appartamenti per civile abitazione.
L’amministrazione comunale ha rigettato le suddette istanze con provvedimento del 28.02.2011, prot. n. 822, rilevando, in esito agli accertamenti istruttori disposti, la sussistenza di uno stato di fatto diverso da quello riferito nelle suddette istanze, conseguente all’esecuzione di opere ulteriori, descritte nello stesso provvedimento.
L’amministrazione comunale, con ordinanza del 12.04.2011, prot. n. 84084, ha, conseguentemente, disposto la demolizione dei manufatti ritenuti abusivi.
2.– Le parti interessate hanno impugnato detto provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Campania, facendo valere specifici vizi degli atti, riproposti in sede di appello.
3.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 22.03.2013, n. 1616, ha rigettato il ricorso, rilevando come gli interventi aggiuntivi eseguiti, da valutare unitariamente, abbiano determinato «un radicale stravolgimento del fabbricato oggetto del condono».
4.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello deducendo come: i) sarebbe stato necessario valutare singolarmente le domande presentate; ii) le singole opere realizzate non hanno la rilevanza indicata nella sentenza impugnata e non avrebbero realizzato alcun aumento di volumetria; iii) nessuna norma di legge vieta la realizzazione di interventi successivamente alla proposizione della domanda di condono; iv) sarebbe stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento.
...
6.– L’appello è fondato nei sensi di seguito indicati.
7.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla incidenza di interventi realizzati su immobili successivamente alla presentazione di domande di condono edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell'oblazione, il presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di completamento con assunzione del rischio da parte di chi li effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di divieto, la realizzazione di detti interventi non può da sola giustificare il diniego del condono, occorrendo verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni oggetto del condono impedendo all’amministrazione di valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero all’applicazione delle sanzioni previste in caso di accertata “autonoma” abusività.
8.– Nella fattispecie in esame, dal provvedimento impugnato, risulta quanto segue.
In relazione alla domanda di condono presentata da E.A. con riferimento al piano terra-rialzato è stato riscontrata la realizzazione di: una cucina sull’area cortilizia del fabbricato; un vano, in adiacenza alla scala, avente una superficie non residenziale di mq 26,41; due soppalchi; «una superficie utile di mq 130 circa oltre balconi per una superficie non residenziale di mq 17 circa».
In relazione alle domande di condono presentate da S.G. e S.M. con riferimento al primo piano, è stata riscontrata la suddivisione della superficie tra tre appartamenti e non tra due come era indicato nella domanda di condono. Inoltre, è stato riscontrato un «incremento di superficie utile» di circa mq 13,35 ottenuti «convertendo porzioni di balconi in superficie utile».
In relazione alle domande di condono presentate da S.M. e M.M. con riferimento al secondo piano, sono state svolte analoghe considerazioni a quelle effettuate con riguardo al primo piano.
Da quanto esposto non risulta che gli interventi successivi, singolarmente considerati, abbiano inciso in maniera così radicale sugli immobili oggetto delle domande di condono da rendere oggettivamente impossibile il loro esame.
In relazione alla prima domanda di condono, gli interventi abusivi successivi (ad eccezione dei mq 130 di cui non è stata dimostrata la mancata inclusione nella domanda stessa) sono bene individuati e suscettibili di essere oggetto di autonomo intervento sanzionatorio.
In relazione alle altre due domande indicate, risulta anche in questo caso ben identificato un aumento di superficie per “trasformazione” del balcone ed una ripartizione delle superfici tra tre e non tra due appartamenti, suscettibili anch’esse di divenire oggetto di un autonomo potere sanzionatorio.
In definitiva,
dagli atti del giudizio risulta che nel periodo temporale, pari a diciotto anni, che va dalla data di presentazione delle domande di condono a quello dell’adozione del provvedimento di risposta da parte dell’amministrazione, le parti hanno realizzato altri interventi abusivi. Tali opere, per la loro autonoma identificazione, non risulta che possano impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda di condono.
L’amministrazione comunale dovrà, pertanto, da un lato, verificare se sussistono i presupposti per il condono delle opere “originariamente” realizzate, dall’altro, accertare la natura degli interventi successivi posti in essere dagli appellanti ed applicare in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.08.2015 n. 3943 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 03.09.20145 n. 204 "Mancata conversione del decreto-legge 04.07.2015, n. 92, recante: «Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale»" (comunicato).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Riduzione dei limiti retributivi di cui agli articoli 23-bis e 23-ter del decreto legge 06.12.2011, n. 201, convertito dalla legge 22.12.2011, n. 214 operata ai sensi dell’art. 13 del decreto legge 24.04.2014, n. 66 convertito con modificazioni dalla legge 23.07.2014, n. 89 – effetti sul calcolo dei trattamenti di quiescenza e di fine servizio e fine rapporto degli iscritti alla gestione dipendenti pubblici dell’Inps (INPS, circolare 24.08.2015 n. 153 - link a www.inps.it).

QUESITI & PARERI

PATRIMONIO: La concessione in uso degli immobili.
DOMANDA:
Nel Comune scrivente sono ubicati degli immobili comunali adibiti a finalità sociale. gli immobili suddetti sono concessi a tempo determinato a famiglie in situazione di disagio, in attesa che si liberi un alloggio ERP o che possano avere un'assegnazione a tempo indeterminato in base ai bandi di assegnazione.
In passato il Comune scrivente ha stipulato dei contratti a tempo determinato per un periodo di due anni. Più volte sono state concesse proroghe o rinnovi.
Chiediamo se è regolare da un punto di vista amministrativo stabilire un periodo di validità di due anni o se è necessario (anche per i contratti di alloggi comunali concessi a tempo determinato) stabilire un altro termine per non inficiare la validità dell'atto.
RISPOSTA:
Al fine di dare una risposta esaustiva al quesito formulato dalla scrivente amministrazione, è utile richiamare la vigente normativa in materia di beni immobili comunali.
I beni immobili sono classificati in:
- beni del demanio comunale, destinati, per loro natura o per le caratteristiche loro conferite dalle leggi, a soddisfare prevalenti interessi della collettività.
- beni del patrimonio indisponibile, destinati ai fini istituzionali del Comune e al soddisfacimento di interessi pubblici, non compresi nella categoria dei beni demaniali di cui agli artt. 822 e 823 del Codice Civile.
- beni del patrimonio disponibile, non destinati ai fini istituzionali del Comune e pertanto posseduti dallo stesso in ragione di diritto privato.
I beni disponibili si distinguono in immobili ad uso abitativo ed in immobili ad uso non abitativo. I beni soggetti a regime di demanio e del patrimonio indisponibile possono essere oggetto di utilizzo esclusivo da parte di terzi allorché l’attività da svolgere sia conforme alle finalità di interesse pubblico, dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso temporaneo a terzi di beni demaniali e patrimoniali indisponibili avviene mediante atti di diritto pubblico e, in particolare, con concessione amministrativa, su conforme atto deliberativo della Giunta Comunale. La durata massima della concessione deve essere fissata nel Regolamento comunale e può essere sempre revocata per sopravvenienti interessi dell’Amministrazione Comunale.
La concessione in uso di beni patrimoniali disponibili è, di norma, effettuata nella forma e con i contenuti dei negozi contrattuali tipici previsti dal titolo III del libro IV del Codice Civile, ovverosia:
a) Contratto di locazione (artt. 1571 e ss. C.C.)
b) Contratto di affitto (artt. 1615 e ss. C.C.) c) Contratto di comodato (artt. 1803 e ss. C.C.)
L’assegnazione e la gestione contrattuale dei beni ad uso abitativo sono disciplinati dalle norme vigenti ed in particolare dalla Legge n. 431/1998.
In casi eccezionali da motivare adeguatamente, i beni immobili di proprietà dell'Amministrazione Comunale possono essere affidati in comodato o concessi in uso gratuitamente, con delibera della Giunta. Va comunque evidenziato che la gestione degli immobili di proprietà degli enti locali, anche da mettere in relazione all’entità delle misure di economia e finanza previste dall’ordinamento pubblico, richiede l’assunzione da parte degli enti stessi di particolare disciplina regolamentare.
In base alle considerazioni che precedono si rileva che:
- se gli immobili comunali adibiti a finalità sociale sono facenti parte del patrimonio indisponibile, essi sono assegnati a tempo determinato a famiglie in situazione di disagio mediante concessione, la cui durata (nonché la possibilità di rinnovo o proroga) devono essere disciplinati nel regolamento comunale.
- se invece i suddetti beni appartengono al patrimonio disponibile, nella loro assegnazione, il Comune agisce iure privatorum.
Per la durata del contratto di locazione, valgono le prescrizioni di cui all’art. 5 della Legge n. 431/1998, a norma del quale, il decreto del Ministro dei lavori pubblici 30.12.2002 definisce le condizioni e le modalità per la stipula di contratti di locazione di natura transitoria anche di durata inferiore ai limiti previsti dalla legge per soddisfare particolari esigenze delle parti.
L'art. 1, comma 2 del D.M. prevede che "I contratti di locazione di natura transitoria di cui all'articolo 5, comma 1, della legge 09.12.1998, n. 431, hanno durata non inferiore ad un mese e non superiore a diciotto mesi. Tali contratti sono stipulati per soddisfare particolari esigenze dei proprietari e/o dei conduttori per fattispecie da individuarsi nella contrattazione territoriale tra le organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative".
Sembrerebbe però, dalla lettura del quesito, che i beni siano stati assegnati a titolo gratuito per cui -anche nell'ipotesi in cui non fossero stati conferiti con atto di diritto pubblico (concessorio)- ma l'amministrazione avesse utilizzato uno strumento privatistico, questo non potrebbe che essere quello del comodato, relativamente alla cui durata la legge non prescrive un termine preciso (l'art. 1809 c.c. si limita a prevedere che il comodatario è tenuto a restituire la cosa: tale prestazione diviene esigibile alla scadenza del termine espressamente convenuto).
Si ritiene pertanto che, se i beni immobili ad uso abitativo sono stati assegnati in concessione o in comodato, sia conforme alle norme vigenti stabilire per i relativi contratti una durata di due anni
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGO: Il responsabile corrotto del S.U.E. (nodo nevralgico di tutte le iniziative di realizzazione edilizia) cagiona danno da disservizio, danno da ritardo, danno da distrazione di energie lavorative e danno all'immagine del comune di appartenenza.
Tra l'altro, la Cassazione ha statuito che ai fini della consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e secondo il loro ordine cronologico”.
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E' noto che la sentenza penale di ‘patteggiamento’, ex art. 444 c.p.p., pur non facendo stato nei giudizi civili ed amministrativi, costituisce –unitamente agli atti del relativo fascicolo- una fonte di cognizione soggetta al libero apprezzamento del giudice in ordine agli effetti dell’accertamento penale nei giudizi restitutori e da risarcimento di danno.
Tuttavia,
è prevalente, anche nell’ambito delle Sezioni di appello di questa Corte, l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale la decisione dell’imputato di chiedere il patteggiamento della pena va equiparata ad una “tacita ammissione di colpevolezza” e che, in particolare dopo la modifica dell’art. 445 c.p.p. da parte dell’art. 2 L. 27.03.2001, n. 97, assimila la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ad un elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, e il Giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione.
Il citato orientamento è confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione per cui "
La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. patteggiamento) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, laddove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il Giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, può essere utilizzato come prova”.
La sentenza del GIP
va dunque considerata quale specifico ed univoco elemento di prova della commissione dei fatti contestati alla convenuta, qualora il convenuto, come nella specie, non abbia allegato o dedotto le ragioni per cui, benché innocente, abbia in concreto ritenuto di avvalersi del “patteggiamento”.
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Riguardo al danno da disservizio contestato alla convenuta
il Collegio ritiene che esso sussista e coincida con gli oneri sostenuti dal Comune per lo svolgimento delle verifiche e indagini sotto la direzione della Commissione speciale insediata ai sensi dell’art. 20 del Regolamento di funzionamento del relativo Consiglio comunale, da quantificarsi, complessivamente, in conformità al principio di proporzionalità, e, con specifico riferimento alla convenuta (rispetto agli altri fattori concausali), nella misura pari al 30% del totale.
Viceversa, questo Giudice ritiene che detta posta di danno sia inconfigurabile per quanto attiene sia agli oneri connessi al procedimento disciplinare svolto dall’ente locale a carico della convenuta, che a quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte del Comune di Sesto, di pareri legali sulla vicenda per cui è causa.
E’ infatti di tutta evidenza che è senz’altro consentito all’ente locale di insediare un organo straordinario (come tale, estraneo all’organizzazione stabile degli uffici definita con idonea fonte normativa da ciascun ente, nonché investito di una missione per sua natura contingente e di limitata durata nel tempo) per fare luce su fatti (nella specie, oltretutto) penalmente rilevanti, a tutela dei propri interessi patrimoniali e reputazionali. Del resto, sono gli stessi statuti (o, come nella specie, regolamenti) comunali a prevedere, diffusamente, la possibilità di istituire commissioni di verifica e/o indagine al “fine di interesse pubblico, di acclarare eventuali responsabilità nella gestione” di risorse pubbliche.
Di tal ché appare ammissibile e ragionevole addebitare l’importo delle spese implicate da dette verifiche e/o indagini a chi abbia dato causa alla loro necessità, laddove, naturalmente, l’ipotesi di addebito in cui essa sia esitata in sede amministrativa trovi conforto nella conseguente ipotesi accusatoria elevata dalla Procura regionale presso questa Corte.
Non è invece possibile addebitare alla So. gli oneri connessi al procedimento disciplinare a suo carico, né quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte dell’ente locale, di pareri legali sugli aspetti tecnici della vicenda per cui è causa.
Nel primo caso, perché si tratta di funzione amministrativa non soltanto tipica degli enti pubblici (anche locali), ma anche ad attivazione doverosa, nel caso di ricorrenza dei presupposti allo scopo previsti dalla normativa vigente; nel secondo caso, perché
è ormai acquisito che per le funzioni ordinarie rimane fermo il principio generale della cosiddetta “autosufficienza” dell’organizzazione degli enti, i quali devono svolgere le funzioni e i servizi di loro competenza mediante il personale in servizio, senza attingere a risorse esterne se non nei particolari casi e modi previsti dalla normativa vigente (art. 7, commi 6 ss., d.lgs. n. 165/2001).
Ne consegue che,
limitatamente agli oneri connessi alle verifiche e/o indagini svolte sotto la direzione della Commissione speciale di cui si è detto, risulta sufficientemente provata la sussistenza del dedotto danno da disservizio -danno che si verifica in conseguenza ad un pregiudizio arrecato al buon andamento della P.A. derivante dalla “disutilità della spesa” in tal modo sostenuta non tanto e non solo per aver distolto in maniera significativa il personale dalle altre mansioni proprie della struttura, impedendo per conseguenza il raggiungimento di finalità diverse e prioritarie, ma soprattutto per aver costretto il personale –nel quadro delle attività di indagine svolte dalla Commissione anzidetta– all’ampia opera di revisione della pratiche già trattate dalla convenuta che ha costretto alcuni dipendenti ad occuparsi, con picchi sino al 90% del loro impegno, di detta revisione e, di riflesso a rallentare l’attività di istruzione di nuove pratiche.
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Sul punto,
il Collegio ritiene necessario chiarire che fra le possibili declinazioni del danno da disservizio perseguibile dinanzi a questa Corte v’è anche quella, avente pari dignità rispetto alle altre, che prende la forma di una intenzionale discriminazione da parte del pubblico funzionario fra le pratiche da istruire, a seconda che si tratti di questioni o affari considerati, secondo personalistici (e come tali inammissibili) punti di vista, “maggiori” o “minori”, oppure la forma della necessitata concentrazione dell’attenzione (come nella specie accaduto durante le operazioni di revisione compiute in costanza di operatività della Commissione d’indagine di cui si è detto) sulle pratiche già istruite dalla persona sotto inchiesta, e come tali indiziate di essere state essere pure gestite in modo irregolare, piuttosto che su quelle nuove (la cui istruttoria si trova per conseguenza a subire degli evitabili rallentamenti).
In ambedue i casi, il principio che viene calpestato è quello dell’ordine naturale di trattazione delle istanze dell’utenza, secondo cioè l’ordine di arrivo, principio
-riaffermato da ultimo con l’art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013, non applicabile tuttavia alla vicenda per cui è causa, ratione temporis- che il sistema eleva a regola generale, in quanto derivante dal superiore principio di eguaglianza/imparzialità dei cittadini-utenti di cui all’art. 3 Cost., e da quello di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., salve, ovviamente, le diversificate necessità di completamento dell’istruttoria che possono nei singoli casi influire anche incisivamente sui tempi di conclusione di ciascun procedimento.
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Di questo essenziale principio è espressione, fra le altre, anche l’emblematica figura
del danno da ritardo, legato alla pregnante teorica della certezza dei tempi dell’agire della PA, che eleva condivisibilmente il tempo (del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) a “bene della vita”, in senso economico e giuridico, e spinge la giurisprudenza ad affermare univocamente che «Ogni cittadino e ogni impresa hanno diritto ad avere risposta dalle amministrazioni alle proprie istanze nel termine normativamente determinato e ciò proprio al fine di programmare le proprie attività e i propri investimenti; un inatteso ritardo da parte della P.A. nel fornire una risposta può condizionare la convenienza economica di determinati investimenti, senza però che tali successive scelte possano incidere sulla risarcibilità di un danno già verificatosi».
In sintesi,
il tema dell’ordine naturale di trattazione della pratiche da istruire (rectius, delle domande di servizi proveniente dal cittadino-utente) è strettamente legato ai principi costituzionali di eguaglianza/imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.) e si riflette sull’aspetto, oggi strategico, della certezza dei tempi dell’agire della PA. Da questo punto di vista, coglie nel segno anche il Comune interveniente nell’osservare che in vicende come quella per cui è causa rileva non tanto il numero delle pratiche edilizie la cui istruttoria si è svolta irregolarmente per effetto della condotta illecita del funzionario che si è lasciato corrompere, bensì il fatto in sé dell’asservimento all’interesse privato della funzione pubblica da esso svolta.
Non a caso anche la Cassazione ha detto con estrema chiarezza che
ai fini della consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e secondo il loro ordine cronologico” (precetto, questo, che ha visto di recente confermata la sua attualità mercé il già citato art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013).
Norme, queste, sottensive di un principio più generale alfine ribadito e sistematizzato con l’art. 2, comma 9, l. n. 241/1990, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 1, legge n. 35/2012, per cui “
La … tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
A ciò consegue, oggi, il rovesciamento dell’impostazione tradizionale, la quale –ancora nel 2011– tendeva a fare leva sui “
diversi presupposti normativi del giudizio disciplinare, nella fattispecie concluso a norma dell’art. 80, comma 3 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3, rispetto a quello di responsabilità, affidato alla Corte dei Conti dall’art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994, n. 20, come successivamente modificata ed integrata: per quest’ultimo giudizio, infatti, entrano in discussione questioni di danno erariale, per le quali il pubblico dipendente è chiamato a rispondere solo per omissioni o fatti commessi con dolo o colpa grave, mentre sul piano disciplinare rilevano, per quanto qui interessa, anche profili di grave negligenza, o irregolarità nell’ordine di trattazione degli affari, o ancora di inosservanza dei doveri di ufficio, il cui apprezzamento è rimesso alla discrezionale valutazione dell’organo amministrativo competente”.
Ne consegue, sulla scorta di quanto sin qui esposto, che
se è ormai pacifico che il tempo (del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) è “bene della vita”, in senso economico e giuridico, come certificato dal citato art. 2, comma 9, della l. n. 241/1990 (anche in rapporto al disposto dell’art. 2-bis della medesima legge), l’intenzionale alterazione –come nel caso del comportamento contestato dalla Procura attrice della odierna convenuta– dell’“ordine di trattazione degli affari” è, oggi, tema che attiene anche alla responsabilità per danno erariale piuttosto che a quella solamente disciplinare.
Del resto, sta eloquentemente a dimostrarlo, da ultimo, l’art. 16, comma 1, secondo periodo, del citato DRP n. 62/2013, ancorché esso pure non applicabile al caso che ne occupa, sempre ratione temporis (“
Ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.”).
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Quanto al danno da distrazione di energie lavorative, il Collegio ritiene che esso sussista.
Dalle intercettazioni telefoniche riversate in atti emerge infatti con chiarezza l’ampio dispendio di energie della convenuta nel seguire le pratiche dell’Architetto Ma. e del Pa., con i quali aveva instaurato un rapporto privilegiato per ragioni di amicizia, favori o denaro ricevuto.
Energie sottratte quasi quotidianamente
(come da risultanze delle intercettazioni telefoniche versate in atti) alla dovuta destinazione alle incombenze dell’ufficio, ai danni dell’amministrazione di appartenenza (indicativa, al riguardo, anche la dichiarazione resa nel verbale di audizione del 07.11.2013 dinanzi al Pm contabile dalla Geom. Ma., nuovo Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, la quale evidenziava come al suo insediamento, avvenuto nel maggio 2012, riscontrava “
….la tendenza dell’utenza a non rispettare tempi e regole dei procedimenti amministrativi volte all’approvazione delle pratiche edilizie e la tendenza dei professionisti esterni a presentarsi in ufficio e richiedere pareri e suggerimenti anche al di fuori degli orari di apertura al pubblico, essendo evidentemente abituati a prassi non conformi alla legge”).
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Con riferimento, infine, al danno all’immagine, ad avviso del Collegio esso sussiste, alla luce anche di un ampio e perdurante risalto mediatico della vicenda (che come per vero di rado accade ha condotto persino a coniare delle spregiative locuzioni “sistema Sesto” e “sistema So.”, ad indicare una metodica illecita collaudata e immanente), e si presume, come da L. n. 190/2012 (applicabile ratione temporis alla vicenda per cui è causa, attesa la natura meramente processuale, e non già sostanziale, della disposizione de qua), pari al doppio di quanto effettivamente introitato illecitamente dalla convenuta.
Sul punto, appare opportuno evidenziare che, in termini generali, questa Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi dall’indirizzo al riguardo fatto proprio dalla Corte costituzionale, ad avviso della quale: “
….una volta rinvenuta una giustificazione alla previsione che impone la sussistenza di una sentenza di condanna per uno dei reati sopra indicati, è ragionevole che il legislatore abbia richiesto che tale sentenza acquisisca il crisma della definitività prima che inizi il procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa derivante dalla lesione dell’immagine dell’amministrazione; che quanto sin qui esposto giustifica la diversità di trattamento giuridico tra le ipotesi di responsabilità per danno patrimoniale, che non richiede la sussistenza di una sentenza di condanna passata in cosa giudicata, e quelle per responsabilità per lesione dell’immagine dell’amministrazione”.
Nell’ambito delle declinazioni puntuali di questo preclaro assunto,
è noto che la giurisprudenza contabile, nell’interpretare il suddetto richiamo all’art. 7 L. n. 97/2001, ritiene sufficiente, per la contestazione del danno d’immagine, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., purché divenuta irrevocabile, in quanto equiparata ad una pronuncia di condanna (ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p.).

Trattandosi di vicenda che ha avuto ampio risalto mediatico, con conseguente clamor fori c.d. esterno, oltre che interno, appare appropriato richiamare quella recente giurisprudenza che ha precisato che <<
al fine della quantificazione del danno in esame soccorrono i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di questa Corte nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli individuati dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, nella recente sentenza n. 15208/2010 ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica dalla vicenda
>>.
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2. Non essendovi ulteriori questioni in rito da delibare, né riscontrandosi carenze istruttorie che possano rendere utile l’accoglimento delle relative richieste avanzate dalla difesa della convenuta e da quella del Comune interveniente, né, infine, essendovi ragioni cogenti in favore dell’avanzata richiesta di riunione del presente giudizio con quello n. 28079 a carico del sig. Di L., a ruolo nella stessa udienza ed avente ad oggetto lo stesso danno per cui è causa nella presente sede, si osserva -nel merito- quanto segue.
Non vi possono anzitutto essere dubbi sull’attribuibilità alla So. delle condotte produttive di danno erariale contestate in questa sede, in forza della sentenza del GIP del Tribunale di Monza, ex art. 444 c.p.p., n. 792/2012.
Al riguardo,
è noto che la sentenza penale di ‘patteggiamento’, ex art. 444 c.p.p., pur non facendo stato nei giudizi civili ed amministrativi, costituisce –unitamente agli atti del relativo fascicolo- una fonte di cognizione soggetta al libero apprezzamento del giudice in ordine agli effetti dell’accertamento penale nei giudizi restitutori e da risarcimento di danno.
Tuttavia,
è prevalente, anche nell’ambito delle Sezioni di appello di questa Corte, l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale la decisione dell’imputato di chiedere il patteggiamento della pena va equiparata ad una “tacita ammissione di colpevolezza (Sez. I, n. 809/2012) e che, in particolare dopo la modifica dell’art. 445 c.p.p. da parte dell’art. 2 L. 27.03.2001, n. 97, assimila la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ad un elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, e il Giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione (Sez. I, n. 809/2012; analogamente, Sez. II, n. 387/2010; Sez. I, n. 412/2010 e nn. 24 e 404 del 2008).
Il citato orientamento è confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione per cui "
La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. patteggiamento) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, laddove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il Giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, può essere utilizzato come prova” (ex plurimis Cass., n. 6668 del 2011 e n. 4193 del 2003 e Cass., SS.UU. Civili, n. 5756 del 2012).
La citata sentenza del GIP del Tribunale di Monza, n. 792/2012 va dunque considerata quale specifico ed univoco elemento di prova della commissione dei fatti contestati alla convenuta, qualora il convenuto, come nella specie, non abbia allegato o dedotto le ragioni per cui, benché innocente, abbia in concreto ritenuto di avvalersi del “patteggiamento (ex multis, Sez. giur. Lombardia, nn. 63/2015, 378/2012 e n. 376/2012).
Anche in ordine all’elemento psicologico, l’accertamento della realizzazione del delitto di corruzione ex art. 319 c.p. implica di riflesso l’acclaramento del dolo nell’esecuzione delle azioni produttive di danno in questa sede in contestazione.
Quanto alle poste di danno legate dal necessario nesso di causalità alle condotte contestate dalla Procura attrice alla So., nella sua cennata qualità di responsabile dello Sportello Unico dell’edilizia (nodo nevralgico di tutte le iniziative di realizzazione edilizia tanto nel Comune di Sesto quanto in ogni altro Comune italiano), valga quanto segue.
Riguardo al danno da disservizio contestato alla convenuta, per come prospettato in citazione, il Collegio ritiene che esso sussista e coincida con gli oneri sostenuti dal Comune di Sesto per lo svolgimento delle verifiche e indagini sotto la direzione della Commissione speciale insediata ai sensi dell’art. 20 del Regolamento di funzionamento del relativo Consiglio comunale, da quantificarsi, complessivamente, in conformità al principio di proporzionalità, e, con specifico riferimento alla convenuta (rispetto agli altri fattori concausali), nella misura pari al 30% del totale.
Viceversa, questo Giudice ritiene che detta posta di danno sia inconfigurabile per quanto attiene sia agli oneri connessi al procedimento disciplinare svolto dall’ente locale a carico della convenuta, che a quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte del Comune di Sesto, di pareri legali sulla vicenda per cui è causa.
E’ infatti di tutta evidenza che è senz’altro consentito all’ente locale di insediare un organo straordinario (come tale, estraneo all’organizzazione stabile degli uffici definita con idonea fonte normativa da ciascun ente, nonché investito di una missione per sua natura contingente e di limitata durata nel tempo) per fare luce su fatti (nella specie, oltretutto) penalmente rilevanti, a tutela dei propri interessi patrimoniali e reputazionali. Del resto, sono gli stessi statuti (o, come nella specie, regolamenti) comunali a prevedere, diffusamente, la possibilità di istituire commissioni di verifica e/o indagine al “fine di interesse pubblico, di acclarare eventuali responsabilità nella gestione” di risorse pubbliche (cfr. TAR Piemonte, Sez. I, sent. n. 1016/2009).
Di tal ché appare ammissibile e ragionevole addebitare (nei limiti, come si dirà, del principio costituzionale di proporzionalità, operante anche in materia di finanza pubblica: da ultimo, in tal senso, v. Corte cost., sent. n. 10/2015) l’importo delle spese implicate da dette verifiche e/o indagini a chi abbia dato causa alla loro necessità, laddove, naturalmente, l’ipotesi di addebito in cui essa sia esitata in sede amministrativa trovi conforto nella conseguente ipotesi accusatoria elevata dalla Procura regionale presso questa Corte.
Non è invece possibile addebitare alla So. gli oneri connessi al procedimento disciplinare a suo carico, né quelli connessi alla volontaria richiesta, da parte dell’ente locale, di pareri legali sugli aspetti tecnici della vicenda per cui è causa.
Nel primo caso, perché si tratta di funzione amministrativa non soltanto tipica degli enti pubblici (anche locali), ma anche ad attivazione doverosa, nel caso di ricorrenza dei presupposti allo scopo previsti dalla normativa vigente; nel secondo caso, perché a partire dalla delib. n. 967/2010 della Sezione reg. controllo Lombardia di questa Corte
è ormai acquisito che per le funzioni ordinarie rimane fermo il principio generale della cosiddetta “autosufficienza” dell’organizzazione degli enti, i quali devono svolgere le funzioni e i servizi di loro competenza mediante il personale in servizio, senza attingere a risorse esterne se non nei particolari casi e modi previsti dalla normativa vigente (art. 7, commi 6 ss., d.lgs. n. 165/2001).
Ne consegue che,
limitatamente agli oneri connessi alle verifiche e/o indagini svolte sotto la direzione della Commissione speciale di cui si è detto, risulta sufficientemente provata la sussistenza del dedotto danno da disservizio -danno che si verifica in conseguenza ad un pregiudizio arrecato al buon andamento della P.A. derivante dalla “disutilità della spesa” in tal modo sostenuta (Sez. Lombardia n. 1 del 02.01.2012 e n. 47 del 20.01.2011)– non tanto e non solo per aver distolto in maniera significativa il personale dalle altre mansioni proprie della struttura, impedendo per conseguenza il raggiungimento di finalità diverse e prioritarie, ma soprattutto per aver costretto il personale –nel quadro delle attività di indagine svolte dalla Commissione anzidetta– all’ampia opera di revisione della pratiche già trattate dalla convenuta che ha costretto alcuni dipendenti ad occuparsi, con picchi sino al 90% del loro impegno, di detta revisione e, di riflesso a rallentare l’attività di istruzione di nuove pratiche (per tutte, si v. le dichiarazioni della geom. Ma. e dell’arch. Ri. rese al Sost. Proc. Dr. Cerioni, come da verbale di accertamento diretto del 07.11.2013).
Sul punto,
il Collegio ritiene necessario chiarire che fra le possibili declinazioni del danno da disservizio perseguibile dinanzi a questa Corte v’è anche quella, avente pari dignità rispetto alle altre, che prende la forma di una intenzionale discriminazione da parte del pubblico funzionario fra le pratiche da istruire, a seconda che si tratti di questioni o affari considerati, secondo personalistici (e come tali inammissibili) punti di vista, “maggiori” o “minori”, oppure la forma della necessitata concentrazione dell’attenzione (come nella specie accaduto durante le operazioni di revisione compiute in costanza di operatività della Commissione d’indagine di cui si è detto) sulle pratiche già istruite dalla persona sotto inchiesta, e come tali indiziate di essere state essere pure gestite in modo irregolare, piuttosto che su quelle nuove (la cui istruttoria si trova per conseguenza a subire degli evitabili rallentamenti).
In ambedue i casi, il principio che viene calpestato è quello dell’ordine naturale di trattazione delle istanze dell’utenza, secondo cioè l’ordine di arrivo, principio -riaffermato da ultimo con l’art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013, non applicabile tuttavia alla vicenda per cui è causa, ratione temporis- che il sistema eleva a regola generale, in quanto derivante dal superiore principio di eguaglianza/imparzialità dei cittadini-utenti di cui all’art. 3 Cost., e da quello di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., salve, ovviamente, le diversificate necessità di completamento dell’istruttoria che possono nei singoli casi influire anche incisivamente sui tempi di conclusione di ciascun procedimento.
Di questo essenziale principio è espressione, fra le altre, anche l’emblematica figura –prima impostasi in via pretoria con la forza delle cose e poi divenuta ius receptum con l’art. 2-bis della l. n. 241/1990– del danno da ritardo, legato alla pregnante teorica della certezza dei tempi dell’agire della PA, che eleva condivisibilmente il tempo (del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) a “bene della vita”, in senso economico e giuridico, e spinge la giurisprudenza ad affermare univocamente che «Ogni cittadino e ogni impresa hanno diritto ad avere risposta dalle amministrazioni alle proprie istanze nel termine normativamente determinato e ciò proprio al fine di programmare le proprie attività e i propri investimenti; un inatteso ritardo da parte della P.A. nel fornire una risposta può condizionare la convenienza economica di determinati investimenti, senza però che tali successive scelte possano incidere sulla risarcibilità di un danno già verificatosi» (ex multis, Cons. Stato, sez. V, sent. n. 1739/2011).
In sintesi,
il tema dell’ordine naturale di trattazione della pratiche da istruire (rectius, delle domande di servizi proveniente dal cittadino-utente) è strettamente legato ai principi costituzionali di eguaglianza/imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.) e si riflette sull’aspetto, oggi strategico, della certezza dei tempi dell’agire della PA. Da questo punto di vista, coglie nel segno anche il Comune interveniente nell’osservare che in vicende come quella per cui è causa rileva non tanto il numero delle pratiche edilizie la cui istruttoria si è svolta irregolarmente per effetto della condotta illecita del funzionario che si è lasciato corrompere, bensì il fatto in sé dell’asservimento all’interesse privato della funzione pubblica da esso svolta.
Non a caso anche la Cassazione (sez. VI pen., sent. n. 1777/2005) ha detto con estrema chiarezza che
ai fini della consumazione del reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p. rileva anche la violazione dell’art. 13, comma 5, DPR n. 3/1957, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e secondo il loro ordine cronologico” (precetto, questo, che ha visto di recente confermata la sua attualità mercé il già citato art. 12, comma 1, penultimo periodo, DPR n. 62/2013).
Norme, queste, sottensive di un principio più generale alfine ribadito e sistematizzato con l’art. 2, comma 9, l. n. 241/1990, come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 1, legge n. 35/2012, per cui “
La … tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
A ciò consegue, oggi, il rovesciamento dell’impostazione tradizionale, la quale –ancora nel 2011– tendeva a fare leva sui “
diversi presupposti normativi del giudizio disciplinare, nella fattispecie concluso a norma dell’art. 80, comma 3 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3, rispetto a quello di responsabilità, affidato alla Corte dei Conti dall’art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994, n. 20, come successivamente modificata ed integrata: per quest’ultimo giudizio, infatti, entrano in discussione questioni di danno erariale, per le quali il pubblico dipendente è chiamato a rispondere solo per omissioni o fatti commessi con dolo o colpa grave, mentre sul piano disciplinare rilevano, per quanto qui interessa, anche profili di grave negligenza, o irregolarità nell’ordine di trattazione degli affari, o ancora di inosservanza dei doveri di ufficio, il cui apprezzamento è rimesso alla discrezionale valutazione dell’organo amministrativo competente” (così, Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 5914/2011).
Ne consegue, sulla scorta di quanto sin qui esposto, che
se è ormai pacifico che il tempo (del procedimento amministrativo, e, quindi, dell’azione pubblica) è “bene della vita”, in senso economico e giuridico, come certificato dal citato art. 2, comma 9, della l. n. 241/1990 (anche in rapporto al disposto dell’art. 2-bis della medesima legge), l’intenzionale alterazione –come nel caso del comportamento contestato dalla Procura attrice della odierna convenuta– dell’“ordine di trattazione degli affari” è, oggi, tema che attiene anche alla responsabilità per danno erariale piuttosto che a quella solamente disciplinare.
Del resto, sta eloquentemente a dimostrarlo, da ultimo, l’art. 16, comma 1, secondo periodo, del citato DRP n. 62/2013, ancorché esso pure non applicabile al caso che ne occupa, sempre ratione temporis (“
Ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni.”).
Tutto ciò premesso e considerato, che nella specie vi fosse un “rapporto privilegiato” fra il Ma. e la So. (pagg. 14, 15 e 44 della citazione), che assicurava a quest’ultimo un “canale preferenziale”, accelerato, per i suoi progetti all’esame dello Sportello Unico per l’Edilizia, almeno dal 2006 al 2010, stanno a dimostrarlo le dichiarazioni rese dall’arch. Gi. (v. verbale di audizione del 07.11.2013 dinanzi al Pm contabile, in atti), nonché l’esplicito atteggiamento della So. emergente dalle intercettazioni telefoniche (come quelle, in atti, riferite ai colloqui telefonici dell’01.3.2011, del 14.03.2011 e 31.03.2011, in cui i ruoli si rovesciano ed è addirittura la So. che rassicura il Ma., dubbioso, sulla possibilità di un buon esito di pratiche edilizie afferenti un controverso “risanamento conservativo” e una opinabile “ristrutturazione con modifica della sagoma”, mentre nel terzo caso addirittura il Ma. sembra quasi sorpreso del buon esito di altra pratica “nonostante tutto”, come rimarca in simmetrica risposta, con evidente sottinteso, la convenuta), e, a suo modo, perfino la circostanza che fosse la So. a chiamare il Ma. per fargli gli auguri di compleanno (circostanza, quest’ultima, compatibile solo con un rapporto di strettissima familiarità fra i due, che rende non credibile una “neutralità” della convenuta di fronte ai progetti che il Ma. presentava proprio all’ufficio dalla stessa diretto).
Tutto questo, naturalmente, a tacer del fatto che, per diretta ammissione della convenuta (anche in sede di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.), essa svolgeva attività extralavorativa dietro compenso presso il Ma., il che vieppiù vale ad escludere la credibilità della sua imparzialità sulle di lui pratiche edilizie.
Discorso non dissimile è da farsi, peraltro, anche con riferimento al rapporto con il Pa., avendo la So. ammesso (nell’interrogatorio del 07.10.2011 dinanzi al Pm penale) che “La restante somma confluita in contanti sul mio conto corrente deriva, in parte, da elargizioni in mio favore corrispostemi da G.P., per il quale ho svolto un’attività di consulenza. L’Ufficio chiede se questa attività abbia riguardato i progetti N., C.E. e A. e la sig.ra So. dichiara: è vero ho aiutato Pa. in queste pratiche e che lo stesso mi ha elargito alcune migliaia di euro”, senza saper neppure escludere se le somme di che trattasi potessero essere anche maggiori.
Si tratta, è bene puntualizzarlo, di pratiche preparate, per diretta ammissione, con la “consulenza” della So. e poi presentate e istruite proprio dallo Sportello Unico per l’Edilizia diretto dalla convenuta, sì da rendere credibile la prospettazione attorea inerente la violazione dei principi di eguaglianza/imparzialità e buon andamento, e da colorare di un significato preciso l’ammessa percezione di somme di denaro per migliaia di euro dal Pa. (come da citata sentenza n. 792/2012: versamento di una somma di denaro contante per euro 30.000,00 circa, nonché remissione del debito contratto dalla So. per l’acquisto di un immobile dallo stesso Pa., pari ad euro 43.000,00).
Tutto ciò premesso, per quanto ora attiene agli aspetti propriamente quantificatori, ritiene il Collegio che, a fronte della stima degli oneri economici in concreto sopportati dal Comune di Sesto a titolo di danno da disservizio, complessivamente quantificati dalla Procura attrice, in via equitativa, in euro 150.000,00, questa somma -avuto riguardo alle dimensioni della struttura organizzativa del Comune di Sesto, al volume (desumibile come detto dalle dichiarazioni della geom. Ma. e dell’arch. Ri. di cui al verbale di accertamento diretto del 07.11.2013) delle attività di verifica e/o indagine svolte sotto la direzione della Commissione speciale (nonché, si ribadisce, all’impossibilità di computarvi anche gli oneri da procedimento disciplinare e da richieste di pareri a legali esterni al Comune)– vada rideterminata.
Considerando tutte queste specifiche circostanze, infatti, ad avviso di questo Giudice la spesa da ritenersi congrua (nel rispetto del principio di proporzionalità di cui si è detto) per lo svolgimento delle verifiche e/o indagini sotto la direzione della Commissione speciale insediata dal Comune di Sesto è stimabile, sempre in via equitativa, in euro 100.000,00, che sono da considerare addebitabili all’odierna convenuta (tenuto conto dell’incidenza di altri fattori concausali, e in particolare del preminente ruolo dell’assessore Di L., evocato a giudizio nel procedimento n. 28079, a ruolo esso pure nell’odierna udienza), nella misura pari al 30% del totale, quindi di euro 30.000,00.
Sul punto, il Collegio osserva che le dichiarazioni del Pa. (verbale di interrogatorio del 04.11.2011, n. 1057) evocate dalla difesa della convenuta rendono effettivamente credibile che la So. agisse seguendo le indicazioni dell’assessore Di L., in tal veste responsabile politico –all’interno dell’amministrazione comunale– del settore edilizio, ma ciò, lungi dal determinare un totale esonero da responsabilità della stessa, può valere soltanto a ridimensionarne la portata (restando sul piano formale intatto il suo ruolo decisionale e/o propulsivo nell’ambito del SUAP, e, quindi, la doverosità della sua piena esplicazione), che, come detto, appare equo quantificare nel 30% dell’importo complessivo della posta di danno di che trattasi, come sopra stimato in via equitativa.
4. Quanto al danno da distrazione di energie lavorative, il Collegio ritiene che esso -a fronte della volontaria condotta della convenuta- sussista, e sia pari all’importo al riguardo richiesto in citazione dalla Procura attrice.
Dalle intercettazioni telefoniche riversate in atti emerge infatti con chiarezza l’ampio dispendio di energie della convenuta nel seguire le pratiche dell’Architetto Ma. e del Pa., con i quali aveva instaurato un rapporto privilegiato per ragioni di amicizia, favori o denaro ricevuto.
Energie sottratte quasi quotidianamente
(come da risultanze delle intercettazioni telefoniche versate in atti) alla dovuta destinazione alle incombenze dell’ufficio, ai danni dell’amministrazione di appartenenza (indicativa, al riguardo, anche la dichiarazione resa nel verbale di audizione del 07.11.2013 dinanzi al Pm contabile dalla Geom. Ma., nuovo Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, la quale evidenziava come al suo insediamento, avvenuto nel maggio 2012, riscontrava “….la tendenza dell’utenza a non rispettare tempi e regole dei procedimenti amministrativi volte all’approvazione delle pratiche edilizie e la tendenza dei professionisti esterni a presentarsi in ufficio e richiedere pareri e suggerimenti anche al di fuori degli orari di apertura al pubblico, essendo evidentemente abituati a prassi non conformi alla legge”).
Questo Giudice aderisce per conseguenza alla prospettazione attorea, secondo la quale
una porzione del trattamento salariale è risultata nella specie indebitamente corrisposta con altrettanto conseguente indebito arricchimento della convenuta e danno per il Comune di Sesto San Giovanni (c.d. danno da interruzione del sinallagma contrattuale), e concorda anche sulla quantificazione proposta dall’organo requirente, trovandola equa e proporzionata, in quanto stimata, in via equitativa, in misura non inferiore al 20% della retribuzione lorda percepita dalla So. nel periodo 2007-2010 (come da nota del Comune di Sesto San Giovanni prot. 76174 del 28.10.2013 e relative buste paga), pari –quest’ultima- alla somma complessiva di euro 200.199,20.
Di tal ché, la posta di danno da distrazione delle proprie energie lavorative imputabile alla convenuta va ultimativamente quantificata in euro 40.039,84 (corrispondente, appunto, al 20% di euro 200.199,20 lordi).
5. Con riferimento, infine, al danno all’immagine, ad avviso del Collegio esso sussiste, alla luce anche di un ampio e perdurante risalto mediatico della vicenda (che come per vero di rado accade ha condotto persino a coniare delle spregiative locuzioni “sistema Sesto” e “sistema So.”, ad indicare una metodica illecita collaudata e immanente), e si presume, come da L. n. 190/2012 (applicabile ratione temporis alla vicenda per cui è causa, attesa la natura meramente processuale, e non già sostanziale, della disposizione de qua: così, da ultimo, Sez. giur. Lombardia, sent. n. 63/2015), pari al doppio di quanto effettivamente introitato illecitamente dalla convenuta.
Sul punto, appare opportuno evidenziare che, in termini generali, questa Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi dall’indirizzo al riguardo fatto proprio dalla Corte costituzionale (ord. n. 219/2011), ad avviso della quale: “
….una volta rinvenuta una giustificazione alla previsione che impone la sussistenza di una sentenza di condanna per uno dei reati sopra indicati, è ragionevole che il legislatore abbia richiesto che tale sentenza acquisisca il crisma della definitività prima che inizi il procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa derivante dalla lesione dell’immagine dell’amministrazione; che quanto sin qui esposto giustifica la diversità di trattamento giuridico tra le ipotesi di responsabilità per danno patrimoniale, che non richiede la sussistenza di una sentenza di condanna passata in cosa giudicata, e quelle per responsabilità per lesione dell’immagine dell’amministrazione”.
Nell’ambito delle declinazioni puntuali di questo preclaro assunto,
è noto che la giurisprudenza contabile (ex plurimis, I Sez., n. 379/2014), nell’interpretare il suddetto richiamo all’art. 7 L. n. 97/2001, ritiene sufficiente, per la contestazione del danno d’immagine, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., purché divenuta irrevocabile, in quanto equiparata ad una pronuncia di condanna (ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p.).
Ne consegue che, nella specie, sussiste quella sentenza irrevocabile di condanna richiesta dall’art. 7 della legge n. 97/2001, cui fa rinvio l'art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102/2009, modificato dal d.l. n. 103/2009 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 141/2009.
Ciò detto, è noto che la c.d. legge Severino (n. 190/2012), dal contenuto ampio e articolato, ha fra l’altro realizzato un’importante innovazione in tema di danno all’immagine della PA. In particolare, l’art. 1, comma 62, ha inserito nell’art. 1, della legge n. 20/1994, il comma 1-sexies, a tenore del quale “1-sexies. Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.
La norma è chiara, nel forfetizzare il danno da risarcire presumendolo pari al doppio “della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”, fermo restando che l’importo della tangente percepita non può costituire limite assoluto al potere-dovere del giudice di tenere conto della particolarità del caso concreto, onde evitare il rischio che una meccanica applicazione di esso si traduca in un risarcimento non proporzionato alla entità della lesione subita dall’amministrazione (così, da ultimo, Sez. giur. Lombardia, sent. n. 63/2015).
Peraltro, trattandosi di vicenda che ha avuto ampio risalto mediatico, con conseguente clamor fori c.d. esterno, oltre che interno, appare appropriato richiamare quella recente giurisprudenza (Sez. Veneto, sent. n. 80/2012) che ha precisato che <<
al fine della quantificazione del danno in esame soccorrono i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di questa Corte nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli individuati dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, nella recente sentenza n. 15208/2010 ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica dalla vicenda
>>.
Facendo applicazione di simili paradigmi nel caso specifico, preso atto che nel capo della sentenza di patteggiamento concernente la So. si dà conto della percezione di 50.000 euro dal Pa. e di 73.000,00 dal Ma., e tenuto conto della peculiare gravità della condotta illecita e correlativamente degli effetti lesivi che ne sono conseguiti (considerato in particolare il ruolo esponenziale svolto dalla convenuta, circostanza che per sua natura tende inevitabilmente ad amplificare nella collettività la percezione della perdita di prestigio, credibilità e autorevolezza subita dall’amministrazione), l’effetto della presunzione relativa di cui all’art. 1, comma 1-sexies, della l. n. 19/1994, non impedito da evidenze ostative per quanto in atti, conduce ad un risarcimento finale pari ad euro 246.000.
6. Quanto, infine, all’incidenza delle somme indicate in atti come oggetto di provvedimenti di confisca, le stesse -anche in considerazione del titolo giuridico completamente differente della confisca (restitutorio, verso lo Stato) rispetto alla sentenza di condanna della Corte dei conti (risarcitorio, in favore della specifica amministrazione danneggiata)– non potranno essere comunque dedotte dal risarcimento stabilito dalla presente sentenza.
Ad avviso di questa Corte (v. da ultimo Sez. I, n. 1011/2013), la confisca penale (di cui agli articoli 236 e 240 c.p.) è infatti una misura di sicurezza patrimoniale che tende a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l'espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da fatti illeciti penali o che siano in altra guisa collegate alla loro esecuzione, manterrebbero viva l'idea e l'attrattiva del reato; ha quindi per oggetto le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e quelle che ne sono il prodotto o il profitto.
Dunque, come si vede, finalità e ambiti operativi del tutto distinti dal (completo ed esatto) risarcimento patrimoniale, cui tende per sua natura la sentenza giuscontabile (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 27.07.2015 n. 135).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale per attribuzione illegittima di compensi al Segretario comunale tipo: retribuzione in qualità di Presidente del Nucleo di Valutazione ed erogazione delle retribuzioni di risultato in assenza di obiettivi predeterminati. .
La I Sez. Centrale di Appello della Corte dei conti, conferma la condanna in via prevalente in capo al Segretario comunale per aver ricevuto compensi non dovuti riguardanti la retribuzione in qualità di Presidente del Nucleo di Valutazione e l'erogazione delle retribuzioni di risultato in assenza di obiettivi predeterminati.
La responsabilità del Segretario è rilevante in quanto lo stesso, nell'ambito della sua funzione di garante della legalità dell'azione amministrativa dell'Ente, non ha rilevato le illegittimità delle operazioni poste in essere, beneficiando dei relativi effetti economici.
Resta, in ogni caso, una responsabilità minore del Sindaco il quale ha in ogni caso disposto l'erogazione delle citate indennità.

Erronea sarebbe ancora la sentenza per insussistenza del danno erariale in ordine alla corresponsione dell’emolumento aggiuntivo di € 7.500,00 per l’intervenuta nomina della sig.ra F. quale Presidente del Nucleo di valutazione, con conseguente erronea interpretazione dell’art. 97 del d.leg.vo n. 267/2000.
L’appellante sostiene che l’emolumento era dovuto essendo l’incarico de quo da collocare tra quelli aggiuntivi extraistituzionali, atteso che è stato conferito con apposito decreto sindacale e la cui attività è stata espletata al di fuori del normale orario di servizio.
La motivazione difensiva non può essere condivisa.
Al di là della natura della funzione in sé di Presidente del Nucleo di valutazione, va ricordato che lo svolgimento di tale mansione era previsto nel contratto collettivo integrativo di livello nazionale dei segretari comunali e provinciali (accordo del 22.12.2003) tra le condizioni che avrebbero potuto determinare l’incremento (dal 10% al 50%) della retribuzione di posizione del Segretario Comunale.
La circostanza tuttavia che la F., nel periodo di riferimento, già percepiva la retribuzione di posizione nel suo massimo avrebbe dovuto comportare che, in disparte ogni altra considerazione, l’attività di Presidente del Nucleo di valutazione non comportasse il percepimento da parte dell’interessata di alcun altro emolumento.
Pertanto non appare conferente quanto sostenuto dall’appellante in ordine al fatto che il compenso le sarebbe comunque spettato perché rientrante non già nelle funzioni di Segretario comunale ma di Direttore generale, carica contestualmente ricoperta dalla medesima.
Ultimo motivo di censura è poi quello relativo al punto in cui la sentenza afferma che l’indennità di risultato è stata riconosciuta in violazione del quadro normativo di riferimento, atteso che tale indennità è stata riconosciuta e liquidata in assenza di un’assegnazione di obiettivi e senza la necessaria verifica della loro assegnazione.
In proposito, oltre a quanto già evidenziato dal primo giudice, va rammentato che la fase di previsione ed erogazione dell’indennità in parola è puntualmente procedimentalizzata dall’art. 42 del CCNL 16.05.2001, a mente del quale vengono richiesti due elementi essenziali: l’attribuzione degli obiettivi espliciti e chiari (da non rapportare a generici riferimento al programma politico tout court del sindaco) ed il controllo del raggiungimento dei risultati conseguiti. Elementi che, allo stato degli atti, appaiono carenti e la cui sussistenza resta indimostrata da parte degli appellanti.
Pertanto, conclusivamente, il pregiudizio erariale contestato resta confermato sia in capo al Sindaco G., che ha disposto l’attribuzione delle varie somme indicate, sia in capo alla sig.ra F., che, come precisato in prime cure, nell’ambito della sua funzione di garante della legalità dell’azione amministrativa dell’Ente, non ha rilevato le illegittimità delle operazioni poste in essere, beneficiando dei relativi effetti.
Gli appelli vanno dunque respinti e la sentenza impugnata confermata integralmente (Corte dei Conti, Sez. I Centrale di Appello, sentenza 22.07.2015 n. 451).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno erariale: discrezionalità non fa rima con arbitrarietà (commento tratto da e link a www.altalex.com).
La discrezionalità amministrativa non può diventare uno strumento di legittimazione per scelte arbitrarie o irragionevoli.
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E’ quanto ricorda la Sez. II centrale d’appello della Corte dei Conti con la sentenza 08.06.2015 n. 296.
Nel caso di specie,
il Sindaco si è trovato a rispondere a titolo di danno erariale indiretto della soccombenza patita dall’amministrazione locale nel giudizio arbitrale instaurato dal professionista al quale il comune, su decisione del primo cittadino, aveva deciso di revocare l’incarico di direzione lavori e di rifiutare il pagamento delle prestazioni già eseguite in quanto ritenuto responsabile del cedimento strutturale di alcune opere stradali appaltate.
Il giudice contabile di prima istanza aveva condannato il sindaco per aver interferito con le valutazioni tecniche spettanti all’organo di collaudo, al quale era stata inibita la possibilità di verificare le ragioni del cedimento mediante l’avocazione diretta delle funzioni di responsabile del procedimento e la decisione, considerata sommaria e frettolosa, di imputare l’accaduto al direttore dei lavori, disconoscendogli il corrispettivo dovuto.
Esperito il gravame, il giudice d’appello conferma la decisione di primo grado, respingendo con forza la tesi dell’appellante secondo cui la scelta di opporsi giudizialmente alle richieste del professionista rientrerebbe nell’alveo della discrezionalità amministrativa e sarebbe, di conseguenza, immune a qualsiasi censura da parte della Corte dei Conti.
La norma che la difesa del convenuto richiama a tal proposito è l’art. 1, co. 1, della L. 14.01.1994, n. 20, secondo cui “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
Il giudice d’appello chiarisce, però, che
l’attribuzione di un potere amministrativo discrezionale da parte della legge non implica la creazione di un’area di assoluta libertà decisionale in capo al titolare, ma esige pur sempre che tale potere venga esercitato nel rispetto dei fini per i quali è stato conferito.
Secondo la giurisprudenza, “
dal principio di legalità e di soggezione dell’amministrazione alla legge, dunque, ne consegue che qualunque manifestazione dell’azione amministrativa è passibile di controllo da parte della competente giurisdizione per verificarne la conformità alla normativa, anche sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza [1].
Del resto,
è lo stesso tenore letterale della norma richiamata ad escludere dal sindacato giurisdizionale unicamente il “merito” amministrativo e non la scelta discrezionale nella sua interezza che deve, in ogni caso, rispettare i c.d. “limiti interni” della discrezionalità –interesse pubblico, causa del potere esercitato, osservanza dei precetti di logicità e di imparzialità– alla cui violazione si fa tradizionalmente risalire il vizio dell’eccesso di potere.
Nel caso in esame, il giudice contabile aderisce alla tesi della Procura secondo cui
nel merito amministrativo confluiscono solo quelle possibilità decisionali compatibili con “quei principi di ragionevolezza che devono sempre innervare la scelta discrezionale, criteri che, se non rispettati, la rendono un dannoso arbitrio”.
E’ solo all’interno di questo perimetro che il decisore pubblico può scegliere in base a valutazioni di opportunità e convenienza, insindacabili in sede giurisdizionale.
Tra l’altro, i giudici contabili ricordano come l’area del “giuridicamente irrilevante” abbia subito un significativo ridimensionamento per effetto della positivizzazione dei principi di efficacia ed economicità, ai quali l’art. 1 della Legge 07.08.1990, n. 241 ha imposto che si conformi tutta l’attività amministrativa.
In tal modo,
la nozione di legittimità si è arricchita di nuovi contenuti, con corrispondente espansione del sindacato giurisdizionale, chiamato ora a scrutinare l’azione amministrativa anche sotto il profilo dell’adeguatezza dei mezzi e delle risorse impiegate nel conseguimento di un determinato obiettivo, in un giudizio condizionato necessariamente da un’analisi dei risultati oltre che dell’ossequio formale alle norme di legge.
In un caso di contestazione della giurisdizione della Corte dei Conti motivata proprio con riferimento all’insindacabilità delle scelte discrezionali, la Corte di Cassazione, a proposito dei criteri di economicità ed efficacia introdotti dalla legge n. 241, ha evidenziato che “
In virtù di tale specifica previsione, detti criteri, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall’art. 97, primo comma, Cost., hanno acquistato "dignità normativa", assumendo rilevanza sul piano della legittimità (e non della mera opportunità) dell’azione amministrativa. La verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può quindi prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti. E si intende, allora, che la violazione dei criteri sopra indicati possa assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità… [2].
La sopravvenuta cogenza dei principi di efficacia ed economicità ha introdotto, quindi, ulteriori e più stringenti limiti all’autonomia decisionale degli amministratori pubblici, determinando, corrispondentemente, “
un’indagine più penetrante sull’esercizio della discrezionalità amministrativa, posto che implica una valutazione puntuale del rapporto tra scelte in concreto effettuate e possibili opzioni in relazione agli obiettivi di legge [3].
Del resto, l’idea che il giudizio sulla regolarità di una gestione pubblica non possa prescindere da un’analisi critica del rapporto tra le risorse impiegate ed il risultato raggiunto ed esaurirsi, così, nella mera verifica di conformità del singolo atto alle norme di legge è attestata, altresì, dalle univoche indicazioni fornite nel tempo dal legislatore in materia di controlli amministrativi.
In tale prospettiva si colloca già l’art. 3, co. 4, della Legge 20 cit. che, nell’attribuire alla Corte dei Conti i compiti di controllo successivo sulla gestione delle pubbliche amministrazioni, stabilisce che la magistratura contabile “
Accerta, anche in base all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa”.
Altrettanto espliciti sono i riferimenti contenuti nel D.Lgs. 30.06.2011, n. 123 recante la riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile, in cui si legge, a più riprese, che il fine dei controlli è “
assicurare la legittimità, la proficuità, la correttezza e la regolarità delle gestioni” (art. 1, co. 2), “assicurare la legittimità e proficuità della spesa” (art. 2, co. 2) e “ricondurre a economicità e regolarità amministrativo-contabile le gestioni pubbliche” (art. 23, co. 2).
Dall’immediata precettività dei principi di efficacia ed economicità deriva, conseguentemente, un aumento delle ipotesi di responsabilità in capo agli amministratori pubblici, anche di natura erariale.
Nel caso sottoposto all’esame del giudice contabile d’appello,
la violazione dei canoni di buona amministrazione foriera del danno erariale viene ravvisata nell’avventatezza con la quale il Sindaco ha deciso, a seguito di un’istruttoria assolutamente sommaria, di addebitare la responsabilità del cedimento strutturale di un’opera al direttore dei lavori, rifiutando di riconoscergli il pagamento delle prestazioni rese ed instaurando un contenzioso dall’esito negativo facilmente prevedibile.
Secondo la Corte d’appello, “
il contenzioso è stato instaurato senza osservare uno dei principi cardine della scelta amministrativa, ossia ‘conoscere per decidere’, principio che giustifica e conforma tutto il procedimento amministrativo” osservando che “Nel caso in esame … ciò che è mancato è stato il rispetto del procedimento amministrativo come luogo della massima acquisizione degli elementi informativi al fine del decidere, con patente violazione dell’art. 6 l. n. 241 del 1990”.
Si afferma, in sostanza,
la necessità che ogni provvedimento amministrativo sia preceduto da un’adeguata istruttoria procedimentale ossia dall’ineludibile valutazione comparativa di tutti gli interessi in gioco affinché la scelta finale costituisca il coerente epilogo di un percorso logico ed argomentativo ampiamente ponderato.
Nessuno spazio, invece, viene concesso a decisioni avventate ed irragionevoli, che tradiscono, ad avviso dei giudici contabili, un’incuria gestionale meritevole di censura anche sul piano erariale, senza l’alibi della discrezionalità amministrativa.
In particolare, viene precisato che “
il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dalla valutazione giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile” (Corte dei Conti, Sez. II centrale d'appello, sentenza 08.06.2015 n. 296).
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[1] Consiglio di Stato, sez. V, 08.08.2005, n. 4207.
[2] Cass., Sez. Un., 29.09.2003, n. 14488 e, più di recente, Cass., Sez. Un., 09.07.2008, n. 18757.
[3] Tar Puglia, Bari, sez. III, 03.07.2008, n. 1613.

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Condannato il dirigente dell'UTC per l'affidamento diretto e per i lavori di manutenzione straordinaria effettuati in qualità di locatario.
Tra l'altro, lavori di "somma urgenza" sono stati affidati direttamente in violazione ai principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento, così come disciplinati dal comma 8 dell'art. 125 del Codice dei Contratti, tanto più che detti lavori di manutenzione straordinaria dell'immobile avrebbero dovuto essere posti a carico del proprietario e non dell'amministrazione locataria.  
Vieppiù, non appare correttamente seguita la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
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L'AVCP
ha rilevato la non corretta applicazione da parte del comune "delle norme del Codice dei Contratti ed in particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli appalti, in difformità del rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia
ciò che realmente indica l'illiceità della spesa sopportata dal Comune è il fatto che si è trattato in netta prevalenza (ad eccezione della realizzazione di un servizio igienico per disabili e della costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso, sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili opere necessarie per conservare all'immobile la sua destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione, che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione straordinaria.
La L. 392/14978 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) prevede più specificamente che sono interamente a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione dell’immobile prevede all’art. 5 che "
l’ordinaria manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli interventi di carattere straordinario restano a carico del locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono principalmente consistiti nella realizzazione di lavori necessari per ricondurre la struttura in buono stato locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro).
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Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune per le Spese in Economia, in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
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C.
Sgombrato il campo dalle questioni pregiudiziali e preliminari proposte dalle difese dei convenuti, il Collegio può esaminare in punto di merito la vicenda descritta nella premessa in fatto. Deve quindi procedersi alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che, com’è noto, si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché nella sussistenza di un rapporto di servizio fra coloro che lo hanno determinato e l'ente che lo ha subito.
D. Con riferimento, in primo luogo, all’elemento oggettivo del danno pubblico, la valutazione della relativa sussistenza nel caso di specie impone l'attenta valutazione degli atti di causa, dai quali risulta quanto segue.
Con relazione informativa n. 108/09 del 06.04.2009
l'ASL NA 2 Nord - Dipartimento di Prevenzione - Servizio Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro - Servizio Igiene e Medicina del Lavoro dava comunicazione di quanto emerso nel corso degli accertamenti effettuati durante l'ispezione svolta il 23.03.2009 presso l'Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola situato in via SS. Cuori, ovvero della rilevata inosservanza di talune disposizioni dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008), impartendo, di conseguenza, una serie di prescrizioni, cui il datore di lavoro (individuato su delega del Sindaco del Comune di Afragola nell'Ing. M.D., Responsabile del Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino del medesimo Comune) avrebbe dovuto curare la puntuale ottemperanza entro novanta giorni dalla data del verbale de quo; contestualmente, l'ASL decretava, considerata la situazione di pericolo derivante dall'inosservanza delle prescrizioni indicate, il divieto d'uso dei locali adibiti ad Ufficio Anagrafe del Comune di Afragola.
L'immobile de quo era condotto in locazione dall'Ente in forza di contratto n. 1713 del 22.07.1998, stipulato con il proprietario Istituto SS. Cuori, nel quale era stato pattuito un canone mensile di £. 3.535.323, per complessive £. 42.423.876 annue (da aggiornare con indici ISTAT).
Con determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del Territorio ing. N.B. si stabiliva, facendo riferimento alla Relazione Informativa ASL NA 2 Nord n. 108/09 dianzi citata e dando atto dell'urgenza ed indifferibilità ex art. 9 Regolamento Comunale delle Spese in Economia approvato con deliberazione C.S. n. 119 del 07.04.2007 dei lavori di risistemazione e adeguamento dello stabile da eseguire in ottemperanza alle prescrizioni impartite dall'Azienda Sanitaria Locale, di affidare i lavori de quibus all’impresa RDR di M. V. e R. s.n.c. in forza di un precedente contratto d’appalto, n. 3181 del 24.09.2008, avente ad oggetto la manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili comunali, ed utilizzando lo stesso ribasso d’asta (34,105%), in ragione della dichiarazione di disponibilità dell'impresa all'esecuzione immediata dei lavori agli stessi patti e condizioni del contratto n. 3181/2008 già in essere.
Il contratto da stipulare in esecuzione della determinazione dirigenziale n. 92/C del 12.06.2009 è stato poi sottoscritto in data 16.07.2009, per un importo netto contrattuale di € 50.136,51 comprensivo di oneri di sicurezza. Infine, con determina dirigenziale n. 161/C del 24-09-2009 è stato approvato il primo ed unico SAL per un importo di € 48.780,52 oltre I.V.A..
Con successiva determinazione dirigenziale n. 178 del 17.02.2010 del Responsabile del Settore Lavori Pubblici e Assetto del Territorio ing. N.B., è stato approvato un ulteriore progetto dell’importo di €. 83.860,00, di cui €. 68.737,72 per lavori, contenente opere rese necessarie sempre dalle prescrizioni dell’Azienda Sanitaria, di cui al verbale n. 108/09 dell’Azienda sanitaria Locale Napoli 2 Nord; i predetti lavori sono stati affidati all’impresa Coop. S., in forza di un precedente contratto, stipulato in relazione ai lavori di manutenzione straordinaria ed ordinaria annualità 2009/2010 dei plessi scolastici di competenza dell’Ente Comunale della città di Afragola per un importo contrattuale di € 136.869,78 -a seguito di gara e con un ribasso d’asta del 34,463%- applicando lo stesso ribasso d’asta (del 34,463%, appunto) per un importo di € 46.707,52, comprensivo di € 4.906,97 per oneri di sicurezza;
anche in questo caso l'affidamento è avvenuto ai sensi dell’art. 9 del Regolamento delle Spese in Economia dell’Ente, già richiamato per statuire l'urgenza e l'indifferibilità dei lavori nella determinazione n. 92/C/2009 di cui si è detto in precedenza. La copertura finanziaria è stata assicurata dall’economia risultante dal ribasso d’asta dell’appalto originario.
Nella premessa della determinazione dirigenziale n. 178/2010 vengono, altresì richiamati due verbali di riunione, tenutesi rispettivamente il 07.01.2010 ed il 22.01.2010 tra il Vice-Sindaco ed i dirigenti dei vari Settori del Comune di Afragola -la prima riunione, anche con la partecipazione del segretario comunale- in cui era stata ribadita "la necessità della sistemazione dei locali posti al primo piano dell'Ufficio Anagrafe in via SS. Cuori", con particolare riferimento alla scala delle stanze situate al primo piano dello stabile, all'impianto elettrico, alle toilettes, a bussole e finestre ed alla realizzazione di tompagnatura in alcuni ambienti.
Dalla lettura della prot. n. 19922 del 02.08.2010 del Dirigente del Settore A.T./LL.PP. comunale ing. N.B., emerge che i lavori affidati alla prima impresa RDR di M. V. e R. s.n.c. hanno interessato il piano terra dello stabile e solo marginalmente il primo piano, quest'ultimo con lavori di piccola entità, e che con i lavori aggiuntivi affidati alla Coop S. in forza della determina n. 178 del 17.02.2010, sono stati completati i lavori di sistemazione del primo piano, previo trasferimento degli uffici al piano terra.
Più in dettaglio -come illustrato nella medesima nota dianzi indicata, trasmessa a riscontro di richiesta di chiarimenti e informazioni dell'AVCP- i primi lavori sono consistiti in:
   A) ristrutturazione dell’intero piano terra dello stabile in via SS. Cuori, previo sgombero dell’intero archivio e trasporto di materiale al macero, rifacimento della partizione interna, realizzazione degli impianti elettrico, idrico, di riscaldamento e climatizzazione, realizzazione di nuovi servizi igienici di cui uno per disabili, sistemazione dell’ingresso principale con la costruzione di una rampa di accesso per disabili, realizzazione di controsoffittatura, nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro;
   B) lavori di piccola entità al primo piano del medesimo stabile nei locali adibiti ai servizi igienici, quali sostituzione di n. 4 vasi igienici nei wc, sostituzione e ripristino di piccole parti di pavimentazione (in totale mq. 4 di pavimentazione), sostituzione dei serramenti nei locali wc e ripristino intonaco nel corridoio principale.
Per i lavori del secondo affidamento (impresa Coop. S.), invece, gli interventi da eseguire sono dettagliatamente indicati nel verbale di riunione del 22.01.2010:
1. spostamento dell’archivio storico dalla precedente sede alla stanza n. 3 indicata nell’allegato grafico;
2. chiusura, con realizzazione di muri, dei due ingressi al corridoio di destra e di sinistra;
3. sistemazione delle tre stanze identificate ai nn. 1, 2 e 3, con ripristino delle parti ammalorate di intonaco, ritinteggiatura complessiva, sostituzione degli infissi e delle porte interne, dei vetri ove non a norma, rifacimento dell’impianto elettrico, nonché realizzazione dell’impianto di rilevazione incendi e verifica del solaio di calpestio destinato all’archivio storico;
4. sostituzione degli infissi esistenti e della porta di accesso ai locali adibiti a servizi igienici al primo piano;
5. rifacimento dell’impermeabilizzazione al solaio di copertura del torrino scala;
6. rifacimento dell’intonaco al soffitto del vano scala, ritinteggiatura complessiva e sistemazione dell’impianto elettrico.

La realizzazione dei lavori de quibus è stata oggetto di alcune note (n. 46270 del 14.07.2010, n. 70175 del 11.10.2010 e n. 30609 del 18.03.2011, quest'ultima già citata in precedenza per aver costituito lo spunto per l'apertura delle indagini eseguite dal requirente contabile), due istruttorie ed una di definizione dell'istruttoria medesima, dell'A.V.C.P. (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture),
la quale ha rilevato la non corretta applicazione da parte della stazione appaltante (il Comune di Afragola) "delle norme del Codice dei Contratti ed in particolare del comma 8 dell'art. 125, poiché non ha interpellato cinque ditte per l'affidamento di entrambi gli appalti, in difformità del rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento".
Tuttavia -come puntualmente e condivisibilmente evidenziato dal PM di udienza-
ciò che realmente indica l'illiceità della spesa sopportata dal Comune di Afragola a fronte dei lavori precedentemente descritti, è il fatto che si è trattato in netta prevalenza (ad eccezione della realizzazione di un servizio igienico per disabili e della costruzione all’ingresso principale di una rampa di accesso, sempre per disabili) di lavori comportanti improrogabili opere necessarie per conservare all'immobile la sua destinazione o per evitare maggiori danni suscettibili di comprometterne l'efficienza in relazione all'uso a cui è adibito, ovvero opere di straordinaria manutenzione di una certa entità, in quanto tali a carico del locatore.
Invero,
l'art. 1576 c.c. prevede, come criterio generale, che il locatore (proprietario) deve eseguire tutte le riparazioni necessarie, ad eccezione di quelle di piccola manutenzione, che sono invece a carico del conduttore. Tutte le spese ordinarie sono quindi a carico di quest'ultimo, mentre il proprietario è tenuto ad intervenire in caso di manutenzione straordinaria.
La L. 392/14978 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) prevede più specificamente che sono interamente a carico del conduttore, salvo patto contrario, le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine, nonché alla fornitura di altri servizi comuni.
Nel caso di specie, anche il contratto di locazione dell’immobile prevede all’art. 5 che "
l’ordinaria manutenzione dell’immobile verrà curata dal Comune di Afragola che si impegna a rilasciare, al momento della disdetta, i locali nelle medesime condizioni in cui gli stessi vengono concessi, salvo la normale usura, mentre gli interventi di carattere straordinario restano a carico del locatore".
Le su richiamate disposizioni non consentono -come giustamente osservato nell'atto introduttivo del giudizio- di ritenere sopportabili dall'Ente pubblico conduttore dell'immobile gli interventi eseguiti, poiché questi sono principalmente consistiti nella realizzazione di lavori necessari per ricondurre la struttura in buono stato locativo, lavori ad esclusivo carico del proprietario (quali i nuovi intonaci alle pareti, nuova pavimentazione e tinteggiatura dell’intero edificio, nuovi impianti, sostituzione delle porte interne e degli infissi, ripristino dei serramenti in ferro).
Non a caso, infatti, era lo stesso Ente locale a riferire alla competente Procura della Repubblica di Napoli -nella nota n. 2183 del 26/01/2011 del Responsabile del Settore A.T. e LL.PP. ing. N.B., odierno convenuto- che “
... la proprietà dei locali occupati dal personale di Stato Civile dell’Amministrazione Comunale di Afragola non rientra tra quelle disponibili dell’Ente e pertanto, è palese la impossibilità giuridica di questo Ente di effettuare interventi di manutenzione straordinaria quali sono quelli finalizzati all’adeguamento ai sensi del T.U. 81/2008 (sicurezza sui luoghi di lavoro)”.
Erano proprio le prescrizioni dell’ASL NA 2 Nord indicate nella Relazione Informativa n. 108/09 sopra citata, inoltre,
ad attestare uno stato di particolare degrado dell’immobile locato, per il quale, dunque, deve dedursi che non siano stati svolti e pretesi nel tempo -ovvero, per tutta la ventennale durata del rapporto locativo- gli interventi manutentivi necessari.
Poiché, dunque, i lavori realizzati in esecuzione delle determinazioni n. 92/C/2009 e n. 178/2010 del Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio, sono di straordinaria manutenzione, i relativi oneri non avrebbero dovuto essere sopportati dal Comune di Afragola, in sostituzione e con diretto vantaggio patrimoniale del soggetto proprietario, bensì avrebbero dovuto essere sì effettuati in tempi rapidi, ma poi posti a carico -detratti i costi sostenuti per realizzare i prescritti adeguamenti strutturali per disabili- del proprietario dello stabile.
Poiché ciò non è avvenuto -ed anzi l'ing. N.B. ha escluso nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 che potesse avvenire, in aperto contrasto con quanto in un primo momento da lui stesso osservato nella nota n. 2183 del 26.01.2011 sopra citata-
il Collegio ritiene che il Comune di Afragola abbia senz'altro subito, in relazione alla vicenda dianzi descritta, un pregiudizio economico.
Valga sottolineare, altresì, che
non appare correttamente seguita, nel caso di specie, la procedura prescritta per i "Lavori d'urgenza" dall'art. 9 del Regolamento del Comune di Afragola per le Spese in Economia, approvato con delibera C.S. n. 119 del 07.04.2007 (integrata da successiva delibera n C.S. n. 133 del 12.07.2007) -cui pure fa riferimento la difesa del convenuto- in quanto non risulta in atti che sia stato redatto "apposito verbale in cui sono indicati i motivi dello stato d'urgenza, le cause che lo hanno provocato e i lavori necessari per rimuoverlo", né che al verbale de quo -da compilare a cura del responsabile del procedimento o di un tecnico incaricato- sia prontamente seguita la "redazione di un'apposita perizia estimativa, che -qualora non si possa attendere la redazione di un vero e proprio progetto- costituisce presupposto sufficiente per definire la spesa dei lavori da eseguirsi e permettere la relativa copertura finanziaria" e nemmeno, infine, che il predetto verbale sia stato "allegato alla determina di affidamento della prestazione".
In merito alla quantificazione del danno sopra descritto e ritenuto sussistente nella fattispecie, il Collegio osserva, preliminarmente, che con nota segretariale n. 440/Seg del 05.11.2012 del Comune di Afragola è stata trasmessa la nota interna n. 3981/AT del 31.10.2012, in cui vengono indicate in € 60.631,39 e in € 57.418,03 le spese sostenute per effetto delle determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, che secondo la prospettazione attorea costituiscono danno erariale per l'intero importo (€ 118.049,42 = € 60.631,39 + € 57.418,03).
Tuttavia, il Collegio ritiene di dover rivedere la proposta quantificazione tenendo conto, come rilevato anche dal PM di udienza, della spesa che il Comune di Afragola avrebbe comunque dovuto sostenere in proprio -senza cioè poterla porre a carico del proprietario dello stabile adibito ad Ufficio Anagrafe comunale- per la realizzazione di una rampa d’accesso e di un servizio igienico per disabili, complessivamente quantificabile in € 15.000,00, tenendo conto dei costi medi di mercato di siffatte dotazioni strutturali.
Poiché tali dotazioni strutturali sono state realizzate con il primo affidamento (disposto con la determinazione n. 92/C del 12.06.2009), è l'importo erogato in relazione ad esso (€ 60.631,39) che va ridotto nella predetta misura (€ 15.000,00) ai fini della presente sentenza, risultando quindi pari a 45.631,39, cui va comunque aggiunto l'importo di € 57.418,03 erogato a seguito della determinazione n. 178 del 17.02.2010, con la conseguenza che il pregiudizio economico complessivamente subito dal Comune di Afragola in relazione all'esaminata vicenda risulta pari ad € 103.049,42 (= € 45.631,39 + € 57.418,03).
E. Ciò posto, e rilevata sotto il profilo del rapporto di servizio la sussistenza della relazione d'immedesimazione organica tra l'odierno convenuto -all'epoca dei fatti Dirigente del Settore Lavori Pubblici/Assetto del Territorio del Comune di Afragola- ed il medesimo Ente locale, va poi osservato, per quel che concerne il nesso di causalità rilevabile tra il danno descritto e quantificato in precedenza e la condotta tenuta dal convenuto medesimo, che la prospettazione attorea, secondo cui il nocumento patrimoniale subito dal predetto Ente per effetto dell'esaminata vicenda sarebbe a lui addebitabile in toto in relazione alla determina dirigenziale n. 92/C/2009 e nella misura del 50% in riferimento alla successiva determina n. 178/2010, è ad avviso del Collegio, condivisibile, per aver egli adottato le determinazioni n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, più volte citate in precedenza, mediante le quali si è stabilito l'affidamento dei lavori da eseguirsi sul bene privato senza porne contestualmente a carico del proprietario il relativo onere economico e senza, comunque, adottare alcuna statuizione in tale direzione.
Nel contempo,
è del pari condivisibile l'indicazione fornita dal requirente nell'atto introduttivo del giudizio, secondo cui la spesa erogata a seguito dell'effettuazione dei lavori affidato con la determina n. 178/2010 (€ 57.418,03) va posta al carico dell'ing. N.B. soltanto nella percentuale del 50%, dovendo essere il restante 50% addebitato al comportamento tenuto dai partecipanti (vice-sindaco, segretario comunale, vari dirigenti, amministratori e funzionari del Comune di Afragola) alle conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto l'adozione della predetta determina, in quanto nel corso di essa era stata discussa la problematica dei lavori da effettuare nello stabile di via SS. Cuori destinato ad Ufficio Anagrafe comunale, con un pronunciamento favorevole agli stessi (avvenuto nel verbale del 07.01.2010 e confermato con modifiche nei lavori in data 22.01.2010), "influenzato sia dall’esigenza di completare l’ottemperanza alle prescrizioni dell’ASL che dalla necessità dell’Ufficio anagrafe di ricevere in consegna delle apparecchiature ordinate (elettroarchivi rotanti), fornitura per la quale la ditta interessata denunciava danni di natura economica per il protrarsi dell’impossibilità alla consegna e al collaudo imputabile all’Ente" (cfr. atto di citazione, pagg. 12-13).
F. Riguardo, infine, all'elemento soggettivo dell'illecito amministrativo-contabile in controversia, che la Procura ha indicato come colpa grave, questo deve, del pari essere ritenuto sussistente per il convenuto N.B., per aver egli adottato le suindicate determine senza poi porre in essere alcuna attività finalizzata a porre a carico del proprietario dell'immobile l'onere economico sostenuto per far eseguire i lavori necessari per provvedere alla straordinaria manutenzione di esso.
Il disinteresse dimostrato dal B. in ordine alle conseguenze economicamente pregiudizievoli per l'Ente determinate dal suo operato, emerge, altresì, dal fatto che, come da egli stesso rappresentato nella nota interna n. 3327/AT dell’11.09.2012 (costituente riscontro a foglio istruttorio richiedente [anche] la corrispondenza intercorsa con il locatore per l’esecuzione dei lavori [autorizzazioni]), i rapporti con il proprietario dell'immobile erano avvenuti in modo verbale, ossia del tutto irritualmente.
Né assumono efficacia scriminante le circostanze indicate dallo stesso B. nella relazione illustrativa redatta il 09.06.2009 (ed allegata alla determina n. 92/C del 12.06.2009), in cui egli evidenzia che il Datore di Lavoro, indicato dall'ASL nel Dirigente del Settore Recupero Urbano e Servizi Collettivi al Cittadino del Comune di Afragola ing. M.D., non aveva assunto sino a quella data alcuna iniziativa intesa ad ottemperare alle prescrizioni impartite dall'ASL nella Relazione Informativa n. 108/09 e che, per contro, il medesimo ing. B. -"che lavora al meglio per il funzionamento della macchina comunale"- si sia in tale relazione illustrativa dichiarato disponibile anche a risolvere la problematica dell'Ufficio Anagrafe, potendo, tutt'al più, tali circostanze rappresentare motivo di esercizio del potere riduttivo dell'addebito.
Nel contempo, il Collegio ritiene di condividere la prospettazione esposta nell'atto introduttivo del giudizio, anche laddove non si ravvisa a carico dei partecipanti alle conferenze di servizi e riunioni che hanno preceduto la determina n. 178 del 17.02.2010 -di cui sopra si è detto- la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa grave, essendosi tali soggetti pronunciati unicamente a favore dell'effettuazione in via d'urgenza dei lavori necessari per adeguare l'immobile ospitante l'Ufficio Anagrafe comunale alle prescrizioni della locale Azienda Sanitaria, ma non certamente per tenere indenne il locatore, con pregiudizio economico per l'Ente, dagli oneri derivanti dai lavori de quibus.
G. Conclusivamente, questo Collegio ritiene che l'effettuazione a carico del Comune di Afragola dei lavori di straordinaria manutenzione dell'immobile privato condotto in locazione quale sede dell'Ufficio Anagrafe comunale, affidati con le determine n. 92/C del 12.06.2009 e n. 178 del 17.02.2010, sia stato il frutto -almeno in via prevalente, nelle misure suindicate- della condotta gravemente colposa attribuibile all'odierno convenuto e che la conseguente erogazione della somma di € 103.049,42, nel configurarsi come un danno ingiusto all’Ente vada a questi addebitata nell'importo di € 45.631,39 + € 28.709,01 (50% di € 57.418,03) = € 74.340,40, da sottoporre ad ulteriore riduzione, nella misura ritenuta equa del 20%, nell'esercizio del potere attribuito al Giudice Contabile dall'art. 52 TUCL n. 1214 del 1934, risultando dunque quantificato, infine, in € 59.472,32 (= 80% di € 74.340,40).
Su dette somme dovranno essere applicati, innanzitutto, la rivalutazione monetaria, da calcolarsi secondo gli indici ISTAT, dall’esborso e fino al giorno della pubblicazione della presente sentenza, nonché gli interessi legali sulla somma così rivalutata dalla predetta pubblicazione al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 09.03.2015 n. 253).

NEWS

ENTI LOCALI - VARI: Invalidi, nuovi contrassegni. Dal 15 settembre cambia la segnaletica.
Dal 15 settembre non si potranno più utilizzare i vecchi contrassegni arancioni che consentono la sosta e la circolazione in deroga per le persone invalide. E i comuni dovranno aver adeguato la segnaletica stradale con i simboli blu della carrozzella.

Lo ha evidenziato l'Anci con il parere divulgato sul proprio portale il 01.09.2015.
Il dpr 151/2012 ha previsto importanti novità per i veicoli al servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art. 381 del regolamento stradale. La sostituzione del vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica devono però completarsi entro il 14.09.2015, specifica l'Anci. Il nuovo contrassegno deve essere esposto sempre in originale nella parte anteriore del veicolo in modo che sia chiaramente visibile per i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati. L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili. Per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il simbolo della carrozzella diventa blu.
Con riferimento alla segnaletica verticale vengono modificati il cartello che individua lo stallo di sosta e i segnali di area pedonale e di zona a traffico limitato, nella parte relativa alle eccezioni. Tra pochi giorni quindi chi verrà pizzicato con un vecchio contrassegno non potrà risparmiarsi una multa. Ma anche il comune rischia una sanzione per segnaletica obsoleta (articolo ItaliaOggi del 03.09.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Un solo pin per c/c, tasse e sanità. È lo Spid, dal 15/9 accredito per gestori d'identità digitali. Entro dicembre i sindaci e le imprese potranno avere gratis un codice unico per tutti i servizi.
Via libera allo Spid, un pin unico per il conto corrente, per il fisco e la sanità. Dal 15 settembre richiesta di accreditamento dei gestori dell'identità digitale, presso l'Agenzia per l'Italia digitale. L'Agenzia per l'Italia digitale (Agid), dal 15 settembre, ha 180 giorni di tempo massimo, quindi marzo 2016, per analizzare le richieste che arriveranno. Spid è la nuova «infrastruttura paese» che permetterà a cittadini e imprese di accedere con un'unica identità digitale ai servizi online della p.a. e dei privati che aderiranno.

Tutto questo lo prevede il regolamento dell'Agid recante le «modalità di accreditamento e la vigilanza dei gestori dell'identità digitale».
Entro dicembre i primi cittadini e le imprese avranno gratis una identità digitale unica, con cui accedere a molti servizi: il conto corrente online, il pagamento delle tasse comunali, l'Inps e così via. Per l'uso dell'identità Spid non è obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte ma potrà essere utilizzata in diverse modalità (es. pc, smartphone, tablet ecc.). Il cittadino e l'impresa saranno liberi di scegliere la soluzione che offre il mercato e cambiarla quando vorranno.
Entro dicembre 2015 verranno rilasciate le prime identità digitali a cittadini e imprese. Agenzia delle entrate, Inail, Inps, Regione Piemonte, Friuli-Venezia e Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana e Marche permetteranno già l'accesso ai propri servizi tramite Spid. In 24 mesi il sistema pubblico di identità digitale sarà esteso a tutta la pubblica amministrazione così da permettere a tutti di accedere con un'unica identità digitale ai servizi digitali. Tre saranno i servizi di sicurezza in base ai servizi alla tipologia di servizi a cui si vorrà accedere.
Richiesta Spid. Per richiedere lo Spid si dovrà contattare un identity provider di quelli accreditati presso l'agenzia. Diverse le modalità per contattarli. Di persona, presso uno sportello fisico. Con una procedura via web cam, in cui mostreranno in video a un addetto i documenti. Con l'invio di un modulo di richiesta online (allegando i documenti).
Domanda accreditamento. La domanda di accreditamento redatta in lingua italiana, è predisposta in formato elettronico, sottoscritta con firma digitale o firma elettronica qualificata dal legale rappresentante del richiedente, ed è inviata alla casella di posta elettronica certificata dell'agenzia.
La domanda di accreditamento si considera accolta qualora non venga comunicato al richiedente il provvedimento di diniego entro 180 giorni dalla data di presentazione della stessa.
L'Agenzia avrà la facoltà di svolgere verifiche presso le strutture dedicate allo svolgimento delle attività di gestore di identità. Il gestore dell'identità digitale accreditato, ottenuta l'iscrizione nell'apposito registro, potrà qualificarsi come tale nei rapporti commerciali e con le pubbliche amministrazioni.
Protezione. Spid protegge i dati personali più di una smart-card. Con le carte elettroniche i dati personali utili a verificare l'identità in rete saranno tutti disponibili al service provider.
Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato con assoluta certezza, saranno forniti al service provider, previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente necessari per la specifica transazione.
Ad esempio, per i servizi che necessitano solo di verificare la maggiore età del soggetto o di conoscere un indirizzo email, l'identity provider fornirà al service provider solo le informazioni strettamente necessarie (articolo ItaliaOggi del 03.09.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: La laurea? Un pass europeo. Professioni/l'addio agli albi per i diplomati.
La polemica scatenata su ItaliaOggi a seguito dell'articolo «Per i diplomati addio agli albi» di venerdì 28 agosto 2015, relativa alla validità del nuovo diploma di istruzione tecnica per l'accesso agli albi professionali, mi costringe a intervenire per fare chiarezza e non polemica.
Il punto da cui partire è naturalmente la riforma degli istituti tecnici (dpr 88/2010) che, come riporta il vostro articolo, nel riordinare questo tipo di formazione, ridefinendone settori e aree, l'ha resa insufficiente a garantire una preparazione specifica per esercitare una professione intellettuale. Le ragioni sono semplici e vanno ricercate nei passaggi della stessa riforma e nell'indispensabile riferimento all'Europa.
Innanzitutto il dpr ha modificato la stessa denominazione del titolo di studio, d'ora in poi genericamente definito «diploma di istruzione tecnica», facendogli perdere quella connotazione caratterizzante che fino ad ora ha consentito di individuarne con chiarezza la specifica professione di accesso. In secondo luogo il provvedimento contiene un passaggio fondamentale, forse sottovalutato, che di fatto cancella il logico collegamento tra il titolo e l'accesso alla professione.
Mi riferisco all'articolo 10 che abroga un passaggio contenuto nel Testo unico sull'istruzione scolastica (art. 191 comma 3, dlgs 297/1994) che stabiliva: «Gli istituti tecnici hanno per fine precipuo quello di preparare all'esercizio di funzioni tecniche e amministrative, nonché di alcune professioni nei settori commerciale e dei servizi, industriale, delle costruzioni, agrario, nautico e aeronautico».
In questo senso non viene in aiuto, come qualcuno erroneamente ritiene, la tabella D (di cui all'articolo 8 comma 1) di confluenza tra gli indirizzi di specializzazione esistenti e le nuove aree. Tabella valida solo per i percorsi formativi in corso all'epoca dell'entrata in vigore del regolamento e che nulla c'entra con l'equivalenza dei titoli scolastici rilasciati tra il vecchio e il nuovo ordinamento.
Infine il riferimento all'Europa, di cui ne è prova la stessa circolare ministeriale. Il ministero, infatti, si è preoccupato di attribuire un livello Eqf, precisamente il IV, al titolo di studio, adottando quindi un preciso modello di riferimento nella valutazione della formazione attuale. Se questo è il principio, allora non si può trascurare il «Primo rapporto italiano di referenziazione delle qualificazioni al Quadro europeo Eqf», approvato in Conferenza stato-regioni il 20/12/12», che prevede per l'esercizio di una professione «il possesso di un titolo accademico», corrispondente, norme alla mano, al VI livello.
Solo con una laurea triennale quindi si potrà mantenere quell'autonomia e quella capacità di progettare, cuore della professione intellettuale. Solo così il professionista italiano non sarà discriminato rispetto a quello europeo. C'è da chiedersi quali professionisti vogliamo preparare, se competitivi, autonomi e liberi oppure subordinati alla mera esecuzione di opere di ingegno altrui. I periti industriali una scelta l'hanno fatta (articolo ItaliaOggi del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, codice senza regolamento. Pronto emendamento Delrio alla riforma: spazio alle linee-guida Anac. Semplificazione. L'attuazione della delega sarebbe fortemente alleggerita senza le norme secondarie.
È una novità clamorosa quella che sta maturando nelle stanze del ministero delle Infrastrutture e nella maggioranza di governo in materia di appalti: un emendamento alla riforma in discussione alla Camera che cancelli il regolamento generale sugli appalti, oggi composto di 345 articoli, lasciando un codice molto snello fatto soltanto delle norme legislative attuative della delega in materia di direttive Ue (ovviamente nel rispetto dei 56 paletti della delega posti nella legge).
Nell’emendamento che si sta mettendo a punto la “scomparsa” del regolamento lascerebbe spazio a una vera e propria soft law che farebbe capo all’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone: in particolare sarebbero le linee guida dell’Anac a fare l’attuazione “operativa” delle norme di legge, garantendo una flessibilità e al tempo stesso una settorialità che il regolamento generale non potrebbe comunque mai garantire.
Favorevole a questa maxisemplificazione il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, che nei giorni scorsi ha fatto vari incontri informali anche con i relatori di maggioranza della riforma alla Camera e al Senato, Raffaella Mariani e Stefano Esposito, per mettere a punto la norma.
L’impostazione allo studio si potrebbe definire anglosassone, fortemente innovativa per l’Italia, anche per i suoi effetti di semplificazione radicale e di disboscamento normativo.
Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del ministero delle Infrastrutture stanno valutando attentamente tutte le implicazioni della cancellazione del regolamento generale e le diverse opzioni, anche per evitare buchi normativi che potrebbero lasciare troppo spazio a interpretazioni, non sempre univoche, della giurisprudenza amministrativa.
Si cerca, insomma,di costruire una norma inattaccabile sotto questo profilo. Una delle ipotesi che si sta valutando per ridurre il rischio di una incertezza normativa è quella di un periodo transitorio in cui continuerebbero a utilizzarsi le norme regolamentari compatibili con le nuove norme di legge o anche quella di un rinvio dell’eliminazione del regolamento alla seconda fase, quella della riscrittura del testo unico sugli appalti.
Il governo attende per i prossimi giorni una valutazione di Cantone su questa ipotesi ma le prime valutazioni tecniche dell’Autorità anticorruzione sono positive e di disponibilità a svolgere un ruolo che, a questo punto, diventerebbe pienamente di regolazione del settore.
Intanto è tornata a riunirsi la «commissione Manzione» -dal nome del capo del Dipartimento Affari giuridici e legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi, Antonella Manzione- insediata dal ministro delle Infrastrutture a luglio proprio per scrivere i decreti legislativi che daranno attuazione alla delega al governo prevista dalla legge di riforma. L’obiettivo del governo è quello di rispettare i termini del 18 aprile per il recepimento della direttiva Ue.
Senza la riscrittura del regolamento, che sarebbe appunto soppresso, sarebbe più facile per la commissione prima e per il governo poi rispettare i termini senza dover mettere mano alla «contestuale» rivisitazione del testo unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALI: I geometri: istituti tecnici titolo valido per l'accesso. Gli istituti tecnici restano un titolo valido per l'accesso alla professione tecnica.
È l'interpretazione del Consiglio nazionale dei geometri all'indomani della circolare (di veda ItaliaOggi del 28/08) con il cui ministero dell'istruzione ha fissato nel IV livello di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate dal nuovo titolo di istruzione tecnica.
Secondo il Cng, infatti, il riferimento a questo livello che stando alle norme europee recepite in Italia nel rapporto della conferenza stato regioni (20.12.2012) non è sufficiente per esercitare la professione, «nulla ha a che fare con le professioni tecniche e con i vari percorsi di accesso alle stesse».
Questo non significa, ha spiegato a ItaliaOggi il presidente dei geometri Maurizio Savoncelli che «il futuro della professione non sarà verso la laurea (la categoria ha proposto al Miur un percorso universitario ad hoc pensato esclusivamente per il futuro geometra laureato, ndr) ma al momento le norme, cioè la legge 75/1985 e il dpr 328/01 dicono una cosa diversa e per andare verso quella direzione è necessario prevedere una modifica delle stesse e in particolare del 328».
Dunque a cinque anni dalla sua approvazione la riforma degli istituti tecnici targata Gelmini (dm 88/10) continua a dividere le professioni.
Da una parte i periti agrari e industriali che considerano questo tipo di formazione priva di quella specificità che l'aveva resa fino ad ora idonea per gli accessi agli albi, dall'altra i geometri che anche su questo punto hanno un'opinione contraria: «il dm 88/2010» ha aggiunto ancora Savoncelli, «ha chiaramente previsto il raccordo tra il percorso di precedente ordinamento (Itg per i geometri) e il nuovo (Cat) ai fini anche dell'accesso alla professione».
Più che mai ora le categorie, spinte da motivazioni opposte, chiedono dunque conferme da parte del ministero dell'istruzione che sul punto non ha mai espresso un'opinione chiara.
Non è un caso che le tre professioni avevano affidato a un tavolo tecnico, istituto proprio presso il Miur, il compito di dirimere la vicenda e rimesso gli atti all'avvocatura dello stato. Ma a un anno dall'apertura di quel tavolo ancora non è arrivata alcuna risposta (articolo ItaliaOggi del 02.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Piacenza multa chi non lava gli spazi sporcati dai cani.
Il comune di Piacenza, primo capoluogo di provincia a formalizzare un provvedimento di questo tipo, ha emesso l'ordinanza 13.07.2015 n. 418 con la quale prescrive ai proprietari di cani di lavare le deiezioni liquide prodotte dai loro animali, dotandosi di adeguati contenitori d'acqua.
L'ordinanza prevede l'applicazione di una sanzione amministrativa in caso di inosservanza.
Il problema è di attualità, posto che la Corte di Cassazione -Sez. II penale- con la sentenza 18.02.2015 n. 7082 ha assolto il proprietario di un cane che aveva imbrattato la facciata di un edificio, escludendo l'elemento soggettivo del reato in quanto il proprietario si era preventivamente munito di una bottiglietta di acqua per pulire il muro.
«L'ordinanza farà amare di più i cani anche da coloro che non apprezzano gli amici a quattro zampe», è l'auspicio dell'associazione Amici Veri a tutela degli animali domestici (articolo ItaliaOggi del 02.09.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi e demansionamenti, la delega Madia è in bianco.
Funzionari al posto di dirigenti che non si sa presso quali amministrazioni presteranno lavoro.

La legge 124/2015, di delega per la riforma della p.a., crea molti dubbi sulla dirigenza pubblica, visto che non si riesce a comprendere come e dove presteranno servizio i funzionari destinati a diventare dirigenti e i dirigenti demansionati a funzionari.
Andiamo con ordine.
Vincitori del corso-concorso o del concorso. L'articolo 11, comma 1, lettera c), numeri 1 e 2, della legge 124/2015 prevede due sistemi per il reclutamento dei futuri dirigenti: il corso-concorso e il concorso. Nel caso del corso-concorso, tuttavia, chi lo supererà sarà immesso in servizio come funzionario per tre anni, per essere successivamente inserito nel ruolo unico della dirigenza da parte delle commissioni nazionali previste dalla riforma «sulla base della valutazione da parte dell'amministrazione presso la quale è stato attribuito l'incarico iniziale». Già: ma quale sarà l'amministrazione che avrà attribuito l'incarico iniziale? Non è dato capirlo.
Il reclutamento immaginato dalla riforma è parecchio strano. Oggi, se un funzionario pubblico partecipa a un concorso per dirigente e lo vince, presta immediatamente servizio nei ruoli dell'amministrazione che ha indetto il concorso, lasciando l'amministrazione precedente. Domani, un funzionario pubblico che vinca il concorso da dirigente, per tre anni resterebbe ancora funzionario, ma con un titolo diverso: per effetto del reclutamento come dirigente. Allora, dove presterebbe il proprio servizio da funzionario «aspirante dirigente»? Presso l'amministrazione con cui già conduceva il rapporto di lavoro o presso un'altra? E perché un'amministrazione dovrebbe intasare i propri ruoli di funzionario con lavoratori sostanzialmente a tempo determinato, precludendosi la copertura a tempo indeterminato di propri fabbisogni?
Tutti nodi complicatissimi che dovrà sciogliere il legislatore delegato.
Demansionamento. La lettera i) dell'articolo 11 demanda al legislatore delegato la possibilità di prevedere la «possibilità, per i dirigenti collocati in disponibilità, di formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario, in deroga all'articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni».
La disposizione dovrebbe riguardare i dirigenti collocati in disponibilità nei ruoli unici a seguito di valutazione negativa, in quanto questi sono destinati a decadere dai ruoli stessi e al conseguente licenziamento: la misura del demansionamento, proprio perché finalizzata alla «ricollocazione» dovrebbe considerarsi riferita quindi esclusivamente ai dirigenti in procinto di perdere il lavoro. Anche in questo caso non è chiaro dove il dirigente demansionato potrà prestare servizio.
In prima approssimazione si potrebbe essere portati a ritenere che detto dirigente potrebbe chiedere di continuare a prestare servizio presso il medesimo ente ove ha lavorato come dirigente, in coerenza appunto con l'istituto del demansionamento, che postula la continuità del lavoro col medesimo datore, ma ad un livello più basso. A meglio leggere la previsione normativa, le cose non sembrano stiano così. La norma della lettera i) dispone: «previsione della possibilità, per i dirigenti collocati in disponibilità, di formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario, in deroga all'articolo 2103 del codice civile, nei ruoli delle pubbliche amministrazioni».
Come si nota, si parla espressamente di ricollocazione «nei ruoli»- delle amministrazioni. Il che è corretto: col demansionamento, l'interessato esce dal ruolo unico della dirigenza e passa alla qualifica di funzionario.
Ma, per poter prestare attività lavorativa dovrà entrare in un ruolo, cioè essere assunto a tempo indeterminato da parte di qualche ente. Manca del tutto, nella legge delega, l'indicazione del processo da seguire. Non è nemmeno chiaro a chi il dirigente «decaduto» dovrà presentare l'istanza di demansionamento: pare di capire alle Commissioni, ma queste, però, dovrebbero interessarsi della sola gestione del ruolo.
Potrebbe darsi che, accolta l'istanza di demansionamento, il dirigente decaduto allora transiti negli elenchi dei lavoratori in disponibilità di cui all'articolo 34 del dlgs 165/2001, per essere ricollocato secondo quella disciplina. Ma, allora, la ricollocazione dovrebbe intervenire entro 24 mesi.
L'assenza di dettaglio lascia tutto nella più ampia incertezza e mette il decreto legislativo attuativo a rischio di illegittimità costituzionale, perché la delega appare oggettivamente «in bianco» troppo ampia e generica, tale da rendere molto facile il vizio di eccesso di delega (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015 -
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATA: SuperDia con modulo standard. Dal 14 ottobre un formulario con tutte le info sulle opere. Per ristrutturazioni edilizie con modifiche, nuove costruzioni e ristrutturazioni urbanistiche.
Nuovo passo per le semplificazioni in edilizia. Dal 14 ottobre prossimo la superDia avrà un modello standard in tutto il territorio italiano. La superDia, che dovrà essere presentata allo sportello unico per l'edilizia o allo sportello unico per le attività produttive, riguarda gli interventi di ristrutturazione edilizia, di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi.

Il 14 ottobre terminano infatti i 90 giorni scattati a partire dall'approvazione, il 16 luglio scorso in Conferenza unificata, del modello Unico per la superDia (si veda ItaliaOggi del 10.07.2015).
L'obbligo di adeguare le normative regionali alla nuova super Dia vigerà solamente per le regioni a statuto ordinario. Quelle a statuto speciale invece conserveranno una sorta di potestà legislativa per quanto concerne le materie legate all'edilizia.
Nel nuovo modulo nazionale dovranno essere inserite le informazioni volte a identificare il tipo di lavoro nella sua completezza, i dati delle persone coinvolte (committente, progettisti, tecnici e imprese), l'area interessata con i relativi dati catastali e i geometrici dell'area interessata dal progetto.
Andranno allegati alla superDia la relazione tecnica asseverata del progettista (nella quale andranno descritti i dettagli dell'intervento e dei lavori che verranno effettuati, la conformità edilizia e urbanistica del progetto, confermata che non siano presenti vincoli paesaggistici, storici o ambientali ostativi alla realizzazione del progetto, specificato se verranno effettuati interventi di abbattimento delle barriere architettoniche e di ottimizzazione dei consumi energetici), gli elaborati grafici che consentono di descrivere il progetto e le ricevute attestanti l'avvenuto pagamento dei diritti di segreteria e degli oneri proporzionali in base al tipo di intervento.
Tre diversi tipi di interventi - La superDia dal 14 ottobre potrà essere utilizzata in luogo del permesso di costruire in tre diversi tipi di interventi: ristrutturazione edilizia, nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica.
Ristrutturazione edilizia - In alternativa al permesso di costruzione sarà possibile utilizzare la super Dia nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia che portino a un immobile in tutto o in parte diverso dal precedente. Potrà inoltre essere utilizzata nel caso in cui la ristrutturazione edilizia comporti un aumento di unità immobiliari, le modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso.
Ristrutturazione urbanistica - In questo caso la super Dia potrà essere impiegata qualora gli interventi siano disciplinati da piani attuativi, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.
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E per comunicare l'inizio dei lavori arrivano Cil e Cila in tutta Italia.
E arrivano anche le istruzioni per la compilazione del modello unico per la comunicazione inizio lavori e la comunicazione inizio lavori asseverata.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori deve essere presentato quando si eseguono lavori rientranti nella cosiddetta edilizia libera.
Il modello standard per la comunicazione di inizio lavori asseverata deve essere presentato, invece, quando si eseguono interventi di manutenzione straordinaria non riguardanti parti strutturali.
Queste le indicazioni contenute nella guida per la presentazione del modello unico comunicazioni inizio lavori redatta dall'agenda per la semplificazione. Ricordiamo che 18.12.2014 sono stati approvati dalla conferenza unificata i modelli unici per la compilazione della comunicazione inizio lavori e comunicazione inizio lavori asseverata. I due modelli possono essere utilizzati dal 16 marzo.
La comunicazione inizio lavori asseverata (Cila) può essere presentata dal proprietario, comproprietario, usufruttuario dell'immobile su cui viene eseguito l'intervento (più in generale, chiunque sia titolare di un «diritto reale» sull'immobile), oppure dall'inquilino che utilizza l'immobile in base a un contratto di affitto con il consenso del proprietario dell'immobile (in questo caso si parla di «diritto personale» compatibile con l'intervento da realizzare).
La Cila deve essere presentata sempre prima dell'inizio dei lavori oggetto della comunicazione, a meno che non si tratti di opere già eseguite, in tal caso, la presentazione della comunicazione (cosiddetta «in sanatoria») richiede il pagamento di una sanzione di 1.000 euro, da versare all'amministrazione comunale (la ricevuta di versamento deve essere allegata alla comunicazione).
Puoi presentare la Cila anche a lavori già iniziati (e ancora in corso); anche in questo caso, hai l'obbligo di pagare una sanzione, anche se ridotta a 333 euro.
Se l'intervento riguarda l'edilizia non residenziale (relativa quindi a immobili da utilizzare per lo svolgimento di attività produttive), la Cila deve essere presentata allo sportello unico per le attività produttive, l'unico punto di accesso per tutte le attività commerciali, produttive e di servizi che si rivolgono alla pubblica amministrazione
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Dirigenti p.a., buonuscita ko. Il tetto agli stipendi riduce i trattamenti di fine servizio. Una circolare dell'Inps sugli effetti previdenziali dei limiti ai trattamenti retributivi.
Buonuscite ridotte ai manager pubblici. Il tetto alle retribuzioni fissato per chi ricopra posti ai vertici della pubblica amministrazione, infatti, influenzerà anche i trattamenti di fine rapporto e servizio perché rientrano nell'ambito dei «trattamenti previdenziali» accanto alle pensioni.

È quant'altro precisa l'Inps nella circolare 24.08.2015 n. 153, illustrando la disciplina dei limiti retributivi introdotta dalla riforma Fornero delle pensioni (decreto legge n. 201/2011 convertito dalla legge n. 214/2011, e successive modifiche).
Il tetto di retribuzione. Inizialmente pari a 311.658,53 euro (valido dal 1° gennaio al 30.04.2014), il limite massimo di retribuzione ai dipendenti pubblici è stato ulteriormente ridotto a 240 mila euro dal dl n. 66/2014, convertito dalla legge n. 89/2014, ossia alla misura della retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione, a partire dal 01.05.2014.
Il tetto di retribuzione opera anche ai fini dei «trattamenti previdenziali, con riferimento alle anzianità contributive maturate» a decorrere da tale data. Per «trattamenti previdenziali», precisa l'Inps, s'intendono sia le pensioni sia i trattamenti di fine servizio (Tfs) e fine rapporto (Tfr), comunque denominati.
La riduzione del Tfr. La riduzione del Tfr è già insita nelle regole di calcolo. Infatti, la riduzione della retribuzione dal 01.05.2014 determina la proporzionale riduzione degli accantonamenti di Tfr, proprio perché commisurati alla retribuzione. Quindi, ad esempio, se per una retribuzione di 400 mila euro il Tfr annuo è di circa 28 mila euro, per la retribuzione di 240 mila è proporzionalmente ridotto a circa 16.600 euro.
La riduzione del Tfs. Diverso, invece, è l'effetto sui trattamenti di fine servizio (tali sono: l'indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari delle amministrazioni statali; l'indennità premio di servizio per i dipendenti di regioni, comuni, province e del servizio sanitario nazionale; l'indennità di anzianità per i dipendenti degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca e degli altri enti pubblici non iscritti all'Inps per il trattamento di fine servizio). In tal caso, la prestazione (il Tfs) risulta determinata dalla somma di due importi parziali:
• il primo calcolato tenendo conto delle anzianità utili e della retribuzione contributiva utile (in ogni caso non superiore al precedente limite di 311.658,53 euro) alla data del 30.04.2014;
• il secondo calcolato tenendo conto della retribuzione contributiva utile alla cessazione del rapporto di lavoro (in ogni caso non superiore al limite di 240.000 euro annui) e delle anzianità utili maturate a partire dal 01.05.2014 (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015 -
tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio-assenso indirizza le pratiche allo sportello unico. Iter più veloce per gli interventi su beni vincolati.
Lavori. Dopo la riforma della pubblica amministrazione.
Con la riforma della Pa, che ha portato con sé la semplificazione del silenzio assenso tra le pubbliche amministrazioni, prima di rivolgersi a un ufficio pubblico per un intervento edilizio gli operatori e i cittadini dovranno fare attente valutazioni.
La legge 124/2015, in vigore dallo scorso 28 agosto, prevede all’articolo 3 un meccanismo di silenzio assenso che matura in 30 giorni (90 in materia di beni culturali, paesaggistici e ambientali, ma salva la previsione di altro termine da parte della disciplina di settore) dalla richiesta di una amministrazione a un’altra, anche preposta alla tutela ambientale, paesaggistico territoriale e dei beni culturali. Questo meccanismo non è previsto sulle domande dei privati.
Ora quando deve avviare un intervento edilizio il cittadino ha di fronte a sé due strade. La via maestra è quella di rivolgersi allo Sportello unico per l’edilizia. Va in questo senso, l’articolo 5, comma 1-bis, del Testo unico dell’edilizia, per cui «lo sportello unico per l’edilizia costituisce l’unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio oggetto dello stesso».
In pratica, ci pensa il Comune a rivolgersi alla Soprintendenza o alla diversa amministrazione coinvolta nella tutela del vincolo. Lo sportello unico -prosegue la norma- «fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte», acquisendo «gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico».
Le cose però non funzionano sempre così: a volte gli interessati (soprattutto se l’intervento è su un bene vincolato) scelgono l’altra strada e si rivolgono direttamente in Soprintendenza o presso le altre amministrazioni titolate per risolvere i profili di tutela dei valori vincolati, prima di presentare al Comune il progetto edilizio.
Questa soluzione è ancora possibile? Stando alla lettera del comma 5-bis parrebbe di no, anche perché secondo il nuovo comma 7-bis «le amministrazioni pubbliche diverse dal Comune, che sono interessate al procedimento sono tenute a trasmettere immediatamente allo sportello unico per l’edilizia le denunce, le domande, le segnalazioni, gli atti e la documentazione ad esse eventualmente presentati», con la conseguenza che la domanda di nullaosta presentata direttamente all’ente competente sarebbe destinata a tornare in Comune prima ancora di essere istruita nel merito.
Non deve però dimenticarsi che il Consiglio di Stato (sentenza n. 4312/2012) ha chiarito che il procedimento strettamente edilizio è separato da quello del nullaosta, per cui l’ente compente a rilasciare il via libera non dovrebbe fare da semplice passacarte, sotto pena di essere considerato inadempiente a un proprio specifico dovere.
A conferma di ciò depone anche l’espressa previsione dell’articolo 23, comma 4, del Testo unico dell’edilizia che, in tema di Dia, continua a prevedere la possibilità che «il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela … sia allegato alla denuncia». Una norma che non avrebbe senso se lo sportello unico fosse davvero l’unica porta di accesso alla Pa anche per i procedimenti distinti, per quanto connessi, da quello propriamente edilizio.
In questo contesto si pone la recente adozione dei modelli unici della Superdia, che restano soggetti ai pareri delle soprintendenze e degli altri enti preposti alla tutela dei vincoli, che in Italia interessano gran parte del patrimonio edilizio esistente.
Ma ora, con la riforma della Pa, diventa ancora più conveniente la scelta di lasciare che all’istruttoria della Superdia o di altro titolo abilitativo per l’edilizia ci pensi il Comune: solo chi si rivolge allo sportello unico, infatti, può avvalersi del silenzio assenso dopo 30 giorni, che continua a non essere previsto sulle domande dei privati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATADa ottobre Superdia con modello standard. Semplificazioni. Per i cantieri più complessi.
L’azione del Governo per standardizzare le procedure edilizie è arrivata ai modelli per la presentazione dei progetti delle opere maggiori sottoposte a denuncia di inizio attività, la cosiddetta Superdia, che saranno utilizzabili in modo automatico in tutta Italia dal 14 ottobre.
Il tutto è nato con il Dl 24/2014 , che all’articolo 24 prevede l’adozione, d’intesa con Regioni ed enti locali, di moduli unificati e standardizzati su tutto il territorio comunale per la presentazione di istanze, dichiarazioni e segnalazione da parte di cittadini e imprese.
Per tale via sono già stati pubblicati i moduli per Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), permesso di costruire, Cil (Comunicazione inizio lavori), Cila (Comunicazione inizio lavori asseverata) e Aua (Autorizzazione unica ambientale).
Da ultimo è la volta dei moduli per la Superdia cui, secondo il Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001), sono sottoposti gli interventi di ristrutturazione edilizia “pesante” (si veda la scheda a fianco), gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive ed, infine, gli interventi di nuova costruzione, se in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali con precise disposizioni plano-volumetriche.
Non solo, sempre a Superdia sono sottoposte le opere che secondo la legislazione regionale possono avvalersi del modello procedimentale della Dia per cui -vale forse la pena ricordare- i lavori in edilizia possono essere avviati decorsi 30 giorni dalla presentazione della denuncia senza che il Comune non vi si opponga.
La previsione è dunque particolarmente importante in Lombardia, dove la Regione ha previsto la pressoché totale intercambiabilità tra i procedimenti del permesso di costruire e della Dia.
Il 14 ottobre (cioè 90 giorni dalla data del 16 luglio in cui la Conferenza unificata ha approvato i nuovi moduli) i modelli saranno pronti per entrare pienamente in vigore ed essere dunque utilizzati anche in quei Comuni che sia siano oggi dotati di formulari difformi.
Insieme agli altri modelli, quello della Superdia è uno strumento molto potente per il raggiungimento dell’auspicata omogenizzazione delle pratiche edilizie tra gli oltre ottomila Comuni italiani.
Ma l’ostacolo principale in questo campo risiede nell’ingiustificata eterogeneità della disciplina sostanziale dei singoli strumenti urbanistici ed edilizi comunali che, a partire dal lessico tecnico utilizzato che differisce da amministrazione ad amministrazione, complica oltre il limite il lavoro degli operatori.
La soluzione passa sicuramente dall’adozione, ormai prossima, del regolamento edilizio tipo previsto dall’articolo 4, comma 1-sexies, del testo unico edilizia (introdotto dal decreto Sblocca Italia, Dl 133/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Silenzio-assenso, ritardi da motivare. Riforma Madia. Stop alla dilatazione dei tempi di risposta sugli atti amministrativi senza il dettaglio dei motivi.
Le esigenze istruttorie vanno formulate entro il termine dei 30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche e i gestori di servizi pubblici devono rendere il loro assenso, nulla osta o atto di concerto entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento su cui debbono esprimersi, ma possono interrompere i termini solo esplicitando in dettaglio le loro esigenze istruttorie.
Il nuovo articolo 17-bis della legge n. 241/1990 (introdotto dall’articolo 3 della legge 124/2015) non consente più ai soggetti pubblici ai quali è richiesta l’espressione di un consenso su un atto amministrativo di dilatare i tempi di risposta, obbligandoli a specificare le ragioni che richiedono un approfondimento istruttorio.
La disposizione disciplina la gestione nell’ambito del procedimento dei nulla osta, degli assensi e degli atti di concerto, distinguendola chiaramente da quella dei pareri e da quella delle valutazioni tecniche (regolate rispettivamente dagli articoli 16 e 17 della legge 241/1990).
Le amministrazioni pubbliche (in particolare gli enti locali) devono quindi adeguare le loro eventuali disposizioni regolamentari alla nuova previsione e, in caso di confliggenza, disapplicare la norma regolamentare, se essa determina minori garanzie rispetto a quanto stabilito dall’articolo 17-bis, vigente dal 28 agosto.
Per evitare equivoci è necessario che le amministrazioni rilevino all’interno dei procedimenti le tipologie di nulla osta, nonché di atti di assenso e di concerto che devono essere rilasciati da altre amministrazioni o da soggetti gestori di servizi pubblici sulla base di disposizioni di legge o regolamentari, al fine di evitare confusione con i pareri e con le valutazioni tecniche, ma anche per analizzare compiutamente i passaggi sub-procedimentali che possono permettere l’utilizzo del silenzio-assenso (una volta scaduto il termine di trenta giorni).
Qualora l’amministrazione pubblica o il soggetto gestore di servizi pubblici chiamati a rilasciare il nulla osta o gli atti similari rappresentino esigenze istruttorie o richieste di modifica, le devono motivare e formulare in modo puntuale entro lo stesso termine di trenta giorni.
La disposizione prevede in questo caso l’interruzione del termine e pertanto l’amministrazione procedente deve elaborare tempestivamente gli elementi istruttori richiesti e il nuovo schema di provvedimento, poiché dal ricevimento di questi da parte dell’amministrazione o del soggetto gestore che deve rendere il nulla osta o atto similare decorrono nuovamente i trenta giorni.
In tal caso, l’assenso, il concerto o il nulla osta è reso nei successivi trenta giorni dalla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento; non sono ammesse ulteriori interruzioni di termini.
Il silenzio assenso (previsto dal comma 2 dell’articolo 17-bis) si applica sia in caso di decorso del termine ordinario sia in caso di decorso del termine ricalcolato dopo l’interruzione per approfondimenti istruttori.
I termini sono modulati in novanta giorni (salvo che disposizioni di legge specifiche non stabiliscano tempistiche diverse) quando i nulla osta nonché gli atti di assenso o di concerto devono essere resi da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche: se tali termini decorrono senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Anche in tal caso gli enti responsabili dei procedimenti devono ricomporre dettagliatamente il quadro normativo, in modo tale da rilevare l’effettivo collegamento tra l’atto di assenso e uno dei particolari interessi pubblici preminenti.
Le previsioni dell’articolo 17-bis non si applicano invece quando normative comunitarie richiedano l’adozione di provvedimenti espressi
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Indirizzi da chiarire nella selezione dei dirigenti.
La riforma della Pa approvata prima della pausa estiva si pone l’obiettivo, certamente condivisibile, di superare alcune rigidità del passato in favore di una dirigenza più responsabilizzata rispetto ai programmi da realizzare.
Tuttavia, la legge delega eccede per alcuni versi rispetto agli obiettivi prefissati e crea le condizioni per una dirigenza pubblica troppo permeabile alle vicende della politica, dunque ancora una volta non in grado di raggiungere risultati ottimali, seppure per ragioni diametralmente opposte a quelle che ci hanno finora condizionato.
Flessibilità e autonomia
Lo spoil system, previsto in precedenza solo per alcune limitate categorie, tra cui i segretari comunali, viene esteso a tutta la dirigenza, con effetti di dubbia costituzionalità in termini di precarizzazione degli incarichi e di sovraesposizione alla politica. Mancano sostanzialmente i checks and balances che contraddistinguono lo stesso sistema americano, nel quale la temporaneità della prestazione viene legata alla valutazione della performance.
Si pone l’esigenza, in sede di esercizio della delega, di contemperare il principio di flessibilità con la necessità di assicurare l’autonomia dirigenziale, a cominciare dalla fase di accesso agli incarichi; in particolare, occorre definire aree specifiche di competenze, per ciascun profilo professionale, in modo da favorire una selezione meritocratica ed efficace.
In soldoni, un laureato in viticoltura non può dirigere il servizio informatico: a noi pare scontato, ma la riforma è piuttosto ambigua su questo punto e si presta a pericolose scorciatoie.
Quale dirigente apicale negli enti locali
In questo contesto si colloca la disciplina sulla nuova figura del dirigente apicale degli enti locali, che subentra al “segretario comunale” ereditandone i compiti di attuazione dell’indirizzo politico, di coordinamento dell’attività amministrativa e di controllo della legalità.
È del tutto evidente che tale ruolo deve essere affidato a un soggetto in possesso di tutte le competenze multidisciplinari necessarie, di natura sia giuridica che gestionale, acquisibili solo grazie a un titolo idoneo e ad una adeguata esperienza in ruoli di coordinamento generale presso gli enti di fascia corrispondente o appena inferiore (come avveniva finora per i segretari).
Pertanto, come richiesto dall’Anci nel corso delle audizioni, i decreti delegati dovranno favorire una scelta più flessibile ma non aperta in modo indiscriminato, e questo per almeno due ordini di ragioni:
il dirigente apicale deve avere la professionalità necessaria per contribuire al ripristino del principio di “legalità” nelle amministrazioni pubbliche;
il dirigente apicale deve avere una conoscenza approfondita della macchina amministrativa e delle sue procedure, condizione imprescindibile per assicurare un efficace coordinamento degli uffici e, quindi, servizi efficienti.
Il nodo dei Comuni maggiori
Tali considerazioni valgono, a maggior ragione, per i Comuni con popolazione superiore a 100mila abitanti e per le Città metropolitane, laddove la legge consente invece di ricorrere ad una figura apicale esterna, con una possibile proliferazione di incarichi scarsamente meritocratici (come dimostrano alcune recenti esperienze in tema di incarichi fiduciari).
Questa spiccata inclinazione del nostro legislatore appare del tutto incomprensibile, specie se paragonata con la vicina esperienza francese nella quale l’accesso dal settore privato avviene –in modo più proficuo e trasparente- attraverso una quota del corso-concorso nazionale.
Non a caso un ordine del giorno, accolto dal Governo, impegna quest’ultimo nell’esercizio della delega legislativa a definire requisiti stringenti per l’accesso alla dirigenza apicale. La delega, in definitiva, rappresenta l’ultima possibilità per introdurre nella riforma le necessarie garanzie per una direzione moderna dell’ente locale, sotto il duplice profilo della legalità e della efficienza, in modo da non vanificare questo importante processo di cambiamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La «marcia indietro» entro 18 mesi. Autotutela. Potere di annullamento se si sono riscontrate illegittimità nei provvedimenti o nel processo formativo.
Le amministrazioni pubbliche devono esercitare il potere di annullamento di atti illegittimi o per i quali si sia formato illegittimamente il silenzio-assenso entro un termine non superiore a diciotto mesi dall’adozione del provvedimento o dalla formazione degli effetti della Scia.
L’articolo 6 della legge 124/2015 modifica alcune disposizioni della legge 241/1990, ridefinendo le tempistiche entro le quali può essere esercitata l’autotutela, soprattutto nei casi nei quali siano rilevate illegittimità nel provvedimento o nel processo formativo del procedimento abilitante un soggetto privato a intraprendere un’attività.
L’articolo 21-nonies della legge sul procedimento amministrativo è stato integrato proprio nella parte relativa ai termini entro i quali deve intervenire l’annullamento del provvedimento illegittimo: al criterio generale (entro un termine ragionevole) è stato posto un limite, individuato appunto in diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20 della stessa legge 241/1990.
La disposizione mantiene peraltro per l’amministrazione procedente la facoltà di annullare d’ufficio il provvedimento rispetto al quale siano state rilevate illegittimità, potendo sussistere casi di incertezza derivanti da interpretazioni differenti della normativa (e permanendo le esclusioni previste dal comma 2 dell’articolo 21-octies).
Qualora l’ente intenda annullare d’ufficio il provvedimento, dovrà esplicitare le ragioni di interesse pubblico che sostengono la decisione, evidenziando il contemperamento con gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati.
Il provvedimento di annullamento, quindi, deve essere adeguatamente motivato, focalizzando l’attenzione sui profili di illegittimità rilevati. Tale analisi può essere conseguente a una segnalazione di un soggetto interessato o coinvolto nel procedimento, oppure può derivare dall’evidenziazione nell’ambito di un ricorso presentato contro il provvedimento davanti al Tar. Tuttavia l’illegittimità potrebbe essere rilevata dalla stessa amministrazione, in particolare nell’ambito dei controlli di regolarità amministrativa (negli enti locali obbligatori in base agli articoli 147 e 147-bis del Dlgs 267/2000).
La disposizione precisa peraltro come restino ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
L’annullamento in autotutela può essere adottato dall’amministrazione anche in relazione agli atti formatisi in base a segnalazione certificata di inizio di attività sulla base di quanto disciplinato dall’articolo 19 della legge 241/1990.
Esaurito lo spazio di intervento per l’esercizio del potere di controllo sulle dichiarazioni e sugli elementi rappresentati dall’interessato con la Scia, infatti, il nuovo comma 4 stabilisce che l’amministrazione competente può comunque adottare i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies per l’annullamento d’ufficio.
Inoltre, l’innovato comma 1 dell'art. 21 prevede che in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli 19 e 20.
Da tale quadro normativo consegue per le amministrazioni (in particolare per gli enti locali) l’obbligo di attivare percorsi di verifica delle dichiarazioni rese con la Scia o nei procedimenti per i quali valga il silenzio-assenso anche con modalità più intensive rispetto ai normali controlli sulle autocertificazioni.
La rilevazione di illegittimità successivamente alla fase del controllo connessa alla presentazione della segnalazione certificata o dell’istanza consente l’esercizio dell’autotutela, ma ora il dato normativo evidenzia in modo chiaro che il soggetto interessato, se ha esercitato l’attività in base a false dichiarazioni, non può essere ammesso ad alcuna sanatoria
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: La nuova Scia aiuta i benefici. Lavori edili. L’intreccio delle procedure con la nuova legge sulla Pa: più difficile perdere le agevolazioni.
I benefici fiscali connessi all’esecuzione dei lavori edili impongono la conoscenza e l’applicazione delle norme sulla Scia (Segnalazione inizio attività) in vigore dal 28 agosto (legge 124/2015, articolo 6).
Gli interventi finalizzati all’attuazione del piano casa, frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari (Sblocca Italia, Legge 164/2014), contenimento dei consumi energetici, manutenzioni straordinarie, realizzazione di posti auto, eliminazione di barriere architettoniche, contenimento di inquinamento acustico, attuazione di sicurezza statica, bonifica dell’amianto, attivazione di pannelli solari, collocazione di condizionatori d’aria, sono alcuni degli interventi che, per essere fiscalmente detraibili, esigono una regolarità edilizia e cioè quantomeno una comunicazione o segnalazione di inizio attività.
Appunto sulla segnalazione (Scia) il legislatore è intervenuto questo mese con la legge 124 inserendo (articolo 6) due principi: il primo è di elasticità, poiché si impone una sorta di necessario tentativo di conciliazione affinché una procedura non completamente regolare sia “conformata”, attuando ciò che l’amministrazione ritiene corretto. Il secondo principio è che l’amministrazione ha un termine massimo di 18 mesi per annullare una Scia illegittimamente ottenuta.
Ambedue questi principi hanno particolare rilievo perché un’attività edilizia non legittima fa perdere i benefici fiscali (articolo 49, Dpr 380/2001), con il rischio di vanificare progetti, adempimenti bancari, contratti e cioè tutto il procedimento finalizzato ad ottenere il vantaggio fiscale. Con l’obbligo di conformazione previsto dalla legge 125/2015, prima di adottare dinieghi o sanzioni l’amministrazione deve indicare all’interessato le modifiche da apportare come, ad esempio, una diversa dimensione, e a volte financo una diversa qualità di materiali (con previsioni peraltro criticate dai Tar: Liguria 718/2015 n. 718 su un tetto in laterizio; 1834/2010 sulla tipologia di serramenti).
Se supera il limite di 18 mesi dalla data della segnalazione, l’amministrazione perde qualsiasi potere di intervenire a meno che non risultino utilizzate documentazioni non veritiere (risultanti tali da sentenze penali passate in giudicato). Con l’attuale regime della Scia, applicabile a tutte le domande presentate dal 28 agosto (poiché la legge 124/2015 non contiene innovazioni di tipo “processuale”: Tar Piemonte, sentenza 1114/2015), il rischio massimo per il cittadino è che vi sia (entro 60 giorni) una richiesta di “conformazione” (da eseguire nei successivi 30 giorni); superata tale scadenza, il soggetto interessato può contare sul consolidarsi della Scia ottenuta dal Comune.
Quand’anche poi sopravvenga, entro 18 mesi,un annullamento adeguatamente motivato (articolo 21-nonies, Legge 241/1990, modificato nel 2015), oppure nel caso in cui il Tar annulli la Scia su ricorso di un terzo (articolo 19, comma 6-ter della Legge 241, modificato nel 2015), opera l’articolo 38 del Dpr 380/2001 e cioè l’intervento è soggetto alla sola sanzione pecuniaria nei casi in cui la riduzione in pristino non sia possibile.
Dall’agosto 2015, quindi, assume rilievo particolare la posizione dei vicini (o dei concorrenti, “contro interessati” al titolo edilizio) e il cittadino dovrà seguire le indicazioni suggerite dalla magistratura (Tar Torino, 01.07.2015, n. 1114): occorre una particolare prudenza prima di avventurarsi nell’avvio della nuova attività ed è opportuno avviare da subito dei contatti con i possibili titolari di interessi confliggenti al fine di dirimere immediatamente possibili divergenze
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Arriva il nuovo silenzio-assenso: la riforma della Pa entra nel vivo. Come cambia l’amministrazione. Da ieri in vigore anche le nuove norme sull’autotutela.
La riforma della Pubblica amministrazione, così come delineata dalla legge delega del 07.08.2015 , ha iniziato a dispiegare i suoi effetti. Con l’entrata in vigore della legge, da ieri, sono diventati subito applicabili alcuni provvedimenti di impatto notevolissimo: il silenzio-assenso tra le amministrazioni e i nuovi limiti introdotti sulla «autotutela amministrativa» (misura quest’ultima che garantisce certezza sulle autorizzazioni e le concessioni per cittadini e imprese).
Ma è prevista anche un’altra norma “autoapplicativa” significativa: il ritorno della possibilità per la Pa di affidare consulenze ai pensionati, ma a titolo gratuito e un anno al massimo. Subito in vigore infine altre tre misure, ma più settoriali: la modifica alla disciplina del Consiglio dell’Ordine “al Merito della Repubblica italiana” (i componenti dell’organismo scendono da sedici a 10 e durano in carica 6 anni e non possono essere riconfermati); per gli incarichi direttivi dell’Avvocatura dello Stato, questi non possono essere conferiti ad avvocati dello Stato che devono essere collocati a riposo entro 4 anni dall’avvio della procedura selettiva; infine è modificato il Codice dell’ordinamento militare, consentendo il contestuale svolgimento di un procedimento disciplinare e di un procedimento penale relativo agli stessi fatti riguardanti il personale militare.

Nell’ottica di semplificare le procedure della Pa, grosse attese sono riposte nell’introduzione del nuovo istituto generale del silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazione pubbliche e gestori di pubblici servizi (la misura non vale quindi tra Pa e privati).
Nelle ipotesi in cui, per l’adozione di provvedimenti normativi o amministrativi, sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta di competenza di altre amministrazioni pubbliche o di gestori di beni e/o servizi pubblici, questi ultimi sono tenuti a comunicare le rispettive decisioni all’amministrazione proponente entro 30 giorni (suscettibili di interruzione per una sola volta). Decorsi inutilmente questi termini, l’assenso, il concerto o il nulla osta s’intende acquisito. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte, il presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
Misura molto attesa, soprattutto dalle imprese, è anche l’intervento in materia di autotutela amministrativa, con la delimitazione dei poteri dell’amministrazione nei confronti dei privati in seguito all’avvio dell’attività sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Si circoscrive il tempo entro il quale l’amministrazione può annullare d’ufficio i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, specificando che si può agire entro diciotto mesi al massimo, salvo che si tratti di provvedimenti conseguiti sulla base di dichiarazioni false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato. In questo caso, l’annullamento può essere disposto anche una volta decorso il termine.
Trattandosi di una legge delega, gli effetti della riforma saranno dispiegati completamento solo al termine dell’attuazione di tutti i decreti delegati. Intanto, entro fine novembre dovrà vedere la luce la sforbiciata alle norme inattuate previste dalle leggi degli ultimi governi (da Monti a Renzi). Un altro pacchetto di 14 misure dovrà avere l’ok entro agosto 2016 (dall’impegnativa norma sul taglio delle società partecipate al riordino dei servizi pubblici locali).
C’è tempo fino a fine febbraio 2017 per l’ultimo capitolo: il riordino del pubblico impiego (dallo svolgimento dei concorsi alla verifica delle assenze per malattia, passando per la responsabilità disciplinare). Ma l’intenzione del Governo è quella di accelerare i tempi, anche su questo fronte.
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SILENZIO-ASSENSO
Tempo massimo di 30 giorni per comunicare i pareri tra Pa
È introdotto il silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche. Se, per l’adozione di provvedimenti è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta di competenza di altre amministrazioni, queste ultime devono comunicare le loro decisioni all’amministrazione proponente entro 30 giorni (suscettibili di interruzione per una sola volta).
Decorsi inutilmente questi termini, l’assenso s’intende acquisito. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte, il presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento.
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AUTOTUTELA
Per annullare un atto tempo certo di 18 mesi
Con l’autotutela amministrativa, sono delimitati i poteri dell’amministrazione nei confronti dei privati in seguito all’avvio dell’attività sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività (Scia). Si circoscrive il tempo entro il quale l’amministrazione può annullare d’ufficio i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici: si può agire entro diciotto mesi al massimo, salvo in caso di provvedimenti conseguiti per dichiarazioni false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato. In questo caso, l’annullamento può essere disposto anche una volta decorso il termine.
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CONSULENZE
Incarichi anche ai pensionati ma solo a titolo gratuito
Torna la possibilità per la Pa di affidare consulenze ai pensionati, ma a titolo gratuito e per un anno al massimo. Subito in vigore anche altre tre misure più settoriali: ridotti i membri del Consiglio dell’Ordine “al Merito della Repubblica italiana”; per gli incarichi direttivi dell’Avvocatura dello Stato, questi non possono essere conferiti ad avvocati dello Stato che devono essere collocati a riposo entro 4 anni dall’avvio della procedura selettiva; modificato il Codice dell’ordinamento militare, consentendo il contestuale svolgimento di un procedimento disciplinare e di un procedimento penale per agli stessi fatti riguardanti il personale militare.
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TRASPARENZA
Taglio a decreti inattuati e anticorruzione più semplice
La sforbiciata alle norme rimaste inattuate degli ultimi governi (da Monti a Renzi) va fatta entro il 28.11.2015. Un decreto indicherà le disposizioni rimaste lettera morta (da abrogare) e quelle che vanno modificate proprio per riuscire a essere attuate completamente.
Entro febbraio 2016 andranno snelliti gli oneri in materia di trasparenza e anticorruzione per le amministrazioni, eliminando i doppioni e permettendo il collegamento a banche dati già attive. Più leggibili anche i dati sugli appalti e sui tempi di pagamento. Per la prima volta saranno indicati con chiarezza anche i soggetti che dovranno sanzionare le Pa adempienti.
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APPARATO STATALE
Riduzione del personale dei ministeri e tagli alle partecipate
Entro il 28.08.2016 in arrivo la riforma delle partecipazioni pubbliche con questi criteri: partecipazioni solo per attività pubbliche e strategiche, responsabilità per gli amministratori, tetti alle assunzioni e agli acquisti. Per le società degli enti locali verrà individuato limite massimo di bilanci in rosso, oltre il quale scatta la liquidazione.
Sempre per agosto 2016 vanno individuate, in tema di servizi pubblici locali, le funzioni essenziali con la soppressione dei regimi di esclusiva non conformi ai principi di concorrenza. Da varare anche la riduzione del personale dei ministeri e l’eliminazione dei doppioni tra Autorità indipendenti e uffici ministeriali.
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PUBBLICO IMPIEGO
Orari più flessibili e revisione delle procedure dei concorsi
C’è tempo fino a fine febbraio 2017 per l’ultimo capitolo: il riordino del pubblico impiego. Ampio il ventaglio dei settori in cui si dovrà intervenire: dallo svolgimento dei concorsi alla verifica delle assenze per malattia, passando per la responsabilità disciplinare).
Sui concorsi, vanno ridefinite le regole di accesso ai posti pubblici (anche attraverso l’abolizione del voto minimo di laurea), con la verifica della conoscenza della lingua inglese. Servirà poi la revisione della responsabilità per i dipendenti e l’introduzione della flessibilità di orari. L’intenzione del Governo è comunque quella di ridefinire queste norme ben prima di febbraio 2017 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2015).

TRIBUTIStop alla Black list comunale. Pubblicare i nomi dei morosi viola il principio di legalità. Il garante privacy ammonisce le amministrazioni. I regolamenti locali non hanno potere.
Stop alla pubblicazione dei nomi degli evasori di tributi comunali sul sito dell'ente. La finalità di stanare i morosi non giustificano la diffusione dei nominativi, tra l'altro non prevista da una norma di legge. Non è nemmeno sufficiente, poi, la copertura normativa con un regolamento comunale.

A queste conclusioni è giunto il garante con una nota di risposta (di cui dà notizia la newsletter 28.08.2015 n. 405 del garante) a una amministrazione locale, che intendeva introdurre l'obbligo di pubblicazione della black list con una deliberazione dell'ente.
Principio di legalità. Secondo il garante la procedura che il comune intendeva avviare viola il principio di legalità sotto diversi profili. La prima questione riguarda la natura giuridica della pubblicazione online della lista dei morosi. Trattandosi di una sanzione amministrativa accessoria, si pone un problema di competenza normativa. Il garante rileva che è riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale l'eventuale introduzione di una nuova sanzione accessoria, quale si configurerebbe la pubblicazione online rispetto alle sanzioni amministrative già previste legate al mancato o erroneo pagamento del tributo.
Né si potrebbe ribattere che la pubblicazione in questione sia imposta dalla normativa sulla trasparenza (dlgs 33/2013), che individua con precisione gli obblighi di pubblicazione sui siti web istituzionali. Tra questi obblighi non è compresa la diffusione dei dati identificativi degli evasori dei tributi locali. La medesima normativa consente, però, a certe condizioni, la pubblicazione di informazioni e documenti ulteriori rispetto a quelli soggetti a pubblicazione obbligatoria.
Tuttavia le p.a. possono mettere online informazioni e documenti di cui non è obbligatoria la pubblicazione solo dopo aver anonimizzato i dati personali eventualmente presenti. Il rilievo del garante blocca eventuali tentativi di elusione della normativa sulla privacy a mezzo di regolamenti comunali.
Regolamento comunale. È da chiarire un possibile equivoco. Dalla lettura dell'articolo 19 del codice della privacy (dlgs. 196/2003) si potrebbe capire che per permettere la diffusione di dati (per esempio, con la pubblicazione online) da parte della p.a. è sufficiente un regolamento della stessa p.a..
In effetti l'art. 19 ammette la diffusione, se prevista alternativamente da legge o regolamento. Bisogna però aggiungere che un regolamento comunale non può derogare chiare previsioni di legge o addirittura abrogarle, neppure parzialmente. Quindi, se il sistema della trasparenza è integralmente delineato, il regolamento comunale non può violare tale regime e, nel caso specifico, non può violare la norma sull'obbligo di anonimizzazione delle informazioni non soggette a pubblicazione obbligatoria in base al dlgs 33/2013.
Il garante ha rilevato un altro profilo di illegittimità: la disciplina comunale viola il principio di legalità anche sotto il profilo temporale, poiché l'entrata in vigore dell'obbligo di pubblicazione online è stata deliberata con effetto retroattivo.
Infine l'iniziativa del comune viola alcuni principi generali del codice privacy e, in particolare, i principi di necessità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento: perché le finalità indicate dall'ente locale di stimolare il senso civico dei cittadini, sollecitandoli al pagamento del dovuto o dissuadere gli evasori, possono essere soddisfatte con le misure già in vigore (procedimento di riscossione coattiva dei tributi, pagamento degli interessi di mora, applicazione delle sanzioni amministrative previste).
La diffusione online dei morosi, essendo la forma di pubblicità più ampia, è apparsa al garante, quindi, un irragionevole strumento vessatorio, suscettibile di causare danni e disagi lesivi della dignità della persona.
Black list comunale. Il garante privacy ha così dato risposta alla discussione sulla possibilità di formulare «black list» comunali. Questo, al termine di un'istruttoria avviata dopo l'annuncio messo nero su bianco dalla stampa nazionale in cui si indicava l'intenzione del comune di Mulazzo (Massa Carrara) di rendere pubblico l'elenco dei contribuenti comunali morosi. Non è la prima volta che un'amministrazione locale tenta di mettere in chiaro il nome degli insolventi.
Se già nel 2012 era stato infatti il comune di Pozzuoli a non digerire la faccenda dei morosi (proponendo la pubblicazione di una blacklist degli aventi debiti nei confronti di Equitalia), lo scorso maggio la città di Mulazzo ha rianimato la discussione, proponendo un modello di «trasparenza» al contrario, avente lo scopo di mettere alla gogna tutto coloro che non hanno adempiuto al pagamento di Tari, Imu e altre tasse comunali, specie multe e sanzioni (articolo ItaliaOggi del 29.08.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Dati sanitari sotto stretto anonimato. I Consiglieri regionali non hanno accesso alle identità.
Al consigliere regionale solo dati sanitari anonimi. Per il controllo sulla spesa sanitaria possono avere accesso solo a dati anonimi e a informazioni che non consentano di risalire, anche indirettamente, all'identità dei pazienti.

Lo ha chiarito il garante privacy (si veda la newsletter 28.08.2015 n. 405) rispondendo ai quesiti posti da due regioni, alle quali si erano rivolti due consiglieri che intendevano conoscere dati sanitari contenuti nel sistema informatico regionale: in un caso si trattava, addirittura, della documentazione su pazienti che avevano usufruito dell'esenzione dal ticket per cure oncologiche.
Nelle note inviate alle regioni, il garante ha ribadito che la pubblica amministrazione nel valutare le richieste di accesso dei consiglieri deve verificare che tali informazioni siano effettivamente indispensabili e necessarie all'espletamento del mandato consiliare. Le richieste dei consiglieri possono essere soddisfatte solo garantendo il minor pregiudizio possibile alla vita privata degli interessati.
La p.a. potrà dunque comunicare al consigliere notizie e informazioni prive delle generalità o di altri elementi che rendano identificabili, anche indirettamente, gli interessati (articolo ItaliaOggi del 29.08.2015).

CONDOMINIONiente termoregolatori? Multa. Le regioni: sanzioni fino a 2.500 a singolo condomino. Schema di dlgs per recepire le richieste Ue sul risparmio energetico. Governatori per la stretta.
Dopo l'apertura della procedura d'infrazione, l'Italia si sta adeguando alle norme europee in materia. Le regioni propongono multe fino a 2.500 euro a singolo condomino, per chi non installa dispositivi di termoregolazione. Vediamo come.
La legislazione nazionale in materia si basa sul dlgs 102/2014. Ma un nuovo schema di dlgs, recante «disposizioni integrative al dlgs 04.07.2014 n. 102, di attuazione della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza energetica», ha ricevuto il 30.07.2015 via libera dalla conferenza delle regioni seppure con qualche correttivo. Questo nuovo provvedimento introduce la definizione di «aggregatore», cioè un fornitore di servizi su richiesta che accorpa una pluralità di carichi utente di breve durata per venderli o metterli all'asta in mercati organizzati dell'energia.
E anche quella di «audit energetico», ossia la procedura sistematica finalizzata a ottenere un'adeguata conoscenza del profilo di consumo energetico di un edificio o gruppo di edifici, di una attività o impianto industriale o commerciale o di servizi pubblici o privati, a individuare e quantificare le opportunità di risparmio energetico sotto il profilo costi-benefici e a riferire in merito ai risultati.
Va ricordato che anche il dlgs 102/2014 aveva introdotto prescrizioni della direttiva 2012/27/Ue sull'efficienza energetica, non ancora previste nell'ordinamento giuridico nazionale. Ma la Commissione europea il 27 febbraio 2015 aveva comunicato al governo italiano la messa in mora e l'avvio della procedura di infrazione n. 2014/ 2284 per incompleto recepimento nell'ordinamento giuridico della direttiva. In particolare Bruxelles ha sottolineato la mancanza della definizione di «audit energetico», che invece era contenuto nel dlgs 115/2008, poi abrogato.
La Commissione Ue ha, inoltre, sottolineato che nella legislazione italiana non c'è un sistema che impedisce la doppia contabilizzazione dei risparmi energetici ottenuti nel caso in cui le iniziative di riqualificazione individuali si sovrappongano alle misure politiche, come per esempio le detrazioni fiscali introdotte con norme specifiche. Inoltre, l'Italia non ha ancora recepito l'obbligo secondo cui la ripartizione dei costi relativi alle informazioni sulla fatturazione per il consumo individuale di riscaldamento e raffreddamento nei condomìni e negli edifici polifunzionali è effettuata a titolo gratuito.
Le richieste integrative delle Regioni. La conferenza delle regioni, da parte sua, ha chiesto delle correzioni allo schema di dlgs in merito alla contabilizzazione del calore nei condomìni. La richiesta è di superare la criticità intervenendo con una normativa di livello nazionale. Infatti, secondo le regioni, non sono definite bene le tipologie di contatori (di fornitura, condominiale, individuale) e non c'è chiarezza sulle competenze. In alcuni condomìni, dopo l'installazione dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione, in applicazione della norma Uni 10200, sono emerse criticità nella ripartizione delle spese per il riscaldamento.
Per quanto riguarda le sanzioni da applicare, in caso di mancata installazione dei dispositivi di termoregolazione nei condomìni, le regioni hanno chiesto un sistema in grado di individuare il singolo condomino anziché l'intero condominio. Le multe oscilleranno dai 500 ai 2.500 euro (articolo ItaliaOggi del 29.08.2015).

EDILIZIA PRIVATAEdifici storici, sui lavori test rischio sismico.
Dal 1° settembre un modulo in più per gli interventi sugli edifici storici. In casi di interventi di miglioramento sismico oppure per interventi straordinari sugli edifici storici la documentazione allegata alla richiesta di autorizzazione o di pareri dovrà prevedere la nuova scheda.

Tutto questo lo prevede la circolare 30.04.2015 n. 15 del Ministero dei beni e della attività culturali e del turismo (Mibact) per la tutela del patrimonio architettonico e la mitigazione del rischio sismico.
La suddetta scheda non costituirà documentazione tecnica aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria prevista per legge ma rappresenterà una sintesi finalizzata ad evidenziare l'approccio progettuale. Visti i ripetuti danni subiti dagli edifici culturali per gli eventi sismici, il Mibact ha predisposto un'azione per la sensibilizzazione degli enti coinvolti nel rilascio dei permessi, ma soprattutto per la conoscenza più approfondita della vulnerabilità del patrimonio architettonico.
Secondo il Mibact, una volta individuato il problema, la riduzione del rischio sismico sarà possibile attraverso buone pratiche da adottare in occasione degli interventi che influiscono sul comportamento strutturale. Nelle manutenzioni straordinarie il Mibact prescrive inoltre particolare attenzione alle lavorazioni edili anche non riguardanti gli elementi portanti, come la realizzazione o la modifica di porte e finestre, l'introduzione di pavimenti più pesanti, la modifica del manto di copertura, la modifica della distribuzione dei tramezzi, le tracce e i fori che riducono le sezioni resistenti.
L'applicazione di queste buone pratiche consentirà, assicura il Mibact, la rilevazione di altre carenze eventualmente già esistenti e non connesse con i progetti da realizzare, ma anche la previsione di ulteriori interventi senza sensibili costi aggiuntivi.
Come rilevato dal Mibact, nell'edilizia storica ci sono specifiche vulnerabilità strutturali. I terremoti hanno infatti rivelato che ogni elemento architettonico, anche se secondario e non strutturalmente portante, può influenzare la risposta strutturale in caso di sollecitazione sismica. Nel centri storici, infatti, gli effetti disastrosi degli eventi sismici sono correlati a carenze strutturali locali o a interventi sugli elementi secondari, considerati ininfluenti, ma che invece hanno comportato una modifica dell'assetto strutturale.
Per mettere in pratica queste raccomandazioni, il Mibact ha messo a disposizione una scheda, da compilare e allegare alla richiesta di autorizzazione, che costituirà una sintesi dell'approccio progettuale seguito. Come si legge nella circolare, la compilazione della scheda non comporterà un aggravio dell'attività tecnica connessa alla presentazione delle istanze (articolo ItaliaOggi del 29.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Blocco se la Scia è fasulla. L'attività non conforme alle regole si ferma. Da oggi è in vigore la legge che riforma la segnalazione di inizio attività.
Se requisiti e presupposti non sono quelli espressamente previsti dalla normativa di riferimento, l'attività dell'impresa che ha presentato la Scia viene sospesa in attesa della sua conformazione, e non può riprendere prima che siano decorsi almeno 30 giorni.

È questa la novità più significativa contenuta nell'art. 6 della legge 07.08.2015 n. 124 che, essendo stata pubblicata il giorno 13, entra in vigore oggi 28 agosto.
Se, insomma, la legge 124/2015, prevede deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche che dovranno essere attuate entro 12 o 18 mesi, alcune rilevanti novità entrano in vigore fin da subito e sono quelle che vanno a modificare la legge 241/1990, ovvero la legge sul procedimento amministrativo.
La conformazione. La Scia, disciplinata dall'art. 19 della legge 241/1990 e che attiene sia al settore delle attività produttive che a quello edilizio, prevede la possibilità di iniziare l'attività previa dimostrazione del possesso dei requisiti e presupposti; ma non sempre questi, in fase istruttoria, vengono ritenuti conformi dalla p.a..
Prima d'ora, poteva essere concessa la possibilità di conformare la Scia consentendo la prosecuzione dell'attività. Ma d'ora innanzi, con la modifica disposta dal Parlamento, non solo la decisione di consentire la «conformazione» deve essere motivata, ma va disposta la sospensione dell'impresa in attesa della regolarizzazione della Scia.
La Scia non salva dal blocco. La legge 124 del 7 agosto scorso ha disposto anche l'eliminazione dall'ordinamento di diverse disposizioni. In particolare, con l'art. 6, comma 1, lettera b), è stata disposta l'abrogazione di parte dell'art. 21 della legge 241/1990 il quale prevedeva che le sanzioni previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza di autorizzazione si applicano anche nei confronti di coloro i quali iniziano l'attività in forza di una Scia.
L'autotutela. Novità anche per quanto riguarda l'annullamento d'ufficio di provvedimenti illegittimi. È stato infatti stabilito un termine ultimo per l'annullamento, nel senso che non può superare i 18 mesi dal momento dell'adozione del provvedimento di primo grado (anche qualora lo stesso si sia formato per silenzio-assenso).
Tuttavia, tale termine è derogabile nelle ipotesi in cui si tratti di provvedimenti conseguiti sulla base di false dichiarazioni, anche se soltanto a seguito di sentenza passata in giudicato. In questo caso, infatti, l'annullamento può essere disposto anche una volta decorso il termine.
La delega al governo. Sempre a proposito della Scia, va rilevato che con l'art. 5 della l. 124/2015 è stata concessa delega al governo, perché entro un anno siano individuati i procedimenti soggetti a procedura semplificata, ovvero a Scia, quelli oggetto di silenzio assenso, quelli per i quali è necessaria l'autorizzazione espressa e, infine, quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva. La delega riguarda anche la definizione delle modalità di presentazione e dei contenuti standard nonché lo svolgimento della procedura, anche telematica.
Su quest'ultimo fronte, va rilevato, tuttavia, che pari delega per la deregolamentazione dei procedimenti, con l'individuazione delle distinte fattispecie, era stata conferita al Governo già con decreto-legge 5/2012, mentre per quanto riguarda il procedimento automatizzato, è dal 2010 che con l'avvio degli sportelli unici per le attività produttive (dpr 160/2010) l'obiettivo è stato raggiunto (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Per i diplomati addio agli albi. Iscrizione con paletti. Serve almeno una laurea triennale. L'attestato della nuova istruzione tecnica non basta per esercitare la professione intellettuale.
Per i diplomati si chiudono le porte degli albi. L'attestato rilasciato a partire da giugno 2015 dalla nuova istruzione tecnica targata Gelmini (ovvero gli ex periti, geometri, interpreti ecc.), infatti, contiene una qualifica non più sufficiente a esercitare una professione intellettuale.

È la circolare n. 7201/2015 di prot. del Ministero dell'istruzione, università e ricerca a spazzare via anni di dibattito e di confusione sulla materia: da una parte l'Europa che da tempo sostiene la necessità di una laurea, almeno triennale, per esercitare una professione, dall'altra le norme italiane e in particolare la riforma dell'istruzione tecnica voluta dall'ex ministro Maria Stella Gelmini (dpr 88/2012) che non ha mai chiarito se questo titolo fosse valido per l'accesso agli albi, mentre al contrario ha specificato il legame di questa formazione con gli istituti tecnici e le filiere tecnologiche.
In questo caos arriva la comunicazione del dipartimento per il sistema educativo del Miur, inviata ai direttori degli uffici scolastici regionali, ai dirigenti degli ambiti territoriali e degli istituti scolastici. La circolare precisa che i «modelli di diploma di istruzione secondaria di secondo grado» conterranno «il riferimento al IV livello delle qualificazioni del quadro europeo delle qualifiche per l'apprendimento permanente (Eqf)». Tradotto, secondo quanto prevede quel sistema che mette in relazione le diverse qualifiche rilasciate nei paesi membri dell'Unione e colloca i risultati dell'apprendimento in una struttura a otto livelli, significa che i diplomi degli istituti tecnici (Iti) permettono solo di «assumere una certa responsabilità per la valutazione e il miglioramento di attività lavorative o di studio».
Troppo poco per esercitare una professione intellettuale, tanto più che secondo il Primo rapporto italiano di referenziazione delle qualificazioni al quadro europeo Eqf, sottoscritto in sede di conferenza stato regioni (20.12.2012), «per professioni che prevedono l'iscrizione all'albo presso un ordine professionale», è richiesto «come prerequisito il possesso di un titolo accademico specifico».
Questo significa almeno una laurea triennale, titolo che permette di conseguire il VI livello Eqf e quindi di «gestire attività o progetti, tecnico/professionali complessi assumendo la responsabilità di decisioni in contesti di lavoro o di studio imprevedibili». In sostanza mantenendo quell'autonomia e quella capacità progettuale tipica della professione intellettuale. Il percorso accademico permetterà inoltre, per chi vuole iscriversi a un albo professionale, di sanare l'anomalia del nuovo titolo di istruzione genericamente definito diploma di istruzione tecnica. Un titolo che ha perduto quel carattere che fino ad ora aveva consentito di individuarne con chiarezza la professione di accesso specifica.
A confermare il tutto poi un altro passaggio: il dpr di riforma Gelmini abroga una norma (dlgs 294/1997) che stabiliva che «gli istituti tecnici hanno per fine precipuo quello di preparare all'esercizio di funzioni tecniche o amministrative, nonché di alcune professioni, nei settori commerciale e dei servizi, industriale, delle costruzioni, agrario, nautico e aeronautico» (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, regole ferree. I chiarimenti del ministero del lavoro.
Il piano di sicurezza e coordinamento, redatto dal coordinatore per la sicurezza negli appalti, deve contenere anche l'indicazione dell'eventuale presenza di «rischi per il cantiere, con attenzione ai lavori stradali e autostradali al fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi derivanti dal traffico circostante».

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 23.06.2015 n. 1/2015.
L'interpello. Le precisazioni sono arrivate in risposta ad un quesito di Federcoordinatori, in cui è stato chiesto di conoscere la corretta interpretazione dell'art. 2 del decreto interministeriale 04.03.2013, sui criteri generali di sicurezza nelle procedure di revisione, di integrazione e di apposizione della segnaletica stradale destinata ad attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare.
La norma stabilisce che l'adozione e l'applicazione dei criteri minimi di sicurezza sono dovuti dai gestori delle infrastrutture, dalle imprese appaltatrici, esecutrici e affidatarie che devono darne evidenza nei documenti di sicurezza di cui agli art. 17, 26, 96 e 100 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Gli articoli 17, 26 e 96, ha fatto notare la Federcoordinatori, si riferiscono a obblighi riconducibili al committente o al datore di lavoro per la redazione di documenti di sicurezza; l'art. 100, invece, è relativo a un preciso documento, il piano di sicurezza e coordinamento (Psc), che va redatto dal coordinatore per la sicurezza.
Poiché in nessun'altra parte il decreto 04.03.2013 fa riferimento alla figura del coordinatore per la sicurezza (ma solo nell'art. 100), Federcoordinatori si chiede come possa, rientrare il coordinatore nella disciplina del decreto e quali siano, di conseguenza, i suoi ulteriori compiti.
I chiarimenti. «Con il decreto 04.03.2013», spiega il ministero, «è stato ampliato il raggio di azione dei regolamenti previgenti, definendo i criteri minimi per la posa, il mantenimento e la rimozione della segnaletica di delimitazione e di segnalazione delle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare».
L'allegato XV, punto 2.2.1. lett. b), del dlgs n. 81/2008 stabilisce che il piano di sicurezza e coordinamento, di competenza del coordinatore per la sicurezza, deve contenere anche «l'analisi degli elementi essenziali di cui all'allegato XV.2. in relazione all'eventuale presenza di fattori esterni che comportano rischi per il cantiere, con particolare attenzione ai lavori stradali e autostradali al fine di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori impiegati nei confronti dei rischi derivanti dal traffico circostante».
Pertanto, il riferimento all'art. 100 del T.u. sicurezza non appare inappropriato con le finalità del decreto, anche se tra le figure elencate non è menzionato il coordinatore per la sicurezza (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).

APPALTI SERVIZI: Riforma p.a., rotta sui servizi. Scattano sanzioni per la mancata razionalizzazione. Nella legge Madia (124/2015) c'è una doppia delega da esercitare entro un anno.
Anche i servizi pubblici locali rientrano nel disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, c.d. legge Madia, che è diventato legge (07.08.2015, n. 124) e partono ora i termini per l' attuazione delle deleghe legislative. Si tratta di deleghe di riordino e non di riforma complessiva del sistema, anche se contengono alcuni spunti innovativi.

È una scelta importante che viene dopo l'esito vittorioso del referendum sull'acqua che aveva spazzato via tutte le disposizioni di riforma dei servizi pubblici locali relative al servizio idrico e agli altri servizi pubblici, adottate, prima dall' art. 23-bis del dl 112/2008 e poi dall'art. 4 del dl 138/2011.
Il passato: il referendum e il superamento dell'art. 23-bis dl 112/2008, e dell' art. 4 dl 138/2011
E proprio quelle due disposizioni possono costituire una chiave di lettura delle scelte ora adottate.
L'art. 23-bis del dl 112/2008 aveva come asse portante l'individuazione dell'in house in via residuale e la generalizzazione della gara a doppio oggetto per la scelta del socio privato nelle società miste; il tutto con la fissazione di un termine per il periodo transitorio che costituiva il vero tema del dibattito.
Il «torto» dell'art. 23-bis è stato quello di aver incluso il settore idrico evocando così fantasmi di privatizzazione di un bene fondamentale; un settore che però richiede investimenti che le scarne risorse della finanza pubblica non sono in grado di sostenere. E proprio il tema dell'acqua ha determinato la richiesta del referendum il cui esito comportò l'abrogazione dell'intera nuova disciplina che coinvolgeva tutti i servizi pubblici.
Un referendum che vide anche posizioni dissenzienti all'interno degli stessi partiti (compreso il Pd all'epoca all'opposizione) e il cui esito vittorioso travolse qualsiasi velleità di liberalizzazione.
Sopraggiunta la crisi, il governo, sotto la pressione dell'Unione europea, adottò l'art. 4 dl 138/2011 che prevedeva, la liberalizzazione, come regola, mentre l'esclusiva (e quindi la gara, l'in house o la società mista) era prevista nelle sole ipotesi in cui la libera iniziativa non risultava idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della collettività.
La Corte costituzionale (sent. 199/2012) dichiarò incostituzionale l'art. 4 ritenendo violato il risultato referendario; ciò riportò indietro le lancette al 2008 con l'aggravante di anni di blocco di qualsiasi riforma completa dei servizi pubblici locali che è un settore economico di tutto rilievo con ricadute sociali importanti sulla collettività.
In quegli anni comunque sono stati fatti interventi volti a perimetrare l'in house, le aziende speciali, a potenziare il ruolo degli ambiti ottimali; sono state varate anche norme che permettevano la dismissione di molte società locali con salvaguardia dell'occupazione, come ad esempio l'art. 1, comma 569, l. 147/2013, ora recentemente «interpretato» dal dl 78/2015 in modo tale da metterne a rischio la sua originaria utilità.
La legge 124/2015 e la disciplina precedente
La legge 124/2015 con due deleghe da esercitarsi entro un anno (art. 18 e 19) riprende l'argomento dei servizi pubblici locali e delle partecipazioni societarie sull'onda di una maturazione del tema poiché il «mondo» con la crisi è cambiato e la politica, anche locale, deve prenderne atto ed agire di conseguenza.
Le due deleghe contengono spunti vecchi e nuovi ma il dibattito di questi anni dimostra che il problema non consiste nelle norme ma nella loro attuazione.
La delega sulle partecipazioni societarie (art. 18) riguarda tutte quelle detenute dalle amministrazioni pubbliche statali, regionali e locali prevedendo alcuni criteri generali e altri, specifici, per gli enti locali.
Sicuramente di «vecchio», e non poteva essere diversamente, va registrato che gli interventi si rivolgono alla «tutela e alla promozione della concorrenza», come prevede l'art. 18 nell'indicare le finalità della delega; l'indicazione tra i criteri della delega delle condizioni e dei limiti per la costituzione di società, l'assunzione e il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche entro il perimetro dei compiti istituzionali o di ambiti strategici per la tutela di interessi pubblici rilevanti riprende quanto già previsto dall'art. 3, comma 27, l. 244/2007 per cui gli enti locali possono essere titolari delle società solo per lo svolgimento delle funzioni istituzionali.
Vi sono margini di «rischio» per una possibile lettura «conservativa» in sede di attuazione della delega che si possono individuare nella distinzione (art. 18, lett. a) tra tipi di società in base a diversi criteri tra i quali quello della modalità diretta dell'affidamento al fine di individuarne la disciplina, «anche in base al principio di proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica»; in tal modo si potrebbe aprire la possibilità di considerare l'in house come una società particolare ed è da considerare il «rischio» -da verificare in sede di esercizio della delega- di prevedere una specifica disciplina lesiva della concorrenza.
Nella stessa direzione e con i medesimi rischi opera la delega per la definizione dei requisiti di onorabilità «dei candidati e dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società», materia già trattata dal dlgs 39/2013; qui la delega ha criteri ampi che in quanto tali peccano di una certa vaghezza - quali quello di assicurare la tutela degli interessi pubblici, la corretta gestione delle risorse, la salvaguardia dell'immagine, ma soprattutto, ed è questo un dato di novità da declinare con la delega, l'autonomia rispetto all'ente proprietario.
Le novità della legge 124/2015
Spunti di interesse si registrano poi nella «precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle società partecipate»; un tema delicato che viene affrontato con un criterio di delega che, anche se finalizzato al mero riordino della disciplina vigente, appare generico riferendosi solo alla «precisa definizione».
Ulteriore elemento innovativo appare l'individuazione di criteri per il mantenimento delle partecipazioni societarie in relazione al numero dei dipendenti, al fatturato e ai risultati della gestione.
Per altri versi la delega della l. 124/2015 riprende e amplia norme precedenti, anche abrogate; è il caso della previsione di un numero massimo di esercizi con perdite di bilancio, già previsto per i comuni con popolazione sino a 30 mila abitanti, dall'art. 14, comma 32, dl 78/2010, poi abrogato dalla legge di Stabilità 147/2013.
Di interesse sarà poi l'esercizio della delega nella disciplina dell'incentivazione dei processi di aggregazione delle partecipazioni, tema da sempre attenzionato ma non affrontato per il rischio di una nuova Iri. Però indipendentemente dal soggetto aggregatore ciò potrebbe dare valore a piccole realtà societarie oggi possedute dai comuni, anche piccoli, che non hanno un piano strategico di sviluppo.
E di rilievo è anche l'introduzione di un «sistema sanzionatorio» per la «mancata razionalizzazione e riduzione» che può prevedere la riduzione dei trasferimenti statali; un sistema sanzionatorio ampio in relazione al quale non emerge se comporti anche il fenomeno di «sostituzione» mediante un commissario ad acta, così come invece prevedeva l'art. 4 dl 138/2011.
Questo in estrema sintesi è quanto prevede la delega in materia di razionalizzazione delle partecipazioni societarie, che necessariamente si incrocia con quella in materia di servizi pubblici; è una delega che in alcuni casi sta a cavallo tra la ricognizione della normativa vigente e l'introduzione di nuove norme ma i criteri di delega ampi richiedono di aspettare i decreti legislativi per comprendere se e quanto la nuova disciplina sarà in grado, oltre che di riordinare, anche di liberalizzare (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - VARICASSAZIONE. VIDEOSORVEGLIANZA E PRIVACY / La telecamera in negozio va segnalata.
Il commerciante malfidato non può usare l’occhio del Grande fratello se non informa i suoi clienti che li sta sorvegliando.

Con la sentenza 02.09.2015 n. 17440, Sez. II civile, la Corte di Cassazione fornisce un chiarimento di cui c’era bisogno, visti i dubbi sollevati dalla dottrina: anche la semplice immagine di una persona deve essere considerata dato personale.
Conclusione che soddisfa il Garante della privacy, che aveva fatto ricorso contro la decisione del Tribunale di annullare la sanzione con la quale l’Autorithy aveva “punito” il titolare di una torrefazione. L’uomo, partendo dal principio che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, aveva installato una telecamera, collegata con un monitor, che gli consentiva di vedere chi entrava nel suo negozio quando lui si spostava al piano superiore.
Un sistema certo più efficace del discreto “scampanellìo”, ancora in uso in molti esercizi commerciali come innocua spia dell’ingresso di un cliente. Peccato che la Cassazione non ritenga lecita la “ripresa” senza un’adeguata informazione. La videosorveglianza, anche senza registrazione, comporta la raccolta e il trattamento di un dato personale: l’immagine.
Per i giudici vanno respinti al mittente le perplessità sulla capacità dell’immagine di identificare immediatamente una persona. È lecito difendere i legittimi interessi e prevenire situazioni di pericolo, però non si deve tutelare solo se stessi. Il proprietario della torrefazione poteva certamente mettere la telecamera al piano terra, ma non doveva dimenticare di segnalarla.
La Corte ammette che nei casi in cui è impossibile informare oralmente ogni persona che entra nel campo visivo dell’occhio elettronico, basta l’informativa “minima”: un cartello.
Ma non è consentito barare: perché l’avviso deve essere ben visibile come formato e come posizione, oltre che esplicito per un’immediata comprensione. Per questo sono utili un simbolo o una stilizzazione.
Da evidenziare anche il diverso uso che si fa dell’immagine del cliente: va chiarito se ci si accontenta solo di vederlo o se si registra
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Il negoziante che procede alla videosorveglianza del proprio esercizio lo può fare ma tale attività integra un "trattamento di dati personali" ai sensi dell'art. 4, lettere a) e b), del d.lgs. n. 196 del 2003, riguardando la "raccolta" dell'"immagine" delle persone.
Detta attività comporta l'informativa rivolta ai soggetti che accedono al locale ove è installata la videocamera, con le forme di cui alla vigente regolamentazione in materia.
Nella vicenda oggetto di sanzione, sussistano entrambi gli elementi in presenza dei quali l'art. 13 prescrive l'obbligo di informativa: il trattamento, consistente nella raccolta delle immagini delle persone che accedono nel locale e vengono riprese da una videocamera non segnalata, e il dato personale.
Invero, ai fini che qui rilevano,
non appare possibile dubitare del fatto che l'immagine costituisca dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4, comma l, lettera b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona, a prescindere dalla sua notorietà.
Del resto, «
non può dubitarsi, nonostante in dottrina sia stato sollevato qualche dubbio al riguardo, che anche l'immagine di una persona, in sé considerata, quando in qualche modo venga visualizzata o impressa, possa costituire "dato personale" ai sensi dell'art. 4, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003, noto anche come "codice privacy".
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Il Provvedimento del Garante del 29.04.2004, applicabile ratione temporis, prevede che «
a differenza dei soggetti pubblici, i privati e gli enti pubblici economici possono trattare dati personali solo se vi è il consenso preventivo espresso dall'interessato, oppure uno dei presupposti di liceità previsti in alternativa al consenso (artt. 23 e 24 del Codice). In caso di impiego di strumenti di videosorveglianza da parte di privati ed enti pubblici economici, la possibilità di raccogliere lecitamente il consenso può risultare, in concreto, fortemente limitata dalle caratteristiche e dalle modalità di funzionamento dei sistemi di rilevazione, i quali riguardano spesso una cerchia non circoscritta di persone che non è agevole o non è possibile contattare prima del trattamento. Ciò anche in relazione a finalità (ad es. di sicurezza o di deterrenza) che non si conciliano con richieste di esplicita accettazione da chi intende accedere a determinati luoghi o usufruire di taluni servizi».
Da qui la previsione che «
nel settore privato, fuori dei casi in cui sia possibile ottenere un esplicito consenso libero, espresso e documentato, vi può essere la necessità di verificare se esista un altro presupposto di liceità utilizzabile in alternativa al consenso, come indicato nel paragrafo successivo». A tal fine, il citato Provvedimento prevede che «un'idonea alternativa all'esplicito consenso va ravvisata nell'istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, coma 1, lett. g, del Codice). Il presente provvedimento dà attuazione a tale istituto, individuando i casi in cui la rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso, qualora, con le modalità stabilite in questo stesso provvedimento, sia effettuata nell'intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro».
In particolare, con riferimento all'attività di videosorveglianza senza registrazione (rilevante nel caso di specie), si stabilisce che «
nei casi in cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni (es., gioiellerie, supermercati, filiali di banche, uffici postali)».
La ricorrenza di condizioni legittimanti l'attività di videosorveglianza comporta peraltro l'assoggettamento dell'attività all'obbligo di informativa, di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, a norma del quale «1. L'interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali sono previamente informati oralmente o per iscritto circa:
a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati;
b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati;
c) le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere;
d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e l'ambito di diffusione dei dati medesimi;
e) i diritti di cui all'articolo 7;
f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati, del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi dell'articolo 5 e del responsabile
».
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Con specifico riferimento alla videosorveglianza, il già ricordato Provvedimento del 29.04.2004, prevede al paragrafo 3 che «
gli interessati devono essere informati che stanno per accedere o che si trovano in una zona videosorvegliata e dell'eventuale registrazione; ciò anche nei casi di eventi e in occasione di spettacoli pubblici (concerti, manifestazioni sportive) o di attività pubblicitarie (attraverso web cam). L'informativa deve fornire gli elementi previsti dal Codice (art. 13) anche con formule sintetiche, ma chiare e senza ambiguità», con la precisazione che il Garante ha individuato, ai sensi dell'art. 13, comma 3, del Codice un modello semplificato di informativa "minima", riportato in allegato. «Il supporto con l'informativa: deve essere collocato nei luoghi ripresi o nelle immediate vicinanze, non necessariamente a contatto con la telecamera; deve avere un formato ed un posizionamento tale da essere chiaramente visibile; può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e immediata comprensione, eventualmente diversificati se le Immagini sono solo visionate o anche registrate».
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3. Il ricorso dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali è fondato.
3.1. - Occorre premettere che il giudice di merito ha accertato che l'attività oggetto di contestazione (installazione di una videocamera per rilevare le presenze nel locale al piano terra onde consentire al titolare di controllare dal laboratorio, collocato su un soppalco, gli accessi al locale stesso) integrasse un trattamento rilevante ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. n. 196 del 2003.
In proposito, il Tribunale ha ritenuto, alla luce della definizione contenuta nell'art. 4 citato, irrilevante che la videocamera installata non fosse destinata alla registrazione, atteso che, alla luce della definizione legislativa, integra trattamento anche la nera attività di raccolta di dati personali.
Ai sensi del comma l, lettera a), dell'art. 4 d.lgs. n. 196 del 2003, infatti, costituisce «"trattamento", qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati».
Il Tribunale ha invece ritenuto di non poter ravvisare nella ripresa delle immagini di coloro che frequentavano il locale al piano terra la consistenza di un dato personale. Premesso che ai sensi del medesimo art. 4, comma 1, lettera b), costituisce «"dato personale", qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale», il Tribunale ha ritenuto che l'immagine di una persona non potesse essere definita dato personale in assenza di elementi oggettivi che ne consentano una potenziale identificazione.
In particolare, il Tribunale ha valorizzato le modalità e la funzione della videoripresa, finalizzata unicamente a consentire al titolare dell'esercizio di controllare l'accesso di persone sospette nel proprio locale al piano terreno per il tempo in cui lo stesso si trovava nel laboratorio collocato su un soppalco, in assenza di ogni potenziale identificabilità delle persone riprese -peraltro da un apparecchio di non elevata definizione- senza alcuna possibilità di registrazione delle immagini stesse.
Il Tribunale ha fatto così applicazione del principio per cui «l'immagine di una persona, pur possedendo capacità identificativa del soggetto, quando viene trattata non integra automaticamente la nozione di "dato personale", agli effetti del d.lgs. 30.06.2003, n. 196, ma lo diviene qualora chi esegue il trattamento la correli espressamente ad una persona mediante didascalia od altra modalità, quale un'enunciazione orale, da cui sia possibile identificarla, restando invece irrilevante, in mancanza di tali indicazioni, la circostanza che chi percepisce l'Immagine sia in grado, per le sue conoscenze personali, di riconoscere la persona ritratta» (Cass. n. 12997 del 2009).
E, su tale base, ha quindi ritenuto insussistente, nella specie, l'obbligo per il titolare dell'esercizio, di apporre l'informativa di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003.
3.2. - Il Collegio ritiene che,
nella vicenda oggetto di sanzione, sussistano entrambi gli elementi in presenza dei quali l'art. 13 prescrive l'obbligo di informativa: il trattamento, consistente nella raccolta delle immagini delle persone che accedono nel locale e vengono riprese da una videocamera non segnalata, e il dato personale.
Invero, ai fini che qui rilevano,
non appare possibile dubitare del fatto che l'immagine costituisca dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4, comma l, lettera b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona, a prescindere dalla sua notorietà (come invece sembra supporre la citata pronuncia di questa Corte).
Del resto, già Cass. n. 14346 del 2012 ha affermato che «
non può dubitarsi, nonostante in dottrina sia stato sollevato qualche dubbio al riguardo, che anche l'immagine di una persona, in sé considerata, quando in qualche modo venga visualizzata o impressa, possa costituire "dato personale" ai sensi dell'art. 4, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003, noto anche come "codice privacy". In tal senso, invero, depongono specifiche decisioni del Garante per la protezione di dati personali (21.10.1999; 04.10.2007, 18.06.2009, n. 1623306), nonché la decisiva circostanza della previsione, nell'ambito del codice privacy, di una specifica norma (art. 134) in materia di videosorveglianza. Mette conto di richiamare, inoltre, la Convenzione n. 108/1981 del Consiglio d'Europa; la direttiva n. 95/46 CE, art. 2, lett. a), nonché il documento di lavoro sulla videosorveglianza WP67/2002, adottato il 25.11.2002 dal Gruppo dei Garanti europei costituito ai sensi dell'art. 29 della citata direttiva».
3.3. - Nel caso di specie, se la possibilità della installazione della videocamera poteva ritenersi giustificata dalle esigenze di sicurezza prospettate dal titolare dell'esercizio commerciale, certamente la detta attività, integrante, carne detto, trattamento di dati personali, avrebbe dovuto formare oggetto di apposita informativa ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003.
In proposito, il Provvedimento del Garante del 29.04.2004, applicabile ratione temporis, prevede che «
a differenza dei soggetti pubblici, i privati e gli enti pubblici economici possono trattare dati personali solo se vi è il consenso preventivo espresso dall'interessato, oppure uno dei presupposti di liceità previsti in alternativa al consenso (artt. 23 e 24 del Codice). In caso di impiego di strumenti di videosorveglianza da parte di privati ed enti pubblici economici, la possibilità di raccogliere lecitamente il consenso può risultare, in concreto, fortemente limitata dalle caratteristiche e dalle modalità di funzionamento dei sistemi di rilevazione, i quali riguardano spesso una cerchia non circoscritta di persone che non è agevole o non è possibile contattare prima del trattamento. Ciò anche in relazione a finalità (ad es. di sicurezza o di deterrenza) che non si conciliano con richieste di esplicita accettazione da chi intende accedere a determinati luoghi o usufruire di taluni servizi».
Da qui la previsione che «
nel settore privato, fuori dei casi in cui sia possibile ottenere un esplicito consenso libero, espresso e documentato, vi può essere la necessità di verificare se esista un altro presupposto di liceità utilizzabile in alternativa al consenso, come indicato nel paragrafo successivo». A tal fine, il citato Provvedimento prevede che «un'idonea alternativa all'esplicito consenso va ravvisata nell'istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, coma 1, lett. g, del Codice). Il presente provvedimento dà attuazione a tale istituto, individuando i casi in cui la rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso, qualora, con le modalità stabilite in questo stesso provvedimento, sia effettuata nell'intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro».
In particolare, con riferimento all'attività di videosorveglianza senza registrazione (rilevante nel caso di specie), si stabilisce che «
nei casi in cui le immagini sono unicamente visionate in tempo reale, oppure conservate solo per poche ore mediante impianti a circuito chiuso (Cctv), possono essere tutelati legittimi interessi rispetto a concrete ed effettive situazioni di pericolo per la sicurezza di persone e beni, anche quando si tratta di esercizi commerciali esposti ai rischi di attività criminali in ragione della detenzione di denaro, valori o altri beni (es., gioiellerie, supermercati, filiali di banche, uffici postali)».
La ricorrenza di condizioni legittimanti l'attività di videosorveglianza comporta peraltro l'assoggettamento dell'attività all'obbligo di informativa, di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, a norma del quale «1. L'interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali sono previamente informati oralmente o per iscritto circa:
a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati;
b) la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati;
c) le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere;
d) i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di responsabili o incaricati, e l'ambito di diffusione dei dati medesimi;
e) i diritti di cui all'articolo 7;
f) gli estremi identificativi del titolare e, se designati, del rappresentante nel territorio dello Stato ai sensi dell'articolo 5 e del responsabile
».
Con specifico riferimento alla videosorveglianza, il già ricordato Provvedimento del 29.04.2004, prevede al paragrafo 3 che «
gli interessati devono essere informati che stanno per accedere o che si trovano in una zona videosorvegliata e dell'eventuale registrazione; ciò anche nei casi di eventi e in occasione di spettacoli pubblici (concerti, manifestazioni sportive) o di attività pubblicitarie (attraverso web cam). L'informativa deve fornire gli elementi previsti dal Codice (art. 13) anche con formule sintetiche, ma chiare e senza ambiguità», con la precisazione che il Garante ha individuato, ai sensi dell'art. 13, comma 3, del Codice un modello semplificato di informativa "minima", riportato in allegato. «Il supporto con l'informativa: deve essere collocato nei luoghi ripresi o nelle immediate vicinanze, non necessariamente a contatto con la telecamera; deve avere un formato ed un posizionamento tale da essere chiaramente visibile; può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita e immediata comprensione, eventualmente diversificati se le Immagini sono solo visionate o anche registrate».
3.4. - Discende dalle considerazioni sin qui svolte che:
il titolare della T.M. poteva procedere alla videosorveglianza del piano terra del proprio locale; tale attività integra un "trattamento di dati personali" ai sensi dell'art. 4, lettere a) e b), del d.lgs. n. 196 del 2003, riguardando la "raccolta" l'"immagine" delle persone; la detta attività avrebbe dovuto formare oggetto di informativa rivolta ai soggetti che accedevano al locale ove era installata la videocamera, con le forme di cui alla citata regolamentazione (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 02.09.2015 n. 17440).

APPALTI: Appalti, libertà nei criteri. Se il contratto non è tecnico basta il prezzo. Il Consiglio di stato sull'affidamento di servizi di call center.
In un appalto pubblico la stazione appaltante gode della più ampia libertà nella scelta del criterio di aggiudicazione e può quindi utilizzare il criterio del prezzo più basso anche per contratti complessi laddove i contenuti delle prestazioni siano state definite e dettagliate in fase preparatoria; è legittimo, per l'affidamento di servizi di call center, valutare le offerte soltanto sotto il profilo economico.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.08.2015 n. 4040 con riguardo a un appalto del servizio di «gestione in overflow di servizi di call center e back office», indetta dalla Acea, per conto della Acea8cento.
In primo grado il Tar aveva ritenuto illogico il criterio di selezione del massimo ribasso, a fronte di un servizio che non era connotato «da una elevata standardizzazione». I giudici di Palazzo Spada ribaltano l'esito del primo grado di giudizio affermando che notano che tanto il servizio di call-center quanto la gestione dei reclami dell'utenza, oggetto dell'appalto in contestazione, costituiscono attività non implicanti significativi contenuti tecnico-specialistici quanto all'organizzazione di mezzi e personale e ai processi produttivi.
È quindi logica e corretta la scelta di valutare le offerte in base al solo risparmio economico conseguibile all'esito della procedura selettiva rientra nell'ampia discrezionalità riconosciuta alle stazioni appaltanti dall'articolo 81, comma 2, del codice dei contratti pubblici.
D'altro canto, sottolinea la sentenza anche contratti d'appalto caratterizzati da rilevanti profili di complessità, ed in particolare anche appalti di opere pubbliche, possono essere affidati sulla base della solo criterio del massimo ribasso, laddove la progettazione svolta dalla stazione appaltante sia giunta ad un grado di dettaglio tale da non richiedere, secondo valutazioni di carattere discrezionale di quest'ultima, l'acquisizione di soluzioni tecniche migliorative.
Pertanto il Consiglio di stato ritiene corretto lasciare all'aggiudicatario la combinazione dei fattori produttivi necessari alla fornitura del servizio, e selezionare l'affidatario sul solo elemento costituito dal risparmio economico da esso conseguibile, salvo il rispetto da parte dell'affidatario del servizio degli standard minimi di tipo organizzativo e di rendimento fissati dal committente (articolo ItaliaOggi del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILa scelta di valutare le offerte in base al solo risparmio economico conseguibile all’esito della procedura selettiva costituisce ragionevole esplicazione dell’ampia discrezionalità riconosciuta alle stazioni appaltanti nell’individuare il metodo di selezione delle offerte nell’ambito di procedure di affidamento, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. contratti pubblici.
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Anche nelle procedure di affidamento da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa gli aspetti tecnico-valutativi possono condurre alla presentazione di soluzioni progettuali sostanzialmente speculari, tali da rendere determinante in concreto la sola offerta economica.
Nondimeno, non per questa circostanza può ritenersi illogica la scelta del metodo selettivo previsto dall'art. 83 del codice appalti (ndr: criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa).

1. L’appello di Ac. deve essere accolto, con conseguente riforma della pronuncia di primo grado e reiezione dell’impugnativa della cooperativa Ca..
2. Infatti, come deduce in primo luogo l’appellante, tanto il servizio di call-center quanto la gestione dei reclami dell’utenza, oggetto dell’appalto in contestazione, costituiscono attività non implicanti significativi contenuti tecnico-specialistici quanto all’organizzazione di mezzi e personale ed ai processi produttivi.
Al contrario, l’incontestabile serialità delle prestazioni, la non necessità dell’impiego di personale specializzato, l’assenza di strumenti di complessità tecnologica e la tipica delocalizzabilità delle unità produttive anche in paesi extracomunitari, conducono a non condividere gli assunti del TAR, da un lato, e a ritenere del tutto ragionevole, dall’altro lato, l’opzione dell’ente aggiudicatore odierno appellante di attribuire rilevanza esclusiva ai fini dell’individuazione dell’appaltatore all’elemento prezzo.
3. In virtù di quanto ora rilevato, non è in particolare censurabile la scelta lasciare a quest’ultimo la combinazione dei fattori produttivi necessari alla fornitura del servizio, incentrando invece la selezione sul solo elemento costituito dal risparmio economico da esso conseguibile, salvo il rispetto di standard minimi di tipo organizzativo e di rendimento, atti a garantire la necessaria interoperabilità delle attività dell’appaltatrice con la propria struttura ed il rispetto della normativa vigente.
Ebbene, proprio nella descritta linea si colloca il disciplinare tecnico predisposto da Ac. per il servizio in contestazione, come non ha potuto mancare di rilevare lo stesso giudice di primo grado. In virtù di tale documento, infatti, viene demandato all’appaltatore di «svolgere e organizzare le proprie attività nei modi che riterrà opportuni, ferme le proprie responsabilità per il conseguimento del risultato» (art. 4.3).
Sul punto va ancora evidenziato che a fronte del riconoscimento di tale potere, tipico del contratto d’appalto (cfr. art. 1655 cod. civ.), il disciplinare fa salvo unicamente l’obbligo di quest’ultimo di «attenersi alle procedure di gestione delle richieste dei Cilenti ed agli strumenti operativi di interazione del COMMITTENTE» (art. 4.2), oltre che –come è ovvio- di conformarsi alla normativa di settore, ivi compresa quella di provenienza dalla competente autorità (Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico, di cui sono richiamate alcune delibere nell’art. 4.2 in esame), predisponendo a tal fine appositi di indicatori di qualità del servizio e prevedendo conseguentemente premi o penali (artt. 17 e 18).
4. Sulla base di questi rilievi, la scelta di Ac. di valutare le offerte in base al solo risparmio economico conseguibile all’esito della procedura selettiva costituisce ragionevole esplicazione dell’ampia discrezionalità riconosciuta alle stazioni appaltanti nell’individuare il metodo di selezione delle offerte nell’ambito di procedure di affidamento, ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. contratti pubblici (cfr., da ultimo: Sez. III, 08.07.2014, n. 3484; Sez. V, 18.06.2015, n. 3121).
Infatti, nell’enucleare le «caratteristiche dell’oggetto dell’appalto» quale elemento discretivo nell’individuazione del criterio di selezione, la disposizione ora citata rimette quindi alla fase preparatoria della gara, e cioè alla progettazione che ogni soggetto aggiudicatore deve svolgere in vista del futuro affidamento del contratto, la definizione di tali caratteristiche di quest’ultimo, e all’esito di tale fase, gli ulteriori aspetti per i quali si prevede invece la ricerca presso gli operatori privati di soluzioni tecnico-qualitative in grado di conseguire prestazioni qualitativamente migliori rispetto a quelle individuate in sede progettuale.
5. Questa notazione rende evidente che anche contratti d’appalto caratterizzati da rilevanti profili di complessità, ed in particolare anche appalti di opere pubbliche, possono essere affidati sulla base della solo criterio del massimo ribasso, laddove la progettazione svolta dalla stazione appaltante sia giunta ad un grado di dettaglio tale da non richiedere, secondo valutazioni di carattere discrezionale di quest’ultima, l’acquisizione di soluzioni tecniche migliorative.
6. In contrario a quanto finora rilevato, non sono persuasivi i rilievi del consorzio odierno appellato.
In particolare, il fatto che i ribassi offerti in sede di gara abbiano registrato significative differenze (oltre 2 milioni di euro tra l’offerta migliore e quella contenente il minor ribasso, in una forbice tra i circa 7 della migliore offerta, della E-C., e i circa 9 della offerta meno conveniente) non denota alcuna irrazionalità, ma, al contrario, è indice dell’ampio ventaglio di soluzioni organizzative reperibili presso il mercato, rispetto al quale resta tuttavia incensurabile la scelta di annettere rilievo decisivo all’elemento prezzo.
Questa variabilità è in particolare spiegabile con il dato di comune esperienza che anche servizi a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro possono presentare rilevanti margini di comprimibilità dei costi interni.
Segnatamente, nell’ambito degli strumenti astrattamente utilizzabili al fine di conseguire economie aziendali per lo svolgimento di servizi di call-center e di back office in generale viene in particolare in rilievo il fenomeno della delocalizzazione e la conseguente possibilità di sfruttare le asimmetrie salariali vigenti tra Stati diversi [delocalizzazione che non a caso è stata all’origine di una prima vertenza tra la cooperativa Co. ed Ac. nell’ambito della gara in contestazione, con istanza della prima di parere all’ANAC ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n), cod. contratti pubblici].
Ciò peraltro non esclude che per il soggetto aggiudicatore l’unico elemento determinante per la selezione delle offerte sia dato dal prezzo e che le caratteristiche qualitative del servizio assumano invece rilevanza in sede di esecuzione del contratto.
7. Del resto, ed a contrario, anche nelle procedure di affidamento da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa gli aspetti tecnico-valutativi possono condurre alla presentazione di soluzioni progettuali sostanzialmente speculari, tali da rendere determinante in concreto la sola offerta economica. Nondimeno, non per questa circostanza può ritenersi illogica la scelta del metodo selettivo previsto dal citato art. 83 del codice appalti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.08.2015 n. 4040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere sanzionate sono state correttamente qualificate dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e), del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU, necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla categoria di ristrutturazione più ampia individuata dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono qualificabili come di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo solo quegli interventi che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
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Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella sua complessità sistematica, è stato correttamente inquadrato nella fattispecie dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10, comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento di destinazione d'uso e incremento della volumetria originaria in virtù della tamponatura della preesistente tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile (da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto della destinazione d'uso integra una situazione di irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza.
Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico.

Il ricorso è infondato.
Come risulta dall'ordine di demolizione impugnato, l'odierna ricorrente ha realizzato un cambio di destinazione d'uso all'interno di un sottotetto di un preesistente locale soffitta in civile abitazione, mediante una sala con angolo cottura delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza variabile da mt. 1,00 a mt. 2,30 circa. In secondo luogo, una preesistente tettoia è stata tamponata in civile abitazione realizzando una camera da letto delle dimensioni di mt. 5,80x3,80 circa e un'altezza di mt. 2,30 circa ed un bagno delle dimensioni di mt. 1,50x1,50 circa ed un'altezza di mt. 2,30 circa.
Da ultimo, la Sig.ra G. ha provveduto ad ampliare la camera da pranzo abbattendo un muro, con relativa annessione del terrazzo antistante, e realizzando un parapetto di mt. 1,00 di altezza in corrispondenza della ringhiera del balcone.
Ciò premesso, e contrariamente a quanto sostenuto dall'odierna ricorrente, le opere sanzionate sono state correttamente qualificate dall’amministrazione procedente come di ristrutturazione edilizia, intendendosi per tale ogni intervento edilizio volto a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, come previsto dall'art. 10, comma 1, lett. e), del DPR 380/2001, che stabilisce espressamente quali interventi, fra quelli qualificabili di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 dello stesso TU, necessariamente richiedano il previo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, per "ristrutturazione edilizia", di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 380/2001, si intendono quelle opere caratterizzate da una forte rilevanza sul piano della trasformazione edilizia, rispetto alla categoria di ristrutturazione più ampia individuata dall'art. 3 T.U. edilizia, con conseguente assoggettamento al previo rilascio del permesso di costruire; mentre sono qualificabili come di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo solo quegli interventi che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Nel caso di specie, l'abuso in questione, considerato nella sua complessità sistematica, è stato correttamente inquadrato nella fattispecie dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza di una concessione edilizia, ex art. 9 L. 47/1985 e ex art. 10, comma 1, lett. e), D.P.R. 380/2001, in quanto si è ricavato un organismo diverso da quello preesistente, con mutamento di destinazione d'uso e incremento della volumetria originaria in virtù della tamponatura della preesistente tettoia, dalla quale sono stati ricavati un bagno e una camera da letto, e dell'ampliamento della camera da pranzo mediante abbattimento del muro, con relativa annessione del terrazzo antistante.
Del resto, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile (da soffitta o cantina ad abitazione) è urbanisticamente rilevante e, come tale, necessita di per sé di un titolo edilizio abilitativo; di conseguenza il mutamento de facto della destinazione d'uso integra una situazione di irregolarità, che può ed anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza. Infatti, in base all'art. 7, l.reg. 02.07.1987 n. 36, la modifica della destinazione d'uso, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga con o senza opere a tanto preordinate, è subordinata al rilascio di permesso di costruire allorquando, come nel caso di specie, abbia ad oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
Infine ricorda il Collegio che, per costante orientamento giurisprudenziale, anche della Sezione, l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo (cfr. da ultimo CdS III, 14.05.2015 n. 2411) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 28.08.2015 n. 10957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIRitiene il Collegio di dover sottoporre all’Adunanza Plenaria la questione relativa alla possibilità di consentire il diritto all’accesso anche quando il privato intenda tutelare, con tale strumento, una propria situazione giuridica soggettiva di tipo schiettamente privatistico e in posizione paritetica rispetto all’Amministrazione, essendo il rapporto di lavoro alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. ormai totalmente privatizzato e devoluto alla cognizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro.
1. L’odierna appellante, L.P., dipendente di Poste Italiane s.p.a. presso la filiale di Parma ed applicata quale portalettere presso il Centro Primario di Distribuzione Parma Ovest, nel premettere la propria intenzione di proporre domanda giudiziale volta a far accertare il suo diritto al trasferimento e al risarcimento del danni, anche per perdita di chance, sull’assunto di un uso distorto, da parte di Poste Italiane s.p.a., dell’istituto del distacco in vece della doverosa applicazione della graduatoria nazionale di mobilità, ha chiesto di poter accedere alla seguente documentazione:
1) la pianta organica del Cento di Distribuzione di Sarzana (SP) per gli anni 2012, 2013 e 2014 fino al mese di maggio 2012, con la indicazione del personale applicato con contratto a tempo indeterminato e determinato nonché del personale assente per lunghe malattie;
2) la documentazione comprovante il numero di distacchi, le persone distaccate e i criteri seguiti presso il predetto Centro di Distribuzione.
Poste Italiane s.p.a. non ha dato alcun riscontro a tale istanza.
2. Avverso tale inerzia l’interessata ha proposto ricorso al TAR Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, chiedendo l’annullamento di tale diniego per violazione degli artt. 22, 23 e 25 della l. 241/1990 e dell’art. 97 Cost. e, contestualmente, l’accesso agli atti sopra menzionati.
3. Nel giudizio di primo grado si è costituita Poste Italiane s.p.a., opponendosi all’accoglimento della domanda avversaria.
4. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, con sentenza n. 4 del 15.01.2015, ha respinto il ricorso, per la motivazione decisiva che la pianta organica del Centro non esisteva e che la ricorrente non avesse interesse a conoscere gli altri documenti, relativi a movimentazioni provvisorie.
5. Avverso tale sentenza l’interessata ha proposto ricorso, lamentandone l’erroneità, e ne ha chiesto la riforma, con conseguente riconoscimento del suo diritto ad accedere ai documenti richiesti con l’istanza del 25.06.2014 e ad estrarne copia.
6. Si è costituita con apposita memoria Poste Italiane s.p.a., chiedendo, in via principale, di respingere l’appello, in quanto inammissibile, improcedibile e, comunque, infondato sia in fatto che in diritto e, in via subordinata, di sollevare questione di costituzionalità degli art. 22 e ss. della l. 241/1990, se intesi nel senso che il diritto di accesso agli atti inerenti alla gestione del personale si eserciti nei confronti di un soggetto titolare del servizio universale, a differenza di tutti gli altri soggetti in concorrenza operanti nel medesimo mercato, e in via del tutto subordinata di disporre la sospensione del presente giudizio, con rinvio della causa alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267, ult. comma, del TFUE, relativamente alla compatibilità degli artt. 22 e ss. della l. 241/1990, se intesi nel senso che il diritto di accesso si esercita nei confronti di Poste Italiane s.p.a. con riguardo alla gestione del personale a differenza di tutti gli altri soggetti privati operanti nel mercato del servizio postale universale, con i principi europei di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, nonché libertà di prestazione dei servizi, e degli artt. 18 e 49-55 del TFUE.
7. Nella camera di consiglio del 04.06.2015 il Collegio, uditi i soli difensori comparsi di Poste Italiane s.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
8.
Ritiene il Collegio di dover sottoporre all’Adunanza Plenaria la questione relativa alla possibilità di consentire il diritto all’accesso anche quando il privato intenda tutelare, con tale strumento, una propria situazione giuridica soggettiva di tipo schiettamente privatistico e in posizione paritetica rispetto all’Amministrazione, essendo il rapporto di lavoro alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. ormai totalmente privatizzato e devoluto alla cognizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro.
9. La controversia posta all’esame del Collegio si concentra essenzialmente, infatti,
sulla questione se le disposizioni sostanziali e procedurali in materia di accesso agli atti amministrativi (artt. 22-25 della l. 241/1990, art. 116 c.p.a., ex art. 21-bis della legge n. 1034/1971) siano pertinenti e applicabili anche nella fattispecie, nonostante che Poste Italiane s.p.a. sia un soggetto di diritto privato e che sia strettamente privatistico (lavoro subordinato) il rapporto in essere fra la stessa società e la persona che ha chiesto l’accesso.
10. Quanto alle fonti normative, si ricorda che l. 241/1990, art. 22, comma 1, esplicitamente assoggetta alla disciplina in questione, oltre che le pubbliche amministrazioni propriamente dette, anche «i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario» e qualifica come atti amministrativi, a questi fini, anche «[gli atti] interni... concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»; l’art. 23 dispone che «il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti ... [anche] dei gestori di pubblici servizi».
11. Quanto alla giurisprudenza, va ricordata innanzi tutto la decisione n. 4 del 22.04.1999 dell’Adunanza Plenaria, secondo cui un interesse pubblico prevalente è ravvisabile quando il gestore del servizio, spontaneamente o in applicazione di una disposizione, ponga in essere un procedimento di natura comparativa con criteri precostituiti, per la selezione del personale più meritevole e per organizzare con efficacia il servizio.
12. Secondo tale orientamento le scelte effettuate all’esito di tale procedimento hanno un rilievo pubblicistico, da un lato, perché si tratta della selezione di coloro che fanno parte della complessiva organizzazione del gestore, entrano in contatto col pubblico e determinano la qualità del servizio, e dall’altro perché si ripercuotono sull’utenza le iniziative e le proteste di coloro che, in forma individuale, associativa o sindacale, lamentino che le scelte finali si siano basate su comportamenti scorretti.
13. In altri termini, ha ritenuto l’Adunanza Plenaria –e la giurisprudenza successiva lo ha recepito– il soggetto che assume di essere stato leso dal gestore nel corso di un procedimento per l’assunzione o per la promozione di dipendenti non solo può lamentare la violazione dei principi di buona fede e di correttezza innanzi al giudice ordinario, ma può accedere agli atti del medesimo procedimento, in quanto vi è lo svolgimento di una attività strettamente connessa e strumentale alla quotidiana attività di gestione del servizio pubblico.
14. La stessa sentenza dell’Adunanza ha ritenuto che l’accesso agli atti del gestore del servizio pubblico, pur quando essi sono disciplinati dal diritto privato e comportano la giurisdizione ordinaria, «consente il perseguimento delle medesime finalità connesse all’accesso agli atti dell’amministrazione (e c’è una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, lo stimolo a comportamenti ispirati ai canoni di diligenza, buona fede e correttezza, ad una deflazione delle controversie): vi è l'interesse pubblico all'effettuazione di scelte corrette da parte del gestore, quando esse siano finalizzate all’organizzazione efficiente ed alla qualità del servizio».
15. Pertanto l’Adunanza Plenaria è pervenuta ad affermare il principio che,
quando il gestore di un servizio pubblico pone in essere un procedimento disciplinato dal diritto privato, prevale l’interesse pubblico alla trasparenza e può chiedere l’accesso chi abbia interesse ad accedere se vi sia stata una scorrettezza.
16. Sulla stessa linea si possono citare la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 05.09.2005 e quelle della sezione VI, rispettivamente 30.12.2005, n. 7624, 26.01.2006, n. 229, e 22.05.2006, n. 2959 e, ancora, quelle della sez. V, 08.06.2000, n. 3253 e della sez. IV, 05.09.2009, n. 4645, come anche numerosi altri precedenti in senso conforme, che qui si omette, per obbligo di sintesi, di riportare.
16.1. Tutti questi precedenti sottolineano che
il vincolo di strumentalità al conseguimento del pubblico interesse, che grava sull’attività formalmente privatistica del gestore del pubblico servizio, comporta l’assoggettamento ai doversi di trasparenza, pubblicità, partecipazione, etc., e quindi l’assimilazione all’attività della p.a. propriamente detta per quanto riguarda la tutela dei privati interessati.
17. In senso contrario, di recente, questa Sezione, respingendo la domanda di accesso di un dipendente di Poste Italiane s.p.a. ai criteri di valutazione delle risorse ai fini del riconoscimento del premio meritocratico, ha rilevato che
non può ritenersi tutto il personale di Poste Italiane s.p.a. e il suo regime contrattuale funzionalmente connesso alla gestione del servizio pubblico e «ancor meno tale connessione può presumersi, in mancanza di qualsiasi dimostrazione, per il conferimento di un premio meritocratico a singole unità di personale in funzione di specifici comportamenti che l’azienda ritiene di valorizzare» (Cons. St., sez. III, 10.03.2015, n. 1226).
18. Questo Collegio ritiene opportuna, ora, una nuova indagine interpretativa, al fine di verificare se la disciplina sostanziale e processuale dell’accesso agli atti amministrativi –come istituita dalla l. 241/1990 (artt. 22-25 nel testo originario) e quindi messa a punto da successivi interventi di modifica della stessa legge, nonché dalle apposite disposizioni processuali, quali l’art. 2 della l. 205/2000 che ha introdotto l’art. 21-bis della legge n. 1034/1971, e infine l’art. 116 del codice del processo amministrativo– sia applicabile anche ai rapporti nei quali il rapporto fra il privato che chiede l’accesso, e il privato che è destinatario di tale richiesta, non presenti alcun profilo di specialità derivante dalla qualità di gestore di un servizio pubblico occasionalmente rivestita dal secondo.
18.1. La questione si pone primariamente con riferimento al rapporto di lavoro subordinato nell’àmbito dell’impresa, come nella vicenda che ha dato luogo al presente contenzioso; ma si potrebbe porre anche con riferimento ad altre ipotesi, come ad esempio nel caso che il soggetto che si dichiara interessato all’accesso sia –rispetto al gestore del servizio pubblico– un prestatore d’opera professionale, oppure un appaltatore di lavori, o un fornitore di beni o servizi, o parte di una controversia in materia di diritti reali ovvero di obbligazioni risarcitorie, e simili.
18.2. In una parola, la questione si pone con riferimento a tutti i rapporti giuridici privatistici diversi da quelli nei quali il soggetto che chiede l’accesso agli atti si presenti e si qualifichi come “utente” (in atto ovvero anche in potenza) o, comunque, come portatore di un interesse (anche diffuso) al servizio pubblico in quanto tale.
19. La resi restrittiva si basa innanzi tutto su un argomento di ordine sistematico: le disposizioni sull’accesso sono una parte essenziale della l. 241/1990, la cui finalità è quella di tutelare il privato individuo nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione, a compensazione di quello stato di soggezione che fatalmente inerisce alle funzioni esercitate da quest’ultima.
19.1. Primariamente, tale soggezione si manifesta nei confronti dei poteri autoritativi della p.a., e in tal caso si può parlare di una soggezione di diritto.
19.2. Ma vi è anche una soggezione di fatto, che inerisce all’attività della p.a. quale organizzatrice ed erogatrice dei servizi pubblici.
19.3. Tale attività, pur non implicando generalmente l’esercizio di poteri autoritativi, di fatto espone il cittadino –o in via generale quale membro della comunità, o specificamente quale utente– a subìre gli effetti di scelte organizzative, gestionali, etc., che per forza di cose incidono sui suoi interessi senza che egli disponga di un potere contrattuale adeguato per contrastarle.
19.4. Donde la preoccupazione del legislatore, con la l. 241/1990, di estendere al cittadino/utente (ossia al destinatario dell’attività della p.a. quale erogatrice di servizi) quelle tutele che primariamente erano state escogitate a difesa del cittadino/amministrato (ossia al destinatario dell’attività della p.a. quale fonte di atti autoritativi).
19.5. Il passo successivo è l’estensione della tutela dai diritti soggettivi e dagli interessi legittimi (oppositivi e pretensivi) con gli appositi strumenti precontenziosi e contenziosi, all’interesse all’informazione (“trasparenza”) anche con riferimento agli interna corporis – nella misura in cui tale informazione è strumentale alla soddisfazione dei diritti e interessi legittimi.
19.6. Infine, vi è ulteriore estensione della tutela del cittadino/utente, dal rapporto con la p.a. quale erogatrice di servizi, al rapporto con quei soggetti privati che, per delega, concessione, o licenza della p.a., a loro volta gestiscono un pubblico servizio.
19.7. Se tutto questo è vero, ne consegue che gli effetti di questa estensione di tutela del cittadino/utente nei confronti del privato gestore di un servizio pubblico hanno ragion d’essere solo quando il soggetto che chiede tutela si presenta, appunto, come utente o comunque come membro della collettività, interessato come tale a quel pubblico servizio, e quindi anche al modo nel quale esso viene organizzato, disciplinato e gestito.
19.8. Solo in questo caso, infatti, vi è quella “soggezione di fatto” che ha indotto il legislatore autore della l. 241/1990 ad escogitare gli opportuni strumenti di compensazione.
19.9. Non hanno più ragion d’essere quando il rapporto fra il soggetto che chiede l’accesso, e il privato gestore del pubblico servizio, è di altro tipo (lavoro subordinato, contratto d’opera professionale, ecc.) e non è in alcun modo influenzato o qualificato dai profili pubblicistici eventualmente rinvenibili nell’attività del gestore.
20. Ciò si dice non perché la posizione del lavoratore subordinato, o del prestatore d’opera, o del fornitore di beni e servizi, etc., sia meno meritevole di tutela rispetto a quella del cittadino/utente; ma perché è qualitativamente diversa e altrettanto diversi (e in genere non meno efficaci sul piano pratico) sono gli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento.
20.1. Nel caso di un lavoratore dipendente (come l’attuale appellante) ogni eventuale pretesa al rispetto dei diritti e interessi inerenti al rapporto di lavoro trova la sua apposita e specifica tutela nel diritto del lavoro e nei relativi strumenti giurisdizionali.
20.2. Non si vede poi la ragione di differenziare il trattamento dei lavoratori dipendenti, per il solo fatto che il loro datore di lavoro (privato) sia, occasionalmente, gestore di un servizio pubblico.
20.3. Pertanto l’estensione della disciplina dell’accesso al rapporto di lavoro subordinato non solo appare poco coerente con il sistema, ma non si giustifica neppure in rapporto ad esigenze di tutela del lavoratore, le quali ricevono altrove una risposta adeguata.
20.4. L’irrazionalità di tale estensione, e la sua incoerenza con il sistema, risulteranno con maggior evidenza ove si consideri l’ampiezza del fenomeno dei servizi pubblici affidati a gestori privati.
21. In conclusione,
il Collegio propende per dichiarare inammissibile il ricorso per l’accesso proposto in primo grado, con l’argomento che la disciplina dell’accesso non si applica ai rapporti fra Poste Italiane s.p.a. e i suoi lavoratori dipendenti, quali che siano il loro livello e il ramo di servizio cui sono addetti.
22. Nondimeno, trattandosi di questione sulla quale si registrano numerosi e autorevoli precedenti di indirizzo contrario, il Collegio intende doveroso rimettere la questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) rimette, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., la questione all’Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 28.08.2015 n. 4028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Nei contratti di locazione non abitativa la P.A. può esercitare il diritto di recesso per gravi motivi.
La disposizione dell'art. 27 l. n. 392/1978, che consente al conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione contemplati dall'art. 42 della stessa legge e, tra questi, a quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico territoriale.
I gravi motivi devono consistere in un'esigenza oggettiva, imposta dal dover esercitare la funzione e soddisfare l'interesse pubblico che ne è oggetto in modo più idoneo rispetto a quanto assicuri l'esercizio della funzione stessa in atto mediante l'utilizzo del bene condotto in locazione.

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3. Relativamente al primo motivo si osserva che costituisce principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui,
in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, l'onere per il conduttore, di specificare i gravi motivi contestualmente alla dichiarazione di recesso ai sensi dell'art. 27 della legge n. 392 del 1978, ancorché non espressamente previsto da detta norma, deve ritenersi conseguente alla logica dell'istituto, atteso che al conduttore é consentito di sciogliersi dal contratto solo se ricorrano gravi motivi e il locatore deve poter conoscere tali motivi già al momento in cui il recesso é esercitato, dovendo egli assumere le proprie determinazioni sulla base di un chiaro comportamento dell'altra parte del contratto, anche al fine di organizzare una precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso stesso (cfr. Cass. ord. 27.10.2011, n. 22392; Cass. 06.06.2008, n. 15058; Cass. 29.03.2006, n. 7241; Cass. 26.11.2002, n. 16676).
E' stato in particolare precisato che
-pur non avendo il conduttore l'onere di spiegare le ragioni di fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato, né di darne la prova perché queste attività devono essere svolte in caso di contestazione da parte del locatore- si tratta pur sempre di recesso "titolato", per cui la comunicazione del conduttore non può prescindere dalla specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale requisito inerisce al perfezionamento della stessa dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso medesimo (cfr Cass. 17.01.2012, n. 549).
3.1. Ciò posto, il motivo risulta infondato sotto il profilo della violazione di legge, inammissibile sotto quello motivazionale.
Invero la decisione impugnata è conforme ai principi sopra esposti, avendo correttamente escluso che i motivi addotti con la lettera di recesso potessero essere integrati con quello postulato solo in sede giudiziale del "risparmio di spesa"; mentre la censura motivazionale si sostanzia in un'opinabile equiparazione tra "risparmio di spesa" e "maggiore efficienza operativa", suggerendo un'interpretazione così ampia dei contenuti lettera di recesso, che -prima ancora che risultare meramente alternativa a quella assunta nella decisione impugnata e, come tale, inammissibile anche nella formulazione ante D.L. n. 83/2012 conv. in L. n. 134/2012 del n. 5 cod. proc. civ. dell'art. 360 cod. proc. civ. (qui applicabile ratione temporis)- finirebbe per vanificare le stesse esigenze che il recesso "titolato" deve assolvere.
Il motivo va, dunque, rigettato.
4. Relativamente agli altri motivi di ricorso, suscettibili per la stretta connessione delle censure, di esame unitario, va innanzitutto osservato che
costituisce ius receptum che la disposizione dell'art. 27, comma ultimo, L. n. 392 del 1978, che consente al conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi, è applicabile anche ai contratti di locazione contemplati dall'art. 42 stessa legge, ivi inclusi quelli conclusi in qualità di conduttore da un ente pubblico territoriale (cfr. Cass. 22.11.2000, n. 15082).
Inoltre come correttamente evidenziato nella decisione impugnata,
una volta che l'amministrazione pubblica agisca iure privatorum stipulando un contratto di locazione come conduttore non si sottrae ai principi costantemente predicati in materia da questa Corte, secondo cui la situazione assunta come giustificativa del recesso anticipato ex art. 27, comma 8 cit. non può attenere alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all'opportunità o meno di continuare ad occupare l'immobile locato, ma deve avere carattere oggettivo, sostanziandosi in fatti involontari, imprevedibili, sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore medesimo la prosecuzione del rapporto locativo.
Valga, altresì, considerare che -seppure è indubbio che la scelta di recedere non può prescindere dall'apprezzamento dell'attività esercitata dal conduttore, quale indicata dall'art. 27, oppure contemplata direttamente o indirettamente nell'art. 42 citato, con la conseguenza che, ove la scelta di recedere sia operata da un ente pubblico, non può prescindersi dal profilo delle attività e dei compiti ad esso affidati-
è altrettanto certo che la qualificazione pubblicistica del conduttore, una volta che lo stesso si sia avvalso dello strumento privatistico, non consente di ritenere che la legittimità del recesso sia apprezzata, dando rilievo esclusivamente alle determinazioni perseguite dal soggetto pubblico, seppure nell'adempimento delle sue funzioni (cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26892, che -in una fattispecie non dissimile a quella di cui al presente ricorso- ha ritenuto che la decisione di un Comune di far costruire un proprio immobile per ospitarvi detta scuola non costituisse, di per sé, motivo idoneo di recesso anticipato dal contratto in corso, benché il completamento dell'edificio fosse avvenuto prima della scadenza convenzionale dello stesso e l'operazione fosse economicamente conveniente, essendo necessario che tale scelta fosse stata determinata da un'esigenza  oggettiva, finalizzata a soddisfare l'interesse pubblico in questione in modo più idoneo rispetto a quanto già non avvenisse tramite l'utilizzo del bene condotto in locazione).
4.1. Orbene la decisione impugnata si colloca perfettamente nell'alveo dei principi sopra indicati, giacché -muovendo dal ragionevole presupposto che la ASL avesse assunto in locazione un immobile idoneo all'espletamento dei servizi sanitari localizzati (e, perciò, escludendo che la stessa Azienda, avente in materia specifici compiti di vigilanza, avesse adibito a strutture sanitarie locali in violazione della normativa di settore)- ha evidenziato, come la scelta di acquisire o liberare nuovi locali, in mancanza di dimostrazione di situazioni in qualche modo cogenti, costituiva espressione di una libera volontà e determinazione del soggetto conduttore e, soprattutto, discendeva da circostanze che avrebbero potuto e dovuto essere prevedute, con l'ordinaria diligenza, già al momento del rinnovo della locazione; così che essa non poteva pregiudicare l'aspettativa del locatore alla prosecuzione del rapporto sino alla sua scadenza.
Ciò posto e precisato, altresì, che la verifica della sussistenza o meno degli elementi che rendono particolarmente gravosa la prosecuzione del rapporto locativo, quale uno dei presupposti necessari perché siano ravvisabili "i gravi motivi" legittimanti il recesso del conduttore ex art. 27 cit., è rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, risultando insindacabile in sede di legittimità se sorretta da congrua e coerente motivazione, rileva il Collegio che la decisione impugnata non presenta alcuna incongruenza logico-argomentativa, dando conto in maniera più che esauriente della valutazioni espresse.
In particolare, contrariamente a quanto opinato da parte ricorrente, l'affermazione, secondo cui l'esistenza di barriere architettoniche risultava non credibile, non è affatto apodittica, trovando giustificazione nella premessa di principio circa l'esistenza di una presunzione di legittimità delle determinazioni assunte dalla ASL al momento della stipula del contratto di locazione.
Né vi è alcuna insanabile contraddizione tra l'avere ritenuto che, nella valutazione dei "gravi motivi" occorresse avere riguardo all'attività svolta dalla ASL e l'avere, nel contempo, escluso che rilevasse l'eventuale mancanza di dette barriere; e ciò in quanto l'affermazione si giustifica con il rilievo che non era stata convenuta altra destinazione d'uso che quella generica "non abitativa".
In disparte si osserva che le deduzioni svolte al riguardo da parte ricorrente si rivelano prive di decisività anche sotto altro profilo; e cioè perché non evidenziano una situazione sopravvenuta nel corso del rapporto, dal momento che la presenza o meno di barriere architettoniche avrebbe dovuto essere verificata e valutata al momento della stipula del contratto (o almeno del suo rinnovo).
In conclusione l'esame complessivo dei motivi conduce al rigetto del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 27.08.2015 n. 17215).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sul legittimo diniego di accesso all'esposto cui consegue un sopralluogo da parte della Polizia Locale.
Il provvedimento di diniego del Comune è fondato sull’art. 20, comma 2, del Regolamento sui procedimenti amministrativi e sull’art. 329 c.p.p. e nella parte conclusiva del provvedimento è evidenziato che l’attività ispettiva è scaturita da un esposto anonimo che il Comune sostiene essere stato inviato a molte autorità pubbliche compresa la Procura della Repubblica.
La conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce l’attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo.
Pertanto nessun vantaggio ai fini della difesa dei propri interessi può scaturire dalla conoscenza dell’autore dell’esposto, circostanza peraltro impossibile nel caso di specie, poiché la denuncia è stata presentata in forma anonima.
L’amministrazione ha esercitato il suo dovere ispettivo e la denuncia anonima ha semmai svolto il ruolo –che non era certamente necessario– di sollecitarne l’esercizio. E’ pertanto evidente che l'accesso alla denuncia non risponde ad alcun interesse del ricorrente e in nessun modo incide sul suo diritto di difesa.

... per l'accertamento del diritto all’accesso agli atti richiesti con nota depositata il 30.03.2015;
...
Il ricorrente comproprietario di un immobile sito in Rimini aveva visto effettuare un sopralluogo da parte di agenti di polizia amministrativa del Comune per verificare la conformità dello stato dei luoghi rispetto alle normative edilizie.
Presentava una richiesta di accesso in data 30.03.2015 per conoscere il nome dell’autore dell’esposto-denuncia che era all’origine del sopralluogo effettuato ed il Comune non dava seguito all’istanza entro trenta giorni.
Con il primo motivo di ricorso affermava l’illegittimità del silenzio-rifiuto poiché l’interesse all’esibizione dei documenti non è immediatamente preordinato a esigenze di tutela giurisdizionale di diritti, ma richiede un semplice interesse diretto che corrisponda ad una situazione giuridicamente tutelata.
Nel caso di specie la rivelazione dell’autore dell’esposto è necessaria perché dall’attività ispettiva della Polizia Municipale è sorta una denuncia all’Autorità Giudiziaria.
Osservava, inoltre, che l’esistenza di un procedimento penale non giustifica l’opposizione del segreto investigativo di cui all’art. 329 c.p.p. poiché l’atto richiesto non è un atto di indagine, ma un semplice presupposto di successivi atti di indagine.
Nelle more tra la notifica ed il deposito del ricorso, veniva emesso un atto formale di diniego della richiesta di accesso che veniva impugnato con motivi aggiunti che ricalcavano nella sostanza quanto già affermato nel ricorso principale.
Il Comune di Rimini si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.
Il provvedimento di diniego del Comune di Rimini è fondato sull’art. 20, comma 2, del Regolamento sui procedimenti amministrativi e sull’art. 329 c.p.p. e nella parte conclusiva del provvedimento è evidenziato che l’attività ispettiva è scaturita da un esposto anonimo che il Comune sostiene essere stato inviato a molte autorità pubbliche compresa la Procura della Repubblica.
La conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce l’attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo.
Pertanto nessun vantaggio ai fini della difesa dei propri interessi può scaturire dalla conoscenza dell’autore dell’esposto, circostanza peraltro impossibile nel caso di specie, poiché la denuncia è stata presentata in forma anonima.
L’amministrazione ha esercitato il suo dovere ispettivo e la denuncia anonima ha semmai svolto il ruolo –che non era certamente necessario– di sollecitarne l’esercizio. E’ pertanto evidente che l'accesso alla denuncia non risponde ad alcun interesse del ricorrente e in nessun modo incide sul suo diritto di difesa (Consiglio di Stato n. 5779/2014).
Il ricorso principale è improcedibile e quello per motivi aggiunti infondato (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sezz. unite, sentenza 26.08.2015 n. 784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La canna fumaria installata in un palazzo di pregio va rimossa se altera l'estetica dell'edificio.
L’apposizione della canna fumaria e della struttura di copertura della stessa immuta lo stato della cosa comune eccedendo i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102 c.c., impedendo un analogo uso da parte di questi ultimi ed anzi sottraendo al loro uso, assicurato dal possesso, il relativo beneficio derivante dalla libertà da ingombri della porzione del bene comune.
L’uso particolare che il comproprietario faccia del bene comune non può considerarsi estraneo alla destinazione normale dell’area, a condizione però che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l’utilizzazione del cortile praticata dagli altri comproprietari, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del bene medesimo un analogo uso particolare.
La sentenza impugnata da conto proprio della inesistenza di tale condizione ed in particolare della alterazione della destinazione naturale dell’area occupata con la struttura contenente la canna fumaria e per tale ragione ha ritenuto commettere molestia la società che aveva immutato lo stato di fatto degradando gravemente l’estetica dell’edificio ed alterando precedenti facoltà di utilizzazione da parte degli altri condomini
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Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1140, 1168 e 1170 c.c. per non avere la corte di merito considerato che si tratta di corte interna in stato di degrado e che tutti i muri perimetrali sono 'ornati' di tubature 'a vista'.
A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: "premesso che la Corte di merito ha omesso di considerare che l'uso dei muri perimetrali della corte interna del palazzo sito in via S. Stefano n. 35 da parte della ricorrente sia avvenuto, giusta diritto sancito ex art. 1102 c.c., per una esigenza di carattere primario (riscaldamento) della propria unità immobiliare, affermi la Suprema Corte, se, nei rapporti tra Condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale sull'uso delle cose comuni, in caso di contrasto tra le norme relative alle distanze legali e quelle relative all'art. 1102 c.c. sulla comunione, debbano prevalere queste ultime nel caso in cui il singolo condomino utilizzi le parti comuni per l'installazione di impianti qualificabili come indispensabili per un'effettiva abitabilità del suo appartamento, secondo le esigenze generali dei cittadini e le moderne concezioni di igiene, ed il rispetto delle norme sulle distanze non sia compatibile con la concreta struttura dell'edificio. Affermi la Corte se nella fattispecie concreta l'esigenza di riscaldare la propri unità immobiliare comporti una deroga alla normativa sulle distanze legali ai sensi e per effetti dell'art. 1102 c.c.".
Il mezzo non è fondato.
Nel condominio degli edifici le parti comuni formano oggetto, a favore di tutti i condomini, di un compossesso pro indiviso il quale si esercita diversamente a seconda che le cose siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari cui siano collegate materialmente o per destinazione funzionale (suolo, fondazioni, muri maestri, oggettivamente utili per la statica) oppure siano soggettivamente utili nel senso che la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall'attività dei rispettivi proprietari (portone, anditi, scale, ascensore ecc); nel primo caso l'esercizio del possesso consiste nel beneficio che il piano o la porzione di piano (e, per traslato, il proprietario) trae da tali utilità, nel secondo caso si risolve nell'espletamento della predetta attività da parte del proprietario.
Ciò posto,
il godimento delle cose comuni da parte dei singoli condomini assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di loro abbia alterato e violato, senza il consenso degli altri condomini ed in loro pregiudizio, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o da restringere il godimento spettante a ciascun compossessore pro indiviso sulla cosa medesima (Cass. 26.01.2000 n. 855; Cass. 11.03.1993 n. 2947; Cass. 21.07.1988 n. 4733; Cass. 18.07.1984 n. 4195).
La modifica di una parte comune e della sua destinazione ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima di conseguenza gli altri condomini all'esperimento dell'azione di reintegrazione per conseguire la riduzione della cosa al pristino stato in modo che essa possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione, senza che sia necessaria la specifica prova del possesso di detta parte quando risulti che essa consista in una porzione immobiliare in cui l'edificio si articola (Cass. 13.07.1993 n. 7691).
Nella specie la corte di merito —premesso di avere verificato lo stato del fabbricato— ha accertato, con apprezzamento non censurabile in Cassazione, che
la canna in contestazione aveva dimensioni non trascurabili, rappresentata come era da una sovrastruttura apposta nella facciata del palazzo condominiale priva di qualsiasi collegamento dal punto di vista architettonico o funzionale con la parete esterna dell'edificio, per cui alterava notevolmente l'estetica dell'edificio, pure bisognevole di manutenzione, e costituiva un elemento di grave degrado.
Inoltre
sussisteva anche la lamentata turbativa al godimento della luce proveniente dalla finestra collocata proprio al di sotto della canna fumaria, evincibile dalle foto prodotte, in quanto l'ingombro della struttura provoca ombra sulla finestra dell'appartamento, diminuendone la luminosità.
Pertanto, la decisione di accoglimento della domanda di manutenzione nel possesso proposta dai condomini Collina e Berti si presenta corretta, incidendo detta struttura sull'estetica dello stabile, oltre a notevolmente ridurre la luce nella stanza che affaccia dalla finestra sottostante la canna.
Il giudice di merito, insomma, ha correttamente ritenuto che con la apposizione della canna fumaria e della struttura di copertura della stessa la condòmina aveva immutato lo stato della cosa comune eccedendo i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102 c.c., impedendo un analogo uso da parte di questi ultimi ed anzi sottraendo al loro uso, assicurato dal possesso, il relativo beneficio derivante dalla libertà da ingombri della porzione del bene comune (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.08.2015 n. 17072).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Nessuno deve sapere il nome del Comune sciolto per mafia.  Privacy e giustizia amministrativa in cerca d’intesa sulla pubblicazione dei nomi delle parti litiganti.
Tar del Lazio. Giunta «in chiaro» ma non la città.

Un recente episodio è quello espresso dalla sentenza 22.08.2015 n. 10899 del TAR Lazio-Roma -Sez. I- sullo scioglimento per condizionamento mafioso di un consiglio comunale calabro. Gli argomenti trattati sono delicati, perché individuano i rapporti tra potere politico e consorterie locali; il verdetto finale è sfavorevole agli amministratori pubblici, che in gruppo (sindaco e consiglieri comunali), si erano rivolti al Tar contestando il decreto del Capo dello Stato e la relazione ministeriale densa di riferimenti ad appalti e opacità.
I nomi degli amministratori sono in chiaro, ma la privacy ha risparmiato il nome del Comune legittimamente commissariato. Ci si domanda ora quale interesse vi possa essere a mantenere riservato il nome del Comune mentre sono chiaramente individuati gli amministratori che con il loro comportamento poco trasparente hanno generato lo scioglimento. Oltretutto, a suo tempo la Gazzetta Ufficiale riportava in chiaro la località interessata, sia nel decreto di scioglimento sia nell’ampia relazione prefettizia giustificativa dello scioglimento. E inoltre, la sentenza ritiene infondato il ricorso degli amministratori avverso lo scioglimento e quindi conferma la legittimità della misura governativa.
Peraltro i cittadini amministrati e tutti i soggetti che intrattenevano rapporti con l’ente locale (fornitori, altri soggetti pubblici) da più di un anno erano a conoscenza dello scioglimento, non essendovi più né un sindaco in carica né giunta né altri componenti di organi elettivi: quindi la privacy sembra stata applicata per evitare un generico disonore a largo raggio, sul territorio nazionale. Potrebbe a questo punto pensarsi a un errore della segreteria del Tar, che ha cancellato il nome della Comune invece del nome degli amministratori ricorrenti: ma in questi termini il problema sposta su un piano ancor più delicato.
Se infatti esistono provvedimenti di portata generale, che interessano la collettività qualificandola come male amministrata, la privacy dei singoli (gli amministratori) deve retrocedere rispetto all’interesse generale a conoscere la sentenza che chiarisce cosa sia avvenuto nell’ente locale (Africo, Rc, nel caso specifico). E ciò deve valere sia per i provvedimenti di scioglimento (che infatti sono integralmente pubblicati in Gazzetta Ufficiale, e quindi su internet) sia per le sentenze che confermano la legittimità di tali provvedimenti.
Il ragionamento si presta a significative estensioni, poiché la giustizia amministrativa di frequente affronta problemi di ampio interesse, quali quelli antitrust, tutela consumatori, appalti, privatizzazioni, infrastrutture strategiche, incentivi, investimenti pubblici (swap), per i quali, giunti alla sentenza, è importante conoscere tutti gli aspetti esaminati nell’interesse della giustizia.
Un settore critico riguarda la gestione delle liti su infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici: spesso le sentenze su queste liti sono oscurate e rendono anonime (e sostanzialmente meno utili) pronunce molto ben argomentate in diritto su situazioni giudicate compromesse (per tutte, Consiglio di Stato n. 3653/2015 sulla gara per la vigilanza alle sedi della Banca d’Italia).
Sarebbe utile, oltre che logico, che almeno le sentenze dalle quali può desumersi l’esistenza delle infiltrazioni (cioè le sentenze di rigetto dei ricorsi delle imprese) siano gestite assicurando spazio alla privacy dei litiganti, ma tutelando anche l’interesse generale che non solo è presente in ogni pronuncia del giudice, ma e lo è maggiormente quando le pronunce tentano di arginare operazioni poco trasparenti che danneggiano la comunità
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2015).

APPALTI: La p.a. morosa paga le sanzioni. È quanto ribadito dal Trga di Trento.
È giuridicamente, oltre che moralmente, obbligatorio provvedere al pagamento dei debiti efficacemente contratti, quale l'indennizzo riconosciuto dagli organi giurisdizionali dello Stato italiano e posto a carico dello stesso Stato, in conformità alle norme primarie approvate dal Parlamento, e pertanto non può essere considerato «manifestamente iniquo» (ex articolo 114, comma 4, lettera e, del codice del processo amministrativo) imporre una sanzione a carico dell'Amministrazione statale che non ha corrisposto quanto dovuto.

Lo ha ribadito il TRGA Trentino Alto Adige-Trento con la sentenza 21.08.2015 n. 344.
Inoltre, i giudici amministrativi trentini hanno evidenziato che per quanto riguarda le altre «ragioni ostative», come genericamente si esprime la sopra cennata disposizione del cod. proc. amm., e che, parimenti, dovrebbero giustificare la sottrazione dell'Amministrazione al pagamento della pena pecuniaria, «va ribadito che tali ragioni, per evitare un'applicazione del tutto arbitraria della norma, non possono essere che oggettive e contingenti, quali il caso fortuito e la forza maggiore, e devono aver realmente impedito il tempestivo adempimento dell'obbligazione nascente dal titolo giudiziario».
E inoltre circa la decorrenza dell'astreinte, i giudici trentini nella sentenza in commento hanno sottolineato come questa decorra dalla data di notificazione del ricorso di ottemperanza e vada computata sino al momento in cui l'Amministrazione intimata esegue il pagamento imposto con la decisione pronunciata dal giudice di merito, o fino a quello, eventualmente diverso, in cui il Commissario ad acta abbia intrapreso il procedimento per l'individuazione delle risorse necessarie al pagamento della somma spettante al ricorrente, dopo averne determinato in attualità l'importo, e ne abbia dato comunicazione all'amministrazione debitrice (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
9. Ciò posto, va rilevato che il ricorso per ottemperanza in esame è fondato e va accolto nei limiti e con le precisazioni che seguono.
10. Invero,
il decreto di condanna pronunciato ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89/2001, ha natura decisoria in materia di diritti soggettivi, ed è perciò idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato ai fini dell’ammissibilità del ricorso per ottemperanza (ex multis: Trga di Trento, sentenze n. 136/2014, 74/2013).
11. Nel caso di specie, il decreto pronunciato dalla Corte trentina è passato in giudicato e risulta decorso il termine di 120 giorni di cui all’art. 14, co. 1, del D.L. n. 669/1996, convertito con modificazioni nella legge n. 30/1997.
12. Ne consegue che, in primis,
va dichiarato l’obbligo del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nella persona del Dirigente Generale responsabile per settore, di conformarsi al giudicato di cui in epigrafe, provvedendo al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 16.000,00 oltre –come stabilito nel decreto decisorio- agli interessi legali decorrenti dalla data di introduzione della domanda avanti alla Corte trentina fino all’effettivo saldo.
13.
Non possono, viceversa, esser accolte le domande di rivalutazione monetaria e di (generico) risarcimento, non avendo l’interessata dimostrato, neppure in via indiziaria, l’esistenza di un danno ulteriore rispetto all’importo corrispondente agli interessi legali maturati e maturandi, la cui spettanza è stata riconosciuta nel decreto decisorio (Trga di Trento, n. 63/2014 e n. 323/2013; Tar Lombardia Milano, sez. III, n. 3061/2012).
14. Deve inoltre precisarsi che, nella fattispecie in esame, non compete alla ricorrente neppure la rifusione delle spese liquidate dalla Corte trentina.
Invero, le spese giudiziali erano state distratte dal Giudice a favore dei difensori, da ciò conseguendo l’integrale sostituzione di questi ultimi nel diritto di credito al riguardo ottenuto nei confronti della controparte (Cass. civ. S.U. 07.07.2010, n. 16037).
Peraltro, nel presente giudizio di ottemperanza, il procuratore in delega della ricorrente non agisce in proprio, ma esclusivamente quale rappresentante e difensore della propria assistita, di talché la domanda si appalesa priva della necessaria legittimazione (cfr. Trga di Trento, n. 343/2014).
15. Ciò posto, il pagamento delle somme effettivamente dovute dovrà avvenire nel termine di 40 (quaranta) giorni, decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione in via amministrativa (o, se anteriore, dalla data di notificazione ad istanza di parte) della presente decisione.
16. Nella eventualità di inutile decorso del predetto termine, si nomina sin d’ora, quale Commissario ad acta, direttamente il Ragioniere Generale dello Stato, senza possibilità di delega ad altro Dirigente, per le ragioni ampiamente esposte nella sentenza di questo stesso Tribunale n. 279/2014, che qui si intendono riportate.
17. Il Commissario provvederà a porre in essere tutti i necessari adempimenti entro i successivi giorni 60 (sessanta), su semplice richiesta scritta della parte.
18.
Passando alla disamina dell’ ulteriore domanda di “astreinte”, va ribadito che questo Tribunale, a seguito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 25.06.2014, n. 15, riconosce l’applicabilità dell’istituto anche nella fattispecie di mancata esecuzione dei decreti di condanna al pagamento di somme di denaro, ex lege Pinto.
19. Al Collegio è noto che una parte della giurisprudenza amministrativa sostiene che, in subiecta materia, l’esigenza di contenimento della spesa pubblica in ragione delle condizioni di crisi della finanza pubblica e dell’ammontare del debito pubblico giustificherebbe la mancata condanna della parte pubblica al pagamento dell’astreinte.
20. Tuttavia, con le recenti sentenze n. 193 e 196/2015, questo Tribunale ha già preso posizione su tale profilo. Nelle predette decisioni, che qui si intendono richiamate per esteso, si è infatti rilevato che
è giuridicamente, oltre che moralmente, obbligatorio provvedere al pagamento dei debiti efficacemente contratti, quale l’indennizzo (che trova fondamento nell’art. 6 della Convenzione EDU) riconosciuto dagli organi giurisdizionali dello Stato italiano e posto a carico dello stesso Stato, in conformità alle norme primarie approvate dal Parlamento, di talché non può essere considerato “manifestamente iniquo (ex art. 114, co. 4, lett. e, del cod. proc. amm.) imporre una sanzione a carico dell’Amministrazione statale che non ha corrisposto quanto dovuto.Inoltre, quanto alle altre “ragioni ostative”, come genericamente si esprime la sopra cennata disposizione del cod. proc. amm., e che –parimenti- dovrebbero giustificare la sottrazione dell’Amministrazione al pagamento della pena pecuniaria, va ribadito che tali ragioni, per evitare un’applicazione del tutto arbitraria della norma, non possono essere che oggettive e contingenti, quali il caso fortuito e la forza maggiore, e devono aver realmente impedito il tempestivo adempimento dell’obbligazione nascente dal titolo giudiziario.
A riguardo della decorrenza, ancora, questo Tribunale ha già rilevato, nelle recenti e sopra citate decisioni, che entrambe le locuzioni dell’art. 114, co. 4, lett. e del cod. proc. amm. (tanto cioè il “ritardo nell’esecuzione”, quanto la “violazione o inosservanza successiva”) si riferiscono al “giudicato”: tale non può essere la sentenza di ottemperanza, posto che ne costituisce l’oggetto, ed è dunque il provvedimento giurisdizionale da eseguire.
21. Peraltro, come già precisato (ex multis: Trga di Trento, 25.11.2014, n. 435),
l’astreinte decorre dalla data di notificazione del ricorso di ottemperanza e va computata sino al momento in cui l’amministrazione intimata esegue il pagamento imposto con la decisione pronunciata dal giudice di merito, o fino a quello, eventualmente diverso, in cui il Commissario ad acta abbia intrapreso il procedimento per l’individuazione delle risorse necessarie al pagamento della somma spettante al ricorrente, dopo averne determinato in attualità l’importo, e ne abbia dato comunicazione all’amministrazione debitrice (Trga di Trento, 08.10.2014, n. 343).
22. Per quel che diversamente concerne la quantificazione della somma dovuta,
la penalità di mora va calcolata in percentuale (utilizzando il parametro individuato dalla Corte EDU) rispetto agli importi stabiliti nel decreto della cui esecuzione si tratta, costituiti dal capitale riconosciuto a titolo risarcitorio, con esclusione da tale computo degli interessi comunque maturati, e dalle spese di lite liquidate, con esclusione, tuttavia, di quanto dovuto a titolo di C.N.P.A., I.V.A. ed altri oneri di legge (cfr. Trga di Trento, 24.09.2014, sentenze numero 318 e 319).
23. In merito, infine, all’entità della predetta percentuale,
va applicato l’interesse semplice al tasso equivalente a quello stabilito per le operazioni di rifinanziamento marginale della Banca Centrale Europea, applicabile durante il periodo di tempo sopra evidenziato, maggiorato di tre punti percentuali (Trga di Trento, 25.11.2014, n. 435).
24. Nella fattispecie in esame sussistono, con le precisazioni sopra esposte, le condizioni previste dall’art. 114, co. 4, lett. e), del cod. proc. amm., per l’applicazione dell’astreinte, la cui domanda va pertanto accolta con decorrenza dal 10.12.2014, data del perfezionamento della notificazione del presente ricorso, fino al momento del pagamento delle somme come sopra dovute, ovvero fino all’intervento attivo del Commissario ad acta, secondo quanto sopra esposto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: La movida non è un reato Per i bar solo una multa.
Non commette reato di disturbo della quiete pubblica l'esercizio commerciale (nella specie un bar della movida) anche se rumoroso. Se il gestore è autorizzato a fare musica fino a tarda notte la sola pena prevista è la sanzione amministrativa, perché la sua attività va considerata come esercizio di un mestiere rumoroso.

Queste le precisazioni contenute nella sentenza 18.08.2015 n. 34920 della Corte di Cassazione, III Sez. penale.
I giudici di Cassazione ribadiscono il principio che i rumori molesti provenienti da un bar integrano la fattispecie di cui all'articolo 659, secondo comma, codice penale quando provengano da attività strettamente connesse e necessarie all'esercizio del bar stesso.
In particolare, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte e all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, deve essere classificata come esercizio di un «mestiere rumoroso», proprio perché in tal caso l'utilizzazione degli strumenti musicali e di diffusione acustica deve considerarsi strettamente connesso e indispensabile all'esercizio dell'attività autorizzata. Deve ricordarsi, infatti, che, l'articolo 659 codice penale prevede due autonome fattispecie di reato configurate rispettivamente dal primo e dal secondo comma.
L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacché ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità.
Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio della attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui al primo comma dell'articolo 659 codice penale, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità e investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (articolo ItaliaOggi del 02.09.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAStop al commercio ambulante dei Raee.
Non è ammesso il commercio ambulante dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee). Non possono essere oggetto dell'autorizzazione al commercio ambulante di cui all'articolo 266, 5° comma, del dlgs n. 152 del 2006 le tipologie di rifiuti che per la loro peculiarità sono autonomamente disciplinate.

Questo è quanto si legge nella sentenza 17.08.2015 n. 34917 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
La deroga prevista dall'articolo 266, 5° comma, del dlgs n. 152 del 2006 per l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti da parte dei terzi, effettuata in forma ambulante, opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività di commercio ambulante (dlgs 31.03.1998 n. 114) e dall'altro che si tratti di rifiuti oggetto del suo commercio.
La disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal contenuto letterale del 5° comma dell'articolo 266 del dlgs n. 152 del 2006 e precisamente dall'ultima parte della disposizione, laddove l'esonero dall'osservanza della disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore merceologico entro il quale il commerciante è abilitato ad operare deve essere oggetto di adeguata verifica, così come la riconducibilità del rifiuto trasportato all'attività autorizzata.
La deroga è giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la salute e per l'ambiente operata dal legislatore con riguardo ad un attività che poteva ricondursi a quella dei «robivecchi», dovendosi nel contempo escludere che la disciplina in esame possa essere utilizzata per legittimare attività diverse che richiedono, invece il rispetto delle disposizioni di carattere generale.
Dall'ordinanza impugnata risultava che l'oggetto dell'autorizzazione al commercio di cui disponeva l'indagato era «commercio su aree pubbliche itinerante di metalli, carta, cartone nonché elettrodomestici usati e ricambi usati di elettrodomestici» mentre il mezzo risultava trasportare materiale ferroso.
Deve pertanto escludersi la possibilità della raccolta del trasporto e del commercio in forma ambulante dei rifiuti pericolosi, anch'essi oggetto di attenzione da parte del legislatore (articolo ItaliaOggi del 03.09.2015).
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massima
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Messina, con ordinanza del 30/04/2015 ha accolto la richiesta di riesame presentata nell'interesse di D. Di C., annullando il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti in data 08/04/2015 e concernente un autocarro ed il suo contenuto (materiale ferroso, parti meccaniche di autovetture, 2 batterie per camion, 1 batteria per auto, elettrodomestici in disuso, cavi in acciaio, travi in ferro, per un peso approssimativo di kg 300), ipotizzandosi il reato di cui all'art. 256, comma 1, lettere a) e b), d.lgs. 152/2006.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina.
2. Con un unico motivo di ricorso rileva che erroneamente i giudici del riesame avrebbero riconosciuto la legittimazione ad impugnare dell'indagato sul presupposto che, pur essendo il mezzo intestato alla moglie, egli avrebbe avuto interesse alla restituzione trattandosi di mezzo adibito all'esercizio dell'attività.
Altrettanto errata sarebbe stata, inoltre, la valutazione sulla insussistenza del fumus del reato, avendo il Tribunale ritenuto applicabile la deroga di cui all'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 relativa alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate in forma ambulante, essendo l'indagato fornito di licenza rilasciata dal comune di Palermo per l'esercizio del commercio ambulante sul territorio comunale con esclusione di alcune piazze e che i giudici del riesame  avrebbero ritenuto valida anche in altri territori, diversi da quello di residenza, sulla base di una circolare interpretativa dell'art. 1 della legge regionale 18/1995 emanata dall'assessorato regionale delle attività produttive, dimenticando, tuttavia, che l'art. 2, comma 8, della legge medesima subordina tale estensione territoriale della validità della licenza al nulla osta dei comuni ove l'attività viene svolta.
Osserva, inoltre, che, diversamente da quanto asserito dai giudici del riesame, il mezzo sequestrato trasportava anche rifiuti pericolosi, quali le batterie e le parti di autoveicoli.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
Risulta dal ricorso e dal provvedimento impugnato che l'indagato era stato sorpreso dalla polizia giudiziaria mentre, unitamente al figlio, trasportava i rifiuti indicati in precedenza con un autocarro intestato alla moglie ed essendo in possesso di una dichiarazione di inizio attività per il commercio al dettaglio ambulante e di una autorizzazione del comune di Palermo per il commercio itinerante nel settore non alimentare.
Precisa il Tribunale che, dalla visura camerale versata in atti risulta che oggetto dell'attività è il «commercio su aree pubbliche itinerante di rottami metallici, carta, cartone, nonché di elettrodomestici usati e ricambi usati per elettrodomestici».
2. Affrontando preliminarmente la questione concernente la legittimazione alla proposizione del riesame in capo all'indagato, in quanto non proprietario del mezzo sequestrato, i giudici del riesame hanno ritenuto determinante il fatto che il predetto, nonostante l'autocarro fosse formalmente intestato alla moglie, era da lui utilizzato nell'esercizio della sua attività.
La decisione, sul punto, non merita le censure formulate dal Pubblico Ministero ricorrente, atteso che, secondo quanto verificato dai giudici del riesame, l'indagato avrebbe avuto interesse alla restituzione del mezzo, solo formalmente intestato alla moglie e da lui utilizzato per l'esercizio dell'attività.
Una tale evenienza, accertata in fatto, evidenzia, invero, quella relazione con il bene sequestrato che sostiene la pretesa dell'indagato non proprietario del bene in sequestro alla cessazione del vincolo richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte menzionata anche nel provvedimento impugnato e nel ricorso (cfr. Sez. 1, n. 15998 del 28/02/2014, Pascale, Rv. 259601; Sez. 1, n. 7292 del 12/12/2013 (dep. 2014), Lesto, Rv. 259412; Sez. 6, n. 11496 del 21/10/2013 (dep. 2014), Castellaccio, Rv. 262612 ed altre prec. conf., sebbene si rinvenga un diverso indirizzo, che ritiene l'indagato sempre legittimato al riesame indipendentemente dal fatto che i beni siano sottratti alla sua disponibilità o a quella di terzi, segnalato con la Rel. n. 57/14 del 22.10.2014 dell'Ufficio del massimario e del ruolo).
Né risulta pertinente il richiamo, operato dal ricorrente, ad altra decisione di questa Sezione, concernente un caso analogo (Sez. 3, n. 32816 del 24/04/2013, Di C., non massimata) in quanto, in quel caso, richiamato il principio di diritto appena ricordato, si è esclusa la legittimazione dell'indagato perché aveva evidenziato soltanto di avere utilizzato il mezzo sequestrato per il trasporto di materiale ferroso e che l'autocarro apparteneva "ad un terzo soggetto estraneo al reato, il quale verrebbe gravemente pregiudicato" dal vincolo reale sul mezzo.
Quanto rilevato nel caso in esame dal Tribunale, dunque, risulta sufficiente per giustificare la legittimazione dell'indagato, impregiudicata restando, peraltro, la posizione del terzo proprietario sia per ciò che concerne l'eventuale corresponsabilità nella violazione sia per le conseguenze ulteriori, quali la confisca obbligatoria (cfr. Sez. 3, n. 46012 del 04/11/2008, Castellano, Rv. 241771).
3. Ciò posto, va invece rilevata la fondatezza dell'ulteriore censura concernente l'operatività, nella fattispecie, della deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006.
Sul tema questa Corte si è ripetutamente espressa, giungendo alla conclusione che
la condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità ed, inoltre, che la deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, P.M. in proc. Lazzaro, Rv. 260266, cui si rinvia per i richiami ai precedenti. Conf. Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 (dep. 2015), P.M. in proc. Seferovic, Rv. 261959).
In quella occasione si è in particolare rilevato, richiamando precedenti arresti, che, tenendo presente quanto stabilito dal d.lgs. 114/1998, deve farsi in primo luogo riferimento alla definizione, contenuta nell'art. 4, comma 1, lett. b) di «commercio al dettaglio», descritto come «l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale» e che la disciplina astrattamente applicabile è quella regolata dal Titolo X, relativo al commercio al dettaglio su aree pubbliche, queste ultime definite, dall'art. 27, comma 1, lett. b), come «le strade, i canali, le piazze, comprese quelle di proprietà privata gravate da servitù di pubblico passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso pubblico».
L'attività commerciale esercitabile è, inoltre, quella indicata dall'art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che può essere svolta «su qualsiasi area purché in forma itinerante» e soggetta all'autorizzazione di cui al successivo comma 4, rilasciata, in base alla normativa emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica, intende avviare l'attività.
Veniva ulteriormente chiarito che il raccordo tra le disposizioni in tema di commercio e l'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006, considerato il tenore letterale delle prime, è reso particolarmente arduo, pur evidenziando che ciò non autorizza una forzata estensione dell'ambito di operatività della disciplina dettata dal d.lgs. 114/1998, che risulta compiutamente definita, né di quella dell'art. 266, comma 5, che, riguardando la materia dei rifiuti, richiede una lettura orientata all'osservanza dei principi generali comunitari e nazionali e, prevedendo un esclusione dal regime generale dei rifiuti, impone sicuramente un'applicazione restrittiva.
Si puntualizzava, inoltre, che l'applicazione della disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal contenuto letterale dell'art. 266, comma 5, e, segnatamente, dell'ultima parte della disposizione, laddove l'esonero dall'osservanza della disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore merceologico entro il quale il commerciante è abilitato ad operare deve essere oggetto di adeguata verifica, così come la riconducibilità del rifiuto trasportato all'attività autorizzata.
Si osservava, poi, che la deroga è giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la salute e per l'ambiente operata dal legislatore con riguardo ad una attività che poteva pacificamente ricondursi a quella dei c.d. robivecchi, dovendosi nel contempo escludere che la disciplina in esame possa essere utilizzata per legittimare attività diverse che richiedono, invece, il rispetto delle disposizioni di carattere generale.
4. Ciò posto, emerge in primo luogo dall'ordinanza impugnata che
l'oggetto dell'autorizzazione al commercio di cui disponeva l'indagato era, come si è già detto, il «commercio su aree pubbliche itinerante di rottami metallici, carta, cartone, nonché di elettrodomestici usati e ricambi usati per elettrodomestici», mentre il mezzo risultava trasportare, sempre secondo quanto descritto nell'ordinanza, materiale ferroso, parti meccaniche di autovetture, batterie per camion e per auto, elettrodomestici in disuso, cavi in acciaio, travi in ferro.
Dalla semplice descrizione di quanto trasportato emerge chiaramente la solo parziale coincidenza con l'oggetto dell'autorizzazione e ciò per quanto concerne i «rottami metallici», mentre altri rifiuti trasportati rientrano in categorie specifiche ed autonomamente disciplinate.
Gli «elettrodomestici in disuso», che non possono quindi considerarsi come «usati», sono infatti compresi tra i rifiuti elettrici ed elettronici (RAEE) disciplinati dal d.lgs. 14.03.2014, n. 49, mentre le parti meccaniche di autovetture sono specificamente considerate dalle disposizioni riguardanti i veicoli fuori uso (art. 231 d.lgs. 152/2006 e d.lgs. 209/202003) e pile, accumulatori e relativi rifiuti sottostanno alle disposizioni contenute nel d.lgs. 188/2008.
Pare evidente, avuto riguardo alle finalità perseguite con la deroga di cui all'art. 266, comma 5, d.lgs. 152/2006 che tali categorie particolari di rifiuti, che vengono separatamente considerate dal legislatore per la loro particolarità, possano rientrare tra quelli considerati ai fini della deroga medesima, se non altro perché la loro gestione risulta disciplinata in ragione della particolarità del rifiuto, prevedendosi, ad esempio, specifiche disposizioni per la raccolta ed il trasporto, cosicché deve escludersi che tali tipologie di rifiuti possano essere raccolte, trasportate e commercializzate in forma ambulante in deroga, quindi, non soltanto alle disposizioni di cui agli artt. 189, 190, 193 e 212 del d.lgs. 152/2006 ma anche ad altre disposizioni appositamente dettate per categorie particolari di rifiuti.
5. Deve conseguentemente affermarsi che
la deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del d.lgs. 152/2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio non opera con riferimento a categorie di rifiuti che, per la loro peculiarità, sono autonomamente disciplinate.
6. Parimenti, come correttamente si è osservato in ricorso, deve escludersi la possibilità della raccolta del trasporto e del commercio in forma ambulante dei rifiuti pericolosi, anch'essi oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore.
Ne consegue che, avuto riguardo alla natura dei rifiuti trasportati, risulta errata la valutazione di piena compatibilità con l'oggetto del titolo abilitativo effettuata dai giudici del riesame. Ciò indipendentemente dalla pericolosità o meno del rifiuto che dipende, in ogni caso, secondo quanto stabilito, dall'art. 184 d.lgs. 152/2006, dalla mera presenza delle caratteristiche di cui all'allegato I della Parte Quarta del presente decreto e che, nel caso in esame, sarebbe stata comunque documentata, secondo quanto affermato in ricorso, dal verbale di sequestro e compiutamente contestata nell'incolpazione provvisoria e che, avuto riguardo alla natura sommaria del procedimento incidentale, non avrebbe dovuto comunque essere provata come invece ritenuto nell'ordinanza impugnata.

PUBBLICO IMPIEGOTutela forte sugli incarichi. DIRIGENZA/ Ente contrattante ko.
Il mancato conseguimento dell'incarico dirigenziale a seguito di indizione di pubblico concorso è lesione di interesse legittimo e, pertanto, il funzionario dell'ente pubblico contrattante ne risponde a titolo di responsabilità aquiliana.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 31.07.2015 n. 16276.
I giudici di piazza Cavour hanno osservato che la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è espressamente prevista dalla legge (art. 7, comma 4, dlgs 02.07.2010 n. 104) e da un punto di vista giurisprudenziale sin dal 1999 le Sezioni Unite della medesima Cassazione hanno ammesso la risarcibilità del danno da lesione d'interessi legittimi (si veda: Cass. 500/1999), infatti nella medesima sentenza si legge che il c.d. danno ingiusto di cui all'art. 2043 c.c. può consistere tanto nella lesione d'un diritto soggettivo assoluto, quanto nella lesione d'un diritto soggettivo relativo; quanto, infine, nella lesione d'un interesse legittimo come pure d'ogni altra situazione giuridica soggettiva «presa in considerazione dall'ordinamento».
Gli Ermellini hanno altresì evidenziato come la lesione di un interesse legittimo non possa derivare che da una condotta della pubblica amministrazione, poiché solo a fronte dei poteri autoritativi di cui questa è titolare può concepirsi quella situazione giuridica soggettiva; «ma è altresì vero che in tema di responsabilità aquiliana vige la regola dell'equivalenza delle condotte di cui all'art. 2055 c.c.: pertanto, se la p.a. con un proprio provvedimento viola un interesse legittimo, a provocare tale danno concorre anche il funzionario che quel provvedimento adotta ovvero non ostacola».
I Supremi giudici hanno, infine, osservato che si impone oggi una lettura nuova e costituzionalmente orientata dell'art. 23 dpr 3/1957, e pertanto «l'espressione «violazione dei diritti dei terzi» deve intendersi quale sinonimo di «violazione degli interessi protetti dei terzi» (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La Corte di Giustizia, conformante al principio <<chi inquina paga>>, ha stabilito che l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento.
L’articolo 239 del Testo Unico dell’Ambiente nel formulare i principi generali in materia di rifiuti e di bonifiche dei siti contaminati -applicabili anche alla procedura semplificata qui in questione in ragione della superficie coinvolta inferiore a 1000 metri quadrati- richiama i principi e le norme comunitarie con particolare riferimento al principio <chi inquina paga>, ora contenuto anche dall’articolo 3-ter del TUA.
Il cardine di tale principio consiste nell’imputazione dei costi ambientali al soggetto che ha causato la compromissione ecologica, così come affermato dalla Corte di Giustizia nell’ordinanza 09.03.2010 nelle cause riunite C-478/08 e C. 479/08 (<<conformemente al principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento>>).
In conformità a tale principio, gli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del TUA stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti “responsabili dell’inquinamento”, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
L’articolo 244 del TUA è inequivoco nell’affermare che, individuato un fenomeno di contaminazione, devono essere svolte le “opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento”.
Coerentemente con il suddetto principio del “chi inquina paga” l’allegato 4 pone gli obblighi di caratterizzazione, analisi rischio e di bonifica e messa in sicurezza in capo al soggetto “responsabile”.
Nessun dubbio sussiste in conseguenza sul fatto che il soggetto obbligato alla caratterizzazione, all’analisi di rischio e alla bonifica o alla messa in sicurezza debba essere l’autore del comportamento che ha causato la contaminazione, che è concettualmente distinto dagli altri possibili soggetti coinvolti o interessati e segnatamente dal proprietario delle aree contaminate.
E’ quindi necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione.
Tale accertamento presuppone una adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
Il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni.

8.- I ricorrenti assumono che la sentenza gravata ed anche gli atti impugnati in primo grado non avrebbero chiarito il titolo di coinvolgimento di essi ricorrenti nella procedura di analisi del rischio sito specifica; che sarebbe stato loro addebitato l’onere esclusivamente perché proprietari del sito inquinato; che tale comportamento contravverrebbe ai principi desumibili dal codice dell’ambiente ed al principio comunitario del “chi inquina paga”, ultimamente confermato dalla Corte di Giustizia della UE con la pronuncia del 04.03.2015, in concausa C – 534/13.
La censura è fondata.
8.1- L’articolo 239 del Testo Unico dell’Ambiente nel formulare i principi generali in materia di rifiuti e di bonifiche dei siti contaminati -applicabili anche alla procedura semplificata qui in questione in ragione della superficie coinvolta inferiore a 1000 metri quadrati- richiama i principi e le norme comunitarie con particolare riferimento al principio <chi inquina paga>, ora contenuto anche dall’articolo 3-ter del TUA.
Il cardine di tale principio consiste nell’imputazione dei costi ambientali al soggetto che ha causato la compromissione ecologica, così come affermato dalla Corte di Giustizia nell’ordinanza 09.03.2010 nelle cause riunite C-478/08 e C. 479/08 (<<conformemente al principio “chi inquina paga”, l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento>>). (Nello stesso senso anche la sentenza della Corte di Giustizia 24.06.2008, causa C. 188/07, Comune di Mesquer).
8.2- In conformità a tale principio, gli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del TUA stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti “responsabili dell’inquinamento”, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
L’articolo 244 del TUA è inequivoco nell’affermare che, individuato un fenomeno di contaminazione, devono essere svolte le “opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento”.
Coerentemente con il suddetto principio del “chi inquina paga” l’allegato 4 pone gli obblighi di caratterizzazione, analisi rischio e di bonifica e messa in sicurezza in capo al soggetto “responsabile”.
8.3- Nessun dubbio sussiste in conseguenza sul fatto che il soggetto obbligato alla caratterizzazione, all’analisi di rischio e alla bonifica o alla messa in sicurezza debba essere l’autore del comportamento che ha causato la contaminazione, che è concettualmente distinto dagli altri possibili soggetti coinvolti o interessati e segnatamente dal proprietario delle aree contaminate (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 18.04.2011, n. 2376).
8.4- E’ quindi necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione.
Tale accertamento presuppone una adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
Il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 09.01.2013, n. 56; 05.09.2005, n. 4525).
8.5- Fermo tanto, appare indubbia la illegittimità del provvedimento impugnato e la erroneità del percorso motivazionale della sentenza impugnata che si è attestata sulle posizioni dell’amministrazione, atteso che:
   a) la sentenza fonda la responsabilità degli appellanti sulla base di un unico dato, ovvero il fatto che “nell’anno 2000, i proprietari dell’immobile…al fine di impedire l’ulteriore aggravamento del livello di inquinamento, hanno sostituito il serbatoio del gasolio”.
Invero, il serbatoio non fu sostituito ma solamente su di esso furono eseguiti in via cautelativa interventi di vetrificazione, ma la circostanza è comunque irrilevante non essendo riferibile agli appellanti che hanno acquistato la proprietà del bene anni dopo e non può costituire altra prova se non quella di un buon grado di diligenza in capo agli originari proprietari a fronte di un rinvenuto sversamento di idrocarburi nell’area.
   b) ove poi, a tale dato fosse attribuita la valenza di elemento presuntivo, non sarebbe ugualmente sufficiente a fondare la responsabilità dei ricorrenti che al tempo nessun rapporto avevano con l’immobile.
8.6- Peraltro, tale dato e gli altri sui quali il TAR fonda la prova per presunzioni sono privi dei caratteri (gravità, precisione e concordanza) richiesti dal codice civile nella prova per presunzioni, atteso che:
   a) la presenza di contaminante è stata rinvenuta nell’area sovrastante, a monte dei serbatoi di “Casa del Sole” e del locale commerciale “Ristorante Pavia” (cfr. indagini riassunte nella relazione dell’08.02.2010);
   b) la Conferenza di servizi all’uopo convocata aveva ritenuto di disporre indagini integrative “volte alla possibile esclusione delle cisterne del Condominio Casa del Sole e del Ristorante Pavia dalle probabili fonti primarie”;
   c) è stato appurato che i due serbatoi dell’Hotel Astoria e il serbatoio della Casa del Sole non erano a tenuta, mentre il serbatoio del Ristorante Pavia era a tenuta e che l’affioramento del liquido oleoso, riconducibile, presumibilmente, a gasolio, era sulla parte a monte del Ristorante Pavia e che la parte di monte del serbatoio della “Casa del Sole” era risultato contaminato, mentre il campione di valle è risultato solamente con superamenti di CSC.
A fronte di tali elementi, non può condividersi la conclusione cui perviene il TAR “con ciò non potendo escludere che anche tale serbatoio, assieme a quelli ubicati a monte di esso abbia dato luogo a sversamenti di idrocarburi dal suo interno”, atteso che non è sorretta dalle risultanze istruttorie che si pongono in termini dubitativi quanto al coinvolgimento del Ristorante Pavia.
8.7- Anche la relazione dell’ARPA dell’11.07.2012, richiamata in sentenza, non integra un elemento certo da cui desumere la imputabilità al Ristorante Pavia dell’inquinamento.
A parte che detta relazione non è nemmeno richiamata nel provvedimento impugnato, essa riguarda l’indagine relativa al serbatoio interrato a servizio dell’edificio “Casa del Sole” ed in relazione al medesimo, l’ARPA ha concluso di “non poter escludere che anche tale serbatoio assieme a quelli ubicati a monte di esso abbia dato luogo in passato a sversamenti di idrocarburi dal suo interno”.
Invero, dalla richiamata relazione dell’accertamento dell’ARPA che si esprime in termini perplessi e dubitativi non può farsi derivare, come ha fatto il TAR, un elemento di certezza del coinvolgimento del Ristorante Pavia nel fenomeno di inquinamento da idrocarburi.
8.8- La sentenza trascura poi la fondamentale circostanza che gli appellanti non erano proprietari del suddetto immobile al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, né nell’anno 2000, quando si sono verificati i primi fenomeni di affioramento di carburante, e che negli anni successivi non hanno avuto la disponibilità dell’azienda avendola affittata a terzi.
Quanto all‘applicazione dei principi civilistici in base ai quali incombe al proprietario la responsabilità per i danni che il bene locato dovesse arrecare ai terzi, trattasi di principi che possono trovare applicazione in via sussidiaria, dovendo darsi prevalenza al principio di rango comunitario sulla responsabilità da inquinamento in base al quale “chi inquina, paga” e sempre che sussista un comportamento colpevole (a titolo di dolo o colpa) del proprietario il quale, avendo acquisito consapevolezza dell’inquinamento non abbia preteso dal conduttore responsabile le necessarie opere di bonifica (cfr. Cass. civ. III, n. 6525 del 2011).
In tal senso è anche la univoca giurisprudenza dei TAR e del Consiglio di Stato che ha affrontato la questione sulla responsabilità da inquinamento ambientale nel caso di immobile condotto in locazione da terzi (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3274 del 2014; sez. IV, n. 8501 del 2010; sez. III, n. 4328 del 2003).
9.- Assume, invero, la Regione che la circostanza che i ricorrenti non fossero più proprietari del ristorante al momento della notifica del provvedimento sarebbe irrilevante, atteso che essi non sarebbero stati coinvolti nella qualità di proprietari ma di responsabili dell’inquinamento e che le vicende proprietarie non sarebbero state comunicate all’amministrazione regionale, nel mentre gli appellanti avrebbero partecipato alle conferenze di servizi tenutesi nel 2012 e nel 2013, senza mai accennare alla cessione della proprietà medio tempore intervenuta e che, comunque alla data dei fatti essi erano proprietari del ristorante.
Tale prospettazione, peraltro contraddittoria, incentrata sulle disposizioni di cui agli articoli 1575 e 1576 del codice civile, in base ai quali spetterebbe al proprietario il controllo e la manutenzione della cisterna, non è idonea, come già detto, a contestare il principio di origine comunitaria del “chi inquina paga” che prescindendo dall’esistenza di un rapporto giuridico qualificato con la cosa che ha prodotto il danno, privilegia la responsabilità di chi ha procurato di fatto il danno.
Ne consegue che la responsabilità del proprietario è ipotizzabile solamente nel caso di comportamento colpevole, nel mentre ai sensi degli articoli 1575 e 1576 del codice civile, il conduttore è custode della cosa locata e grava su di esso l’onere di mantenere la cosa locata in buono stato e di segnalare al proprietario ogni fatto che possa procurare danni, non potendosi di conseguenza presumere la responsabilità in base ad un’asserita e indimostrata culpa in vigilando del proprietario.
Nella ricerca del responsabile è quindi rilevante la circostanza che il ristorante fosse stato dato per lungo tempo in locazione, in particolare dal 1997 al 2004 e dal mese di novembre 2005 al 30.04.2007, essendo evidente che ove fossero state accertate inadempienze in tale periodo e lo sversamento di carburante dalla cisterna, sarebbe stato responsabile il gestore dell’azienda che, avendone la disponibilità, avrebbe dovuto prontamente evitare il danno ed informarne tempestivamente il proprietario.
10.- Per mera completezza, va ritenuta fondata anche la censura di erroneità della sentenza gravata nella parte in cui non ha annullato la condanna in via solidale degli appellanti all’esecuzione dell’attività di verifica, la quale in limine avrebbe dovuto essere imputata in ragione delle singole percentuali di responsabilità.
La Corte di Giustizia conformante al principio <<chi inquina paga>>, ha stabilito nella citata pronuncia del 04.03.2015, in concausa C–534/13 che l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento.
Non può, quindi, condividersi l’opposta tesi dell’amministrazione che ritiene la responsabilità solidale più confacente alla tutela del pubblico interesse finalizzato a garantire un celere intervento di messa in sicurezza del bene e lascia impregiudicata l’azione di regresso nei confronti degli altri obbligati, atteso che non possono trovare ingresso, in ragione della specialità della materia, i principi civilistici in materia di concorso nella causazione del danno che impongono l’obbligo della solidarietà risarcitoria (art. 2055 cod. civ.).
Per le ragioni esposte l’appello deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.07.2015 n. 3756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamenti solo se c'è capacità. GARE/Consiglio di stato sull'in house.
La revoca di una gara per appalto pubblico di servizi e il contestuale affidamento del servizio a una società in house è legittima a condizione che la società affidataria abbia la capacità di svolgere le funzioni affidate; l'amministrazione deve quindi verificare in concreto la capacità di autoproduzione interna dei servizi.

In tale senso si pronuncia il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 28.07.2015 n. 3716 rispetto a un affidamento in house disposto dalla regione Molise.
Nel caso esaminato dal Tar era successo che, dopo avere indetto una procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento in appalto di la Regione Molise aveva revocato la gara, disponendo contestualmente l'affidamento del medesimo servizio con modalità in house all'Agenzia regionale Molise Lavoro.
In primo grado il Tar Marche aveva bocciato l'affidamento e i giudici di appello confermano la sentenza di primo grado (nel frattempo era stato revocato l'affidamento in house e riavviata una seconda procedura sulla quale erano sorti altri problemi).
In particolare il Consiglio di stato afferma che la necessaria strumentalità dell'ente affidatario diretto deve presuppone la sua capacità di svolgere le funzioni attribuitegli in via di delega dall'autorità vigilante, la quale dal canto suo non può prescindere da tale doverosa verifica preventiva, al fine di evitare che l'attribuzione di compiti di interesse pubblico rimanga una mera enunciazione formale, per la cui concreta attuazione occorre comunque stimolare l'offerta privata.
In altri termini, è insito nella decisione di affidare un servizio in house l'idoneità dell'ente strumentale a svolgerlo compiutamente, potendosi giustificare la deroga all'obbligo della gara, appunto, solo in virtù di una capacità di autoproduzione interna mediante strutture su cui l'autorità pubblica affidante ha un controllo di tipo organico analogo a quello svolto sui propri uffici.
Per contro, il ricorso ad enti formalmente già istituiti ma privi delle necessarie risorse operative, tecniche e strumentali riproduce lo schema di base dell'amministrazione pubblica che per svolgere le proprie funzioni deve procacciarsi i mezzi relativi presso il mercato (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di permesso di costruire in sanatoria, in caso di costruzione anteriore al primo settembre 1967, ricade sul proprietario l’onere di provare in maniera certa la ultimazione dei lavori entro tale data.
Con ricorso tempestivamente notificato all’amministrazione resistente, la società ricorrente, in persona del legale rapp. p.t. F.M. e C.M. hanno impugnato il provvedimento con cui il Comune di Praiano ha revocato il permesso di costruire in sanatoria n. 15/2011, rilasciato in data 20.11.2011, relativo al cambio di destinazione d’uso da deposito ad abitazione di un immobile meglio identificato nel ricorso e ne ha ingiunto la demolizione.
I ricorrenti hanno contestato la legittimità del provvedimento impugnato, in quanto lo stesso avrebbe violato gli artt. 3 e 21-nonies L. 241/1990, nonché l’art. 36 d.p.r. 380/2001 e l’art. 87 della C. In ogni caso, il provvedimento impugnato sarebbe affetto da eccesso di potere.
Il Comune di Praiano non si è costituito in giudizio.
Con ordinanza cautelare 433/2014 è stata accolta la domanda cautelare.
Alla pubblica udienza del 14.05.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
Orbene, tanto premesso in punto di fatto il ricorso è infondato.
In seguito all’ordinanza istruttoria n. 1128 del 26.06.2014 emessa da questo Collegio è emerso che il ricorrente, Milo Filippo, nell’istanza di condono edilizio del 10.12.2004, ha dichiarato che l’epoca di realizzazione del manufatto in contestazione è risalente all’01.01.1970 e, quindi, in data successiva al 1967. Del resto, lo stesso ricorrente sostiene che nell’atto di compravendita vi è la prova che il manufatto risale al 1956 e, comunque, è stato realizzato in data antecedente al 1967.
A pag. 11 dell’atto di compravendita è, tuttavia, solo genericamente indicato che l’edificazione del cespite in oggetto è iniziata prima del primo settembre 1967, ma non viene evidenziata la data di ultimazione dei lavori, rilevante per verificare o meno la necessità di richiedere il titolo abilitativo.
Inoltre l’atto di vendita si riferisce ad una serie di costruzioni di cui l’immobile in contestazione rappresenta solo una piccola parte. Ne deriva, pertanto, che le parti ricorrenti non hanno superato l’onus probandi su di loro ricadente avente ad oggetto la prova che la costruzione in contestazione sia stata realizzata ante 1967 e a tal fine non è in grado di fornire la citata prova nemmeno la foto aerea del 13.04.1956.
Ne deriva che il ricorso è infondato e va rigettato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.07.2015 n. 1703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla proroga del termine di esecuzione dei lavori.
La ditta esecutrice dei lavori ha abbandonato il cantiere rifiutando la riconsegna dell’immobile, avvenuta solo per provvedimento del Giudice istruttore del Tribunale di Vicenza il 18.12.1997, e tra le parti è insorto un contenzioso che ha comportato l’esecuzione di complesse operazioni peritali dalle quali è emersa l’esistenza di gravi difformità strutturali, con rischio di collasso delle strutture, e la necessità di demolizione e ricostruzione delle opere difformi.
Sicché, tali elementi, riconducibili al contenzioso giudiziario insorto tra il titolare del titolo edilizio e la ditta appaltatrice dei lavori, integrano l'ipotesi di "fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso", idonei a giustificare il rilascio della proroga del termine di ultimazione dei lavori, perché si tratta di fatti che sono al di fuori della sfera di controllo del titolare del titolo edilizio, e la mancata riconsegna dell’immobile, o la mancata esecuzione dei lavori durante il tempo occorrente all’esperimento delle perizie disposte durante il procedimento giurisdizionale o durante il tempo occorrente a rimediare ai problemi di sicurezza derivanti dalle difformità strutturali, costituiscono delle vere e proprie cause di forza maggiore idonee a determinare la proroga del titolo edilizio.

... del provvedimento comunale 24.02.1999, n. 2155, di diniego della proroga della scadenza del termine di ultimazione lavori della concessione edilizia n. 40/96/1.
...
La Società ricorrente è proprietaria nel Comune di Thiene di una villa in stile “Liberty”.
Con concessione edilizia n. 40/96/1 del 28.06.1996, sono stati assentiti la ristrutturazione e l’ampliamento dell’immobile.
I lavori sono iniziati il 18.07.1996, e la ditta esecutrice ha unilateralmente abbandonato il cantiere dopo circa un anno in data 25.07.1997.
In data 29.01.1999 la ricorrente ha presentato domanda di proroga del termine di ultimazione lavori.
Il Comune con nota prot. n. 2155 del 24.02.1999, ha respinto l’istanza di proroga ritenendo che le motivazioni poste a fondamento della domanda non siano ascrivibili alla categoria dei fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare della concessione.
...
Con ordinanza n. 709 del 16.06.1999, è stata accolta la domanda cautelare.
Il Comune, con concessione edilizia del 01.07.1999, ha rilasciato la proroga, precisando che il provvedimento è stato rilasciato in ottemperanza delle sopracitata ordinanza cautelare.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
Nel caso all’esame il nuovo atto posto in essere dall'Amministrazione in esecuzione dell'ordinanza cautelare propulsiva, non comporta la cessazione della materia del contendere o la sopravvenuta carenza di interesse all'impugnazione, in quanto l'Amministrazione non ha eseguito una nuova ed autonoma valutazione dell’originaria istanza, con una decisione svincolata dal contenzioso pendente, ma si è espressamente limitata a porre in essere una doverosa ottemperanza alla pronuncia dotata di immediata esecutività.
Nel merito il ricorso deve essere accolto.
...
Parimenti fondato è anche il secondo motivo.
L’art. 4, comma 3, della legge 28.01.1977, n. 10, prevede che il termine di conclusione dei lavori possa essere prorogato “con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione”, e l’art. 78 della legge regionale 27.06.1985, n. 61, dispone che “il ritardo nell’esecuzione dei lavori per fatti sopravvenuti ed estranei alla volontà del titolare della concessione o autorizzazione consente al Sindaco l’emanazione di un provvedimento motivato di proroga”.
Nel caso all’esame ricorrono i presupposti di legge, perché la ditta esecutrice dei lavori ha abbandonato il cantiere rifiutando la riconsegna dell’immobile, avvenuta solo per provvedimento del Giudice istruttore del Tribunale di Vicenza il 18.12.1997, e tra le parti è insorto un contenzioso che ha comportato l’esecuzione di complesse operazioni peritali dalle quali è emersa l’esistenza di gravi difformità strutturali, con rischio di collasso delle strutture, e la necessità di demolizione e ricostruzione delle opere difformi.
Contrariamente a quanto affermato dal Comune nell’impugnato diniego, tali elementi, riconducibili al contenzioso giudiziario insorto tra il titolare del titolo edilizio e la ditta appaltatrice dei lavori, integrano l'ipotesi di "fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso", idonei a giustificare il rilascio della proroga del termine di ultimazione dei lavori, perché si tratta di fatti che sono al di fuori della sfera di controllo del titolare del titolo edilizio, e la mancata riconsegna dell’immobile, o la mancata esecuzione dei lavori durante il tempo occorrente all’esperimento delle perizie disposte durante il procedimento giurisdizionale o durante il tempo occorrente a rimediare ai problemi di sicurezza derivanti dalle difformità strutturali, costituiscono delle vere e proprie cause di forza maggiore idonee a determinare la proroga del titolo edilizio (cfr. Tar Campania, Salerno, Sez. I, 14.01.2014, n. 107; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 07.06.2010, n. 15939; Tar Liguria, Sez. I, 03.04.2003, n. 451; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.05.1996, n. 535) (
TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2015 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sussiste la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento laddove tra la comunicazione dell’avvio del procedimento e l’emissione del provvedimento finale non è trascorso un intervallo di tempo idoneo a consentire un’effettiva partecipazione dell’interessato, e ciò nel caso all’esame è avvenuto, dato che il provvedimento finale è stato adottato addirittura prima che la Società ricorrente ricevesse la comunicazione di avvio del procedimento.
Il primo motivo con il quale la ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento è fondato.
Infatti tra la comunicazione dell’avvio del procedimento e l’emissione del provvedimento finale deve trascorrere un intervallo di tempo idoneo a consentire un’effettiva partecipazione dell’interessato (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. II, 05.02.2008, n. 531), e ciò nel caso all’esame non è avvenuto, dato che il provvedimento finale è stato adottato addirittura prima che la Società ricorrente ricevesse la comunicazione di avvio del procedimento (
TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2015 n. 872 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: E' legittima l'esclusione dei chimici dalla Commissione Edilizia Comunale.
La mancanza di una normativa di rango primario rimette la composizione delle commissioni edilizie alla potestà regolamentare dei Comuni.
Nel caso del Comune di specie, la mancata inclusione dei chimici dalle professionalità cui riservare la presenza nelle commissioni, oggi sancita normativamente, risponde a una scelta non irragionevole alla luce delle stesse affermazioni dell’Ordine ricorrente, che riconosce come le valutazioni demandate alla commissione edilizia ed involgenti il possesso di competenze di chimica applicata non siano riservate in esclusiva ai chimici: se così è, ben si giustifica infatti la preferenza dell’amministrazione per professionalità in grado di garantire un ventaglio di competenze il più completo e aderente possibile in relazione ai compiti consultivi affidati alla commissione, che investono essenzialmente il valore architettonico, estetico, paesaggistico e artistico, il decoro e l’ambientazione degli interventi edilizi (si veda l’art. 4 del regolamento edilizio comunale, nel testo vigente), vale a dire profili rispetto ai quali la professionalità del chimico è ictu oculi recessiva, coprendone una porzione assai esigua.
Di modo che l’esclusione dei chimici in favore di altre professionalità in grado di garantire, ove necessario, sufficienti cognizioni anche in ambito chimico, appare tutt’altro che arbitraria proprio in ossequio al principio generale della concorrenza interdisciplinare invocato in ricorso, e finisce per tradursi in una scelta di merito insindacabile.
... per l'annullamento della nota dell’Assessore all’Urbanistica e Centro Storico del Comune di Pistoia prot. n. 9984 del 15.02.2010, nella parte in cui dichiara l’esclusione dei chimici dalla rosa delle professionalità attivabili per la nomina dei membri delle Commissioni Urbanistiche del comune di Pistoia in ragione del fatto che le funzioni di tali Commissioni, in assenza di una specifica normativa, non richiedono le competenze proprie della figura professionale del chimico, pertanto tale figura non è inserita fra quelle che le compongono.
...
2. In via pregiudiziale, la difesa del Comune resistente eccepisce l’inammissibilità del gravame per difetto di interesse sotto il duplice profilo della mancata impugnativa congiunta delle disposizioni regolamentari che disciplinano la composizione delle commissioni e del carattere interlocutorio e non immediatamente lesivo dell’atto impugnato.
L’Ordine ricorrente replica, per un verso, che il regolamento edilizio vigente al momento dell’instaurazione del giudizio non conteneva alcuna norma impeditiva circa la presenza dei chimici nelle commissioni, ma anzi la consentiva attraverso la clausola generale di cui all’art. 4, co. 1, lett. g), che contemplava l’inclusione nell’organo (anche) di un esperto in materia storico-artistico-ambientale. Quanto alla lesività della nota impugnata, l’Ordine dei Chimici afferma che essa consisterebbe nell’espressione di un orientamento contrario alla presenza dei chimici nelle commissioni e nella natura di arresto procedimentale dell’atto, con il quale i chimici sarebbero stati aprioristicamente esclusi dalla composizione delle commissioni.
2.1. Le eccezioni sono fondate nei termini che seguono.
2.1.1. Collocandosi al di fuori di qualsivoglia procedimento amministrativo, alla nota comunale del 15.02.2010 non si attaglia la nozione di “arresto procedimentale”, la quale implica l’incisione immediata di un interesse pretensivo, mancante nella fattispecie proprio in virtù del carattere aprioristico, stigmatizzato dallo stesso Ordine ricorrente, dell’esclusione dei chimici dalla composizione delle commissioni comunali.
È l’astrattezza delle affermazioni contenute nella nota che non consente, in buona sostanza, di giustificarne l’immediata impugnazione: si tratta, a ben vedere, di un atto al quale può al più attribuirsi natura interpretativa della disciplina comunale in materia di composizione delle commissioni, rilasciato in un’ottica di leale collaborazione dall’ente locale interpellato dal soggetto esponenziale degli interessi di un ordine professionale, ma di per sé privo di autonoma lesività perché non riferibile al concreto esercizio di poteri di amministrazione attiva; e quand’anche lo si volesse reputare vincolante all’interno dell’amministrazione comunale quale atto di indirizzo/circolare (ma così non è, atteso che la nota è indirizzata all’Ordine dei Chimici e non ai funzionari del Comune), ai fini dell’attualizzazione del pregiudizio occorrerebbe pur sempre che l’indirizzo interpretativo ivi manifestato venisse riversato in un provvedimento applicativo, questo sì impugnabile.
2.1.2. L’interesse all’impugnazione è ulteriormente escluso dalla sopravvenuta approvazione delle modifiche al regolamento edilizio del Comune di Pistoia, approvate con deliberazione consiliare n. 14 dell’11.02.2013, le quali escludono la professionalità dei chimici dalla composizione delle commissioni edilizie (dal testo dell’art. 4 del regolamento è venuta meno l’indicazione di un esperto in materie ambientali, da quale l’Ordine ricorrente desumeva la legittimazione dei propri iscritti a essere chiamati a formare le commissioni).
L’Ordine dei Chimici osserva che l’eventuale impugnazione autonoma delle nuove disposizioni regolamentari sarebbe stata inammissibile per difetto di interesse, del che può anche dubitarsi, stante l’effetto immediatamente preclusivo –vincolante per la futura attività del Comune– della previsione regolamentare che non include i chimici fra i membri delle commissione; il rilievo del ricorrente, peraltro, non fa che rafforzare a contrario le conclusioni del collegio circa l’originaria assenza di interesse al ricorso dovuta alla non immediata e autonoma lesività dell’atto impugnato, sprovvista di qualsivoglia contenuto (normativo e) volitivo.
Resta poi fermo che non si vede quale vantaggio, anche solo strumentale, possa oramai derivare dall’annullamento di un atto che riflette un contesto normativo non più vigente.
3. Per completezza di trattazione, nel merito l’Ordine dei Chimici sostiene che la nota comunale del 15.02.2010, nella parte in cui manifesta il rifiuto di considerare l’inserimento di chimici nelle commissioni edilizie, sarebbe viziata da eccesso di potere per irragionevolezza, ingiustizia manifesta, disparità di trattamento, difetto di proporzionalità; né l’esclusione dei chimici dalle commissioni edilizie potrebbe essere argomentato dalla disciplina dettata dall’art. 148 D.Lgs. n. 42/2004 per le commissioni paesaggistiche.
Al riguardo, ribadita l’attitudine non provvedimentale della nota in questione, sia sufficiente osservare che la mancanza di una normativa di rango primario rimette la composizione delle commissioni edilizie alla potestà regolamentare dei Comuni.
Nel caso del Comune di Pistoia, la mancata inclusione dei chimici dalle professionalità cui riservare la presenza nelle commissioni, oggi sancita normativamente, risponde a una scelta non irragionevole alla luce delle stesse affermazioni dell’Ordine ricorrente, che riconosce come le valutazioni demandate alla commissione edilizia ed involgenti il possesso di competenze di chimica applicata non siano riservate in esclusiva ai chimici: se così è, ben si giustifica infatti la preferenza dell’amministrazione per professionalità in grado di garantire un ventaglio di competenze il più completo e aderente possibile in relazione ai compiti consultivi affidati alla commissione, che investono essenzialmente il valore architettonico, estetico, paesaggistico e artistico, il decoro e l’ambientazione degli interventi edilizi (si veda l’art. 4 del regolamento edilizio comunale, nel testo vigente), vale a dire profili rispetto ai quali la professionalità del chimico è ictu oculi recessiva, coprendone una porzione assai esigua; di modo che l’esclusione dei chimici in favore di altre professionalità in grado di garantire, ove necessario, sufficienti cognizioni anche in ambito chimico, appare tutt’altro che arbitraria proprio in ossequio al principio generale della concorrenza interdisciplinare invocato in ricorso, e finisce per tradursi in una scelta di merito insindacabile.
Alla rilevata inammissibilità della domanda si accompagna, dunque, l’infondatezza della stessa.
4. Il ricorso, in forza delle considerazioni che precedono, non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.07.2015 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare, una mano alle imprese. Il fatturato specifico va riferito al totale delle attività. Il Tar Emilia-Romagna applica il principio del favor partecipationis agli appalti.
L'art. 41, comma 1, del dlgs 163/2006, che stabilisce espressamente il requisito del «fatturato specifico», deve essere riferito al fatturato derivante dall'esercizio di tutte le attività comprese nell'intero settore oggetto di gara.

È quanto hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 10.07.2015 n. 669.
Secondo i giudici amministrativi bolognesi, ciò anche in evidente e ragionevole applicazione del principio del favor partecipationis tra imprese concorrenti a una gara pubblica d'appalto, in stretta relazione all'interesse pubblico alla scelta della migliore offerta del privato tra il maggior numero possibile di legittimi competitori.
Nella medesima sentenza i giudici hanno altresì affermato che un giudizio tecnico espresso dalla stazione appaltante sotto la propria consapevole responsabilità, anche penale e contabile, non è sufficiente, per sconfessare tale giudizio, sostituire un giudizio opinabile con uno altrettanto opinabile, o avanzare dubbi o elementi di incertezza, poiché è necessario, invece, dimostrare, con dati numerici certi, quali sono gli errori oggettivamente commessi dalla stazione appaltante e quale sia l'esatto importo delle voci di prezzo anomale, nonché la loro percentuale di incidenza sull'importo complessivo dell'appalto, sicché la dedotta inattendibilità dell'offerta deve essere dimostrata in termini chiari, comprensibili e immediatamente percepibili e non in via di mere presunzioni o affermazioni del tutto prive di riscontro (si vedano tra le altre: Cons. stato sez. IV, 26/02/2015 n. 963; sez. V, 17/07/2014 n. 3800; Tar Emilia-Romagna, sez. I, 30/03/2015 n. 238; sez. II, 150/1/2015 n. 12; 30/07/2014 n. 804; 30/10/2014 n. 1019).
E inoltre, neppure a tal fine possono essere ritenuti validi elementi per dimostrare l'irragionevolezza della valutazione di congruità operata dal seggio di gara, quelli consistenti in dati relativi ai costi estrapolati dall'offerta tecnica (e relative giustificazioni) presentata in altra gara pubblica, dovendosi in via generale ritenere in alcun modo comparabili fra loro i costi afferenti servizi da espletare in ambiti territoriali e dimensionali diversi, nonché disciplinati da diverse normative di gara (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il Collegio deve ulteriormente osservare, su tale questione, che
l’oramai già consolidato indirizzo giurisprudenziale –anche di questo Tribunale– sulla esaminata questione stabilisce che, a fronte di un giudizio tecnico espresso dalla stazione appaltante sotto la propria consapevole responsabilità, anche penale e contabile, non è sufficiente, per sconfessare tale giudizio, sostituire un giudizio opinabile con uno altrettanto opinabile, o avanzare dubbi o elementi di incertezza, dovendosi invece dimostrare, con dati numerici certi, quali sono gli errori oggettivamente commessi dalla stazione appaltante e quale è l’esatto importo delle voci di prezzo anomale, nonché la loro percentuale di incidenza sull’importo complessivo dell’appalto, sicché la dedotta inattendibilità dell’offerta deve essere dimostrata in termini chiari, comprensibili e immediatamente percepibili e non in via di mere presunzioni o affermazioni del tutto prive di riscontro (v. ex multis: Cons. Stato sez. IV, 26/02/2015 n. 963; sez. V, 17/07/2014 n. 3800; TAR Emilia Romagna, sez. I, 30/03/2015 n. 238; sez. II, 15/01/2015 n. 12; 30/07/2014 n. 804; 30/10/2014 n. 1019).

EDILIZIA PRIVATALa controversia ha ad oggetto la necessità -affermata dall’amministrazione comunale e contestata dalla parte ricorrente- di conseguire un nuovo titolo edilizio allorché, all’inizio della stagione balneare, la parte interessata intende procedere alla reinstallazione delle strutture assentite, rimosse al termine della stagione precedente conformemente al carattere stagionale delle stesse.
Sebbene il permesso di costruire rilasciato in illo tempore non contenga univoche indicazioni in tal senso (ovvero, in ordine alla facoltà di reinstallazione delle strutture assentite, essendo invece chiaro in relazione alla natura stagionale delle stesse e, quindi, all’obbligo di smontaggio al termine della stagione estiva), la tesi attorea è meritevole di accoglimento, coerentemente alla natura del titolo edilizio suindicato.
Infatti, ove si ritenesse che il suo contenuto abilitativo sia limitato all’installazione una tantum delle suddette strutture, dovendo il suo titolare acquisire un nuovo permesso ai fini della reinstallazione delle stesse all’inizio della stagione balneare successiva, esso dovrebbe essere considerato inutiliter datum, alla luce del disposto di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale non richiedono l’acquisizione di alcun titolo edilizio “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
Quindi, l’esigenza di smontaggio delle strutture al termine di ogni stagione balneare non delimita temporalmente l’efficacia del predetto permesso di costruire, ma integra una mera modalità esecutiva delle stesse, siccome destinate ad essere rimontate all’inizio della stagione successiva, fermo restando il loro permanente carattere di fondo, cui si correla la necessità di acquisire il permesso di costruire ai fini della loro reiterata realizzazione.

... per l'annullamento del provvedimento di cui alla nota prot. n. 33269 del 15.05.2015, con la quale il Dirigente del Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di Battipaglia ha ordinato la rimozione, nel termine di 15 (quindici) giorni, di alcune strutture in legno di carattere stagionale installate nell'ambito dello stabilimento balneare denominato lido Mediterraneo.
...
- Evidenziato preliminarmente che non è controversa la conformità delle opere oggetto del provvedimento impugnato al progetto edilizio assentito con il permesso di costruire n. 2 del 02.01.2012 (cfr., sul punto, la relazione dei tecnici comunali prot. n. 32273 del 13.05.2015, allegata alla memoria difensiva comunale);
- Rilevato che la controversia ha ad oggetto la necessità -affermata dall’amministrazione comunale e contestata dalla parte ricorrente- di conseguire un nuovo titolo edilizio allorché, all’inizio della stagione balneare, la parte interessata intende procedere alla reinstallazione delle strutture assentite, rimosse al termine della stagione precedente conformemente al carattere stagionale delle stesse;
- Ritenuto che, sebbene il citato permesso di costruire non contenga univoche indicazioni in tal senso (ovvero, in ordine alla facoltà di reinstallazione delle strutture assentite, essendo invece chiaro in relazione alla natura stagionale delle stesse e, quindi, all’obbligo di smontaggio al termine della stagione estiva), la tesi attorea sia meritevole di accoglimento, coerentemente alla natura del titolo edilizio suindicato;
- Evidenziato infatti che, ove si ritenesse che il suo contenuto abilitativo sia limitato all’installazione una tantum delle suddette strutture, dovendo il suo titolare acquisire un nuovo permesso ai fini della reinstallazione delle stesse all’inizio della stagione balneare successiva, esso dovrebbe essere considerato inutiliter datum, alla luce del disposto di cui all’art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale non richiedono l’acquisizione di alcun titolo edilizio “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”;
- Ritenuto quindi che l’esigenza di smontaggio delle strutture al termine di ogni stagione balneare non delimiti temporalmente l’efficacia del predetto permesso di costruire, ma integri una mera modalità esecutiva delle stesse, siccome destinate ad essere rimontate all’inizio della stagione successiva, fermo restando il loro permanente carattere di fondo, cui si correla la necessità di acquisire il permesso di costruire ai fini della loro reiterata realizzazione;
- Ritenuto in conclusione che la proposta domanda di annullamento sia meritevole di accoglimento, potendo dichiararsi l’assorbimento delle censure non esaminate (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 06.07.2015 n. 1495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIIl commissario ad acta rientra, ai sensi dell’art. 21 c.p.a., fra gli organi ausiliari del giudice: da tale qualificazione, va individuata la fonte dei suoi poteri nella sentenza da portare ad esecuzione.
La giurisprudenza costante di questo Consiglio ritiene che il commissario ad acta sia legittimato “ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto, idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto titolare nella sentenza da portare ad attuazione”.
Per consentire l’adempimento dei propri compiti, viene garantita una particolare autonomia al commissario, che si riverbera sul contenuto degli atti da esso adottati, i quali hanno gli stessi effetti verso i terzi di quelli dell’ente sostituito, per provvedere in luogo di quest’ultimo e per superare la paralisi dell’azione amministrativa, dando vita ad una relazione intersoggettiva, e non interorganica, con l’amministrazione.
Il potere del commissario di sostituirsi all’amministrazione nella valutazione e nella attività di scelta, tra i vari interessi coinvolti in uno specifico procedimento, consentono di valorizzare l’elemento discrezionale degli atti emanati da questo soggetto, quale organo ausiliario del giudice: in tal modo, da un lato, in capo all’amministrazione non residua alcun potere discrezionale relativo all’attuazione del provvedimento adottato e, dall’altro lato, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria soltanto qualora vi sia un contrasto fra la sentenza da portare ad esecuzione ed il contenuto del provvedimento adottato dal commissario ad acta.

Al riguardo vanno, preliminarmente, analizzati il ruolo ed i poteri spettanti al commissario ad acta nell’ambito della esecuzione delle sentenze adottate dal Giudice Amministrativo.
Come noto, il commissario ad acta rientra, ai sensi dell’art. 21 c.p.a., fra gli organi ausiliari del giudice: da tale qualificazione, va individuata la fonte dei suoi poteri nella sentenza da portare ad esecuzione.
La giurisprudenza costante di questo Consiglio ritiene che il commissario ad acta sia legittimato “ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto, idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto titolare nella sentenza da portare ad attuazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 01.03.2012 n. 1194).
Per consentire l’adempimento dei propri compiti, viene garantita una particolare autonomia al commissario, che si riverbera sul contenuto degli atti da esso adottati, i quali hanno gli stessi effetti verso i terzi di quelli dell’ente sostituito, per provvedere in luogo di quest’ultimo e per superare la paralisi dell’azione amministrativa, dando vita ad una relazione intersoggettiva, e non interorganica, con l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013 n. 327).
Il potere del commissario di sostituirsi all’amministrazione nella valutazione e nella attività di scelta, tra i vari interessi coinvolti in uno specifico procedimento, consentono di valorizzare l’elemento discrezionale degli atti emanati da questo soggetto, quale organo ausiliario del giudice: in tal modo, da un lato, in capo all’amministrazione non residua alcun potere discrezionale relativo all’attuazione del provvedimento adottato e, dall’altro lato, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria soltanto qualora vi sia un contrasto fra la sentenza da portare ad esecuzione ed il contenuto del provvedimento adottato dal commissario ad acta
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2015 n. 3258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di responsabilità della pubblica amministrazione, il risarcimento del danno subito non può conseguire in modo automatico dall’annullamento di un atto illegittimo adottato dall’amministrazione: la giurisprudenza, mediante il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., è pressoché unanime nel ritenere che l’illegittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell’amministrazione.
In virtù di tale configurazione, qualora si annulli un provvedimento illegittimo, graverà sull’amministrazione l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile.
Quest’ultimo va configurato qualora si sia in presenza di un contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una norma, di un fatto altamente complesso o dell’influenza di altri soggetti.
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In ordine al
la tempestività -o meno- dell’azione amministrativa che può cagionare danno, occorre innanzitutto richiamare la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, che distingue, come noto, tra causalità materiale e causalità giuridica.
In tema di causalità materiale, la giurisprudenza di questo Consiglio, partendo dai principi enunciati negli artt. 40 e 41 c.p., ha affermato che il rigore del principio della c.d. “equivalenza delle cause” viene temperato nel principio di “causalità efficiente”, di cui all’art. 41 co. 2 c.p.: in base ad esso, l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Tuttavia, questa relazione causale non è sufficiente ai fini della determinazione di una causalità giuridicamente rilevante, poiché occorre attribuire rilievo alle relazioni causali che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale.
Successivamente, all’interno della serie causale così individuata, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili in base ad una valutazione ex ante.
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Il comportamento inerte dell’Amministrazione può, semmai, essere valutato ai fini della risarcibilità del c.d. “danno da mero ritardo”.
Con esso, come è noto, si individuano le fattispecie in cui l’oggettivo dato del superamento del termine legale di conclusione di un procedimento, rappresenta ex se un pregiudizio per l’operatore economico che ne subisce le conseguenze: questa ricostruzione del pregiudizio sofferto, prescinde del tutto dalle valutazioni circa la attribuibilità del bene della vita finale, cui il privato tendeva con la presentazione dell’istanza, alla quale l’Amministrazione non ha dato riscontro (o l’ha fatto con ritardo).
Il fondamento della risarcibilità del danno da mero ritardo risiede “nell’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa” che “sembra -nell’attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo- essere interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione e all’azionabilità di strumenti processuali a carattere propulsivo”.
La cristallizzazione di questa tipologia di danno si è avuta con l’introduzione, da parte del legislatore, dell’art. 2-bis l. n. 241/1990, che disancora il danno da ritardo dalla necessaria dimostrazione della spettanza del bene sostanziale, così attribuendo al tempo il valore di bene di per sé rilevante: al riguardo, anche un recente filone giurisprudenziale -cui il Collegio ritiene di aderire ai fini della definizione della fattispecie de qua- ha ritenuto la valutazione sulla lesione della certezza dei tempi procedimentali indipendente dal giudizio prognostico di spettanza del bene della vita, purché il danno venga effettivamente provato nel suo preciso ammontare.
Il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo non può, infatti, far presumere di per sé la sussistenza di un danno risarcibile, ma il danneggiato deve, ai sensi dell’articolo 2697 cod. civ., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda.

Come è noto, in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, il risarcimento del danno subito non può conseguire in modo automatico dall’annullamento di un atto illegittimo adottato dall’amministrazione: la giurisprudenza, mediante il rinvio al sistema delle presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., è pressoché unanime nel ritenere che l’illegittimità del provvedimento annullato costituisce soltanto uno degli indici presuntivi della colpevolezza dell’amministrazione. In virtù di tale configurazione, qualora si annulli un provvedimento illegittimo, graverà sull’amministrazione l’onere di provare l’assenza di colpa, mediante la deduzione di circostanze integranti gli estremi dell’errore scusabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012 n. 482; sez. V, 06.12.2010, n. 8549; id., 18.11.2010, n. 8091; sez. VI, 27.04.2010, n. 2384; id., 11.01.2010, n. 14; sez. V, 08.09.2008, n. 4242).
Quest’ultimo va configurato qualora si sia in presenza di un contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di una norma, di un fatto altamente complesso o dell’influenza di altri soggetti (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015 n. 1953).
...
In ogni caso, anche prescindendo dall’esame dell’elemento psicologico effettuato dal TAR, devono ritenersi inesatte le conclusioni cui esso è giunto in relazione al nesso di causalità: nella sentenza impugnata, infatti, si è ritenuto che, se non vi fosse stato il ritardo nell’inoltro della pratica concernente la d.i.a. all’autorità di Bacino, sicuramente il sig. Fr. avrebbe avuto accesso alle tariffe incentivante di cui al c.d. “Terzo conto energia”: senza dubbio, cioè, la tempestività dell’azione amministrativa avrebbe consentito all’impianto di entrare in funzione entro il 30.11.2011.
Tale affermazione non risulta, tuttavia, corroborata dall’esame delle circostanze fattuali. Sull’argomento, occorre, innanzitutto richiamare la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, che distingue, come noto, tra causalità materiale e causalità giuridica (Cass. Civ., 31.05.2005, n. 1609; id., 02.02.2001 n. 1516; id., 21.12.2001 n. 16163; id., SS.UU. 26.01.1971 n. 174).
In tema di causalità materiale, la giurisprudenza di questo Consiglio, partendo dai principi enunciati negli artt. 40 e 41 c.p., ha affermato che il rigore del principio della c.d. “equivalenza delle cause” viene temperato nel principio di “causalità efficiente”, di cui all’art. 41 co. 2 c.p.: in base ad esso, l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Tuttavia, questa relazione causale non è sufficiente ai fini della determinazione di una causalità giuridicamente rilevante, poiché occorre attribuire rilievo alle relazioni causali che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale. Successivamente, all’interno della serie causale così individuata, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili in base ad una valutazione ex ante (cfr. Cons. Stato, 28.04.2014 n. 2195).
Alla luce di quanto espresso, il Collegio non ritiene che il ritardo nell’inoltro della pratica all’autorità di Bacino, ai fini del rilascio del relativo parere, sia stata la causa che, nell’ottica descritta, abbia contribuito alla dilatazione dei tempi di conclusione dei lavori dell’intervento sull’area di proprietà del sig. Fr..
...
5. Il comportamento inerte dell’Amministrazione, lungi dal configurare la causa del mancato accesso alle tariffe incentivanti del c.d. “Terzo conto energia” può, semmai, essere valutato ai fini della risarcibilità del c.d. “danno da mero ritardo”.
Con esso, come è noto, si individuano le fattispecie in cui l’oggettivo dato del superamento del termine legale di conclusione di un procedimento, rappresenta ex se un pregiudizio per l’operatore economico che ne subisce le conseguenze: questa ricostruzione del pregiudizio sofferto, prescinde del tutto dalle valutazioni circa la attribuibilità del bene della vita finale, cui il privato tendeva con la presentazione dell’istanza, alla quale l’Amministrazione non ha dato riscontro (o l’ha fatto con ritardo).
Il fondamento della risarcibilità del danno da mero ritardo risiede “nell’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa” che “sembra -nell’attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo- essere interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione e all’azionabilità di strumenti processuali a carattere propulsivo” (Cons. Stato, Sez. IV, ord. 07.03.2005, n. 875).
La cristallizzazione di questa tipologia di danno si è avuta con l’introduzione, da parte del legislatore, dell’art. 2-bis l. n. 241/1990, che disancora il danno da ritardo dalla necessaria dimostrazione della spettanza del bene sostanziale, così attribuendo al tempo il valore di bene di per sé rilevante: al riguardo, anche un recente filone giurisprudenziale -cui il Collegio ritiene di aderire ai fini della definizione della fattispecie de qua- ha ritenuto la valutazione sulla lesione della certezza dei tempi procedimentali indipendente dal giudizio prognostico di spettanza del bene della vita (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 02.09.2013 n. 4344; CGRS, 24.10.2011 n. 684; Cons. Stato, Sez. III, 03.08.2011 n. 4639), purché il danno venga effettivamente provato nel suo preciso ammontare.
Il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo non può, infatti, far presumere di per sé la sussistenza di un danno risarcibile, ma il danneggiato deve, ai sensi dell’articolo 2697 cod. civ., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 10.06.2014, n. 2964).
5.1 Ciò premesso, nel caso in esame, il Collegio ritiene pacificamente dimostrato, dall’esame della situazione in fatto, il ritardo dell’azione amministrativa e che, rispetto al nesso di causalità, la colpevole inerzia, protrattasi oltre i termini ordinari di conclusione del procedimento, non sia in alcun modo scusabile ed abbia cagionato un pregiudizio al sig. Fr.
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2015 n. 3258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Nell’intercapedine del piano non si collocano tubature. Pertinenze. Ma per la Cassazione ogni caso va valutato singolarmente.
Per stabilire a chi appartiene l’intercapedine tra una proprietà e l’altra è necessario, anzitutto, fare riferimento dell’atto di trasferimento della proprietà dell’unità immobiliare, poi al regolamento di condominio e, infine, all’utilità che un condomino può trarre dalla stessa, in base alla sua destinazione strutturale o funzionale.
In un caso sottoposto di recente all’attenzione della Corte di Cassazione, Sez. II civile (sentenza 26.06.2015 n. 13295) un condòmino del primo piano ne aveva citato in giudizio un altro soprastante, accusandolo di aver trasformato il tetto in un lastrico solare, creando, così, una servitù di luce e di veduta oltre ad aver fatto passare nel doppio soffitto (intercapedine) di sua proprietà, i tubi di scarico di cui chiedeva, pertanto, la rimozione.
Il Tribunale respingeva la domanda mentre la Corte d’appello dava ragione al ricorrente e condannava il condòmino del piano di sopra a rimuovere le tubature. Per i giudici il condòmino, per mantenere i tubi, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprietario del «vano tecnico» (cioè intercapedine) –dal momento che l’atto di acquisto nulla diceva a riguardo– o che fosse titolare di un diritto di servitù o che potesse avvalersi dell’usucapione. Ma la dimostrazione non era stata data.
Investita della questione, la Corte di cassazione, per stabilire a chi appartenesse l’intercapedine, ha preliminarmente richiamato l’attenzione sul concetto di pertinenza in base all’articolo 817 del Codice civile: «(...) in una cosa accessoria asservita funzionalmente ed in maniera durevole all’utilità o ad ornamento di un’altra cosa principale ed è caratterizzata da due elementi uno soggettivo e l’altro oggettivo».
Dal punto di vista soggettivo è necessario che la pertinenza sia asservita, per volontà del proprietario della cosa principale, in un rapporto funzionale con quest’ultima ovvero a servizio o ad ornamento della stessa. Ciò premesso, considerato che i titoli di proprietà delle parti non facevano alcun riferimento a tale vano tecnico e che la consulenza tecnica d’ufficio aveva constatato che l’intercapedine in questione aveva la funzione di isolare e proteggere l’appartamento collocato al primo piano, sussisteva effettivamente un rapporto funzionale tra l’intercapedine e l’appartamento.
Solo dopo questa analisi la Corte è riuscita a stabilire che quel vano tecnico (l’intercapedine risultato di una controsoffittatura dell’altezza di m.1,30) aveva la funzione di isolare l’appartamento al piano di sotto e che, pertanto, apparteneva al proprietario di quest’ultimo perché ne traeva il maggior beneficio
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2015).

APPALTI SERVIZIOnlus, ok l'affidamento diretto. Possibile stracciare i prezzi grazie al lavoro dei volontari. Il Consiglio di stato dà applicazione a un principio affermato dalla Corte di giustizia.
La Onlus può ottenere in affidamento diretto la gestione del servizio pubblico laddove grazie al lavoro dei volontari pratica prezzi tanto bassi da risultare «fuori mercato»: non si tratta di un appalto mascherato, e dunque illegittimo, perché conferito senza gara in quanto il profitto imprenditoriale risulta effettivamente escluso mentre la diffusione sul territorio delle associazioni assicura il regolare svolgimento delle attività, consentendo all'amministrazione di centrare l'obiettivo dell'efficienza economica.
Via libera in Liguria, dunque, alle ambulanze gestite da associazioni di volontariato aderenti all'Anpas, Associazione nazionale pubbliche assistenze.

È quanto emerge dalla sentenza 26.06.2015 n. 3208, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di Stato, che dà attuazione alla sentenza pubblicata l'11 dicembre scorso dalla Corte di giustizia europea proprio traendo spunto da questa vicenda.
Solidarietà e cassa
Accolto il ricorso dell'Asl che ha siglato l'intesa con le Onlus e la Croce rossa italiana, destando le ire delle cooperative sociali che non sono in grado di offrire prezzi tanto competitivi. I giudici eurounitari hanno affidato un monito alle autorità italiane: non si possono coprire «le pratiche abusive delle associazioni di volontariato e dei loro membri».
Ma per palazzo Spada nella specie non c'è alcun rischio del genere: l'accordo quadro sottoscritto non può essere qualificato come contratto a titolo oneroso che comporta un ristoro più ampio del rimborso spese, ciò che farebbe scattare la violazione delle regole comunitarie che impongono sempre le gare per gli appalti pubblici.
Il punto è che volontariato e Croce rossa sono presenti sul territorio in modo capillare: così il servizio può essere gestito utilizzando in modo razionale il complesso delle risorse di uomini e di mezzi disponibili, limitando al massimo le distanze da percorrere e i tempi degli interventi, riducendo anche in questo modo i costi.
Insomma: le Onlus sono favorite perché non hanno praticamente costi di manodopera. E non c'è motivo di ritenere che la modalità organizzativa scelta dall'Asl non sia in grado di conseguire gli obiettivi di solidarietà sociale da un lato e contenimento della spesa dall'altro. Spese di giudizio compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015).

EDILIZIA PRIVATA: La finestra diventa balcone? La Scia resiste ai condomini.
Uno dei condomini non può rivolgersi al comune per bloccare l'opera edilizia promossa dall'altro sulla base della Scia. E ciò anche se l'assemblea ha bocciato la proposta avanzata dal singolo proprietario esclusivo di trasformare le finestre in balconi approfittando dei lavori alla facciata dell'edificio: l'amministrazione non può subordinare il rilascio del titolo abilitativo al consenso del confinante laddove si tratta di una questione di diritti reali, e dunque civilistica, che resta estranea alla competenza dell'ente locale.

È quanto emerge dalla sentenza 22.06.2015 n. 1409, pubblicata dal TAR Campania-Salerno, I Sez..
Clausola di salvaguardia. Niente da fare per i condomini che invocavano dal comune misure repressive contro i lavori dei vicini. È vero: nella documentazione presentata all'amministrazione locale si tace che l'assemblea condominiale ha già bocciato la proposta di far diventare veri e propri balconi le finestre dell'edificio che risale a prima della seconda guerra mondiale.
Ma in realtà, osservano i giudici amministrativi, è sbagliata la prassi dei comuni che subordinano l'emissione del titolo abilitativo per l'opera edilizia al consenso dei titolari di diritti reali confinanti ovvero di diritti reali di comunione, tra i quali il condominio: va invero ricordato che l'articolo 11, comma 3, del Testo unico per l'edilizia contiene una clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi.
Ai vicini, dunque, non restano che le spese di giudizio davanti al Tar e rivolgersi al giudice civile (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2015).
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MASSIMA
2. Va preliminarmente rilevata la riconducibilità della controversia alla potestas judicandi del giudice adito, avuto riguardo alla stessa dinamica della controversia innescata dall’esecuzione di interventi edilizi realizzato in virtù di Segnalazione certificata inizio attività e caratterizzata dall’adozione di atti amministrativi, avverso i quali parte ricorrente articola specifiche censure invocandone l’annullamento.
Si osserva invero in giurisprudenza (TAR Napoli, Campania, sez. II, 21.06.2013, n. 3195) che, con l'intervento correttivo al codice del processo amministrativo, attuato con il d.lgs. n. 195 del 2011,
è stato ridefinito l’ambito della giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di S.c.i.a., con la precisazione che appartengono ad essa le controversie relative al silenzio ed ai "provvedimenti espressi" adottati dall'amministrazione su sollecitazione del terzo ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19, l. n. 241 del 1990 (art. 133, comma 1, lett. a, punto 3 c.p.a.).
Dalla chiara formulazione delle prefate disposizioni emerge inequivocabilmente che
la tutela del terzo deve essere necessariamente mediata dalla presentazione di un'istanza dell’interessato all’amministrazione, diretta a sollecitare l’esercizio dei poteri dei quali quest’ultima è attributaria: tale istanza, infatti, costituisce il presupposto per esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. nell’ipotesi di inerzia ovvero l’azione di annullamento, nell’ipotesi in cui l’amministrazione si sia determinata con il provvedimento espresso, lesivo dei propri interessi.
La suddetta disposizione normativa ha di fatto determinato il superamento, quanto meno parziale, delle conclusioni cui era giunta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 2011: detta ultima disciplina legislativa ha previsto che la tutela della posizione giuridica soggettiva del terzo, a seguito del deposito di una d.i.a. (ora S.c.i.a.) ritenuta lesiva, debba comportare l’esperimento "in via esclusiva", dell'azione in materia di silenzio e di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, d.lgs. 02.07.2010 n. 104, determinando il venir meno del dibattito giurisprudenziale e dottrinario diretto a rilevare se, a seguito del decorso del termine per l'esercizio del potere inibitorio, si produceva un atto tacito o, al contrario, se risultava in essere un titolo idoneo a legittimare l’esercizio di un’attività privata e determinando, nel concreto, il superamento delle conclusioni cui era giunta l'Adunanza Plenaria sopra citata e, ciò, per quanto attiene l’ammissibilità, rispettivamente, sia dell’azione di annullamento (nell’ipotesi in cui fosse spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio) sia, nel contempo dell’azione di accertamento nell’eventualità in cui il termine di cui sopra non sia ancora spirato.
La vicenda in esame rientra quindi senz’altro nella sfera giurisdizionale del giudice adito, trovando riferimento in una specifica previsione normativa che pertiene all’esercizio dei poteri giurisdizionali del giudice amministrativo. Deve tuttavia rilevarsi che il sindacato di questo giudice non può spingersi fino alla verifica circa l’effettiva necessità dell’assenso condominiale alla luce delle caratteristiche dell’intervento realizzato.
Sotto tal profilo, invero, è in gioco la violazione delle norme dettate dal Codice Civile circa l'uso delle parti comuni e pertanto si tratta di censure che investono la violazione di diritti soggettivi e pertanto interessano profili -tutela delle parti comuni- che riguardano il diritto di proprietà del Condominio e dei singoli proprietari sulle aree comuni.
Il sindacato di questo Giudice non può non arrestarsi cioè innanzi a questioni che riflettono conflitti interprivati, che, in quanto tali, non possono che essere affidati alla cognizione del giudice ordinario (v., di recente, TAR Venezia, Veneto, sez. II, 14.02.2014, n. 199).
3. Il ricorso n. 2304/2013 è infondato.
3.1. La questione agitata con tale gravame consiste nella rilevanza dell’autorizzazione condominiale ai fini della legittimità della Scia consolidatasi attraverso l’iniziativa dei controinteressati. La risposta al quesito non può che essere negativa.
Si afferma, infatti, in giurisprudenza, che “
deve assolutamente censurarsi quella prassi amministrativa che subordina il rilascio di titoli edilizi abilitativi al consenso dei titolari di diritti reali confinanti ovvero di diritti reali di comunione —tra cui il condominio— e finanche di diritti personali di godimento; invero, i rapporti tra l'istante e i vicini, siano essi titolari di diritti reali individuali ovvero in comunione, hanno natura e rilevanza privatistica e non devono interessare l'amministrazione locale anche perché vi è comunque la clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi prevista dall'art. 11, comma 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380; è pertanto illegittimo il provvedimento con cui si rifiuta l'adozione di un atto amministrativo abilitativo —sia esso costituito da una concessione edilizia ovvero da una Dia— in assenza di un atto di consenso di natura privatistica ed attinente ai rapporti di diritto privato tra le parti, non previsto e non richiesto dalla legge” (cfr. TAR Latina, Lazio, sez. I, 09.12.2010, n. 1949).
Così pure si afferma che “
Ove la realizzazione di opere in attuazione di una d.i.a. interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione in sede di esame della denuncia medesima e, di conseguenza, risulta illegittima la sospensione della d.i.a. motivata dal mancato intervento di una autorizzazione condominiale in ordine ai lavori edilizi” (cfr. TAR Venezia, Veneto, sez. II, 02.07.2007, n. 2139).
Anche il Supremo Consesso di G.A. si è espresso in tal senso, osservando quanto segue: “
Come questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare, è facoltà del singolo condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio, siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (Cons. Stato, sez. Consiglio Stato , sez. V, 09.11.1998, n. 1583). Va inoltre osservato che ove la realizzazione di opere in attuazione di una d.i.a. interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione (TAR Veneto, sez. II, 02.07.2007, n. 2139)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
Le osservazioni dell’autorevole Collegio, riferite ad una d.i.a. edilizia, non possono non riferirsi anche alla s.c.i.a., avuto riguardo alla sostanziale assimilazione tra i due moduli di liberalizzazione dell’attività privata (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3408).
E’ quindi da escludere, per tali ragioni, che residui un potere di autotutela in capo all’Amministrazione, pur non interdetto dalla particolare natura dell’assenso edilizio, una volta venuta a conoscenza della mancanza dell’autorizzazione condominiale, a prescindere dalla verifica circa la sua effettiva necessità. Peraltro, come evidenziato dalla difesa comunale, il fabbricato in oggetto non risulta sottoposto ad alcuna disposizione vincolistica e nemmeno è collocato in zona omogenea A del vigente Piano Urbanistico Comunale, bensì in zona omogenea B.
Tanto è sufficiente per la reiezione del ricorso in esame.

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio intende prendere le mosse dal testo dell’art. 19 della L. 241/1990, il quale testualmente dispone che l’amministrazione deve procedere alla verifica dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge.
La norma, riferita al caso in esame, sta a significare che il Comune doveva controllare che i locali, dove s’intende esercitare l’attività commerciale di ristorazione, siano, dal punto di vista edilizio, conformi a legge, giacché tale conformità si pone come un presupposto indispensabile per consentire lo svolgimento legittimo di un’attività che, per sua natura, coinvolge il pubblico.

Il Collegio intende prendere le mosse dal testo dell’art. 19 della L. 241/1990, il quale testualmente dispone che l’amministrazione deve procedere alla verifica dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge.
La norma, riferita al caso in esame, sta a significare che il Comune doveva controllare che i locali, dove s’intende esercitare l’attività commerciale di ristorazione, siano, dal punto di vista edilizio, conformi a legge, giacché tale conformità si pone come un presupposto indispensabile per consentire lo svolgimento legittimo di un’attività che, per sua natura, coinvolge il pubblico.
E giacché la conformità a legge dei locali costituisce un necessario presupposto, la cui assenza impedisce lo svolgimento dell’attività commerciale considerata, tale profilo della vicenda risulta assorbente e va considerato per primo.
Dagli atti di causa risulta che la società ricorrente ha realizzato una struttura in legno, con la quale ha coperto il terrazzo, modificando la sagoma dell’edificio. Le opere realizzate sono visibili dalla strada. In tale modo, come esattamente osserva il Comune nella sua memoria, si è realizzato un primo piano, con superficie di non meno di 58 mq circa, a destinazione commerciale, qual è quella della ristorazione.
Un siffatto intervento esula dalla previsione dell’art. 20 della L.R. 4/2003, che ribadisce al comma 6 che la realizzazione di verande non può comportare una variazione della destinazione d’uso della superficie modificata, la quale, comunque non può eccedere i 50 mq.. La tesi della società ricorrente secondo cui il comma 7 della norma citata prevede un diverso limite di 60 mq per gli edifici adibiti esclusivamente ad attività commerciali, non ha pregio, giacché ciò è consentito nel caso che vengano realizzate opere per l’adeguamento degli edifici a sopravvenute norme di sicurezza e/o igienico sanitarie, con l’avvertenza che le opere realizzate con tale finalità possono essere regolarizzate previa richiesta di autorizzazione.
Il Collegio rileva, quindi, che le diverse tesi della società ricorrente non possono essere condivise e il motivo di ricorso va rigettato.
Nel provvedimento comunale impugnato si legge che l’accessibilità al solaio di copertura, servito da una scala a chiocciola interna al locale del piano terra, non risulta conforme al D.M. 236 del 14.06.1989 artt. 4 e 8. Il primo giudice ha ritenuto tale motivazione del provvedimento impugnato immune da vizi, ritenendo del tutto irrilevante che la medesima scala fosse stata ritenuta idonea ad un uso privato, “quando il terrazzo non risultava occupato da iniziative commerciali”.
La ricorrente non rivolge a questo punto della sentenza nessuna censura sostanziale, ma piuttosto lamenta che “il Comune ha affermato l’esistenza di due ragioni di diniego della SCIA, che non aveva incluso fra i motivi ostativi nell’avviso di avvio del procedimento, senza quindi consentire alla ricorrente di presentare le proprie osservazioni, frustrando la finalità partecipativa della norma”.
Il Collegio ritiene di condividere quanto affermato dal primo giudice. L’art. 4 del citato decreto 236/1989 prevede espressamente una serie di requisiti che debbono avere le scale degli edifici aperti al pubblico, requisiti che la scala chiocciola non sembra avere né la ricorrente dice che li abbia. Non si vede, quindi, quali osservazioni essa avrebbe potuto presentare al Comune, che si è limitato a richiamare una precisa norma, che non lascia spazio a valutazioni discrezionali.
Conclusivamente il ricorso va dichiarato infondato e come tale va respinto con assorbimento di ogni altro motivo (C.G.A.R.S., sentenza 18.06.2015 n. 446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIServizio smaltimento tassato. Pagamento della Tari anche senza effettiva utilizzazione. RIFIUTI/ Secondo la Cassazione il tributo è dovuto per la detenzione di locali e aree.
È sufficiente che il servizio di smaltimento rifiuti sia istituito per imporre ai contribuenti il pagamento della tassa. Quindi, il tributo è dovuto per la detenzione di locali e aree e non per il fatto che venga utilizzato il servizio fornito dall'ente.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 10.06.2015 n. 12035.
La stessa regola vale oggi per la Tari, considerato che anche la nuova disciplina non collega il pagamento alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento rifiuti. È stata, infatti, ritenuta infondata la pronuncia della commissione regionale che aveva escluso il pagamento poiché la contribuente aveva documentato di non aver potuto fruire del servizio pubblico per la mancanza di collegamento stradale tra la sua abitazione e il punto di raccolta dei rifiuti.
Per i giudici di legittimità non si può condizionare l'obbligo tributario alla materiale fruizione del servizio, in quanto i criteri di ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono collegati al suo concreto utilizzo, ma si basano su indici presuntivi.
Del resto, la ragione istitutiva della tassa è quella di porre le amministrazioni locali nelle condizioni di soddisfare interessi generali della collettività e non di fornire delle prestazioni riferibili ai singoli cittadini.
Addirittura, ex lege anche il mancato svolgimento del servizio di raccolta da parte del comune non comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura ridotta.
In realtà l'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre, se il servizio era effettuato in grave violazione delle prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana.
Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di collocazione dei contenitori.
È il contribuente che deve dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente della riduzione della tassa. E le stesse regole valgono oggi per la Tari.
I commi 656 e 657 della legge di stabilità 2014 (147/2013) prevedono che il tributo è dovuto nella misura del 20% in caso di mancato svolgimento del servizio e in misura non superiore al 40% nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, da graduare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta.
L'orientamento della giurisprudenza. La tassa rifiuti, dunque, si paga anche quando il contribuente non si avvale del servizio svolto dall'amministrazione comunale. La Cassazione (sentenza 17381/2010) anche in passato ha sostenuto che una banca che rifiutava il servizio e smaltiva i rifiuti in proprio non fosse esonerata dal pagamento della Tarsu e non avesse diritto ad alcuna riduzione tariffaria. Per i giudici di piazza Cavour, lo smaltimento effettuato a cura e spese del contribuente non determina né l'esclusione dal pagamento della tassa né dà diritto a una riduzione della somma dovuta.
I comuni esercitano in regime di privativa la raccolta e la gestione dei rifiuti solidi urbani e di quelli assimilati e per la prestazione del servizio grava sui cittadini l'obbligo del pagamento del tributo, indipendentemente dal fatto che essi si avvalgano del servizio, purché ne abbiano la possibilità. Con la sentenza 6312/2005 ha precisato che per il sorgere dell'obbligo fiscale non è sufficiente la mera ubicazione dell'immobile nel perimetro in cui è istituito il servizio, ma è indispensabile che il cittadino residente abbia la possibilità di utilizzarlo.
Le regole del tributo. Sia per la Tarsu che per la Tari, ancora oggi, il presupposto della tassa è l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti.
Non sono soggetti a imposizione i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, sempre che queste circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono. Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria.
La sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da parte dell'amministrazione.
Sono sottratti all'imposizione solo i locali e le aree che sono oggettivamente inutilizzabili o insuscettibili di produrre rifiuti, e non quelli lasciati in concreto inutilizzati. Pertanto, anche la scelta soggettiva del titolare di non usare l'immobile non assume alcuna rilevanza. Sempre La Cassazione ha ripetutamente ribadito che anche gli immobili vuoti, vale a dire privi di allacci alle reti idriche, elettriche, o di mobili, sono soggetti al prelievo.
Le amministrazioni comunali per poter applicare la tassa sono tenute ad adottare un regolamento che deve contenere non solo la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso.
Nell'ambito del potere regolamentare possono essere individuate anche le fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza. È riconosciuta all'ente la facoltà di prevedere, con apposita disposizione del regolamento, speciali agevolazioni, sotto forma di riduzioni e, in via eccezionale, di esenzioni dal tributo.
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Strade private conteggiate nel calcolo della distanza.
La tassa rifiuti deve essere commisurata alla effettiva distanza tra ciascuna abitazione e il punto di raccolta e nel calcolo devono essere considerate anche le strade private o interpoderali.
In questo senso si è espressa in passato la Commissione tributaria regionale di Roma, sezione XXXVIII, con la sentenza 65/2005, che ha ritenuto infondata la tesi del comune di Palestrina, secondo cui la riduzione della tassa può trovare applicazione solo nel caso in cui il cassonetto sia collocato su suolo pubblico diverso e distinto dalla strada privata che conduce all'abitazione.
La questione è di attualità ancora oggi per la Tari.
Nel caso in esame, il comune aveva richiesto al contribuente un maggior tributo elevando la tariffa al 100%. La richiesta era motivata dal fatto che l'abitazione del contribuente era sita vicina a un cassonetto e, quindi, non gli spettava la riduzione.
Nel calcolo della distanza tra l'abitazione del contribuente e il cassonetto, però, non si era tenuto conto delle strade private o interpoderali. Il giudice di primo grado, invece, ha accolto il ricorso del contribuente, in quanto la tassa deve essere commisurata alla effettiva distanza tra ciascuna abitazione e il punto di raccolta.
Come già rilevato, nelle zone in cui non è effettuata la raccolta in regime di privativa dei rifiuti solidi urbani interni ed equiparati, la tassa è dovuta in misura non superiore al 40% della tariffa da determinare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita. Gli occupanti o detentori degli insediamenti situati fuori dell'area di raccolta sono comunque tenuti a utilizzare il servizio pubblico di nettezza urbana e devono conferire i rifiuti nei contenitori viciniori.
In questo caso è irrilevante ai fini della tassazione che il contribuente provveda direttamente e a proprie spese allo smaltimento dei rifiuti che ha prodotto, se l'amministrazione ha istituito il servizio pubblico di raccolta (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015).

URBANISTICAL’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, della c.d. lottizzazione abusiva “
sostanziale” o “materiale” o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione di opere edilizie finalizzate alla trasformazione urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in violazione della normativa vigente nella zona, realizzando quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto della funzione pianificatoria dei Comuni”.
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con la destinazione programmata del territorio comunale”.
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in considerazione nel caso di specie, posto che le opere di allacciamento che la ricorrente intende realizzare riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del Parco naturale regionale e classificate dallo strumento urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...) integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di modeste dimensioni”.
Peraltro, la giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle opere di urbanizzazione”.
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Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i summenzionati principi giurisprudenziali, l’operato del Comune risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria ad esso relativa.
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Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la lottizzazione abusiva si configura attraverso la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di opere autorizzate.

10.2 Parimenti esente dalle censure allegate dalla ricorrente è la valutazione compiuta dal Comune, il quale ha ritenuto che la realizzazione di allacciamenti alle reti idrica e fognaria dei fabbricati dismessi avrebbe dato luogo a una lottizzazione abusiva.
Al riguardo, giova tenere presente che l’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o materiale” o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione di opere edilizie finalizzate alla trasformazione urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in violazione della normativa vigente nella zona, realizzando quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto della funzione pianificatoria dei Comuni” (così, tra le ultime, TAR Toscana, Sez. III, 30.03.2015, n. 509; si tratta di principio pacifico nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: cfr, ex multis, Cass. pen., Sez. III, n. 38733 del 2012).
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con la destinazione programmata del territorio comunale” (Cass. pen., Sez. III, n. 38733 del 2012).
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in considerazione nel caso di specie, posto che le opere di allacciamento che la ricorrente intende realizzare riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del Parco naturale regionale e classificate dallo strumento urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...) integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di modeste dimensioni” (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004, n. 20373; Id. 09.01.2013, n. 5870).
Peraltro, la giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle opere di urbanizzazione” (Cass. pen., Sez. III, n. 27705 del 2011; Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2001, n. 790).
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i summenzionati principi giurisprudenziali, che il Collegio pienamente condivide, l’operato del Comune di Montevecchia risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria ad esso relativa.
La censura va quindi respinta.
10.3 Anche il riferimento, operato dalla ricorrente, alla previsione dell’articolo 38, comma 1, delle NTA del PTC del Parco naturale, vigente all’epoca del ricorso, non coglie nel segno.
La suddetta disposizione, concernente le “Reti di distribuzioni, impianti e infrastrutture” subordina al previo espletamento delle procedure di cui all’articolo 14 delle stesse NTA (concernente la “dichiarazione di compatibilità ambientale”), gli interventi aventi ad oggetto “L’utilizzazione o l’attraversamento di terreni interessati dal presente P.T.C. per la posa di linee e reti di servizi pubblici, elettrodotti, oleodotti, gasdotti e simili, fatti salvi gli allacciamenti alle singole utenze delle relative centraline o cabine, nonché lo sviluppo, il potenziamento, la modificazione di ubicazione o percorso di quelli esistenti”.
Secondo la ricorrente, gli allacciamenti richiesti rientrerebbero nella prevista esenzione dalle procedure di compatibilità ambientale e, quindi, anche sotto tale profilo il permesso sarebbe stato negato illegittimamente dal Comune.
Al riguardo –in disparte ogni altra considerazione– è sufficiente rilevare che la nota comunale impugnata non si pone in contrasto con la suddetta disposizione del PTC, in quanto è volta unicamente a evidenziare che, di fatto, la realizzazione degli allacciamenti darebbe luogo a una lottizzazione abusiva.
Si tratta di affermazione corretta, poiché il risultato –illecito– della realizzazione di una lottizzazione abusiva ben può essere conseguito anche attraverso attività che, considerate in sé, prescindendo dalla loro correlazione e dal contesto fattuale, siano da ritenere consentite, e siano state finanche autorizzate dalle amministrazioni competenti.
E invero, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la lottizzazione abusiva si configura attraverso la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di opere autorizzate (Cass. pen., Sez. III, 26.06.2009, n. 26586; v. anche Id., 24.09.2013, n. 41479) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.06.2015 n. 1312  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Imposta pubblicità per le grandi scritte.
Le scritte di grossa dimensione riportanti la denominazione della società, sulle facciate del palazzo o capannone ove ha sede l'azienda, sono soggette all'imposta comunale sulla pubblicità, nel caso in cui la dimensione ecceda il limite di 5mq; nel calcolo del limite, va considerata la superficie complessiva, dacché lo stesso risulta superato anche quando via siano una pluralità di scritte, le cui dimensioni vanno considerate in modo cumulativo.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 19.05.2015 n. 2151/66/15 della Ctr della Lombardia.
Il giudice della sezione staccata di Brescia ha rigettato l'appello proposto da una società per azioni, risultata già soccombente nel giudizio di prime cure. La vertenza nasceva dall'impugnazione di un avviso di accertamento emesso da una società operante come concessionaria per il Comune di Brescia, in relazione all'accertamento e alla riscossione della imposta comunale sulla pubblicità.
Secondo l'ente impositore, doveva essere applicata l'imposta sulle scritte riportanti il nome della società apposte sulla facciata del palazzo in cui era ubicata la sede sociale, di grandi dimensioni che, cumulativamente considerate, si estendevano per ben 568 mq. La contribuente riteneva che tali scritte non rappresentassero alcun messaggio pubblicitario, raffigurando meramente il logo aziendale e la denominazione e non integrando i requisiti di cui all'art. 5 dlgs 507/1993.
Il collegio bresciano ha dato ritenuto legittima la richiesta dell'imposta, riconducendo la questione nell'alveo della fattispecie della «insegna di esercizio». Secondo la Ctr, tali scritte possono considerarsi a pieno titolo come un'insegna di esercizio che, appunto, è la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli o marchi, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa, con la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica stessa.
In base all'art. 17, comma 1-bis, dlgs 507/93, «l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati». Con la conseguenza che, qualora detto limite venga superato, l'imposta è pienamente dovuta. Anche nei casi come quello di specie, ove vengono apposte una pluralità di scritte, il calcolo va ragguagliato alla superficie complessiva, da ottenersi cumulando le superfici delle varie insegne.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La Commissione osserva come la vertenza in esame possa essere ricondotta più propriamente nell'alveo della fattispecie della «insegna d'esercizio».
Infatti, l'art. 2-bis, comma 7, della legge 24.04.2002 n. 75 (normativa che ha precisato le modalità dia applicazione dell'esenzione dal pagamento dell'imposta e del canone prevista per le insegne d'esercizio) definisce «insegna d'esercizio» la scritta di cui all'art. 47 del Regolamento di esecuzione del nuovo Codice della Strada, approvato con il dpr 16.12.1992, n. 495, vale a dire: «la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli o da marchi. Realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa», precisando inoltre, come detta scritta deve avere «la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività economica».
L'art. 10 della legge n. 448/2001 (Legge finanziaria per il 2002) ha introdotto il comma 1-bis nell'art. 17 del dlgs N. 507/1993 che prevede una disciplina a favore delle insegne le cui dimensioni non superino i cinque metri, escludendo per le medesime il pagamento dell'imposta sulla pubblicità.
[omissis]
Ciò significa che se, ad esempio, l'unica insegna esposta per individuare sede di svolgimento di attività economica ha una superficie di 10 metri quadrati, il titolare del mezzo pubblicitario deve pagare il tributo o il canone commisurandolo a detta superficie.
Il suddetto meccanismo di commisurazione della superficie assoggettabile a tributo o a canone trova applicazione anche nel caso in cui siano esposte una pluralità di insegne di esercizio. Ciò si desume dal comma 6 dell'art. 2-bis che dispone espressamente come: in caso di pluralità di insegne l'esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1 e cioè per la superficie complessiva non superiore a cinque metri quadrati.
Nel caso di specie, la scritta..., ripetuta più volte sui muri perimetrali della sede principale della società spa, indipendentemente dal tratto grafico che la caratterizza, rappresenta a tutti gli effetti una insegna di esercizio, o per meglio dire una pluralità di insegne di esercizio assoggettate all'imposta sulla pubblicità (articolo ItaliaOggi Sette del 31.08.2015 - tratto da www.fiscooggi.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Scade il d-day. Ma il consiglio resta in piedi. Sentenza del Tar Campania sull'approvazione del rendiconto della gestione.
È escluso lo scioglimento del Comune anche se il Consiglio prima di approvare la delibera con il rendiconto di gestione ha lasciato scadere non soltanto il d-day fissato dalla legge ma anche i 20 giorni prescritti dalla diffida a provvedere notificatagli dal prefetto. E ciò perché sia il termine fissato dal testo unico degli enti locali sia quello indicato dall'ufficio territoriale del governo hanno natura ordinatoria e non perentoria: se l'assemblea sfora i tempi, quindi, l'iter per il commissariamento dell'ente non scatta comunque.

È quanto emerge dalla sentenza 25.03.2015 n. 1785, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Funzione e accelerazione. Inutile affannarsi con maratone notturne in aula per approvare il rendiconto di gestione. In un Comune del Sannio al 30.06.2014 c'è solo lo schema del rendiconto approvato dalla Giunta (per l'annualità 2013 la scadenza di fine aprile era stata posticipata).
Il 3 luglio un decreto della prefettura diffida il Consiglio ad approvare il documento contabile entro venti giorni, altrimenti sarebbe scattata la procedura con cui l'ufficio del governo si sostituisce all'ente locale: la notifica del provvedimento a tutti i consiglieri si perfeziona soltanto l'8 luglio e dunque il termine spira inutilmente il 28, mentre il Consiglio riesce a votare la delibera il 31 dopo il deposito di tutta la documentazione.
L'opposizione impugna il silenzio-rifiuto della prefettura, che tuttavia risulta legittimo. La difesa nota che sarebbe del tutto illogico indicare un ulteriore termine ordinatorio oltre a quello fissato dall'articolo 227 Tuel.
In realtà, scrivono i giudici, con l'inerzia del Consiglio entra in scena l'ufficio del Governo che ha una funzione «sollecitatoria»: il testo unico degli enti locali non parla di approvazione «entro e non oltre», mentre l'intervento sostitutivo del prefetto è esigibile fintanto che non sia intervenuta la delibera di Consiglio di approvazione del rendiconto, anche oltre il termine assegnato nella diffida della stesso Utg; lo scioglimento, insomma, scatta solo per gli inadempienti. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 28.08.2015).
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MASSIMA
Considerato che:
- i ricorrenti, nel lamentare l’illegittimità del silenzio rifiuto serbato dalla Prefettura di Benevento, sostengono la doverosità dell’intervento sostitutivo prefettizio, avendo l’amministrazione comunale di Paolisi, sebbene intervenuta con formale delibera consiliare, sforato il termine perentorio del 28.07.2014 assegnato per l’approvazione del rendiconto;
- i medesimi deducono, al riguardo, che la perentorietà del termine indicato nella diffida prefettizia poggia sui seguenti argomenti:
   a) “sarebbe del tutto illogica la scelta del legislatore di indicare un ulteriore termine ordinatorio successivamente a quello del 30 aprile fissato dall’art. 227 TUEL (in questo caso eccezionalmente differito al 30/03/2014)”;
   b) la sanzione prevista in caso di violazione del termine assegnato dalla Prefettura per l’approvazione del rendiconto, consistente nell’attivazione dell’intervento sostitutivo, non si addice all’inosservanza di un termine ordinatorio, la quale comunque non comporta effetti sfavorevoli per l’interessato;
   c) la prassi seguita dal Ministero dell’Interno collega lo scioglimento del Consiglio Comunale al semplice spirare del termine assegnato dalla Prefettura, indipendentemente dalla successiva approvazione consiliare del rendiconto (cfr. documentazione in atti: decreto del Prefetto di Caserta del 30.05.2013 relativo al Comune di Alife; decreti del Presidente della Repubblica del 12.07.2013, del 22.08.2013 e del 23.01.2014, rispettivamente di scioglimento dei Comuni di Bernalda, Gubbio e Casalduni; parere del Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali dell’08.08.2014);
- la tesi attorea non convince, dovendosi viceversa ritenere che l’intervento sostitutivo prefettizio è esigibile fintanto che non sia intervenuta la delibera di Consiglio Comunale di approvazione del rendiconto di gestione, anche oltre il termine (non superiore a venti giorni) assegnato nella previa diffida della stessa autorità prefettizia;
- infatti,
tutta la procedura prevista nell’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 è essenzialmente finalizzata a sollecitare l’approvazione del bilancio e del rendiconto di gestione da parte del competente organo consiliare, ponendosi l’intervento sostitutivo come estrema misura sanzionatoria una volta constatato che, nonostante l’ulteriore termine appositamente assegnato dall’autorità prefettizia, l’organo consiliare sia comunque rimasto inattivo non provvedendo in merito: ne discende che deve propendersi per la natura ordinatoria-acceleratoria sia del termine di legge per l’approvazione del bilancio e del rendiconto, sia del termine ultimo fissato su iniziativa dell’autorità prefettizia;
- in altre parole,
l’inosservanza del termine di legge per l’approvazione ad opera del Consiglio Comunale del rendiconto di gestione non ha come conseguenza automatica lo scioglimento dello stesso, ma comporta l’apertura di un procedimento sollecitatorio, caratterizzato dall’assegnazione di un ulteriore termine acceleratorio, che può anche condurre all’adozione della grave misura dello scioglimento, ma solo a seguito della constatata inadempienza all’intimazione puntuale ed ultimativa dell’autorità prefettizia, che attesti l’impossibilità o la riottosità del Consiglio a procedere all’approvazione del documento contabile anche oltre il termine assegnato (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, Sez. V, 19.02.2007 n. 826);
- peraltro, la pretesa perentorietà del termine assegnato dall’autorità prefettizia è contraddetta anche dalle seguenti osservazioni:
   i) l’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 non qualifica tale termine come perentorio né utilizza espressioni equivalenti –quali “entro e non oltre” o “assolutamente entro”, o ancora “inderogabilmente entro”– da cui si possa arguire una possibile perentorietà;
   ii) la disposizione in commento è ispirata da una pervasiva logica sollecitatoria, tesa a consentire fino all’ultimo la libera espressione ed il mantenimento dell’assemblea scelta dal corpo elettorale;
   iii) la medesima non attribuisce, al commissario prefettizio nominato in sostituzione dell’amministrazione inadempiente, poteri straordinari di annullamento della delibera consiliare di approvazione del rendiconto emanata fuori termine;
- infine, quanto alle specifiche argomentazioni attoree, vale controdedurre in via dirimente quanto segue (secondo l’ordine di esposizione di cui sopra):
   aa) la logica sollecitatoria cui si è fatto cenno rende perfettamente ragionevole la giustapposizione di un termine ordinatorio fissato autoritativamente al termine ordinatorio previsto dalla legge;
   bb) anche l’inosservanza di termini ordinatori, pur non comportando decadenze e preclusioni, può determinare l’attivazione di meccanismi sanzionatori tesi a ripristinare, come nel caso di specie, la corretta funzionalità di organi e procedimenti;
   cc) a differenza di quanto addotto dai ricorrenti, tutta la documentazione sopra menzionata dà conto che la prassi del Ministero dell’Interno si è attestata sulla linea di connettere lo scioglimento dei Consigli Comunali all’effettivo accertamento che, una volta spirato il termine assegnato dalla Prefettura, non fosse ancora intervenuta l’approvazione consiliare del rendiconto.

ESPROPRIAZIONE: NATURA DI ILLECITO COMUNE DELL’OCCUPAZIONE USURPATIVA, CONSEGUENZE E RIMEDI PER IL PRIVATO.
In mancanza di dichiarazione di p.u., l’attività manipolatrice di un immobile che ne comporta l’inserimento in un nuovo inscindibile contesto, mediante occupazione e trasformazione irreversibile del fondo privato per la costruzione di un’opera pubblica, costituisce illecito comune di per sé inidoneo ad attrarre il bene privato nella disciplina giuridica dei beni pubblici e a giustificare il sacrificio del diritto dominicale del privato, il quale può esperire le azioni reipersecutorie e restitutorie a tutela della non perduta proprietà del bene.
In tema di occupazione usurpativa -nell’ipotesi di ricorso da parte del proprietario del bene illecitamente occupato alla tutela reale, mediante azione di restituzione, ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino- non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058, comma 2, c.c., né può farsi ricorso alla previsione dell’art. 2933, comma 2, c.c., ove non risulti che la distruzione della res indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia al contrario, riflessi di natura individuale o locale.
Un privato convenne al Tribunale civile un Comune e, premesso di essere proprietario d’una vasta estensione di terreno su parte del quale il convenuto aveva costruito un impianto di depurazione e relativa strada di accesso, previa occupazione d’urgenza del fondo (con due delibere del 1987 seguite da immissione in possesso) ma senza adozione del decreto definitivo di esproprio, chiedeva che l’ente fosse condannato a restituire il fondo o, in via subordinata, a risarcire il danno derivato dall’irreversibile trasformazione del bene.
Il Tribunale, ritenuto anche alla data di scadenza dell’autorizzata occupazione temporanea quinquennale si era verificata l’occupazione appropriativa del terreno (non edificabile), irreversibilmente trasformato tramite la realizzazione delle previste opere pubbliche, e ciò integrava illecito istantaneo con effetti permanenti, respingeva l’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune e lo condannava al risarcimento dei danni subiti dalla parte attrice per la perdita della proprietà del bene acquisita a titolo originario dal Comune, liquidati, per la assenza di una valida dichiarazione di P.U., in base al valore venale del fondo occupato ed appreso.
La sentenza del Tribunale era in via principale dal Comune e in via incidentale dal privato.
La Corte di appello accoglieva parzialmente entrambi i gravami e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, qualificava come usurpativa l’occupazione di una porzione (pari a 2295 mq) del terreno di proprietà dell’attore e determinava il dovuto a titolo di risarcimento danni per la perdita della proprietà dei terreno, oltre a interessi legali e oltre, per l’occupazione illegittima del terreno, a interessi legali sull’importo rivalutato annualmente per il quinquennio di lecita occupazione, nonché gli interessi legali su quanto risultante dal 1987, anno di immissione in possesso, al saldo.
La Corte, per quanto qui rilevi, osservò che poiché la declaratoria implicita di P.U. non era stata corredata dei termini per l’inizio e la fine dei lavori e delle espropriazioni prescritta dall’art. 13 della L. 25.06.1865, n. 2359, il comportamento della p.a. integrava un’occupazione cd. usurpativa (e non espropriativa), costituente illecito a carattere permanente, rispetto al quale l’acquisizione del diritto dominicale da parte dell’ente pubblico non conseguiva automaticamente all’irreversibile trasformazione del bene privato ma dipendeva dalla scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto di proprietà, avesse optato per una tutela risarcitoria piuttosto che per la restituzione del bene in questione.
Ancora, osservava la Corte territoriale che in linea generale nel caso in esame al privato danneggiato spettava la tutela reipersecutoria e, quindi, la reintegrazione in forma specifica. Peraltro tale essa trovava ostacolo nella eccessiva onerosità della reintegrazione in forma specifica (art. 2058, comma 2, c.c.) ovvero nel pregiudizio che si sarebbe arrecato mediante la distruzione dell’opera all’economia nazionale (art. 2933, comma 2, c.c.). Per il che era da optarsi per l’integrale risarcimento del danno con abbandono definitivo del bene da parte del privato.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto dai privati, al quale si contrappone in via incidentale il Comune.
La Suprema Corte accoglie il ricorso principale, con riguardo al primo motivo e dichiara assorbiti i rimanenti, con declaratoria d’inammissibilità del ricorso incidentale. Illegittimo si rivela, ad avviso della Corte di legittimità, il diniego di restituzione del terreno espresso dai Giudici d’appello nonostante l’accertata e non più controvertibile qualificazione della vicenda in termini d’illecito comune da occupazione usurpativa.
Sul punto, si richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale, che su questo controverso tema ha affermato come in mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, la quale è necessaria per attribuire all’attività manipolatrice dell’immobile altrui un vincolo di scopo in vista del trasferimento coattivo del medesimo mediante espropriazione, la mera attività manipolatrice di tale immobile che ne comporta l’inserimento in un nuovo ed inscindibile contesto, come nella specie è avvenuto, (occupazione e trasformazione irreversibile di un fondo di proprietà privata per la costruzione di un impianto di depurazione con relativa strada di accesso) costituisce illecito comune, inidoneo ad attrarre il fondo privato nella disciplina giuridica dei beni “pubblici” ed a giustificare il sacrificio del diritto dominicale del privato, il quale può esperire le azioni reipersecutorie e restitutorie a tutela della non perduta proprietà del bene (Cass. n. 18239/2005; n. 26214/2008; nn. 4207 e 1080/2012; n. 1804 e 5302/2013; nn. 5724 e 7403/2014; adde, in tema, SS.UU. ord., n. 441/2014).
Importante, poi, è la qui presente affermazione per la quale -in tema di occupazione usurpativa- nell’ipotesi di ricorso da parte del proprietario del bene illecitamente occupato, alla tutela reale, mediante azione di restituzione, ancorché accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058 c.c., comma 2; né può farsi ricorso alla previsione dell’art. 2933 c.c., comma 2, ove non risulti che la distruzione della “res” indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia al contrario, riflessi di natura individuale o locale (Cass., SS.UU. n. 1907/1997; Cass. n. 14609/2012) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 12.02.2015 n. 2819 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: DISTINTE NOZIONI DI “RICOSTRUZIONE” FRA T.U. DELL’EDILIZIA, CODICE CIVILE E CODICE DELLA STRADA.
L’art. 18, comma 1, C.d.S., prevedendo che nei centri abitati le fasce di rispetto a tutela delle strade, misurate dal confine stradale, per le nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti non possono avere dimensioni inferiori a quelle indicate nel regolamento, fa riferimento non soltanto alle nuove costruzioni, ma a qualsiasi ipotesi di ricostruzione, seppure non comportante ampliamenti di superficie o volumetria.
ANAS convenne in giudizio alcuni privati per ottenere la demolizione dei manufatti (autorimessa in cemento armato e tre pilastri) realizzati in aderenza a un muro, di proprietà attorea, posto a sostegno del corpo stradale, in violazione della distanza di venti metri dal sedime stradale stabilita Codice della Strada e dal relativo regolamento di attuazione per le strade urbane di scorrimento all’interno dei centri abitati. In via incidentale era chiesta la declaratoria di illegittimità della concessione edilizia che tali manufatti aveva autorizzato.
Nel contraddittorio delle parti, a fronte delle eccezioni dei contenuti a dire dei quali le opere realizzate costituivano l’esito di un intervento di recupero e ristrutturazione che non aveva comportato sostanziale modifica del manufatto preesistente, il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo trattarsi d’un intervento di ristrutturazione estraneo alla previsione normativa richiamata dall’Anas.
L’appello proposto dall’Anas è stato rigettato dalla Corte territoriale, sul presupposto che il manufatto consistesse in un’opera a distanza dal confine stradale certo inferiore a quella di legge, ma sostanzialmente sovrapponibile a quella preesistente da anni per caratteristiche strutturali, volumetriche e dimensionali. Per il che, la norma del Codice della strada, che imponeva il rispetto di distanze minime per le “ricostruzioni” doveva interpretarsi nel senso di limitarne l’applicazione agli interventi implicanti la realizzazione di un quid novi, cioè un’opera diversa dalla preesistente.
ANAS ricorre per la cassazione della sentenza, che la Suprema Corte accoglie in relazione ad un motivo di importante valenza edilizia e urbanistica, rapportata al rispetto della fascia stradale.
Deduce ANAS la violazione dell’art. 18, comma 1, del Codice della strada e dell’art. 28, comma 1, lett. b), del suo Regolamento di attuazione ponendo un quesito diretto a stabilire se il concetto di “ricostruzione” di cui alle suddette disposizioni consista esclusivamente negli interventi edilizi che comportano la realizzazione di un quid novi rispetto all’opera preesistente ovvero, come ritenuto dal ricorrente, includa anche la realizzazione di una costruzione sovrapponibile ad essa.
La questione giuridica, che per la prima volta viene all’esame della Corte, riguarda l’interpretazione della nozione di “ricostruzioni” ai fini dell’applicazione delle norme sulle distanze dal confine stradale all’interno dei centri abitati e, in particolare, se tale nozione debba essere interpretata in modo autonomo, facendo riferimento alla specifica ratio delle medesime o debba essere tratta dalla disciplina civilistica in tema di distanze nelle costruzioni (art. 873 c.c.) diversamente da quanto fatto dalla Corte di merito, che ha optato per questa seconda soluzione valorizzando la giurisprudenza (Cass., SS.UU., n. 21578/2011; Sez. II, n. 3391/2009, n. 9637/2006, n. 23458/2004) che ha ravvisato una “ricostruzione” quando dell’edificio preesistente siano fedelmente ripristinate le componenti essenziali, senza variazione di sagoma, volume e superficie. Essa, in tal caso, non è assoggettabile al rispetto della distanza minima dal fabbricato vicino, mentre lo è in ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina prevista in tema di distanze dagli strumenti urbanistici locali, quando si verifichino le suddette variazioni.
Di conseguenza, la nozione di “ricostruzione” sarebbe riferita esclusivamente agli interventi di demolizione e ricostruzione che portino alla realizzazione di un’opera diversa, difforme per volumetria e sagoma da quella preesistente, poiché altrimenti si tratterebbe di mera “ristrutturazione”, estranea alla previsione del Codice della strada sulle fasce di rispetto dal confine stradale. E ciò sarebbe convalidato sia dalle definizioni ricavabili dall’art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. Edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380) che, confermando precedenti interpretativi in materia edilizia, considera “ristrutturazione” anche gli interventi attuati mediante demolizione e successiva fedele ricostruzione del fabbricato.
La Corte disattende questa impostazione di matrice analogica, osservando che essa è consentita dall’art. 12, comma 2, delle preleggi, solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio a un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n. 9852/2002, n. 4754/1995). In violazione di questo principio, la corte del merito erroneamente ha fatto ricorso all’analogia, avendo applicato i principi codicistici in tema di distanze nelle costruzioni in una materia, come quella delle costruzioni a confine dalla sede stradale, che è speciale ed esaustivamente governata dal codice della strada.
Di contro, è costante la considerazione, che si ritrova nella giurisprudenza ordinaria e amministrativa, secondo la quale la fascia di rispetto stradale risponde all’esigenza di evitare possibili pregiudizi alla percorribilità delle strade e di assicurare l’incolumità non solo dei conducenti dei veicoli, ma anche della popolazione che risiede vicino alle strade, in linea con il divieto (art. 9 della L. 24.07.1961, n. 729) di costruire a distanza dalle opere stradali inferiore a quella minima prevista, divieto interpretato come volto a favorire la circolazione e ad offrire idonee garanzie di sicurezza alle persone e cose che transitano sull’autostrada, con carattere generale ed inderogabile non solo nei confronti dei privati, ma anche nei riguardi della regolamentazione edilizia demandata agli enti pubblici (Cass., Sez. II, n. 229/2007).
Argomento a conformo della tesi si trae dallo stesso art. 879 c.c., il cui comma 2 esclude l’applicazione delle norme sulle distanze alle costruzioni in confine con le piazze e le vie pubbliche, trovando applicazione le disposizioni di legge e regolamentari, come il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione, le quali non sono dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della proprietà (che costituisce la ratio delle norme sulle distanze tra fabbricati), ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale (Cass., Sez. I, n. 5204/2008).
Anche l’analisi del testo normativo rafforza tali conclusioni: l’art. 18, comma 1, C.d.S., prevedendo che nei centri abitati le fasce di rispetto a tutela delle strade, misurate dal confine stradale, per le nuove costruzioni, ricostruzioni ed ampliamenti non possono avere dimensioni inferiori a quelle indicate nel regolamento, fa riferimento non soltanto alle nuove costruzioni, ma a qualsiasi ipotesi di ricostruzione, seppure non comportante ampliamenti di superficie o volumetria.
Ancor più chiaro è il regolamento di attuazione (D.Lgs. n. 495 del 1992) il cui art. 28, comma 1, indica le distanze minime dal confine stradale da rispettare, all’interno dei centri abitati, nelle “demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade”.
In conclusione,
con riguardo alle fasce di rispetto per l’edificazione nei centri abitati e delle distanze delle costruzioni dal confine stradale, si deve ritenere che la nozione di “ricostruzione” non debba essere tratta analogicamente dalla normativa codicistica in tema di distanze, la cui ratio è la tutela della proprietà nei rapporti di vicinato, ma direttamente dal codice della strada (art. 18) e del regolamento di attuazione (art. 28) le cui norme sono volte ad assicurare l’incolumità dei conducenti dei veicoli e della popolazione che risiede vicino alle strade.
Tali disposizioni si riferiscono a qualsiasi opera di “ricostruzione” che segua (verosimilmente ma non necessariamente) ad una demolizione e non soltanto alle “nuove costruzioni”, nell’accezione elaborata dalla giurisprudenza in materia di distanze nelle costruzioni
(Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 11.02.2015 n. 2656 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA SANATORIA EDILIZIA NON LIBERA L’IMMOBILE ABUSIVO DAL SEQUESTRO SE IL GIUDICE ACCERTA LA MANCANZA DELLA DOPPIA CONFORMITÀ.
Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è circostanza non decisiva ai fini della sottoposizione al vincolo reale in quanto anche essa non sfugge al necessario controllo di legalità del giudice penale che, ove rilevi la non conformità dell’opera alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della sua realizzazione, sia al momento della presentazione della domanda, deve comunque ritenere la sussistenza del reato, a prescindere dal giudizio positivamente espresso dalla pubblica amministrazione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema della rilevanza dell’intervenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria ove l’immobile abusivo sia sottoposto a sequestro.
La vicenda processuale trae origine dal rigetto da parte del Gip di un’istanza del p.m. con la quale veniva richiesta la applicazione di sequestro preventivo su un immobile sito in località (omissis) in relazione al procedimento che vedeva indagati B.M. e B.A., quali comproprietari di detto bene e committenti dei lavori. E., tecnico professionista e direttore dei lavori, ed D.G. E., titolare della D. costruzioni, impresa esecutrice delle opere, per i reati di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29 e art. 44, lett. a) e b), perché nelle rispettive qualità, realizzavano, in assenza di permesso di costruire e in totale difformità alla DIA, inerente opere di ristrutturazione di un preesistente magazzino, due appartamenti per civile abitazione, in zona agricola “E”, a seguito della totale demolizione del preesistente manufatto, con ampliamenti volumetrici e modifiche alla sagoma dell’originario immobile; art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, e artt. 481 e 483 c.p., per avere i B. in relazione alle dichiarazioni loro spettanti ed il Ba. quale professionista tecnico asseverante, attestato falsamente nella DIA la conformità delle opere progettate agli strumenti urbanistici e regolamentari; art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e artt. 481 e 483 c.p. e L. n. 241 del 1990, art. 19, i B. ed il Ba., nelle rispettive qualità, per avere attestato falsamente nella variante in corso d’opera la conformità delle opere progettate agli strumenti urbanistici e ai regolamenti vigenti.
Su ricorso del p.m. proposto per violazione ed erronea applicazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e dell’art. 321 c.p.p. in materia di fumus, in quanto dalle indagini era emersa la falsità delle dichiarazioni rese dagli indagati in tutti gli atti presentati al Comune, nonché la realizzazione del manufatto in questione in difetto di titolo abilitativo, nonché per violazione del L.R. Toscana, art. 79, e dell’art. 321 c.p.p., sempre in materia di fumus, della L. n. 241 del 1990, artt. 19 e 21 per aver il giudice di merito omesso di rilevare la inefficacia sanante l’illecito del permesso a costruire, in quanto detto atto risultava adottato in violazione dei presupposti di legge, essendo stato rilasciato a seguito di una illegittima trasformazione di ufficio di un progetto presentato dai privati ed asseverato falsamente come variante in corso d’opera in attestazione in conformità ex L.R. n. 1 del 2005, art. 140; per omessa valutazione del periculum in mora, la Corte di Cassazione annullava con rinvio l’ordinanza impugnata, affinché il giudice ad quem procedesse ad un riesame della questione.
Il Tribunale della Libertà, chiamato in sede di rinvio a decidere nuovamente sulla questione, rigettava nuovamente l’appello del p.m., mancando comunque ed al di là della tematica della legittimità o meno del permesso a costruire in sanatoria, il requisito del periculum in mora che costituisce condizione necessaria imprescindibile per la concessione dell’invocato sequestro preventivo, ciò in quanto detto permesso sarebbe comunque sufficiente ad escludere che possa essere disposta la demolizione delle opere realizzate. Contro tale decisione ricorreva nuovamente il Procuratore della Repubblica lamentando la violazione dell’art. 627 c.p.p. per aver omesso il Tribunale di attenersi ai principi enunciati in sede di annullamento dalla Suprema Corte e ribadendo le considerazioni già espresse nel precedente ricorso.
La Cassazione ha nuovamente accolto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima (v., in termini, da ultimo: Cass. pen., Sez. F, n. 33600 del 23.08.2012 - dep. 03.09.2012, L.V. e altro, in CED, n. 253426), ha evidenziato che il Tribunale non solo non si era attenuto a quanto stabilito dalla Corte di legittimità, ma, nonostante l’annullamento con rinvio fosse stato pronunciato con riferimento alla necessità di accertare la conformità o meno dell’atto amministrativo (permesso di costruire) alla normativa che ne regola la emanazione e alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, ha addirittura ritenuto superfluo detto accertamento, per asserita mancanza del periculum in mora (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.02.2015 n. 5992 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: INDIVIDUAZIONE DELLA NOZIONE DI CARICO URBANISTICO IN RELAZIONE AL SUO “AGGRAVIO” QUALE CONDIZIONE PER LA SEQUESTRABILITÀ.
S’intende per carico urbanistico l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico:
1) negli standards urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968, n. 1444 che richiedono l’inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
2) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
3) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
4) nell’esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (L. n. 47 del 1985, art. 26 e L. n. 493 del 1993, art. 4, comma 7) che non comportano la creazione di nuove superfici utili, ferma restando la destinazione dell’immobile;
5) nell’esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (L. n. 47 del 1985, art. 10 e L. n. 493 del 1993, art. 4).

Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali può giustificarsi il sequestro preventivo di un immobile abusivo ove il periculum in mora sia costituito dal consueto riferimento alla nozione di “aggravio del carico urbanistico” che l’immobile determina.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il tribunale rigettava l’istanza di riesame e, per l’effetto, confermava il decreto di sequestro preventivo per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), nei confronti del legale rappresentante di una società di gestione di una struttura ricettiva sita in zona dichiarata di notevole interesse pubblico D.Lgs. n. 42 del 2004, nonché sottoposta a vincolo di tutela del patrimonio artistico e storico D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 10 classificata sismica S-6 ai sensi del D.M. 03.06.1981, e rientrante nelle zone di cui alla L. n. 37 del 1994, artt. 1 e 3 (vincolo archeologico), in assenza dei prescritti titoli.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare sostenendo che sarebbe dubbio ritenere che la tutela prevista dalla legge della misura cautelare per le violazioni delle norme a tutela dell’urbanistica possa estendersi automaticamente a situazioni di fatto che andrebbero inserite in un complesso sistematico ambientale; nella specie, l’elemento pregnante della valutazione operata per l’applicazione della misura, sarebbe l’attentato all’ecosistema, insito in qualunque intervento umano, nel caso di specie riguardante il sottosuolo senza considerare l’incidenza sul carico urbanistico.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha chiarito la nozione di carico urbanistico deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell’attività da costoro svolte. L’aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere interne comportanti il mutamento della originaria destinazione d’uso di un edificio (Cass. pen., Sez. IV, n. 34976 del 09.07.2010 - dep. 28.09.2010, N., in CED, n. 248345).
In alcune pronunce vengono, inoltre, indicate ipotesi specifiche di incidenza dei singoli interventi sul carico urbanistico, richiamando, ad esempio, il contenuto della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies come modificato dalla L. n. 122 del 1989 e L. n. 246 del 2005 che richiede, per le nuove costruzioni ed anche per le aree di pertinenza delle costruzioni stesse, la esistenza di appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione; la rilevanza di nuove costruzioni in termini di esigenze di trasporto, smaltimento rifiuti, viabilità etc. (Cass. pen., Sez. III, n. 22866 del 19.04.2007 - dep. 13.06.2007, L., in CED Cass., n. 236881); l’ulteriore domanda di strutture ed opere collettive, sia in relazione alle prescritte dotazioni minime di spazi pubblici per abitante nella zona urbanistica interessata (Cass. pen., Sez. III, n. 34142 del 05.07.2005 - dep. 23.09.2005, D’A., in CED, n. 232471).
Nel caso in esame, correttamente i giudici del merito hanno ritenuto che se “anche l’uso dell’immobile, realizzato in violazione di vincoli, si palesa idoneo ad aggravare le conseguenze dannose prodotte dall’opera abusiva sull’ecosistema protetto da vincolo paesaggistico o di altra natura e giustifica l’applicazione della misura cautelare diretta ad impedire la protrazione e l’aggravamento delle conseguenze dannose del reato”, sia altresì indubitabile che “la valutazione sul punto ha ad oggetto l’incidenza negativa della condotta  su un più delicato equilibrio rispetto a quello riguardante genericamente il carico urbanistico sul territorio, sicché la esclusione della idoneità dell’uso della cosa a deteriorare ulteriormente l’ecosistema protetto dal vincolo deve formare oggetto di un esame particolarmente approfondito”.
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso, in quanto la realizzazione di un invasivo intervento strutturale era tale da determinare la creazione di un organismo edilizio del tutto diverso con modifica, quanto meno, della destinazione d’uso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2015 n. 5954 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

LAVORI PUBBLICI: DIFFERENZE TRA MERA CONCESSIONE DI COSTRUZIONE E CONCESSIONE (DI COSTRUZIONE E/O) DI GESTIONE DI LAVORI PUBBLICI
Nel quadro delineato dal Codice dei contratti pubblici, è ricavabile una categoria unitaria della “concessione di lavori pubblici” sicché non v’è più differenza fra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera (o di costruzione e gestione congiunte), nelle quali prevaleva il profilo autoritativo per traslazione di pubbliche funzioni inerenti l’attività organizzativa e direttiva dell’opera, con implicazioni in tema di riparto di giurisdizione.
Per l’effetto, in assenza d’esercizio di una pubblica funzione o di un potere delegato, sussiste giurisdizione ordinaria sulla domanda proposta contro la P.A. nelle controversie attinenti alla fase d’esecuzione di un contratto pubblico.

La Suprema Corte è adita con regolamento preventivo di giurisdizione scaturito in un giudizio radicato da un’impresa avanti il G.A. contro una Regione, una Provincia, un Comune e un Consorzio di bacino, oltre che di alcune società garanti e contro-interessate. Ivi, sostanzialmente, era chiesto l’annullamento d’un atto avente a oggetto l’approvazione del conguaglio tariffario e del conto consuntivo relativo a una discarica di rifiuti gestita dalla ricorrente.
Ancora, in ragione della ritenuta giurisdizione esclusiva in punto, la ricorrente chiese al TAR (in antitesi con i provvedimenti impugnati e in un contesto generale di accertamento negativo del credito preteso dalla Provincia) condannarsi gli intimati Enti pubblici al pagamento di un ingente importo per l’inadempimento di una convenzione che la ricorrente medesima aveva stipulato con gli Enti in origine responsabili del servizio rifiuti. Ancora, era chiesta la condanna delle intimate PP.AA. al risarcimento del danno per tardata conclusione del procedimento amministrativo e, per quanto limitatamente qui rilevi, la declaratoria d’illegittimità dell’affidamento in house della gestione post mortem della discarica per così accertarsi il diritto della ricorrente a effettuare tale attività determinando ed adeguando i costi di progetto.
In via alternativa a ciò, era chiesta al TAR la condanna al risarcimento del danno o, in via subordinata, la declaratoria di responsabilità ex artt. 2043 c.c. o 1337 c.c., anche per violazione del principio di buona fede. Infine, era chiesta declaratoria d’accertamento e inesigibilità da parte della Provincia delle fideiussioni rilasciate alla ricorrente.
Costituitesi al TAR, tutte le resistenti eccepivano il difetto di giurisdizione del G.A. in favore di quello ordinario. Questo, per il fatto che le domande troverebbero fondamento nelle convezioni che regolarono il rapporto inerente la discarica da parte della ricorrente. Ancora, sull’assunto che la controversia sarebbe riconducibile alla giurisdizione del G.O., in quanto l’art. 133 c.p.a. esclude dalla giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi le controversie relative a canoni, indennità e altri corrispettivi che, nella specie, il giudizio avrebbe costituendo esso l’epilogo d’un procedimento avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza o meno di diritti patrimoniali di cui le parti discuterebbero senza coinvolgimento sull’azione amministrativa di gestione dei rifiuti. Né a diverse conclusioni in punto giurisdizione porterebbero i provvedimenti amministrativi sopravvenuti, che troverebbero loro presupposto nelle citate convenzioni.
Per il che, la ricorrente ha proposto il regolamento preventivo di giurisdizione, osservando che ai fini della determinazione della giurisdizione deve darsi rilevo al petitum sostanziale (Cass., SS.UU., n. 2926/2012); che le domande poste al TAR afferirebbero non solo al rispetto degli obblighi nascenti dalle convenzioni predette ma  anche da ordinanze contingibili ed urgenti - manifestazioni di potere autoritativo che hanno disciplinato il contenuto d’una concessione per la gestione della discarica che -a propria volta- è da qualificare come atto integrativo o sostitutivo del provvedimento amministrativo in relazione al quale sorge, in caso di controversie, una riserva di G.A. ai sensi dell’art. 133, lett. a), n. 2, del codice del processo amministrativo (Cass., SS.UU., n. 1713/2013).
Parimenti riconducibili a G.A., per l’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1 del c.p.a. sono le altre pretese afferenti la ricomposizione finale e la gestione post mortem della discarica ed il diritto della ricorrente a effettuare tali attività, determinando ed adeguando i costi di progetto. Sussisterebbe, infine, G.A. esclusiva nella controversia trattandosi di questioni che attengono, in parte, anche al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici, nonché al revisione del prezzo nei contratti a esecuzione continuata o periodica (art. 115, D.Lgs. n. 163/2006) nonché relative ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4, della stesso decreto.
Sussisterebbe giurisdizione esclusiva (Cass., SS.UU. n. 22317/2013) anche per l’art. 133, comma 1, lett. p), c.p.a., attenendo questa controversia alla realizzazione di infrastrutture per l’espletamento dei servizi di gestione del ciclo dei rifiuti, non riguardando la questione solo l’esecuzione dell’opera pubblica (lavori di ampliamento della discarica) ma pure la gestione funzionale ed economica della discarica, che rientra nell’ambito della complessiva attività di gestione del ciclo dei rifiuti. In ultimo, sussisterebbe giurisdizione esclusiva per l’art. 133 c.p.a., in relazione alla controversia sulla fideiussione assicurativa che si mira ad escutere, anche in ragione dell’impugnazione del provvedimento amministrativo in ragione del quale è richiesta l’esclusione.
Ritengono le Sezioni Unite che debba affermarsi la giurisdizione del giudice ordinario su tutte le domande proposte. A tale conclusione induce la considerazione della complessa vicenda in fatto, sopra riferita, che deve partire dall’esatta qualificazione del rapporto e della posizione rivestita dall’impresa ricorrente e dal conseguente apprezzamento dell’effettiva sostanza delle domande, in applicazione del principio per cui la giurisdizione si determina sulla base del petitum sostanziale.
La Corte Regolatrice parte dall’osservazione per cui la discarica - in principio privata - a seguito dell’adozione di un Piano regionale di smaltimento rifiuti solidi urbani (il quale escludeva che le discariche potessero mantenersi in proprietà privata, imponendone la cessione all’ente territoriale di allocazione) fu data in gestione alla ricorrente per effetto di plurime concessioni concluse con la Regione, con il Consorzio di bacino, con il Comune a cui progressivamente erano cedute le aree della discarica, in ottemperanza al Piano regionale.
In disparte le complesse questioni tecniche e quelle legate alla legislazione regionale (esorbitanti l’oggetto della presente annotazione) è da osservarsi che per le Sezioni Unite sotto nessun profilo, anche in relazione ai diversi soggetti convenuti, la controversia rientri nella giurisdizione del G.A. Prendendo le mosse dall’esatto inquadramento della posizione rivestita dalla ricorrente al T.A.R., la Corte Regolatrice osserva come emerga, con riguardo a tutte e tre le convenzioni succedutesi nel tempo, che il rapporto di concessione non ha avuto a oggetto la mera gestione della discarica (e, quindi, un ambito limitato al profilo di una concessione di pubblico servizio) ma si è strutturato come concessione di esecuzione di opere e di gestione delle stesse (es. costruzione e gestione dell’ampliamento di una discarica controllata; gestione del servizio di smaltimento RSU e RSA limitatamente alla frazione secca e conseguente allestimento di opere di completamento dell’impianto esistente con ricomposizione e sistemazione finale dell’intera area in conformità; gestione del servizio della discarica e allestimento di interventi di messa in sicurezza e ribaulatura con riguardo a un progetto presentato dal Comune ed approvato dalla Provincia).
La concessione è dunque da qualificarsi come costruzione e di gestione di un’opera pubblica.
Ciò è determinante per l’individuazione della giurisdizione in capo al G.O. che, per quanto attiene alle domande proposte contro gli enti pubblici, deve compiersi alla stregua del principio di diritto secondo cui, nel quadro normativo derivante dal Codice dei contratti pubblici, sussiste l’unica categoria della “concessione di lavori pubblici”, onde non è più consentita la precedente distinzione fra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera (o di costruzione e gestione congiunte), ove prevale il profilo autoritativo della traslazione delle pubbliche funzioni inerenti l’attività organizzativa e direttiva dell’opera pubblica, con le conseguenti implicazioni in tema di riparto di giurisdizione.
Questo perché, ormai, deve darsi prevalenza alla gestione funzionale ed economica dell’opera, che non costituisce più un accessorio eventuale della concessione di costruzione bensì la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario, come risulta dall’art. 143, D.Lgs. n. 63/2006 con la conseguenza che le controversie attinenti alla fase d’esecuzione appartengono al G.O. (Cass., SS.UU. n. 28804/2011).
La sussistenza della giurisdizione ordinaria per la fase esecutiva si spiega - com’è stato ritenuto dalla decisione appena richiamata, essa pure regolatrice della giurisdizione - per la natura prettamente privatistica del rapporto nel corso del suo svolgimento e perché la convenzione, che in tale fase è sottoscritta, quando viene in considerazione come regolatrice delle posizioni delle parti (cioè là dove stabilisce le contrapposte obbligazioni e individua le modalità di svolgimento del rapporto) si pone anch’essa sempre nell’ambito di quella connotazione privatistica propria di detta fase.
Connotazione alla quale cui si sottrae la sola fase precedente di aggiudicazione e alla stipula della convenzione (Cass., n. 11022/2014, adde, Cass., SS.UU., ord. n. 19931/2012, n. 11022/2014, per la quale la nozione normativa di “concessione di lavori pubblici”, che impone il riconoscimento della giurisdizione del G.O. sulle controversie relative alla fase successiva all’aggiudicazione anche per le concessioni “di gestione” o “di costruzione e di gestione”, si rinviene -prima ancora che nella direttiva comunitaria di codificazione del 31.03.2004, n. 2004/18/CE (poi recepita dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) e nella Dir. 14.06.1993, n. 93/37/CEE- già nell’art. 1, lett. d), della Dir. 18.07.1989, n. 89/440/CEE, sicché non può invocarsi la violazione del principio della perpetuatio iurisdictionis per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione a controversie di tale natura che risultino instaurate anteriormente alla citata direttiva di codificazione e al D.Lgs. n. 163/2006.
In particolare, per Cass., SS.UU., n. 11022/2014, la nozione di “concessione di lavori” che impone il riconoscimento della giurisdizione ordinaria sulle controversie inerenti la fase successiva all’aggiudicazione anche per le concessioni “di gestione” o “di costruzione e di gestione” congiunte non è certo stata innovata, bensì ripresa e confermata dalla Direttiva comunitaria n. 2004/18/CE, poi recepita dal Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 163/2006 e trovando essa nella Dir. 93/37/CEE e nella Direttiva comunitaria 89/440/CEE le proprie fonti originarie.
Tanto, infatti, che la previsione dell’art. 1, lett. d), di tale ultima Direttiva, per il quale “la concessione di lavori pubblici è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di quelle contemplate alla lettera a (appalti di lavori pubblici: n.d.r.), ad eccezione del fatto che la controprestazione di lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera oppure in questo diritto accompagnato da un prezzo”, trova rispondenza nell’art. 19, comma 2, L. n. 109/1994, che alla nozione di “contratto di appalto di lavori pubblici”, contrappone quella di “concessione di lavori pubblici”, concepita quale categoria unitaria comprendente tutti i “contratti conclusi in forma scritta fra un imprenditore e un’amministrazione aggiudicatrice, aventi a oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici, o di pubblica utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica”.
Nel caso di specie, si tratta di domande che traggono titolo da uno svolgimento della vicenda che si collocava sotto una qualificazione del rapporto concessorio soggetta all’applicazione dei principi sopra riportati, risalendo la Convenzione del 1997 a epoca successiva alla L. n. 109/1994: ne consegue che le domande di cui si è detto sono estranee alla previsione della giurisdizione esclusiva e sono riconducibili alla giurisdizione ordinaria alla stregua dei principi di diritto sopra richiamati.
Né le Sezioni Unite ritengono sussistere giurisdizione esclusiva per il G.A. per la domanda concernente la fideiussione: essa compete al G.O. non solo per l’accessorietà di tale domande alle altre, attribuite al medesimo G.O., quanto -e soprattutto- perché si tratta di domanda relativa a pretese nascenti da un contratto e, quindi, da un rapporto paritetico tra le parti, non potendo più la p.a. spendere o esercitare alcun potere di supremazia, tipico dell’esercizio dell’attività amministrativa, nemmeno in sede di autotutela, ledendo altrimenti i diritti soggettivi dell’altro contraente, che non possono affievolirsi o essere condizionati da attività della p.a. dirette a sottrarsi agli impegni negoziali assunti.
La richiesta di escussione è connotata come comportamento di una parte contrattuale senza potere autoritativo, indipendentemente dalla qualificazione dei comportamenti tenuti dalla stessa nell’ambito del rapporto concessorio ed oggetto delle altre domande, che pure si sono visti soggiacere alla giurisdizione ordinaria (si vedano, per fattispecie di escussione di polizze fideiussorie ricollegate a rapporti concessori, Cass., SS.UU., ord. n. 9592/2012; Cass., SS.UU., ord., n. 4319/2010; Cass., SS.UU., ord., n. 12902/2013) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili, ordinanza 10.02.2015 n. 2507 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SOLO LA DELIBERA DEL CONSIGLIO COMUNALE OSTA ALL’ACQUISIZIONE GRATUITA DELL’IMMOBILE ABUSIVO AL PATRIMONIO COMUNALE.
L’acquisizione gratuita dell’opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è comunque incompatibile con l’ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione ad opera del pubblico ministero, ostandovi soltanto la delibera consiliare che abbia stabilito l’esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della questione relativa alla sorte dell’immobile abusivo dopo l’intervenuta sentenza di condanna che, divenuta irrevocabile, comporta per legge l’acquisizione gratuita del medesimo al patrimonio comunale.
La vicenda processuale che ha fornito nuovamente l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue all’ordinanza con cui la Corte di Appello rigettava l’istanza presentata dal condannato e, pertanto, ordinava la demolizione delle opere di cui alla sentenza emessa dalla stessa Corte.
In particolare, rilevava che trattavasi di opere pacificamente abusive ed insuscettibili di sanatoria, attesa la mancanza della “doppia conformità”; opere, inoltre, ormai acquisite al patrimonio del Comune, il quale, peraltro, non aveva ancora deliberato in ordine ad un’eventuale destinazione dei beni diversa dalla demolizione. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato sostenendo che la Corte di merito avrebbe confermato l’ordine di demolizione pur a fronte di un pacifico acquisto della proprietà da parte del Comune, a titolo originario e libero da ogni altro diritto di natura reale e/o personale, sì da poter poi esser demolito, locato, ceduto o diversamente utilizzato, quel che avrebbe prodotto l’effetto estintivo del medesimo diritto in capo al privato.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso. In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, i giudici di legittimità hanno dato continuità alla giurisprudenza consolidata della Cassazione (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 4962 del 28.11.2007 - dep. 31.01.2008, P.G. in proc. M. e altri, in CED, n. 238803), osservando che l’acquisizione gratuita, in via amministrativa, è finalizzata essenzialmente alla demolizione, così come l’ordine impartito dal giudice penale; ne deriva che il destinatario di questo si troverà nell’impossibilità di adempiervi soltanto quando, ad acquisizione amministrativa compiuta, l’autorità comunale abbia già ravvisato i citati interessi pubblici, non anche quando difetti ancora qualsivoglia provvedimento in tal senso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2015 n. 5188 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL PORTICO È UN INTERVENTO EDILIZIO SOGGETTO A PERMESSO DI COSTRUIRE.
Rientrano nella nozione di pertinenza le cose, mobili ed immobili, le quali, pur conservando la loro individualità ed autonomia, vengono poste in durevole rapporto di subordinazione con altre per servire al miglior uso di queste ovvero per aumentarne il decoro e dalle quali possono essere separate senza alterazione dell’assenza e della funzione sia della cosa principale che di quella accessoria.
Ne consegue che un portico non può essere annoverato tra le pertinenze, poiché il medesimo non conserva una propria individualità e non è utilizzabile autonomamente, così che deve escludersi tale qualifica all’ampliamento di un edificio anche se finalizzato al completamento o miglioramento dei bisogni cui l’immobile principale è destinato.

Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla individuazione del titolo abilitativo edilizio necessario per la realizzazione di un portico, escludendone la natura pertinenziale.
La vicenda processuale segue alla sentenza di condanna nei confronti di una donna per aver svolto attività urbanistico - edilizia consistente nella realizzazione di un portico in legno, per una superficie di mq. 70, i cui pilastri erano ancorati al pavimento con plinti in cemento, in assenza del permesso di costruire (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b).
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione la stessa, per aver ritenuto i giudici di merito configurabile il reato in esame limitandosi ad affermare che, in relazione alle caratteristiche materiali della tettoia, fosse necessario il permesso di costruire; diversamente, era chiara la finalità di riparo dell’immobile che la tettoia svolgeva, donde, in base a giurisprudenza costante, l’intervento edilizio era da ritenersi sottratto al permesso di costruire.
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando il principio di cui in massima, osservando, in fatto, che nel corso del controllo eseguito da personale della Polizia Municipale, venne rilevata la realizzazione abusiva di un portico in legno costituito da una copertura con travette di legno e sei supporti in legno infissi nel suolo tramite plinti di cemento e piastre d’acciaio, dalla superficie di circa mq. 70; l’opera realizzata, per le sue caratteristiche strutturali, la sua consistenza e, in particolare, per la sua stabilità desumibile dall’ancoraggio della medesima al suolo con plinti di cemento e piastre d’acciaio, non poteva certo definirsi come precaria né, risultavano dedotte esigenze transitorie e momentanee connesse alla realizzazione dell’opera che potessero evidenziare una precarietà funzionale dell’opera medesima.
La tesi difensiva, secondo cui si sarebbe trattato di una copertura finalizzata semplicemente a riparare l’immobile, dunque, risultava totalmente destituita di fondamento alla luce delle emergenze istruttorie.
Nella giurisprudenza precedente, nel senso che il portico necessita di permesso di costruire (Cass. pen., Sez. III, n. 33657 del 12.07.2006 - dep. 06.10.2006, R., in CED, n. 235382, secondo cui per pertinenza deve infatti intendersi un’opera che non sia parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato, così che deve escludersi tale qualifica all’ampliamento di un edificio, attuato mediante la realizzazione di un portico, anche se finalizzato al completamento o miglioramento dei bisogni cui l’immobile principale è destinato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2015 n. 4956 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI UNA TETTOIA DI COPERTURA RICHIEDE IL PREVENTIVO RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE
Integra il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a fare chiarezza sul tema, annoso, della natura pertinenziale dell’intervento edilizio finalizzato ad apportare un miglioramento non solo estetico ma anche funzionale dell’immobile principale cui l’intervento accede.
La vicenda processuale segue alla sentenza di condanna per aver riconosciuto due imputati responsabili dell’illecito edilizio nonostante l’opera realizzata (una tettoia) non avesse determinato una modifica permanente del territorio in assenza di creazione di nuova volumetria.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, dolendosi per avere i giudici del merito erroneamente ritenuto soggetta a permesso di costruire l’opera realizzata; poiché, nel caso di specie, la costruzione era rimasta aperta su uno o più lati, non vi era stata creazione di nuovo volume, sicché l’intervento non necessitava di alcun titolo abilitativo; si trattava, sostenevano, di una veranda aperta su più lati, che non aveva creato nuova volumetria, in quanto i ricorrenti volevano solo realizzare una copertura per proteggere il solaio dalle infiltrazioni di acqua piovana.
La Cassazione ha, sul punto, dichiarato inammissibile il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rilevato come dagli atti risultasse chiaramente che gli interventi edilizi eseguiti erano consistiti nella realizzazione di opere di sopraelevazione del terzo piano dell’edificio, attraverso la realizzazione e copertura del lastrico colare del terzo piano, della superficie di mq. 140, della struttura con pilastri e travi portanti in scatolare metallico e chiusura laterale in laterizi.
I giudici della Suprema Corte hanno quindi dato continuità alla giurisprudenza di legittimità (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 42330 del 26.06.2013 - dep. 15.10.2013, S. e altro, in CED, n. 257290; Cass. pen., Sez. III, n. 17083 del 07.04.2006 - dep. 18.05.2006, M. e altro, in CED, n. 234193), secondo cui la tettoia di un edificio non rientra nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto parte dell’edificio cui aderisce: ciò in quanto in urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal cod. civ., riferendosi ad un’opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l’edificio principale, laddove la parte dell’edificio appartiene senza autonomia alla sua struttura (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2015 n. 4955 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA TRASFORMAZIONE DA DEPOSITO AD ABITAZIONE, CON MODIFICA PARZIALE DEI PROSPETTI, È MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO RILEVANTE.
Anche a seguito del decreto “Sblocca Italia”, il mutamento di destinazione d’uso di un immobile (nella specie, la trasformazione di un immobile da deposito ad abitazione, con modifica parziale dei prospetti) attuato attraverso l’esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un’ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), in quanto costituisce “mutamento di destinazione d’uso rilevante” ai sensi del D.L. n. 133 del 2014, convertito in L. n. 164 del 2014.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema della individuazione del titolo abilitativo necessario per l’esecuzione di interventi di trasformazione edilizia di un immobile, attraverso il mutamento di destinazione d’uso (nella specie, da deposito a residenziale).
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale del riesame rigettava la richiesta proposta dall’indagato avverso il provvedimento emesso dal GIP con cui era stato disposto il sequestro preventivo di un corpo di fabbrica di superficie di mq. 100 ed altezza di mt. 6, in relazione ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. C), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, per avere, nella qualità di titolare della ditta committente E.C. s.r.l., effettuato lavori di ristrutturazione edilizia in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, trasformandolo da deposito ad unità abitativa.
Contro l’ordinanza veniva proposto ricorso per cassazione censurandola in quanto il tribunale del riesame, dopo aver inquadrato gli interventi edilizi in questione nel novero delle cc.dd. ristrutturazioni edilizie, avrebbe disatteso le doglianze difensive; in particolare, trattandosi di mutamento di destinazione d’uso, non avendo comportato trasformazioni dell’aspetto esteriore, di volumi o di superfici, ben avrebbero potuto essere effettuati con d.i.a. (titolo di cui l’imputato era munito) sicché nessuna sanzione penale era applicabile.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando come non vi fosse dubbio che le attività edilizie in corso all’atto dell’accertamento rientrassero nella ristrutturazione edilizia, non realizzabili dunque mediante semplice denuncia di inizio attività.
I giudici di Piazza Cavour, peraltro, nel dare continuità ad un orientamento consolidato della Cassazione (v., ad esempio: Cass. pen., Sez. III, n. 9894 del 20.01.2009 - dep. 05.03.2009, T., in CED, n. 243101), si sono poi soffermati a valutare gli eventuali riflessi che il c.d. decreto “Sblocca Italia” ha avuto sulla questione. Sul punto, i Supremi Giudici hanno chiarito come, sulla questione della configurabilità del reato edilizio, nessuna concreta incidenza esplica la recente modifica normativa operata dal D.L. 12.09.2014, n. 133, recante “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive” (G.U. n. 212 del 12.09.2014), entrato in vigore il 13.09.2014 che, all’art. 17, nel modificare il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 ha esteso la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, a condizione, tuttavia, che non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso.
Nel caso di specie, infatti, escluso in fatto che si trattasse di mero frazionamento od accorpamento, in ogni caso sarebbe difettata proprio la seconda di queste condizioni, atteso il mutamento di destinazione d’uso che l’intervento era finalizzato ad attuare.
E, del resto, che si tratti di mutamento di destinazione d’uso rilevante, è confermato, anche attualmente, dal disposto del nuovo d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter (introdotto dalla legge di conversione del predetto D.L., ossia dalla L. 11.11.2014, n. 164), che, sul punto, chiarisce come “costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unita immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.
Dunque, la trasformazione da deposito ad uso residenziale, come nel caso di specie, costituisce oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione d’uso, non qualificabile come manutenzione straordinaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2015 n. 3953 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

ESPROPRIAZIONE: PRESUPPOSTI PER LA SUSSISTENZA D’OCCUPAZIONE USURPATIVA E TERMINI PRESCRIZIONALI DI TUTELA.
L’occupazione di un immobile è usurpativa quando la scadenza dei termini previsti dall’art. 13, L. n. 2359/1865 -comportando l’inefficacia della dichiarazione di p.u.- rende la detenzione del fondo alla stregua d’un comportamento materiale, non riconducibile all’esercizio di un pubblico potere, perciò inidoneo a determinare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo alla P.A., anche nel caso d’irreversibile trasformazione derivante dalla successiva realizzazione dell’opera pubblica.
In tali casi, il diritto del privato alla restituzione dell’immobile non è soggetto a prescrizione, ferma restando la possibilità di optare per l’azione risarcitoria, il cui esercizio, in quanto volto a conseguire il controvalore del fondo, comporta l’implicita rinuncia al diritto di proprietà, sicché solo da questo momento decorre il termine di prescrizione del diritto al risarcimento.
Due privati convennero in giudizio il Ministero dei lavori pubblici per sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti per la perdita della proprietà di un fondo e al pagamento dell’indennità dovuta per l’occupazione protratta del medesimo, disposta per la realizzazione di un edificio scolastico, autorizzata dal Prefetto di Catanzaro con decreto dell’anno 1972, per un solo quadriennio, termine entro il quale i lavori non vennero ultimati né vi fu l’emissione del decreto di espropriazione.
Integratosi il contraddittorio con il Comune delegato all’esecuzione dei lavori, il Tribunale accolse la domanda, condannando le due Amministrazioni convenute, in solido, al risarcimento dei danni per occupazione usurpativa e ad altra somma per indennità da occupazione legittima, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
La Corte territoriale parzialmente accolse il gravame incidentale proposto dal Comune, dichiarando non dovuta la rivalutazione sulla somma liquidata a titolo d’indennità di occupazione, e riconoscendo su quella dovuta a titolo di risarcimento gl’interessi legali sull’importo rivalutato anno per anno.
Per il rimanente, la Corte di merito ribadì che al risarcimento dei danni per l’occupazione appropriativa o usurpativa sono tenuti solidalmente tutti i soggetti che a diverso titolo hanno partecipato alla trasformazione del fondo in costanza dell’occupazione illegittima.
La Corte altresì escluse l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento, osservando che la scadenza dei predetti termini avesse comportato il venir meno dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, con la conseguente configurabilità della fattispecie come occupazione usurpativa, qualificabile come illecito a carattere permanente. Per lo stesso motivo, escluse che ai fini della liquidazione del risarcimento potesse trovare applicazione l’art. 5-bis, comma 7-bis, D.L. 11.07.1992, n. 333, convertito in L. 08.08.1992, n. 359, precisando comunque che la sopravvenuta dichiarazione d’illegittimità costituzionale di tale disposizione aveva reso ininfluente, a tal fine, la distinzione tra occupazione appropriativa e usurpativa.
Circa la quantificazione del danno, la Corte d’appello confermò la vocazione edificatoria del fondo, in virtù della destinazione prevista dal programma di fabbricazione approvato nell’anno 1971 nonché delle caratteristiche dell’immobile.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, proposto dal Comune, che la Suprema Corte respinge osservando che resta inoppugnata la circostanza per cui la costruzione, dichiarata di pubblica utilità nel 1972, fu completata nel 1980, ad ampio decorso del termine quadriennale fissato per il compimento delle espropriazioni e dei lavori. Per il che, non può certo dubitarsi della natura usurpativa dell’occupazione in esame, in applicazione del principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la scadenza dei termini previsti dall’art. 13 della L. 25.06.1865, n. 2359, comportando l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, rende configurabile la detenzione del fondo alla stregua di un mero comportamento materiale, non riconducibile all’esercizio di un pubblico potere e perciò inidoneo a determinare l’acquisto a titolo originario della proprietà in favore della P.A., anche nel caso d’irreversibile trasformazione derivante dalla successiva realizzazione dell’opera pubblica.
In virtù di tale principio, al proprietario privato della disponibilità del fondo va riconosciuto il diritto alla restituzione dell’immobile, non soggetto a prescrizione, ferma restando la possibilità di optare per l’azione risarcitoria, il cui esercizio, in quanto volto a conseguire il controvalore del fondo, comporta l’implicita rinuncia al diritto di proprietà, con la conseguenza che è solo da questo momento che può essere fatto decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento, il quale resta peraltro interrotto per l’intero corso del giudizio, ex art. 2945, comma 2, c.c. (Cass., Sez. I, 25.01.2013, n. 1787; Id., 27.05.2010, n. 13023; Id., 12.10.2001, n. 15710) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 28.01.2015 n. 1612 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

APPALTI: SULLA DIFFERENTE VALENZA DI UNA DELIBERA RICOGNITIVA DI DEBITO ASSUNTA DA UN ENTE LOCALE.
Una delibera di riconoscimento del debito unicamente motivata con l’esecutività provvisoria della sentenza non costituisce “riconoscimento di debito” ai fini dell’art. 2041 c.c. o dell’art. 23, D.L. n. 66/1989, perché essa non manifesta la volontà di riconoscere l’utilità della prestazione ma quella di ottemperare alla statuizione giudiziale.
L’interpretazione degli atti amministrativi segue le stesse regole civilistiche per l’interpretazione dei contratti (artt. 1362 ss. c.c.): fra esse è preminente quella letterale, ove compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo il Giudice anche ricostruire l’intento dell’Amministrazione ed il potere che ha inteso in concreto esercitare, tenendo altresì conto del complesso dell’atto e del comportamento della P.A., oltre che di quanto può razionalmente intendere, secondo buona fede, il destinatario.

La controversia attiene a un appalto pubblico di lavori affidato da un’Amministrazione a una impresa edile e concernenti l’esecuzione, con procedura di urgenza, di alcuni tronchi dell’asse viario provinciale. Per il soddisfacimento del credito residuo, con rivalutazione e interessi, l’impresa convenne l’Ente avanti il Tribunale civile. In via subordinata, stante il riconoscimento dell’utilità delle opere eseguite e la loro utilizzazione, chiese il pagamento di un indennizzo, con rivalutazione e interessi.
L’intimata Amministrazione, oltre ad eccepire il difetto di giurisdizione, sollevò la questione dell’inammissibilità della domanda d’indennizzo per ingiustificato arricchimento ex art. 23, D.L. n. 66/1988, trattandosi di opere eseguite in assenza di formale contratto di appalto ed impegno di spesa.
Il Tribunale -dato atto dell’intervento pagamento in corso di primo grado della somma capitale- con sentenza respinse la domanda di rivalutazione monetaria; accolse quella per interessi legali e di mora sino alla data di pagamento da parte dell’Ente, addebitando ad esso le spese di lite. La sentenza fu gravata da un appello principale della P.A. e da un incidentale dell’impresa.
La Corte territoriale accolse in parte sia il primo che il secondo, condannando la P.A. al pagamento degli interessi legali e della somma corrispondente al maggior danno, ragguagliato all’eventuale più elevato tasso di rivalutazione rispetto a quello degli interessi legali, oltre che alla metà delle spese processuali. Alla base della propria statuizione la Corte osservò che l’impresa aveva eseguito opere stradali commissionate dalla P.A. in assenza tanto di contratto scritto, quanto di un ordine o di una deliberazione di spesa adottati nelle forme dell’art. 23, D.L. n. 66/1989.
Di conseguenza, la responsabilità contrattuale della P.A. era inoperante, restando contrattualmente coinvolto l’amministratore o il funzionario dell’ente che aveva agito per suo conto. Nello specifico, però, avendo l’ente riconosciuto (ex art. 5, D.Lgs. n. 342/1997) il proprio debito fuori bilancio e avendo erogato alla propria creditrice la somma corrispondente all’intera sorte capitale, le questioni residue si riducevano al pagamento della rivalutazione e degli interessi calcolati su queste somme.
Tuttavia, poiché l’impresa aveva proposto tali domande verso la P.A. nella forma di cui all’art. 2041 c.c., esse andavano disattese in difetto del requisito della sussidiarietà: tali domande, invero, andavano -ai sensi dell’art. 23, D.L. n. 66/1989- nei riguardi della persona fisica che aveva consentito l’instaurazione di quel rapporto contrattuale, quindi con differente causa petendi. Di contro, erano dovuti all’impresa interessi e rivalutazione per il periodo di tardato pagamento, con riferimento al momento in cui essi erano diventati esigibili, in ragione del riconoscimento del debito fuori bilancio, avvenuto con la Delib. 28.11.1998, n. 150. Le spese erano determinate ponendone la metà a carico della Provincia.
Ricorre l’impresa per la cassazione di tale sentenza, lamentando sostanzialmente l’erroneità della decisione di merito ove non aveva considerato come indice di un (secondo) riconoscimento dell’utilità, con la conseguente maggiore debenza d’interessi e rivalutazione, una (seconda) deliberazione di riconoscimento di debito fuori bilancio, questa volta non intervenuta per la sorte capitale in corso di causa di primo grado, bensì per effetto della sentenza di primo grado e limitatamente alle somme accessorie da essa esecutivamente poste a carico dell’Ente.
La Suprema Corte ritiene che tali doglianze siano in parte inammissibili e in altra parte infondate.
Sotto un primo profilo, afferma il Giudice nomofilattico che una delibera contenente un riconoscimento del debito, che prende atto di una sentenza e che poggia la propria motivazione sull’esecutività provvisoria della medesima, non è idonea a costituire un riconoscimento di debito ai sensi dell’art. 2041 c.c. o dell’art. 23, D.L. n. 66/1989, posto che essa poggia il proprio contenuto sulla necessità di effettuare il pagamento della somma richiesta in ottemperanza alla sentenza del Tribunale, provvisoriamente esecutiva per legge e a seguito a notifica dell’atto di precetto, adottato, pertanto, allo scopo di evitare l’esecuzione coattiva ed i conseguenti costi ulteriori.
Né la Cassazione ritiene ammissibili le doglianze che mirano a un riesame, rispetto a quello compiuto dal Giudice di merito, delle valutazioni che la P.A. ha compiuto nelle due delibere ricognitive del debito fuori bilancio, in assenza di censure attinenti ai criteri ermeneutici asseritamente violati.
A tal proposito, la S.C. ha ricordato che in difetto di censure attinenti ai criteri interpretative delle stesse, non possono essere riesaminate in sede di legittimità, in ossequio al condiviso principio di diritto (Cass., Sez. II , n. 11409/1998) secondo cui l’interpretazione degli atti amministrativi soggiace alle stesse regole dettate dagli artt. 1362 ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti tra le quali, ha carattere preminente, quella collegata all’elemento letterale -in quanto compatibili con il provvedimento amministrativo- dovendo il giudice anche ricostruire l’intento dell’Amministrazione ed il potere che ha inteso in concreto esercitare, tenendo altresì conto del complesso dell’atto e del comportamento dell’Autorità amministrativa, oltre che di quanto può razionalmente intendere, secondo buona fede, il destinatario (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 27.01.2015 n. 1510 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2015).

LAVORI PUBBLICI: SULLA NECESSITÀ DI UN CONTRATTO AVENTE FORMA SCRITTA PER IL COTTIMO FIDUCIARIO.
La necessità di un contratto scritto per ottenere un pagamento per prestazioni rese in favore della P.A. non viene meno neppure nella fattispecie di cottimo fiduciario, che altro non è se non una specifica forma d’appalto, concluso a trattativa privata, ammissibile per legge solo in ipotesi tassativamente previste e in presenza di presupposti specifici e che costituisce deroga ai sistemi d’evidenza pubblica di scelta del contraente, principio generale in materia di contratti pubblici.
Un Ufficio di Genio civile affidò lavori di somma urgenza, relativi al consolidamento d’un campanile, a una impresa.
Nell’esecuzione delle opere si resero necessarie indagini e saggi per la definizione della perizia inerente al consolidamento delle opere, ritualmente approvata per circa 500 milioni di lire. A lavori eseguiti, il medesimo Ufficio comunicò che l’intervento sarebbe stato ridotto alle sole opere provvisionali, competendo quelle di consolidamento alla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali. Per l’effetto, invitò l’impresa alla stipula dell’atto di cottimo, per così saldare i lavori eseguiti, limitatamente alla cifra di 24 milioni di lire.
L’impresa, tuttavia, domandò il pagamento del proprio totale credito, sulla sola base della fattura emessa, rifiutandosi di firmare l’atto di cottimo, dichiaratamente per non rinunciare a quanto spettante giusta gli (allora vigenti) artt. 344 (jus variandi sino a un quinto del prezzo del contratto) e 345 (risoluzione del contratto) della L. n. 23.03.1865, all. F, 1865, oltre agli interessi da tardivo pagamento.
A fronte del rifiuto dell’Amministrazione appaltante, l’impresa citò in giudizio la Regione, chiedendo il risarcimento dei danni subiti e quantificati in circa 51 milioni di lire (pari all’importo di quanto eseguito e del decimo di quelli non effettuati), con rivalutazione monetaria ed accessori.
Il Tribunale e la Corte d’appello respinsero la domanda.
In particolare, osservò la Corte territoriale che la domanda risarcitoria proposta dall’impresa non poteva essere accolta perché fra le parti non v’era alcun contratto, atteso che la lettera di affidamento dei lavori da parte del Genio Civile era sottoscritta dall’ingegnere capo, persona inidonea a vincolare la Regione e, ancora, che dal decreto assessorile regionale che approvò la perizia non poteva ricavarsi alcun impegno della Regione. Era poi dichiarata inammissibile dalla Corte d’appello, perché domanda nuova proposta in secondo grado, l’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c..
La Cassazione, adita dall’impresa, rigetta il ricorso.
Per quanto interessi, è respinta la censura con cui la ricorrente sostiene che la lettera di affidamento, sottoscritta dall’Ufficiale del Genio civile e dall’impresa, registrata e autorizzata dall’Assessorato regionale, sarebbe di per sé sufficiente per vincolare la regione al pagamento delle lavorazioni. Osserva la Suprema Corte che le doglianze si sostanziano nel problema della necessità (o meno) del contratto scritto per ottenere un pagamento da prestazioni rese in favore della P.A..
Tali principi non vengono meno neppure nel caso di cottimo fiduciario, quale altro non è se non una specifica forma d’appalto, concluso a trattativa privata, ammissibile per legge solo in ipotesi tassativamente previste e in presenza di presupposti specifici, caratterizzato dal fatto che l’appaltatore è prescelto da un funzionario responsabile mediante una valutazione ampiamente direzionale, nonché dalla non soggezione alle regole della contabilità dello Stato, limitatamente alla deliberazione a contrarre, all’intervento del soggetto capace di rappresentare la P.A., nonché all’affidamento dei lavori.
Esso costituisce una deroga ai sistemi d’evidenza pubblica di scelta del contraente, principio generale in materia di contratti pubblici. Anche la fattispecie del cottimo fiduciario esige il rispetto della forma scritta. La sentenza richiama numerosi propri precedenti (ex multis, Cass. civ., Sez. I, nn. 13749/2003 e 19038/2010) per i quali anche il contratto di cottimo fiduciario richiede forma scritta ad substantiam sicché, ove la sua stipulazione in forma scritta segua l’ultimazione dei lavori, è soltanto da quel momento (e non da quello, precedente, della loro ultimazione) che sorge l’obbligazione della stazione appaltante al pagamento del corrispettivo dell’appalto.
E, di conseguenza, solo dalla data suddetta diviene applicabile, riguardo agli interessi, la disciplina di cui agli artt. 35 e 36, d.P.R. n. 1063/1962. Né tal generale principio può essere derogato dalla legislazione regionale: la Cassazione ha affermato che la necessità di forma scritta per i contratti con la P.A. non è derogabile dalla legislazione regionale (cfr. Cass. civ., Sez. I, n. 669/2003 per il Lazio; Id., n. 3957/2012 per la Sicilia).
Al definitivo, i contratti con la P.A. devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e -salva la deroga prevista dall’art. 17 del R.D. n. 2440/1923 per i contratti con le ditte commerciali (definibili a distanza e a mezzo di corrispondenza “secondo l’uso del commercio”)- con la sottoscrizione da parte dell’organo dell’Ente dotato di rappresentatività esterna e dell’impresa, di un unico documento in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto. Si tratta di regole, osserva la Suprema Corte, funzionali all’attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione, perché agevolano l’esercizio dei controlli e rispondono all’esigenza di tutelare le risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità delle obbligazioni da adempiere.
Merita solo un cenno, trattandosi d’insegnamento costante, l’enunciazione del principio con il quale la Suprema Corte disattende la censura proposta con il secondo motivo, con il quale si chiede di rimeditare l’affermazione del Giudice distrettuale circa l’ammissibilità della domanda d’indebito arricchimento proposta, per la prima volta, in sede di appello.
Sul punto, il Giudice di legittimità ricorda il principio enucleato dalle Sezioni Unite (sent. n. 26128/2010) secondo cui le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento indebito, quali azioni che riguardano entrambe diritti etero-determinati, si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia per causa petendi (esclusivamente nella seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione, nonché, ove l’arricchito sia una P.A., il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’ente), quanto per il petitum (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo).
Addirittura le Sezioni Unite osservano che la domanda ex art. 2041 c.c. può essere proposta nel giudizio d’opposizione a decreto ingiuntivo (regolato dal rito ordinario ex art. 645, comma 2, e, quindi, dall’art. 183, comma 5, c.p.c.) soltanto se avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall’opposto (attore sostanziale) qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione in opposizione, un tema d’indagine che possa giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa.
In ogni altro caso, all’opposto è precluso proporre, neppure in via subordinata, in comparsa di risposta o nella memorie ex art. 183 c.p.c. un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d’ufficio dal giudice. Se il richiamato principio opera nel caso di fattispecie inerente l’opposizione a decreto ingiuntivo, esso deve a fortiori applicarsi al giudizio di appello, nel quale non è certamente configurabile l’unica eccezione alla inammissibilità ipotizzata dalla menzionata sentenza, ossia quella in cui sia stato l’opponente a sollevare la questione, perciò rimettendo in termini l’opposto (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 21.01.2015 n. 1053 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

LAVORI PUBBLICI: EFFETTI DEL D.P.R. N. 1063/1962 SU CONTRATTI STIPULATI DA ENTI NON STATALI.
Il capitolato generale d’appalto per le opere pubbliche di cui al d.P.R. n. 1063/1962 ha valore normativo e vincolante -e si applica, quindi, in modo diretto, indipendentemente dal richiamo operato dalle parti- soltanto per gli appalti stipulati dallo Stato, mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni del capitolato costituiscono clausole negoziali, operanti per volontà pattizia, sicché assumono efficacia obbligatoria solo se, e nei limiti in cui, le parti le abbiano richiamate per regolare il singolo rapporto contrattuale.
La sentenza risolve un ricorso proposto da un Comune contro una sentenza di Corte d’Appello che aveva respinto l’impugnazione dal medesimo Ente proposta contro un lodo reso a soluzione d’una controversia insorta con un’impresa appaltatrice di opere pubbliche, poi fallita.
Per quanto qui rilevi, la Corte di merito ha disatteso l’eccezione circa la validità della clausola compromissoria contenuta nel contratto osservando che il richiamo, ivi presente, alle disposizioni di cui all’allora vigente capitolato generale oo.pp. per lo Stato (d.P.R. n. 1063/1962) implicava l’inserimento pattizio di tutte le disposizioni colà previste (incluse quelle inerenti la necessaria devoluzione di controversie alla competenza arbitrale, per vero poi dichiarata incostituzionale), per entrambe le parti contraenti e non solo per l’appaltatore.
In relazione a tale aspetto, il Comune ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 807 e 808 c.p.c., dell’art. 1362 c.c. ss., oltre che vizi motivazionali, assumendo che la Corte di merito, privilegiando il criterio ermeneutico fondato sul comportamento delle parti successivo alla stipulazione del contratto, avrebbe disatteso il principio inerente alla necessità -qualora sia richiesta per una determinata convenzione la forma scritta “ad substantiam”- di individuare la relativa clausola nel contenuto del contratto, non essendo nella specie sufficiente il generico richiamo al capitolato generale per le opere pubbliche.
La Cassazione condivide la doglianza, affermando l’erroneità dell’assunto per il quale il richiamo -operato in contratto- al d.P.R. n. 1063/1962 implica l’automatico inserimento pattizio di ogni disposizione prevista da detta normativa, incluse quelle inerenti alla devoluzione delle eventuali controversie alla procedura arbitrale.
A sostegno dell’assunto, la Suprema Corte richiama i propri precedenti per i quali il capitolato generale d’appalto per le opere pubbliche di cui al d.P.R. n. 1063/1962 ha valore normativo e vincolante -e si applica, quindi, in modo diretto, indipendentemente dal richiamo operato dalle parti- soltanto per gli appalti stipulati dallo Stato, mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni di esso costituiscono clausole negoziali, operanti solo per volontà pattizia (Cass., SS.UU., 14.12.1999, n. 14018).
In tale ottica, s’è precisato che qualora in un contratto d’appalto stipulato a seguito di una licitazione privata indetta da un Comune le parti abbiano fatto espresso richiamo, quale parte integrante del contratto, alle norme del d.P.R. n. 1063/1962 (fra le quali sono comprese quelle relative alla competenza arbitrale per la definizione delle controversie) non v’è necessità di una separata clausola compromissoria, posto che la volontà dei contraenti trova già la sua espressione “per relationem perfecta” nel richiamo pattizio. In tal caso la fonte della competenza arbitrale va individuata non nella legge (ossia del d.P.R. cit.), bensì in una convenzione compromissoria (Cass. 24.06.2008, n. 17083).
In altri termini, la natura pattizia della previsione d’arbitrato (la cui obbligatorietà per i contratti dello Stato fu a suo tempo dichiarata incostituzionale) può desumersi attraverso il richiamo al capitolato generale che prevede, per l’appunto, anche la risoluzione di eventuali controversie relative a interpretazione ed esecuzione del contratto di appalto mediante arbitrato. Sicché -ai fini dell’operatività d’una clausola compromissoria arbitrale- occorre sempre, per gli appalti non statali, un univoco ed espresso richiamo al capitolato generale, e, con esso, alla previsione dell’arbitrato. In tale senso è la giurisprudenza della Suprema Corte nel richiedere che i contraenti di un appalto di opere pubbliche non tenuti (perché non statali) all’applicazione delle norme del d.P.R. cit. debbono operare “un richiamo esplicito, e non meramente formale” a detta disciplina (Cass. 04.02.2011, n. 2749, in motivazione).
In precedenza si era affermato che, in mancanza d’una disposizione che sottoponga i contratti stipulati dagli enti pubblici diversi dallo Stato alla disciplina del predetto capitolato, ove le parti abbiano richiamato il capitolato stesso per disciplinare il rapporto contrattuale -come avviene nel caso in cui abbiano testualmente pattuito che esso costituisca parte integrante del contratto- le norme del capitolato, ivi comprese quelle che prevedono il deferimento delle controversie nascenti dal contratto a un collegio arbitrale, assumono la stessa natura e portata negoziale dell’atto che le richiama, perdendo qualsiasi collegamento con la fonte normativa di provenienza, e conservando efficacia indipendentemente dalle successive modifiche della stessa (Cass. 06.11.2006, n. 23670).
Tuttavia non risultando, nel caso di specie, la volontà di recepire il contenuto del predetto capitolato generale in maniera esplicita ed evidente, perché la mera indicazione del capitolato generale come “documento” costituente parte integrante del contratto non è indicativa dell’intenzione dei contraenti di rispettarne tutte le clausole né -con riguardo allo specifico- vale la circostanza che il contrato sembri individuare determinati obblighi a carico del solo appaltatore “tenuto a osservare scrupolosamente e ad accettare come se inserite nel presente contratto … le disposizioni delle condizioni contenute nel capitolato generale d’appalto approvato con d.P.R. 16.07.1962, n. 1063”.
Su tale aspetto -chiosa la Suprema Corte- la Corte di merito ha errato nel ritenere che il solo appaltatore si sarebbe impegnato a rispettare il capitolato e, con esso, la previsione del ricorso all’arbitrato, perché si oblitera il limite costituito dalla natura contrattuale della convenzione di arbitrato, che deve formarsi con il consenso (anche “per relationem”) di tutte le parti, nella specie assolutamente carente (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 19.01.2015 n. 747 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

ESPROPRIAZIONE: EFFETTI DELL’OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA E DECORRENZA DEI TERMINI PRESCRIZIONALI DI RISARCIMENTO.
In applicazione dell’art. 1 prot. addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, va affermato che l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno.
Sussiste diritto al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione o sino a quello in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno.
In ragione di ciò, la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente.

Un privato convenne in giudizio, innanzi al Tribunale civile, un Comune, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti per l’illegittima occupazione d’un terreno sul quale era stato realizzato un edificio scolastico. In particolare, l’attore precisava che l’occupazione d’urgenza dell’area era stata autorizzata con decreto assai risalente nel tempo ed era divenuta illegittima poiché il decreto di esproprio non era intervenuto nel biennio successivo.
Il Tribunale rigettava la domanda per intervenuta prescrizione del diritto.
La Corte d’appello confermava la decisione, osservando che il termine quinquennale di prescrizione dovesse ritenersi decorrente dall’irreversibile trasformazione del terreno (verificatasi nel 1960 con la realizzazione dell’edificio scolastico) e, ancora, che non erano incompatibili con l’eccepita prescrizione le condotte del Comune (in particolare: determinazione, offerta e deposito dell’indennità; la delibera di procedere all’acquisto oneroso del terreno; un contratto di compravendita rimasto privo di seguito per mancanza di finanziamento). Gli eredi del privato ricorrono per Cassazione.
La questione, in ragione di contrasti giurisprudenziali, è rimessa alle Sezioni Unite. Infatti, a un primo orientamento che continua ad applicare l’istituto dell’occupazione espropriativa, configurata come illecito istantaneo con effetti permanenti e che attribuisce al proprietario l’intero controvalore del bene espropriato, si contrappone un secondo orientamento per il quale non può più farsi applicazione dell’istituto dell’occupazione espropriativa, sia perché esso realizza un’indebita “espropriazione indiretta”, secondo quanto affermato dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte E.D.U.), sia per l’incompatibile istituto dell’acquisizione sanante, di cui all’art. 42-bis, d.P.R. n. 327/2001. Secondo tale orientamento, quindi, chi subisce un’occupazione illegittima resta titolare del bene occupato e può chiedere il risarcimento dei danni da illecito permanente, pur se perde in radice il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità.
Le Sezioni Unite accolgono il ricorso.
Sono condivise le osservazioni dei ricorrenti circa la violazione dell’art. 1 prot. addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.) e dell’art. 10 Cost., adducendosi che -erroneamente- la Corte di appello avrebbe fatto applicazione dell’istituto dell’accessione invertita, ritenuto non conforme al principio di legalità dalla C.E.D.U.. Di conseguenza, dovendosi escludere l’acquisto della proprietà da parte del convenuto per effetto della irreversibile trasformazione, si doveva anche escludere la decorrenza da quest’ultima del diritto al risarcimento del danno, che discendeva da un illecito permanente, quale doveva appunto considerarsi l’occupazione illegittima di un terreno da parte di un ente pubblico.
Nel motivare l’accoglimento di tale mezzo -che comporta l’assorbimento del secondo- le SS.UU. ricordano che la occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa) è istituto di creazione giurisprudenziale (Cass., SS.UU., 26.02.1983, n. 1464; Cass. 08.06.1979, n. 3243) ricorrente in presenza d’una occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dall’irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità. Esso è il frutto della ricerca di un punto d’equilibrio fra tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla P.A. della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo della P.A. occupante di risarcire integralmente il danno arrecato).
La giurisprudenza successiva ha affrontato il problema del contrasto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 prot. C.E.D.U., come interpretato dalla Corte E.D.U. In particolare, la Corte di Strasburgo ha censurato le forme di “espropriazione indiretta” elaborate nell’ordinamento italiano anche e soprattutto in sede giurisprudenziale e le ha configurate come illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1 cit., senza che alcuna contraria rilevanza possa assumere il dato fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermando anzi che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito.
In ragione di questo, la giurisprudenza di Cassazione successiva alle pronunzie della Corte europea si è in larga parte orientata verso il superamento dei punti di criticità della disciplina dell’istituto, rispetto ai principi affermati dalla Corte E.D.U..
Così, ad esempio, il problema della tutela del privato rispetto all’incertezza del dies a quo di un termine di prescrizione collegato all’irreversibile trasformazione, è stato definitivamente superato affermandosi tanto che detto termine inizi a decorrere dal momento in cui il trasferimento della proprietà venga (o possa) essere percepito dal proprietario come danno ingiusto e irreversibile, quanto che la relativa prova incombe sull’Amministrazione (Cass. n. 8965/2014).
I più recenti arresti di Cassazione ritengono superato l’istituto dell’occupazione acquisitiva (Cass. 14.01.2013, n. 705; Cass. 28.01.2013, n. 1804), aderendo alle conclusioni della Corte E.D.U. e sviluppando un’esegesi dell’art. 42-bis T.U. espropri che ha portato a ritenere che tale norma sia applicabile anche a fatti anteriori alla sua entrata in vigore e che essa disciplini in modo esclusivo, incompatibile con l’occupazione acquisitiva, le modalità attraverso le quali, a fronte di un’utilizzazione senza titolo d’un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile -con l’esercizio d’un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto- pervenire ad un’acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della P.A., sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo.
La Sezioni Unite, con questa sentenza, risolvono il tema affermando che il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1, del protocollo addizionale alla Convenzione europea è sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento. La sussistenza di tale contrasto è riconosciuta dalle Sezioni Unite con ordinanze nn. 441 e 442 del 13.01.2014 con cui è stata ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. del citato art. 42-bis, con riguardo agli artt. 3, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., anche alla luce dell’art. 1 prot. addizionale C.E.D.U..
In tali ordinanze, la Cassazione ha dato atto che la Corte europea ha acclarato più volte il radicale contrasto con la Convenzione del principio dell’espropriazione indiretta, con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla P.A. avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa Amministrazione, con l’effetto di convalidarla; di consentire a quest’ultima di trame vantaggio; di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella categoria suddetta, la Corte ha sistematicamente inserito anche l’ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa, ritenendo ininfluente che una tal vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza o sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con la L. n. 458/1988.
Le conseguenze che derivano dalla contrarietà dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con i principi affermati dall’art. 1 prot. C.E.D.U. devono essere individuate sulla base di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e 338/2011: sicché le norme interne in contrasto gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 prot. C.E.D.U., che il legislatore è tenuto a rispettare in forza dell’art. 117 Cost., comma 1, non possono essere disapplicate dal giudice nazionale che deve verificare la possibilità di risolvere il problema in via interpretativa, rimettendo, in caso contrario, la questione alla Corte costituzionale.
In conclusione, afferma la Corte che quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione si configurano - indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità - come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione ma la responsabilità di questa per i danni.
In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell’illecito come “istantaneo con effetti permanenti” e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di “illecito permanente” che cessa solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
A tale ultimo riguardo, è da escludersi che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità: in alternativa alla restituzione, gli è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr., in tema di occupazione usurpativa Cass. 28.03.2001, n. 4451; Cass. 12.12.2001, n. 15710).
Tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000, n. 1814) (Corte di Cassazione, Sezz. Un. civili, sentenza 19.01.2015 n. 735 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ORDINANZA DI DEMOLIZIONE ESEGUIBILE SULL’IMMOBILE ABUSIVO ANCHE IN CASO DI SEPARAZIONE LEGALE.
Anche nel caso in cui, in sede di separazione legale, il coniuge trasferisca all’altro la quota parte di proprietà dell’immobile abusivamente realizzato, ciò non inficia la validità dell’ingiunzione emessa anche nei suoi confronti in qualità di responsabile dell’abuso.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla eseguibilità dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo ove, nelle more dell’esecuzione, intervenga la separazione tra i coniugi e uno di essi trasferisca all’altro la quota di sua spettanza sull’immobile.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con la quale il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, ha respinto le istanze proposte da due ex coniugi avverso l’ingiunzione a demolire emessa dalla Procura della Repubblica in esecuzione di una sentenza irrevocabile che li aveva ritenuti penalmente responsabili della abusiva costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, di due prefabbricati e due verande in legno, dei quali era stata ordinata, in sentenza, la demolizione.
Il Tribunale, nel disattendere i rilievi difensivi, ha ritenuto irrilevanti:
a) l’assegnazione dell’immobile alla moglie, disposta in sede di separazione, poiché tale assegnazione non faceva comunque venir meno la qualità di comproprietario dell’immobile stesso in capo al coniuge;
b) lo stato di necessità addotto dalla donna che aveva affermato di utilizzare l’immobile come casa di abitazione perché non potrebbe permettersene un’altra;
c) la pendenza di un ricorso giurisdizionale perché incerto nei suoi esiti e nei tempi di definizione. Contro l’ordinanza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo che, in sede di separazione, l’immobile era stato assegnato in via definitiva alla moglie che ne è divenuta proprietaria, sicché l’ex marito non era giuridicamente legittimato a ricevere l’ordine di demolizione né ad eseguirlo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che, dal chiaro tenore letterale del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31, comma 2, deriva che l’ordine di demolizione è ingiunto sia al proprietario che al responsabile dell’abuso; in particolare, è il responsabile dell’abuso che, a prescindere dal rapporto giuridico con il bene al momento in cui riceve l’ingiunzione, è comunque tenuto ad ottemperarvi (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 3 cit.) ed è, inoltre, a sue spese che il Comune deve procedere alla demolizione in caso di acquisizione dell’immobile (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, commi 4 e 5).
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso (sulla questione non constano precedenti in termini) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.12.2014 n. 53159 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: INAMMISSIBILE SUDDIVIDERE TEMPORALMENTE I LAVORI ABUSIVI ESEGUITI SUL MEDESIMO IMMOBILE AI FINI DEL FRAZIONAMENTO DELLA PRESCRIZIONE.
Nella totale assenza di elementi di prova indicativi di una netta cesura temporale nella realizzazione dell’immobile, questo deve essere valutato globalmente, senza che, nel contesto di un corpo edilizio unitario, assuma valore alcuno la datazione dei singoli interventi, funzionali alla complessiva realizzazione del fabbricato.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella prassi di legittimità, della possibilità di distinguere temporalmente l’esecuzione dei lavori abusivi eseguiti su un medesimo immobile, onde farne derivare una diversa decorrenza del termine di prescrizione del reato edilizio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale dichiarava l’imputato responsabile dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, perché, quale proprietario, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, di notevole interesse pubblico, ai sensi del D.M. 13.11.1971, realizzava, in difetto di titolo abilitativo e di nulla-osta paesaggistico, un manufatto a due corpi perpendicolari con pareti in mattoni e tetto inclinato in travetti, pignatta e caldana in calcestruzzo.
La Corte di Appello, in riforma del decisum di prime cure, aveva dichiarato estinta per prescrizione la violazione edilizia contestata, rideterminando la pena. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare contestando, per quanto qui di interesse, la mancanza di prova in ordine alla concretizzazione del reato in contestazione, con particolare riferimento all’epoca di edificazione del manufatto in questione, dolendosi anche del fatto che ingiustificatamente e illogicamente la Corte d’appello aveva rigettato la richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, tendente a provare l’epoca della esecuzione dei lavori riguardanti la parte essenziale e strutturale del manufatto in questione, come dimostrato dalle ortofoto prodotte in sede di appello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come la Corte d’Appello avesse ritenuto, a giusta ragione, di non potere accedere alla tesi difensiva, secondo cui la realizzazione dell’immobile abusivo dovrebbe essere frammentata per fasi, così da fare ritenere ormai prescritti i reati con riferimento alla esecuzione delle opere principali (quelle costituenti volumetria) e da fare, invece, considerare irrilevanti, sia sul piano edilizio, che su piano paesaggistico, gli ulteriori interventi, in quanto semplici opere di completamento (intonacatura, rinfazzo, posa delle tegole).
Dalle emergenze istruttorie (fotografie in atti; eseguite al momento dell’accertamento operato dalla Polizia Municipale) poi, emergeva, in maniera incontrovertibile, una attività di edificazione in corso, non attinente a soli interventi di intonacatura e rinzaffo, visto che il solaio risultava ancora puntellato con ben otto sostegni in ferro (circostanza, questa, dimostrativa della recente realizzazione di esso), sicché, pur considerando la preesistenza di un inizio di edificazione risalente nel tempo, le opere eseguite erano da ritenersi in diretta prosecuzione alle precedenti, con specifica incidenza sul piano edilizio e paesaggistico (in precedenza, nel senso che la condotta penalmente illecita permane dall’inizio sino al termine della costruzione abusiva, e quindi sino al termine della costruzione di tutti i piani di cui si compone l’edificio, configurando un unico reato contravvenzionale, che in quanto permanente, non è frazionabile, ai fini della prescrizione, ex art. 158 c.p.: Cass. pen., Sez. III, n. 10025 del 26.09.1997 - dep. 10.11.1997, Cipolletta, in CED Cass., n. 209428) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.12.2014 n. 53154 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA PRECARIETÀ DI UN INTERVENTO EDILIZIO COSTITUISCE APPREZZAMENTO DI FATTO, INSINDACABILE DALLA CASSAZIONE SE IMMUNE DA VIZI LOGICI.
L’indagine sulla sussistenza in concreto degli estremi affinché un intervento edilizio asseritamente precario sia o meno facilmente amovibile, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito, quando quest’ultimo ne abbia correttamente individuato i criteri di identificazione basandosi su elementi oggettivi (nella specie, la presenza della muratura), sicché si sottrae al sindacato della Cassazione ove immune da vizi logici e giuridici.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della rilevanza, ai fini dell’individuazione del titolo abilitativo richiesto, della c.d. precarietà dell’opera edilizia, com’è noto soggetta, soprattutto in base a certa legislazione regionale (nella specie, si trattava della regione Sicilia), a procedura semplificata.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello, nei confronti di una donna cui era stato addebitato di avere, nella qualità di proprietaria, eseguito abusivamente lavori edili consistiti in una tettoia realizzata mediante tre montanti in legno costituiti da travi 25x25 che sorreggono una trave anch’essa 25x25 su cui è appoggiata l’orditura in legno che sostiene il tetto in tegole e con la parte superiore dell’orditura murata nella parete del fabbricato, il tutto per una superficie complessiva di mq. 12 circa ed un’altezza di mt. 3,50 circa al colmo e mt. 3,00 in gronda, opere tutte eseguite in assenza del p.d.c. o comunque in totale difformità dello stesso (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44); altra violazione, poi, concerneva l’aver eseguito i lavori di cui sopra in zona sismica, omettendo di depositare prima dell’inizio dei lavori gli atti progettuali presso l’ufficio del Genio civile competente e senza aver prima ottenuto la prescritta autorizzazione e senza la preventiva presentazione dei calcoli di stabilità (d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95); altra duplice violazione concerneva l’aver realizzato, in concorso con altro soggetto nei cui confronti si era separatamente proceduto, in assenza di p.d.c., una tettoia con piantoni e travi in legno nonché per aver realizzato detta opera in zona sismica ed in assenza del necessario preavviso e della preventiva autorizzazione, rispettivamente da inoltrare e da ricevere dal Genio civile.
Contro la sentenza, l’imputata aveva proposto ricorso per cassazione, in particolare sostenendo che erroneamente i giudici avevano ritenuto che la tettoia non fosse facilmente amovibile; detta affermazione contrasterebbe con la stessa descrizione del manufatto, avendo i giudici asserito che per i materiali e per le caratteristiche costruttive con travi di supporto e l’orditura che sostiene il tetto in tegole murata alla parete, la tettoia non potesse essere ritenuta precaria, trattandosi di struttura di non facile rimovibilità e che garantisce un uso durevole; la motivazione sarebbe viziata atteso che i materiali utilizzati (legno e tegole), per la loro intrinseca natura, presentano caratteri di facile amovibilità; in secondo luogo l’orditura superiore della tettoia, pur descritta come murata, in realtà sarebbe stata solo ancorata o appoggiata alla parete; ancora, la facile rimovibilità di tale parte della tettoia avverrebbe con il semplice sfilamento delle travi e lo scollamento dell’orditura, senza necessità di interventi demolitori della parete dell’edificio; i giudici, quindi, non avrebbero considerato che l’ancoraggio o l’appoggio alla parete dell’edificio costituisce requisito di sicurezza per l’incolumità pubblica e privata che, come tale, si coniuga con la natura precaria della tettoia, la cui precarietà non può venir meno in ragione dell’osservanza di principi e valori fondamentali posti a tutela della collettività; l’opera in questione, si sosteneva in ricorso, doveva essere considerata precaria anche se ancorata ad un punto fisso, purché amovibile non dovendo comportare alcun effetto demolitorio degli elementi collegati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare osservando che il concetto di precarietà legato al criterio strutturale della “facile rimozione”, impone che il manufatto (nella specie, la tettoia) non risulti infissa né incorporata alla parete ma sia semplicemente aderente a questa, situazione fattuale, questa, incompatibile con quanto descritto in sentenza, ove si evidenzia che la parte superiore dell’orditura è murata nella parete del fabbricato.
La difesa, nel contestare la valutazione della facile rimovibilità del manufatto, aveva, come detto, sostenuto che la tettoia non fosse murata ma solo ancorata od appoggiata e che fosse facilmente amovibile in quanto rimovibile con il semplice sfilamento delle travi e lo scollamento dell’orditura. Trattasi, all’evidenza, di censure in punto di fatto, con cui si chiede in sostanza alla Cassazione di sindacare l’approdo valutativo attraverso il quale la Corte d’Appello aveva ritenuto di dover qualificare come non facilmente amovibile l’opera, operazione non consentita in sede di legittimità.
Trattasi di principio già sostenuto in passato dalla Cassazione, ad esempio, con riferimento alla categoria giuridica delle pertinenze. In particolare, la Cassazione ha sostenuto che l’indagine sulla sussistenza in concreto degli estremi, affinché un immobile rientri nella suddetta categoria, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito, quando quest’ultimo ne abbia correttamente individuato i criteri di identificazione (Cass. pen., Sez. III, n. 6095 del 26.02.1990 - dep. 27.04.1990, Bellomo, in CED Cass., n. 184156) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.12.2014 n. 52755 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

APPALTI: RICONOSCIMENTO D’UN DEBITO FUORI BILANCIO E AZIONE D’INDEBITO ARRICCHIMENTO. RESPONSABILITÀ DEL FUNZIONARIO SOTTOSCRITTORE DEL CONTRATTO.
Il riconoscimento d’un debito fuori bilancio (ex art. 37, D.Lgs. 25.02.1995, n. 77) rappresenta un procedimento discrezionale che consente all’Ente locale di far salvi, nel proprio interesse, gli impegni di spesa in precedenza assunti tramite specifica obbligazione ancorché sprovvista di copertura contabile, ma non ha la funzione di introdurre una sanatoria per i contratti conclusi in assenza di forma scritta né di apportare una deroga al regime di inammissibilità dell’azione di indebito arricchimento potendosi esso interpretare come un riconoscimento, sia pure implicito, di utilità della prestazione (in termini, cfr. anche Cass. civ., Sez. I, 27.01.2015, n. 1510).
Per l’art. 191 T.U. Enti Locali (D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) in caso di acquisizione di beni o servizi in assenza d’impegno contabile e attestazione di copertura finanziaria, il rapporto obbligatorio intercorre -ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e)- tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente: per effetto di ciò vi è impossibilità di esperire nei confronti dell’Ente locale la residuale azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.

Un libero professionista convenne in Tribunale un’Amministrazione per il pagamento del compenso derivato da una prestazione professionale chiedendo, in subordine, l’indennizzo per ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.) sul presupposto che l’Ente avesse utilizzato la sua opera, riconoscendone così l’utilità.
Il Comune convenuto, nel costituirsi, eccepì la nullità del contratto privo di forma scritta e, contestualmente, la sussistenza dei presupposti per proporsi azione d’arricchimento indebito. Il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo non provati né la materiale esecuzione dell’opera sulla scorta del progetto redatto dall’attore, né il riconoscimento dell’utilità da parte della P.A..
La sentenza fu confermata dalla Corte d’Appello.
Il professionista ricorre in Cassazione, che respinge il ricorso.
Tra le argomentazioni sviluppate dal Giudice di legittimità a fondamento del rigetto, due sono centrali e vanno qui evidenziate. Anzitutto, la Suprema Corte ricorda che il rapporto fra le parti è nullo per difetto di forma scritta e che tal nullità non può sanarsi mediante il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte della P.A., peraltro qui res controversa, in quanto -a dir del ricorrente- essa sarebbe avvenuta per effetto del riconoscimento di un debito fuori bilancio.
La Cassazione smentisce l’assunto affermando che la stipulazione con la P.A. d’un qualsiasi contratto privo di forma scritta è affetto da una nullità che non può essere sanata attraverso il riconoscimento, da parte dell’Amministrazione committente, dell’utilità della prestazione ricevuta.
È principio costante che il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 37, D.Lgs. 25.02.1995, n. 77, costituisce un procedimento discrezionale che consente all’ente locale di far salvi, nel proprio interesse, gli impegni di spesa in precedenza assunti tramite specifica obbligazione ancorché sprovvista di copertura contabile: esso non ha però la funzione di introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi - come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta “ad substantiam” né di apportare una deroga al regime di inammissibilità dell’azione di indebito arricchimento di cui all’art. 23 del D.L. n. 66/1989 (Cass., Sez. I, 12.11.2013, n. 25373).
Per l’effetto, se la nullità derivante dall’adozione d’una delibera di conferimento dell’incarico professionale non accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria può esser sanata attraverso la ricognizione postuma di debito da parte dell’ente locale (ex art. 24, D.L. n. 66/1989, poi seguito dagli artt. 191 -94 del T.U.E.L.- D.Lgs. n. 267/2000), tale dichiarazione non può avere alcuna efficacia sanante se il contratto difetta di forma scritta (Cass., Sez. III, 18.11.2008, n. 27406).
Sotto altro profilo, il Supremo Collegio osserva che è assorbente ragione d’infondatezza la circostanza che l’azione d’ingiustificato arricchimento ha -com’è noto  natura residuale, accordata a chi non disponga di altri strumenti giuridici a tutela della propria pretesa: circostanza che non sussiste nello specifico caso di spese fuori bilancio degli enti locali. Infatti, il legislatore, già con l’art. 23, comma 4, D.L. n. 66/1989 stabilì che laddove vi sia stata acquisizione da parte dell’ente locale di beni o servizi in violazione dell’obbligatoria deliberazione autorizzativa, né l’impegno contabile sia stato registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura.
Tale norma fu abrogata dall’art. 123, comma 1, D.Lgs. n. 77/1995 e sostituita dall’art. 35, comma 4, dello stesso decreto, che introdusse un’importante novità, costituita dalla possibilità per l’Ente di riconoscere, con deliberazione consiliare, la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da acquisizioni di beni o servizi non autorizzate, seppure “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”. In tal modo, la legge è passata da un sistema di “irresponsabilità assoluta” della p.a., nel caso di assunzione di beni o servizi non regolarmente deliberate, a un sistema di “irresponsabilità relativa”, nel quale a determinate condizioni la p.a. poteva decidere di “riconoscere” il debito fuori bilancio.
L’ultima tappa dell’evoluzione normativa, in materia, si ha con il T.U.E.L. il cui art. 191 ha stabilito che nel caso in cui vi è stata l’acquisizione di beni e servizi in violazione dell’obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3 e cioè in assenza dell’impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente.
In tali casi, il credito per prestazione o il servizio sussiste direttamente verso il funzionario il quale -in assenza dei necessari adempimenti formali per la validità dell’impegno di spesa assunto dalla P.A.- ne risponderà in proprio verso il privato fornitore. L’insorgenza del rapporto obbligatorio direttamente tra fornitore e amministratore o funzionario che abbia consentito la prestazione comporta l’impossibilità di esperire nei confronti dell’Ente locale l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
Al definitivo, dopo l’introduzione di tale sistema normativo, la questione del riconoscimento dell’utilità della prestazione si pone (di regola) solo quando siano il funzionario o l’amministratore responsabili verso il privato a proporre l’azione di cui all’art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. (Cass., Sez. VI - sottosez. III, ord. 23.01.2014, n. 1391; Cass., Sez. I, 26.05.2010, n. 12880) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 19.12.2014 n. 26911 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA INIDONEA AD ESCLUDERE LA RILEVANZA PENALE DEL C.D. DELITTO PAESAGGISTICO
L’avvenuto, postumo, rilascio della autorizzazione paesaggistica (o del nulla osta paesaggistico) da parte delle autorità competenti, è inidoneo ad escludere la rilevanza penale della condotta posta in essere in violazione dell’art. 181, comma 1-bis, D.Lgs n. 42 del 2004.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema assai frequente nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla rilevanza “escludente” la configurabilità dell’illecito penale, qualificabile come delitto paesaggistico, a seguito dell’intervento rilascio, postumo dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione contro la sentenza con cui la Corte di appello aveva confermato la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato quattro soggetti, avendoli ritenuti responsabili del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), per avere realizzato, in assenza del permesso a costruire, una tettoia con struttura portante in legno ricoperta da uno strato di incannucciato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, e del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, lett. a), per avere realizzato l’opera in questione in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole interesse pubblico in assenza della prescritta autorizzazione.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli interessati, in particolare dolendosi del fatto che i giudici non avrebbero tenuto conto della circostanza che risultava essere stata concessa l’autorizzazione paesaggistica dalla competente Sovrintendenza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha così fatto applicazione del principio di diritto, tradizionalmente ribadito da questa Corte, per il quale il rilascio postumo dell’autorizzazione paesistica da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (ipotesi diversa dal cosiddetto accertamento di compatibilità paesaggistica, introdotto per alcuni interventi minori dall’art. 1, comma 36, L. 15.12.2004, n. 308), non determina l’estinzione del reato paesaggistico (art. 181, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42) poiché tale effetto non è espressamente previsto da alcuna disposizione legislativa avente carattere generale, mentre il nulla osta paesaggistico ha l’effetto di escludere l’emissione o l’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi (Cass. pen., Sez. III, n. 37318 del 03.07.2007 - dep. 10.10.2007, Carusotto e altro, in CED Cass., n. 237562) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.12.2014 n. 52495 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI OPERE STRUTTURALI IN CEMENTO ARMATO NON È CONDIZIONE PER LA CONFIGURABILITÀ DELLE VIOLAZIONI ANTISISMICHE
Gli obblighi di denunzia dei lavori e di presentazione dei progetti di costruzioni in zone sismiche imposti dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 93 e la necessità della preventiva autorizzazione scritta prescritta dal successivo d.P.R. n. 380 del 2001, art. 94, devono essere rispettati per qualsiasi costruzione, riparazione e soprelevazione la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, indipendentemente dalla natura dei materiali utilizzati e, in particolare, dal fatto che si tratti di opere in conglomerato cementizio armato.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di poter ritenere configurabile la violazione antisismica nel caso in cui l’opera edilizia abusiva sia stata realizzata con materiali diversi dal cemento armato.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale aveva assolto l’imputato dai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95, contestati in relazione ad un edificio adibito ad abitazione realizzato in zona sismica, senza averne dato preavviso allo sportello unico e senza la preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico della regione. Il Tribunale, in particolare, ha assolto l’imputato dal reato di cui sopra perché il fatto non sussiste, non essendo stata contestata la realizzazione di opere strutturali in cemento armato.
La Cassazione, accogliendo il ricorso del pubblico ministero contro l’assoluzione, ha affermato il principio di cui in massima, così dando continuità all’indirizzo giurisprudenziale che ritiene che le disposizioni antisimiche previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, anche quando si impieghino per la realizzazione delle opere elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura e al cemento armato (Cass. pen., Sez. III, n. 6591 del 24.11.2011 - dep. 17.02.2012, D’Onofrio, in CED Cass., n. 252441; fattispecie relativa a piscina prefabbricata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2014 n. 52297 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

URBANISTICA: DESTINAZIONE D’AREA, VINCOLI ESPROPRIATIVI E POSSIBILITÀ RISARCITORIE.
La destinazione di un’area, da parte degli strumenti urbanistici, a zone di completamento non comporta, di per sé, l’apposizione d’un vincolo preordinato all’espropriazione, che è ravvisabile soltanto se la previsione (o la variante) non abbia natura generale ma imponga un vincolo particolare incidente su beni determinati in funzione non già di una generale destinazione di zona bensì della localizzazione d’una specifica opera pubblica.
Di contro, se la previsione miri a nuova zonizzazione dell’intero territorio, che incida su una generalità di beni e una pluralità indifferenziata di soggetti, essa si limita a operare scelte programmatorie di massima, traducendosi in uno strumento ulteriore di conformazione della proprietà dei beni ricadenti nel suo ambito.

Il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo in capo al privato non deriva dall’imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità, né dal suo protrarsi, in via di fatto, dopo la scadenza, sorgendo esso invece per effetto dell’atto che esplicitamente lo reitera una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo (Corte cost. n. 179/1999): ne consegue che il diritto del privato all’indennità non sorge per effetto della mera scadenza del vincolo, dovendosi in tal caso riconoscere in favore del privato stesso il solo interesse legittimo a che la pubblica amministrazione provveda a una nuova pianificazione urbanistica.
In ragione di ciò, la situazione determinata dall’inerzia della P.A. dopo la decadenza quinquennale del vincolo non è definibile come “espropriazione di valore”, attesa la provvisorietà del regime urbanistico caratterizzato dall’applicazione dei limiti di salvaguardia previsti per le aree bianche, che se da un lato non elimina una redditività del fondo diversa dallo sfruttamento edilizio, dall’altro non crea nel proprietario alcuna aspettativa in ordine al conferimento di particolari qualità edificatorie.
Un privato convenne al Tribunale ordinario un’Amministrazione comunale e -sulla premessa d’essere proprietario di un suolo edificatorio inserito, in base al regolamento edilizio, in area adibita a servizi con vincolo di futura ablazione- chiese che, essendo ormai decorso il termine quinquennale d’efficacia dello strumento urbanistico, fosse dichiarata l’inefficacia del vincolo imposto sull’area e il convenuto Ente condannato al risarcimento dei danni conseguenti al fatto d’aver impedito che l’area realizzasse la sua destinazione edificatoria.
Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, dichiarò l’inefficacia del vincolo, condannando il Comune al pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni.
L’Amministrazione propose appello principale, al quale si affiancò quello incidentale del privato.
La Corte di merito, con una prima sentenza interlocutoria, dichiarò inammissibili le eccezioni sollevate dall’appellante principale, anche in punto di difetto di giurisdizione dell’A.G.O.; respinse l’appello principale e, in accoglimento dell’incidentale, dispose lo svolgimento di una C.T.U. per determinare il pregiudizio in concreto subito dal privato. Indi, con sentenza definitiva, determinò in una somma assai maggiore rispetto a quella liquidata dal Tribunale il danno in favore del predetto, con condanna del Comune al pagamento delle spese di doppio grado.
In particolare, la Corte territoriale ha disatteso la doglianza sulla giurisdizione ritenendola inammissibile perché non esplicitamente proposta come motivo d’appello, con il che si era formato, in punto, giudicato implicito. Nel merito, essa ha ricostruito i termini della vicenda precisando che l’area di proprietà del privato era stata inserita in una zona destinata a servizi, con vincolo preordinato all’espropriazione. Tuttavia, decorso il termine di cinque anni di cui all’art. 2 L. 19.11.1968, n. 1187, nulla era stato compiuto dal Comune (pur formalmente diffidato a compiere la riqualificazione urbanistica della zona, anche con ricorso proposto avanti il Giudice Amministrativo). Ne derivava, alla luce delle sentenze della Corte cost. nn. 55/1968 e 179/1999, la necessità di stabilire un indennizzo in favore del proprietario sottoposto a reiterazione dei vincoli urbanistici.
Questo, in ragione del fatto che -una volta scaduto il vincolo senza nuova pianificazione della zona- l’inerzia della P.A. aveva determinato una c.d. espropriazione di valore, con necessità di determinazione di un indennizzo in favore del proprietario danneggiato. La questione approda avanti la Suprema Corte, che accoglie, in parte, il ricorso.
È confermata la statuizione sulla giurisdizione, affermandosi che la Corte di merito ha correttamente ritenuto, con la sentenza non definitiva, che ogni questione circa la giurisdizione fosse da ritenersi superata per il fatto che, avendo il Tribunale provveduto sul merito della domanda, ciò costituiva un implicito riconoscimento circa la sussistenza della stessa in capo all’A.G.O. per cui, non essendone stato dedotto con l’atto di appello il relativo difetto, la questione doveva ritenersi preclusa per il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado su tale profilo.
In proposito, la sentenza ricorda come -per effetto della sentenza delle Sezioni Unite 09.10.2008, n. 24883, il cui deciso mutamento rispetto al passato è stato recepito dalla successiva giurisprudenza- sulla giurisdizione può formarsi il giudicato implicito anche quando, avendo il giudice di primo grado deciso nel merito la domanda, con ciò riconoscendo implicitamente la sussistenza della propria giurisdizione, il difetto di giurisdizione non sia stato riproposto come motivo di appello.
Il ricorso è viceversa accolto sotto altro profilo, quanto alla censura inerente la c.d. espropriazione di valore. Osserva la Suprema Corte che la propria giurisprudenza non ha riconosciuto l’esistenza di detta figura in riferimento ad una fattispecie come quella in esame (cfr. Cass. civ., Sez. I, 26.09.2003, n. 14333). In ogni caso, si è sempre affermato che per aversi violazione dell’art. 2043 c.c., occorre la dimostrazione dell’esistenza d’un pregiudizio risarcibile e che, nella specie, l’interesse del privato non è quello di vedersi riconoscere lo ius aedificandi, bensì quello al corretto uso del potere di pianificazione territoriale.
Tale interesse si realizza attraverso il meccanismo di “tipizzazione del silenzio”: nel caso in esame, il TAR ha rigettato il ricorso proposto avverso il silenzio serbato dal Comune sulla diffida per una nuova pianificazione dell’area in questione, sicché non sussisterebbe alcun danno risarcibile.
Infine, si osserva che non sarebbe ricavabile dalla motivazione della sentenza il percorso giuridico seguito dalla Corte d’Appello per ritenere che si fosse perfezionata la fattispecie risarcitoria posto che, di fronte all’inerzia dell’amministrazione, i privati possono solo impugnare il silenzio-rifiuto davanti al giudice amministrativo (Cass. n. 8384/2008).
La Cassazione osserva come la statuizione d’appello muova da premessa fattuale errata, ossia che pur a fronte dell’apposizione, sul terreno del privato, d’un vincolo di zonizzazione, si parli di area tipizzata come zona per attrezzature e servizi urbani e ciò costituisca un vincolo preordinato all’espropriazione. La previsione, stabilita negli strumenti urbanistici, che una certa area sia destinata a zone di completamento, con creazione di strutture o di verde pubblico, non comporta, di per sé, l’apposizione di un vincolo preordinato all’espropriazione, che è ravvisabile soltanto se la previsione (o la variante) non abbia natura generale, ma imponga un vincolo particolare incidente su beni determinati in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di una specifica e individuata opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata.
Laddove, se la previsione miri a una (nuova) zonizzazione dell’intero territorio comunale, così da incidere su una generalità di beni e verso una pluralità indifferenziata di soggetti, la stessa si limita a operare scelte programmatorie di massima, traducendosi in uno strumento ulteriore di conformazione della proprietà dei beni ricadenti nel suo ambito. Quello che pacificamente si realizza, a carico del privato, con l’apposizione del vincolo di zonizzazione è l’impossibilità di dare al suolo una destinazione edificatoria, per ragioni che d’immediata evidenza. È pacifica acquisizione giurisprudenziale, riconosciuta dalle Sezioni Unite con sent. 23.04.2001, n. 172, che nel regime introdotto dall’art. 5-bis della L. n. 359/1992 non esiste un tertium genus tra aree edificabili e aree considerate agricole e, quindi, non edificabili.
Va rammentato che -per la ricostruzione operata da Cass. n. 8384/2008- a seguito della sentenza Corte cost. n. 55/1968 (che dichiarò incostituzionale l’apposizione su immobili privati di vincoli di durata illimitata senza la previsione di un indennizzo) seguì l’approvazione della L. n. 1187/1968 che adeguò la legislazione precedente alla decisione della Consulta stabilendo tra l’altro (art. 2) che i predetti vincoli avrebbero perso efficacia qualora, entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale, non fossero stati approvati i relativi piani particolareggiati o autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
La richiamata sent. n. 8384, poi, ricorda che con successiva sent. n. 92/1982 la stessa Corte costituzionale ritenne la legittimità degli artt. 1, 2 e 5 della L. n. 1187/1968, osservando che il legislatore ha facoltà di scelta tra previsione di un indennizzo e predeterminazione d’un termine di durata dell’efficacia del vincolo. E, ancora, che la suddetta normativa andava interpretata nell’ambito del sistema che si è venuto a integrare successivamente alla sua emanazione: in particolare, che la cessazione del vincolo fa venire meno soltanto lo specifico onere relativo ed il titolare del bene viene a trovarsi quindi nella medesima situazione di tutti gli altri aventi un diritto reale sui beni, restando così assoggettato a tutto quanto la legge e gli strumenti urbanistici (compreso il programma pluriennale di attuazione) dispongono.
Sempre da parte del Giudice delle leggi, con sent. n. 579/1989, si affermò che la temporaneità e l’indennizzabilità dei vincoli urbanistici di natura espropriativa sono fra loro alternative, per cui l’indeterminatezza temporale comporta il diritto all’indennizzo.
Ancora, la successiva sentenza Corte cost. n. 179/1999 dichiarò l’illegittimità degli artt. 7 e 40 della L. urbanistica n. 1150/1942 e dell’art. 2 della L. n. 1187/1968 nella parte in cui consentivano all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione d’indennizzo, osservando:
a) che la reiterazione di tali vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) o la proroga in via legislativa non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale, potendo esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale adeguatamente motivata dall’Amministrazione preposta alla gestione del territorio o, rispettivamente, apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà;
b) che, tuttavia, anche in questi casi, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico -avente le anzidette caratteristiche- se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione, dalla previsione di un indennizzo.
La sentenza Corte cost. n. 179/1999 ha poi ulteriormente chiarito che il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo in capo al privato non deriva dall’imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità e neppure dal suo protrarsi di fatto dopo la scadenza; sorgendo esso, invece, in seguito all’atto che formalmente ed esplicitamente lo reitera una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo. Tale criterio è poi stato adottato dal legislatore che, all’art. 39, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. Espropriazioni), ha previsto espressamente che è dovuta al proprietario un’indennità “nel caso di vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo” (cfr. Cass. n. 14774/2012).
Al definitivo, per questa norma, l’Amministrazione deve alla scadenza del vincolo o reiterarlo, ma con il pagamento dell’indennità, o prevedere un mutamento di destinazione urbanistica. Sulla scorta di queste coordinate giurisprudenziali, la Cassazione definisce il giudizio affermando che, come la Corte d’appello ha bene evidenziato, alla scadenza del vincolo di zonizzazione il Comune è rimasto inerte, non ha cioè né realizzato la destinazione di zona stabilita dal progettista; né rinnovato il vincolo, che non era preordinato all’espropriazione e, tuttavia, rientrava nella seconda delle tipologie indicate dall’art. 39 T.U. Espropriazioni; né ha provveduto alla nuova e diversa pianificazione urbanistica.
Ne consegue che il diritto del privato all’indennità non poteva sorgere per il fatto (puro e semplice) della scadenza del vincolo in precedenza apposto, dovendosi invece riconoscere in favore del privato stesso il solo interesse legittimo a che la pubblica amministrazione provvedesse ad una nuova pianificazione urbanistica.
Come in precedenza affermato dalla stessa Cassazione (sentt. n. 14333/2003 e n. 8384/2008) va escluso che possa parlarsi in simili ipotesi di “espropriazione di valore” ipotesi, quest’ultima, configurabile al verificarsi della fattispecie di cui all’art. 46, L. 25.06.1865, n. 2359, che concerne fondi che dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità siano gravati di servitù o a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto.
Di contro, il regime urbanistico configurabile per le aree nelle quali si è verificata la decadenza del vincolo, è quello stabilito dal diritto vivente mediante il richiamo al regime delle c.d. aree bianche, di cui all’art. 4, ultimo comma, L. n. 10/1977 che, ferma restando l’utilizzabilità economica del fondo (in primo luogo a fini agricoli) configura a titolo provvisorio un limitato indice di edificabilità.
Se ne ha, al definitivo, che la situazione determinata dall’inerzia della P.A. dopo la decadenza quinquennale del vincolo non può definirsi una “espropriazione di valore”, attesa la provvisorietà del regime urbanistico caratterizzato dall’applicazione dei limiti di salvaguardia previsti dall’art. 4, ultimo comma, della L. n. 10/1977 per le aree bianche (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2002, n. 5178), che se da un lato non elimina una redditività del fondo diversa dallo sfruttamento edilizio, dall’altro non crea nel proprietario alcuna aspettativa in ordine al conferimento di particolari qualità edificatorie.
Alla provvisorietà di tale regime, il proprietario ben può reagire per indurre la P.A. all’esercizio del potere istituzionale di ripianificazione, tanto sollecitando il potere sostitutivo della Regione, quanto dando impulso al meccanismo di tipizzazione del silenzio (Cons. Stato, Ad. Plen., 02.04.1984, n. 7; Id. 30.04.1984, n. 10).
La Suprema Corte chiosa affermando che l’interesse legittimo del privato alla ripianificazione urbanistica non comporta, in caso di inerzia della pubblica amministrazione, l’automatica insorgenza di una lesione indennizzabile, neppure alla luce dei criteri delineati dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, che ha posto al centro della tutela risarcitoria per lesione di interessi legittimi l’esistenza -comunque- d’un danno ingiusto sicché non è sufficiente, ai fini dell’insorgenza di un danno risarcibile, l’inerzia mera della P.A., occorrendo invece che il privato dimostri anche l’esistenza di una prognosi a sé favorevole in ordine all’ottenimento del bene della vita che l’impugnazione del silenzio è finalizzata a raggiungere (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 17.12.2014 n. 26546 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: È INSUFFICIENTE, PER ESCLUDERE IL CONCORSO NEL REATO EDILIZIO, CHE IL PROPRIETARIO DEL TERRENO NON ABBIA COMMISSIONATO I LAVORI.
In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario escludere l’interesse o il suo consenso alla commissione dell’abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione, non essendo sufficiente, per escluderne il concorso nel reato, che questi non li abbia commissionati materialmente.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della individuazione delle condizioni in presenza delle quali può essere ritenuta configurabile la responsabilità penale del proprietario non committente i lavori abusivi.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello, nei confronti di due soggetti per il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 e art. 44, lett. b), per avere iniziato, continuato ed eseguito, ciascuno nelle rispettive qualità, in assenza del permesso di costruire, lavori per la realizzazione di muri perimetrali in c.a. aventi spessore di cm. 25 ed altezza di circa m. 1,80 ad un fondo agricolo nonché per il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 95, per avere eseguito le opere sopra descritte senza darne l’ulteriore preavviso scritto al settore provinciale del Genio Civile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione la proprietaria non committente, in particolare sostenendo che agli atti non sussisteva alcun dato probatorio dal quale potesse evincersi che la stessa avesse realizzato il manufatto e che fosse a conoscenza di tale realizzazione.
La donna deduceva di essere stata condannata, pur non sussistendo a suo carico la prova della consapevolezza dell’avvenuta realizzazione dei manufatti, sul semplice presupposto di essere la proprietaria dell’immobile. Rilevava che il terreno sul quale sarebbe stato realizzato l’abuso si trova in Comune diverso e distante da quello di sua residenza, di talché non vi sarebbero stati elementi dai quali ragionevolmente desumere il suo concorso, anche solo morale, alla realizzazione dell’opera.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, così ponendosi in linea con l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità il quale sostiene che, perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all’abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione (v., in senso conforme, da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 33540 del 19.06.2012 - dep. 31.08.2012, Pmt in proc. Grilli e altri, in CED Cass., n. 253169) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2014, n. 52040 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ANCHE DOPO IL DECRETO “SBLOCCA ITALIA”, IL FRAZIONAMENTO DELL’ORIGINARIO IMMOBILE IN PIÙ DISTINTE UNITÀ ABITATIVE COSTITUISCE ANCORA REATO SE ESEGUITO SU UN IMMOBILE GIÀ ABUSIVO.
Non è applicabile il regime della comunicazione inizio lavori ad interventi edilizi che, pur consistendo in attività di manutenzione straordinaria in base al recente D.L. n. 133 del 2014 (c.d. decreto “Sblocca Italia”), interessino manufatti abusivi che non siano stati sanati né condonati, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sull’individuazione della portata innovativa della recente “novella” introdotta nella disciplina urbanistico-edilizia a seguito delle modifiche apportate al Testo Unico dell’edilizia con il recente D.L. 12.09.2014, n. 133, recante “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive” (G.U. n. 212 del 12.09.2014), entrato in vigore il 13 settembre e convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164 (in S.O. n. 85, relativo alla G.U. 11.11.2014, n. 262), meglio noto come decreto “Sblocca Italia”.
Tra le disposizioni contenute nel predetto decreto, in particolare, ve ne sono alcune che interessano la materia edilizia e, per quanto qui rileva nel caso esaminato dalla Cassazione, la norma dettata dall’art. 17 che, sotto la rubrica “Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia”, modifica l’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (c.d. Testo Unico dell’edilizia) introducendo l’importante previsione secondo cui “Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso”.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con la quale il tribunale del riesame aveva rigettato il ricorso proposto nell’interesse di alcuni indagati, avverso il decreto del G.I.P. con cui era stato disposto il sequestro preventivo di quattro unità immobiliari ricavate da un originario immobile. Riteneva il Tribunale sussistente il fumus del reato edilizio, essendo stato l’immobile preesistente, trasformato, senza alcun permesso di costruire, in quattro unità immobiliari; sussisteva inoltre il periculum in mora, essendo indubitabile l’aggravamento del carico urbanistico determinato dall’insediamento di ulteriori tre nuclei familiari.
Avverso l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione uno dei proprietari delle unità immobiliari, in particolare sostenendo la violazione del combinato disposto dell’art. 17, comma 1, lett. a), n. 2 del D.L. 12.09.2014, n. 133 e degli artt. 3, comma 1, lett. b) e 37, comma 6, d.P.R. n. 380/2001 e 2, comma 2, c.p., dovendosi ritenere ricompresi negli interventi di manutenzione straordinaria anche quelli comportanti frazionamento o accorpamento di unità immobiliari purché (come nel caso di specie) non venga modificata la volumetria complessiva degli edifici e sia mantenuta l’originaria destinazione d’uso. Il fatto contestato non può, pertanto, considerarsi più reato.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, confermando il decreto di sequestro preventivo emesso dall’Autorità giudiziaria. Per meglio comprendere l’approdo dei Supremi Giudici è utile il consueto inquadramento giuridico della vicenda. Come dianzi anticipato, il recente decreto “Sblocca Italia” è intervenuto anche in materia edilizia, introducendo alcune importanti innovazioni destinate sicuramente ad incidere anche sotto il profilo penale.
Limitando l’attenzione alle questioni dedotte nel ricorso esaminato dalla Cassazione, rileva la previsione secondo la quale rientrano, oggi, nelle opere integranti “manutenzione straordinaria”, anche “quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso”.
Ciò significa, in altri termini, che le attività consistenti nel frazionamento (ossia nell’esecuzione di interventi edilizi che abbiano per effetto la suddivisione in più unità abitative di un’originaria, unica, unità di più ampia estensione, comunque predisposte od attuate, attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia dell’immobile) o nell’accorpamento (ossia nell’esecuzione di interventi edilizi che abbiano per effetto la unificazione di più unità abitative in una successiva, unica, unità di più ampia estensione) anche se comportano modifiche delle superfici e del carico urbanistico non costituiscono più reato alla duplice condizione, individuata espressamente dalla norma, che:
a) la volumetria complessiva dell’edificio non sia modificata (il che significa, in altri termini, che non deve né aumentare né diminuire);
b) sia mantenuta l’originaria destinazione d’uso (dunque, tanto per fare un esempio, non sarebbe possibile attraverso una di tali operazioni modificare l’originaria destinazione da uso commerciale ad uso residenziale).
Tale innovazione normativa, peraltro, va letta unitamente al disposto del nuovo art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, introdotto sempre dall’art. 17 del c.d. decreto “Sblocca Italia”, il quale, sotto la rubrica “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”, prevede espressamente che salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, tale deve intendersi “ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.
Tanto premesso, nel caso in esame, come detto, la difesa aveva sostenuto che, essendo consistite gli interventi edilizi nel frazionamento dell’originaria unica unità immobiliare in quattro, distinte, nuove unità, si era in presenza di una “manutenzione straordinaria” che, per legge, è oggi soggetta a previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale (v. art. 6, comma 2, lett. a), T.U. edilizia, che include tra gli interventi che possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo “gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio”, lettera così modificata dall’art. 17, comma 1, lett. c), L. n. 164 del 2014).
La Cassazione, nel respingere il ricorso, pur riconoscendo che lo “Sblocca Italia” ha indubbiamente innovato, avendo ricompreso nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria “anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso”, ha tuttavia correttamente osservato come nel caso in esame non si sia tenuto conto del fatto che l’intervento di “frazionamento” dell’originaria unica unità abitativa in quattro distinte unità abitative, risultava eseguito su un immobile abusivo.
Ciò, dunque, impedisce, secondo una giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione, l’applicabilità del regime della D.I.A. (e, a maggior ragione, sottrae al regime di favore previsto dal novellato art. 6, che prevede la c.d. comunicazione inizio lavori) di quegli interventi edilizi che interessino manufatti abusivi che non siano stati sanati né condonati, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (v. tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 21490 del 19.04.2006 - dep. 21.06.2006, P., in CED Cass., n. 234472; Cass. pen., Sez. III, n. 1810 del 02.12.2008 - dep. 19.01.2009, P.M. in proc. C., in CED Cass., n. 242269) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2014 n. 51427 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’ELEMENTO DECISIVO PER LA CONSUMAZIONE DEL REATO DI COSTRUZIONE ABUSIVA EDILIZIA È LA CESSAZIONE DEI LAVORI E NON LE RIFINITURE INTERNE ED ESTERNE.
La permanenza del reato di costruzione abusiva edilizia (art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) termina -e il reato si consuma- nel momento in cui cessano o vengono sospesi, per qualsiasi causa, volontaria o imposta, i lavori abusivi, e che la cessazione dei lavori va di solito (ma non necessariamente) individuata nel completamento dell’opera (con le rifiniture interne ed esterne) o con la sentenza di primo grado.
Ne consegue che l’elemento decisivo per la consumazione del reato è la cessazione dei lavori abusivi e non le rifiniture interne ed esterne che sono solo un sintomo -nella normalità dei casi- del completamento dell’opera e quindi della cessazione dei lavori, sicché è possibile (anche se in casi marginali) che i lavori siano definitivamente cessati e la permanenza sia terminata, anche senza l’ultimazione, nel senso anzidetto, dell’opera.

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul frequente tema dell’individuazione del momento in cui, a fini della cessazione della “permanenza” del reato di costruzione abusiva edilizia, possano considerarsi come “ultimati” i lavori edilizi.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione, da parte del P.M., del provvedimento del G.I.P. con cui era stata rigettata la richiesta di applicazione della misura del sequestro preventivo di un immobile avanzata in relazione ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, artt. 110, 117, 481 e 483 c.p., e artt. 110, 117, 40, 323 e 323 e 479 c.p..
Secondo le indagini di P.G. emergeva che per il primo piano e il piano terra del fabbricato era stato rilasciato permesso di costruire in sanatoria, mentre il secondo piano risultava abusivo. Il permesso di costruire in sanatoria, peraltro, secondo la polizia giudiziaria, era illegittimo, perché il fabbricato non era conforme alla normativa urbanistica, in quanto nella richiesta di sanatoria il tecnico di parte non aveva fatto cenno del secondo piano ed aveva allegato un compendio fotografico che riprendeva solo parte dell’intero fabbricato.
Il G.I.P. respinse la richiesta di sequestro perché, pur sussistendo il fumus, mancava il periculum in mora, trattandosi di opera ultimata e non essendo concretamente pronosticabile un aumento dell’afflusso di persone in quell’insediamento, tale da determinare un incremento di tutte le attività collegate all’abitazione in termini di aumentate necessità di opere secondarie, con conseguente aggravio del “carico urbanistico”.
Il tribunale del riesame confermava il provvedimento del G.I.P. Contro detto provvedimento proponeva ricorso per cassazione ancora una volta il P.M., in particolare sostenendo che il tribunale del riesame avrebbe errato in ordine alla nozione di opera abusiva ultimata, dal momento che nella informativa della polizia giudiziaria si evinceva che il secondo piano era “in via di ultimazione”: il sequestro preventivo era quindi giustificato dalla necessità di impedire l’ultimazione dei lavori abusivi.
La Corte di cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso del P.M., in particolare osservando che il reato di abuso edilizio, ossia di realizzazione di una opera edilizia senza il necessario titolo abilitativo, ha natura di reato permanente la cui consumazione ha inizio con l’avvio dei lavori di costruzione e termina con la cessazione di tali lavori, a qualsiasi causa tale cessazione sia dovuta (v., per tutte: Cass. pen., SS.UU, n. 17178 del 27.02.2002 - dep. 08.05.2002, Cavallaro, in CED Cass., n. 221399) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2014 n. 51423 - tratto da Urbanistica e appalti n. 3/2015).

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