e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-AMIANTO
18-ANAC (già AVCP)
19
-APPALTI
20-ARIA
21-ASCENSORE
22-ASL + ARPA
23-ATTI AMMINISTRATIVI
24-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
25-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
26-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
27-BARRIERE ARCHITETTONICHE
28-BOSCO
29-BOX
30-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
31-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
32-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
33-CARTELLI STRADALI
34-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
35-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
36
-COMPETENZE GESTIONALI
37
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
38-CONDIZIONATORE D'ARIA
39-CONDOMINIO
40-CONSIGLIERI COMUNALI
41-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
43-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
45-DEBITI FUORI BILANCIO
46-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
47-DIA e SCIA
48-DIAP
49-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
50-DISTANZA dai CONFINI
51-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA
52-DISTANZA dalla FERROVIA

53-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
54-DURC
55-EDICOLA FUNERARIA
56-EDIFICIO UNIFAMILIARE
57-ESPROPRIAZIONE
58-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
59-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
60-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
61-INCENTIVO PROGETTAZIONE
62-INDUSTRIA INSALUBRE
63-L.R. 12/2005
64-L.R. 23/1997
65-LEGGE CASA LOMBARDIA
66-LICENZA EDILIZIA (necessità)
67-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
68-LOTTO INTERCLUSO
69-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
70-MOBBING
71-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
72-OPERE PRECARIE
73-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
74-PATRIMONIO
75-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU
76-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
84
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
85-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
86-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
87-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
88-PISCINE
89-PUBBLICO IMPIEGO
90-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
91-RIFIUTI E BONIFICHE
92-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
93-RUDERI
94-
RUMORE
95-SAGOMA EDIFICIO
96-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
97-SCOMPUTO OO.UU.
98-SEGRETARI COMUNALI
99-SIC-ZPS - VAS - VIA
100-SICUREZZA SUL LAVORO
101
-
SILOS
102-SINDACATI & ARAN
103-SOPPALCO
104-SOTTOTETTI
105-SUAP
106-SUE
107-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
108-
TELEFONIA MOBILE
109-TENDE DA SOLE
110-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
111-TRIBUTI LOCALI
112-VERANDA
113-VINCOLO CIMITERIALE
114-VINCOLO IDROGEOLOGICO
115-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
116-VINCOLO STRADALE
117-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

118-ZONA AGRICOLA

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2015

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 26.06.2015

aggiornamento al 19.06.2015

aggiornamento al 13.06.2015

aggiornamento al 05.06.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.06.2015

ã

IN EVIDENZA

SICUREZZA LAVORO: Sulle responsabilità del dirigente e del sindaco in materia di sicurezza sul posto di lavoro.
A norma dell'art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008
<Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo>.
L'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico.
Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro. 
Con la precisazione che
agli organi di direzione politica del Comune  (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti. Anche il potere di individuare il datore di lavoro conferma che all'organo di direzione politica compete un potere originario.
Occorre coordinare la disciplina sopra indicata con
le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, tra i quali rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma dell'art. 17 d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco.
Diversi sono, infatti, gli effetti dell'individuazione del dirigente pubblico al quale viene conferita la qualifica di datore di lavoro rispetto alla delega di funzioni datoriali disciplinata dall'art. 16 d.lgs. n. 81/2008.
L'atto di individuazione è correlato alla specialità della disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni, alle quali non si applicano i criteri di imputazione della responsabilità per cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal d.lgs. 08.06.2001, n. 231 e dall'art. 30 d.lgs. n. 81/2008; tale specialità impone di chiarire che al soggetto così individuato competono tutte le funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni delegabili e non delegabili, in ragione della qualifica di datore di lavoro che tale soggetto viene ad assumere.

In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al Sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro in correlazione all'ubicazione ed all'ambito funzionale del singolo ufficio.
Sussisterà responsabilità per il Sindaco solo se risulti che questi, essendo a conoscenza della situazione antigiuridica inerente alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso all'Ente territoriale, abbia omesso di intervenire, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio; tanto si desume dalla regola dettata dall'art. 18, comma 3, d.lgs. n. 81/2008, in base alla quale <Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico>.
Quindi
nelle pubbliche amministrazioni, nel cui novero rientrano ovviamente gli enti locali, la qualifica di datore di lavoro -ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro-, con tutte le conseguenze che tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto conto peraltro della ripartizione di funzioni indicata dall'Ordinamento degli enti locali (art. 107 d.lgs. 18.08.2000, n. 267), che conferisce ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse.

---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 28/01/2014, ha confermato la pronuncia emessa in data 19/07/2012 dal Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Busto Arsizio, che aveva dichiarato B.A.M., in qualità di Sindaco del Comune di Caronno Pertusella (VA), responsabile del delitto di lesioni personali gravi ai danni del messo comunale B.A..
2. Il giudice di primo grado aveva così ricostruito l'infortunio: A.B., addetto all'Ufficio 'Messi e Notificazioni', il giorno dell'infortunio avrebbe dovuto archiviare alcuni documenti, da collocare sulla sommità degli armadi, ormai incapienti, ad un'altezza superiore a due metri da terra; aveva, quindi, utilizzato una scala in dotazione all'Ufficio; si trattava di una scala portatile in alluminio a due tronchi, che il B. non aveva, però, potuto aprire in considerazione dell'esiguità dello spazio intercorrente tra gli armadi e le scrivanie e che aveva, dunque, appoggiato chiusa all'armadio; salito sulla scala, questa era scivolata lateralmente facendo così cadere il lavoratore di schiena.
3. A.M.B. propone ricorso per cassazione lamentando omessa motivazione con specifico riferimento al motivo di appello relativo all'errata interpretazione ed applicazione dell'art. 2 lett. b), d.Lgs. 09.04.2008, n. 81, nonché inosservanza o erronea applicazione della medesima norma.
Le doglianze sviluppate nel ricorso si incentrano, sostanzialmente, sull'unico punto della decisione in cui si è affermata la qualifica di <datore di lavoro> dell'imputata laddove, secondo la ricorrente, la costituzione presso il Comune di Caronne Pertusella, con delibera n. 158 del 13.05.2003, dell'Organo Collegiale dei Datori di Lavoro, avrebbe dovuto esonerare il Sindaco da responsabilità penale in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, dovendosi riconoscere a tale Organo Collegiale la qualifica di datore di lavoro nell'ambito dell'Amministrazione Comunale.
La sentenza impugnata, si assume, avrebbe del tutto omesso dì prendere in esame tale motivo di gravame, limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado che, tuttavia, non aveva affrontato la questione.
La corretta applicazione dell'art. 2, lett. b), d.Lgs. n. 81/2008, secondo la ricorrente, avrebbe imposto di ritenere che, una volta individuato il soggetto al quale attribuire la qualifica di datore di lavoro, il Sindaco avrebbe dovuto andare esente da responsabilità in materia antinfortunistica, avendo il giudice di appello errato nell'ascrivere l'elemento soggettivo del reato a soggetto diverso dal datore di lavoro, da individuare invece nell'Organo Collegiale dei Datori di Lavoro, che aveva incaricato la società di consulenza M.A.S. s.r.l. di redigere il documento di valutazione dei rischi.
4. In data 11.05.2015 la ricorrente ha depositato memoria difensiva sviluppando i motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre ricordare che,
a norma dell'art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, per datore di lavoro si intende <il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria atti vita, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo>.
2.1. In tale disposizione sono confluite le soluzioni adottate da parte della  giurisprudenza nella vigenza della precedente normativa, meno esaustiva di quella attuale, laddove si era specificata la necessità di un atto espresso di individuazione del dirigente o del funzionario quale datore di lavoro, altrimenti rimanendo quella posizione in capo al vertice politico dell'Ente pubblico.
Si era, in altre parole, riconosciuto carattere costitutivo all'atto dell'organo di vertice dell'Ente che attribuisse ad altri la qualità di datore di lavoro, data la natura originaria della posizione datoriale del dirigente, individuato in quanto tale dalla legge.
2.2. Coronario di tali affermazioni di principio, oggi positivizzate nel testo normativo, è che
l'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico.
Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro. 
Con la precisazione che
agli organi di direzione politica del Comune  (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti. Anche il potere di individuare il datore di lavoro conferma che all'organo di direzione politica compete un potere originario (in tal senso soprattutto, Sez. 4, n. 38840 del 22/06/2005, Ioriatti, Rv. 232418).
3. Premesso che in relazione al punto della decisione concernente la riconducibilità dell'evento all'inadeguata elaborazione del D.U.V.R.I. non è stata svolta alcuna censura, occorre coordinare la disciplina sopra indicata con
le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, tra i quali rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma dell'art. 17 d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco A.M.B..
Diversi sono, infatti, gli effetti dell'individuazione del dirigente pubblico al quale viene conferita la qualifica di datore di lavoro rispetto alla delega di funzioni datoriali disciplinata dall'art. 16 d.lgs. n. 81/2008.
L'atto di individuazione è correlato alla specialità della disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni, alle quali non si applicano i criteri di imputazione della responsabilità per cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal d.lgs. 08.06.2001, n. 231 e dall'art. 30 d.lgs. n. 81/2008; tale specialità impone di chiarire che al soggetto così individuato competono tutte le funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni delegabili e non delegabili, in ragione della qualifica di datore di lavoro che tale soggetto viene ad assumere.

3.1.
In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al Sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro in correlazione all'ubicazione ed all'ambito funzionale del singolo ufficio.
3.2.
Sussisterà responsabilità per il Sindaco solo se risulti che questi, essendo a conoscenza della situazione antigiuridica inerente alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso all'Ente territoriale, abbia omesso di intervenire, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio; tanto si desume dalla regola dettata dall'art. 18, comma 3, d.lgs. n. 81/2008, in base alla quale <Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico>.
3.3. Quindi
nelle pubbliche amministrazioni, nel cui novero rientrano ovviamente gli enti locali, la qualifica di datore di lavoro -ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro-, con tutte le conseguenze che tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto conto peraltro della ripartizione di funzioni indicata dall'Ordinamento degli enti locali (art. 107 d.lgs. 18.08.2000, n. 267), che conferisce ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse.
4. Esaminando il caso concreto, nella sentenza di primo grado si era dato atto che il Sindaco, con decreto del 14.09.2006, dunque in epoca ampiamente antecedente l'infortunio, avesse nominato un Direttore Generale con compiti di presidenza delle riunioni dei datori di lavoro comunali e di formulazione della proposta per il Piano Esecutivo di Gestione (PEG), che è lo strumento con il quale viene attribuito il potere di spesa annuo ai datori di lavoro, conferendogli <la direzione ed il coordinamento dell'organo dei Datori di Lavoro>; il Tribunale aveva accertato, altresì, che il Sindaco aveva nominato un Responsabile del settore amministrativo di cui faceva parte l'Ufficio <Messi e Notificazioni> e che, a norma dell'art. 17 del Regolamento Comunale sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, fra le competenze di tale figura rientravano le <funzioni proprie del datore di lavoro in relazione al decreto- i legge. n. 626/1994 e successive modifiche, in relazione al proprio settore>.
Quanto ai poteri di spesa, nella sentenza si legge che la previsione di spesa per i datori di lavoro era stata approvata con delibera della Giunta comunale n. 49 del 18.03.2008, che aveva attribuito la somma di euro 18.000,00 all'Organo collegiale dei Datori di Lavoro, composto da tutti i Responsabili di settore, coordinati dal Direttore Generale.
Nell'esaminare la posizione del Direttore Generale, il Tribunale aveva ritenuto che le funzioni proprie del datore di lavoro fossero state conferite ai singoli Responsabili di Settore e che i poteri di spesa fossero subordinati ad approvazione della Giunta Comunale e a delibera del Collegio dei Datori.
4.1.
Si era, tuttavia, affermata la responsabilità del Sindaco in relazione all'omessa redazione di un adeguato documento di valutazione dei rischi, causalmente correlata all'infortunio occorso al dipendente comunale, sul presupposto che l'attività prevista dall'art. 17 d.lgs. n. 81/2008 non fosse delegabile e che, per tale ragione, dell'incompleta redazione di tale documento dovesse, in ogni caso, rispondere l'organo di vertice dell'Ente.
4.2.
Nella sentenza impugnata la doglianza concernente l'esonero da responsabilità penale del Sindaco in materia antinfortunistica, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, è stata espressamente presa in considerazione nell'elenco dei motivi di appello (ove si richiama la delibera n. 158 del 13.05.2003 con la quale era stato individuato l'Organo Collegiale dei Datori di Lavoro, che aveva a sua volta emanato la delibera n. 105 del 12.04.2005 per conferire l'incarico di Responsabile del Servizio di prevenzione) e, successivamente, laddove si è rimarcato che l'imputata in prima persona avesse affidato alla società di consulenza M. l'incarico di stilare il documento di valutazione dei rischi, implicitamente negando fondamento all'assunto difensivo secondo il quale si sarebbe dovuto individuare nell'Organo Collegiale dei funzionari apicali il datore di lavoro ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2008.
4.3. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta ribadendo che
l'attività di redazione del documento di valutazione dei rischi fosse compito non delegabile, come peraltro confermato dal pacifico dato che fosse stato il Sindaco B. ad affidare alla società M. il relativo incarico, richiamando anche il disposto dell'art. 33 (rectius 31), comma 5, d.lgs. n. 81/2008, a mente del quale il datore di lavoro che <ricorra a persone o servizi esterni non e' per questo esonerato dalla propria responsabilità in materia>.
5.
Non vi è, dunque, dubbio che nel caso concreto gli organi di vertice dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta Comunale) avessero individuato i dirigenti ai quali attribuire la qualifica di datore di lavoro, secondo quanto si legge nella sentenza di primo grado, ritenendo tuttavia entrambi i giudici di merito che l'attività la cui omissione aveva nel caso concreto contribuito al verificarsi dell'infortunio, ossia l'omessa redazione di un adeguato e completo documento di valutazione dei rischi, non fosse delegabile e fosse, per tale motivo, conservata in capo all'organo di direzione politica la posizione di garanzia inerente a detta attività.
5.1.
Si tratta di motivazione erronea in diritto, non potendo l'imputata B. considerarsi <datore di lavoro> ai sensi del decreto n. 81/2008 e non essendo applicabile alle pubbliche amministrazioni che abbiano proceduto all'individuazione del dirigente a norma dell'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, secondo quanto si è detto, la regola che limita la delegabilità di taluni obblighi propri del datore di lavoro (art. 17 d.lgs. n. 81/2008).
5.2. Tuttavia,
tale errore di diritto non inficia la correttezza della decisione, ed è quindi emendabile ai sensi dell'art. 619, comma 1, cod. proc. pen., in quanto dalla pronuncia impugnata emerge come pacifico il dato che il Sindaco avesse in prima persona provveduto all'adempimento dell'obbligo di redazione del D.U.V.R.I., incaricando una società di consulenza, da tale dato risultando evidente che non avesse inteso conferire ad altri la relativa posizione di garanzia (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 27.05.2015 n. 22415).

EDILIZIA PRIVATA: Minori distanze per risparmio energetico: non esiste un "diritto" alla deroga.
Il TAR Abruzzo-Pescara,
interviene in materia di deroga alla normativa sulle distanze tra costruzioni affermando che l'applicazione della normativa speciale in materia di risparmio energetico non è ^automatica^ e che invece spetta al Comune valutare se esista la possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Nella fattispecie l'A.C. aveva contestato delle irregolarità nella realizzazione di una palazzina residenziale.
Il privato proprietario aveva proposto istanza di accertamento di conformità invocando, quanto alle distanze, la normativa in materia di risparmio energetico (D.lgs. 102/2014 già D.lgs. 115/2008), sostenendo di avere con la richiesta di sanatoria proposto soluzioni tecniche idonee (pacchetti termici) ad eliminare le difformità in particolare relativamente all’altezza dell’edificio e all’aggetto dei balconi.
Il Comune aveva ritenuto che le soluzioni prospettate rappresentassero "un espediente o accorgimento fuorviante, o modo fittizio di far apparire l'altezza e la distanza rientranti nelle norme" nel tentativo di superare quanto contestato nell'ordinanza di demolizione.
Pronunciandosi su ordine di demolizione e diniego di sanatoria, il TAR Abruzzo ha statuito che poiché la norma (art. 11 D.Lgs. 102/2014) introduce una valutazione di tipo tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, essa esclude che sussista un “diritto” alla deroga.
Il che a dire:
• che la deroga ai parametri di altezza e distanze non costituisce l’automatica conseguenza di una scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere atto;
• che l'applicazione della norma è invece la conseguenza di una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi;
• che il Comune non può assentire una deroga alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà altrui;
• che analoga considerazione può farsi per l’altezza complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.

Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale, con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”.
In conclusione: l’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite, giustifica il rigetto della domanda di sanatoria sulla scorta della disciplina speciale, vera l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed. (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it - TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 14.05.2015 n. 206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2 – Quanto al merito, vanno preliminarmente esaminati i motivi aggiunti.
L’art. 11, co. 1. d.lgs. 115/2008, su cui essenzialmente si basa la domanda di sanatoria, è stato abrogato dall’art. 19, co. 1, lett. a), D.lgs. 04.07.2014, n. 102 (entrato in vigore il 19.07.2014). Tale circostanza, rilevata dal Comune, è tuttavia ininfluente alla luce dell’art. 36 t.u. ed., secondo cui gli interessati “possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Stabilito che la norma era all’epoca ancora in vigore, va evidenziato che,
ai fini delle previste deroghe, la stessa richiede che le maggiori dimensioni di muri e solai siano necessari “ad ottenere una riduzione minima…”, e perciò, introducendo una valutazione di tipo tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, esclude che sussista un “diritto” alla deroga, come invece sembrano in vario modo supporre i ricorrenti.
Deve infatti ritenersi che
la deroga ai parametri di altezza e distanze non costituisca l’automatica conseguenza di una scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere atto, risultando della norma in parola che essa è invece la conseguenza di una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Non sembra, cioè, che il Comune possa assentire una deroga alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà altrui. Analoga considerazione può farsi per l’altezza complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale, con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”, come del resto confermato dal dato normativo secondo cui la deroga è consentita “nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”, e quindi non nel procedimento di cui all’art. 36 (inserito nel titolo IV).
L’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite, giustifica perciò le conclusioni del provvedimento, che ha in buona sostanza ritenuto l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed., e quindi irrilevante l’applicazione dei pacchetti termici sul calcolo dell’altezza del fabbricato e dell’aggetto dei balconi.
Poiché la domanda di sanatoria era (tranne un punto, su cui infra) pressoché interamente incentrata sulle pretese conseguenze derivanti dall’applicazione dei pacchetti termici (cfr. la relazione tecnico-illustrativa, doc. 3 produzioni comunali 12.01.2015), la rilevata carenza dei presupposti di per sé consolida il diniego riguardo ai punti 2) e 3) della pag. 3 della appena citata relazione. Ne consegue il rigetto del secondo motivo aggiunto.
In ordine al motivo con cui si deduce la mancata considerazione delle memorie presentate nel corso del procedimento di sanatoria, va osservato che la ragione sostanziale del diniego consiste nella ritenuta inapplicabilità alla fattispecie della invocata deroga, sicché è irrilevante il percorso interpretativo attraverso cui il Comune è pervenuto ad una conclusione che il Collegio considera corretta. Deve perciò escludersi che le osservazioni presentate in ordine al punto determinassero particolari oneri motivazionali.
Parte ricorrente effettua ulteriori considerazioni richiamando le conclusioni emergenti dalla relazione tecnica allegata ai motivi aggiunti, in cui si evidenzia tra l’altro l’alterazione del profilo naturale del lotto in conseguenza dei lavori eseguiti sui lotti circostanti (la circostanza è confermata dalle relazioni della Polizia Municipale, quale quella in data 08.11.2013, doc. 3 produzioni comunali 30.06.2014: “… le quote di riferimento relative alla pendenza del terreno sono state modificate a seguito delle opere di sbancamento eseguite per la realizzazione della strada di accesso e degli edifici circostanti”). Le circostanze suddette –che avrebbero influito sulle quote della costruzione ed interferito sulla misurazione dell’altezza- sono tuttavia estranee all’oggetto della sanatoria, che sul punto dell’altezza riguardava, come già osservato, esclusivamente l’accesso alle deroghe di cui all’art. 11 d.lgs. 115/2008.
L’ultima parte dei motivi aggiunti (pagg. 13 e seg.) presuppone che “la parte sub 3) dell’ordinanza demolitoria, nel silenzio del diniego, è stata risolta”, il che tuttavia non è, visto che il provvedimento impugnato ribadisce esplicitamente “le motivazioni espresse nell'avviso ed in particolare: 1. La misura dell’aggetto dei balconi superiore a mt. 1,60 (limite prescritto dalle NTA) rimane irregolare…; 2. La distanza dai confini della scalinata realizzata in aderenza al muro non di proprietà lato ovest rimane irregolare benché disegnata in parte come aiuola (perché in sostanza l'aiuola verrà a svolgere la medesima funzione di rampa d'accesso)”, rispetto alle quali non è stata comunque dedotta alcuna censura atta ad evidenziarne l’illegittimità.
Ne deriva il consolidamento del diniego anche riguardo a tali capi.
I motivi aggiunti vanno in conclusione rigettati.

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province e EE.LL. - Assunzioni e mobilità secondo la Sezione Autonomie della Corte dei Conti (CGIL-FP di Bergamo, nota 22.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: risorse destinabili alla contrattazione collettiva (ARAN, nota 18.06.2015 n. 19932 di prot.)

NOTE, CIRCOLARI E E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Rifiuti – chiarimenti sulle nuove modalità di classificazione (ANCE di Bergamo, circolare 19.06.2015 n. 142).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Costo della manodopera in edilizia – D.M. 29.04.2015. Efficacia (ANCE di Bergamo, circolare 19.06.2015 n. 141).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc on-line – Circolare Ministero del Lavoro n. 19/2015 (ANCE di Bergamo, circolare 19.06.2015 n. 139).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Procedure DURC on-line  (COMMISSIONE NAZIONALE PARITETICA PER LE CASSE EDILI, nota 19.06.2015 - link a www.cnce.it).
---------------
Si forniscono di seguito alcuni primi chiarimenti operativi per le Casse Edili alla luce della pubblicazione del D.M. 30.01.2015 che, come noto, ha dato attuazione all'art. 4 del D.L. n. 34/2014, recante importanti novità in tema di semplificazione del Durc.
Tali chiarimenti, anche alla luce della circolare del Ministero del Lavoro, contenente alcune prime istruzioni e pubblicata nei giorni scorsi, anticipano il documento contenente le Regole per le Casse Edili che sarà a breve approvato dal Comitato della bilateralità.

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: convenzioni per l'ufficio di segreteria e criteri direttivi per l'assegnazione del segretario (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Albo Nazionale dei Segretari Comunali e Provinciali, nota 18.06.2015 n. 3782 di prot.)

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: Art. 31 del CCNL del 16.05.2001. Anzianità di servizio (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Albo Nazionale dei Segretari Comunali e Provinciali, nota 18.06.2015 n. 3782 di prot.)

AMBIENTE-ECOLOGIA: Regolamento per lo svolgimento dei controlli a campione sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica del 28.12.2000, n. 445, rese ai fini dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, deliberazione 22.04.2015 n. 1 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: G. Giustiniani e A.S. Pavesi, “I permessi edilizi alla luce delle recenti novità normative” (Politecnico di Milano - Scuola di Ingegneria Edile Architettura – Laurea Magistrale in Gestione del Costruito – Strumenti e Tecniche di Progettazione sul Costruito - A.A. 2014/2015) (26.06.2015).
---------------
SOMMARIO:
IL GOVERNO DEL TERRITORIO: - l’oggetto; - le competenze legislative e le funzioni amministrative.
L’URBANISTICA: - il sistema tradizionale della pianificazione urbanistica; - il piano regolatore generale, contenuto; - il piano regolatore generale, gli standard urbanistici.
L’EDILIZIA: - il regolamento edilizi; - i titoli abilitativi all’attività edilizia, profilo storico; - i titoli abilitativi all’attività edilizia, la disciplina oggi: (i) le attività completamente libere; (ii) la comunicazione di inizio lavori per attività libere; (iii) la segnalazione certificata di inizio attività; (iv) la denuncia di inizio attività in alternativa al permesso di costruire; (v) il permesso di costruire; (vi) il permesso di costruire in deroga; (vii) il permesso di costruire convenzionato; (viii) gli interventi di conservazione; (ix) i cambi di destinazione d’uso; - il piano regolatore generale “adottato”, l’attività edilizia e le misure di salvaguardia; - il certificato di agibilità.
LA REGIONE LOMBARDIA: - i nuovi modelli di pianificazione generale, il piano di governo del territorio («PGT») della Regione Lombardia; - le definizioni degli interventi edilizi; - la sentenza della Corte Costituzionale 21.11.2011, n. 309; - i titoli abilitativi e i procedimenti amministrativi i cambi di destinazione d’uso; - il PGT della Regione Lombardia, attività edilizia, misure di salvaguardia e perdita di efficacia dei piani regolatori generali; - il certificato di agibilità.
LA BIBLIOGRAFIA: - i testi consigliati.

VARI: A. Casotti e M.R. Gheido, Lavoro a tempo parziale: scompaiono le tre tipologie (25.06.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P. Rausei, Jobs Act: il congedo parentale cambia, per ora soltanto nel 2015 (25.06.2015 - tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, Lo stillicidio, lo scolo ed il diritto sulle acque esistenti nel fondo (23.06.2015 - tratto da http://renatodisa.com).
---------------
Sommario
A) Lo stillicidio – pag. 1
B) Le acque – pag. 12
1) diritto sulle acque esistenti nel fondo – pag. 12
2) apertura di nuove sorgenti e altre opere – pag. 14
3) conciliazione di opposti interessi – pag. 19
4) scolo delle acque – pag. 22
5) consorzi per regolare il deflusso delle acque – pag. 32

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 26.06.2015, "Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto della criminalità organizzata e per la promozione della cultura della legalità" (L.R. 24.06.2015 n. 17).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 25.06.2015, "Approvazione dello schema del protocollo d’intesa per l’adesione dei Comuni al macroagglomerato di livello regionale per gli adempimenti di mappatura acustica di cui al decreto legislativo 194/2005 «Attuazione della direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale»" (deliberazione G.R. 19.06.2015 n. 3735).

VARI: G.U. 24.06.2015 n. 14 "Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10.12.2014, n. 183" (D.Lgs. 15.06.2015 n. 81).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 24.06.2015 n. 14 "Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10.12.2014, n. 183" (D.Lgs. 15.06.2015 n. 80).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia n. 26 del 23.06.2015 "Definizione dei criteri regionali per l’assenso ai programmi di alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica predisposti ai sensi del decreto interministeriale 24.02.2015 (art. 1, c. 1)" (deliberazione G.R. 19.06.2015 n. 3737).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia n. 26 del 23.06.2015 "Quinto aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 18.06.2015 n. 5044).

EDILIZIA PRIVATA: G.U.R.S. 19.06.2015 n. 25 "Applicazione dell’art. 31, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), come integrato dall’art. 17, lettera q-bis del decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164. Sanzioni conseguenti alla inottemperanza all’ordinanza di demolizione di opere abusivamente eseguite" (Regione Sicilia, Assessorato del Territorio e dell'Ambiente, circolare 28.05.2015 n. 3).
---------------
La circolare offre spunti di riflessione che possono valere per tutte le regioni (e non solo in ambito siciliano) sulla scorta di quanto espresso da parte del C.G.A.R.S., parere 15.04.2015 n. 322, siccome ampiamente anticipato con l'AGGIORNAMENTO AL 22.05.2015.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICIAppalti, costi per la sicurezza nell’offerta. Lavori pubblici. I chiarimenti dell’Anac sugli interventi di valore superiore ai 150mila euro.
Gli operatori economici che concorrono in una gara di appalto per lavori pubblici devono specificare nell’offerta i costi della sicurezza aziendali, mentre le stazioni appaltanti devono specificare questo elemento nel disciplinare.
L’Autorità nazionale anticorruzione, con il comunicato del Presidente del 27.05.2015 ha fornito alcune importanti precisazioni alle stazioni appaltanti in ordine al bando-tipo numero 2/2014, che le amministrazioni devono obbligatoriamente utilizzare per le gare per appalti di lavori pubblici di valore superiore ai 150mila euro, indette con il criterio del prezzo più basso.
L’Anac ha chiarito che anche nelle procedure per l’affidamento di lavori pubblici i concorrenti devono specificare nell’offerta economica i costi della sicurezza aziendali, analogamente a quanto previsto per gli appalti di beni e servizi, con estensione applicativa di quanto stabilito dall’articolo 87, comma 4, Dlgs. 163/2006, aderendo all’interpretazione del Consiglio di Stato, che nella decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 20.03.2015 ha ritenuto che l’obbligo di procedere a tale indicazione, pur se non dettato expressis verbis dal legislatore, si ricavi in modo univoco da un’interpretazione sistematica delle norme regolatrici della materia date sia nel Codice dei contratti che nel Testo unico sulla sicurezza sul lavoro.
Dato che nel bando-tipo tale aspetto non era stato regolamentato, l’Anac specifica che al fine di garantire l’osservanza del principio di diritto espresso ed evitare di generare un errato affidamento dei concorrenti in ordine all’assenza dell’obbligo, le stazioni appaltanti sono tenute a prevedere nei bandi di gara l’obbligo degli operatori economici di indicare espressamente nell’offerta gli oneri di sicurezza aziendali.
L’Anac precisa che deve essere inserita una specifica frase al punto 1 del paragrafo 17.1 del bando-tipo n. 2/2014 e che analoga formulazione deve essere contenuta nel modello di dichiarazione di offerta economica allegato al bando. Per le procedure in corso l’Anac suggerisce alle stazioni appaltanti di inserire un chiarimento al bando nel profilo del committente, in cui specificare ai concorrente l’obbligo di indicazione dei costi della sicurezza aziendali.
Il bando-tipo per gli appalti di lavori presentava anche un altro problema, essendo stato definito prima dell’assestamento del quadro normativo e interpretativo in materia di nuovo soccorso istruttorio.
L’Anac evidenzia come le cause di esclusione dalla procedura di gara individuate nel bando-tipo n. 2/2014 siano regolarizzabili nei modi e nei limiti chiariti nella determinazione n. 1/2015, con conseguente possibilità di procedere all’esclusione del concorrente solo dopo l’infruttuosa richiesta di regolarizzazione da parte della stazione appaltante.
Per le clausole del bando relative all’esercizio del potere di soccorso istruttorio, il bando per i lavori pubblici può essere integrato con le formulazioni proposte dall’Autorità nello schema per i beni e servizi sottoposto a consultazione il 18 maggio
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Le comunicazioni con le imprese.
DOMANDA:
Premesso che la PA è tenuta ad intraprendere rapporti con le imprese mediante l'utilizzo della PEC, con il presente quesito si desiderano richiedere delucidazioni in merito alle seguenti problematiche:
1- L'invio di documentazioni ed istanze in formato cartaceo direttamente mediante servizio postale o allo sportello del protocollo è ancora possibile, se si fino a quale data?
2- Qualora l'invio cartaceo fosse possibile e la ditta ometta di indicare la sua PEC, l'ente può mediante regolamento o disposizioni dirigenziali dichiarare irricevibile l'istanza con archiviazione diretta della stessa?
3- Qualora una mail pec inviata all'indirizzo indicato dalla ditta o reperibile sul sito www.inipec.gov.it non venga consegnata con indicazione "avviso di mancata consegna", condizione non addebitabile a problemi informatici ma a causa del mancato pagamento del rinnovo dell'indirizzo mail, quale validità può essere attribuita alla pec inviata dall'Ente? Ci sono differenze tra quest'ultimo caso e l'eventuale mancata consegna per casella piena? E quali rimedi sono esperibili qualora non sia reperibile un valido indirizzo pec?
RISPOSTA:
A norma dell’art. 5-bis, comma 1, del Codice dell’Amministrazione Digitale “la presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese”.
Tale disposizione è pienamente vigente e, pertanto, non è più possibile utilizzare la modalità cartacea per le comunicazioni tra l’Ente e le imprese. La presenza –su INI-PEC– di indirizzi di posta elettronica certificata non attivi, errati o comunque inutilizzati dall’impresa titolare che, lasciando la propria casella in condizione di non poter ricevere i messaggi PEC, di fatto impedisce il buon fine della comunicazione, rappresenta un limite dello strumento.
La mancata consegna della PEC per mancato rinnovo dell’indirizzo corrisponde alla raccomandata tornata al mittente per irreperibilità. Diversamente, l’impossibilità di consegnare il messaggio dovuta al raggiungimento della capienza massima della casella di posta della società, seppur dovuta alla mancanza di diligenza di quest’ultima nel liberare lo spazio sufficiente sulla casella per consentire la ricezione dei messaggi, non permette l’effettivo perfezionamento della ricezione del messaggio in quanto il mittente non riceve la conferma del recapito dello stesso.
In tali casi, al fine di avere la certezza circa l’effettivo recapito delle comunicazioni, si consiglia di provvedere con le tradizionali modalità analogiche (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Legittimo il sindaco se la spa è in liquidazione. Il primo cittadino-dipendente non ha poteri di rappresentanza. Incompatibilità ristrette.
Può sussistere una causa di incompatibilità ex art. 63, comma 1, n. 2, del dlgs 18.08.2000, n. 267, nei confronti del sindaco di un ente, il quale è dipendente con poteri di rappresentanza di una spa, società a capitale misto pubblico-privato per la gestione dell'approvvigionamento e la fornitura all'ingrosso dell'acqua ad uso potabile ai comuni del territorio della regione, tra cui è compreso l'ente in questione?
Può configurarsi la responsabilità del segretario comunale e dell'organo deliberativo dell'ente laddove, qualora dovesse ritenersi effettivamente esistente tale preclusione, il Consiglio comunale non avesse dato avvio al procedimento di contestazione ai sensi dell'art. 69 del citato dlgs. n. 267/2000?

Di fatto, nel caso di specie, il sindaco del comune è dipendente della spa ma, allo stato attuale, non ricopre ruoli o incarichi di rappresentanza o di coordinamento. Inoltre la società in questione è stata posta in liquidazione e ha fatto istanza all'organo giurisdizionale competente per essere ammessa al concordato preventivo.
La questione va esaminata alla luce dell'art. 63, comma 1, n. 2 del dlgs 267/2000, che prevede l'incompatibilità alla carica di sindaco di «colui che come titolare, amministratore e dipendente con poteri di rappresentanza e di coordinamento, ha parte direttamente o indirettamente in servizi, somministrazioni o appalti nell'interesse del comune».
In proposito, la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione ha chiarito come la norma sia volta ad evitare il pericolo di deviazioni nell'esercizio del mandato da parte degli eletti e il conflitto, anche solo potenziale, che la medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse scegliere tra l'interesse che deve tutelare in quanto amministratore dell'ente che gestisce il servizio e l' interesse che deve tutelare in quanto amministratore del comune che di quel servizio fruisce.
La Suprema corte ha più volte affermato che l'art. 63 citato, nello stabilire la causa di «incompatibilità di interessi» («non può ricoprire la carica») ivi prevista e rilevante nella fattispecie, richiede, ai fini della sua sussistenza, una duplice, concorrente condizione: la prima di natura soggettiva, la seconda di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, «è necessario che il soggetto, in ipotesi incompatibile all'esercizio della carica elettiva, rivesta la qualità di «titolare» (ad es., di impresa individuale), o «di amministratore» (ad es., di società di persone o di capitali: cfr. il n. 1 del medesimo comma ove si parla più ampiamente, sia pure ad altri fini, di «amministratore di ente, istituto o azienda»), ovvero di «dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento» (cfr. Cass. civile, sent. n. 11959 dell'08.08.2003, Sez. I, ord. n. 550 del 16.01.2004).
Dal punto di vista oggettivo, l'amministratore locale, «rivestito di una delle predette qualità», può considerarsi incompatibile, in quanto «abbia parte» in appalti e/o in servizi, nell'interesse del comune.
L'espressione «avere parte» è qui usata per indicare una contrapposizione tra l'interesse particolare del soggetto, in ipotesi incompatibile, e l'interesse del comune, istituzionalmente generale, quindi una situazione di potenziale conflitto rispetto all' esercizio imparziale della carica elettiva.
Atteso che il sindaco non riveste alcuna delle qualità indicate dalla norma nell'ambito della società per azioni, peraltro in liquidazione, è ragionevole ritenere che, nella fattispecie, non sussista la prospettata situazione ostativa all'esercizio del mandato elettivo (articolo ItaliaOggi del 19.06.2015).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Contributo di costruzione in relazione a interventi comprensivi di recupero abitativo di sottotetto esistente. Parere (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo, nota 04.06.2015 n. 5604 di prot. - tratto da www.ordinearchitettipavia.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei Comuni «blocco» del personale. Gli effetti della delibera della Corte dei conti sulla «corsia preferenziale» dalle Province.
Assunzioni. Impossibile la mobilità fra municipi prima del totale riassorbimento degli ex provinciali - Verifica nazionale anche per gli «infungibili».

Nessuno lo chiama blocco alle assunzioni. Ma quale altro nome dare all’impossibilità degli enti locali di avvalersi nel 2015 di forza lavoro?
Il comma 424 della legge 190/2014 ha fornito una rivisitazione forzata delle modalità assunzionali dei Comuni, nell’obiettivo di garantire il totale riassorbimento dei dipendenti in soprannumero delle Province. Ora che la sezione Autonomie della Corte dei conti, con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19, si è allineata alla Funzione pubblica, sancendo il divieto anche della mobilità volontaria, i margini per azioni sul personale si sono ridotti all’osso.
La disposizione normativa ha imposto agli enti locali di destinare la capacità assunzionale, per gli anni 2015 e 2016, ai dipendenti collocati in sovrannumero da parte delle Province e delle Città metropolitane. Poiché la mobilità volontaria, tra enti con limitazioni alle assunzioni, è ormai da un decennio considerata “neutra” ai fini del turn-over, l’obbligo della legge di stabilità sembrava non riferirsi agli spostamenti di dipendenti da un’amministrazione all’altra.
La Funzione Pubblica, nella circolare 1/2015, ha ritenuto però che non fosse più possibile bandire nuovi avvisi di mobilità o che gli stessi fossero, almeno, destinati ai soli dipendenti degli enti di area vasta. E questo fino a quando non sarà “implementato” il portale della domanda e dell’offerta per favorire la ricollocazione.
Al di là della difficoltà di trovare una definizione giuridica al concetto di «implementazione» per individuare una data certa, il sito destinato ad accogliere i dati è partito molto lentamente, tanto che solo il 57% dei Comuni ha inserito le informazioni relative alla dotazione organica e alla capacità assunzionale. Manca all’appello, oltre al comune di Roma e di Firenze, anche il 70% degli enti regionali. Le cose, vanno quindi, molto per le lunghe.
Nel frattempo agli enti locali rimangono a questo punto poche possibilità di azione. Quella prevista e “obbligata” dal legislatore è l’assunzione dei vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti al 01.01.2015. Non è, invece, possibile alcuno scorrimento di graduatorie (idonei), sia di quelle presenti nell’ente sia di quelle di altre amministrazioni. Addio, quindi, al tanto voluto ricambio generazionale voluto dal Dl 90/2014.
La Corte dei conti, sezione Autonomie, ha inoltre “vietato” le procedure di mobilità volontaria almeno fino a quando non vi sarà la totale ricollocazione dei dipendenti degli enti di area vasta; nel frattempo, si potranno approvare solamente bandi riservati a questi lavoratori.
Nel ricordare che il comma 424 fa sempre riferimento alla totalità delle Province e non solo a quella competente per singolo territorio, viene indicata nella deliberazione 19/2015 un’unica eccezione assunzionale; quella per le figure infungibili, per le quali però è posto in capo ai singoli enti di verificare l’inesistenza di queste professionalità nelle province. Come questa verifica possa avvenire su base nazionale senza il portale della mobilità a pieno regime rimane un mistero.
Anche se il decreto legge enti locali, pubblicato finalmente sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì (è il decreto 78/2015), ha chiarito la possibilità di utilizzo dei cosiddetti “resti” assunzionali, rimangono in sospeso due questioni. La prima: qual è la capacità assunzionale vincolata ai dipendenti in soprannumero? Solo quella derivante dalle cessazioni degli anni 2014 e 2015 o anche quella generata in anni precedenti? L’altro aspetto sottoposto alla sezione Autonomie riguardava la possibilità di trasformare a tempo pieno, i contratti di lavoro dei dipendenti assunti a tempo parziale. Ma su questi dubbi, per ora, è silenzio
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Blocco totale delle assunzioni e ricollocazione prioritaria del personale delle Province.
1) “
per gli anni 2015 e 2016 la facoltà di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica”;
2) “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”;
3) “
se l’Ente che deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità attestata, ove contemplato dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
4) “
la capacità di assunzioni a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al complemento a cento delle ricordate percentuali è destinabile unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime risorse destinandone parte alle predette assunzioni da graduatorie
”.
5) “
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale soprannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni”.
6) “
il parametro derogatorio, previsto dal comma 424, relativo alla non computabilità delle spese del personale ricollocato nel tetto di spesa ex comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296/2006, deve intendersi esteso anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del patto di stabilità interno”;
7) “
se il posto da coprire sia infungibile intendendosi tale, un posto per il quale è prevista una professionalità legalmente qualificata, eventualmente attestata, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
E se questa dovesse essere l’unica esigenza di organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione come individuati ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
---------------
PREMESSO
1. Per le questioni poste dalla Sezione regionale di controllo Lombardia, con le deliberazioni n. 120/2015/QMIG e n. 135/2015/QMIG, all’esito della relazione, l’adunanza della Sezione ha deciso approfondimenti istruttori, per cui la trattazione è stata rinviata a nuova data; le altre vengono trattate e decise.
Le questioni poste vertono tutte sulla corretta interpretazione ed applicazione di quanto dispone l’art. 1, comma 424, della legge 23.12.2014, n. 190, legge di stabilità per il 2015, che così recita: “Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma non si calcolano, al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono nulle.”
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha rassegnato con la deliberazione del 24.02.2015 n. 85/2015/QMIG cinque quesiti posti dal Comune di Botticino (BS) e con la deliberazione del 04.03.2015, n. 87/2015/QMIG ha deferito una delle due questioni sollevate dal comune di Borgo Virgilio (MN).
La Sezione regionale per il Piemonte ha deferito con la deliberazione del 04.03.2015 n. 26/2015/QMIG tre questioni proposte dal comune di Omegna (VCO).
Per consentire una più agevole lettura delle analisi svolte e delle soluzioni interpretative adottate i quesiti saranno esaminati in sequenza completando, per ognuno di essi, esposizione della questione e relativa soluzione.
Complessivamente, considerate le questioni sulle quali, come si dirà in seguito, non vi è luogo a deliberare, saranno esaminati sette temi interpretativi.
Occorre ancora premettere che le questioni che si vanno a trattare sono già state iscritte all’ordine del giorno dell’adunanza del 09.04.2015; in detta occasione è stato deciso di soprassedere momentaneamente alla decisione delle questioni di massima in quanto si era considerato che essendo in corso di predisposizione da parte del Ministro per la semplificazione e la pubblica Amministrazione il decreto ministeriale per la determinazione dei criteri relativi alle procedure di mobilità previsto dall’art. 1, comma 423, della già ricordata legge di stabilità, la materia dei quesiti poteva essere interessata dalle emanande disposizioni ministeriali.
L’esigenza di rendere l’ausilio interpretativo richiesto dagli enti, perdurando la mancata adozione dei surricordati atti, ha fatto propendere per la trattazione dei quesiti nell’odierna adunanza.
Prima di esaminare le varie questioni e le correlate soluzioni interpretative occorre fare una puntualizzazione di metodo e cioè che l’esame delle questioni poste, per quello che qui interessa, è limitato a quelle le cui difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale, sistematico e logico, sono direttamente ed esclusivamente connesse al contenuto dispositivo dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014 e cioè ai nuovi e specifici limiti imposti per gli anni 2015 e 2016 alle assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali; ulteriori istituti concernenti altre facoltà e modalità assunzionali degli enti interessati, anche se ipoteticamente ed indirettamente influenzate dalla predetta disciplina normativa, restano fuori dal perimetro delle questioni di massima.
L’esame dei quesiti verrà condotto secondo il filo logico dell’individuazione di un principio di diritto che, sia pure nel peculiare contesto della fattispecie, sia finalizzato a cogliere la portata generale e la ratio dei vincoli introdotti dalla norma. Ciò anche a ragione della elevata complessità ed articolazione della disciplina in materia di personale, i cui molteplici istituti hanno proprie e diversificate regole applicative tra le quali parametri per la quantificazione della spesa e vincoli particolari.
Venendo allo specifico tema normativo in questione, sempre sul piano generale va considerato che con l’art. 1, comma 424 della legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) è stata introdotta una disciplina particolare delle assunzioni a tempo indeterminato, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016 di quella generale; eventuali assunzioni effettuate in difformità da dette disposizioni, sono colpite da nullità di diritto (“le assunzioni effettuate in violazioni del presente comma sono nulle” comma 424, ultimo periodo).
Peraltro tale particolarità della disciplina non va intesa alla stessa stregua del carattere della specialità tipico della configurazione delle antinomie giuridiche; per queste, infatti, il fondamento derogatorio risiede in una diversa, sostanziale e strutturale esigenza di eccezione alla norma generale: nel comma 424 la finalità derogatoria concretamente riferibile alla priorità della ricollocazione, discende dalla specifica e temporanea esigenza di riassorbimento del personale soprannumerario. Soddisfatta tale esigenza è la stessa norma che contempla, implicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria: “salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario”.
Il merito della problematica risiede nel fatto che, all’esito del suddetto riordino, l’art. 1, comma 421, della legge di stabilità ha disposto che le dotazioni organiche delle città metropolitane e delle province sono commisurate alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore della legge 07.04.2014, n. 56, ridotta, rispettivamente, del 30 e del 50 per cento; del 30 per cento per le province con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 3, della richiamata legge 56/2014. Effetto di tale riduzione è l’emersione di personale soprannumerario da ricollocare presso le regioni e gli enti locali utilizzando le risorse indicate dalla norma.
Al di fuori degli aspetti esegetici, sembra opportuno considerare che l’espressa limitazione temporale ai due esercizi prima ricordati, potrebbe risultare disallineata rispetto al concreto conseguimento dell’obiettivo di ricollocazione. Tuttavia, tenuto conto del tenore letterale delle disposizioni in esame, i vincoli da essa posti, salvo ulteriori interventi normativi che ne dovessero estendere gli effetti, non sembra possano dispiegare efficacia ultrattiva rispetto all’arco temporale definito.
CONSIDERATO
2. Questioni rimesse dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con deliberazione 24.02.2015, n. 85/2015/QMIG.
Il Sindaco del comune di Botticino (BS), con nota n. 353 del 12.01.2015, ha formulato una richiesta di parere alla Sezione regionale che verte su diversi profili interpretativi in materia di assunzione di personale da parte degli enti locali a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 424, della legge di stabilità 2015. Di seguito si illustrano i quesiti posti, la posizione della sezione remittente e la soluzione deliberata.
2.1. Primo quesito.
Il divieto di attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici approvate da altri enti locali per il biennio 2015/2016, è limitato solo alla permanenza di personale soprannumerario della provincia di appartenenza oppure permane comunque per il biennio considerato?
Il quesito in esame, nasce da una deduzione interpretativa fatta dal Comune di Botticino che lo ha formulato. In sostanza l’Ente muove dalla constatazione che l’art. 1, comma 424, della legge di stabilità, nell’imporre che le uniche assunzioni a tempo indeterminato possibili per gli anni 2015 e 2016 sono quelle dei vincitori di concorsi collocati in proprie graduatorie oppure il personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, fa venir meno la facoltà di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali.
Tale facoltà è astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125. Ciò premesso l’ente chiede di conoscere se tale vincolo possa considerarsi limitato al permanere di personale soprannumerario, oppure produca necessariamente i suoi effetti per i due esercizi 2015 e 2016 a prescindere dall’esistenza o meno del personale soprannumerario.
La Sezione remittente argomenta che “la novella in esame appare introdurre una lex specialis valevole per i soli anni 2015 e 2016” che integra un regime derogatorio alla disciplina generale che regola le facoltà assunzionali -soprattutto per i profili dei vincoli assunzionali- finalizzato a destinare tutte le risorse disponibili per le assunzioni a tempo indeterminato alla realizzazione di due obiettivi: l'immissione in ruolo di tutti i vincitori di concorso pubblico collocati nelle graduatorie dell'Ente e la ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità.
Una volta venute meno le ragioni che giustificano la deroga troveranno nuovamente applicazione le disposizioni della disciplina ordinaria ivi compresa quella di cui all’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125.
Sul punto è condivisibile l’interpretazione della Sezione remittente così come la precisazione circa l’ambito di operatività della disposizione che non va inteso limitato alla sola ricollocazione del personale soprannumerario della provincia di appartenenza, ma alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica.
In questo senso sono, anche, gli indirizzi emanati con circolare n. 1 del 30.01.2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, registrata dalla Corte dei conti in data 20.02.2015 la quale, al riguardo, prevede che “qualora l'osservatorio nazionale rilevi che il bacino del personale da ricollocare è completamente assorbito, vengono adottati appositi atti per ripristinare le ordinarie facoltà di assunzione alle amministrazioni interessate”.
Conclusivamente il quesito posto trova soluzione nel ritenere che per gli anni 2015 e 2016 la facoltà di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter, del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica.
2.2. Secondo quesito.
Nel biennio 2015/2016 è possibile, attraverso l’istituto della mobilità, assumere personale proveniente da enti diversi da quello inserito tra i soprannumerari della provincia sulla base di una graduatoria di merito?
Va, innanzitutto, chiarito che nell’illustrazione delle ragioni del quesito come formulato dall’ente, oltre all’aspetto principale dello stesso che è quello dell’esperibilità, o meno, dell’ordinaria mobilità in presenza del nuovo vincolo, si fa anche riferimento alla concreta difficoltà di poterlo rispettare.
L’osservanza della norma, infatti, imporrebbe di limitare la procedura di mobilità ai soli dipendenti soprannumerari delle province interessate dal riordino (ciò che presupporrebbe l’esclusione dalla procedura di altri dipendenti non interessati dalla ricollocazione), da cui la domanda: se il nuovo, transitorio, regime per le assunzioni a tempo indeterminato escluda l’attivazione delle procedura per la mobilità volontaria ex art. 30 d.lgs. 165/2001.
La Sezione remittente, sul punto, ritiene che nel quesito posto siano sovrapposti due profili tematici che, invece, vanno tenuti distinti: il primo, relativo ai vincoli imposti dal comma 424 alle facoltà di assunzioni a tempo indeterminato a valere sulle risorse a ciò destinate per gli anni 2015 e 2016; il secondo, concernente la possibilità di continuare a fare ricorso, anche per detto biennio, all’istituto della mobilità esterna fra enti che risulta finanziariamente neutra.
Fatta questa premessa, la Sezione remittente considera che il vincolo di attingere dal personale soprannumerario sia limitato solo alle assunzioni e non ai trasferimenti diretti di personale a seguito delle procedure di mobilità. Ciò perché la copertura di un posto in organico con il trasferimento da altro ente per mobilità è consentito, ai sensi dell’art. 1, comma 47, della legge 311/2014, in quanto finanziariamente neutro.
In sostanza poiché tale assunzione non va imputata alla quota di assunzione normativamente prevista (calcolata sulla base dei risparmi di spesa realizzati rispetto al precedente esercizio per pensionamento, decesso ed altre cause) la stessa non incide sull’ammontare delle disponibilità che il comma 424 destina ai surricordati scopi.
E la non imputazione alle nuove assunzioni deriva dal fatto che la cessazione dall’ente cedente non è considerata alla stessa stregua di un pensionamento e, quindi, per il medesimo ente cedente non è un risparmio di spesa da utilizzare per il calcolo di nuove quote di assunzioni; ossia l’ente che assume il dipendente non lo computa nelle quote assunzionali in quanto l’ente che lo ha ceduto non potrà ricoprire quel posto in organico, considerandolo un risparmio di spesa.
Situazione questa che, secondo la Sezione lombarda, non ricorre per il personale soprannumerario delle province, in quanto le corrispondenti dotazioni organiche sono state ridotte, quindi le assunzioni di questo personale non possono che essere imputate alle nuove disponibilità finanziarie. La Sezione remittente ritiene, quindi, che la riserva in favore dei dipendenti sovrannumerari delle province non sia pregiudicata dalle assunzioni a seguito delle ordinarie procedure di mobilità che restano, quindi, consentite.
Tale tesi non può essere condivisa.
A ciò ostano due ragioni: la prima, di metodo logico interpretativo; la seconda, di carattere sostanziale.
Per il primo profilo, deve considerarsi che l’assunto metodologico già considerato nell’affrontare il primo quesito, e cioè che il comma 424 detta una disciplina particolare temporaneamente derogatoria, ha valore, per così dire, conformativo di tutte le necessità esegetiche che riguardano l’attuazione di quella disposizione. Nel risolvere il precedente quesito si è considerato che la sospensione della facoltà di attingere alle graduatorie di altri enti, normalmente consentita in base alle vigenti disposizioni, è giustificata dalle prioritarie finalità di conservazione delle posizioni lavorative dei dipendenti soprannumerari degli enti interessati dal riordino di cui alla legge n. 56/2014.
La stessa motivazione sorregge anche la derogabilità, limitata temporalmente, alle altre disposizioni che consentono di ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto dei dipendenti in servizio presso altre amministrazioni che ne facciano richiesta (c.d. mobilità volontaria). Le ragioni di questa deroga hanno, però, come anticipato, anche un fondamento sostanziale che si va ad illustrare.
Per fare ciò è opportuno partire dai principi contenuti in alcune statuizioni del D.P.C.M. 20.12.2014, registrato alla Corte dei conti l’11.03.2015, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 78 del 3 aprile, che disciplina i criteri di utilizzo e le modalità di gestione delle risorse del fondo destinato al miglioramento dell’allocazione del personale presso le pubbliche amministrazioni in esito ai processi di mobilità di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
In detto provvedimento si considera che, in via ordinaria, la mobilità si svolge, nel limite dei posti disponibili nella dotazione organica, con le risorse finanziarie che le amministrazioni pubbliche hanno nella disponibilità dei loro bilanci, nel rispetto della disciplina prevista per la mobilità da finanziare con le risorse per le assunzioni (fattispecie, tra quelle di mobilità elencate nel provvedimento, caratterizzata dal fatto che, si precisa nel DPCM, si svolge tra amministrazioni delle quali almeno una non è soggetta a limitazioni delle assunzioni) e per la mobilità per la quale ricorrano le condizioni di neutralità per la finanza pubblica.
Nel caso di specie ricorre quest’ultima ipotesi per la quale la regola finanziaria che ne governa l’applicazione è che le risorse da spendere per ricoprire un posto in organico attraverso la procedura di mobilità volontaria, sono costituite da quelle non computabili sull’ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni (queste ultime per il 2015 ed il 2016 sono individuate dall’art. 3, comma 5, del decreto legge 24.06.1990, n. 90 convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114).
In pratica l’assunzione per mobilità non riduce le facoltà assunzionali dell’ente in quanto queste facoltà che hanno il loro parametro finanziario nelle risorse risparmiate nel precedente esercizio, restano integre mentre la nuova assunzione nell’aggregato finanziario complessivo del comparto rimane compensata dall’impossibilità di coprire il posto rimasto vacante nell’ente di provenienza.
Tuttavia bisogna tenere conto del fatto che l’art. 1, comma 424, oltre a destinare le risorse appena ricordate e cioè una quota proporzionale dei risparmi di spesa realizzati rispetto all’anno di riferimento, vincola anche le rimanenti disponibilità commisurate ai medesimi risparmi di spesa, solo per l’applicazione dei processi di mobilità per il ricollocamento del personale soprannumerario di cui all’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014.
Non solo. Il legislatore ha anche stabilito –ed è questo il punto più rilevante- che le spese per il personale ricollocato secondo il comma 424 in esame, non si calcolano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui all’art. 557 dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n. 296, fermo restando il rispetto del patto di stabilità e la sostenibilità finanziaria che diventano i limiti sostanziali invalicabili. E’ noto che dalle componenti del predetto tetto, come statuito anche nelle linee guida per la relazione alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti (art. 1, commi 166 e ss. L. 266/2005) dell’organo di revisione contabile del Comune (da ultimo: Delibera Sez. autonomie n. 18/2013/SEZAUT/INPR), non sono escluse le spese per il personale assunto per mobilità.
Ora, se lo stesso comma 424 prevede, come appena ricordato, che le ulteriori risorse impiegate per le ricollocazioni non rilevano ai fini del tetto di spesa, fermi restando gli altri due limiti invalicabili (Patto di stabilità interno e sostenibilità), sarebbe incongruo far salva una quota di questo tetto e, conseguentemente, una porzione di detti limiti, per il personale assunto per mobilità volontaria, che non ha la priorità riconosciuta, invece, dal comma 423 dell’art. 1 della legge 190/2014, alla ricollocazione del personale soprannumerario secondo le modalità del comma 424.
E’ conseguenziale, quindi, che anche questi spazi assunzionali debbano essere disponibili per il ricollocamento delle unità soprannumerarie e fino al completo ricollocamento dello stesso personale al termine del quale non vi sono ostacoli all’attivazione di tali procedure di mobilità. In altri termini, vero è che in astratto l’art. 1, comma 424, della legge di stabilità non innova nella disciplina della mobilità volontaria per cui, sempre in linea teorica, non sembrerebbero sussistere ostacoli alla sua operatività, ma la priorità della ricollocazione del personale “destinatario delle procedure di mobilità” secondo le previsioni del comma 424, non è compatibile con la operatività, per il limitato arco temporale dei due esercizi 2015 e 2016, delle disposizioni di mobilità volontaria, salvo la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Anche in questo caso è opportuno richiamare la ricordata circolare n. 1/2015 che nell’evidenziare i “divieti e gli effetti derivanti dai commi 424 e 425 per le amministrazioni pubbliche” precisa che non sono consentite procedure di mobilità.
Per dette ragioni deve ritenersi che per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria.
2.3. Terzo quesito.
Se nell’ambito del personale soprannumerario della provincia non sono presenti profili professionali adeguati alla coperture dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana, è possibile ritenere l’ente locale svincolato dagli obblighi contenuti nel comma 424?
In ordine al quesito appena riassunto il Comune chiede se sia possibile ritenere l’ente locale svincolato dagli obblighi contenuti nel comma 424 nel caso in cui, nell’ambito del personale soprannumerario della provincia, non siano presenti profili professionali adeguati alla copertura dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana.
La Sezione remittente ritiene che la sanzione di nullità comminata dal comma 424 in esame, per assunzioni a tempo indeterminato fatte senza l’osservanza dei vincoli ivi imposti, comprovi la esclusività di tale disciplina e, quindi, l’impossibilità di procedere ad utilizzare le risorse assunzionali a tempo indeterminato al di fuori dei casi considerati.
Sull’argomento oggetto del quesito vengono in evidenza due disposizioni della disciplina legislativa concernente la mobilità: la prima, l'art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale le amministrazioni possono ricoprire i posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni; la seconda, il comma 1-bis, dello stesso art. 30, in base al quale, “l’amministrazione di destinazione provvede alla riqualificazione dei dipendenti….eventualmente avvalendosi, ove sia necessario predisporre percorsi specifici o settoriali di formazione, della Scuola nazionale dell’amministrazione”.
In sostanza in base alla legge deve esserci una corrispondenza tra qualifica professionale acquisita nell’ente cedente e professionalità necessaria ai compiti da assolvere nell’ente di entrata. Se non c’è corrispondenza o equivalenza di professionalità, resta la possibilità di riqualificazione. In base a questi presupposti, l’unico ostacolo all’immissione negli organici dell’ente ricevente è la totale carenza dei requisiti soggettivi di professionalità richiesti in base alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale per ricoprire il posto in organico disponibile.
D’altra parte, va anche considerato che la ricollocazione non può operare se non garantendo alle unità ricollocate la posizione giuridica ed economica in godimento, almeno con riferimento al trattamento fondamentale e accessorio, come stabilito dall’art. 1, comma 96, lett. a) della legge n. 56/2014 per il personale trasferito a seguito di trasferimento delle funzioni.
Oltre a queste considerazioni rilevanti sul piano giuridico-formale, a risolvere il quesito posto concorrono anche ragioni di ordine sostanziale. Tali sono quelle che si pongono qualora sia ravvisata la sussistenza dell’assoluta ed ineludibile necessità per il Comune che deve assumere l’unità di specifica e legalmente qualificata professionalità, di dover garantire l’espletamento di un servizio essenziale alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente funzionale.
Sotto questo profilo si oppongono due esigenze: da una parte, la conformità dell’azione amministrativa alle norme che disciplinano, nei limiti più volte ripetuti, le assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali per il 2015 ed il 2016 secondo le previsioni dell’art. 1, comma 424, della legge di stabilità; dall’altra l’obbligo di garantire l’esercizio dei servizi essenziali che presidiano interessi pubblici direttamente tutelati anche a livello costituzionale. Tali esigenze costituiscono implicito limite alla prescritta ricollocazione del personale soprannumerario laddove tra questo non sia presente la professionalità richiesta dal Comune.
Infatti la presenza delle descritte condizioni eccezionali che caratterizzano le esigenze dell’ente che ha bisogno di risorse con particolari professionalità, fa venir meno la finalità derogatoria delle disposizioni del comma 424 che, come si è ricordato nella premessa, è concretamente riferibile alla priorità della specifica e temporanea esigenza della ricollocazione del personale soprannumerario degli enti destinatari del riordino ex lege n. 56/2014.
Conclusivamente al quesito posto va data la seguente soluzione: se l’ente deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità, eventualmente attestata da titoli di studio precisamente individuati –in quanto tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale- non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti. E se questa dovesse essere l’unica esigenza di organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione come individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014.
2.4. Quarto quesito.
A quale limite di spese destinate alle assunzioni a tempo indeterminato fanno riferimento i primi due capoversi del comma 424 prevedendo la medesima disposizione fattispecie diverse?
Il quesito appena rubricato prospetta difficoltà interpretative relative alla precisa individuazione dell’ammontare delle disponibilità finanziarie destinabili alle assunzioni a tempo indeterminato a seconda che si proceda ad un’assunzione dei vincitori collocati in graduatoria o ad una ricollocazione.
Al riguardo va precisato che il legislatore ha indicato le risorse da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato per il 2015 ed il 2016 per le regioni e gli enti locali, individuando due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile per le assunzioni da graduatorie approvate e per la ricollocazione delle unità soprannumerarie, l’altro, solo per la predetta ricollocazione. Il primo, è quello quantificato in termini percentuali dei risparmi di spesa destinabili a nuove assunzioni negli esercizi 2015 (60% della spesa del personale di ruolo cessato nell’anno precedente) e 2016 (80% dello stesso parametro) secondo le disposizioni di cui all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il secondo corrispondente al complemento a 100 delle medesime percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa ancora il legislatore che le sole spese per le assunzioni a tempo indeterminato finalizzate alla ricollocazione non rilevano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell’ente.
Conclusivamente va precisato che la capacità di assunzioni a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al complemento a cento delle ricordate percentuali sono destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione. Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime risorse destinandone parte alle predette assunzioni da graduatorie.
2.5. Quinto quesito.
Nell’osservanza del vincolo introdotto dal comma 424 con riferimento al personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, tale deve intendersi esclusivamente il personale della Provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve assumere oppure il personale delle Province che la funzione pubblica provvederà ad indicare e quindi di altre Province?
Secondo il giudizio della Sezione remittente dal dato normativo di riferimento non pare ricavarsi alcun indice dal quale poter inferire che il singolo ente possa fare riferimento al solo personale della Provincia di appartenenza, facendo, di contro, propendere per la soluzione opposta la ratio stessa dell’intervento normativo in esame.
Sul punto, già nella risposta al quesito numero uno sono state fatte le relative considerazioni secondo le quali è stato precisato che l’ambito di operatività della disposizione (comma 424 dell’art. 1 della legge 190/2014) non va inteso limitato alla sola ricollocazione del personale soprannumerario della provincia di appartenenza, ma alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica.
In questo senso, del resto, va pure ribadito, sono gli indirizzi emanati con la circolare n. 1 del 30.01.2015 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e dei Ministro per gli affari regionali e le autonomie sopra richiamata, che, al riguardo, prevede che "qualora l'osservatorio nazionale rilevi che il bacino del personale da ricollocare è completamente assorbito, vengono adottati appositi atti per ripristinare le ordinarie facoltà di assunzione alle amministrazioni interessate".
Al quesito posto, concordemente alla tesi della Sezione remittente, va data soluzione precisando che nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni.
3. Questione rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione 04.03.2015, n. 87/2015/QMIG.
Il Sindaco del Comune di Borgo Virgilio (MN), istituito a seguito di fusione approvata dalla Regione Lombardia con L.R. 9/2014, con nota del 13.02.2015, ha avanzato alla Sezione due quesiti di cui solo il seguente è stato rimesso alla Sezione delle autonomie:
3.1 Quesito unico.
E’ possibile applicare il parametro derogatorio, previsto dal comma 424 della legge di stabilità 2015, relativo alla non computabilità delle spese del personale ricollocato relativamente al solo comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296/2006, anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del patto di stabilità?
In ordine alla questione appena riassunta è condivisibile la tesi della Sezione remittente. Detta Sezione nel valutare l’estensibilità, o meno, del parametro derogatorio previsto dal comma 424, relativo alla non computabilità nel tetto di spesa ex comma 557, anche al tetto valido per gli enti considerati dal successivo comma 562 ritiene che una lettura in chiave sistematica della deroga in esame non possa che portare –nei limiti ivi precisati- ad una risposta positiva.
Giustamente annota, ancora, la Sezione lombarda, non ammettere una tale interpretazione estensiva sembrerebbe, infatti, comportare una sterilizzazione, proprio per gli enti di minore dimensione, dell'effettività dell'intervento in esame e potrebbe frustrare la ratio di salvaguardia dei livelli occupazionali, che, come argomentato nella richiamata deliberazione n. 85/2015/QMIG, appare fortemente connotare il provvedimento in esame.
Conclusivamente si può affermare che il parametro derogatorio, previsto dal comma 424, relativo alla non computabilità delle spese del personale ricollocato nel tetto di spesa ex comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296/06, possa intendersi esteso anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del patto di stabilità interno.
4. Questioni rimesse dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte con la deliberazione 04.03.2015 n. 26/2015/SRCPIE/QMIG.
Il Sindaco del Comune di Comune di Omegna (VCO), con nota del 06.03.2015, ha posto alla Sezione i seguenti quesiti in ordine all’applicazione del comma 424 dell’art. 1 della legge di stabilità 2015:
Primo quesito.
E’ possibile effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge?
Secondo quesito.
E’ possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL?
Nella premessa metodologica alla presente disamina delle questioni di massima poste, si è precisato che l’esame delle questioni è limitato alle difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale, sistematico e logico, direttamente ed esclusivamente connesse al tenore dell’art. 1, comma 424, della legge 190/2014; altri istituti concernenti altre facoltà assunzionali degli enti interessati, anche se indirettamente rilevanti nell’ambito del lavoro esegetico, restano fuori dal perimetro della questione di massima.
La ragione di questa delimitazione dell’ambito esegetico risiede nel fatto che il comma 424 contiene solo un espresso regime derogatorio a specifiche norme che regolano la fattispecie dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna novella legislativa esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424 della legge 190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli previsti dalle leggi.
Gli specifici quesiti in argomento che si ricordano: il primo, teso a conoscere se sia possibile effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL esorbitano, dunque, secondo i criteri appena enunciati, dal tema delle difficoltà interpretative ed applicative del comma 424; sugli stessi, quindi, non vi è luogo a deliberare.
Terzo quesito.
E’ possibile effettuare assunzioni tramite mobilità volontaria di personale in entrata per la copertura di posti infungibili che non è possibile coprire mediante concorso?
Per quel che riguarda il quesito appena riassunto la Sezione remittente si esprime negativamente argomentando che una tale assunzione comunque sottrarrebbe un posto dell’organico alle possibilità di ricollocazione. Il punto specifico dell’esperibilità della mobilità volontaria è stato analizzato nel secondo quesito e in quella sede sono state illustrate le ragioni che conducono a ritenere non esperibile la mobilità volontaria; al riguardo si ritiene di confermare le argomentazioni già svolte che, in sostanza, contengono quelle espresse dalla Sezione del Piemonte.
Tuttavia esigenze di coerenza impongono di puntualizzare che laddove l’infungibilità integri le specifiche ed eccezionali condizioni già esplicitate nella risposta al terzo quesito della Sezione regionale di controllo della Lombardia, che qui integralmente si richiamano, la mobilità volontaria così finalizzata sia esperibile.
In relazione a quanto considerato deve essere premesso che la condizione di infungibilità che assume rilevanza ai fini della derogabilità ai vincoli imposti dall’art. 1, comma 424, della legge 190/2014 è quella che presuppone il ricorrere dei seguenti requisiti: a) che per il posto da ricoprire sia prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità, eventualmente attestata, da titoli di studio precisamente individuati; b) l’assunzione deve essere necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale.
Sussistendo le descritte condizioni e constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere anche con la procedura della mobilità volontaria. La suddetta ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulle questioni interpretative poste dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte con la deliberazione n. 26/2015/QMIG e dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con le deliberazioni n. 85/2015/QMIG e n. 87/2015/QMIG, pronuncia i seguenti principi di diritto:
1) “
per gli anni 2015 e 2016 la facoltà di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino alla completa ricollocazione del personale soprannumerario senza alcuna limitazione geografica”;
2) “
per il 2015 ed il 2016 agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”;
3) “
se l’Ente che deve utilizzare le risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo indeterminato, deve coprire un posto di organico per il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata professionalità attestata, ove contemplato dalla legge, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
4) “
la capacità di assunzioni a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al complemento a cento delle ricordate percentuali è destinabile unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime risorse destinandone parte alle predette assunzioni da graduatorie
”.
5) “
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del personale soprannumerario delle province vanno considerate tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare le assunzioni”.
6) “
il parametro derogatorio, previsto dal comma 424, relativo alla non computabilità delle spese del personale ricollocato nel tetto di spesa ex comma 557 dell'art. 1 della legge n. 296/2006, deve intendersi esteso anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del patto di stabilità interno”;
7) “
se il posto da coprire sia infungibile intendendosi tale, un posto per il quale è prevista una professionalità legalmente qualificata, eventualmente attestata, da titoli di studio precisamente individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità è strettamente e direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
E se questa dovesse essere l’unica esigenza di organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle Province interessate alla ricollocazione come individuati ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014
”.
Non vi è luogo a deliberare per il primo ed il secondo quesito rubricati al punto 4 della parte motiva e che si riassumono: il primo, teso a conoscere se sia possibile effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 16.06.2015 n. 19).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Sezione ritiene che il recupero da parte della Pubblica Amministrazione di somme indebitamente erogate in eccesso ai propri dipendenti debba riguardare gli importi computati al netto, per le ragioni che si passano ad esporre.
Le ritenute fiscali previdenziali ed assistenziali non sono ripetibili dai dipendenti, in quanto trattasi di somme che non sono mai entrate nella sfera patrimoniale di disponibilità di questi ultimi, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa e di legittimità.
La Sezione raccomanda la conseguente regolarizzazione dei rapporti con gli Enti interessati alla materia previdenziale, assicurativa e fiscale, anche ai fini della trasparenza dei relativi conti.
Vero è che, in caso di indebita erogazione di denaro al pubblico dipendente, la buona fede di quest’ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti erroneamente corrisposti - attesa la sussistenza in capo all’Ente di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale.
Il recupero si atteggia come comportamento doveroso, privo di valenza provvedimentale che discende direttamente dall’art. 2033 cod. civ. non rinunciabile, in quanto correlato al perseguimento delle finalità di pubblico interesse alle quali sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate.
In conclusione,
la ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033, c.c., è sì un diritto-dovere della Pubblica Amministrazione, ma che va esercitato ed adempiuto sulla base del netto percepito dal pubblico dipendente.

---------------
Con nota indicata in epigrafe, non inoltrata a questa Sezione tramite il C.A.L., il Sindaco del Comune di Tarquinia ha formulato richiesta di parere in materia di recupero di emolumenti indebitamente erogati ai propri dipendenti appartenenti al Corpo di Polizia Locale, in quanto risultati non dovuti all’esito di una verifica effettuata dal MEF (Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato-Ispettorato generale di Finanza) sul periodo 2004-2008, per chiedere se il recupero di quanto indebitamente percepito dai dipendenti vada effettuato al lordo o al netto delle trattenute previdenziali, assicurative e fiscali.
...
Quanto agli specifici termini del quesito ermeneutico, il Sindaco del Comune di Tarquinia ha preliminarmente esposto che, nell’anno 2009, il Comune è stato sottoposto ad una verifica da parte del MEF il quale, in relazione al periodo 2004-2008, ha rilevato una non corretta applicazione cumulativa dei benefici di cui agli articoli 22 e 24 del CCNL del 14.09.2009 al personale turnista appartenente al Corpo di Polizia Municipale.
Vi è stato, com’è noto, nella prassi amministrativa e giurisprudenziale, un acceso dibattito circa la cumulabilità -per tali turnisti- degli aumenti retributivi di cui all’art. 22, comma 5, del citato CCNL che, a compensazione del disagio correlato all’articolazione dell’orario in turni, prevede una “indennità di turno” (consistente nella maggiorazione della retribuzione mensile del personale “turnista”, con fissazione di specifiche percentuali per il lavoro turnario cadente nelle festività,) con i benefici di cui all’art. 24 che, a compensazione della maggior penosità del lavoro festivo, riconosce comunque una “maggiorazione oraria del 50%” per il lavoro festivo anche infrasettimanale ed un “riposo compensativo”.
Quest’ultimo riposo è previsto come cumulativo rispetto alla maggiorazione retributiva, per chi lavora nel giorno di riposo: 24, comma 1; oppure come alternativo ad essa, in base alla scelta espressa da chi lavora in giorno festivo infrasettimanale: 24, comma 2, del CCNL del 14/09/2009.
L’orario lavorativo dei Vigili Urbani, per legittima scelta discrezionale del Comune di Tarquinia (Consiglio di Stato n. 3047/06; n. 3691/06 e n. 3696/06), si è sempre articolato turnariamente su sette giorni, comprese le festività anche infrasettimanali e, nel periodo in questione (2004-2008), si è sempre riconosciuta la cumulabilità dei menzionati istituti (art. 22 e art. 24), in adeguamento alla prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito.
Il MEF, per converso, condividendo il contrario orientamento dell’ARAN e del Dipartimento della Funzione Pubblica-UPPA (parere n. 4/08 del 15.01.2008) ha ritenuto -all’esito dell’ispezione- non riconoscibili ai turnisti della Polizia Municipale di Tarquinia i benefici di cui all’art. 24, comma 2, del CCNL.
A ciò si è adeguato il Comune di Tarquinia dal 2008, con provvedimento del Segretario Generale n. 19172 del 09.07.2008, che ha dettato conformi direttive ermeneutiche ed applicative ed è stato poi confermato da un parere del Ministero dell’Interno, che il Comune ha dovuto richiedere, stante lo stato di perdurante agitazione dei Vigili Urbani.
Ciò nonostante, le organizzazioni sindacali di categoria ed i lavoratori turnisti hanno continuato ad invocare l’applicazione delle sentenze favorevoli emanate dalle S.U. della Cassazione sull’argomento, richiedendo soluzioni in sede di contrattazione decentrata integrativa e proponendo accordi conciliativi, ma il Comune ha tenuto fermo il proprio diniego, ricordando anche la sussistenza del divieto di estensione analogica delle decisioni giurisprudenziali favorevoli passate in giudicato, emanate in materia di personale delle amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, comma 132, della L. n. 311 del 30.12.2004 e s.m.i., confermato e prorogato dall’art. 1, comma 6, del D.L. 30.12.2008, n. 207.
All’esito dei tentativi obbligatori di conciliazione avviati dai lavoratori per continuare a fruire della normativa di favore, respinti dal Comune, sono stati rigettati anche i relativi ricorsi proposti dai dipendenti al Giudice del Lavoro di Civitavecchia.
Nel frattempo, tuttavia, per quanto riconosciuto ai lavoratori turnisti nel pregresso periodo 2004-2008, oggetto di ispezione da parte del MEF, il 30.05.2011 è intervenuta, su delega della Procura contabile operante presso la Sezione giurisdizionale per il Lazio, la Guardia di Finanza, che ha richiesto al Comune i prospetti di tutte le giornate lavorative festive infrasettimanali non lavorate o recuperate in via compensativa in errata applicazione dell’art. 24.
Il Comune le ha fornite, effettuando il computo del loro valore complessivo al lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali e fiscali. Di conseguenza il MEF ha sollecitato il Comune di Tarquinia a procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, i quali hanno invano invocato soluzioni conciliative alternative, almeno in parte, al recupero monetario.
Il Comune non ha potuto dunque avallare tali proposte alternative, a causa della ferma opposizione del medesimo MEF che, con nota n. 78496 dell’08.10.2014, ha rammentato la doverosità e l’irrinunziabilità del recupero dell’indebito da parte delle PP.AA. secondo il Consiglio di Stato ed ha espressamente invitato l’Ente ad avviare le procedure di recupero, eventualmente anche coattivo.
Il Comune di Tarquinia ha pertanto inviato le relative diffide e messe in mora, nonostante sussistessero -a parere dell’Ente- difficoltà connesse all’aggravio di spese legali ed ai rischi di soccombenza correlati alle procedure esecutive di ripetizione degli indebiti.
Ciò posto, e riferito che diversi interessati hanno proposto istanze di rateizzazione, il Sindaco di Tarquinia chiede di conoscere se il recupero da parte della Pubblica Amministrazione di somme indebitamente erogate ai dipendenti debba riguardare gli importi considerato al lordo delle ritenute previdenziali, assicurative e fiscali, oppure se le somme in questione debbano essere richieste al netto delle ritenute operate dall’Ente all’atto del pagamento dell’indebito e quindi mai entrate nella sfera patrimoniale personale degli interessati.
La Sezione, senza ovviamente fare osservazioni, peraltro non richieste, circa il merito della questione relativa alla debenza o meno di detti benefici contrattuali, ritiene che il recupero da parte della Pubblica Amministrazione di somme indebitamente erogate in eccesso ai propri dipendenti debba riguardare gli importi computati al netto, per le ragioni che si passano ad esporre.
Le ritenute fiscali previdenziali ed assistenziali non sono ripetibili dai dipendenti, in quanto trattasi di somme che non sono mai entrate nella sfera patrimoniale di disponibilità di questi ultimi, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. III, 04.07.2011 n.3984, sez. VI, 02.03.2009, n. 1164, Tar Lombardia n. 2789/2014, Tar Umbria n. 559/2013, Tar Lazio, n. 2661/2013) e di legittimità (Cassazione, sentenza n. 1464 del 2012 e n. 18584 del 2008).
La Sezione raccomanda la conseguente regolarizzazione dei rapporti con gli Enti interessati alla materia previdenziale, assicurativa e fiscale, anche ai fini della trasparenza dei relativi conti.
Vero è che, in caso di indebita erogazione di denaro al pubblico dipendente, la buona fede di quest’ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti erroneamente corrisposti - attesa la sussistenza in capo all’Ente di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale (Corte conti, Sezione Regionale di controllo Lombardia, deliberazione n. 65/2010/PAR).
Il recupero si atteggia come comportamento doveroso, privo di valenza provvedimentale che discende direttamente dall’art. 2033 cod. civ. (Consiglio di Stato sez. IV n. 2203/2004. Sez. VI n. 1045/2002) non rinunciabile, in quanto correlato al perseguimento delle finalità di pubblico interesse alle quali sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate.
In conclusione,
la ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033, c.c., è sì un diritto-dovere della Pubblica Amministrazione, ma che va esercitato ed adempiuto sulla base del netto percepito dal pubblico dipendente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 15.06.2015 n. 125).

NEWS

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc interno in recupero. L'Inps accelera sulle pratiche in sospeso. Le contromisure dell'istituto a ridosso dell'avvio della procedura online.
Colpo di acceleratore dell'Inps sul Durc interno. Per non arrivare impreparati all'appuntamento del 1° luglio con il Durc online (e soprattutto con situazioni in sospeso), infatti, l'istituto raccomanda agli uffici territoriali di affrettare la soluzione delle pratiche relative alle note di rettifica, mediante un veloce riscontro delle segnalazioni di imprese e consulenti pervenute tramite il cassetto previdenziale.

Lo spiega l'INPS nel messaggio n. 4277/2015.
Aziende interessate. Le note di rettifica sono state inviate alle aziende che hanno fruito d'incentivi senza essere in regola con le norme sul Durc interno. L'invio ha interessato le aziende attive a maggio 2015 che presentavano irregolarità, ancora sussistenti, da gennaio 2008.
I preavvisi sono stati spediti via Pec ai consulenti, dando loro 45 giorni di tempo per il ripristino della regolarità aziendale; in mancanza, le imprese dovranno restituire i benefici fruiti maggiorati di sanzioni.
La spedizione. Le operazioni di spedizione dei preavvisi di irregolarità, come ha precisato l'Istituto di previdenza nel precedente msg 3454/2015, sono avvenute nel corso del mese di maggio, e interessano le imprese che hanno fruito di benefici normativi e contributivi soggetti alla verifica della regolarità della posizione aziendale (il cosiddetto Durc interno). Ai datori di lavoro risultati regolari al controllo, invece, il sistema segnala la sussistenza di regolarità contributiva con la generazione di semaforo verde in relazione ai mesi di maggio, giugno, luglio e agosto 2015.
Il preavviso di irregolarità viene inviato tramite Pec all'intermediario delegato; nel caso in cui l'Inps non disponga dell'indirizzo Pec, il preavviso viene inviato all'indirizzo Pec del datore di lavoro o, in mancanza, del suo titolare/legale rappresentante; in mancanza di indirizzo Pec, la comunicazione viene spedita all'azienda con raccomandata. In futuro, il preavviso sarà prima spedito all'indirizzo Pec del datore di lavoro e, solo in mancanza dei predetti indirizzi, all'indirizzo Pec dell'intermediario delegato. Per tale motivo, i datori di lavoro sono pregati di aggiornare gli indirizzi Pec nell'anagrafica aziendale.
Contatti. È di tutta evidenza, si legge nella nota di ieri, che la gestione dei «Contatti» del cassetto previdenziale aziende, con particolare riferimento alla voce «Durc interno (regolarità contributiva)», deve essere tempestiva, in particolare per tutti quei casi in cui la comunicazione pervenuta dall'azienda/intermediario non fosse esaustiva per la definizione dell'irregolarità, completa nel contenuto e prodotta entro la scadenza dei termini utili per la regolarizzazione.
Pertanto, l'ufficio centrale raccomanda di adottare ogni soluzione organizzativa e metodologica idonea a favorire la predisposizione dei puntuali riscontri alle segnalazioni afferenti al Durc interno pervenute, attraverso il cassetto previdenziale entro i termini di regolarizzazione fissati nelle citate Pec (45 gg. dalla ricezione della Pec).
Durc online. Dal 1° luglio sarà operativo il Durc online che consentirà di ottenere, in tempo reale, il documento unico di regolarità contributiva che, peraltro, avrà validità di 120 giorni per tutte le finalità (compresi i lavori privati dell'edilizia, per i quali la validità oggi è di 90 giorni), come stabilito dal decreto ministeriale pubblicato sulla G.U. del 1° giugno (articolo ItaliaOggi del 24.06.2015).

VARI: Part-time, extra orario senza Ccnl. Rifiuto opponibile per ragioni familiari, di salute o per altra occupazione.
Jobs act. Il lavoro supplementare, per singole giornate o periodi più lunghi, può essere richiesto a prescindere dall’assenso del lavoratore.

Il codice dei contratti, nella versione disponibile a oggi, apporta poche ma significative modifiche alla disciplina del part-time. Dal giorno successivo alla pubblicazione -probabilmente oggi- del decreto sulla «Gazzetta Ufficiale», cambiano alcune regole per il lavoro supplementare, cioè il periodo svolto in aggiunta rispetto all’orario ridotto eventualmente concordato tra le parti.
La riforma conferma la regola generale secondo cui il lavoro supplementare può essere richiesto dal datore di lavoro, nel rispetto dei limiti e delle condizioni fissate dai contratti collettivi (di qualsiasi livello), anche senza il consenso del lavoratore.
Questa regola viene tuttavia innovata in più parti. In primo luogo, si precisa che la richiesta può riguardare non solo singole giornate, ma anche settimane o mesi. Inoltre viene regolamenta l’ipotesi di assenza di una disciplina collettiva. In queste situazioni, il datore di lavoro può comunque chiedere al dipendente di svolgere una prestazione aggiuntiva rispetto all’orario ridotto, in misura variabile fino al 25% delle ore di lavoro settimanale concordate (nella normativa precedente, in assenza di disciplina collettiva il ricorso al lavoro supplementare era ammesso solo previo consenso del lavoratore).
Pur non essendo richiesto il consenso individuale, il lavoratore può comunque rifiutare di svolgere il lavoro supplementare in alcune situazioni specifiche: se dimostra l’esistenza di comprovate esigenze lavorative (per esempio un’altra occupazione), di salute, familiari oppure di formazione professionale.
Le ore di lavoro supplementare devono essere compensate con una una maggiorazione retributiva, pari al 15% della retribuzione globale di fatto normalmente spettante al lavoratore su base oraria (nella base di computo rientrano anche gli istituti retributivi indiretti e differiti).
La legge conferma, inoltre, che nel part-time è consentito lo svolgimento di lavoro straordinario e rientrano in questa nozione le ore svolte oltre l’orario normale pieno applicabile al rapporto di lavoro.
Un’altra innovazione importante riguarda la disciplina delle clausole elastiche. Si tratta di quegli accordi, sottoscritti dal lavoratore, che consentono al datore di lavoro di cambiare l’orario del dipendente, allungando la sua durata oppure spostando la collocazione della prestazione.
Una prima innovazione è di carattere lessicale: la precedente disciplina distingueva tra clausole “elastiche” e “flessibili”, quella attuale accorpa tutte le fattispecie nella definizione di clausole “elastiche”. Tali clausole sono sempre negoziate a livello individuale, devono essere stipulate in forma scritta e devono rispettare gli eventuali limiti previsti dai contratti collettivi di qualsiasi livello applicabili al rapporto.
La vecchia disciplina non consentiva la firma delle clausole in assenza di regole collettive; la nuova, invece, consente di stipulare le clausole elastiche anche nei casi in cui non esiste un contratto collettivo. In questo caso le clausole possono essere sottoscritte (nel rispetto di alcuni limiti fissati dalla legge) dalle parti presso le commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce (oppure un avvocato o da un consulente del lavoro).
Una volta sottoscritta la clausola elastica, il datore di lavoro non deve chiedere ogni volta il consenso del dipendente per allungare o spostare la prestazione, ma deve rispettare un termine di preavviso minimo di due giorni lavorativi e deve riconoscere specifiche compensazioni (maggiorazioni economiche o riposi), nella misura ovvero nelle forme determinate eventualmente dai contratti collettivi.
Il datore di lavoro che utilizza le clausole elastiche, come per il lavoro supplementare, deve compensare il lavoro aggiuntivo svolto con una maggiorazione del 15%, calcolata con i criteri già visti per il lavoro supplementare. Innovazioni importanti riguardano anche il diritto alla priorità per la trasformazione in part-time per i parenti di persone affette da patologie oncologiche e la possibilità di convertire il congedo parentale in part-time per un periodo corrispondente
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili, da ottobre in vigore il nuovo Ape. Ok della Conferenza unificata al dm dello Sviluppo economico. L'attestato vale 10 anni. Controlli sul 2%.
Dal 1° ottobre entrerà in vigore il nuovo attestato unico di prestazione energetica degli edifici. L'Ape avrà una durata temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio e sarà aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione o riqualificazione che riguardi elementi edilizi o termici tali da modificare la classe energetica dell'edificio.
L'Ape dovrà essere redatta da un soggetto abilitato che dovrà effettuare almeno un sopralluogo presso l'edificio o l'unità immobiliare, oggetto di attestazione, al fine di reperire e verificare i dati necessari alla sua predisposizione. Le regioni e le province autonome al fine di effettuare i controlli della qualità degli attestati di prestazione energetica redatti dai certificatori energetici dovranno definire piani e procedure di controllo che consentiranno di analizzare almeno il 2% degli attestati depositati territorialmente ogni anno solare.

Queste le novità contenute nel testo definitivo del ministero dello Sviluppo economico recante «Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici» che ha ottenuto il via libera definitivo della conferenza unificata lo scorso 18 giugno.
Contenuti Ape. Il nuovo attestato di prestazione energetica dovrà riportare obbligatoriamente la prestazione energetica globale dell'edificio sia in termini di energia primaria totale che di energia primaria non rinnovabile, attraverso i rispettivi indici. Inoltre dovrà essere indicata la classe energetica, determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale dell'edificio (espresso in energia primaria non rinnovabile), la qualità energetica del fabbricato, ossia la capacità di contenere i consumi energetici per il riscaldamento e il raffrescamento (attraverso gli indici di prestazione termica utile per la climatizzazione invernale ed estiva dell'edificio) e i valori di riferimento (come i requisiti minimi di efficienza energetica vigenti). L'Ape dovrà contenere i consumi energetici non solo per il riscaldamento invernale ma anche per le attività di rinfrescamento estivo e dovrà riportare l'emissione di anidride carbonica e l'energia esportata.
Locazione e vendita. Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente. Inoltre verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione ai non tecnici.
Classe energetica. Le classi energetiche passano da sette a dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore). È confermata la validità di 10 anni dell'Ape .
Sanzioni per il certificatore energetico. Il decreto richiama esplicitamente l'articolo 15 del dlgs 192/2005, relativo alle sanzioni a carico del certificatore (multa da 700 a 4.200 euro per un ape non corretto), del direttore dei lavori (multa da 1.000 a 6.000 per la mancata presentazione dell'ape al comune), del costruttore/proprietario (multa da 3.000 a 18.000 euro in caso di mancata redazione dell'ape per edifici nuovi, ristrutturati, messi in vendita o in affitto).
Sistema informativo sugli attestati di prestazione energetica. L'Enea, sentite le regioni, entro 90 giorni dall'entrata in vigore del decreto, cioè dal gennaio 2016, dovrà realizzare la banca dati nazionale degli attestati contenente i dati relativi agli attestati. L'alimentazione del Siape avverrà annualmente, entro il 31 marzo (articolo ItaliaOggi del 23.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, premi replicabili con verifica. Enti locali. Le nuove istruzioni Aran sull’utilizzo dei fondi per la contrattazione decentrata.
I fondi integrativi per “premiare” la produttività dei dipendenti di Comuni e Province devono essere legati a progetti che richiedono il «concreto, diretto e prevalente apporto del personale dell’ente», possono essere riconosciuti solo a consuntivo, dopo aver misurato «l’effettivo conseguimento degli obiettivi ai quali l’aumento è stato correlato» e non possono essere confermati automaticamente per gli anni successivi.
Con la nota 18.06.2015 n. 19932 di prot. firmata dal suo presidente Sergio Gasparrini l’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta le amministrazioni nella contrattazione nazionale (congelata dal 2010 dal blocco che giusto oggi torna sotto l’esame dei giudici costituzionali), affronta il tema caldissimo dei fondi per i contratti decentrati, e in particolare dei premi previsti dall’articolo 15, comma 5, del contratto del 01.04.1999 che regola gli incentivi al personale per «l’attivazione di nuovi servizi» o «l’incremento di quelli esistenti».
L’argomento è tornato al centro del dibattito perché rappresenta uno dei tanti capitoli del caso-Roma, aperto dopo che lo scorso anno la Ragioneria ha giudicato illegittimi i premi riconosciuti al personale nel 2008-2013. Il problema, però, è più generale, come dimostra il tentativo di “sanatoria” degli integrativi illegittimi scritto sempre l’anno scorso in un decreto (articolo 4 del Dl 16/2014) chiamato «salva-Roma ter» ma in realtà indirizzato a tante amministrazioni come Vicenza, Firenze, Siena, Reggio Calabria e altri Comuni colpiti dalla bocciatura degli integrativi da parte degli ispettori della Ragioneria generale.
Le istruzioni dell’Aran provano insomma a rimettere ordine in una materia evidentemente sfuggita di mano al sistema dei controlli. Rispetto alle prime indicazioni, vecchie ormai di oltre dieci anni, il nuovo documento introduce anche importanti elementi di flessibilità, in particolare sulla possibilità di replicare gli incentivi negli anni successivi alla loro introduzione.
Il problema è spinoso, e deriva dal fatto che il servizio è «innovativo» solo quando nasce, per cui sulla base di un’interpretazione rigida delle regole non potrebbe produrre la replica dei premi quando viene confermato. L’Aran ribadisce che le risorse integrative non possono essere «automaticamente stabilizzate», ma possono essere replicate di anno in anno dopo aver verificato l’effettivo svolgimento del servizio e del «concreto e prevalente impegno» del personale che questo comporta. Per esempio, l’ampliamento della fascia oraria di apertura di un servizio è «immediatamente verificabile» misurando la presenza di utenti negli orari ampliati, e quindi l’impegno del personale.
In ogni caso queste risorse aggiuntive rimangono variabili, quindi non possono finanziare istituti stabili come la progressione economica o gli incarichi di posizione organizzativa. A differenza del passato, però, si permette di pagare per questa via anche voci diverse dalla produttività come i turni, quando questi siano collegati all’aumento del servizio.
L’esperienza recente mostra comunque che il nodo è rappresentato dai controlli, da attivare prima che arrivino gli ispettori della Ragioneria a certificare che le regole sono state sforate. Proprio da qui è nato il problema sfociato nel «salva-contratti», che ha provato a bloccare i recuperi individuali (cioè sulle buste paga dei diretti interessati) negli enti in linea con il Patto di stabilità e i vincoli complessivi di spesa di personale.
Questa norma, con la sua zoppicante formulazione, è però già stata “superata” dai giudici di merito, che in più di un’occasione hanno deciso il taglio compensativo direttamente sugli stipendi anziché sui fondi dell’ente: e le circolari promesse dal Governo per chiarire il ginepraio non sono mai arrivate.
---------------
le novità
01 REPLICA
I fondi per la produttività non possono essere consolidati automaticamente, ma possono essere confermati di anno in anno previa verifica dell’effettivo svolgimento del servizio
02 TURNI
I fondi integrativi possono essere usati anche per voci diverse dalla produttività, per esempio per i turni, se questi sono collegati direttamente all’incremento del servizio. Non possono però finanziare istituti stabili
03 PROGRAMMAZIONE
L’utilizzo dei fondi va disciplinato negli ordinari strumenti di programmazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Parcheggi e strisce blu, via libera alle multe per i «ritardatari». Codice della strada. Nuove indicazioni del ministero.
La sosta sulle strisce blu è «regolamentata» quando il pagamento è previsto solo in determinate fasce orarie, per alcuni giorni della settimana (per esempio quelli feriali) o per determinate categorie di veicoli.
Quando ci sono questi parametri, scritti appunto in un regolamento comunale, si può affibbiare la multa da 25 euro agli automobilisti che lasciano la macchina anche oltre il tempo dal pagamento.

Le nuove indicazioni arrivano dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che nella nota 06.05.2015 n. 2074 di prot. modifica le istruzioni sulla sosta a pagamento e le sanzioni per chi sfora, tema al centro da anni di uno sterminato dibattito interpretativo che rappresenta un esempio di scuola del caotico mondo delle regole italiane.
Tutto nasce dal fatto che le multe per chi tiene l’auto per troppo tempo (rispetto a quanto ha pagato) sulle strisce blu sono previste dal Codice della strada «se si tratta di sosta limitata o regolamentata» (articolo 7, comma 15 del Dlgs 285/1992). Di qui la domanda capitale: quando la sosta è «regolamentata»?
Un parere del 2010, elaborato dallo stesso ministero, aveva negato che tale fosse quella sulle strisce blu comunali, e di conseguenza aveva bloccato la possibilità di sanzionare i ritardi sulla base del Codice della Strada.
In senso contrario si era espresso, sette anni prima, il ministero dell’Interno, ma poi gli orientamenti erano stati coordinati convergendo sulla tesi dei Trasporti. Sul punto è nato, come spesso capita, un florido contenzioso, che oltre a un’ampia squadra di giudici di pace aveva impegnato tutti i livelli di giudizio, su su fino alla Cassazione. In questo quadro, il comportamento di chi paga un’ora di sosta e poi lascia l’auto parcheggiata per più tempo si configura come un’inadempienza contrattuale, che il Comune non può iscrivere a ruolo secondo le vie ordinarie.
Il problema aveva ovviamente scatenato le proteste dei sindaci, che dopo un incontro con il Governo nel marzo 2014 erano riusciti a strappare un orientamento diverso contenuto in una nuova “fonte” normativa: un comunicato. Naturalmente questo strumento, figlio di un compromesso fra le richieste degli amministratori e la resistenza ministeriale, non è bastato a orientare in senso univoco le Prefetture.
Il Comune di Lecce, allora, è tornato alla carica, ed è riuscito a ottenere la nuova nota ministeriale che delinea il concetto di «sosta regolamentata» e la conseguente applicazione della multa da 25 euro (per chi parcheggia senza pagare nulla la sanzione parte invece da 41 euro, come prevede l’articolo 157, comma 8).
La battaglia interpretativa si chiude qui? Difficile, come riconosce lo stesso sindaco di Lecce, il vicepresidente Anci Paolo Perrone: «Trattare questi casi come inadempienza contrattuale significa di fatto rendere impossibile la riscossione delle somme -sostiene-; la nota ministeriale è importante, ma serve un chiarimento normativo e speriamo nel ministro Delrio». Quasi scontata è, sull’altro fronte, una nuova ondata di battaglie legali
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, è stretta sui controlli. Obbligo di iscrizione per i trasportatori in conto proprio. Le indicazioni arrivano dal Comitato nazionale dell'Albo. Verifiche sulle autodichiarazioni.
Obbligo di iscrizione all'Albo gestori ambientali per tutti i trasportatori «in conto proprio» (in genere, piccole imprese che producono miniquantità di rifiuti che trasportano da soli, senza ricorrere a terzi professionisti) di rifiuti speciali, anche se assimilati agli urbani, e avvio di controlli sistematici sulle autodichiarazioni rese da tutte le categorie di operatori tenuti all'adesione al registro.

I chiarimenti, insieme all'inaugurazione di una nuova generale campagna di controlli, arrivano direttamente dal Comitato nazionale dell'Albo, che con due differenti atti (circolare e delibera) prosegue nell'attuazione del nuovo regolamento dell'Albo previsto dal dm Ambiente 03.06.2014 n. 120 (che sostituisce lo storico dm n. 406/1998).
Trasporto in conto proprio. Con la nota 29.05.2015 n. 437 di prot. il Comitato nazionale ha chiarito come tutti i trasportatori dei propri rifiuti speciali debbano iscriversi all'Albo, anche nel caso in cui detti residui siano stati assimilati agli urbani.
A fondamento della precisazione il Comitato nazionale richiama l'articolo 212, comma 8, del Dlgs 152/2006, a mente del quale «I produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno ( ) sono iscritti in un'apposita sezione dell'Albo in base alla presentazione di una comunicazione».
E sul punto la nuova circolare 437/2015 sottolinea come la citata disposizione del Codice ambientale non faccia nessuna distinzione tra rifiuti speciali e rifiuti speciali assimilati agli urbani, non prevedendo di conseguenza nessuna deroga per questi ultimi. Di conseguenza, precisa la circolare, detti soggetti devono iscriversi all'Albo nella relativa ed apposita categoria, coincidente con la «2-bis» prevista dal dm Ambiente 03.06.2014 n. 120.
A titolo di completezza, si ricorda invece che i «trasportatori in conto proprio» di differenti quantitativi di rifiuti speciali pericolosi devono invece iscriversi all'Albo gestori nella diversa categoria «5». Sempre in relazione ai rifiuti speciali pericolosi, si ricorda altresì come non tutti i trasportatori in conto proprio soggiacciono però all'obbligo di aderire anche al nuovo sistema di tracciamento telematico dei residui.
Dall'obbligo appaiono infatti esonerati i citati trasportatori di piccoli quantitativi, laddove nelle istruzioni pubblicate sul portale internet ufficiale del Sistri (www.sistri.it), nella pagina «soggetti obbligati», sotto la voce «Trasportatori in conto proprio di rifiuti pericolosi» sono indicati esclusivamente «le imprese che trasportano rifiuti pericolosi da loro stessi prodotti iscritte all'Albo nazionale gestori ambientali in categoria 5», dunque, non quelle identificate nella citata categoria 2-bis.
Controlli su autocertificazioni. Con la deliberazione 22.04.2015 n. 1 di prot. (diramata nei primi giorni di giugno) il Comitato nazionale ha dettato le istruzioni che le Sezioni locali dovranno seguire per effettuare controlli a campione sulle autocertificazioni rese da tutti gli operatori ai sensi degli articoli 46 (dichiarazioni sostitutive di certificazioni) e 47 (dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà) del Dpr 445/2000 al fine dell'iscrizione all'Albo gestori.
Detti controlli dovranno essere effettuati dagli Uffici dell'Albo (anche mediante confronto tra i dati dichiarati e quelli in possesso delle Amministrazioni certificanti) con cadenza almeno trimestrale su ognuna delle dieci categorie d'iscrizione previste dal dm 120/2014. Per ogni categoria i controlli sulle dichiarazioni sostitutive interesseranno almeno il 10% delle domande di iscrizione e variazioni ed il 30% delle istanze di rinnovo.
Errori sanabili ed imprecisioni non costituenti falsità saranno riparabili mediante dichiarazioni integrative, gli altri perseguibili ai sensi del citato dpr 445/2000. Obbligati all'iscrizione all'Albo sono i soggetti che svolgono attività di raccolta, trasporto, commercio ed intermediazione di rifiuti, nonché bonifica dei siti e dei beni contenenti amianto.
Per la stretta rilevanza che potranno avere sia in sede di controlli che, dal punto di vista più generale, in relazione alla legittimità delle attività gestorie, si ritiene utile ad avviso dello scrivente segnalare agli operatori la necessità di verificare i propri titoli abilitativi alla luce delle nuove regole sulla classificazione dei rifiuti in vigore dallo scorso 01.06.2015.
Da tale data, infatti, la corretta identificazione dei rifiuti (soprattutto in relazione alla sussistenza o meno delle loro pericolosità) deve essere condotta in base alle norme previste dalla decisione 2014/995/Ue e dal regolamento Ue n. 1357/2014, recanti rispettivamente il neo Elenco Ue dei rifiuti e i rinnovati criteri di attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai residui.
Detti provvedimenti, in quanto self executing, sono direttamente applicabili sul territorio degli stati membri e prevalgono sulle attuali e analoghe regole nazionali previste rispettivamente dagli allegati D e I al Titolo I della Parte IV del dlgs 152/2006, regole ancora in attesa di essere allineate a quelle comunitarie mediante un decreto ricognitivo allo studio del minambiente (articolo ItaliaOggi Sette del 22.06.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Climatizzatori domestici liberalizzati fino a 12 kW. Ma sono possibili restrizioni locali e serve comunque il libretto impianto.
Impianti. Il decreto Sblocca Italia qualifica come «edilizia libera» le installazioni minori.

Nessuna autorizzazione, di base. Per sistemare in casa un condizionatore fisso, nella stragrande maggioranza dei casi, non serve alcun particolare via libera amministrativo. Soprattutto dopo le precisazioni introdotte dal decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014 convertito dalla legge 164/2014), che ha esteso il raggio d’azione dell’edilizia libera e semplificato così l’installazione degli apparecchi per il raffrescamento.
Possono essere infatti eseguiti senza alcun titolo abilitativo gli interventi di manutenzione ordinaria, tra i quali è espressamente inclusa l’installazione «delle pompe di calore aria-aria di potenza termica utile nominale inferiore a 12 kW» (articolo 6, comma 1, lett. a), Dpr 380/2001, il Testo unico dell’edilizia). Di fatto, un’ampia fascia in cui ricade la quasi totalità dei climatizzatori residenziali: entro una tale potenza –spiegano gli operatori– sono infatti ricompresi multisplit fino a cinque attacchi.
La legge fa comunque salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e il rispetto «delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, nonché delle disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio».
«Nel proprio regolamento edilizio, il Comune potrebbe ad esempio prevedere norme specifiche sulle facciate, richiedendo una comunicazione preventiva e una successiva all’intervento, che comporta la sistemazione di una unità esterna», spiega Alberto Bonino, direttore del laboratorio Agefis. «Una prescrizione tanto più probabile per gli edifici all’interno del centro storico, dove può esser necessaria una comunicazione di inizio lavori asseverata da un tecnico (Cila)».
Occorre perciò sempre verificare, presso lo Sportello unico edilizia o l’ufficio tecnico della città, i regolamenti comunali e gli altri provvedimenti emanati dagli enti locali.
Se l’intervento viene eseguito in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale o con un particolare valore storico-artistico, in particolare, c’è bisogno dell’autorizzazione paesaggistica o della Soprintendenza. «Fuori dai casi particolari e dall’edilizia libera, l’installazione di un condizionatore, in quanto integrazione di impianti tecnologici e quindi opera di innovazione, ricadrebbe nella manutenzione straordinaria, per la quale è richiesta la Cila», aggiunge Bonino.
Il condominio
Il regolamento condominiale di tipo contrattuale può disciplinare o vietare qualsiasi modifica dell’estetica dell’edificio, anche sulle parti di proprietà esclusiva. Una volta verificata l’assenza di questi paletti o divieti, l’installazione non deve in ogni caso pregiudicare il decoro architettonico o la sicurezza dell’edificio, né impedire l’uso della cosa comune da parte degli altri condomini (articoli 1102, 1122 del Codice civile).
Entro i limiti di legge, è dunque legittimo installare il corpo esterno sul piano di calpestio del balcone o sulla facciata dello stabile: meglio se un apparecchio di piccole dimensioni, che non stravolga l’armonia della facciata stessa e magari si inserisca in essa, per colore e posizione, quasi a scomparire (Cassazione, sentenza 12343/2003).
Prima di installare il climatizzatore, se ne deve dare notizia all’amministratore (in base al nuovo articolo 1122 del Codice civile). Quest’ultimo riferisce in assemblea. In ogni caso l’assemblea non può vietare le installazioni che sono già consentite da leggi e regolamenti.
L’installazione
Quando l’intervento è libero da titoli abilitativi, e si vuol fruire del bonus fiscale del 50% sulle ristrutturazioni (pompa di calore utilizzabile anche ai fini del riscaldamento, a integrazione dell’impianto già esistente), è importante conservare la dichiarazione sostitutiva in cui si indica la data di inizio lavori e si attesta che gli interventi realizzati rientrano tra quelli agevolabili(si veda anche l’articolo accanto).
L’installazione dev’essere realizzata da un tecnico qualificato, munito del “patentino frigoristi” (la certificazione può essere verificata sul sito www.fgas.it), a cui spetta compilare anche il libretto d’impianto: sorta di carta d’identità che dal 15 ottobre scorso (Dm 10.02. 2014) è obbligatoria anche per i climatizzatori fissi.
Al di sotto dei 12 kW la legge non prescrive però la verifica dell’impianto (da effettuare, fino a 100 kW, ogni quattro anni) e la relativa compilazione del rapporto di controllo sull’efficienza energetica (a cura del manutentore). Le sanzioni per chi non rispetta gli obblighi vanno comunque da 500 a 3mila euro (Dlgs 192/2005).
Ma resta sempre opportuno verificare la normativa regionale: in Lombardia, ad esempio, per gli impianti sotto i 12 kW non serve avere un libretto, mentre Veneto o Emilia Romagna hanno predisposto proprie modalità di compilazione specifiche
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Enti locali, pagano i precari. Niente assunzioni nei comuni in ritardo nei pagamenti. Il dl (n. 78) arriva in G.U. Salta il rinnovo dei contratti a termine nelle città metropolitane.
Dead-line al 15 giugno per il riaccertamento straordinario dei residui.

È questa la data indicata dal testo ufficiale del decreto «enti locali» (D.L. 19.06.2015 n. 78) finalmente atterrato sulla Gazzetta Ufficiale n. 140 di ieri. Non c'è stata, quindi, l'ulteriore mini-proroga per tenere conto del ritardo nella pubblicazione del provvedimento.
Nella versione «bollinata» del provvedimento, inoltre, è saltato il via libera alle assunzioni a tempo determinato nei comuni che nel 2014 hanno sforato i tempi di pagamento dei fornitori e negli enti di area vasta che lo scorso anno hanno non hanno rispettato il Patto di stabilità interno.
Sul riaccertamento straordinario, dunque, è ora legge l'attesa proroga del termine scaduto lo scorso 30 aprile dal dlgs 118/2011 per la ripulitura dei dati contabili propedeutica all'avvio della nuova contabilità. Non c'è stato, però, l'aggiornamento della nuova scadenza, che rimane quella «già scaduta» al 15 giugno indicata nelle bozze circolate nelle scorse settimane. Non c'è stata, quindi, l'ulteriore mini-proroga al 30 giugno da taluno ventilata negli ultimi giorni per tenere conto del ritardo nella pubblicazione del dl.
La norma si premura anche di sterilizzare la procedure di commissariamento già avviate dalle Prefetture nei confronti degli enti ritardatari, ma precisa che, fino a quando l'operazione di verifica dei crediti e dei debiti pregressi non sarà completata, le quote libere e destinate del risultato di amministrazione non potranno essere utilizzate.
Nella versione finale del testo sono saltate anche le deroghe al blocco delle assunzioni per consentire le assunzioni stagionali negli enti che hanno impiegato in media più di 90 giorni per pagare le fatture (in alcune bozze il blocco si applicava al 50%), nonché il rinnovo dei contratti a termine nelle province e nelle città metropolitane non in regola con i vincoli di finanza pubblica. Per gli enti di area vasta, inoltre, il limite alle sanzioni per lo sforamento del Patto 2014 sale dal 2 al 3% delle entrate correnti registrate nell'ultimo consuntivo.
I tempi lunghi della pubblicazione hanno portato anche allo stralcio della norma che disponeva il rinvio a dicembre della scadenza per il versamento dell'acconto Imu per i proprietari dei terreni agricoli colpiti dalla Xylella in Puglia.
Confermate, invece, le zone franche per le piccole imprese dell'Emilia-Romagna localizzate nelle aree colpite dal terremoto del 2012 e dall'alluvione del 2014, anche se rimane il dubbio sulla portata dell'esenzione per i tributi locali, che con infelice formulazione viene riferita alle imposte municipali proprie, per cui bisognerà capire se comprende anche la Tasi, oltre che l'Imu.
Infine, per definire il riparto del fondo Tasi (si veda l'altro pezzo in pagina), è stato imposto un passaggio preliminare in Conferenza stato-città e autonomie locali (articolo ItaliaOggi del 20.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it)

APPALTI: Doppio tetto per ridurre le stazioni appaltanti. Più poteri all'Anac.
Doppio tetto per le stazioni appaltanti. Con l'obiettivo di ridurle dalle attuali 36 mila a circa 200. Per gli affidamenti di importo superiore alle soglie di rilevanza comunitaria (5,2 milioni per i lavori e 200 mila euro per gli appalti di servizi e forniture) sarà comunque richiesto un livello di aggregazione almeno regionale (o di provincia autonoma).
Mentre, per gli affidamenti di importo superiore a 100 mila euro ma inferiore alle medesime soglie di rilevanza comunitaria, i comuni non capoluogo di provincia saranno obbligati a mettersi insieme dando vita a modelli di aggregazione subprovinciali «definendo a tal fine ambiti ottimali territorialmente omogenei e garantendo la tutela dei diritti delle minoranze linguistiche».

Così prevede l'emendamento del M5S al ddl delega sulla riforma degli appalti che ha ricevuto ieri l'ok in prima lettura dal senato. La modifica è stata introdotta dall'aula di palazzo Madama, che ha arricchito in modo significativo l'impianto originario del provvedimento, aggiungendovi ulteriori criteri di delega.
Tra questi si segnalano il rafforzamento dei poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione, presieduta da Raffaele Cantone, che potrà arrivare a bloccare le gare in corso (si veda ItaliaOggi del 18 giugno). Senza dimenticare l'istituzione dell'Albo dei commissari di gara presso l'Anac, obbligatorio per tutte le stazioni appaltanti con scelta dei commissari a sorteggio.
Positive le valutazioni delle categorie professionali interessate dal provvedimento. A cominciare da Inarcassa, la cassa di previdenza degli ingegneri e degli architetti. «La riforma accoglie molte delle osservazioni che la Fondazione ha indicato come priorità nel corso dell'audizione in Commissione Lavori Pubblici, tra cui il miglioramento delle condizioni di accesso al mercato dei servizi di architettura e di ingegneria ai giovani professionisti, la radicale limitazione all'appalto integrato, il riferimento alla promozione della qualità architettonica e a quella tecnica», ha commentato Andrea Tomasi, presidente della Fondazione.
«Il nostro plauso», ha proseguito, «va in particolare alle nuove regole in materia di progettazione che, promuovendo la qualità architettonica e tecnico-funzionale, restituiscono centralità alla fase progettuale e decretano lo stop all'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e di tutti i servizi di natura tecnica con il criterio del prezzo più basso o massimo ribasso d'asta». Per il passaggio alla camera, Tomasi ha auspicato un intervento netto sui compiti dei dipendenti pubblici, dei liberi professionisti e delle società di ingegneria, un tema questo «cruciale», ma purtroppo ancora irrisolto.
Per Armando Zambrano, coordinatore della Rete delle Professioni Tecniche (Rpt), nonché presidente del Consiglio Nazionale degli Ingegneri (Cni), la riforma avrebbe potuto affrontare in modo più significativo il tema dell'accorpamento delle stazioni appaltanti. Ma soprattutto avrebbe potuto prendere in considerazione un tema di grande rilievo per la p.a. ma troppo spesso trascurato quale quello della progettazione interna alle p.a..
Proprio quella, che, secondo la stessa ricerca del Centro Studi Cni, determina, «attraverso un numero spropositato di varianti, il maggior incremento dei costi rispetto a quelli definiti in fase di aggiudicazione
» (articolo ItaliaOggi del 20.06.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc online, accesso limitato. Solo i consulenti sono da subito abilitati alle verifiche. In una nota della Cnce le regole operative del nuovo sistema in partenza il 1° luglio.
Conto alla rovescia per il Durc online. Dal 1° luglio il documento di regolarità contributiva sarà consultabile e stampabile da internet, accedendo all'apposito sistema raggiungibile dai portali di Inps e Inail, inserendo il codice fiscale dell'impresa che si intende verificare. I consulenti del lavoro, nonostante siano dei soggetti delegati, sono immediatamente abilitati all'effettuazione delle verifiche. Per gli altri casi, invece, il sistema di gestione con delega resta per il momento sospeso.
Lo precisa, tra l'altro, la commissione nazionale paritetica per le casse edili (Cnce) nella nota 19.06.2015 in cui anticipa le regole operative che saranno a breve approvate dal comitato per la bilateralità.
Il Durc online. Dal 1° luglio, dunque, si potrà verificare in tempo reale se un'impresa o lavoratore autonomo è in regola coi contributi e adempimenti nei confronti di Inps, Inail e cassa edili, quest'ultima soltanto per le aziende dell'edilizia ossia quelle che hanno il codice statistico contributivo, Csc, dell'edilizia.
Consulenti in campo. La nota della Cnce spiega che i soggetti abilitati alla verifica, dal 1° luglio, potranno accedere al sistema Durc online attraverso i portali Inps e Inail inserendo il codice fiscale dell'impresa interessata. I soggetti abilitati alla verifica, precisa la Cnce, sono i «soggetti delegati», ossia chiunque abbia interesse alla verifica, oltre a banche e intermediari finanziari previa delega.
Quest'ultima, in particolare, deve essere comunicata agli istituti (Inps o Inail) dal soggetto delegante e conservata dal soggetto delegato. Per il momento, tuttavia, il sistema di delega è sospeso sino a nuove implementazioni informatiche, salvo che in relazione ai soggetti delegati di cui alla legge n. 12/1979 (primi fra tutti i consulenti del lavoro) i quali, invece, sono immediatamente abilitati all'effettuazione delle verifiche.
La richiesta del Durc online. Il nuovo sistema consente, dai portali Inps e Inail (funzione «Consulta regolarità»), la verifica dell'esistenza di un Durc positivo e in corso di validità (120 giorni dalla prima richiesta), nonché la visualizzazione e acquisizione in formato Pdf (funzione «Visualizza il documento»).
Se risulta una precedente richiesta per la quale è in corso un'istruttoria da parte degli istituti e delle casse edili, il sistema comunicherà tale informazione e, pertanto, per ottenere il Durc bisognerà attendere l'esito di tale istruttoria. Se, invece, non c'è già un Durc in corso di validità né un'istruttoria in corso, il portale procede a interrogare le Banche dati nazionali di Inps, Inail e, se coinvolte, delle casse edili per l'emissione dell'esito della verifica e, quindi, del Durc.
Imprese edili. Nel caso la verifica riguardi un'azienda edile, il sistema interroga la banca dati nazionale delle imprese irregolari (Bni), gestita dalla Cnce, la quale risponderà in due modi:
a) impresa regolare: quando l'impresa risulta iscritta nell'anagrafica presente in Bni senza avere in carico segnalazione di irregolarità da parte delle casse edili; in tal caso, la pratica è chiusa e la risposta della Bni è di via libera all'emissione del Durc, cosa che avverrà se l'impresa risulterà regolare anche per Inps e Inail;
b) pratica in istruttoria: quando l'impresa non risulterà iscritta nell'anagrafica Bni o saranno state segnalate irregolarità da parte di una o più casse edili. In tal caso, la cassa edile coinvolta invierà via Pec al soggetto in verifica l'invito alla regolarizzazione da effettuare entro i successivi 15 giorni. Se dopo 28 giorni dalla richiesta del Durc la fase istruttoria ancora non risulta chiusa, la Bni procederà alla chiusura «d'ufficio» segnalando l'impresa come «irregolare» con debito pari a zero (articolo ItaliaOggi del 20.06.2015).

APPALTI: Riforma degli appalti, sì del Senato. Più poteri all’Anac, alt a deroghe e varianti, semplificazione - Delrio: primo passo di una vera svolta.
Primo semaforo verde per la riforma appalti. Il Senato ieri mattina ha approvato in prima lettura, con 184 sì, due no e 42 astensioni, il disegno di legge delega  (Atto Senato n. 1678) che recepisce le direttive europee in materia di contratti pubblici.
Si completa, così, con un voto a larga maggioranza, un lavoro durato sei mesi, cui hanno partecipato da vicino anche le opposizioni. Il testo è stato incardinato lo scorso gennaio presso la commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama. E, adesso, deve ancora compiere due passaggi importanti: il vaglio della Camera per la seconda lettura e l’attuazione attraverso il decreto delegato, al quale stanno già lavorando i tecnici del Governo. Per il ministero delle Infrastrutture Delrio «è il primo passo di una svolta vera per i lavori pubblici». Mentre per il viceministro Riccardo Nencini che ha seguito più da vicino il disegno di legge si tratta «di una legge che potenzia trasparenza e vigilanza».
Il testo esce radicalmente rivisitato rispetto al Ddl presentato dall’esecutivo. È entrato con 14 criteri di delega ed è uscito arrivando a quota 53. Un lavoro di aggiunte e limature condotto dal relatore Stefano Esposito (Pd), che è andato avanti fino a ieri, quando sono state portate le ultime correzioni pesanti. «Consegniamo alla Camera una legge che unisce legalità e sviluppo del mercato», ha sottolineato.
Tra le correzioni di ieri spicca il taglio delle stazioni appaltanti che oggi, secondo le stime più accreditate, sono almeno 36mila. Vengono introdotti due tetti: sopra i 100mila euro i Comuni non capoluogo dovranno aggregarsi per fare le gare, mentre sopra le soglie comunitarie (5,2 milioni per i lavori e 200mila euro per servizi e forniture) dovranno passare da centrali di committenza unificate a livello regionale o di provincia autonoma.
La seconda novità di giornata riguarda il passaggio che impone alle concessionarie (autostradali e non) di mandare in gara tutti i lavori, i servizi e le forniture relativi alla loro gestione. Adesso sono obbligati a mettere sul mercato una quota del 60%. L’emendamento votato dall’Aula prevede alcune eccezioni: le nuove regole non valgono sotto i 150mila euro, nei casi di project financing e per «le concessioni in essere affidate con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Ue».
La terza novità è relativa alle autostrade. La regola generale è che non ci saranno proroghe d’ufficio per le concessioni in essere, con una eccezione: sono escluse le società nelle quali il controllo sia appannaggio di soggetti pubblici. Una formulazione che consentirà un prolungamento senza gara per Autovie venete e Autobrennero. Arriva anche una forte stretta sull’in house. Viene istituito, presso l’Anac, un elenco di enti controllati da pubbliche amministrazioni ai quali sarà possibile affidare i contratti senza gara.
Guardando alle novità approvate nelle scorse settimane, il cuore della riforma è l’estensione e il rafforzamento dei poteri affidati all’Anac guidata da Raffaele Cantone. Un passaggio in cui non è difficile intravedere il riflesso delle tante inchieste sulla corruzione che hanno attraversato il mondo degli appalti negli ultimi mesi: dal sistema Incalza-Perotti scoperchiato dalla procura di Firenze allo scandalo Mafia Capitale.
Con la riforma, Cantone sarà dotato di poteri di intervento cautelari (possibilità di bloccare in corsa gare irregolari) e potrà chiedere alle stazioni appaltanti di annullare le gare in odore di corruzione prima di attivare i commissariamenti, mentre il rispetto degli atti di indirizzo al mercato (bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà vincolante per amministrazioni e imprese.
In questa chiave va anche letta la nascita di un albo nazionale dei commissari di gara e il divieto espresso di prevedere scorciatoie normative, bypassando o semplificando le gare, per la realizzazione di grandi eventi. Le deroghe potranno essere ammesse soltanto in risposta a fenomeni di calamità naturale. Dunque, niente nuovi casi Expo (con circa 90 deroghe).
Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva la stretta sulle varianti da cui passa l’aumento dei costi in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di rescindere il contratto oltre certe soglie di importo. Anche le infrastrutture dovranno adeguarsi a costi standard. Con progetti definiti prima di arrivare al cantiere. La delega investe sulla valorizzazione della fase progettuale, vietando le aggiudicazioni al massimo ribasso e limitando la possibilità di affidare insieme progetto e lavori solo a casi di particolare rilievo tecnologico.
Inoltre le grandi opere dovranno essere capaci di guadagnarsi il consenso sul campo («débat public»). Mentre le imprese saranno valutate anche sulla base della reputazione guadagnata in cantiere (rispetto dei tempi e bassa vocazione al contenzioso) legata al rating di legalità
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Attestati energetici, obbligo dal 1° ottobre. Immobili. Il rinvio nelle linee guida approvate dalla Conferenza unificata.
L’obbligo di compilare l’attestato di prestazione energetica degli edifici in base alle nuove linee guida scatterà il 1° ottobre prossimo.
Lo ha deciso ieri la Conferenza unificata, che dopo un lungo lavoro di confronto e limatura ha dato il via libera definitivo allo schema di decreto sulle modalità per la certificazione in edilizia, in attuazione della direttiva 2010/31/Ue e degli schemi di relazione tecnica di progetto.
L’ultima data proposta dal ministero dello Sviluppo economico era il 1° agosto: alla fine, però, si è preferito accogliere almeno in parte la richiesta avanzata dalle Regioni, con la motivazione di consentire ai tecnici abilitati al rilascio dell’Ape di prendere confidenza con i nuovi software. Il decreto, comunque, dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale entro il 28 giugno, pena la mancata chiusura della procedura di infrazione aperta dall’Ue a carico dell’Italia e l’impossibilità per il nostro Paese di utilizzare i fondi strutturali della programmazione 2014-2020.
Stessa situazione vale anche per il parallelo decreto sui requisiti minimi di efficienza energetica per gli immobili, che ha avuto il «via libera» della Conferenza il 25 marzo, ma che non è ancora stato pubblicato. Anche per questo, l’entrata in vigore (fissata al 1° luglio) potrebbe slittare a inizio ottobre.
Sotto l’aspetto pratico, la grande novità in arrivo con le linee guida varate ieri, è che da ottobre tutte le Regioni (con l’eccezione delle Province autonome) utilizzeranno uno stesso sistema per classificare la performance energetica dell’edificio. E questo nonostante, sulla carta, la clausola di cedevolezza lasci comunque liberi i territori di agire con propri sistemi locali a patto di aver recepito con atti propri la direttiva comunitaria.
«Alla fine ha prevalso una scelta di omogeneità –commentano dallo Sviluppo economico– che va nella direzione di offrire ai proprietari di casa e agli acquirenti un’unica scala di confronto, comparabile, in tutta Italia»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Efficienza energetica doc. Progettisti obbligati alla relazione tecnica. IMMOBILI/ Le regole del MiSe entrano in vigore dal primo agosto.
Il progettista o i progettisti, nell'ambito delle rispettive competenze edili, impiantistiche termotecniche, elettriche e illuminotecniche, dovranno inserire i calcoli nella relazione tecnica di progetto attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici, che il proprietario dell'edificio, o chi ne ha titolo, deve depositare presso le amministrazioni competenti, in doppia copia, contestualmente alla dichiarazione di inizio dei lavori complessivi o degli specifici interventi proposti, o alla domanda di concessione edilizia.

Queste le istruzioni contenute nel nuovo decreto MiSe in materia di efficienza energetica degli edifici che ha ottenuto ieri il via libera della conferenza unificata.
Il provvedimento fornisce al progettista le indicazioni per compilare la relazione tecnica di progetto attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e dei relativi impianti termici. L'entrata in vigore di questo decreto è stata fissata al 01.08.2015.
Nello specifico il decreto tecnico fornisce ai progettisti una bussola sui dati (e come) da inserire relativamente a elementi edili, termotecnici, illuminotecnici; e come poi debbano eseguire i calcoli e le verifiche. In modo da redigere poi la relazione tecnica di progetto che attesta l'effettiva rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e dei relativi impianti termici.
Il decreto sulla relazione tecnica è un adempimento previsto dal dlgs 19.08.2005 (articolo 8 comma 1), cioè sul decreto che recepisce la direttiva 2010/31/Ue sulle prestazioni energetiche degli edifici. La relazione del progettista, non è dovuta in caso di sostituzione di generatori di calore dell'impianto di climatizzazione avente potenza limitata, inferiore alla soglia prevista dall'articolo 5, comma 2, lettera g), del dm n. 37/2008.
Inoltre, in caso di edifici di nuova costruzione o soggetti a ristrutturazione importante, nell'ambito della relazione dovrà essere effettuata una valutazione della fattibilità tecnica, ambientale ed economica per l'inserimento di sistemi alternativi ad alta efficienza, tra i quali sistemi di fornitura di energia rinnovabile, cogenerazione, teleriscaldamento e teleraffrescamento (articolo ItaliaOggi del 19.06.2015).

APPALTINuove regole per gli appalti. In house precluso ai concessionari. No al massimo ribasso. Il senato ha dato il primo ok al ddl di riforma. Fondo per la progettazione negli enti.
Vietati gli affidamenti in house nel settore delle concessioni autostradali, divieto per il contraente generale di svolgere la direzione dei lavori. Fondo per la progettazione degli enti locali. Albo dei commissari di gara scelti dall'Autorità nazionale anticorruzione. Eliminazione del prezzo più basso nella scelta dei progettisti, affidamento dei lavori sulla base del progetto esecutivo, riduzione del numero delle stazioni appaltanti, revisione del sistema di qualificazione delle imprese e introduzione dei criteri reputazionali.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo del disegno di legge delega (Atto Senato n. 1678) approvato ieri dall'aula del senato con 184 voti favorevoli, due contrari e 42 astensioni. Adesso il testo passa all'esame della camera, che dovrebbe vararlo entro breve in modo da uscire con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale entro la pausa estiva.
Uno dei nodi di maggiore rilievo politico definito ieri dall'aula riguarda la disciplina degli appalti dei concessionari. La norma varata ieri prevede che per tutti i concessionari che non sono stati scelti con gara europea scatta l'obbligo di affidare a terzi lavori, forniture e servizi, senza più la possibilità di ricorrere a società in house. soltanto per le nuove concessionarie scelte con gara sarà possibile utilizzare società in house partecipate al 100%.
Il provvedimento chiarisce anche che la scelta dei commissari di gara spetterà all'Anac che dovrà fornire direttamente i nominativi alle stazioni appaltanti che non potranno scegliere neanche a sorteggio. È stato poi introdotto un fondo rotativo per finanziare le progettazioni degli enti locali così da superare i vincoli di natura contabile che speso non consentono di finanziare un progetto senza la completa copertura dell'opera.
Confermate le norme che vietano il massimo ribasso come criterio di aggiudicazione dei servizi di ingegneria e architettura e le limitazione all'utilizzo dell'appalto integrato, che sarà ammesso soltanto in presenza del 70% di lavori complessi.
I contenuti del provvedimento sono stati commentati a caldo nel convegno organizzato dall'Oice, l'associazione delle società di ingegneria, sulla riforma degli appalti pubblici tenutosi all'Ara Pacis di Roma. Riccardo Nencini, viceministro alle infrastrutture, ha affermato: «Non ricordo una legge delega così dettagliata che sia stata approvata sostanzialmente all'unanimità, a parte l'astensione del Movimento cinque stelle. Se avessimo avuto queste norme approvate, oggi la scalata a Mafia capitale sarebbe stata molto più difficile. La scrittura dei decreti è quasi obbligata e non consentirà elusioni da parte del governo e genericità sulle norme attuative.» Molto soddisfatto anche il ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, secondo cui «si tratta di una svolta vera nel nostro sistema dei lavori pubblici, che porta semplificazione, legalità e certezza nella esecuzione».
Esulta anche il relatore del provvedimento Stefano Esposito: «È per me motivo di rallegramento che su un tema così diviso non ci sia stato un voto contrario in aula. È un fatto positivo e politicamente rilevante, così come la sintonia con il governo. Adesso la responsabilità più importante spetta al governo affinché non ci siano interpretazioni che tendano a dare rilievo ai micro interessi. Si andrà alla riduzione a 200 stazioni appaltanti, si imporranno le gare ai concessionari non scelti in gara mettendo la parola fine all'in house e liberando almeno 800 milioni di lavori ogni anno, si valorizza molto la centralità del progetto con il divieto di massimo ribasso nelle gare di progettazione»
Per Michele Corradino, consigliere Anac, «è essenziale andare verso un'accurata programmazione e progettazione per evitare varianti e riserve; per parte nostra ci impegneremo a svolgere l'importante ruolo che la legge ci assegna». L'avvocato Antonella Manzione, capo ufficio legislativo della presidenza del consiglio ha evidenziato come si tratti di «una delega molto dettagliata e che nella sua attuazione occorrerà rispettare il divieto di goldplating (ossia l'introduzione, in sede di recepimento di direttive europee, di adempimenti ed oneri ulteriori rispetto a quelli definiti dal regolatore comunitario) andando verso un codice snello e semplificato rispetto ad oggi
» (articolo ItaliaOggi del 19.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Poliziotti provinciali in stallo. Tempi lunghi per il trasferimento presso i vigili urbani. Il decreto enti locali (oggi in G.U.) non prevede soluzioni sulla gestione del personale.
Tempi lunghi per il trasferimento degli appartenenti alla polizia provinciale presso i corpi di polizia municipale e finanziamenti troppo esigui per il subentro delle regioni nella gestione dei servizi per il lavoro.

Le bozze del «decreto enti locali», atteso oggi in Gazzetta Ufficiale (sarà il D.L. 19.06.2015 n. 78), non lasciano intravedere nessuna soluzione realmente efficace e, comunque, rapida alla situazione delicatissima della gestione del personale delle province.
Polizia provinciale. Le indicazioni del decreto enti locali sulla polizia provinciale nella sostanza aggiungono ben poco al regime vigente. Si prevede che il personale dei corpi di polizia provinciale transiti «nei ruoli degli enti locali per lo svolgimento delle funzioni di polizia municipale».
L'unico elemento di «novità» della disposizione consisterebbe, tuttavia, nella specificazione normativa che i dipendenti dei corpi di polizia provinciale non sono «bloccati» nel prestare servizio presso le province, in attesa dell'impalpabile riforma delle forze di polizia. Il decreto, dunque, in questo modo corregge l'interpretazione fornita dalla circolare 1/2015, secondo la quale, invece, i circa 3 mila dipendenti delle polizie provinciali non avrebbero potuto partecipare alle procedure di mobilità.
Tuttavia, il testo delle bozze di decreto enti locali lascia fermo quanto previsto dall'articolo 1, comma 89, della legge 190/2014. Dunque, il trasferimento dei componenti della polizia provinciale dovrebbe essere comunque subordinato alle leggi con cui le regioni riordineranno le funzioni. Sicché, i tempi per giungere ai trasferimenti si rivelano estremamente lunghi, considerando l'inerzia delle regioni, che si trascina da mesi.
La bozza di decreto, ancora, stabilisce che finché i comuni non abbiano integralmente assorbito i dipendenti dei corpi di polizia provinciale, non potranno assumere, a pena di nullità «personale con qualsivoglia tipologia contrattuale per lo svolgimento di funzioni di polizia locale, fatta eccezione per le esigenze di carattere stagionale come disciplinate dalle vigenti disposizioni». Ma, l'articolo 1, comma 424, della legge 190 era già chiaro nel disciplinare ciò.
Poco innovativa anche la previsione, che nei testi circolati appare e scompare, secondo la quale il transito del personale dei corpi di polizia provinciale potrebbe avvenire sì nei limiti della dotazione organica e della programmazione triennale dei fabbisogni, ma «in deroga alle vigenti disposizioni in materia di limitazioni alle spese ed alle assunzioni di personale, garantendo comunque il rispetto del patto di stabilità interno nell'esercizio di riferimento e la sostenibilità di bilancio».
Di fatto, si estende la deroga ai tetti di spesa, già comunque normata dal comma 424 della legge 190/2014.
Servizi per il lavoro. Le bozze di decreto cercano di superare le censure che la Ue muoverebbe all'attuazione del comma 429 della legge 190/2014. Esso prevede l'utilizzo dell'anticipazione di 60 milioni del fondo di rotazione per la formazione professionale gestito dal ministero del lavoro a valere sul Fondo sociale europeo, giustificata solo per il pagamento degli stipendi del personale provinciale addetto ai centri per l'impiego. Non è un caso che nessuna regione abbia fatto richiesta di utilizzare tali fondi.
La soluzione di ripiego è allora giustificare l'impiego dei fondi europei allo scopo di garantire il livello essenziale delle prestazioni in materia di servizi e politiche del lavoro. A tale scopo, le regioni dovrebbero stipulare con lo stato una convenzione, per effetto della quale il ministero del lavoro metterebbe a disposizione 70 milioni in misura proporzionale al numero dei lavoratori direttamente impiegati nei servizi per il lavori, come anticipazione del fondo di rotazione per la formazione professionale.
Tuttavia, c'è da osservare che i 140 milioni in due anni non coprono il fabbisogno complessivo della spesa del personale provinciale addetto ai servizi per il lavoro, per il quale la spesa è di circa 250 milioni, cui sono da aggiungere altri 570 milioni circa per il funzionamento dei servizi. Le regioni, dunque, dovrebbero addossarsi una spesa di circa 630 milioni complessivi annui.
Come, poi, 70 milioni, non aggiuntivi alla spesa complessiva possano assicurare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni che nemmeno la spesa attuale complessiva dei servizi per il lavoro, una delle più basse d'Europa, è tutto da dimostrare (articolo ItaliaOggi del 19.06.2015).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - VARI: Stop alle multe da autovelox: le verifiche per cittadini e polizia. Dopo la Consulta. Cosa cercare sul verbale, la segnaletica e i termini.
Che ne sarà delle multe da autovelox? E che possono fare le decine di migliaia di cittadini con un pagamento o un ricorso pendente?
Dopo la sentenza 18.06.2015 n. 113 della Corte costituzionale (si vedano i servizi pubblicati sul Sole 24 Ore di ieri) che ha dato uno stop agli apparecchi non sottoposti a controlli periodici -di norma quelli in uso alle pattuglie- che ne garantiscano l’esatto funzionamento occorre qualche “istruzione per l’uso”.
Prima di tutto per i cittadini destinatari delle sanzioni per violazione dei limiti di velocità. E in secondo luogo anche per le forze dell’ordine che utilizzano le “macchinette” incriminate.
Per i multati la prima mossa è quella di verificare la legittimità di rilevazione dell’infrazione: va fatto, quindi, un controllo di natura formale. Il verbale, in assenza di contestazione immediata, deve essere notificato entro 90 giorni, pena l’estinzione della violazione. Inoltre, secondo una sentenza del Tribunale di Piacenza datata 8 giugno 2013, i verbali per eccesso di velocità dovrebbero contenere espressa menzione della presenza a distanza regolamentare della segnaletica di preavviso. La segnalazione preventiva del controllo, sia esso mobile (con tele laser) o con apparecchiature fisse automatiche, è sempre verificabile dal presunto trasgressore perché deve essere ben visibile e avvistabile dal conducente.
È poi chiaro che il problema della “taratura” (cioè il controllo) dei misuratori è destinato a riverberarsi sui ricorsi: in assenza di taratura periodica, il verbale dovrà essere archiviato. Abbiamo già rilevato ieri che -di norma- gli autovelox automatici sono controllati (quindi niente ricorso) mentre latitano le verifiche per quelli mobili utilizzati dalle forze dell’ordine o delle polizie locali. Quindi, per vedere se l’apparecchio utilizzato è stato sottoposto a verifica occorre cercare sul verbale se era o no presente una pattuglia. Se c’era, in qualche caso il verbale scioglie comunque i dubbi perché attesta il controllo dello strumento. Altre volte occorre invece chiedere al corpo di polizia.
Passando agli obblighi delle forze dell’ordine che si trovano a rilevare e sanzionare gli eccessi di velocità, il primo è quello di predisporre e controllare sia la segnaletica relativa al limite di velocità, sia quella di preavviso della postazione di controllo (posizionata in maniera ben visibile) e rispettare le previste distanze, in modo che il conducente possa adeguare la velocità del veicolo; la preventiva informazione mediante segnaletica costituisce un requisito di legittimità della contestazione (Cassazione civile n. 14514/2009).
A seguito della sentenza della Consulta n. 113, in assenza di una normativa generale, gli organi di polizia che utilizzano le apparecchiature devono procedere a una verifica degli autovelox almeno annuale sulla base di quanto stabilito dai diversi decreti di omologazione, che rimandano al manuale di istruzioni fornito dalle aziende produttrici.
Sarà di conseguenza opportuno tenere un registro dei controlli effettuati periodicamente sull’apparecchiatura, con particolare cura in riferimento alla manutenzione e taratura; riportare sul verbale di violazione la data di taratura sarebbe il massimo della trasparenza dell’azione amministrativa, oltre a evitare una nutrita serie di richieste di informazioni sull’efficienza dei misuratori e ricorsi contro i verbali.
Ma l’intervento della Corte costituzionale, può avere anche risvolti di maggior portata. Infatti, scorrendo la motivazione della sentenza, emerge con chiarezza che un’interpretazione costituzionalmente corretta dell’articolo 45 del Codice della strada postula una normativa, seppure di secondo grado, uniforme per tutte le apparecchiature finalizzate al delicato compito di verificare la velocità di percorrenza dei veicoli.
Affidarsi ai manuali di istruzione, modellati evidentemente su esigenze di produzione, sembra abbastanza riduttivo. Per fugare ogni dubbio, sarebbe auspicabile un intervento normativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Tutti gli autovelox vanno tarati. Anche se utilizzati alla presenza di una pattuglia. La Corte costituzionale ha bocciato parte dell'art. 45 del codice della strada.
Tutti i misuratori elettronici della velocità dei veicoli devono essere sottoposti a verifica di funzionalità o taratura periodica. Anche se gli strumenti vengono utilizzati con la presenza della pattuglia.

Lo ha chiarito definitivamente la Corte costituzionale con la sentenza 18.06.2015 n. 113 che dichiara la parziale illegittimità dell'art. 45 del codice stradale.
Un automobilista incorso nei rigori dell'autovelox, convinto sostenitore della necessità della taratura e delle verifiche periodiche degli strumenti di controllo del traffico, ha incassato una serie di sconfitte arrivando con le doglianze fino ai giudici del Palazzaccio che hanno finalmente accolto le sue indicazioni.
Secondo i giudici di merito nessuna normativa richiede espressamente l'obbligatorietà della taratura periodica degli strumenti autovelox.
In pratica ai vigili elettronici non si applica la legge 273/1991 poiché tale normativa riguarda soltanto i controlli metrologici effettuati su apparecchi di misura di tempo, distanza e massa. In sostanza la materia dei misuratori di velocità trova già una propria disciplina oltre che nell'art. 45 del codice stradale anche nel dm 29.10.1997 il quale dispone che gli organi di polizia stradale interessati all'uso delle apparecchiature per l'accertamento dell'osservanza dei limiti di velocità sono tenuti a rispettare le modalità di installazione e di impiego previste nei manuali d'uso, escludendosi, perciò, la necessità di un controllo periodico finalizzato alla taratura dello strumento di misura se ciò non è espressamente richiesto dal costruttore nel manuale d'uso ovvero nel decreto di approvazione.
A parere degli Ermellini questa interpretazione è di dubbia legittimità costituzionale perché finisce per avallare un risultato incredibile. «Quello per cui una bilancia di un mercato rionale è soggetta a verifica periodica della taratura, nel mentre non lo è una complessa apparecchiatura, come quella per la verifica della velocità, che svolge un accertamento irripetibile e fonte di gravi conseguenze per il cittadino».
La Corte costituzionale ha accolto questa interpretazione. Non è ragionevole pensare che uno strumento elettronico per il controllo della velocità possa essere utilizzato a distanza di anni senza alcun controllo tecnico di conformità, specifica la sentenza. A prescindere dall'uso in modalità automatica o con la presenza della pattuglia.
Qualsiasi strumento di misura, prosegue il collegio, è soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e quindi a variazioni dei valori misurati per naturale invecchiamento e usura dei componenti elettronici e meccanici.
In buona sostanza il controllo di conformità degli strumenti autovelox deve essere costante durante tutto l'arco temporale di impiego dei misuratori. L'omologazione e la taratura periodica dei misuratori di velocità sono pertanto fondamentali per la certezza degli accertamenti e dei rapporti giuridici conseguenti (articolo ItaliaOggi del 19.06.2015).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola.
---------------
La sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7, terzo comma, L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso.
Pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso.

9. L’appello principale è fondato nella misura in cui evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha rilevato una lesione del diritto di partecipazione procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez. II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049) secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola”.
---------------
10. L’appello incidentale proposto degli originari ricorrenti è in parte inammissibile ed in parte fondato. Sotto il primo profilo deve rilevarsi che il generico richiamo ivi contenuto ai motivi non esaminati dal primo giudice non è sufficiente a devolverne la cognizione al giudice d’appello, essendo invece necessaria una loro puntuale rappresentazione, sicché in questa parte l’appello incidentale è inammissibile.
L’unica doglianza non esaminata dal TAR, che può essere conosciuta dall’odierno giudicante è, quindi, quella relativa alla denunciata illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone di acquisire al patrimonio del comune l’intero immobile e l’area di sedime.
La censura in questione deve ritenersi fondata: infatti, la sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7 terzo comma L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso; pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 16, comma 1, del T.U. n. 380 del 2001, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Questo significa che il pagamento degli oneri contributivi rappresenta il contenuto di un’obbligazione accessoria, posta a carico di chi abbia (già) ottenuto un titolo edilizio. Una volta adempiuto al pagamento, al privato istante non resta quindi che procedere al ritiro materiale della medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.2014 n. 2434, secondo cui l’obbligazione sorge con il rilascio del titolo ampliativo ed è a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo).
---------------
A ciò si aggiunga che, com’è noto, a seguito delle innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3, del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in legge 12.07.2011 n. 106, in omaggio alla regola generale di semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della legge 07.08.1990 n. 241, è stato espressamente esteso al procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la definizione del procedimento di rilascio del titolo edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380.
Ed allora, anche a non volersi attribuire alla nota 18.03.2013 n. 12556 (con cui il ricorrente è stato invitato a pagare gli oneri concessori) valore e significato di provvedimento di rilascio del titolo in conformità alla domanda avanzata, è evidente che al 19.11.2014 –data di adozione del provvedimento di rigetto– era ampiamente decorso il termine di formazione del silenzio-assenso, decorrente dal 06.06.2014 –data di presentazione delle integrazioni progettuali–, non risultando in atti né l’esistenza di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali sull’area, né l’adozione di una “motivata risoluzione del responsabile del procedimento” di particolare complessità dell’affare, ai fini del raddoppio dei termini ex comma 7.
Va pertanto dichiarato illegittimo l’atto con cui il comune ha negato il rilascio del titolo edilizio dopo la sua formazione tacita, potendo, in tale ipotesi, essere adottato soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di atti di secondo grado, da accertarsi con le stesse forme e con le stesse modalità procedimentali previste per l’adozione dell’atto da annullare.

... per l'annullamento:
- della nota 16.05.2014 n. 23161, con cui il comune di Corigliano Calabro ha disposto la sospensione interlocutoria del procedimento amministrativo volto all’ottenimento di un permesso di costruire per la realizzazione di un edificio a destinazione mista, residenziale e commerciale, in contrada San Francesco
- del provvedimento 19.11.2014 n. 54974, recante il rigetto della domanda di permesso di costruire;
...    
Col ricorso introduttivo del giudizio, la ditta istante impugna, per violazione di legge ed eccesso di potere, la nota 16.05.2014 n. 23161, con cui il comune di Corigliano Calabro, in seguito ad una diffida inoltrata dal proprietario di una porzione di terreno limitrofa che lamentava una questione di confini, ha disposto la sospensione interlocutoria del procedimento amministrativo volto all’ottenimento di un permesso di costruire per la realizzazione di un edificio a destinazione mista, residenziale e commerciale, in contrada San Francesco.
Il comune intimato si è costituito per resistere.
...
Sulla base di tale premesse, parte ricorrente sostiene per un verso che, al momento del provvedimento di diniego, il procedimento edilizio si era oramai positivamente concluso con la comunicazione ed il pagamento degli importi dovuti per oneri concessori e, per altro verso, che non sussiste dubbio circa la natura di lotto intercluso del proprio fondo, avendo ciò costituito oggetto di un parere favorevole della regione Calabria, reso su precisa richiesta del comune.
Tanto esposto, occorre precisare che, ai sensi dell’art. 16, comma 1, del T.U. n. 380 del 2001, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Questo significa che il pagamento degli oneri contributivi rappresenta il contenuto di un’obbligazione accessoria, posta a carico di chi abbia (già) ottenuto un titolo edilizio. Una volta adempiuto al pagamento, al privato istante non resta quindi che procedere al ritiro materiale della medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.2014 n. 2434, secondo cui l’obbligazione sorge con il rilascio del titolo ampliativo ed è a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo).
A ciò si aggiunga che, com’è noto, a seguito delle innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3, del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in legge 12.07.2011 n. 106, in omaggio alla regola generale di semplificazione amministrativa codificata nell’art. 20 della legge 07.08.1990 n. 241, è stato espressamente esteso al procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la definizione del procedimento di rilascio del titolo edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di permesso di costruire deve intendersi formato il titolo abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.05.2014 n. 2972).
Ed allora, anche a non volersi attribuire alla nota 18.03.2013 n. 12556 (con cui il ricorrente è stato invitato a pagare gli oneri concessori) valore e significato di provvedimento di rilascio del titolo in conformità alla domanda avanzata, è evidente che al 19.11.2014 –data di adozione del provvedimento di rigetto– era ampiamente decorso il termine di formazione del silenzio-assenso, decorrente dal 06.06.2014 –data di presentazione delle integrazioni progettuali–, non risultando in atti né l’esistenza di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali sull’area, né l’adozione di una “motivata risoluzione del responsabile del procedimento” di particolare complessità dell’affare, ai fini del raddoppio dei termini ex comma 7.
Va pertanto dichiarato illegittimo l’atto con cui il comune ha negato il rilascio del titolo edilizio dopo la sua formazione tacita, potendo, in tale ipotesi, essere adottato soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di atti di secondo grado (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 29.05.2014 n. 2972; TAR Sicilia, Catania, 07.04.2005 n. 572), da accertarsi con le stesse forme e con le stesse modalità procedimentali previste per l’adozione dell’atto da annullare (cfr. TAR Calabria, Reggio Calabria, 06.04.2000 n. 304) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 17.06.2015 n. 1095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, niente tempi minimi sulle certificazioni di qualità. Consiglio di Stato. Contrario al Codice appalti richiedere il possesso «lungo» dei requisiti.
In tema di requisiti di partecipazione alle gare, è illegittima la lex specialis che, a garanzia del servizio, chieda alle imprese concorrenti un tempo minimo nel possesso delle certificazioni di qualità poiché tale clausola non è prevista nelle cause di esclusione fissate dal Codice degli appalti pubblici (Dlgs n. 163/2006).
L’ha chiarito il Consiglio di Stato nella sentenza 15.06.2015 n. 2957, depositata dalla V Sez..
I giudici hanno accolto il ricorso di una società contro la revoca di un appalto comunale per il servizio di raccolta integrata dei rifiuti. L’impresa, già aggiudicataria in via definitiva, aveva perso la gara -prima aperta solo a due aziende e poi annullata dal Comune per un futuro confronto concorrenziale- per non aver dimostrato il possesso da oltre un triennio della certificazione di qualità riguardo agli standard del «sistema di gestione ambientale» (Uni En Iso 14001:2004) come richiesto dal bando.
Per la ricorrente, la revoca è nulla poiché la clausola su tali atti non rientra nei dettami sulla «tassatività delle cause di esclusione» fissati dal Codice appalti (comma 1-bis, articolo 46) per cui, in particolare, si è esclusi «in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente Codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte».
Accogliendo il ricorso, il collegio ha spiegato che «attraverso questa previsione è stato introdotto un requisito speciale e, conseguentemente, una causa di esclusione dalla gara in caso di sua mancanza, non conforme al principio di tassatività sancito dall’articolo 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici».
Si è poi rilevato come tale clausola sia stata ammessa per «individuare concorrenti che abbiano dato prova di aver operato da tempo come soggetti pienamente idonei e ben organizzati» (Consiglio di Stato, sentenza n. 4759/2008) ma solo perché non era ancora in vigore il principio di “tassatività” introdotto nel Codice appalti nel 2011 dal cosiddetto “decreto sviluppo” (comma 2, lettera d, articolo 4, Dl n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011).
Nella sentenza si è quindi affermato che ormai «la previsione di un periodo temporale non risponde ad effettive esigenze dell’amministrazione di garanzia di qualità del servizio, poiché le stesse sono comunque assicurate dal possesso della certificazione in sé».
Nel caso di specie, all’azienda è stato riconosciuto il danno da mancato utile poiché «immediatamente e direttamente conseguente ex articolo 1223 Codice civile all’ingiusta perdita del contratto a sua volta derivato dall’illegittimo annullamento dell’aggiudicazione». Per la liquidazione, in assenza di «puntuali indicazioni» sull’utile netto non conseguito, si sono definiti i criteri in base ai quali la Pa debitrice dovrà proporla entro un termine (comma 4, articolo 34, Dlgs n. 104/2010, Codice processo amministrativo, «condanna sui criteri»)
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 21-septies della legge 241/1990 prevede che “è nullo il provvedimento che manca degli elementi essenziali”.
In assenza di una esplicita indicazione legislativa degli elementi essenziali del provvedimento può aderirsi a quella giurisprudenza secondo cui “L'atto amministrativo nullo è quello addirittura privo degli elementi di identificazione strutturale. Gli elementi essenziali cui fa riferimento l'art. 21-septies sopra citato sono la forma, il destinatario, la volontà, l'oggetto”.
La mancata indicazione della data costituisce, pertanto, al più un’irregolarità, mentre il luogo di emissione dell’atto coincide con la sede dell’ufficio che l’ha emanato e risulta, pertanto, ex tabulas.

Il ricorso è fondato per le ragioni appresso enunciate.
Non sussiste alcun profilo di nullità dell’atto.
L’invocato art. 21-septies della legge generale sul procedimento prevede che “è nullo il provvedimento che manca degli elementi essenziali”.
In assenza di una esplicita indicazione legislativa degli elementi essenziali del provvedimento può aderirsi a quella giurisprudenza secondo cui “L'atto amministrativo nullo è quello addirittura privo degli elementi di identificazione strutturale. Gli elementi essenziali cui fa riferimento l'art. 21-septies sopra citato sono la forma, il destinatario, la volontà, l'oggetto” (così, Tar Lazio – Sez. II, 05.01.2011 n. 40, richiamato, da ultimo, da TAR Campania, Napoli, sez. 3, sent. 08/01/2015 n. 1205).
La mancata indicazione della data costituisce, pertanto, al più un’irregolarità, mentre il luogo di emissione dell’atto coincide con la sede dell’ufficio che l’ha emanato e risulta, pertanto, ex tabulas (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.06.2015 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: COMPENSI AVVOCATI/ Onorario: è credito di valuta, non valore. Lo dice un'ordinanza.
Nel caso in cui si crei una controversia tra l'avvocato ed il cliente per il compenso dovuto al primo, il cliente sarà ritenuto in mora dopo la liquidazione del debito in seguito all'ordinanza di conclusione del procedimento ex art. 28, legge 13.06.1942 n. 794.
Gli interessi decorreranno, nei limiti della somma liquidata dal giudice, da quella data.

Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 04.06.2015 n. 11587.
In caso di onorari professionali, quello dell'avvocato è un credito di valuta e non di valore, poiché ha ad oggetto una somma di denaro.
Pertanto, è stato osservato dagli Ermellini, la sopravvenuta svalutazione monetaria non consente una rivalutazione d'ufficio di esso, occorrendo una domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti dall'art. 1224, secondo comma, cod. civ. e il soddisfacimento del relativo onere probatorio, ed essendo applicabile l'art. 429 cod. proc. civ., come modificato dalla legge n. 533/1973, solo quando l'opera dell'avvocato si configuri come attività continuativa e coordinata tipica dei cosiddetti rapporti di «parasubordinazione».
I giudici di piazza Cavour hanno osservato, inoltre, come secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e procuratore a carico del cliente, la disposizione comune alle tre tariffe forensi (civile, penale e stragiudiziale contenuta nel dm 14.02.1992, n. 238) prevede che gli interessi di mora decorrano dal terzo mese successivo all'invio della parcella, tuttavia quando insorge controversia tra l'avvocato ed il cliente circa il compenso per prestazioni professionali, il debitore non può essere ritenuto in mora prima della liquidazione del debito, che avviene con l'ordinanza che conclude il procedimento della L. 13.06.1942, n. 794, ex art. 28, sicché è da quella data - e nei limiti di quanto liquidato dal giudice, e non da prima, che va riportata la decorrenza degli interessi (si vedano: Cass. n. 2431 del 2011; I1777del 2005, 5240 del 1999, 13586/1991, 5004 del 1993 3995 del 1988) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: COMPENSI AVVOCATI/ Corte di cassazione. Gli importi liquidati a misura di decreto.
Per la liquidazione dell'onorario dell'avvocato, il valore della controversia che ha per oggetto l'opposizione a decreto ingiuntivo, deve essere determinato con riferimento all'importo del decreto opposto.

Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 03.06.2015 n. 11454.
È stato, poi, evidenziato che la somma risultante dal decreto non dovrà sommarsi a quella chiesta dagli opponenti in restituzione di quanto versato per la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, né, tantomeno, a quella precedentemente versata sempre in esecuzione del medesimo decreto.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi su un caso che vedeva una controversia relativa al pagamento degli onorari richiesti da un avvocato per l'attività svolta. Il cliente si opponeva avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, munito di provvisoria esecuzione, ed otteneva l'accoglimento della domanda e la restituzione delle somme versate.
I giudici di merito hanno infatti ritenuto che, in base al tenore letterale della quietanza emessa dall'avvocato, risultava che egli avesse già ricevuto il pagamento della prestazione eseguita solo parzialmente. L'avvocato impugnava la pronuncia con ricorso in Cassazione, denunciando, oltre ad infondati vizi procedurali, l'omessa o contraddittoria motivazione in ordine all'estensione della quietanza di pagamento a tutte le prestazioni effettuate e la violazione dei criteri ermeneutici a tal fine applicati dai giudici di merito.
Secondo gli Ermellini il primo profilo di doglianza risultava inammissibile per la mancata formulazione del momento di sintesi con indicazione del fatto controverso e del quesito di diritto, mentre in merito all'interpretazione delle convenzioni intervenute tra le parti, la Corte di legittimità affermava che la sentenza impugnata aveva opportunamente considerato le espressioni letterali usate, traendone l'univocità della dichiarazione del creditore ed escludendo qualsiasi dubbio in ordine al fatto che la somma indicata fosse stata corrisposta e riscossa a titolo di saldo finale delle prestazioni effettivamente realizzate (articolo ItaliaOggi Sette del 22.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla proroga del rapporto concessorio di impianto pubblicitario.
Il Collegio ritiene che nel caso di specie vi sia stata una proroga consensuale di fatto del rapporto concessorio, attraverso:
- il pagamento annuale dell’imposta di pubblicità,
- la prescritta dichiarazione di cui all’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993 e
- il correlativo comportamento tacito da parte del Comune (cfr. l’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993: “La dichiarazione della pubblicità annuale ha effetto anche per gli anni successivi, purché non si verifichino modificazioni degli elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare dell'imposta dovuta; tale pubblicità si intende prorogata con il pagamento della relativa imposta effettuato entro il 31 gennaio dell'anno di riferimento, sempre che non venga presentata denuncia di cessazione entro il medesimo termine”).

... per l'annullamento della nota prot. n. 35653 del 24.07.2014, con la quale il Dirigente del Settore 4° Programmazione Urbanistica del Comune di Lanciano ha comunicato alla società ricorrente il non accoglimento dell'istanza volta ad ottenere la voltura delle concessioni per gli impianti pubblicitari acquistate dalla soc. Vinciguerra Pubblicità ed il nulla osta per la sostituzione di tali impianti.
...
1.- Con il ricorso in epigrafe, la società ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Lanciano (Ch) ha rigettato l’istanza di voltura di alcune concessioni all’istallazione e mantenimento di impianti pubblicitari, presentata e acquisita agli atti in data 31.05.2014.
Secondo la motivazione del provvedimento impugnato, le concessioni non potevano essere volturate in favore dell’avente causa in quanto erano decadute per mancato rinnovo alla scadenza (che sarebbe fissata in 3 anni ai sensi dell’articolo 53, comma 6, del d.p.r. n. 595 del 1992, e la richiesta di rinnovo deve essere presentata 60 giorni prima ex articolo 7.7 del piano generale comunale degli impianti pubblicitari).
Il ricorrente evidenzia che, dopo aver acquisito il relativo ramo d’azienda dal precedente concessionario in data 23.07.2008, ha provveduto regolarmente al pagamento dell’imposta di pubblicità, alle dichiarazioni annuali e alle manutenzioni, senza che l’Amministrazione abbia mai eccepito la sopravvenuta estinzione del titolo concessorio.
Il Comune resistente, nel costituirsi, ha ribadito che il ricorrente non potrebbe aspirare alla voltura, essendo scaduto il termine di durata massima, ma potrebbe semmai richiedere nuove concessioni, al ricorrere dei presupposti.
2.- All’udienza del 14.05.2015 la causa è passata in decisione.
Il ricorso è fondato.
Conformemente a quanto già deciso con la sentenza n. 88 del 2015 di questo Tribunale in una controversia analoga tra la ricorrente ed il Comune di Vasto, il Collegio ritiene che nel caso di specie vi sia stata una proroga consensuale di fatto del rapporto concessorio, attraverso il pagamento annuale dell’imposta di pubblicità, la prescritta dichiarazione di cui all’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993 e il correlativo comportamento tacito da parte del Comune (cfr. l’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993: “La dichiarazione della pubblicità annuale ha effetto anche per gli anni successivi, purché non si verifichino modificazioni degli elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare dell'imposta dovuta; tale pubblicità si intende prorogata con il pagamento della relativa imposta effettuato entro il 31 gennaio dell'anno di riferimento, sempre che non venga presentata denuncia di cessazione entro il medesimo termine”).
Né il diniego di accoglimento della proroga ha i requisiti di sostanza e di forma di una motivata revoca espressa (cfr. Tar Pescara, sentenza n. 88 del 2015) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.05.2015 n. 232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa nuova direttiva 2014/24/UE sull'in house non può ritenersi self-executing.
La sesta sezione del Consiglio di Stato stabilisce, nella sentenza in commento, che
il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Su questo tema, pertanto, giudici di Palazzo Spada chiariscono che sulla nozione di ente pubblico ai fini della verifica del requisito del controllo analogo nell'ambito dell'istituto dell'in house.
La nuova direttiva 2014/24/UE, nonostante il suo contenuto in alcune parti dettagliato, non può ritenersi self-executing in quanto è ancora in corso il termine previsto per la sua attuazione da parte dello Stato.
----------------

Il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime "amministrativo" previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l'inclusione di quell'ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica.
Ne consegue è che è del tutto normale, per così dire "fisiologico", che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all'applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali. Emblematica, in tal senso, è la figura dell'organismo di diritto pubblico, che è equiparato sì all'ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è sottoposto alla disciplina amministrativa dell'evidenza pubblica), rimanendo, però, di regola, nello svolgimento di altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera secondo il diritto privato.
Pertanto, nel caso di specie, appurato che la nozione di ente pubblico cui si deve fare riferimento è funzionale e cangiante, allora, la circostanza che talvolta le Università private siano state ritenute enti pubblici dalla giurisprudenza (e trattate come tali ai fini della giurisdizione sulle controversie in materia di impiego o della giurisdizione della Corte dei conti) non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano sempre.
Non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano, per quanto più interessa in questa sede, anche quando si tratta di verificare la condizione, rilevante per configurare un rapporto in house, della partecipazione pubblica totalitaria. La nozione di ente pubblico che viene in rilievo ai fini della verifica del requisito del controllo analogo nell'ambito dell'istituto dell'in house è particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere la possibilità di equiparare all'ente pubblico qualsiasi soggetto che, a prescindere dai poteri, dai fini e dalla struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati. E questo è certamente il caso delle Università private.
L'art. 12, lett. c), della nuova direttiva 2014/24/UE ammette l'in house nonostante l'assenza della partecipazione pubblica totalitaria ritenendo l'istituto compatibile con "forme di partecipazione di capitali privati, che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata".
L'in house aperto ai privati previsto dal cit. articolo della nuova direttiva 2014/24/UE rappresenta non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza ancor più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario.
Peraltro, in forza dell'art. 12 della nuova direttiva appalti, le "forme di partecipazione di capitali privati" devono essere "prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati". Le previsioni contenute nella direttiva 2014/24/UE, comunque, non assumano rilievo nel presente giudizio. Deve escludersi che la nuova direttiva, nonostante il suo contenuto in alcune parti dettagliato, possa ritenersi self-executing per la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la sua attuazione da parte dello Stato.
Non si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della direttiva determini, prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.05.2015 n. 2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Più costi d'impresa per tenersi l'appalto. L'azienda può ridursi l'utile se l'offerta è anomala.
L'azienda ben può ridursi l'utile «in corsa» pur di non perdere l'appalto. In caso di offerta anomala, infatti, l'impresa che ha partecipato alla gara ben può introdurre un costo a suo carico nella proposta economica avanzata alla stazione appaltante: l'importante è che resti invariato il prezzo finale dell'opera o dei servizi.

È quanto emerge dalla sentenza 13.05.2015 n. 755, pubblicata dalla I Sez. del TAR Sardegna.
Totale fisso
Niente da fare per la società concorrente: non riesce a fare revocare l'aggiudicazione dell'appalto alla rivale: la gara è stata bandita dall'agenzia regionale per la protezione ambientale per il servizio di monitoraggio delle acque di transizione e doveva essere attribuita con il criterio del prezzo più basso. Non c'è violazione della par condicio né distorsione della concorrenza. Tanto meno eccesso di potere da parte dell'amministrazione.
E ciò perché non è affatto detto che nel procedimento di verifica dell'offerta anomala il concorrente non possa modificare la sua proposta economica: può invece senz'altro modificare la voci di costo; esattamente come accade nel nostro caso: nella gara la società introduce nella proposta altre analisi di laboratorio a suo carico, che evidentemente non aveva considerato, il tutto a danno del suo ritorno economico, perché il totale dell'offerta non cambia.
Né si può ritenere che via sia stato uno stravolgimento totale delle voci di costo.
Questione di qualificazione
Bocciata anche l'ulteriore censura del competitor sull'esternalizzazione delle attività: l'esclusione dalla gara, infatti, scatta soltanto quando il concorrente interessato risulta privo in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, mentre negli altri casi scaturiscono soltanto conseguenze nella fase esecutiva, con l'impossibilità di ricorrere concretamente al subappalto.
Insomma: ha fatto bene la stazione appaltante a chiudere con un giudizio di congruità il procedimento di verifica della congruità dell'offerta da parte dell'azienda che si è aggiudicata la gara. All'impresa perdente non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 25.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it)

TRIBUTI: P.a. causa di forza maggiore. Se ritarda i pagamenti, niente sanzioni ai creditori. Una sentenza della Ctr Torino sugli effetti dei comportamenti degli uffici pubblici.
Il contribuente non può essere sanzionato per il versamento tardivo di imposte e tasse se riesce a provare che la violazione è stata commessa per il ritardato pagamento dei suoi crediti da parte della pubblica amministrazione. Il deprecabile comportamento dell'amministrazione pubblica lo esonera dal pagamento delle sanzioni fiscali, poiché ciò può determinare un'assenza temporanea di liquidità che dà luogo alla violazione per causa di forza maggiore.

L'importante principio è stato affermato dalla commissione tributaria regionale di Torino, Sez. XXXIV, con la sentenza 13.05.2015 n. 526.
Per i giudici d'appello, purtroppo, «i ritardi nei pagamenti da parte della p.a. costituiscono una deprecabile ed incontestabile realtà a livello generale». Pertanto, considerato che la morosità della p.a. è stata documentata e provata dalla società contribuente, il ritardo nel pagamento delle imposte è giustificato dall'assenza temporanea di liquidità dipendente da «causa di forza maggiore», che porta a escludere l'irrogazione della sanzioni.
Si fa sempre più strada nella giurisprudenza la tesi che i contribuenti non devono essere sanzionati se si è in presenza di determinate situazioni che ostacolano il corretto adempimento degli obblighi tributari. Per esempio, la Commissione tributaria provinciale di Milano (sentenza 313/2008) ha stabilito che la malattia può dar luogo a una causa di forza maggiore, poiché impedisce il regolare svolgimento di un'attività lavorativa e può determinare difficoltà economiche e di liquidità.
E l'interessato non è sanzionabile se riesce a provare che non ha presentato la dichiarazione dei redditi e non ha pagato nei termini. Del resto l'articolo 6 del decreto legislativo 472/1997, che disciplina le cause di non punibilità, esonera dal pagamento delle sanzioni se la violazione viene commessa per «forza maggiore».
La norma però non chiarisce quando ricorre questa circostanza. Secondo la giurisprudenza costituiscono cause di esclusione delle sanzioni le difficoltà economiche momentanee, che possono dipendere da vari fattori: ritardi nei pagamenti dei crediti delle imprese da parte dell'amministrazione pubblica, mancanza momentanea di liquidità dovuta alla crisi economica, stato di malattia che impedisce il normale svolgimento dell'attività professionale o imprenditoriale.
Anche la commissione tributaria provinciale di Lodi, seconda sezione, con la sentenza n. 145/2014, ha stabilito che le sanzioni irrogate al contribuente vanno annullate «per difetto di colpa» dipendente dalle condizioni di salute di un familiare, che creano «un comprensibile disinteresse verso obblighi fiscali e tributari» (articolo ItaliaOggi Sette del 22.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Bonifico in ritardo, paga la banca. Se la richiesta è chiara, non è imputabile al cliente il mancato uso di termini tecnici.
Credito. Il caso della società che aveva disposto un pagamento rilevante con la data di valuta nello stesso giorno di esecuzione.
Il ritardo nell’esecuzione di un bonifico chiesto con valuta coincidente per il disponente e per il beneficiario è addebitabile alla banca che riceve l’ordine, se l’istituto omette l’inserimento dei codici previsti dalle specifiche tecniche contenute nella guida pubblicata dalla Banca d’Italia. In particolare, non è attribuibile al cliente la mancata indicazione della locuzione «valuta compensata», siccome costituisce linguaggio bancario che non può pretendersi conosciuto dallo stesso.
Sono le conclusioni cui perviene con l'articolata sentenza 08.04.2015 n. 4351 il TRIBUNALE di Milano.
La controversia vedeva contrapposte una società e due banche per i danni derivanti dal ritardo di un giorno di valuta nell’esecuzione di un bonifico dell’importo di oltre 3 milioni di euro.
La richiesta del cliente
Nel caso sottoposto alla decisione del tribunale meneghino, come emerge dalla documentazione istruttoria, la società attrice aveva preannunciato con una comunicazione del 13.03.2013 l’esecuzione di una serie di Bir (bonifico di importo rilevante). Dopodiché, il 17 giugno aveva disposto il bonifico in questione indicando chiaramente la medesima data sia quale valuta per l’ordinante sia quale valuta per il beneficiario.
Ciò nonostante il bonifico era stato eseguito presso la banca beneficiaria (quale tesoriera di un ente pubblico locale) con valuta del 18.03.2013 e cioè del giorno successivo all’ordine impartito.
La banca principale -cioè quella da cui era “partito” il bonifico- imperniava la propria difesa sulla circostanza della corretta richiesta alla banca beneficiaria di pari valuta, come indicato nell’ordine di bonifico. Chiamava quindi in causa la banca beneficiaria, domandando in via subordinata un concorso di colpa con la società ordinante, “colpevole” di non aver evidenziato la perentorietà del termine di scadenza e di aver atteso imprudentemente l’ultimo giorno utile per effettuare il versamento.
La banca beneficiaria ha eccepito invece l’esclusiva responsabilità della banca principale che non aveva osservato le specifiche tecniche della Banca d’Italia del dicembre 2006 con riguardo agli ordini di bonifico con «valuta compensata», ossia quei bonifici nei quali si attribuisce all’addebitamento e all’accreditamento la valuta del giorno in cui si dà corso all’operazione.
Dall’esame istruttorio, il giudice rileva che nella transazione la banca ordinante aveva omesso di indicare proprio i codici necessari a ottenere la «valuta compensata», diversamente dalla procedura consueta di valuta al beneficiario riportata al giorno lavorativo successivo. Peraltro, la stessa banca disponente si era mostrata edotta del fatto che, all’epoca di causa, la prassi bancaria era nel senso che «la banca accreditata era obbligata a riconoscere la stessa valuta del giorno dell’esecuzione alla banca di addebito, ma non era vincolata ad accreditare il proprio cliente con la medesima valuta», prassi venuta meno soltanto in seguito alle successive direttive europee sui servizi di pagamento.
L’indicazione nell’«ordine»
Ad avviso del tribunale, era onere della banca principale adottare quelle modalità che, nel rispetto dei codici interni al sistema bancario, avrebbero consentito di garantire identità di data valuta tra ordinante e beneficiario. E questo perché:
- la banca era a conoscenza della necessità di “bonificare” l’importo con valuta fissa;
- una volta appurato che il cliente ha dato indicato indicazioni chiare circa la data di valuta al beneficiario, non gli si può imputare di avere omesso indicazioni tecniche, quali la dizione «valuta compensata»: si tratta, infatti, di un’espressione che non può pretendersi fosse linguaggio conosciuto dal cliente.
Il che, tra l’altro, esclude ogni responsabilità della banca terza chiamata in causa
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sindaci con i condomini scippati del parcheggio.
Il Comune non può far finta di niente se i condomini si sentono «scippati» del loro parcheggio. L'ente locale deve emettere un provvedimento ad hoc in cui spiega se è compatibile o meno con le norme urbanistiche il progetto di trasformare in posteggio pubblico l'area dove i condomini lasciano da sempre le loro auto in sosta in virtù di un diritto d'uso. E ciò grazie alla legge Severino, che ha rafforzato gli obblighi di trasparenza dell'amministrazione escludendo che gli uffici possano serbare il silenzio in materia.

È quanto emerge dalla sentenza 05.02.2015 n. 852, pubblicata dalla Sez. III del TAR Campania-Napoli.
L'imprenditore che vuole aprire il parcheggio garantisce che rispetterà il diritto dei condomini a posteggiare nell'area. Ma non è questo il punto. L'amministrazione rilascia titoli abilitativi per il compimento di una determinata attività o per la realizzazione di una determinata con salvezza dei diritti dei terzi.
E dunque il provvedimento dell'amministrazione non può entrare nel merito di questioni civilistiche come la sussistenza della servitù in favore dei condomini. Nella Scia, però, nulla si dice sulla destinazione dell'area, mentre in passato il Comune ha bocciato un analogo progetto nella stessa area per incompatibilità della destinazione con le norme urbanistiche.
Ecco allora che i proprietari degli appartamenti diffidano lo sportello unico delle attività produttive a spiegare, stavolta in modo esplicito grazie alla legge 190/2012, perché adesso l'area può essere trasformata in posteggio pubblico. L'amministrazione paga le spese (articolo ItaliaOggi Sette del 22.06.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.
Gli istanti agiscono per far dichiarare l’illegittimità dell’inerzia del Comune di Torre Annunziata nell’esercizio di verifica e controllo sulla s.c.i.a. presentata dal signor G.B.G. in data 29.03.2011 avente ad oggetto l’attività di parcheggio pubblico a pagamento, nonché l’illegittimità del silenzio serbato sull’atto di diffida notificata allo stesso Comune in data 20.03.2014, al fine di sollecitare l’esercizio del detto potere di verifica e controllo, ritenendo lo svolgimento della cennata attività incompatibile con la servitù di passaggio nella loro titolarità, in quanto condomini del Parco Fusco sito al Corso Umberto I, n. 47/E (ex n. 61), per essere tale servitù attiva loro riconosciuta dai titoli d’acquisto dei singoli cespiti (cfr. copia dei rogiti notarili in atti).
Il Collegio osserva preliminarmente che,
a seguito della novella dell’art. 19 l.241/1990, avvenuta mediante l’aggiunta, ad opera del d.l. 138/2011, del comma 6-ter, il rimedio offerto dall’ordinamento a tutela delle ragioni del terzo rispetto ad una s.c.i.a., dalla quale detto terzo assuma di essere stato leso e che, però, si è consolidata per il mancato esercizio del potere inibitorio nel termine di legge (pari a 60 giorni dalla presentazione della segnalazione ai sensi del comma 3 dell’art. 19 l. n. 241/1990), è rappresentato dallo speciale procedimento di cui all’art. 31 c.p.a. (TAR Venezia, sez. II, 15.02.2013, n.230, Id., 12.04.2012 n. 519), con il quale il terzo, dopo aver sollecitato (come è avvenuto, nella vicenda in esame, con la diffida del 20.03.2014) l’esercizio del generale potere di vigilanza e di repressione degli illeciti ed eventualmente, nei limiti di cui all’art. 21-quinquies e all’art. 21-nonies della l.241/1990, del potere di autotutela, può richiedere che il giudice amministrativo sanzioni l’illegittimità dell’inerzia dell’Amministrazione.
Ciò comporta, ad avviso del Tribunale, l’affermazione, nella delineata fattispecie, del dovere dell’Amministrazione di dar corso al procedimento in presenza di una diffida del tenore di quella presentata dagli odierni ricorrenti, i quali hanno prospettato all’Autorità la lesione della loro sfera giuridica in relazione alla s.c.i.a. presentata dal B.G. 2011, e del correlativo dovere di concludere detto procedimento con un provvedimento espresso (dovere, quest’ultimo, divenuto particolarmente cogente in ragione della novella del 1° comma dell’art. 2 della l. 241/1990 ad opera della l. 190/2012).
Mette conto di precisare, tuttavia, i contenuti ai quali può avere riguardo il potere di vigilanza in parola o rectius di individuare il perimetro in cui esso può svolgersi, dal momento che l’estensione della servitù di passaggio e dell’asserito diritto d’uso, nonché le concrete modalità di godimento degli stessi, da parte dei predetti condomini, sull’area in proprietà degli eredi F. e condotta in locazione dal signor B.G., costituiscono aspetti di esclusivo rilievo civilistico e non possono costituire oggetto di accertamento e di intervento da parte dell’Amministrazione.
Quest’ultima, infatti, procede al rilascio dei titoli abilitativi per il compimento di una determinata attività o per la realizzazione di una determinata con salvezza dei diritti dei terzi
(peraltro, nel caso di specie, il signor B.G. ha dichiarato, all’atto della presentazione della s.c.i.a., di salvaguardare il “diritto di passaggio e di sosta a favore dei condomini del fabbricato sito al Corso Umberto I n. 47/6, già n. 61”; cfr. copia nella produzione dei ricorrenti, pag. 1).
In definitiva,
l’esercizio del potere di vigilanza (ed eventualmente del potere repressivo) da parte del Comune di Torre Annunziata, il cui esercizio è invocato dagli istanti, non può che riguardare, pertanto, il solo eventuale contrasto –questo, sì, rilevante sotto il profilo amministrativo– tra l’adibizione dell’area in questione all’attività di parcheggio e la destinazione urbanistico-edilizia dell’area, anche con riguardo a precedenti titoli rilasciati dall’Amministrazione involgenti il godimento di detta area (nel caso di specie, la licenza edilizia del 1973) e in considerazione del fatto che la medesima attività in relazione alla medesima area non era stata assentita nel 2006 (cfr. copia della determinazione n. 56 del 04.08.2006 di diniego della d.i.a. per attività di rimessa di veicoli nell’area a cielo aperto).
Alla luce dei rilievi esposti,
il ricorso va, pertanto, accolto limitatamente alla declaratoria dell’obbligo del Comune di Torre Annunziata di avviare il procedimento volto a verificare, mediante il compimento delle opportune attività istruttoria, la legittimità della situazione determinatasi a seguito della presentazione della s.c.i.a. da parte del B.G. per lo svolgimento dell’attività di parcheggio pubblico all’aperto sull’area, rispetto alla quale i ricorrenti godono di un diritto d’uso e di passaggio in virtù dei titoli di acquisto dei diversi cespiti immobiliari, nonché l’obbligo di concludere detto procedimento mediante l’adozione di un atto espresso, il quale –qualora assuma contenuto negativo rispetto alle aspettative dei ricorrenti– dovrà illustrare specificamente le ragioni della diversità della determinazione assunta, seppure in forma tacita (in ragione del mancato esercizio del potere inibitorio nella vicenda attualmente sottoposta all’esame del Collegio), sulla s.c.i.a. presentata dal sig. B.G. in data 29.03.2011 rispetto a quanto avvenuto con riguardo all’analoga s.c.i.a. presentata da altro soggetto, M.G., nel 2006 (cfr. i riferimenti contenuti nella citata determinazione n. 56/2006).

AGGIORNAMENTO AL 19.06.2015 (ore 17,20)

ã

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima la commistione dell’attività a tutela del paesaggio e quella della trattazione delle pratiche edilizie.
Il Comune ha provveduto all’istituzione del Servizio Autorizzazioni Paesaggistiche nell’ambito del Coordinamento Edilizia Privata: il che però non è sufficiente, perché è necessaria una distinzione formale tra uffici, non basta una distinzione di attività.
Infatti ai sensi dell’art. 146, comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Non è sufficiente dunque rilevare che stando agli ordini di servizio (n. 47/2011 del 01.06.2011) e dalla nota interna (07.06.2011) nessuno degli istruttori paesaggisti svolge, né ha svolto prima, attività istruttorie urbanistico-edilizie.
La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. [e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.] e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie costituzionale (a muovere da Corte cost., 24.07.1972, n. 141 e, ad es., a Corte cost., 23.11.2011, n. 309): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lgs. n. 42 del 2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico-scientifico sia la separazione organizzativa suddetta.

6. Va però precisata la fondatezza anche della censura d’appello che lamenta l’illegittimità della commistione dell’attività a tutela del paesaggio e quella della trattazione delle pratiche edilizie: il Comune di Verona ha provveduto all’istituzione del Servizio Autorizzazioni Paesaggistiche nell’ambito del Coordinamento Edilizia Privata: il che però non è sufficiente, perché è necessaria una distinzione formale tra uffici, non basta una distinzione di attività.
Infatti ai sensi dell’art. 146, comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Non è sufficiente dunque rilevare che stando agli ordini di servizio (n. 47/2011 del 01.06.2011) e dalla nota interna (07.06.2011) nessuno degli istruttori paesaggisti svolge, né ha svolto prima, attività istruttorie urbanistico-edilizie. La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. [e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.] e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie costituzionale (a muovere da Corte cost., 24.07.1972, n. 141 e, ad es., a Corte cost., 23.11.2011, n. 309): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lgs. n. 42 del 2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico-scientifico sia la separazione organizzativa suddetta
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.06.2015 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell’art. 146 del d.lgs. 42 del 2004 (che come è noto attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
---------------
Con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell’esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l’iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all’onere motivazionale sancito dall’art. 3 l. n. 241/1990.
---------------
L’autorità preposta alla tutela del vincolo, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell’opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un’ottica di leale collaborazione a precisare “quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale” potrebbe far conseguire all’interessata l’autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che “la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio”.

5.- Il ricorso è fondato nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.
5.a.- E’ controversa nel presente giudizio la legittimità della prescrizione apposta dall’Amministrazione comunale nel provvedimento di autorizzazione paesaggistica, relativa all’istanza di condono edilizio prot. 4375 del 30.06.1986, afferente all’immobile sito in Palinuro, Via Indipendenza n. 60.
Più specificamente, l’Amministrazione comunale ha rilasciato l’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. 22.01.2004 n. 42 ordinando al richiedente, in conformità al parere espresso dalla Soprintendenza per i BAP di Salerno ed Avellino, “di demolire l’ultimo livello mansardato che, sia per pendenza della falda che per altezza totale si pone come elemento dissonante nel contesto, di cui altera significativamente l’immagine”.
5.b.- Parte ricorrente ha impugnato sia il provvedimento del Comune di Centola chiedendone l’annullamento, nella parte in cui si limita a recepire acriticamente il parere negativo della Soprintendenza, sia quest’ultimo provvedimento, chiedendone l’annullamento per difetto di istruttoria e carenza di motivazione che, ad avviso del Collegio, colgono nel segno.
6.- Gioverà ricordare che la giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere che la tutela del paesaggio è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra tali contrapposti interessi che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare, nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto contemperamento nel rilasciare o denegare il necessario assenso al formarsi del titolo autorizzatorio secondo il modello procedimentale delineato nell’art. 146 del d.lgs. 42 del 2004 (che come è noto attribuisce oggi al Ministero dei beni e delle attività culturali, per il tramite delle locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva del vincolo paesaggistico, con la titolarità di penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in sede giurisdizionale, se non per illogicità manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza del provvedimento in rapporto alle sue finalità di protezione del territorio vincolato, ad evitare inammissibili sovrapposizioni del giudicante in ambiti che la legge ha voluto riservare alla amministrazione titolare del potere.
6.a.- Gioverà ancora ricordare che, con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.
6.b.- Come è stato adeguatamente osservato dalla giurisprudenza di merito, il parere in questione si caratterizza per l’esercizio di elevati margini di discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di valore su elementi per lo più estetici (ovvero la bellezza di un determinato contesto paesaggistico) che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di compatibilità paesaggistica si trasformi nell’esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta necessario fornire la più ampia e circostanziata motivazione, enunciando sia le premesse, che l’iter logico seguito nel percorso valutativo che si conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza sfugge all’onere motivazionale sancito dall’art. 3 l. n. 241/1990.
6.c.- Trasponendo le menzionate acquisizioni giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi che non appare agevolmente perspicuo il riferimento –contenuto nel sottostante parere della Soprintendenza ed acriticamente recepito dal Comune- alla asserita alterazione dell’immagine del contesto edificato da parte del piano mansardato dell’immobile, asseritamente rimasto immodificato rispetto all’originario impianto architettonico ed alla relativa altezza.
Nell’immobile in esame, le difformità oggetto di condono afferiscono, quanto al piano mansardato, al cambio di destinazione d’uso del piano sottotetto da deposito a sottotetto abitabile
L’immobile esistente su via Indipendenza è stato assentito nel passato verosimilmente in conformità alla vigente disciplina urbanistica e gli abusi realizzati ed oggetto di condono, non hanno alterato l’impianto plano altimetrico.
Quanto all’asserita dissonanza del piano mansardato “per altezza totale”, rispetto al contesto edificato, non appaiono peregrine le osservazioni di parte ricorrente che si duole della mancata considerazione (e della contestuale assenza di motivazione) rispetto agli edifici viciniori, dal momento che lo stesso sarebbe superato in altezza sia dall’hotel “La Conchiglia”, sia dall’Albergo “Santa Caterina”.
6.d.- Parimenti carente di motivazione deve stimarsi l’atto della Soprintendenza nella parte in cui l’interessato lamenta la mancanza di un apprezzamento concreto relativo alla compatibilità dell’immobile in questione con il vincolo paesaggistico.
Ed infatti, anche a voler prescindere dalla percezione estetica che dello stesso possa trarsi nell’attualità, in relazione alle condizioni di degrado in cui versa l’immobile, non appaiono infondate le censure con le quali l’interessato evidenzia che il contrasto, rilevato dalla Soprintendenza, dell’immobile con le bellezze paesaggistiche dei luoghi, genericamente individuate “in un quadro naturale di incomparabile bellezza godibile dalla costruenda strada per Marina di Camerota e in parte, verso il confine con il Comune di Pisciotta, dalla nuova strada Pisciotta Palinuro”, neppure persuade il Collegio in considerazione del fatto che –come riferito dall’interessato e non adeguatamente contestato- l’immobile trovasi nel centro abitato di Palinuro, fuori del percorso stradale richiamato.
6.e.- Fermo quanto sopra evidenziato, occorre aggiungere che, l’autorità preposta alla tutela del vincolo, oltre ad una puntuale individuazione del disvalore dell’opera con il contesto paesistico, è tenuta, in un’ottica di leale collaborazione a precisare “quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale” potrebbe far conseguire all’interessata l’autorizzazione paesaggistica, tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di proporre il recupero di un immobile ammalorato dal tempo e che “la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio” (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
In conclusione il rilevato vizio motivazionale sussiste e ridonda a vizio di legittimità del provvedimento comunale, per cui il ricorso è fondato e va accolto, nei limiti dell’interesse del ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 1261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISpetta al RUP stilare la relazione di valutazione dell’anomalia dell’offerta da trasmettere alla commissione di gara, la quale provvederà all’aggiudicazione provvisoria dei lavori.
---------------
In base all’Adunanza Plenaria n. 36 del 29.11.2012, anche nel regime anteriore all'entrata in vigore dell'art. 121 d.P.R. 05.10.2010 n. 207, è attribuita al responsabile del procedimento facoltà di scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice.
Con la conseguenza che è legittima la verifica di anomalia dell'offerta eseguita, anziché dalla commissione aggiudicatrice, direttamente dal responsabile unico del procedimento avvalendosi degli uffici e organismi tecnici della stazione appaltante.
---------------
La scelta di far espletare la verifica dell’anomalia alla commissione di gara o ad apposita commissione ex articolo 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 è rimessa alla piena discrezionalità del RUP al quale è affidata ai sensi dell’articolo 10 del d.lgs. n. 163 del 2006 “la gestione integrale della procedura di gara, svolgendo il ruolo di fornire alla stazione appaltante ogni elemento informativo idoneo a una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione committente”.

8.- E’ infondata e va respinta la censura di incompetenza del RUP ad effettuare la verifica dell’anomalia.
Come rilevato nella sentenza impugnata, il ruolo del RUP nella verifica dell’anomalia dell’offerta deriva dalla delibera del consiglio di amministrazione del CREAF del 04.11.2010 -tardivamente impugnata con i motivi aggiunti– che stabilisce testualmente <il RUP si attiva per richiedere all’impresa le giustificazioni dei prezzi offerti…il RUP verificherà la congruità dell’offerta alla luce della documentazione pervenuta..>, espressioni queste che lasciano poco spazio a dubbi sul ruolo assegnato al RUP nella suddetta procedura.
Sempre al RUP spetta, poi, stilare la relazione di valutazione dell’anomalia dell’offerta da trasmettere alla commissione di gara, la quale provvederà all’aggiudicazione provvisoria dei lavori.
Le operazioni di gara si sono svolte in aderenza a tali prescrizioni e della complessa attività istruttoria si dà conto nel verbale della commissione n. 94 del 21.03.2011.
Ne consegue l’infondatezza della censura.
8.1- Ugualmente infondata la censura di violazione dell’articolo 121 del d.p.r. n. 207 del 2010, atteso che, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, tale regolamento non era applicabile ratione temporis.
Infatti, il d.p.r. n. 207 del 2010 è entrato in vigore il 10.12.2011, dopo 180 giorni dalla pubblicazione sulla G.U. avvenuta il 09.06.2011, sicché in base al combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 253 del d.lgs. n. 163 del 2006, la fattispecie ricadeva nella disciplina del d.p.r. n. 554 del 1999 (il Regolamento in materia di lavori pubblici) il cui articolo 89, comma 4, con riferimento a lavori di importo inferiore al controvalore in euro di 5.000.000 di DSP, nei quali rientra l’appalto in questione del valore di euro 2.548.000.000, attribuiva la verifica della congruità delle offerte che presentassero carattere anormalmente basso, al responsabile del procedimento.
8.2- D’altro canto, in base all’Adunanza Plenaria n. 36 del 29.11.2012, anche nel regime anteriore all'entrata in vigore dell'art. 121 d.P.R. 05.10.2010 n. 207, è attribuita al responsabile del procedimento facoltà di scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice. Con la conseguenza che è legittima la verifica di anomalia dell'offerta eseguita, anziché dalla commissione aggiudicatrice, direttamente dal responsabile unico del procedimento avvalendosi degli uffici e organismi tecnici della stazione appaltante.
In conclusione, la scelta di far espletare la verifica dell’anomalia alla commissione di gara o ad apposita commissione ex articolo 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 è rimessa alla piena discrezionalità del RUP al quale è affidata ai sensi dell’articolo 10 del d.lgs. n. 163 del 2006 “la gestione integrale della procedura di gara, svolgendo il ruolo di fornire alla stazione appaltante ogni elemento informativo idoneo a una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione committente”.
8.2- Per le stesse ragioni su evidenziate è infondata è anche la censurata incompatibilità del RUP per potenziale conflitto di interessi.
Poiché è la legge ad attribuire al RUP il ruolo centrale nella verifica dell’anomalia dell’offerta, un potenziale conflitto di interessi è escluso a monte, non avendo il legislatore ravvisato l’incompatibilità del RUP -soggetto interno all’amministrazione– rispetto alla verifica dell’anomalia dell’offerta.
D’altra parte la verifica della congruità dell’offerta anomala e della sostenibilità della commessa è finalizzata alla tutela dell’amministrazione appaltante e, quindi, coerentemente è affidata al responsabile del procedimento, salve difficoltà tecniche di valutazione che ne consiglino l’affidamento ad una commissione appositamente costituita.
Situazione che, come detto, non ricorre nel caso in esame.
8.3- Infondate sono anche le censure dedotte avverso il giudizio di inaffidabilità dell’offerta espresso dal RUP.
Il procedimento di verifica dell’anomalia risulta, infatti, corretto sia formalmente che nella sostanza.
Esso è stato caratterizzato da una approfondita indagine voce per voce, con richieste di giustificazioni e audizioni dell’interessata e risulta adeguatamente motivato e supportato da specifici riferimenti ad elementi di dubbia congruità evidenziati anche nella sentenza impugnata.
D’altra parte essendo la valutazione di congruità dell’offerta un apprezzamento tecnico–discrezionale, essa è sindacabile solamente per manifesta irragionevolezza o travisamento dei fatti, che nella specie non risultano provati ma contestati con mere affermazioni inidonee a costituire elemento probatorio adeguato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2015 n. 2727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A tenore dell’art. 30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, “salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica del 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati”.
La disposizione sopra richiamata contempla una proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata in vigore (in data 22.06.2013).
Si tratta di una proroga ‘speciale’, legata alla peculiare fase congiunturale di crisi del settore edilizio, ai fini della quale, a differenza di quella ‘ordinaria’ ex art. 15 del d.p.r. n. 380/2001, l’interessato non deve presentare alcuna apposita istanza né fornire alcuna giustificazione né attendere un provvedimento di concessione.
Per ottenere il differimento in parola, è, infatti, sufficiente presentare una comunicazione, purché, al momento della stessa, i termini di inizio e di ultimazione dei lavori non siano ancora decorsi e i titoli abilitativi emessi non siano in contrasto con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.
E’ evidente, dunque, che –come plausibilmente sostenuto da parte ricorrente– il citato art. 30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, con riguardo ai termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata in vigore, ha introdotto una proroga operante in via automatica, in conseguenza della mera comunicazione all’uopo presentata dall’interessato, senza subordinarla al verificarsi di particolari circostanze (quali factum principis o vis maior) e senza statuire distinzioni tra lavori anteriormente non differiti e lavori anteriormente già differiti ai sensi dell’art. 15 del d.p.r. n. 380/2001.
E ciò, sia alla luce del tenore letterale della norma (“sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”), laddove non figura espressamente e non è, quindi, inferibile alcuna limitazione simile (‘ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus’), sia alla luce della ratio ad essa sottesa, che è quella di agevolare il completamento delle attività di cantiere avviate e, più in generale, di favorire il rilancio economico del settore edilizio.

7. Venendo ora a scrutinare il ricorso nel merito, esso si rivela fondato per le ragioni illustrate in appresso.
8. Innanzitutto, giova rammentare che, a tenore dell’art. 30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, “salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica del 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati”.
9. La disposizione sopra richiamata contempla una proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata in vigore (in data 22.06.2013).
Si tratta di una proroga ‘speciale’, legata alla peculiare fase congiunturale di crisi del settore edilizio, ai fini della quale, a differenza di quella ‘ordinaria’ ex art. 15 del d.p.r. n. 380/2001, l’interessato non deve presentare alcuna apposita istanza né fornire alcuna giustificazione né attendere un provvedimento di concessione.
Per ottenere il differimento in parola, è, infatti, sufficiente presentare una comunicazione, purché, al momento della stessa, i termini di inizio e di ultimazione dei lavori non siano ancora decorsi e i titoli abilitativi emessi non siano in contrasto con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.
E’ evidente, dunque, che –come plausibilmente sostenuto da parte ricorrente– il citato art. 30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, con riguardo ai termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata in vigore, ha introdotto una proroga operante in via automatica, in conseguenza della mera comunicazione all’uopo presentata dall’interessato, senza subordinarla al verificarsi di particolari circostanze (quali factum principis o vis maior) e senza statuire distinzioni tra lavori anteriormente non differiti e lavori anteriormente già differiti ai sensi dell’art. 15 del d.p.r. n. 380/2001.
E ciò, sia alla luce del tenore letterale della norma (“sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”), laddove non figura espressamente e non è, quindi, inferibile alcuna limitazione simile (‘ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus’), sia alla luce della ratio ad essa sottesa, che è quella di agevolare il completamento delle attività di cantiere avviate e, più in generale, di favorire il rilancio economico del settore edilizio.
10. Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi che il Comune di Benevento, sull’erroneo presupposto della improrogabilità del termine di ultimazione dei lavori (già differito al 06.11.2013) ai sensi dell’art. 30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, illegittimamente abbia dichiarato la decadenza dall’assegnazione del lotto n. 7 del comparto D del del p.i.p. Olivola e irrogato la sanzione pecuniaria di € 52.670,00.
Pertanto, il ricorso in epigrafe va accolto, con conseguente annullamento dell’impugnata determinazione dirigenziale n. 6 del 27.03.2014
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: E. Mori, Distanze per costruzioni, alberi, luci, vedute (2005 - tratto da www.mori.bz.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL. - La ricostruzione del fondo del salario accessorio e le economie di gestione ex art. 5 DPR 333/1990 (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.06.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALI: OGGETTO: forestazione; competenze professionali degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati. Legge 11.08.2014 n. 116, art. 1-bis comma 16 (COLLEGIO INTERPROVINCIALE DEGLI AGROTECNICI E DEGLI AGROTECNICI LAUREATI di Brescia, Bergamo, Como, Sondrio, Lecco, nota 26.05.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 19.06.2015 n. 140, suppl. ord. n. 32/L, "Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali" (D.L. 19.06.2015 n. 78).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 16.06.2015, "Commissari ad acta per il completamento della procedura di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3, della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio» - Estensione dei termini assegnati con d.g.r. 26.02.2015 n. X/3195" (deliberazione G.R. 12.06.2015 n. 3714).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 15.06.2015, "Approvazione della manifestazione di interesse per gli interventi di recupero e riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, in attuazione dell’art. 4 della legge n. 80/2014, ai sensi della d.g.r. 14.05.2015, n. 3577" (decreto D.U.O. 11.06.2015 n. 4832).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 15.06.2015, "Approvazione dei modelli dei documenti per la predisposizione della gara e di una convenzione tipo per l’attivazione di servizi di rimozione e smaltimento dell’amianto in matrice compatta proveniente da utenze domestiche nel territorio dei comuni della Lombardia ai sensi dell’art. 30 della l.r. 08.07.2014 n.19 ad integrazione della d.g.r. X 73494 del 30.04.2015" (decreto D.U.O. 03.06.2015 n. 4253).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Ramacci, Ambiente in genere. Prime osservazioni sull'introduzione dei delitti contro l'ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della legge 22.05.2015 n. 68 (06.06.2015 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: L. Dell'Osta, La pubblicità degli avvisi d’asta sui quotidiani e la discrezionalità del giudice dell’esecuzione (art. 490 c.p.c.) - NOTA A TAR EMILIA ROMAGNA, SEZ. I, SENTENZA 26.02.2015 N. 175 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il caso - 2. Le questioni di diritto all’esame del Tar - 3. La decisione. 3.1. L’esclusione della giurisdizione del giudice amministrativo - 3.2. L’interesse ad agire - 3.3. La giurisdizione del giudice ordinario - 4. Conclusioni - 5. La sentenza.

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI: Ai fini del legittimo conferimento degli incarichi esterni il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate non può essere derogato con affidamento diretto per incarichi al di sotto di una determinata soglia monetaria di spesa. L’eventuale difforme previsione regolamentare dell’ente deve essere oggetto di disapplicazione.
Con l’atto di conferimento di incarico esterno il funzionario che impegna la spesa deve accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica.
---------------
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”.
---------------

I presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
   a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge”;
   b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

   c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
   d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
   e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al d.lgs. 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore;

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati);
inoltre in sede di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009 convertito dalla legge n. 102/2009, ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare ed amministrativa.
---------------
L’obbligo di seguire procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in proposito è stato affermato che “il conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e non già in base alla sola valutazione di idoneità del prescelto”
.
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità e massima partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” ed ancora: “qualsivoglia pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un professionista esterno un incarico di collaborazione, di consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione del servizio".
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto modo di statuire che: “
il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in concreto posto la necessità dell’espletamento della procedura concorsuale, nella considerazione che un simile modus operandi, implicando il rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97”.
Pertanto,
il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico”
.
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una soglia individuata in valore monetario (o di un numero massimo di ore della prestazione richiesta al collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”, in particolare agli affidamenti in economia.
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa Sezione ha già avuto modo di affermare, esaminando un regolamento comunale che prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per incarichi eccedenti una determinata soglia monetaria, che una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come introdotto dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di conversione, a mente del quale “
Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di sotto delle quali le procedure comparative non sono necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “
Va aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui, quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato, salve circostanze del tutto particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.)”.
In proposito occorre evidenziare quindi che
non risulta compatibile con il vigente quadro normativo la disciplina prevista dal regolamento dell’ente camerale del 11.07.2008 (art. 7, lett. b), peraltro non oggetto di approvazione con deliberazione collegiale di questa Sezione, secondo cui sarebbe possibile procedere ad affidamenti senza procedura di comparazione per incarico di ammontare sino ad € 5.000,00, oltre IVA ed eventuali oneri obbligatori. Conseguentemente l’ente camerale avrebbe dovuto correttamente, previa disapplicazione della citata previsione regolamentare, provvedere ad individuare l’incaricato a seguito di procedura comparativa pubblica, in conformità con l’art. 7, comma 6-bis, d.lgs. n. 165/2001.

---------------
  
I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo complessivo superiore a cinquemila euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti controllati a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge dell’incarico conferito dalla Camera di Commercio occorre rammentare che
i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in tal senso, si richiama il parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione.
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge (Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008);
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al d.lgs. 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore;

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte parere 25.10.2013 n. 362); inoltre in sede di assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009 convertito dalla legge n. 102/2009, ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare ed amministrativa.
  
II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di legittimità per il conferimento dell’incarico occorre evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti con la nota pervenuta il 24.04.2015, solo con riferimento ad alcuni aspetti oggetto di rilievo risultano essere state fornite indicazioni o chiarimenti atti a giustificare sotto un profilo di regolarità e legittimità l’operato dell’amministrazione.
In particolare è stata fornita puntuale indicazione circa l’avvenuta pubblicazione dell’incarico conferito sul sito web dell’amministrazione e circa il rispetto dei limiti di spesa fissati dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010. Non adeguate risultano invece le giustificazioni inerenti l’affidamento dell’incarico in via diretta e l’accertamento preventivo della compatibilità con i vincoli finanziari del programma di spesa.
1. In primo luogo va rilevato che
l’obbligo di seguire procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in proposito è stato affermato che “il conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e non già in base alla sola valutazione di idoneità del prescelto (TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità e massima partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed ancora: “qualsivoglia pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un professionista esterno un incarico di collaborazione, di consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione del servizio” (TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte Conti sez. reg. contr. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37; parere 27.11.2012 n. 509 che ribadiscono i principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto modo di statuire che: “
il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in concreto posto la necessità dell’espletamento della procedura concorsuale, nella considerazione che un simile modus operandi, implicando il rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto,
il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico
(ex plurimis, parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una soglia individuata in valore monetario (o di un numero massimo di ore della prestazione richiesta al collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”, in particolare agli affidamenti in economia (Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37; Sez. contr. Prov. Trento, n. 2/2010 e n. 8/2010; cfr le recenti Sez. contr. reg. Piemonte parere 25.10.2013 n. 362; parere 19.12.2013 n. 421).
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa Sezione (
parere 20.12.2012 n. 5) ha già avuto modo di affermare, esaminando un regolamento comunale che prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per incarichi eccedenti una determinata soglia monetaria, che una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come introdotto dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di conversione, a mente del quale “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di sotto delle quali le procedure comparative non sono necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “
Va aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui, quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato, salve circostanze del tutto particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.) (cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)” (cfr. di recente sez. controllo Piemonte, parere 11.04.2014 n. 11).
In proposito occorre evidenziare quindi che
non risulta compatibile con il vigente quadro normativo la disciplina prevista dal regolamento dell’ente camerale del 11.07.2008 (art. 7, lett. b), peraltro non oggetto di approvazione con deliberazione collegiale di questa Sezione, secondo cui sarebbe possibile procedere ad affidamenti senza procedura di comparazione per incarico di ammontare sino ad € 5.000,00, oltre IVA ed eventuali oneri obbligatori. Conseguentemente l’ente camerale avrebbe dovuto correttamente, previa disapplicazione della citata previsione regolamentare, provvedere ad individuare l’incaricato a seguito di procedura comparativa pubblica, in conformità con l’art. 7, comma 6-bis, d.lgs. n. 165/2001.
In coerenza con quanto detto l’ente camerale nel conformarsi alla presente pronuncia dovrà, tra l’altro, procedere per il futuro alla immediata disapplicazione della citata disposizione regolamentare, fermo restando la doverosità di una modifica al testo regolamentare nella parte oggetto del segnalato contrasto con la disciplina legislativa come puntualmente interpretata dalla giurisprudenza contabile (cfr. Corte conti, sez. reg. contr., 11.04.2014, n. 76).
  
III. In secondo luogo l’atto di affidamento dell’incarico di consulenza è altresì in contrasto con il dettato normativo anche sotto il profilo della mancata verifica che il pagamento sia compatibile con i vincoli finanziari.
Al riguardo va richiamata
la previsione di cui all’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009 convertito dalla l. n. 102/2009, che pone in capo al funzionario che impegna una spesa l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica.
Si tratta di obbligo preventivo posto direttamente in capo al funzionario o dirigente che effettua l’impegno, di qualunque servizio o settore esso sia e che va fatto a prescindere dalle modalità di finanziamento della spesa, essendo funzionale innanzitutto ad una verifica di cassa circa l’effettiva sostenibilità del pagamento nei termini contrattualmente previsti e alla conformità dello stesso con il complesso dei vincoli vigenti.
Conseguentemente sotto tale profilo non è adeguata la risposta della Camera di Commercio che sul punto si è limitata ad affermare che in sede di bilancio di previsione sarebbero state stanziate risorse sufficienti risultando una somma di € 20.000,00, risultando assicurata unicamente la capienza del capitolo di bilancio.
La suddetta verifica preventiva è infatti essenzialmente un controllo inerente la cassa finalizzato ad assicurare l’effettività del pagamento nei tempi stabiliti, da effettuarsi operativamente mediante una programmazione dei flussi di cassa ed un successivo monitoraggio nel corso dell’anno delle disponibilità liquide, onde scongiurare ritardi anche con riferimento alle previsioni contenute nel d.lgs. n. 231/2002, modificato dal d.lgs. n. 192/2012, in tema di lotta al ritardo nei pagamenti delle transazioni commerciali.
Va infine rammentato che secondo l’espressa previsione di legge
in caso di inosservanza di tale obbligo, quale misura organizzativa per garantire il tempestivo pagamento delle somme dovute, il soggetto inadempiente può incorrere in responsabilità disciplinare ed amministrativa. L’atto di incarico dunque non risulta conforme al dettato normativo anche sotto tale profilo.
Alle rilevate irregolarità consegue l’obbligo della Camera di Commercio di conformare la propria azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla legge e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 08.06.2015 n. 98).

SEGRETARI COMUNALINel caso di convenzione di segreteria fra comuni tutti privi di personale con qualifica dirigenziale, è possibile attribuire al segretario comunale, ai sensi del citato art. 10, comma 2-bis, del d.l. n. 90/2014, quota dei diritti di rogito, a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato, in concreto, il segretario preposto.
La norma, infatti,
prevede e distingue due ipotesi legittimanti l’erogazione di quota dei proventi. La prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non ritiene rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il segretario preposto. La seconda, quella dei segretari che non hanno qualifica dirigenziale, in cui àncora l’attribuzione di quota dei diritti di rogito allo status professionale del segretario preposto, prescindendo dalla classe demografica del comune di assegnazione.
---------------
Il Sindaco del comune di Canneto Pavese, con nota del 03.03.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’attribuzione dei diritti di rogito al segretario comunale.
L’istanza precisa che presso il Comune presta servizio un segretario comunale, di fascia C, in convezione con i comuni di Castana e Montescano. Al medesimo è stato attribuito il c.d. galleggiamento al fine di equiparare la retribuzione di posizione a quella del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa, trattandosi di ente privo di dirigenti.
Il Comune istante chiede se, alla luce delle recenti normative, possano essere riconosciuti al segretario i diritti di rogito, rispettando il limite del quinto dello stipendio in godimento.
...
L’art. 10 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014, ha riformato la materia della corresponsione di diritti di rogito ai segretari comunali.
Il primo comma della disposizione abroga l’art. 41, comma 4, della legge n. 312/1908, che attribuiva ai segretari comunali e provinciali, che rogavano predeterminati atti (indicati ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge n. 604/1962), per conto dell’ente presso cui prestavano servizio, una quota del provento, spettante al comune o alla provincia, ai sensi dell'art. 30, comma 2, della legge n. 734/1973 (in misura pari al 75 per cento e fino ad un massimo di un terzo dello stipendio in godimento).
Il secondo comma dell’art. 10 del ridetto d.l. n. 90/2014 riformula il citato art. 30, secondo comma, della legge n. 734/1973, statuendo che “il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla provincia”.
Il comma 2-bis, oggetto dei dubbi posti dal comune istante, precisa, tuttavia, che “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento”.
Il comma 2-ter, infine, risolve problemi di diritto intertemporale, precisando che “le norme di cui al presente articolo non si applicano per le quote già maturate alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
La norma si inserisce in un contesto di razionalizzazione dei compensi accessori attribuiti al personale che presta servizio presso le pubbliche amministrazioni, sia in regime di diritto privato che di diritto pubblico, che permea parte del decreto legge n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014.
Circa la materia dei diritti di rogito ai segretari comunali e provinciali, la legge, dopo averne sancito la confluenza nel bilancio dell’ente di riferimento (commi 1 e 2), permette l’attribuzione di una quota del provento annuale previsto dall’art. 30, comma 2, della legge n. 734/1973, come modificato dallo stesso decreto legge n. 90/2014, in misura non superiore al quinto dello stipendio in godimento e per i soli segretari che prestano servizio in “enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale”, e comunque per quelli che “non hanno qualifica dirigenziale”.
Rinviando, per gli aspetti generali di analisi della nuova disciplina, alla deliberazione della Sezione n. 297/2014/PAR, si evidenzia come, nel
parere 29.10.2014 n. 275, la Sezione ha già messo in luce che, alla luce della formulazione letterale della norma, nel caso di convenzione di segreteria fra comuni tutti privi di personale con qualifica dirigenziale, è possibile attribuire, ai sensi del citato art. 10, comma 2-bis, del d.l. n. 90/2014, quota dei diritti di rogito, a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato, in concreto, il segretario preposto.
La norma, infatti, prevede e distingue due ipotesi legittimanti l’erogazione di quota dei proventi. La prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non ritiene rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il segretario preposto. La seconda, quella dei segretari che non hanno qualifica dirigenziale, in cui àncora l’attribuzione di quota dei diritti di rogito allo status professionale del segretario preposto, prescindendo dalla classe demografica del comune di assegnazione.
Nella fattispecie sottoposta all’odierno esame della Sezione (segretario di fascia professionale non equiparata a quella dirigenziale, che presta servizio, a mezzo convenzione, in comuni privi di dirigenti) non rileva l’istituto del “galleggiamento” previsto dall’art. 41, comma 5, del CCNL di comparto, stipulato il 16.05.2001, in base al quale l’indennità di posizione del segretario non deve essere “inferiore a quella stabilita per la posizione dirigenziale più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa”.
Nel caso in esame, infatti, il segretario comunale usufruisce di un’indennità parametrata a quella del funzionario incaricato della più elevata posizione organizzativa, non a quella dirigenziale, trattandosi di enti privi di dirigenti.
Appare pertanto ammissibile l’attribuzione, nei limiti previsti dalla legge, di quota parte dei diritti di rogito.
Analogo orientamento, in fattispecie similare, è stato assunto dalle Sezioni regionali per la Sicilia (deliberazione n. 194/2014/PAR) e per il Lazio (deliberazione n. 21/2015/PAR).
Non rileva, nel caso sottoposto all’odierno esame, la differente situazione del segretario collocato in fascia non equiparata a quella dirigenziale, che, prestando la sua opera in comuni aventi dirigenti in servizio, fruisce di un’indennità di posizione equiparata a quella del dirigente avente il trattamento economico più elevato in base al contratto collettivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.05.2015 n. 189).

APPALTI SERVIZIIl Collegio ritiene che la misura di cui all'art. 8, comma 8, lett. a), del d.l. 66/2014 (ndr: riduzione unilaterale del corrispettivo contrattuale del 5%) non sia applicabile ai contratti aventi ad oggetto il servizio di igiene urbana finanziati a tariffa.
Vale precisare che per eventuali altre prestazioni, eventualmente acquistate in concreto con il medesimo contratto e remunerate mediante l'erogazione di un corrispettivo diversamente convenuto fra le parti, l'esercizio di tale facoltà rimane impregiudicato e rimesso a quelle valutazioni discrezionali dell'amministrazione, che ordinariamente devono precedere la scelta di applicare la riduzione unilaterale autorizzata dalla norma esaminata.
Al riguardo,
è bene richiamare l'attenzione sull'impatto che la misura può avere in termini di riduzione della controprestazione acquistata e di eventuale recesso anticipato dell'altro contraente, conseguenze che richiedono l'accurata ponderazione caso per caso, in base ai contenuti dei singoli atti negoziali di acquisto di beni e servizi, della possibilità effettiva di rinegoziare un nuovo equilibrio sinallagmatico secondo canoni di convenienza economica e senza pregiudicare l'interesse pubblico da soddisfare.
Rientra, in altre parole, nella discrezionalità e responsabilità dell'amministrazione valutare “ex ante” la sostenibilità giuridica e la praticabilità concreta dell'operazione, onde neutralizzare i rischi di effetti indesiderati e sul piano finanziario contrastanti con gli stessi obiettivi cui la misura è finalizzata.
---------------
Con la nota citata in epigrafe, prodotta espressamente ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, il Sindaco del Comune di Sant’Oreste, per il tramite del Consiglio delle Autonomie locali del Lazio (CAL - Lazio), ha chiesto di conoscere il parere della Sezione in ordine all’applicabilità dell’art. 8, comma 8, lett. a), del d.l. 24.04.2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23.06.2014, n. 89, ai contratti concernenti il “settore dell’igiene urbana ed ambientale.
La riduzione unilaterale del 5% del corrispettivo pattuito, con facoltà di rinegoziare il contenuto contrattuale, contemplata dalla predetta norma quale misura specifica di concorso al perseguimento degli obiettivi programmati di riduzione della spesa di beni e servizi di cui ai commi 4-7, riguarderebbe -secondo quanto esplicitato in atti– il contratto in fase di stipula per l’affidamento, previa aggiudicazione definitiva perfezionatasi in data 03.06.2014, del “servizio di igiene urbana, servizi accessori e fornitura di attrezzature e materiali d’uso per la raccolta differenziata” in territorio comunale.
L’istante espone, a sostegno dei dubbi espressi, talune argomentazioni avanzate in dottrina e tendenti ad escludere i detti contratti dall’ambito applicativo della norma in argomento.
...
Nel merito, il Collegio ritiene che per risolvere la prospettata questione, in punto di diritto ed impregiudicata ogni valutazione rientrante nella discrezionalità dell’Amministrazione richiedente, non si possa prescindere dal rilevare come
la riduzione del corrispettivo contrattuale prevista dall’art. 8, comma 8 lett. a), del d.l. 66/2014 costituisca misura discrezionale, per tabulas finalizzata al conseguimento di obiettivi macroeconomici di abbattimento della spesa corrente e, specificamente, della componente individuata dalla stessa norma al comma 4 come destinata agli acquisti di beni e servizi, con conseguente recupero di maggiori margini di manovra finanziaria pubblica.
Si tratta di obiettivi cogenti anche per gli Enti Locali che sono chiamati a concorrervi pro-quota nella misura e con modalità all'uopo legislativamente fissate.
Ed in effetti, il successivo art. 47 configura un meccanismo preciso di riduzione delle risorse pubbliche destinabili alla copertura della spesa corrente dei detti Enti, che opera in modo differenziato in relazione alle peculiarità dei rispettivi rapporti finanziari con lo Stato e che per i Comuni si sostanzia in minori erogazioni a carico del fondo di solidarietà comunale.
In tale ambito, si inquadrano i tagli inerenti agli interventi sulla spesa corrente comunale per acquisti di beni e servizi, qualificati come risparmi di spesa non già per il bilancio del singolo ente interessato, bensì in una più ampia prospettiva di sostenibilità dei conti pubblici consolidati e quantificati in misura proporzionale alla spesa media sostenuta nell’ultimo triennio relativamente a voci classificate secondo i codici SIOPE elencati in apposita Tabella A, annessa al decreto legge ed ivi espressamente richiamata. Con le stesse modalità è specularmente individuata, ex art. 47, comma 9, la riduzione delle erogazioni spettanti a carico del fondo di solidarietà comunale.
L' elencazione delle voci di cui alla citata Tabella A è da ritenersi tassativa proprio perché finalizzata a concretizzare gli obblighi di compartecipazione dei singoli Comuni al conseguimento degli indicati obiettivi generali di finanza pubblica (in senso parzialmente contrario, cfr. Sez. regionale di controllo Lombardia deliberazione 24/2015/PAR). Si tratta, infatti, di un parametro normativo di calcolo che, ad avviso del Collegio, risponde a quelle esigenze di certezza alle quali vanno fisiologicamente improntati i rapporti finanziari fra Stato ed Enti Locali nel sistema di finanza pubblica allargata, anche per garantire la regolarità della pianificazione di bilancio rimessa all’autonomia comunale, esigenze che rimarrebbero frustrate ove il parametro stesso fosse considerato meramente indicativo.
In proposito, peraltro,
non si può omettere di osservare come, dagli ambiti di spesa in relazione ai quali individuare gli obiettivi obbligatori di risparmio ricadenti sui singoli Comuni sia stato espunto, per scelta legislativa operata in sede di conversione del d.l. 66/2014, proprio quello concernente i contratti di servizio per smaltimento rifiuti, contrassegnato dal codice SIOPE S1303, e come, perciò, tale voce di spesa non possa concorrere in alcun modo a determinare la base di calcolo delle riduzioni proporzionali di cui trattasi.
Ciò posto, occorre chiedersi se tali ambiti di spesa segnino con la stessa tassatività anche il perimetro dell'azione di contenimento contemplata dall'art. 8, comma 4, e così pure il limite dell'autorizzazione, strumentalmente ad essa correlata in modo espresso, ad esercitare la facoltà unilaterale di riduzione dell’importo contrattuale di cui al comma 8, lett. a), riconosciuta al contraente pubblico in deroga ai principi civilistici in tema di accordo, per finalità di salvaguardia degli equilibri di finanza pubblica.
Sul punto, il Collegio ritiene sussistenti argomentazioni di ordine letterale e sistematico che portano ad escludere tale ulteriore valenza dell’elencazione delle spese sopra richiamata.
Depone in questa direzione innanzitutto la lettera del comma 4, per la quale la riduzione della spesa di beni e servizi è testualmente riferibile ad “ogni settore”.
Sembrerebbe, poi, di difficile riconduzione a logica coerenza -in un contesto caratterizzato dal riconoscimento espresso di autonomia degli Enti interessati nella scelta di misure alternative di riduzione della spesa corrente (art. 47, comma 12)- ipotizzare preclusioni, a monte ed in astratto, proprio delle iniziative di risparmio autorizzate per indirizzare l’azione di contenimento nell'ambito degli acquisti di beni e servizi, cui il legislatore ha inteso riservare prioritaria attenzione per riqualificare la spesa corrente.
Per quanto sopra detto,
si ritiene non sostenibile la tesi per la quale l'esclusione dei contratti di appalto del servizio di igiene urbana dal novero di quelli per i quali è esercitabile la facoltà unilaterale di abbattimento dell’importo contrattuale deriverebbe indirettamente dalla sola mancata menzione dei medesimi nella tabella A di cui all’art. 47, comma 9, lett. a), primo alinea.
A tale conclusione si può, peraltro, pervenire per considerazioni diverse che attengono alla configurazione astratta della misura in termini di idoneità al conseguimento degli obiettivi di risparmio, come delineati dalle norme in esame.
Così concepita, infatti,
la misura per sua natura si attaglia ai contratti di tipo sinallagmatico caratterizzati dallo scambio tra la prestazione richiesta al contraente privato ed il pagamento, da parte del contraente pubblico, di un prezzo la cui riduzione sottende un minore esborso a carico del bilancio.
Solo con riguardo a questi contratti, tra l'altro, è possibile ipotizzare la rinegoziazione “iure privatorum” del contenuto contrattuale, con contrazione della controprestazione, contemplata espressamente dalla norma all’esame a fronte dell’esercizio della facoltà di riduzione del prezzo originariamente pattuito, anche con riferimento a contratti già in corso di esecuzione e limitatamente alla loro durata residua.
Esula da questo schema, viceversa, il servizio di igiene urbana che, secondo la pertinente normativa di settore, è obbligatoriamente finanziato con apposite entrate tariffarie, strutturalmente determinate sulla base della pianificazione analitica dei costi del servizio dedotta nel contratto di affidamento e di regolazione dei rapporti con il soggetto gerente.
L’abbattimento dell’importo contrattuale in queste fattispecie, pertanto, si rivelerebbe finanziariamente neutro per i conti pubblici in quanto dovrebbe essere compensato da una riduzione di corrispondente valore della tariffa gravante sui cittadini destinatari del servizio, effetto diverso dal risparmio di spesa di cui trattasi.
Esso, poi, non sarebbe non altrimenti conseguibile se non mediante la previa rideterminazione del piano economico-finanziario del servizio, alla quale la ridefinizione del regime tariffario, varata dall’ente interessato nell’esercizio di poteri pubblicistici, è strettamente correlata.

E ciò ne evidenzia la difficile compatibilità sul piano giuridico con la salvaguardia dell’originario affidamento, mantenendo l'erogazione di un servizio con caratteristiche corrispondenti a quelle convenute e senza esiti contenziosi.
Per le esposte ragioni,
il Collegio ritiene che la misura di cui all'art. 8, comma 8, lett. a), non sia applicabile ai contratti aventi ad oggetto il servizio di igiene urbana finanziati a tariffa, ferme comunque le esigenze di razionalizzazione dei costi a beneficio dell'utenza di cui l'ente locale è responsabilmente tenuto a farsi carico.
Vale precisare che per eventuali altre prestazioni, eventualmente acquistate in concreto con il medesimo contratto e remunerate mediante l'erogazione di un corrispettivo diversamente convenuto fra le parti, l'esercizio di tale facoltà rimane impregiudicato e rimesso a quelle valutazioni discrezionali dell'amministrazione, che ordinariamente devono precedere la scelta di applicare la riduzione unilaterale autorizzata dalla norma esaminata.
Al riguardo,
è bene richiamare l'attenzione sull'impatto che la misura può avere in termini di riduzione della controprestazione acquistata e di eventuale recesso anticipato dell'altro contraente, conseguenze che richiedono l'accurata ponderazione caso per caso, in base ai contenuti dei singoli atti negoziali di acquisto di beni e servizi, della possibilità effettiva di rinegoziare un nuovo equilibrio sinallagmatico secondo canoni di convenienza economica e senza pregiudicare l'interesse pubblico da soddisfare.
Rientra, in altre parole, nella discrezionalità e responsabilità dell'amministrazione valutare “ex ante” la sostenibilità giuridica e la praticabilità concreta dell'operazione, onde neutralizzare i rischi di effetti indesiderati e sul piano finanziario contrastanti con gli stessi obiettivi cui la misura è finalizzata (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 14.04.2015 n. 48).

INCARICHI PROFESSIONALICon parere 11.02.2009 n. 37 la Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame dei regolamenti trasmessi dai Comuni in materia di affidamento degli incarichi di collaborazione e delle consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività, la Sezione ha richiamato i propri precedenti pareri ed ha individuato i seguenti principi:
1)
la disciplina dettata dall’art. 3, commi da 54 a 57, della legge n. 244 del 2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione; la competenza ad adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a, del T.U.E.L.);
2)
l’art. 46 del decreto legge n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, ha unificato gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza (riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma), tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta (in particolare, questi presupposti distinguono dette ipotesi dalle collaborazioni “normali”, il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente);
3)
quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria”, questa Sezione ha già chiarito che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario, basato su conoscenze specifiche inerenti il tipo di attività professionale oggetto dell’incarico; la specializzazione richiesta, per essere “comprovata”, deve essere poi fatta oggetto di specifico accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curricula; e ciò perché il mero possesso formale di titoli non sempre è sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali (ma v. ora anche l’art. 11, commi 1, 2 e 4, del decreto legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014);
4)
il nuovo testo dell’art. 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (testo unico del pubblico impiego, da ora innanzi TUPI) richiede, come presupposti di legittimità, tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio; in particolare, quello della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge, oltre che previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42 del decreto legislativo n. 267 del 2000;
5)
il comma 3 dell’art. 46 del decreto legge n. 112 del 2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo; è pertanto necessario accertare, in sede di conferimento, l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6)
quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome, si richiamano inoltre le considerazioni contenute nel punto 6 del
parere 11.03.2008 n. 37 di questa Sezione sull’inapplicabilità della disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7)
il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura concorsuale, adeguatamente pubblicizzate; in proposito si è posto il problema della possibilità ed eventualmente dei limiti sussistenti all’affidamento diretto dell’incarico; in taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163 del 2006), tuttavia, la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri: deve invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi da esso solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio: a) procedura concorsuale andata deserta, b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale;
8)
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare: l’oggetto della prestazione, la durata, la modalità di determinazione del corrispettivo, i termini di pagamento, le verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo);
9)
in ogni caso, tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di incarico;
10)
nel regolamento deve essere espressamente precisato che le società partecipate debbono osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo dell’ente locale sulla relativa osservanza.

---------------
1.- L’art. 3 della legge 24.12.2007, n. 244, come modificato dall’art. 46, comma 3, decreto legge 25.06.2008, n. 112, e dalla relativa legge di conversione –nel dettare le regole alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione– al comma 56 stabilisce quanto segue: “
con il regolamento di cui all'articolo 89 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le tipologie di prestazioni. La violazione delle disposizioni regolamentari richiamate costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Il limite massimo della spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel bilancio preventivo degli enti territoriali”. Il successivo comma 57, poi, sancisce che “le disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro adozione”.
Questa Sezione ha individuato, con il
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224, i criteri interpretativi della normativa al fine di stabilire, nell’esame dei regolamenti pervenuti, parametri di verifica uniformi, nonché l’alveo giuridico in cui si colloca la funzione di controllo.
2.- Al riguardo, necessario punto di partenza è la considerazione di quella funzione delle Sezioni regionali della Corte dei conti rispetto agli enti locali che si sostanzia nell’esercizio di un controllo di natura “collaborativa”, nell'ambito del quale il legislatore, come ha riconosciuto la Corte costituzionale, è libero di assegnare qualsiasi competenza, purché vi sia un fondamento costituzionale rinvenibile in una lettura adeguatrice delle norme originariamente dettate per lo Stato, quali gli artt. 100, 81, 97 primo comma e 28 della Costituzione (cfr. le sentenze della Corte costituzionale nn. 179 del 2007 e 60 del 2013).
In questo quadro, l’obbligo di trasmissione alla Corte dei conti di atti e documenti, da parte degli enti locali, non può essere fine a se stesso, ma deve essere finalizzato allo svolgimento di specifiche funzioni, come messo in luce dalla Sezione in più occasioni (per tutte, la deliberazione n. 11 del 26.10.2006).
La trasmissione dei regolamenti deve ritenersi pertanto strumentale al loro esame e ad un’eventuale pronuncia della Sezione regionale. Questa forma di controllo, in particolare, è ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e regolarità, dovendosi assumere a parametro delle disposizioni regolamentari lo statuto dell’ente, i limiti normativi di settore (in particolare l’art. 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e l’art. 110 del decreto legislativo n. 267 del 2000), oltre ad ogni altra disposizione legislativa che contenga indicazioni, anche di natura finanziaria, riferite a questa materia (v. ancora la sentenza, prima richiamata, n. 60 del 2013).
Fissati i parametri di raffronto, occorre verificare quali siano gli effetti del controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale, ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti locali, ha ritenuto ascrivibili al riesame di legalità e regolarità le verifiche previste dall’art. 1, commi 166 e seguenti, della legge n. 166 del 2005; alla stessa maniera, come s’è prima visto, deve esser qualificato anche il controllo ex art. 3, comma 57, della legge n. 244 del 2007, che ha la caratteristica –in una prospettiva non più statica (come era il tradizionale controllo di legalità), ma dinamica– di finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo all’adozione di misure correttive (cfr. ancora la sentenza n. 60 del 2013).
Lo strumento per raggiungere siffatto risultato può essere individuato nell’applicazione dell’iter procedurale dettato dall’art. 1, comma 168, della legge n. 266 del 2005 (ora abrogato dall’art. 3 comma, 1-bis, del decreto legge n. 174 del 2012, convertito con legge n. 213 del 2013 e sostituito dal nuovo art. 148-bis del TUEL, introdotto dall’art. 3 del citato decreto legge n. 174 del 2012), norma che prevede specifiche pronunce da indirizzare all’ente controllato (cui spetta l’adozione delle necessarie misure correttive), nonché la vigilanza sull’effettiva adozione delle misure stesse (in tal senso, per tutte, v. la deliberazione di questa Sezione n. 294/2013/REG).
Con
parere 11.02.2009 n. 37 la Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame dei regolamenti trasmessi dai Comuni in materia di affidamento degli incarichi di collaborazione e delle consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività, la Sezione ha richiamato i propri precedenti  
parere 11.03.2008 n. 37 e parere 06.11.2008 n. 224 ed ha individuato i seguenti principi:
1)
la disciplina dettata dall’art. 3, commi da 54 a 57, della legge n. 244 del 2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione; la competenza ad adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a, del T.U.E.L.);
2)
l’art. 46 del decreto legge n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, ha unificato gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza (riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma), tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta (in particolare, questi presupposti distinguono dette ipotesi dalle collaborazioni “normali”, il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente);
3)
quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria”, questa Sezione ha già chiarito, con il
parere 12.05.2008 n. 28 e parere 12.05.2008 n. 29, che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario, basato su conoscenze specifiche inerenti il tipo di attività professionale oggetto dell’incarico; la specializzazione richiesta, per essere “comprovata”, deve essere poi fatta oggetto di specifico accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curricula; e ciò perché il mero possesso formale di titoli non sempre è sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali (ma v. ora anche l’art. 11, commi 1, 2 e 4, del decreto legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114 del 2014);
4)
il nuovo testo dell’art. 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (testo unico del pubblico impiego, da ora innanzi TUPI) richiede, come presupposti di legittimità, tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio; in particolare, quello della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge, oltre che previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42 del decreto legislativo n. 267 del 2000;
5)
il comma 3 dell’art. 46 del decreto legge n. 112 del 2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo; è pertanto necessario accertare, in sede di conferimento, l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6)
quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome, si richiamano inoltre le considerazioni contenute nel punto 6 del
parere 11.03.2008 n. 37 di questa Sezione sull’inapplicabilità della disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7)
il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura concorsuale, adeguatamente pubblicizzate; in proposito si è posto il problema della possibilità ed eventualmente dei limiti sussistenti all’affidamento diretto dell’incarico; in taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 163 del 2006), tuttavia, la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri: deve invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi da esso solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio: a) procedura concorsuale andata deserta, b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale;
8)
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare: l’oggetto della prestazione, la durata, la modalità di determinazione del corrispettivo, i termini di pagamento, le verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo);
9)
in ogni caso, tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di incarico;
10)
nel regolamento deve essere espressamente precisato che le società partecipate debbono osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo dell’ente locale sulla relativa osservanza.
3.- Con specifico riferimento alla previsione regolamentare esaminata nella presente deliberazione –il cui oggetto è definito dal deferimento disposto, di modo che resta impregiudicata ogni valutazione su altre disposizioni del medesimo regolamento ovvero su modifiche dello stesso medio tempore o successivamente intervenute– si deve rilevare che detta previsione si pone in contrasto con disposizioni sia costituzionali sia legislative.
3.1.- In primo luogo, al riguardo, la Sezione ricorda che l’art. 36, primo comma, della Costituzione stabilisce, con norma ritenuta direttamente precettiva ed imperativa nei rapporti fra le parti, che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (v., fra le molte, Corte di Cassazione, sezione lavoro, 17.01.2011, n. 896; 04.12.2013, n. 27138).
Nell’ambito dei rapporti di impiego, è dunque la prestazione dell’attività lavorativa, di per sé considerata, a fondare il diritto alla retribuzione, tanto che questa è dovuta anche laddove difetti una valida fattispecie contrattuale regolatrice dell’attività prestata, come espressamente previsto dall’art. 2126 del codice civile (secondo cui “la nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa”).
Al di fuori delle speciali normative legislative dettate per il c.d. “terzo settore” (v. in generale l’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 266 del 1991, che s’informa però ad un precipuo fine solidaristico non applicabile di per sé alla sfera dell’organizzazione amministrativa), dunque, la mera prestazione dell’attività legislativa impone, in ogni caso, l’erogazione del relativo compenso.
A ciò il regolamento dell’ente –quale fonte di autoorganizzazione, nell’ambito dell’autonomia, anche costituzionale, garantita all’ente– non può dunque derogare (esponendo peraltro l’ente, così facendo, al rischio d’esser convenuto ex post in giudizio dal prestatore di lavoro che chieda la dovuta retribuzione, in virtù del richiamato quadro normativo).
3.2.- In secondo luogo, un analogo contrasto con la disciplina legislativa vigente emerge con riferimento a quel carattere fiduciario, che, secondo l’ente, permetterebbe il conferimento diretto dell’incarico senza l'esperimento di procedure di selezione (art. 9, comma 2).
Atteso che l’art. 7, comma 6-bis, del T.U.P.I. è espressione dei principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità delle amministrazioni pubbliche –attraverso, appunto, la previsione della procedura concorsuale o comunque comparativa per l’affidamento di tali incarichi– se ne deve dedurre che, ferma restando la sua applicazione da parte di ogni soggetto pubblico destinatario della norma, vengano rimessi ai relativi ordinamenti le sole modalità delle procedure comparative medesime: la doverosa osservanza della norma primaria non consente, quindi, alcuna deroga, in riferimento al carattere fiduciario della prestazione, da parte degli ordinamenti delle singole amministrazioni tenute all’osservanza della disciplina dell’art. 7 T.U.P.I. (salvo, in generale, i casi prima visti).
Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti pubblici in questione di stabilire ad libitum, attraverso i propri statuti e regolamenti, categorie che, per quantità o qualità dell’incarico, sono sottratte alle procedure concorsuali, così svuotando di contenuto, tra l’altro, la stessa norma sul controllo (v. la deliberazione n. 294/2013/REG di questa Sezione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.03.2015 n. 150).

PATRIMONIO: L’obbligo gravante sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al quale competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine pubblico e sicurezza.

---------------
Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di Bitonto chiede di conoscere il parere di questa Sezione sulla possibilità di concedere a titolo gratuito alla Guardia di Finanza, con contratto di comodato e per un periodo di tempo determinato, una porzione di immobile appartenente al patrimonio del Comune per l’allocazione della relativa caserma.
L’ente ha specificato che tale porzione di immobile (il resto dell’immobile è adibito a sede del Corpo di Polizia municipale e ad Archivio comunale) è attualmente utilizzata dalla Guardia di Finanza in virtù di un contratto di locazione, stipulato nel 2003 per anni 6, tacitamente rinnovato ai sensi dell’art. 28 della legge n. 392/1978 (la scadenza è quindi prevista nel 2015), con canone annuo pari ad euro 13.999,92.
Il Comune ha evidenziato nella richiesta di parere che l’Amministrazione finanziaria ha posto come condizione per il mantenimento del suddetto presidio la stipulazione di un contratto di comodato, con eliminazione di ogni costo a titolo di canone locativo e che il mantenimento della caserma nel territorio comunale è di fondamentale importanza in relazione ai fenomeni di criminalità esistenti nel territorio stesso.
...
La questione posta dal Comune di Bitonto, in estrema sintesi, riguarda la possibilità di concedere gratuitamente alla Guardia di Finanza, a tempo determinato, previa stipulazione di un contratto di comodato gratuito, una parte di un immobile appartenente al patrimonio dell’ente per la allocazione della relativa caserma. Come già indicato in occasione della verifica della ammissibilità oggettiva del quesito proposto, considerato che la Corte dei conti non può esprimersi, neanche in via preventiva, su specifiche fattispecie, la questione sottoposta sarà affrontata solo in termini generali.
Questa Sezione esprimerà, quindi, il proprio avviso in merito al quesito proposto limitatamente ai principi e alle regole che l’ente potrà considerare, nell’esercizio della propria discrezionalità, per assumere le determinazioni di competenza.
Ciò premesso, occorre delineare, almeno brevemente, la disciplina vigente in materia di gestione del patrimonio immobiliare del Comune, con particolare riferimento alle modalità di utilizzazione del patrimonio e alla possibilità e alle modalità di utilizzazione dello stesso patrimonio per l’allocazione di presidi territoriali delle forze dell’ordine (es. Guardia di Finanza, Carabinieri, ecc.).
La gestione del patrimonio immobiliare pubblico è stata oggetto negli ultimi anni di numerosi interventi legislativi. Tali interventi sono stati tutti finalizzati a promuovere procedimenti di dismissione o valorizzazione. Analoga attenzione è stata riservata dal legislatore, sempre negli ultimi anni, al diverso tema della riduzione dei contratti di locazione passiva o almeno dei relativi canoni a carico di amministrazioni pubbliche.
In proposito, si evidenzia che, recentemente (Sez. contr. Lombardia parere 12.11.2014 n. 285),
è stato chiarito che la riduzione dei canoni, corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili ad uso istituzionale, imposta dall’art. 3, co. 4, del D.L. n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali (es. Comuni) proprietari.
Sul tema della gestione del patrimonio immobiliare e dei contratti di locazione attiva e passiva stipulati da amministrazioni pubbliche, la Corte dei conti, in numerose occasioni, tra l’altro, ha specificato che
la deroga al principio generale di redditività del bene pubblico può essere giustificata dalla assenza di scopo di lucro della attività svolta dal soggetto destinatario di tali beni (Sez. contr. Veneto
parere 05.10.2012 n. 716; Sez. contr. Lombardia parere 13.06.2011 n. 349 e parere 06.05.2014 n. 172).
Questa Sezione in passato (parere 25.07.2008 n. 23), proprio al Comune odierno richiedente, ha avuto modo di specificare che
la concessione in comodato di beni appartenenti al patrimonio disponibile del Comune ad altra amministrazione pubblica, per l’allocazione di uffici destinati alla erogazione diretta di servizi a favore della comunità insediata nel territorio, non è pregiudizievole per le finanze dell’ente, sia perché la proprietà del bene rimane all’ente, sia perché l’operazione è finalizzata alla tutela dell’interesse pubblico della comunità locale alla fruizione di un servizio, avvantaggiata dal mantenimento sul territorio degli uffici relativi.
Ancora prima,
in relazione alla questione della legittimità di costituire, a titolo gratuito, un diritto di superficie su un terreno comunale per la realizzazione di una caserma della Guardia di Finanza, questa Sezione (parere 11.10.2006 n. 3) aveva espresso un orientamento favorevole, sia per l’assenza di depauperamento del patrimonio comunale (anche dopo la costituzione di un diritto di superficie, il suolo rimane di proprietà comunale), sia per il preminente interesse pubblico ravvisabile nella sicurezza dei cittadini.
Non costituisce ostacolo ad analoga conclusione nel caso di specie l’orientamento espresso, ai sensi dell’art. 6, co. 4, del D.L. 174/2012, dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 09.06.2014 n. 16.
La Sezione delle Autonomie, con tale deliberazione, con riferimento alla diversa ipotesi di un contributo, a carico del bilancio comunale, per il pagamento ad un privato del canone di locazione della sede della stazione dell’Arma dei Carabinieri, pur considerando quanto disposto dall’art. 39 della legge n. 3/2003 e dall’art. 1, co. 439, della legge n. 296/2006, ha espresso l’avviso che
tale pagamento non è legittimo in quanto la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta intestata (art. 117, co. 2, lett. h), Cost.), in via esclusiva, allo Stato al quale spettano i relativi oneri finanziari.
Tra le motivazioni che hanno indotto la Sezione delle Autonomie a pervenire a tale conclusione
vi è l’obbligo per le amministrazioni statali, in base al combinato disposto di cui all’art. 2, co. 222, della legge 296/2006 e ai decreti legge n. 98/2011 e n. 201/2011, prima di reperire sul mercato immobili di proprietà privata, di accertare mediante l’Agenzia del Demanio l’esistenza di immobili di proprietà dello Stato (ma anche degli enti locali), idonei all’utilizzo richiesto.
Tutto ciò premesso,
l’obbligo gravante sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al quale, come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie nella citata
deliberazione 09.06.2014 n. 16, competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine pubblico e sicurezza (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 15.12.2014 n. 216).

PATRIMONIOAllo stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
---------------
Con la note sopra citate, il sindaco del comune di Broni (PV), richiede un parere sulla corretta interpretazione dell’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2005, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2005, n. 35 concernente la riduzione del canone dei contratti di locazione di immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali.
Si premette, a tal fine, che la Prefettura di Pavia, con distinte comunicazioni del 6 e del 27.08.2014 ha informato il comune di Broni che i canoni dei contratti di locazione delle caserme dei Vigili e del fuoco e dei Carabinieri, immobili di proprietà comunale, devono essere ridotti nella misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto in applicazione della disposizione di legge sopra richiamata.
Si riferisce al riguardo che la riduzione del canone di locazione comporterebbe una conseguente diminuzione delle entrate previste dal bilancio comunale, contraddicendo la ratio della cosiddetta spending review, che non sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a danno di un'altra articolazione della pubblica amministrazione.
Cita, in tal senso, il Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del 05.07.2012, ad oggetto: "Disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica", che, al punto D, in materia di razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzione dei costi per le locazioni passive, opera una netta distinzione fra gli immobili di proprietà di enti locali (per i quali, peraltro, deve esistere una condizione di reciprocità) e gli immobili, invece di proprietà di terzi, per i quali, e solo in quest'ultima ipotesi, sembrerebbe trovare applicazione la riduzione del canone in misura pari al 15 per cento.
...
L’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 35 dispone che “
ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto”.
La decorrenza del termine per la riduzione della misura del canone, originariamente fissata al 01.01.2015, è stata anticipata al 01.07.2014 per effetto delle modifica apportata dall’art. 24 del decreto legge 26.04.2014, n. 66, convertito dalla legge 23.06.2014, n. 89.
Lo stesso art. 3, comma 4, stabilisce quindi che “
la riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore”.
Ne risulta sancita una riduzione ex lege degli importi dovuti dalle amministrazioni pubbliche centrali per canoni di locazione di immobili adibiti ad uso istituzionale, che si inserisce nel più ampio contesto di una serie di misure dirette al contenimento dei costi per locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, previste dall’art. 3 del decreto legge n. 95/2012 ai successivi commi 5 e 6.
Il comma 7, nel testo riscritto dal citato decreto legge n. 66/2014, stabilisce poi che “
le previsioni cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili” con una conseguente estensione dell’ambito di applicazione soggettiva delle predette misure.
L’interpretazione letterale della disposizione sopra richiamata che impone la riduzione dei canoni, riferendosi genericamente ai contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni centrali, senza fornire ulteriori precisazioni, porta ad affermare che la riduzione in parola debba essere disposta anche nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato.
Si deve ritenere, infatti, che se la legge avesse voluto escludere queste ultime dall’applicazione della disposizione in esame lo avrebbe fatto in modo espresso, non diversamente da quanto stabilito dall’art. 1, comma 478, della legge 23.12.2005, n. 266 che, dettato dalle medesime esigenze di contenimento della spesa pubblica per locazioni passive, circoscriveva la riduzione del canone ai soli “contratti di locazione stipulati dalle amministrazioni dello Stato per proprie esigenze allocative con proprietari privati” .
Né tale supposta esclusione a favore del locatore pubblico risulta ricavabile in via interpretativa dai principi generali che regolano l’attività delle amministrazioni pubbliche.
Com’è noto le amministrazione pubbliche possono agire anche nelle forme del diritto privato e concludere contratti che, per quanto non diversamente disposto dalla legge, sono soggetti alla disciplina dettata dal codice civile e della legislazione privatistica.
La legge statale, come si è fatto cenno, è più volte intervenuta a regolare la materia delle locazioni della P.A., introducendo a favore del conduttore pubblico, come nel caso in esame, una serie di eccezioni alla disciplina codicistica, giustificate essenzialmente dall’esigenza di contenimento della spesa pubblica.
Analoghe eccezioni non sono viceversa ravvisabili a favore del locatore pubblico, per il quale, in particolare, non è dato rintracciare, nel vigente quadro normativo, una disposizione che lo escluda dalla riduzione richiesta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012.
Ne consegue, pertanto, che quest’ultimo disposto, a prescindere da ogni giudizio di legittimità costituzionale che non compete a questa Sezione in sede consultiva, debba trovare applicazione generalizzata nei confronti di tutti i locatori, quale che sia la natura pubblica o privata di questi.
Per la medesima ragione,
il locatore pubblico, che subisce la riduzione del canone, può esercitare il diritto di recesso dal contratto come espressamente consentito dalla stessa disposizione di legge.
Alla luce delle predette considerazioni si deve quindi concludere che,
allo stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.11.2014 n. 285).

QUESITI & PARERI

LAVORI PUBBLICI: L'armonizzazione contabile e il leasing finanziario.
DOMANDA:
Nel 2012 il Comune ha stipulato locazione finanziaria a seguito di procedura ad evidenza pubblica per la realizzazione di un nuovo polo scolastico, impegnandosi con l'intermediario finanziario al pagamento di un canone periodico a fronte del godimento del bene del quale acquisirà la proprietà al termine del periodo contrattuale. Alla consegna dell'opera la società di leasing comincerà ad incassare i canoni.
L'opera che doveva concludersi entro il 2014, per diverse problematiche non si concluderà prima di agosto 2015. L'operazione era stata impostata in base al c.d. metodo patrimoniale che, dando priorità agli aspetti giuridico-formali attinenti alla titolarità del bene in capo al soggetto finanziatore, determinava l'iscrizione delle spese per i canoni comprensive di quota capitale e quota interessi tra le spese correnti e l'iscrizione del bene nel conto del patrimonio dell'ente al momento dell'esercizio dell'opzione di riscatto.
In questo caso l'operazione non produceva effetti sui limiti di indebitamento ed incideva ai fini del patto di stabilità sul saldo di parte corrente per la quota impegnata annualmente per i canoni. Nel nuovo sistema di contabilità armonizzata, invece, il principio di competenza finanziaria potenziata impone la prevalenza della sostanza sulla forma e la considerazione del leasing finanziario come operazione di indebitamento per cui il debito va rilavato in bilancio per l'intero importo del finanziamento da iscrivere tra le accensioni di prestito con inevitabili conseguenze sul patto di stabilità.
Secondo il principio contabile 3.25 dell'allegato 4/2 al D.Lgs. 118/2011 il leasing finanziario ....è registrato secondo il metodo finanziario al fine di rilevare sostanzialmente che l'Ente si sta indebitando per acquisire un bene. Al momento della consegna del bene oggetto del contratto, si rileva il debito pari all'importo oggetto di finanziamento, da iscrivere tra le accensioni di prestiti, e si registra l'acquisizione del bene tra le spese di investimento.
Da ciò si evince l'incidenza oltre che sul limite di indebitamento, anche sul patto di stabilità per l'intero importo del debito. E' corretta questa interpretazione?
L'ultima parte del principio contabile 3.25 di cui sopra, recita ......I principi di cui al presente paragrafo si applicano a decorrere dal 01.01.2015, alle nuove operazioni di leasing.
In merito a quest'ultimo punto, poiché il Comune ha stipulato il contratto di leasing e il contratto di appalto nel 2012, può escludersi che venga considerata come nuova operazione di leasing, con la possibilità che, pur imputando in bilancio il valore dell'immobile acquisito in leasing finanziario per l'intero valore del bene, incida ai fini del patto di stabilità solo per la quota di canone annuo, ferma restando l'incidenza sulla capacità di indebitamento?
RISPOSTA:
Il quesito ha correttamente impostato la problematica del leasing finanziario secondo i nuovi principi rivenienti dall’ armonizzazione contabile. In sostanza e sinteticamente il leasing finanziario è registrato con le stesse scritture utilizzate per gli investimenti finanziati da indebitamento, con l’importo del finanziamento pari al valore attuale dei pagamenti dovuti per il leasing.
Pertanto i canoni periodici sono registrati distinguendo la parte interessi, da imputare tra le spese correnti, dalla parte capitale da imputare ai rimborsi prestiti.
Poiché nella parte conclusiva del Principio 3.25 viene stabilito che l’applicazione dello stesso, come sopra riportato, è riferita alle operazioni di leasing stipulate dopo l’01/01/2015 appare corretta l’interpretazione fornita nell’ ultima parte del quesito (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'ordinanza sindacale di ripristino ambientale.
DOMANDA:
Dovendo questo Comune eseguire in danno di un privato un'ordinanza sindacale di ripristino ambientale ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006 avente ad oggetto lavori finalizzati alla rimozione dei rifiuti e all'esecuzione delle opere connesse, nel rispetto delle previsioni dell'art. 192, comma 3, di importo quantificabile in circa 600.000 euro, si prospetta la seguente soluzione interpretativa.
I lavori non sono qualificabili come lavori pubblici in quanto non si tratta di un'opera pubblica ai sensi del D.Lgs. n. 267/2000 e 163/2006 e dunque afferenti la spesa in conto capitale, ma come opere da inserire nella parte corrente della spesa, seppure essendo lavori, in quanto spese necessarie per l'esecuzione di un provvedimento vincolato ex lege ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006 e privi della caratteristica di "lavoro pubblico" atteso che il D.Lgs. 152/2006 art. 192, comma 3, pone l'obbligo ripristinatorio a carico del comune solo nel caso di mancato adempimento del privato (come nel caso di specie).
Se è vera questa tesi, a quali obblighi di segnalazione il Comune è sottoposto, esempio comunicazioni ANAC, Osservatorio Regionale, ecc.?
RISPOSTA:
Laddove viene constatato un abbandono di rifiuti, l’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 Testo unico ambientale, prevede che, fatte salve le sanzioni comminabili dagli artt. 255 e 256 dello stesso testo, il responsabile dell’abbandono, se individuato, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali di godimento dell’area su cui è avvenuto l’abbandono, ai quali sia imputabile la violazione sia a titolo di dolo che di colpa, debbano provvedere alla rimozione dei rifiuti inviandoli allo smaltimento o al recupero, nonché al ripristino dello stato dei luoghi.
Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale l’ente locale procederà all’esecuzione in danno ai soggetti obbligati, con il recupero delle somme anticipate per le operazioni.
Prima di procedere all’emissione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 192 del T.U.A., è necessario inviare formale comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti destinatari del provvedimento, quindi al proprietario dell’area (o titolare di diritti reali o personali di godimento), dovendosi ritenere obbligatorie, nella materia specifica, le regole degli artt. 7 e 21-octies della Legge 241/1990 (TAR Lombardia Milano sez. IV 02.09.2009 n. 4598).
Se non si è individuato l’autore materiale della violazione, per gli altri soggetti (proprietario ecc.) indicati dall’art. 192 T.U.A. l’obbligo di provvedere nasce solo se a questi ultimi la violazione possa essere imputata a titolo di dolo o colpa. Sarà quindi necessario, sulla base di accertamenti esperibili dagli organi di controllo, capire se il proprietario, che non abbia abbandonato egli stesso il rifiuto, abbia almeno concorso materialmente o moralmente con l’autore della violazione (Cass. Pen. Sez. III 14.05.2007 n.16957).
La norma prefigura un'ordinanza di sgombero a carattere sanzionatorio, di cui è riprova il fatto che per la sua applicazione a carico dei soggetti obbligati in solido, è necessaria l'imputazione agli stessi a titolo di dolo o colpa del comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge. In caso di inottemperanza, le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla p.a. previa imputazione nella spesa corrente, potendo poi rivalersi sul soggetto responsabile, con recupero delle spese anticipate, anche mediante ingiunzione amministrativa, ex R.D. 14.04.1910, n. 639, oppure mediante il sistema di riscossione mediante concessionario (se ancora vigente nel Comune) o Equitalia s.p.a..
Chiunque non ottempera all'ordinanza del Sindaco, di cui all'articolo 192, comma 3, è punito (oltre che con sanzione pecuniaria) con la pena dell'arresto fino ad un anno, pertanto l’Ente Municipale deve procedere alla segnalazione di notizia di reato. I lavori di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi non sono qualificabili come lavori pubblici.
I lavori pubblici sono infatti l’attività finalizzata alla realizzazione dell’opera pubblica, che è caratterizzata da tre elementi: - natura pubblica del soggetto che realizza l’opera (elemento soggettivo); - natura immobiliare dell’opera da realizzare (elemento oggettivo); - finalità perseguita dall’amministrazione, ossia destinazione ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio o, più in generale, ad un pubblico fine (elemento teleologico).
Nel caso di cui all'art. 192 TUA, l'ente non realizza una nuova opera, da destinare ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, ma si limita a ripristinare lo status quo ante di luoghi che potrebbe anche essere di proprietà privata (per cui il pubblico fine è solo indiretto).
Inoltre lo fa soltanto in qualità di sostituto del soggetto che sarebbe giuridicamente tenuto, e nei cui confronti agirà per il recupero delle somme anticipate. Pertanto non si ritiene che abbia particolari obblighi di segnalazione (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Azienda pubblica di servizi alla persona. Nomina componenti Consiglio di Amministrazione.
Per quanto concerne la nomina dei componenti del Consiglio di Amministrazione di un'Azienda pubblica di servizi alla persona, si ritiene che le ipotesi di inconferibilità e incompatibilità di cui agli articoli 7 e 11 del d.lgs. 39/2013 siano riferibili ai soli componenti nominati dal Sindaco, nei casi in cui le norme prevedono espressamente che l'incarico sia conferito da un'amministrazione locale.
Qualora le norme rivestano carattere generale, quale la previsione di cui all'articolo 11, comma 3, lett. c), si ritiene trovino applicazione con riferimento a tutti i soggetti interessati, destinatari dell'incarico/carica, ponendo in risalto le singole soggettive condizioni, a prescindere dal fatto che esista, o meno, un soggetto deputato alla nomina.

L'Ente ha sottoposto allo scrivente Servizio alcune problematiche concernenti la nomina dei componenti il consiglio di amministrazione nell'ambito di due Aziende pubbliche di servizi alla persona.
In particolare, premesso che in entrambe le Aziende i componenti del consiglio di amministrazione sono nominati dal sindaco e da altri soggetti privati quali la parrocchia e i successori in linea diretta del fondatore, si è chiesto di conoscere se le norme vigenti in materia di incompatibilità e inconferibilità (l. 190/2012 e decreto attuativo 39/2013) si applichino solo alle nomine di competenza del sindaco o anche alle altre fattispecie. Analogo quesito è rivolto anche con riferimento alle cause di incompatibilità contemplate all'art. 7 della l.r. 19/2003.
Inoltre si è posta la questione, in considerazione della gratuità della carica in argomento, relativa alla legittimità della nomina di persona collocata in quiescenza, qualora effettuata per un solo anno, e del soggetto competente a rilevare la necessità di porre tale limite temporale (Sindaco che procede alla nomina o la stessa Azienda).
In via preliminare, si rappresenta che le osservazioni che seguono sono formulate in via collaborativa, non competendo allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine ai contenuti di norme statali, l'interpretazione delle quali resta attribuita agli uffici ministeriali a ciò deputati e, come nel caso delle norme di cui al d.lgs. 39/2013, all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) la quale, in base a quanto stabilito nel provvedimento del 14 gennaio 2015, «svolge un'attività consultiva in ordine ai problemi interpretativi e applicativi posti dalla legge n. 190/2012 e dai relativi decreti di attuazione», mediante la predisposizione di pareri od orientamenti sulle istanze presentate «da pubbliche amministrazioni ed enti di diritto privato in controllo pubblico».
Si osserva, a tal proposito, che l'ANAC
[1] ha precisato che le aziende pubbliche di servizi, dotate di personalità giuridica di diritto pubblico ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n. 207 del 2001, sono da considerarsi a tutti gli effetti ricomprese nell'ambito di applicazione della legge n. 190 del 2012.
Premesso un tanto, si evidenzia che la disciplina vigente, nello specifico il d.lgs. 39/2013, attuativo della legge 190/2012, enuclea ipotesi tassative e inderogabili che determinano la preclusione, permanente o temporanea, a conferire, nelle amministrazioni pubbliche, gli incarichi o le cariche contemplati nel medesimo decreto, a soggetti che versino in determinate condizioni (inconferibilità).
Parimenti il d.lgs. 39/2013 impone l'obbligo, per il soggetto cui viene conferito l'incarico/carica di scegliere, a pena di decadenza, tra la permanenza nell'incarico/carica medesimo e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche contemplati dal decreto medesimo (incompatibilità), al verificarsi delle indicate fattispecie.
Nella fattispecie in esame, si ritiene che le ipotesi di inconferibilità e incompatibilità di cui agli artt. 7 e 11 del d.lgs. 39/2013 siano riferibili ai soli componenti nominati dal Sindaco, nei casi in cui le norme prevedono espressamente che l'incarico sia conferito da un'amministrazione locale. Qualora le norme rivestano carattere generale, quale la previsione di cui all'articolo 11, comma 3, lettera c), si ritiene trovino applicazione con riferimento a tutti i soggetti interessati, destinatari dell'incarico/carica, ponendo in risalto le singole soggettive condizioni, a prescindere dal fatto che esista, o meno, un soggetto deputato alla nomina.
Le ipotesi di incompatibilità previste dall'art. 7 della l.r. 19/2003
[2] hanno carattere generale e operano indipendentemente dal soggetto dal quale proviene la nomina, quindi, nei casi prospettati, si applicano anche nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione che, in attuazione delle norme statutarie delle rispettive aziende, sono nominati dalla parrocchia o dai successori del fondatore.
Per quanto concerne altresì la nomina, nel Consiglio di amministrazione dell'Azienda, di soggetto collocato in quiescenza, si rappresenta quanto segue.
L'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dall'articolo 6 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, introduce il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di conferire alcune tipologie di incarico (o attribuire determinate cariche) a dipendenti collocati in quiescenza.
La circolare n. 6/2014 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha sottolineato che la richiamata disciplina ha lo scopo di vietare, oltre al conferimento di alcune fattispecie di incarichi, anche l'assunzione di cariche di governo, che consentono di svolgere ruoli rilevanti al vertice delle amministrazioni pubbliche.
Tra tali cariche -si è precisato- sono da annoverare quelle che comportano effettivamente poteri di governo, quali quelle di presidente, amministratore o componente del consiglio di amministrazione ed il divieto opera anche nel caso in cui la nomina sia preceduta dalla designazione da parte di un soggetto diverso dall'amministrazione nominante.
Dopo aver puntualmente definito l'ambito di applicazione oggettivo della nuova disciplina, il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha comunque rimarcato che la stessa contempla un'eccezione ai divieti imposti, prevedendo che incarichi e collaborazioni sono ad ogni buon conto consentiti a titolo gratuito
[3], con rimborso delle spese documentate, per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile.
Si ritiene pertanto che l'articolo 5, comma 9, del decreto-legge citato, ponendo il divieto di cui trattasi con riferimento alle pubbliche amministrazioni, sia applicabile alla fattispecie delle nomine effettuate dal Sindaco e non nel caso dei rappresentanti nominati dalla parrocchia e dai successori del fondatore.
---------------
[1] Cfr. FAQ in materia di Anticorruzione, consultabile sul sito: www.anticorruzione.it.
[2] L'art. 22, comma 1, del d.lgs. 39/2013 stabilisce peraltro che le disposizioni del medesimo decreto recano norme di attuazione degli articoli 54 e 97 della Costituzione e prevalgono sulle diverse disposizioni di legge regionale, in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e presso gli enti privati in controllo pubblico.
[3] Cfr. art. 6, comma 1, del d.l. 90/2014
(16.06.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Assessori, tetto a cinque. Necessario adeguarsi al parametro di legge. Nomina del sesto componente in un ente con oltre 11.600 abitanti.
Quesito
In un comune con popolazione superiore a 11.600 abitanti, è possibile nominare un sesto assessore –esterno e senza indennità– in forza della persistenza dell'articolo 47 del Tuoel n. 267/00?
Risposta
Nel caso di specie il Comune ha rinnovato i propri organi alle elezioni del 2014 ed ha proceduto all'elezione di 16 consiglieri come previsto dall'articolo 2, comma 184, della legge n. 191/2009 (legge finanziaria 2010) che ha ridotto del 20% la consistenza di tutti i consigli comunali.
Il citato art. 2, al comma 185, ha ridotto, per tutti i comuni, il numero massimo degli assessori ad un quarto dei consiglieri; inoltre, l'art. 11, comma 7, della legge n. 265/1999, confluito nell'art. 47 del Tuoel n. 267/2000, aveva modificato la disciplina dettata dalla legge n. 142/1990 in tema di composizione delle giunte, demandando allo statuto la determinazione del numero degli assessori sulla base di un nuovo sistema di calcolo ancorato all'entità numerica dei consiglieri, piuttosto che alla fascia demografica di appartenenza dell'ente locale, come previsto in precedenza.
Tali disposizioni sono state inoltre integrate dalla disciplina «transitoria» prevista dal comma 8, di immediata applicazione fino all'adozione di una specifica norma statutaria; inoltre, i nuovi parametri indicati dal comma 5 del richiamato art. 47, si sostituivano automaticamente alle disposizioni statutarie esistenti.
Nella fattispecie in esame, l'ente locale giustifica il mancato adeguamento statutario alla vigente normativa in materia di composizione della Giunta, adducendo che la norma finanziaria di riduzione del numero di assessori e l'articolo 47 del Tuoel opererebbero su piani diversi non incompatibili. In particolare, sostiene l'applicabilità del citato art. 47 in quanto la norma ivi contenuta non sarebbe stata espressamente abrogata nei termini previsti dall'art. 1, comma 4, del medesimo decreto legislativo. Il mancato adeguamento alle riduzioni disposte «dalla legge finanziaria» sarebbe, infatti, giustificato dalla lettera dell'articolo 4, comma 1, del Tuoel il quale dispone che le deroghe al citato decreto legislativo n. 267/2000 possono essere introdotte, ai sensi dell'art. 128 della Costituzione, solo mediante espressa modificazione delle sue disposizioni.
Tuttavia, le successive modificazioni, in particolare quelle di cui all'articolo 2, comma 185, della legge n. 191/2009, sono immediatamente precettive sia nell'accertata carenza della modifica espressa del Tuoel che in assenza dell'adeguamento statutario da parte dell'ente interessato.
In merito, con la circolare ministeriale n. 2379 del 16/02/2012, è stato chiarito che la determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni, rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato; pertanto le disposizioni statutarie, allorché incompatibili con intervenute modifiche normative, non trovano applicazione anche in relazione a quanto disposto dall'art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, per il quale «l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle province abroga le norme statutarie con essi incompatibili. I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette».
Pertanto, considerato che il dl 25/01/2010, n. 2, convertito con modificazioni nella legge 26/03/2010, n. 42 ha previsto che «le disposizioni di cui all'articolo 2, comma 185, della citata legge n. 191 del 2009, come modificato dal presente articolo, si applicano a decorrere dal 2010, e per tutti gli anni a seguire, ai singoli enti per i quali ha luogo il primo rinnovo del rispettivo consiglio, con efficacia dalla data del medesimo rinnovo», la norma statutaria del Comune in questione, che prevede un numero massimo di sei assessori, non può essere applicata, rendendosi necessario l'adeguamento al parametro di legge (articolo ItaliaOggi del 12.06.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione dei gruppi consiliari.
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'art. 38, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, è disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto'.
Le problematiche relative alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono, pertanto, essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
Se l'atto statutario o regolamentare comunale ha previsto un numero minimo di componenti un gruppo consiliare, il consigliere non potrà costituire un gruppo formato da un solo componente a meno che non si tratti del gruppo misto che può essere costituito anche da un solo amministratore.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla composizione dei gruppi consiliari. In particolare, riferisce che un consigliere, unico componente eletto di una lista che -unitamente ad altre due- appoggiava il candidato sindaco non eletto, vorrebbe costituire un gruppo consiliare a sé, formato da un solo componente e desidera sapere se ciò sia possibile.
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto', essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale e organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
In relazione alla questione posta, rileva il contenuto dell'articolo 27, comma 1, dello statuto comunale il quale recita: 'I consiglieri si costituiscono in gruppi composti, a norma di regolamento, da almeno due componenti -tranne che nei casi di un candidato alla carica di sindaco risultato eletto come consigliere, collegato ad una lista di candidati che non esprime alcun altro consigliere- e ne danno relativa comunicazione al Presidente del Consiglio comunale in forma scritta nel corso della prima adunanza del nuovo Consiglio comunale'.
Alla luce della norma statutaria si ritiene di dover fornire risposta negativa al quesito posto: infatti, la previsione dell'esistenza di un gruppo formato da un solo componente sussiste nel solo caso di candidato alla carica di sindaco, eletto come consigliere, collegato ad una lista che non abbia espresso alcun altro consigliere. Diversa è la situazione in cui versa il soggetto in esame, per la quale la norma statutaria pone il numero minimo di due consiglieri al fine della costituzione di un gruppo consiliare.
Resta, tuttavia, ferma la possibilità, per il consigliere in oggetto, di entrare a far parte del gruppo misto o di costituirlo, se non esistente, atteso che per lo stesso non è ammessa la fissazione di un limite numerico minimo.
Si osserva, al riguardo, che mentre la possibilità per l'ente locale di prevedere un numero minimo di componenti un gruppo consiliare rientra nell'autonomia allo stesso riconosciuta dall'articolo 38, comma 2, TUEL, a diversa logica soggiace invece il gruppo misto: si tratta, infatti, di un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento per il funzionamento del consiglio, e la cui costituzione non può essere subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti
(12.06.2015 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pareri negativi di regolarità tecnica e contabile. Conseguenze.
Se la Giunta o il Consiglio deliberano pur in presenza di un parere di regolarità tecnica e contabile con esito negativo, devono indicare nella deliberazione i motivi della scelta della quale assumono tutta la responsabilità.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito a quali conseguenze si verificano, in capo ai responsabili dei servizi, in caso di emissione, da parte loro, di pareri di regolarità tecnica e contabile sfavorevoli.
Più in particolare, riferisce che il consiglio comunale ha approvato lo schema di convenzione tra il Comune e una Jus-Comunella 'volta alla gestione di beni immobili contesi finalizzata alla messa in sicurezza ed all'attuazione di interventi di manutenzione straordinaria ed ordinaria'; la relativa deliberazione reca i pareri sfavorevoli di regolarità tecnica e contabile.
Atteso che alla convenzione già stipulata, consistente in una sorta di 'convenzione quadro', devono fare seguito ulteriori convenzioni attuative della stessa, in relazione ai singoli immobili, l'Ente desidera sapere se sui pareri di regolarità tecnica e contabile, che devono essere rilasciati in relazione alle proposte di deliberazione di approvazione degli schemi di convenzione attuativa, si rifletta il contenuto negativo dei pareri precedentemente espressi, anche in relazione all'eventuale responsabilità che verrebbe a gravare sui responsabili dei servizi deputati al loro rilascio.
In subordine, con riferimento alla questione concernente il riparto di competenze tra gli organi comunali, l'Ente chiede se le deliberazioni con cui si devono approvare gli schemi di convenzione attuativa siano di competenza del consiglio comunale o della giunta.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'articolo 49 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), al comma 1, prevede che: 'Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione'.
Il comma 4 del medesimo articolo dispone, poi, che: 'Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione'.
[1]
Infine, si consideri il disposto di cui al comma 3 dell'articolo 49 TUEL, ai sensi del quale il responsabile del servizio interessato e/o quello di ragioneria 'rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi'. La norma, ponendo delle specifiche responsabilità in capo ai responsabili dei servizi interessati per l'attività svolta, presuppone che la stessa sia ad essi imputabile, nel senso che il contenuto dei pareri, favorevole o contrario che esso sia, deve basarsi su motivazioni tecnico/contabili a prescindere dalle valutazioni politiche.
Con riferimento specifico al parere di regolarità contabile, l'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, istituito presso il Ministero dell'Interno, nell'adottare i principi contabili degli enti locali,
[2] ha stabilito che 'Il parere di regolarità contabile è obbligatorio e può essere favorevole o non favorevole; in quest'ultimo caso deve essere indicata una idonea motivazione. Se la Giunta o il Consiglio deliberano pur in presenza di un parere di regolarità contabile con esito negativo, devono indicare nella deliberazione i motivi della scelta della quale assumono tutta la responsabilità'. [3] [4]
Con riferimento al caso di specie, in relazione alle proposte di deliberazione di approvazione degli schemi di convenzione attuativa, si ritiene che i responsabili degli uffici dovranno esprimere il proprio parere di regolarità, il contenuto del quale pare non debba essere in ogni caso condizionato da quello espresso in precedenza. Non può escludersi, infatti, l'ipotesi che il contenuto di una singola convenzione attuativa sia tale da far ritenere superate le ragioni che avevano portato all'espressione di pareri sfavorevoli in relazione alla cd 'convenzione madre'.
Tuttavia, si ritiene che, nell'invarianza delle condizioni che avevano condotto all'emanazione di un parere sfavorevole, quest'ultimo dovrà essere ripetuto anche in occasione delle successive proposte di deliberazione.
Quanto alla responsabilità eventualmente gravante sui responsabili degli uffici tenuti ad esprimere i pareri, si ribadisce quanto sopra già affermato secondo cui se l'organo politico delibera in presenza di un parere sfavorevole, sarà lo stesso ad assumersene tutte le responsabilità.
[5]
Passando a trattare della seconda questione posta, inerente l'individuazione dell'organo competente all'approvazione dello schema delle convenzioni attuative, si osserva che l'articolo 48, comma 2, del D.Lgs. 267/2000 stabilisce che 'la giunta compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio [...]'.
Trattandosi di convenzioni attuative di decisioni precedentemente assunte dall'organo consiliare, quale organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, si ritiene che, in via generale, le stesse possano essere adottate dall'organo giuntale. Tuttavia non può escludersi, atteso il variegato contenuto delle stesse, che si debbano assumere deliberazioni afferenti l'approvazione di convenzioni attuative i cui contenuti potrebbero rientrare in determinate voci di cui all'articolo 42 TUEL, con conseguente competenza del consiglio comunale alla loro assunzione.
---------------
[1] Si segnala che l'articolo citato è stato così sostituito dall'articolo 3, comma 1, lett. b), del D.L. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213. In particolare, per ciò che rileva in questa sede, si osserva che la novella ha inserito il comma 4, non presente nella versione originaria dell'articolo 49 TUEL.
[2] 'Finalità e postulati dei principi contabili degli enti locali', Testo approvato dall'Osservatorio il 12.03.2008.
[3] Si tratta del punto 73 del Principio contabile n 2.
[4] Al riguardo si riportano le considerazioni di certa dottrina (L. Oliveri, 'I pareri contrari non si riverberano solo sugli organi di governo politico - Delibere, responsabilità a 360 gradi', in Italia Oggi, del 22.03.2013, pag. 34) la quale ha rilevato come: 'L'articolo 49 citato non lo afferma espressamente, ma dovrebbe risultare chiaro che le controdeduzioni di giunta e consiglio dovrebbero essere simmetriche a quelle dei pareri e, dunque, riguardare gli aspetti tecnici e contabili. È facile, tuttavia, immaginare che organi politico-amministrativi cadano nella tentazione di esprimere il loro diverso avviso rispetto ai pareri, basandosi su ragioni non tecniche ma «politiche» di opportunità'.
[5] In questo senso si veda il parere dell'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, del 05-06.06.2003, il quale, benché risalente a data antecedente la nuova formulazione dell'articolo 49 TUEL, afferma che 'il parere è obbligatorio e può essere favorevole o non favorevole; in quest'ultimo caso deve essere indicata anche una idonea motivazione. Tuttavia, pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità contabile non è vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità. Così si è espresso anche il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, con sentenza n. 680 del 25.05.1998'
(09.06.2015 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIOOpere protettive in corrispondenza dei cavalcavia autostradali: spettanza degli oneri manutentivi (parere 09.04.2015 n. 172688/89 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

PATRIMONIOSulla gestione del demanio marittimo (parere 27.02.2015 n. 100167/196 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

URBANISTICAApplicabilità di misure di salvaguardia di assetto idrogeologico in mancanza di approvazione di una generale attività di pianificazione (parere 24.02.2015 n. 93026 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: L’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali da parte dei componenti degli organi di indirizzo politico delle p.A. (parere 20.02.2015 n. 86746 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

ATTI AMMINISTRATIVIOnere di pagamento del contributo unificato in caso di soccombenza reciproca nel giudizio (parere 12.02.2015 n. 70211 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2015).

APPALTI FORNITURE: DL 95/2012 e acquisto di carburanti.
Per l'approvvigionamento dei beni appartenenti alle categorie contemplate dall'articolo 1, comma 7 del DL 95/2012, in alternativa all'utilizzo delle convenzioni Consip gli enti locali possono:
- svolgere proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili da Consip o da centrali di committenza regionali (attualmente non presenti in Regione);
- esperire autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla legge.

Il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di aderire ad una convenzione Consip per l'acquisto di carburanti sussista anche qualora sia documentabile l'antieconomicità dell'utilizzo di detto strumento, atteso che il distributore più vicino, del gestore convenzionato, risulta ubicato a parecchi chilometri dalla sede comunale e, conseguentemente, il rifornimento comporterebbe spese di carburante e per il personale conducente tali da rendere maggiormente competitivo un qualsiasi distributore posto in prossimità della sede dell'ente instante.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di questa Direzione centrale e premesso che lo scrivente Ufficio si esprime unicamente in termini generali relativamente all'applicazione di norme, si formulano le seguenti osservazioni.
Come già esplicitato dallo scrivente Ufficio nel parere prot. 1077, dd. 14.01.2013, cui si rimanda, l'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento per le pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia.
Tale comma 7
[1], infatti, prevede che la fornitura dei predetti beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti sopra indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale caso, i contratti devono essere sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip o delle centrali regionali di committenza che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, del D.L. 95/2012 stabilisce che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa i contratti stipulati in violazione di quanto previsto dal comma 7.
In conclusione, per l'approvvigionamento dei beni appartenenti alle categorie contemplate dalla norma, in alternativa all'utilizzo delle convenzioni Consip gli enti possono:
- svolgere proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili da Consip o da centrali di committenza regionali (attualmente non presenti in Regione);
- esperire autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla legge.
---------------
[1] Come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 151, della l. 228/2012 (Legge di stabilità)
(28.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE: Acquisti in economia di energia elettrica e gas.
Per l'approvvigionamento delle categorie di beni contemplate dall'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 (energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia), gli enti possono esperire autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla legge.
Non pare, però, possibile utilizzare in tali circostanze le procedure in economia in quanto, ai sensi dell'art. 125 del D.Lgs. 163/2006, le stesse, individuate nell'amministrazione diretta e nel cottimo fiduciario, prevedono modalità semplificate di affidamento rispetto alle procedure ad evidenza pubblica richieste dalla legge.

L'Ente afferma di avere recentemente affidato ad una ditta la fornitura di gas naturale e di energia elettrica per un anno, per un importo inferiore a 40.000 euro, in base al proprio regolamento per gli acquisti in economia e dopo avere constatato che la ditta aveva applicato un 'ribasso unico maggiore rispetto ai prezzi fissati dalla Convenzione Consip'.
Con riferimento a quanto previsto dall'art. 1, commi 7 e 8, del decreto legge 06.07.2012, n. 95
[1], l'Ente chiede di sapere se la procedura utilizzata possa ritenersi corretta.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di questa Direzione centrale e premesso che questo Ufficio può solo esprimere considerazioni di ordine generale in merito all'applicazione delle norme, si formulano le seguenti osservazioni.
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento per le pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia.
Ivi si richiede che la fornitura di tali beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti sopra indicati.
La legge di conversione ha introdotto, come alternativa, la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale caso, i contratti dovranno essere sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip o delle centrali regionali di committenza che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, del D.L. 95/2012 stabilisce che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa i contratti stipulati in violazione di quanto previsto dal comma 7.
Per l'approvvigionamento delle categorie di beni contemplate dalla norma, gli enti possono, perciò, esperire autonome procedure ad evidenza pubblica
[2] in cui i corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla legge.
Per quanto riguarda la possibilità di utilizzare le procedure in economia per gli acquisti di tali categorie di beni, anche se con il beneficio di condizioni migliorative rispetto a quelle offerte dalle convenzioni di cui all'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012, si osserva che, ai sensi dell'art. 125 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), tali procedure, individuate nell'amministrazione diretta e nel cottimo fiduciario
[3], prevedono modalità semplificate di affidamento rispetto alle procedure ad evidenza pubblica.
Infatti, il cottimo fiduciario di cui al citato art. 125, 'procedura negoziata in cui le acquisizioni avvengono mediante affidamenti a terzi' (comma 4), nel caso di forniture o servizi di importo pari o superiore a quarantamila euro, deve avvenire nel 'rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici' (comma 11, primo periodo).
Come rilevato dalla giurisprudenza, «Siamo quindi in presenza di una procedura negoziata la quale, pur procedimentalizzata, non richiede tuttavia il necessario rispetto dello specifico assetto disciplinare predisposto dal Codice dei contratti pubblici per le procedure aperte e ristrette, com'è peraltro reso evidente dal richiamo al rispetto dei 'principi', cioè dei contenuti valoristici sostanziali della trasparenza, parità di trattamento ecc. senza tuttavia il necessario ossequio di tutti i passaggi procedurali in cui tali principi si inverano nelle procedure concorsuali ordinarie.»
[4].
Si ritiene che tali considerazioni valgano tanto più nell'ipotesi di cottimo fiduciario diretto, prevista dall'ultimo periodo del comma 11 dell'art. 125 del Codice dei contratti, secondo cui 'Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento'.
Atteso che, allo stato, si sono rinvenute solamente pronunce che sottolineano la diversità delle regole alla base delle procedure in economia rispetto a quelle ad evidenza pubblica e, quindi, la non assimilabilità tra le stesse
[5], si ritiene che l'applicabilità delle norme sugli acquisti in economia in relazione alle categorie merceologiche in esame potrebbe essere sostenuta soltanto nel caso in cui fosse fatta propria dal legislatore o dalla giurisprudenza una interpretazione estensiva del concetto di 'procedure ad evidenza pubblica', di cui all'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2011.
---------------
[1] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135.
[2] L'evidenza pubblica è un procedimento caratterizzato da una sequenza di fasi volte, da una parte, a garantire la legittima e corretta formazione della volontà contrattuale pubblica e, dall'altra, attraverso la trasparenza delle fasi (e in particolare di quella relativa alla scelta del contraente) ad assicurare la concorrenzialità della procedura.
Secondo la ripartizione classica, le procedure ad evidenza pubblica si compongono di cinque fasi: determinazione a contrarre, scelta del contraente, aggiudicazione, stipulazione ed approvazione del contratto (v. 'Manuale di diritto amministrativo', Elio Casetta, 2001, Giuffrè, pagg. 517 e ss. e 'Manuale di diritto amministrativo', Francesco Caringella, 2011, Dike, pagg. 1385-1386).
La procedura dell'evidenza pubblica prevede particolari modalità di scelta del contraente, funzionalizzate al perseguimento dell'obiettivo della trasparenza, l'individuazione della modalità selettiva è effettuata con il bando che costituisce la lex specialis della procedura: le più rilevanti forme selettive contemplate dal codice dei contratti pubblici sono le procedure aperte, le procedure ristrette (entrambe utilizzabili in via generale) e le procedure negoziate (che possono avere luogo in ipotesi eccezionali e residuali).
[3] Il cottimo fiduciario, la procedura che nel caso in esame riveste maggiore interesse, si sostanzia nel fatto che l'ufficio competente stabilisce direttamente, sotto la sua responsabilità, accordi con ditte di fiducia, senza che necessiti esperire una gara per la scelta del cottimista e senza che occorra per il perfezionamento del contratto la sua approvazione (v. 'servizi e forniture in economia nel codice dei contatti', Dauno F.G. Trebastoni, relazione presentata al convegno su 'La gestione delle forniture alla luce del nuovo codice degli appalti', organizzato a S. Alessio Siculo (Me) il 27.10.2006, dall'Associazione Regionale Economi Provveditorati Siciliani).
[4] Così, TAR Toscana, Firenze, sez. I, 11.09.2008, n. 1989 e 04.05.2012, n. 868.
[5] V. Tar Bari Puglia, 05.10.2009, n. 2348; Tar Toscana Firenze, sez. I, 22.12.2009, n. 3988, ove si afferma che: 'Non sono applicabili alle procedure in economia e, in particolare, al cottimo fiduciario, le norme del Codice dei contratti pubblici. Il cottimo fiduciario è una procedura negoziata la quale, ancorché procedimentalizzata, non esige l'osservanza di tutte le regole tipiche dell'evidenza pubblica'.
Sussistono opinioni dottrinali che sembrano, invece, ammettere l'inclusione all'interno degli affidamenti ad evidenza pubblica anche delle procedure negoziate, come quella del cottimo fiduciario, se attuate nel rispetto concreto dei principi di trasparenza e pubblicità.
L'Anci, nel parere dd. 13.12.2012, ha ritenuto che anche una procedura negoziata, quale quella del cottimo fiduciario, possa essere considerata ad evidenza pubblica, purché per essa sia prevista la pubblicazione del bando di gara, con esclusione pertanto dei casi di affidamento diretto.
Secondo alcuni autori, inoltre, il 'cottimo fiduciario' fa parte del sistema in economia solo nominalmente: per sostanza giuridica esso sarebbe integralmente un pubblico appalto (nel senso comunitario del termine), di valore inferiore alla soglia comunitaria, come tale affidabile in modalità semplificata, purché nel rispetto dei principio di trasparenza (cfr. 'Le procedure in economia', Alessandro Massari, 2012, Maggioli Editore, pag. 25)
(14.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

APPALTI: Appalti, ok dal Senato alla legge delega. Tutte le novità.
Pagamento diretto dei subappaltatori, divieto di attribuire compiti di responsabilità dei lavori al contraente generale, dibattito pubblico sulle grandi opere di impatto ambientale.

Con 184 sì, due no e 42 astensioni, l'Aula del Senato ha approvato il disegno di legge per la riforma degli appalti, recante delega al Governo per l'attuazione della direttiva 2014/23/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, della direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2014/25/UE sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE.
Il ddl (Atto Senato n. 1678), che ora passa all'esame della Camera, era stato licenziato il 3 giugno scorso dalla commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama, con parecchie modifiche rispetto al testo iniziale. (continua ...) (18.06.2015 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: Appalti pubblici senza deroghe. Non si ripeteranno più casi come quelli di Expo e del G8. Atteso per oggi l'ok in prima lettura del ddl delega che recepisce le direttive europee.
Mai più deroghe per appalti pubblici. Rafforzati ulteriormente i poteri di Anac che potrà anche bloccare gare in corso. Divieto di affidamento della direzione lavori al contraente generale. Limiti all'appalto integrato. Commissari di gara scelti da un albo gestito dall'Anac. Qualificazione sui criteri reputazionali delle imprese.

Sono questi alcuni dei contenuti del testo del disegno di legge delega (Atto Senato n. 1678) per il recepimento delle nuove direttive appalti pubblici e per la riforma del codice dei contratti pubblici che il senato sta discutendo con l'obiettivo di arrivare oggi all'ok in prima lettura.
Il provvedimento, che è molto diverso da quello approvato dal governo a fine agosto 2014, contiene più di sessanta criteri di delega, messi a punto in commissione lavori pubblici, che guideranno entro binari molto stretti il lavoro del legislatore delegato. La principale novità del testo del senato, di cui sono relatori Stefano Esposito e Lionello Pagnoncelli, è l'espresso divieto di deroghe alle procedure che verranno inserite nel nuovo codice appalti.
In sostanza esperienze come il G8, l'Expo 2015 e i Grandi eventi di qualche anno fa non potranno più ripetersi. In particolare, il senato ha chiarito che le uniche possibilità di eccezione (e quindi di affidamenti in deroga) saranno contemplate soltanto in ragione di urgenze determinate da calamità naturali, ma sempre con una adeguata pubblicità degli affidamenti disposti in regime di emergenza.
Un altro elemento portante del disegno di legge delega è costituito dal rafforzamento dei poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione che potrà emanare provvedimenti vincolanti, procedere all'annullamento della gara in caso di problemi legati a reati contro la pubblica amministrazione, predisporre linee guida e contratti tipo utilizzabili dalle stazioni appaltanti.
Altre rilevanti novità sono quelle legate all'istituzione di un albo dei commissari di gara presso l'Anac, obbligatorio per tutte le stazioni appaltanti con scelta dei commissari a sorteggio e la qualificazione degli operatori economici anche attraverso l'introduzione di criteri reputazionali che, al di là dei diversi parametri di capacità tecnica e economica, andranno a vedere anche come si è comportato l'operatore economico nel recente passato.
Altro punto molto «caldo» anche alla luce degli scandali degli ultimi mesi e dell'insuccesso della legge Obiettivo è il tema degli affidamenti a contraente generale con la previsione del divieto di affidamento della direzione lavori al contraente generale e la creazione di un albo nazionale dei responsabili dei lavori, dei direttori dei lavori e dei collaudatori dei lavori affidati al contraente generale, gestito dal ministero delle infrastrutture che segnalerà alle amministrazioni una rosa di candidati (almeno il triplo) da scegliere poi con sorteggio pubblico.
Dal testo emerge poi una particolare attenzione alla fase progettuale, con una sostanziale limitazione dell'appalto integrato che sarà utilizzabile per opere in cui vi sia una presenza di lavori o componenti caratterizzati da notevole contenuto innovativo o tecnologico, superiore al 70% del valore dell'appalto; inoltre la delega prevede che in via generale si appalti con a base di gara il progetto esecutivo.
Una particolare attenzione viene poi riservata alla necessità di scegliere l'affidatario sulla base della qualità dell'offerta: gli appalti dovranno infatti essere aggiudicati con il criterio dell'Oepv (offerta economicamente più vantaggiosa), che rappresenterà la regola generale e il legislatore delegato dovrà definire in quali residuali casi si potrà utilizzare il prezzo più basso.
Per le concessioni di servizi pubblici e di lavori pubblici (comprese quelle autostradali) non affidate con gara dovrebbe essere previsto l'obbligo di gara per gli affidamenti a terzi di lavori, forniture e servizi connessi alla concessione.
Si danno indicazioni anche in relazione all'accesso alle gare da parte delle piccole e medie imprese (ribadito il divieto di mega lotti) e miglioramento delle condizioni di accesso al mercato dei servizi di architettura e ingegneria e degli altri servizi professionali dell'area tecnica, per i piccoli e medi operatori economici e per i giovani professionisti, anche tramite divieto di aggregazione artificiosa degli appalti (articolo ItaliaOggi del 18.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGOPaternità, congedi sdoppiati.
Genitori più tutelati negli studi professionali. Il rinnovo del Ccnl, infatti, introduce la facoltà ai lavoratori dipendenti di fruire il congedo parentale a ore per l'assistenza dei propri figli e disciplina i due nuovi congedi di «paternità» a favore, cioè, soltanto dei papà: uno obbligatorio, l'altro facoltativo.
Tutela della maternità e della paternità.
Il nuovo Ccnl modifica in parte la vigente disciplina in materia di tutela della maternità. In via di principio, la lavoratrice è tenuta a presentare al datore di lavoro il certificato di gravidanza, rilasciato in tre copie, due delle quali vanno appunto prodotte (dalla lavoratrice) la prima al datore di lavoro e la seconda all'istituto assicuratore (Inps). Nel certificato sono riportate le seguenti informazioni:
a) le generalità della lavoratrice (sulla base delle dichiarazioni della lavoratrice, che ne risponde della veridicità);
b) l'indicazione del datore di lavoro e della sede dove l'interessata presta il proprio lavoro, delle mansioni alle quali è addetta (sulla base delle dichiarazioni della lavoratrice, che ne risponde della veridicità);
c) il mese di gestazione alla data della visita;
d) la data presunta del parto.
Al rilascio del certificato medico sono abilitati gli ufficiali sanitari, i medici condotti, i medici Inps e quelli del servizio sanitario nazionale; tuttavia, qualora i certificati siano redatti da altri medici, diversi da quelli menzionati, datore di lavoro o Inps (che ne ricevono copia), possono accettarli ugualmente o richiedere la regolarizzazione alla lavoratrice. Il datore di lavoro è tenuto a rilasciare alla lavoratrice la ricevuta dei certificati e di ogni altra documentazione prodotta dalla lavoratrice stessa. Il datore di lavoro è altresì tenuto a conservare le predette certificazioni a disposizione della direzione territoriali del lavoro e dell'Inps per tutto il periodo in cui la lavoratrice è soggetta alla tutela della legge.
Una volta partorito, la lavoratrice è tenuta a presentare entro 30 (trenta) giorni il relativo certificato attestante la data del parto.
I nuovi congedi per i papà. Due le nuove opportunità di congedo per i neo-papà, una obbligatoria e l'altra facoltativa (si veda tabella). In primo luogo, il padre lavoratore dipendente, entro i 5 (cinque) mesi dalla nascita del figlio, ha l'obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di 1 (un) giorno. Tale congedo obbligatorio di 1 (un giorno) è fruibile dal padre anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice, in aggiunta a esso. Il giorno di congedo obbligatorio è riconosciuto anche al padre che fruisce del congedo di paternità (ai sensi dell'art. 28 del dlgs n. 151/2001), ossia in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo al padre.
In secondo luogo, il padre lavoratore dipendente, entro i 5 (cinque) mesi dalla nascita del figlio, può astenersi per un ulteriore periodo di 1 (uno) o 2 (due) giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. In relazione a entrambi i predetti congedi il padre comunica in forma scritta al datore di lavoro i giorni in cui intende fruirne, con un anticipo non minore di quindici giorni, ove possibile in relazione all'evento nascita, sulla base della data presunta del parto.
La forma scritta della comunicazione può essere sostituita dall'utilizzo, ove presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze. Il datore di lavoro comunica all'Inps le giornate di congedo fruite, attraverso i canali telematici messi a disposizione dall'Istituto medesimo. Nel caso di congedo facoltativo, il padre lavoratore allega alla richiesta una dichiarazione della madre di non fruizione del congedo di maternità a lei spettante per un numero di giorni equivalente a quello fruito dal padre, con conseguente riduzione del congedo medesimo. La predetta documentazione dovrà essere trasmessa anche al datore di lavoro della madre. Attenzione; i due nuovi congedi non possono essere frazionati a ore.
---------------
Occhio di riguardo per i genitori.
Il rinnovo del Ccnl disciplina la possibilità per i lavoratori di fruire del congedo parentale a ore. In particolare, ai fini di conciliare i tempi di lavoro e quelli familiari, dà attuazione alla disposizione di cui al dlgs n. 151/2001 (Tu maternità) per la definizione delle modalità di fruizione del congedo parentale in modalità a ore, indistintamente per i lavoratori a tempo pieno o parziale, osservando la seguente procedura:
• la volontà (del lavoratore) di avvalersi del congedo in ossequio alla predetta articolazione oraria dovrà essere comunicata al datore di lavoro con almeno 15 giorni di preavviso, indicando il numero di mesi congedo parentale (spettante ai sensi del citato dlgs n. 151/2001) che intende usufruire, nonché l'arco temporale entro il quale le ore di congedo saranno fruite (inizio e fine), le programmazione mensile delle ore di congedo che andrà concordata con il datore di lavoro, compatibilmente con le esigenze organizzative;
• non sono comunque ammissibili richieste che prevedano l'effettuazione di prestazioni lavorative inferiori a 4 ore giornaliere;
• il calcolo dell'indennità economica prevista dalla legge e da erogare per ogni ora di congedo viene effettuato prendendo come base di computo il divisore mensile contrattuale di 170 ore;
• la possibilità di convertire uno o più mesi di congedo parentale a ore è ammessa anche a più riprese, fino a esaurimento del periodo massimo riconosciuto dalla legge;
• il congedo a ore è cumulabile, anche nell'ambito della stessa giornata, con altri riposi e permessi previsti dalla legge o dal Ccnl;
• sono fatti salvi gli obblighi di legge a carico del lavoratore con riferimento all'apposita istanza di congedo parentale che lo stesso deve presentare all'Inps.
- Permessi e congedi retribuiti. A tutti i dipendenti sono concessi permessi e/o congedi familiari retribuiti nelle misure e per le motivazioni di seguito indicate:
a) giorni 15 (quindici) di calendario per contrarre matrimonio, con decorrenza dal terzo giorno antecedente la celebrazione del matrimonio stesso;
b) giorni 3 (tre) lavorativi per natalità e lutti familiari fino al terzo grado di parentela. In tali casi il godimento dovrà avvenire entro 7 (sette) giorni dell'evento.
Ai fini del riconoscimento dei diritti su esposti il lavoratore ha l'obbligo di esibire al datore di lavoro regolare documentazione. Durante tali periodi il lavoratore è considerato a ogni effetto in attività di servizio, conservando il diritto alla retribuzione normalmente percepita.
- Congedi per eventi e cause familiari retribuiti. La lavoratrice e il lavoratore, nel caso di grave infermità documentata del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente, purché la convivenza risulti da certificazione anagrafica, potranno usufruire di 3 (tre) giorni di permesso lavorativi all'anno.
In alternativa ai 3 (tre) giorni, potranno concordare con il datore di lavoro modalità di orario di prestazione lavorativa diverse, anche per periodi superiori ai tre giorni. Lo svolgimento della prestazione dovrà comunque comportare una riduzione di orario complessivamente non inferiore ai giorni di permesso che vengono sostituiti.
La richiesta dovrà essere fatta con lettera scritta indicando: l'evento che dà titolo al congedo e i giorni in cui si intende usufruirne, fermo restando che il godimento dovrà avvenire entro 7 (sette) giorni dalla data dell'evento o dell'accertamento dell'insorgenza della grave infermità o necessità (articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti vegetali, riutilizzo ampio. Sufficiente il rispetto delle norme per i sottoprodotti. Dal Minambiente le indicazioni per gestire sfalci e potature fuori dal regime dei rifiuti.
È la disciplina sui sottoprodotti prevista dal Codice ambientale la chiave universale per poter gestire fuori dal regime dei rifiuti i residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde.

Con la nota 27.05.2015 n. 6038 di prot. il Minambiente chiarisce come l'istituto previsto dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006, di portata generale, possa essere invocato (dimostrandone il ricorre dei presupposti) sia per la gestione dei residui vegetali provenienti da attività agricola e forestale sia per quella degli scarti derivanti dalle altre aree verdi che non rientrano tra le deroghe specifiche al regime dei rifiuti riservate dall'articolo 185 dello stesso decreto legislativo ai primi.
La disciplina generale sui sottoprodotti. In base all'articolo 184-bis, comma 1, del Codice ambientale è infatti un sottoprodotto, e non rifiuto, qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi contemporaneamente tutte le seguenti condizioni: è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la sua produzione; è certo il suo riutilizzo, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; il residuo può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; l'ulteriore utilizzo è legale, ossia ha ad oggetto beni che soddisfano i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non comporta impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Con la nota 6038/2015 il Minambiente sottolinea innanzitutto come tale disciplina possa essere dunque applicata a tutti i materiali vegetali, compresi i residui derivanti dalla manutenzione del verde.
Nello specifico il dicastero chiarisce altresì come la condizione della provenienza del residuo da un processo produttivo richiesta dal citato articolo 184-bis sia da considerarsi in una accezione ampia, richiamando in tale contesto la sentenza del Consiglio di stato 06.08.2013 n. 4151 che non ne relega (infatti) il significato allo stretto processo di fabbricazione.
L'Ufficio richiama però l'attenzione sulla necessità di rispettare comunque le specifiche norme di settore previste per il riutilizzo dei residui (come quelle in materia di combustibili, in caso di destinazione degli scarti alla valorizzazione energetica).
Le deroghe del dlgs 152/2006 per i residui agricoli. In base all'articolo 185, comma 1, lettera f), del Codice ambientale non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti da esso prevista «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Con la nota 6038/2015 il ministero dell'ambiente conferma la propria interpretazione espressa con il precedente e omonimo atto 8890/2011, ricordando come i residui oggetto di tale specifica deroga siano esclusivamente quelli identificabili per provenienza dalle suddette attività agricole o forestali. Per invocare tale deroga, sottolinea il Dicastero, è dunque sempre necessario dimostrare (tra le altre condizioni previste dal citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2006) la sussistenza di tale particolare origine dei residui verdi.
Diversamente, avvisa l'Ufficio, per gestire gli stessi scarti vegetali fuori dal regime dei rifiuti si dovrà (sempre sussistendone le condizioni) ricorrere al più generale istituto dei sottoprodotti previsto dall'articolo 184-bis del Codice ambientale.
Il regime dei rifiuti. A chiusura della nuova nota 6038/2015 il ministero dell'ambiente ricorda infine come la mancanza della prova delle condizioni che permettano di ricorrere ai due illustrati istituti ex articolo 184-bis e 185 del dlgs 152/2006 comporta la necessità di qualificare e di conseguenza gestire i residui vegetali come rifiuti, classificandoli (in base alla provenienza) come urbani o speciali.
In base all'articolo 184, comma 2, lettera e), del Codice ambientale, sono infatti urbani «i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», laddove in base al comma 3, lettera a) dello stesso articolo sono invece speciali «i rifiuti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2135 C.c.» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAEcoreati al test del Codice ambiente. Con le nuove disposizioni detenzione fino a sei anni se si contamina il terreno.
La legge 68/2015. Le pene vanno coordinate con le infrazioni già previste dal decreto a tutela del paesaggio.

Quattro nuovi reati contro l’ambiente sono scattati dal 29 maggio scorso, data di entrata in vigore della legge 68/2015 che dà un giro di vite agli inquinatori, per i quali sono previste pene più severe. In particolare, il legislatore ha introdotto diverse nuove fattispecie di reato.
Tra queste le principali sono: l’inquinamento ambientale, il disastro ambientale, il traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività e l’impedimento al controllo ed ha rivisto alcuni reati già disciplinati dal Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) quali, ad esempio, l’omessa bonifica.
Il nuovo titolo del Codice penale relativo ai delitti contro l’ambiente, dunque, da un lato, integra la disciplina penale, dall’altro, integra altresì il diritto ambientale sostanziale.
I termini e i casi considerati dalla legge 68 devono allora essere coordinati con quelli considerati dalla norma ambientale sostanziale.
Si pensi, ad esempio, ai delitti di inquinamento ambientale e di disastro ambientale (articoli 452-bis e 452-quater del codice penale). Il Codice dell’ambiente contiene già una definizione di «inquinamento» introdotta dalla disciplina sull’Aia e sulla tutela delle acque, mentre per le bonifiche (Parte IV, Titolo V) il medesimo decreto fornisce una diversa definizione di «contaminazione». Con il che sorge spontaneo domandarsi se il reato di inquinamento ambientale debba essere letto esclusivamente con riferimento alle definizioni ambientali ovvero possa avere una portata più ampia e generale.
Invero, l’articolo 452-bis riconduce il concetto di inquinamento ad una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile di acqua, aria, suolo, sottosuolo, ecosistema, biodiversità, flora o fauna, che sembrerebbero trarre ispirazione più dalla disciplina sul danno ambientale di cui alla Parte VI del Dlgs 152, che dalle specifiche definizioni normative contenute nel medesimo decreto.
Le differenze
Viene naturale domandarsi se ogni ipotesi di danno ambientale costituisca anche una ipotesi penalmente rilevante di inquinamento ambientale, ovvero se tra le due fattispecie -danno e inquinamento- esistano differenze. La norma ambientale richiede che l’inquinamento sia causato abusivamente, ma invero anche il danno ambientale presuppone un comportamento illegittimo.
Discorso analogo vale anche per il concetto di disastro ambientale, ossia l’alterazione irreversibile di un ecosistema ovvero l’alterazione il cui ripristino sarebbe eccessivamente oneroso ovvero causa di pericolo e offesa alla pubblica incolumità. Anche in questo caso, il concetto di disastro ambientale non trova una propria definizione nel Codice dell’ambiente, ma è la norma penale ad inquadrare la fattispecie sostanziale.
Il disastro ambientale, dunque, dovrebbe rappresentare un qualcosa di più del semplice inquinamento. Mentre l’inquinamento, infatti, per quanto abusivo potrebbe anche essere ripristinato e corretto, il disastro parrebbe rappresentare una compromissione definitiva e particolarmente grave dell’ambiente.
È bene osservare che entrambe le fattispecie criminali possono essere imputate sia a titolo di dolo (ossia azioni volontarie poste in essere dagli inquinatori), sia a titolo di colpa (articolo 452-quinquies).
Una menzione merita anche il nuovo delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività di cui all’articolo 452-sexies. Il legislatore ha basato la fattispecie penale sui materiali ad alta radioattività e non -si badi bene- sui rifiuti (espressamente definiti ed inquadrati dal Codice dell’ambiente) ampliando così la casistica del traffico e abbandono.
Non a caso, la norma penale sanziona anche coloro che illegittimamente cedono, acquistano, importano o esportano i materiali radioattivi, configurandosi così un reato di pericolo. Una ulteriore fattispecie di reato introdotta dalla legge 68/2015 è l’impedimento del controllo ambientale (ma anche sui luoghi di lavoro) da parte delle autorità. Questa fattispecie è idonea ad includere i possibili artifici che ostacolino o impediscano le verifiche ambientali.
Aggravanti e attenuanti
Le nuove disposizioni ambientali, inoltre, introducono anche ipotesi di aggravanti dei delitti ovvero di riduzioni della pena in caso di ravvedimento operoso, laddove sia evitato un ulteriore aggravamento della situazione ambientale ovvero nel caso in cui si provveda alla bonifica o ripristino dello stato dei luoghi.
Infine, per i delitti sopra indicati, la legge 68 introduce anche la confisca dei proventi del reato ovvero dei beni utilizzati per commettere il reato. Unica eccezione, il caso in cui i beni siano di soggetti terzi estranei. Si pensi, ad esempio, ad aree o siti di terzi in cui sono abusivamente sversate sostanze inquinanti.
L’introduzione di nuovi reati ambientali e di pene più severe, porta necessariamente gli operatori a dover agire con maggiori cautele e attenzioni verso l’ambiente
---------------
L’omessa bonifica amplia il perimetro. I soggetti. Rischi nei casi di accollo.
I reati ambientali introdotti dalla legge 68/2015 sono destinati ad impattare anche sulla gestione dei siti contaminati. Estendendo le responsabilità penali ai privati terzi che hanno sottoscritto accordi per la bonifica dei suoli.
Infatti, il legislatore ha introdotto uno specifico reato per omessa bonifica (articolo 452-terdecies del Codice penale) che si affianca e integra il reato disciplinato dall’articolo 257 del Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) relativo ai siti contaminati (ossia rivolto a colui che inquina e non bonifica). In più, entrambe le fattispecie fanno salve le ipotesi di reati più gravi, che -proprio in considerazione dell’ampiezza dei termini ambientali utilizzati dalla nuova legge- potrebbero trovare applicazione anche rispetto ai casi di contaminazione di suoli e acque di falda.
Il reato di omessa bonifica scatta per colui che è obbligato per legge oppure perché ha ricevuto un ordine dal giudice o dalla pubblica amministrazione a bonificare e che non adempie.
A voler ben vedere, questa ipotesi di reato coincide sostanzialmente con quella prevista dal Codice dell’ambiente che all’articolo 257, punisce colui che, avendo causato una contaminazione (superamento delle Concentrazioni soglia di rischio - Csr), non provvede alla bonifica.
Chi causa la contaminazione, infatti, è anche colui che è obbligato per legge a bonificare (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria n. 21/2013 e Corte di Giustizia europea C-534/13 del 05.03.2015).
Proprio in considerazione di ciò, secondo la giurisprudenza consolidata, la pubblica amministrazione può legittimamente ordinare la bonifica solo al soggetto responsabile che è -ancora una volta- il soggetto obbligato per legge.
Ciò porterebbe a ritenere che entrambe le ipotesi di reato contemplino nella sostanza la stessa fattispecie, con conseguente dubbio applicativo.
Da una prima lettura, resterebbe -come possibile differenza tra i due reati- solo il caso di ordine dell’autorità giudiziaria emesso nei confronti di un soggetto privato, che pur non responsabile della contaminazione, abbia contrattualmente assunto l’obbligo a bonificare un sito contaminato, ripartendo così gli oneri di bonifica tra i privati diversamente rispetto alle responsabilità stabilite dalla legge. Per questo motivo una particolare attenzione, dunque, dovrà essere posta agli accordi privati che regolano gli adempimenti di bonifica.
In particolare, qualora un soggetto non responsabile assuma contrattualmente l’impegno a bonificare in sostituzione dell’inquinatore, ricorrendo l’ipotesi di inadempimento a questo obbligo e di condanna ad adempiere da parte del giudice civile, egli potrebbe anche ricadere nell’ipotesi di reato di omessa bonifica previsto dalla nuova legge se non ottempera alla sentenza civile eventualmente intervenuta rispetto all’inadempimento contrattuale.
La nuova formulazione dell’articolo 257 del Codice ambiente prevede come causa di non punibilità l’osservanza dei progetti di bonifica approvati dagli enti. Questa norma di favore, tuttavia, si applica solo rispetto alle contravvenzioni, cioè al reato di cui allo stesso articolo 257, ma non anche al nuovo reato introdotto dall’articolo 452-bis, con un difetto di coordinamento tra i due testi
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCanale «blindato» per gli ex provinciali. Personale. La spinta alle ricollocazioni.
Consentire ai Comuni di assumere il personale collocato in mobilità obbligatoria dalle Province, anche se non hanno rispettato il Patto di stabilità e i tempi medi dei pagamenti; permettere il recupero, per finanziare nuove assunzioni, dei risparmi derivanti dalle cessazioni non sostituite dell’ultimo triennio; escludere dal rispetto dei tempi medi dei pagamenti quelli effettuati utilizzando le risorse trasferite allo scopo dalla normativa, ivi comprese le risorse aggiuntive stanziate a questo fine dallo stesso decreto; trasferire il personale delle polizie provinciali negli organici delle polizie municipali.
Sembrano essere queste le principali novità per il personale degli enti locali contenute nel Dl approvato giovedì dal Governo.
La logica ispiratrice è, con tutta evidenza, quella di rendere meno rigidi alcuni vincoli dettati alle assunzioni di personale, soprattutto per rendere più facile l’assorbimento dei dipendenti collocati in mobilità obbligatoria dalle Province. Anche se si deve subito precisare che non vi è alcuno stravolgimento delle disposizioni dettate dalla legge di stabilità.
Niente sanzioni
Nella direzione di rendere più facile l’assunzione dei dipendenti in mobilità obbligatoria delle Province vanno molte delle misure contenute nel provvedimento. In primo luogo, quella che consente di derogare al divieto di effettuare assunzioni di personale agli enti che non hanno rispettato nell’anno precedente il Patto di stabilità e/o non hanno effettuato entro i termini la relativa certificazione.
Ed ancora la stessa deroga è prevista per le amministrazioni che hanno superato i tempi medi di pagamento previsti dal Dl 66/2014. Da sottolineare che questa deroga non si estende alle amministrazioni che hanno superato il tetto di spesa del personale.
Sostanzialmente si muove nella stessa direzione anche la correzione che viene operata delle indicazioni dettate dalla sezione autonomie della Corte dei Conti nel parere n. 27/2014. Interpretando in senso restrittivo le previsioni del Dl 90/2014 questa pronuncia aveva stabilito che i risparmi derivanti da cessazioni di personale non sostituito negli anni precedenti possono essere destinati a finanziare nuove assunzioni a tempo indeterminato solamente a decorrere dal 2014.
 L’intervento legislativo consente invece questo recupero per il triennio precedente senza fissare un anno a partire dal quale esso può essere disposto. Per questa ragione l’effetto è che i risparmi derivanti dalle cessazioni del 2012, se non sono stati già utilizzati per finanziare nuove assunzioni, possono essere destinati a tale scopo nel 2015; si deve ritenere entro il tetto vigente nello stesso anno, cioè il 40%.
Comandi e distacchi
I dipendenti degli enti di area vasta, se in comando o in distacco presso un’altra Pa allo scorso 31 dicembre, sono -con il loro consenso ed entro i tetti di spesa per le nuove assunzioni- trasferiti tout court alle dipendenze delle amministrazioni che li utilizzano. Di grande rilievo il trasferimento dei vigili provinciali alle dipendenze dei Comuni, anche in deroga ai vincoli di spesa del personale e delle assunzioni, nonché del rispetto dei tempi di pagamento. Questi passaggi sono soggetti al rispetto del patto di stabilità nell’esercizio in cui essi avvengono e alla sostenibilità di bilancio.
Sono esclusi dal calcolo dei tempi di pagamento, ai fini dell’applicazione della sanzione del divieto di effettuare assunzioni per le amministrazioni inadempienti, quelli che sono stati effettuati attingendo alle risorse all’uopo trasferite dallo Stato. Si deve infine sottolineare che con questo provvedimento vengono messi 2 miliardi a disposizione delle regioni e 650 milioni dei Comuni per dare corso ai pagamenti di fatture ai privati
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGODECRETO ENTI LOCALI/ Alle regioni i dipendenti provinciali dei servizi per il lavoro. Ora si ricomincia ad assumere. Concorsi per le scuole. Contratti a tempo prolungati.
Negli enti locali si ricomincia ad assumere. I comuni potranno effettuare concorsi per il personale della scuola, mentre province e città metropolitane potranno prorogare i tempi determinati anche se hanno sforato il patto di Stabilità. I dipendenti provinciali in comando o distacco presso altre p.a. vi si potranno trasferire definitivamente. I dipendenti delle province addetti ai servizi per il lavoro saranno invece trasferiti alle regioni e non alla nascente Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal).

È l'effetto dell'incrocio di norme tra il decreto enti locali e lo schema di dlgs sulle politiche del lavoro approvati giovedì scorso dal consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi di ieri).
Assunzioni negli enti locali. Il dl enti locali permette alle province e alle città metropolitane di prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato, anche se abbiano violato il patto di stabilità. La proroga dei direttori generali sarà consentita alle sole città metropolitane. Allo scopo, poi, di favore i processi di mobilità del personale provinciale in sovrannumero, il decreto consentirà ai comuni di assumere tale personale anche nel caso di mancato rispetto dei tempi di pagamento e violazione dei termini per l'invio della connessa certificazione. Inoltre, si dà modo ai dipendenti provinciali in comando o distacco presso altre pubbliche amministrazioni di trasferirsi definitivamente presso di esse, se lo consentano i limiti di spesa e di dotazioni organiche.
Fondamentale è la modifica all'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, che chiarisce come il cumulo triennale delle risorse non spese per le assunzioni sia da considerare riferito al triennio precedente l'anno in corso e non a quello futuro, smentendo le opinabili interpretazioni contrarie fornite dalla Corte dei conti.
Ancora, il decreto consente ai comuni di effettuare concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, nonostante il blocco imposto dal comma 424 della legge 190/2014, per acquisire personale dotato di particolari abilitazioni o titoli di studio abilitanti riguardanti l'organizzazione dei servizi educativi e scolastici, nel caso le graduatorie vigenti siano esaurite e si accerti che tra il personale soprannumerario delle province manchino tali figure. Il decreto esplicita ciò che era, comunque, già chiaro: i comuni potranno effettuare assunzioni a tempo determinato di agenti di polizia municipale per esigenze stagionali.
Servizi per il lavoro. A sorpresa, il Governo nell'approvare lo schema di uno dei decreti legislativi attuativi della legge 183/2014 (Jobs act), quello dedicato alle politiche del lavoro, smentisce tutte le ipotesi da mesi concernenti il destino dei 7.500 dipendenti provinciali operanti nei centri per l'impiego. Sin qui, si dava per scontato che detti lavoratori provinciali sarebbero transitati nei ranghi dell'agenzia. Tanto è vero che la circolare interministeriale di Funzione pubblica e Ministero degli affari regionali 1/2015 aveva ipotizzato di sottrarre i dipendenti provinciali dei servizi per il lavoro alle procedure di mobilità generali, per destinarli ad un trasferimento «dedicato» verso l'agenzia.
Niente di tutto ciò, almeno stando allo schema del decreto approvato giovedì dal Governo, che ora deve affrontare l'iter parlamentare. L'Anapal nascerà con appena 400 dipendenti, che transiteranno dai ruoli del Ministero del lavoro e di Italia lavoro e non svolgerà le funzioni di erogazione diretta dei servizi ai disoccupati, attraverso sportelli territoriali. Lo schema di decreto, infatti, prevede all'articolo 11 che a questo penseranno direttamente le regioni e le province autonome, attraverso loro uffici, da denominare centri per l'impiego, come quelli oggi operanti presso le province.
I rapporti tra Ministero del lavoro e regioni, per garantire i livelli essenziali delle prestazioni ai disoccupati saranno regolati da convenzioni. L'effetto finale, dunque, è passare il blocco dei servizi per il lavoro dalle province alle regioni. Il problema è che il tutto viene stabilito senza applicare le regole della legge Delrio, ai sensi della quale il trasferimento di funzioni e personale delle province verso altri enti avrebbe dovuto essere effettuato traslando le relative risorse e finanziamenti.
Lo schema di decreto legislativo, invece, si limita a confermare quanto già stabilito nel «decreto enti locali»: a seguito delle convenzioni tra regioni e Ministero del lavoro, lo Stato coprirà i costi del personale dei servizi per il lavoro per soli 70 milioni l'anno nel 2015 e nel 2016.
Si tratta di un decimo del costo complessivo dei servizi, pari a circa 700 milioni, che, di conseguenza, dovrebbe essere coperto dalle regioni. Il che rischia di impantanare la riforma, visto che le regioni non hanno intenzione di assumersi questa spesa. Sicché, l'occupazione dei 7.500 lavoratori delle province interessati viene ad essere messa seriamente a rischio (articolo ItaliaOggi del 13.06.2015).

APPALTIUn limite all'in house per lavori e servizi pubblici. Gli emendamenti dei relatori al disegno di legge sugli appalti. Sarà da martedì in aula al senato.
Limitazione dell'obbligo per i concessionari di affidare a terzi lavori, forniture e servizi con conseguente limitazione dell'in house per le concessioni di lavori e servizi pubblici.

È questo il punto di maggiore rilievo da cui ripartirà, martedì prossimo in Aula al Senato, l'esame del disegno di legge delega sugli appalti pubblici approvato la scorsa settimana dalla commissione lavori pubblici (Atto Senato n. 1678).
In Aula sono stati presentati circa 200 emendamenti ma saranno quelli dei relatori ad avere le maggiori chance di passare, tant'è che con tutta probabilità mercoledì prossimo il Senato potrebbe varare il testo in via definitiva e trasmetterlo alla Camera.
Sulla materia dei concessionari di lavori pubblici e di servizi pubblici e in particolare sulla norma introdotta nel testo varato dalla Commissione di merito che obbliga i nuovi concessionari e quelli attuali (con una moratoria di 12 mesi) a affidare servizi, forniture e lavori a terzi, si sta focalizzando l'attenzione anche in ragione delle evidenti ricadute sull'apertura del mercato. Infatti i relatori hanno proposto di escludere dall'obbligo le concessioni affidate con la formula della finanza di progetto (il cosiddetto PPP, partenariato pubblico-privato).
Su questo emendamento la Commissione bilancio si è però espressa in forma di contrarietà esprimendo perplessità sull'impatto della norma (sulla quale peraltro sono stati presentati subemendamenti tesi a rendere applicabile l'obbligo soltanto alle vecchie concessioni non affidate con gara europea).
Altro punto sul quale la Commissione bilancio si è espressa con un parere di semplice contrarietà attiene alle proposte di limitazione dell'attività della Consip; si osserva infatti che esse pur nell'impossibilità di una quantificazione puntuale dei minori risparmi, potrebbero comportare effetti finanziari se approvati in assenza di idonea clausola di invarianza.
I relatori hanno anche proposto un emendamento sulla disciplina del contraente generale nel senso di rendere effettivo il divieto di svolgimento della direzione lavori da parte del general contractor anche per le «procedure di appalto già bandite alla data di entrata in vigore della legge, incluse quelle già espletate per le quali la stazione appaltante non abbia ancora proceduto alla stipulazione del contratto con il soggetto aggiudicatario».
Un altro emendamento, sempre sulla materia delle concessioni, è finalizzato a circoscrivere l'applicazione della norma ai contratti di importo superiore a 150 mila euro. Altro punto oggetto di proposte dei relatori è la materia dei poteri affidati all'Anac e su questo colpisce l'attribuzione al Presidente dell'Authority Infine un importante intervento dei relatori, come modifica alla disposizione sulla cosiddetta «valorizzazione della fase progettuale» riguarda gli affidamenti di servizi di ingegneria e architettura, per i quali si afferma che deve ritenersi escluso il ricorso al solo criterio di aggiudicazione del prezzo.
Attualmente la normativa regolamentare contenuta nel dpr 207/2010 già prescrive l'obbligo di utilizzare il solo criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ma la norma viene spesso disattesa (articolo ItaliaOggi del 13.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIÈ allarme sui dirigenti apicali. Dalla sostituzione dei segretari aumento della spesa. Il presidente della Corte dei conti, Squitieri, nella sua audizione sulla riforma p.a..
Allarme della Corte dei conti sugli effetti della riforma della dirigenza pubblica nei riguardi degli enti locali.

Nel corso dell'audizione alla camera tenuta il 3 giugno dal presidente della Corte, Pasquale Squitieri, la magistratura contabile ha espresso preoccupazione per l'eventuale aumento della spesa derivanti dall'obbligo, previsto dall'attuale articolo 9, lettera b), numero 4), del disegno di legge di riforma della p.a., di tutti i comuni di dotarsi di un dirigente «apicale» a cui affidare, anche in forma associata, le funzioni sostanzialmente oggi attribuite ai segretari comunali.
È uno degli aspetti maggiormente delicati della riforma.
Si intende abolire, senza in effetti aver mai spiegato esattamente a quale scopo, i segretari comunali e far confluire tale figura nel ruolo unico della dirigenza locale. Ma, al contempo, la riforma, senza dare all'ordinamento locale l'occhio di specifica attenzione che merita, apre il problema della direzione amministrativa in particolare dei piccoli comuni.
La Corte dei conti osserva che l'attuale testo del disegno di legge delega all'attenzione della Camera «ha trasformato in obbligo la facoltà per i comuni di minori dimensioni di nominare un dirigente apicale, imponendo, peraltro, al fine di evitare maggior oneri finanziari, l'esercizio in via associata di tale funzione». Tutti i comuni, dunque, dovranno dotarsi del dirigente generale. Ma, aggiunge la magistratura contabile «andrebbe considerato che –come evidenziano i dati del conto annuale 2013– oltre il 57% dei comuni (4.597 su un totale di 8.015) è privo sia di dirigenti, che di segretario comunale, trattandosi di enti che, se con popolazione inferiore ai 500 abitanti, hanno una media di soli tre dipendenti».
Insomma, per la maggioranza dei comuni italiani, la previsione di una figura dirigenziale al vertice dell'amministrazione rischia di incrementare la spesa. Occorre ricordare che nell'attuale regime, nella gran parte degli enti di piccole dimensioni di cui parla la Corte dei conti i segretari comunali in servizio appartengono alla classe C: non sono, cioè, inquadrati come dirigenti. Ed hanno, di conseguenza, un trattamento economico mediamente meno alto di quello previsto per le qualifiche dirigenziali.
Per questa ragione, secondo la Corte dei conti «appare difficile ipotizzare la neutralità finanziaria della nuova previsione, tenuto anche conto delle difficoltà di una gestione associata della predetta funzione in enti non necessariamente contigui». La presenza del dirigente apicale comporta il forte rischio di incrementi di spesa, anche perché tale funzione, secondo la Corte, «e anche l'eventuale incarico congiunto comportano l'attribuzione di trattamenti economici superiori, pur se si intenda conferire i nuovi compiti a dirigenti già in servizio».
C'è, poi, un ulteriore aspetto che la Corte dei conti non ha considerato, di natura organizzativa. Negli enti locali privi di dirigenza, le funzioni dirigenziali possono essere distribuite tra i funzionari di più elevato livello, ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000. Ma, se è presente un dirigente, le funzioni dirigenziali non possono essere assegnate ai funzionari e vanno concentrate tutte in quell'unica figura. Il che comporta ovvi scompensi nella gestione, dovuta all'effetto «collo di bottiglia» determinato dalla concentrazione di tutte le responsabilità operative e decisionali di natura amministrativa su un'unica figura (articolo ItaliaOggi del 12.06.2015).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' legittima l'ordinanza comunale adottata nei confronti dell'ANAS in ordine alla rimozione dei rifiuti abbandonati a latere della S.S..
L'ordinanza qui gravata trova adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada -richiamato nelle premesse del provvedimento, il quale reca la firma oltre che del Commissario prefettizio anche del Responsabile del Settore Ambiente e manutenzione- in quanto i rifiuti urbani, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. 19;
Si tenga presente che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con il normale flusso della circolazione stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della strada che […] può razionalmente ed efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie”;
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma speciale che espressamente la privi della sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre, prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la circostanza che "i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione”.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 28/2015 relativa alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti lungo il percorso extraurbano della strada statale 19;
...
Considerato che l’ordinanza qui gravata trova adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada -richiamato nelle premesse del provvedimento, il quale reca la firma oltre che del Commissario prefettizio anche del Responsabile del Settore Ambiente e manutenzione- in quanto i rifiuti urbani, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. 19;
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada, intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri, perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo, poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori ecologici per le altre attività proprie della raccolta rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque interferenti, con il normale flusso della circolazione stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore della strada che […] può razionalmente ed efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV, sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n. 7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se non da altra norma speciale che espressamente la privi della sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre, prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la circostanza che "i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale, possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n. 330/2013);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il ricorso è infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 17.06.2015 n. 1373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di lavori abusivi tali da comportare utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e, dunque, da imprimere a tutta la superficie utile una destinazione urbanistica differente da quella assentita, giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta superficie.
In tal senso, invero, a norma dell’art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, la sanzione va calcolata sulla parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire e quindi, nella descritta ipotesi, su tutta la superficie (nella specie costituita da un sottotetto).

... per la riforma della sentenza del TAR Veneto, Sezione II, n. 1355/2009, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
...
Conformemente a quanto eccepito dal comune resistente, il primo motivo di gravame va dichiarato inammissibile, stante il divieto di “nova” in appello, sancito dall’art. 104 del codice del processo amministrativo.
Ed invero, in primo grado, la ricorrente aveva lamentato, per quanto qui rileva (secondo motivo, lett. c), che “All’interno (del sottotetto) le altezze vanno da un minimo di 1,40/1,70 mt. a livello d’imposta della falda del tetto ad un massimo nella parte centrale di mt. 3,30 (all. sez. dimostrativa). La sua utilizzazione rimane come precedentemente quale accessorio (ripostigli, lavanderia e stenditoio) del resto in conformità ai progetti approvati.
L’ufficio invece e in modo contradditorio, ritenendo la superficie del sottotetto utilizzabile sia pur come accessorio in forza della variante urbanistica di cui alla DOC n. 21/2006 assoggettava il sottotetto integralmente alla sanzione degli abusi non sanabili. Ma se anche l’aumento volumetrico derivato dalla sopraelevazione ha permesso l’utilizzazione del sottotetto, l’ordinanza tuttavia sanzionava l’intero volume, come se si fosse trattato di un abuso non sanabile. Il tutto in violazione della variante urbanistica di cui alla Doc. 21/2006 che invece riconosceva in via di sanatoria quel volume.
La variante riconosceva dunque il volume non computato urbanisticamente in sede di rilascio del permesso di costruire, e ne consentiva perciò la sua utilizzazione. Residuava il sopralzo tecnico di 0,77 cm secondo l’ordinanza, di cm 0,55 per la ricorrente, salva l’ulteriore riduzione ex L.R. 21/1996, soggetta alla sanzione alternativa. Solo questa porzione al massimo è assoggettabile a sanzione, contrariamente a quanto sancito dall’ordinanza impugnata che va dunque annullata e intanto sospesa
”.
In appello è stato, invece, dedotto che la sanzione pecuniaria avrebbe dovuto essere commisurata alla superficie realizzata in esubero rispetto a quella assentita. E poiché nel caso di specie l’abuso non ha comportato alcun incremento di superficie, essendosi sostanziato unicamente in una maggiore altezza, non avrebbe potuto essere applicata alcuna sanzione.
E’ evidente, quindi, la diversità di causa petendi.
Il secondo motivo non merita accoglimento.
Ed invero, indipendentemente dalla circostanza che i titoli edilizi rilasciati consentissero l’esecuzione di un sottotetto con un’altezza, dalla quota del pavimento all’imposta di falda, superiore a 60 cm., come sostiene l’appellante, ciò che ai fini di causa ha carattere assorbente, è che i detti titoli non consentivano l’accesso al sottotetto dai piani sottostanti, come emerge incontrovertibilmente dal fatto che l’istanza di sanatoria della L., datata 20/07/2006, aveva ad oggetto anche “la realizzazione di vani accessori ai sottostanti appartamenti, mediante utilizzo del sottotetto”.
I lavori abusivamente realizzati hanno, dunque comportato, l’utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati. In altre parole, attraverso i lavori abusivamente eseguiti si è impressa a tutto il sottotetto una destinazione urbanistica differente da quella assentita.
Il che giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume del sottotetto, atteso che, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 06/06/2001, n. 380, la sanzione va calcolata sulla “parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire” e quindi, nella specie, giusta quanto poc’anzi rilevato, su tutto il sottotetto.
L’appello va, in definitiva, respinto (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2015 n. 2980 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Giova ricordare l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi del quale “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, (…)il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i presupposti soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il beneficio della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati, oltre al proprietario dell’immobile abusivo, anche il responsabile dell’abuso, ossia colui il quale è legato da una relazione di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria.
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all'adeguamento dell'assetto urbano.
---------------
Deve ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della sanatoria, atteso che la posizione di responsabili dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e sufficiente a legittimare la presentazione del richiesto titolo edilizio in sanatoria.

... per l'annullamento della nota prot. n. 3952 notificata il 20.10.2014, con la quale il Comune di Longobardi ha comunicato il diniego del permesso di costruire ed ha, altresì, adottato tutti i provvedimenti di competenza successivi previsti per la repressione dell’abuso, nonché della relazione istruttoria n. prot. 2834 del 09.07.2014 del Responsabile del procedimento, nonché di ogni atto comunque connesso, presupposto e consequenziale al provvedimento impugnato.
...
5. - La soluzione del caso in esame non può prescindere dal richiamo all’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi del quale “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, (…)il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i presupposti soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il beneficio della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati, oltre al proprietario dell’immobile abusivo, anche il responsabile dell’abuso, ossia colui il quale è legato da una relazione di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus, essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla sanatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013, n. 3220; Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa, suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi all'adeguamento dell'assetto urbano (TAR Liguria, Sez. I, 28.05.2014, n. 800).
Ciò ricordato, va evidenziato che il Comune di Longobardi ha adottato il provvedimento di diniego del permesso di costruire in sanatoria sull’assunto della mancata dimostrazione, da parte dei ricorrenti, del diritto di proprietà di una porzione di fondo sul quale insiste la res abusiva.
Nondimeno, sulla base di quanto sinora illustrato, deve ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della sanatoria, atteso che la posizione di responsabili dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e sufficiente a legittimare la presentazione del richiesto titolo edilizio in sanatoria.
Il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 16.06.2015 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Costruzioni senza confini. Illegittimo imporre la sede in Italia alle Soa. La Corte Ue ha bocciato la normativa sulle società di attestazione.
È illegittimo dal punto di vista comunitario imporre di avere la sede legale in Italia per svolgere l'attività di attestazione delle imprese di costruzione.
È quanto afferma la Corte di giustizia europea con la sentenza 16.06.2015 (causa C-593/13) rispetto ad una vicenda che ha avuto ad oggetto la disciplina italiana sull'accreditamento delle società organismo di attestazione (Soa) che svolgono da 15 anni la funzione, pubblica, di qualificazione delle imprese di costruzioni rilasciando gli appositi attestati.
Era accaduto che tre società del Gruppo Rina avevano contestato in Consiglio di stato (e quest'ultimo aveva rimesso la questione pregiudiziale agli organi comunitari) la legittimità della normativa italiana in forza della quale la sede legale di una società organismo di attestazione (Soa) deve essere ubicata nel territorio italiano.
Il governo italiano aveva invece confermato la legittimità comunitaria della norma italiana sostenendo che l'attività svolta dalle Soa, traducendosi in esercizio di un potere pubblico, doveva ritenersi estranea all'ambito di applicazione della direttiva e del Trattato.
La Corte di giustizia con la sentenza resa nota ieri, boccia la normativa italiana partendo dal fatto che i servizi di attestazione rientrano nell'ambito di applicazione della «direttiva servizi» e che le Soa sono imprese a scopo di lucro che esercitano le loro attività in condizioni di concorrenza e che non dispongono di alcun potere decisionale connesso all'esercizio di poteri pubblici.
In antitesi con quanto da sempre si afferma nel nostro ordinamento, la Corte sostiene che le attività di attestazione delle Soa non configurano una partecipazione diretta e specifica all'esercizio di poteri pubblici.
Pertanto imporre che la sede legale del prestatore di servizi sia ubicata nel territorio nazionale limita la libertà di quest'ultimo e lo obbliga ad avere il suo stabilimento principale nel territorio nazionale.
In materia di libertà di stabilimento, la direttiva elenca infatti una serie di requisiti vietati tra cui figurano quelli riguardanti l'ubicazione della sede legale), i quali non possono essere giustificati. Infatti, la direttiva non consente agli Stati membri di giustificare il mantenimento di tali requisiti nelle loro normative nazionali.
D'altro canto se si ammettesse, dice la Corte, un comportamento vietato dalla direttiva ciò priverebbe quest'ultima di ogni effetto utile e pregiudicherebbe, in definitiva, l'armonizzazione da essa operata (articolo ItaliaOggi del 17.06.2015).

COMPETENZE PROGETTUALI: Regioni fuori dalle competenze. Accolto dal Cds i ricorso degli agrotecnici.
Le regioni non possono intervenire in materia di competenze professionali degli iscritti all'albo.

A stabilirlo, la sentenza 15.06.2015 n. 2944 del Consiglio di Stato - Sez. III, che i ricorrenti, agrotecnici e medici veterinari, definiscono storica perché impone agli organismi territoriali di non intervenire in materia di competenze professionali. La vicenda prende origine dall'applicazione della Misura 114 «Consulenza aziendale» del Psr 2007-2013 in tutte le regioni italiane, e in particolare da una delibera dell'Emilia Romagna che obbligava i liberi professionisti che volessero operare nell'ambito della Consulenza aziendale a dimostrare requisiti ulteriori all'iscrizione nell'albo professionale (pregressa esperienza nel settore, aggiornamento specifico,) al pari di qualsiasi altro soggetto che avesse due anni di esperienza professionale.
Contro la delibera erano intervenuti i due ordini professionali facendo ricorso ai giudici amministrativi che già in primo grado avevano giudicato illegittima la delibera. A quella decisione aveva fatto ricorso la regione davanti al consiglio di stato che ha respinto l'appello specificando che è la stessa istituzione degli albi, e quindi la relativa iscrizione, a garantire «il grado di professionalità e di competenza. Tantomeno la regione può, con proprie valutazioni di merito volte a dequotare i criteri e le modalità di iscrizione all'albo professionale, sostituirsi al valore abilitante dell'iscrizione stessa agli effetti del titolo allo svolgimento delle attività riservate ai soli soggetti inseriti nell'albo professionale».
Questa sentenza hanno commentato i ricorrenti sarà dunque «utilissima nell'orientare le regioni nella definizione delle regole sulla nuova Consulenza aziendale del Psr 2014-2020 ed in tutti quei contenziosi che vedono le regioni imporre ai liberi professionisti iscritti negli albi, per svolgere determinate attività previste negli ordinamenti professionali, l'illegittimo possesso di ulteriori requisiti» (articolo ItaliaOggi del 18.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAÈ principio costantemente ribadito, tanto dalla legislazione in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e D.M. 23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da ultimo, D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla giurisprudenza amministrativa, che gli allevamenti degli animali, qualunque sia la loro consistenza numerica, sono inclusi tra le lavorazioni insalubri di prima classe in considerazione dei cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o solidi che essi comportano.
Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo Consiglio ha di recente stabilito, che, disattendendo la tesi dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali –si trattava, nel caso di specie, proprio di stalla ospitante meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di catalogazione come industria insalubre solo ove abbia caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”, al quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che, nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso, il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla sua radice etimologica latina, significasse semplicemente “attività”, non necessariamente contraddistinta, come invece vorrebbe l’appellante, da modalità intensive od organizzative di sfruttamento tali da integrarne il carattere industriale.
La premessa maggiore dalla quale muovono sia i provvedimenti comunali che la sentenza del TAR –la qualificazione dell’attività in parola come industria insalubre di prima classe– è dunque corretta e, anzi, necessaria alla luce del dato normativo.
Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
La prima è che il provvedimento comunale nessuna dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe l’appellante, delle esalazioni nocive o delle conseguenze pregiudizievoli per la salute pubblica, posto che la qualificazione come industria insalubre di prima classe era in re ipsa, nella stessa attività di allevamento esercitata dal ricorrente.
La seconda è che nessun affidamento il ricorrente poteva riporre nell’esercizio di simile industria, così predefinita dalla legge e per il principio ignorantia legis non excusat, all’interno di un centro abitato, quale la frazione di Mergnano San Savino e, comunque e anche se non in origine o ab immemorabili, è divenuta incontestabilmente nel tempo.
È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco, titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno delle industrie insalubri, può esercitarla «in qualsivoglia tempo e, quindi, anche in epoca successiva all’attivazione dell’impianto industriale».
E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si accerti che una stalla sia mancante della concimaia e dell’allaccio con una fogna pubblica, legittimamente l’amministrazione comunale ordina l’eliminazione della stalla e lo sgombero degli animali ivi tenuti.

... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA: SEZIONE I n. 626/2014, resa tra le parti, concernente la dismissione della stalla per l’allevamento dei bovini – classificazione di industria insalubre
...   
1. L’odierno appellante, A.R., è titolare di una impresa agricola che esercita l’attività di allevamento di animali, tra i quali bovini e bufale da latte, oltre all’attività di coltivazione di cereali, girasoli, foraggi e altri seminativi, nella frazione di Megnano San Savino del Comune di Camerino.
2. Egli ha impugnato avanti al TAR Marche, chiedendone, previa sospensione, l’annullamento, la deliberazione della Giunta Comunale di Camerino n. 111 del 06.06.2013, avente ad oggetto “Classificazione industria insalubre ai sensi dell’art. 216 del T.U.LL.SS. e del D.M. 05/09/1994 – Azienda Agricola R. Loc. Mergnano San Savino – Stalla per allevamento bovini”, la quale ha dato atto che:
a) l’attività di stalla esercitata dal ricorrente dovesse qualificarsi come insalubre di prima classe, ai sensi delle citate disposizioni;
b) il parere dell’ASUR, favorevole al mantenimento della stalla ma con talune prescrizioni, non era stato rispettato;
c) era quanto meno dubbia la sussistenza dei requisiti igienico-sanitari affinché la stalla permanesse, nello stato in cui si trova, all’interno dell’abitato della località Mergnano San Savino;
d) il Sindaco, in virtù dell’art. 217 del r.d. 1265/1934, quale massima autorità responsabile della salvaguardia della sanità e dell’igiene pubblica locale, avrebbe provveduto ad emanare gli atti necessari ad eliminare, ove ne ricorressero i requisiti, la situazione di rischio per l’igiene e per la salute pubblica.
...
15. L’analisi della sentenza e delle sue presunte lacune, invece, è contenuta nel secondo motivo di appello (p. 10 e ss. del ricorso), motivo però, per le ragioni, anche esse in sintesi esposte, che si diranno, del tutto infondato.
15.1. L’appellante, con tale secondo motivo, sottopone a serrata critica i diversi –e stringati– passaggi motivazionali della sentenza, con dovizia di pregevoli argomentazioni e con corredo di precedenti giurisprudenziali che, tuttavia, non sembrano al Collegio convincentemente suffragare il suo assunto.
15.2. Un primo decisivo punto, entrando nel merito delle censure e nel vivo della materia, è quello inerente alla classificazione dell’attività, svolta dall’appellante, quale industria insalubre di prima classe ai sensi dell’art. 216 del r.d. 1265/1934 e del D.M. 05.09.1994, classificazione che costituisce il presupposto delle due ordinanze sindacali e dei connessi provvedimenti contestati in primo grado.
15.3. Il sig. R. contesta fermamente tale presupposto che sarebbe stato, a suo avviso, affermato dal Comune senza una verifica in concreto della sua attività, in fondo modesta perché relativa all’allevamento di sedici bovini (pp. 14-15 del ricorso), e delle sue eventuali conseguenze nocive per la popolazione in termini di vapori, gas o altre esalazioni insalubri o di scoli, rifiuti solidi o liquidi (pp. 16-17 del ricorso).
16. Ma l’assunto dell’appellante è destituito di fondamento.
16.1. È principio costantemente ribadito, tanto dalla legislazione in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e D.M. 23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da ultimo, D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla giurisprudenza amministrativa, che gli allevamenti degli animali, qualunque sia la loro consistenza numerica, sono inclusi tra le lavorazioni insalubri di prima classe in considerazione dei cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o solidi che essi comportano.
16.2. Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
16.3. Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo Consiglio ha di recente stabilito nella sentenza della Sezione V, 27.12.2013, n. 6264, che, disattendendo la tesi dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali –si trattava, nel caso di specie, proprio di stalla ospitante meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di catalogazione come industria insalubre solo ove abbia caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
16.4. Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”, al quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che, nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso, il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla sua radice etimologica latina, significasse semplicemente “attività”, non necessariamente contraddistinta, come invece vorrebbe l’appellante (p. 15 del ricorso), da modalità intensive od organizzative di sfruttamento tali da integrarne il carattere industriale.
16.5. La premessa maggiore dalla quale muovono sia i provvedimenti comunali che la sentenza del TAR –la qualificazione dell’attività in parola come industria insalubre di prima classe– è dunque corretta e, anzi, necessaria alla luce del dato normativo.
17. Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
17.1. La prima è che il provvedimento comunale nessuna dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe l’appellante (pp. 16-17 del ricorso), delle esalazioni nocive o delle conseguenze pregiudizievoli per la salute pubblica, posto che la qualificazione come industria insalubre di prima classe era in re ipsa, nella stessa attività di allevamento esercitata dal ricorrente.
17.2. La seconda è che nessun affidamento il ricorrente poteva riporre nell’esercizio di simile industria, così predefinita dalla legge e per il principio ignorantia legis non excusat, all’interno di un centro abitato, quale la frazione di Mergnano San Savino e, comunque e anche se non in origine o ab immemorabili, è divenuta incontestabilmente nel tempo.
17.3. È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco, titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno delle industrie insalubri, può esercitarla «in qualsivoglia tempo e, quindi, anche in epoca successiva all’attivazione dell’impianto industriale» (Cons. St., sez. V, 15.02.2001, n. 766).
17.4. E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si accerti che una stalla sia mancante della concimaia e dell’allaccio con una fogna pubblica, legittimamente l’amministrazione comunale ordina l’eliminazione della stalla e lo sgombero degli animali ivi tenuti (Cons. Giust. Amm. Sic., 05.12.1984, n. 170) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.06.2015 n. 2900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo tacito, bensì un atto privato dell'avvio di un'attività che trova la sua legittimità direttamente nella legge.
Dunque, non è corretto affermare che, decorsi trenta giorni dalla segnalazione certificata di inizio attività, si sia formato un provvedimento tacito di assenso all’attività edilizia programmata.
Piuttosto, presentata la segnalazione certificata di inizio attività, l’amministrazione ha trenta giorni di tempo per intervenire al fine di inibire l’intervento edilizio per il quale manchi una delle condizioni previste dalla legge.
Il termine in questione deve ritenersi riferito all’adozione del provvedimento inibitorio, e non alla sua notificazione.

7. - Il motivo, nel suo complesso, è infondato.
7.1. - Innanzitutto, va ricordato che la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo tacito, bensì un atto privato dell'avvio di un'attività che trova la sua legittimità direttamente nella legge (Cons. Stato, Ad. Plen., 29.07.2011, n. 15).
Dunque, non è corretto affermare che, decorsi trenta giorni dalla segnalazione certificata di inizio attività, si sia formato un provvedimento tacito di assenso all’attività edilizia programmata.
Piuttosto, presentata la segnalazione certificata di inizio attività, l’amministrazione ha trenta giorni di tempo per intervenire al fine di inibire l’intervento edilizio per il quale manchi una delle condizioni previste dalla legge.
Il termine in questione deve ritenersi riferito all’adozione del provvedimento inibitorio, e non alla sua notificazione (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 04.04.2012, n. 990; TAR Puglia–Lecce, Sez. I, 15.01.2009, n. 54).
Nel caso di specie, il provvedimento, adottato il 19.03.2015, è tempestivo in considerazione della data di presentazione della segnalazione certificata di inizio attività, e cioè il 18.02.2015 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.06.2015 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una piscina non può essere intesa, sotto il profilo urbanistico ed edilizio, quale pertinenza.
La nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica, di cui all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il cd. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c., dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire (TAR Puglia–Bari, Sez. III, 26.01.2012, n. 245, che ha appunto escluso che l'intervento di realizzazione di una piscina potesse essere coessenziale ad un bene principale e quindi potesse essere considerata pertinenza ai fini urbanistici).
In ogni caso, per quanto concerne la realizzazione di una piscina, è decisiva l'osservazione in forza della quale la piscina comporta, in ogni caso, una durevole trasformazione del territorio.
L’intervento edilizio in questione -tenendo peraltro conto che la piscina oggetto della segnalazione di inizio attività, pur composta da pennelli prefabbricati, ha la rilevante dimensione di quasi mq. 150– necessitava, quindi, del permesso di costruire.

7.2. - L’Accordo sancito in data 16.01.2003 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, recepito dalla Regione Calabria con Deliberazione della Giunta regionale del 12.12.2007, n. 770, non pone norme urbanistiche ed edilizie relative all’edificazione delle piscine, bensì disciplina gli aspetti igienico-sanitari per la costruzione, la manutenzione e la vigilanza delle piscine ad uso natatorio.
Tale atto, dunque, non riveste alcun rilievo nel caso in esame, sicché l’eventuale errore dell’amministrazione comunale nella catalogazione della piscina progettata dalla ricorrente in una delle categorie da esso previste appare privo di rilievo.
7.3. - Correttamente il Comune di Rossano ha ritenuto che l’intervento edilizio di cui si controverte non potesse essere realizzato in forza della sola segnalazione certificata di inizio attività, giacché la realizzanda piscina non può essere intesa, sotto il profilo urbanistico ed edilizio, quale pertinenza.
Occorre ricordare, innanzitutto, che la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica, di cui all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il cd. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c., dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire (TAR Puglia–Bari, Sez. III, 26.01.2012, n. 245, che ha appunto escluso che l'intervento di realizzazione di una piscina potesse essere coessenziale ad un bene principale e quindi potesse essere considerata pertinenza ai fini urbanistici).
In ogni caso, per quanto concerne la realizzazione di una piscina, è decisiva l'osservazione in forza della quale la piscina comporta, in ogni caso, una durevole trasformazione del territorio (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 21.04.2009, n. 2088; cfr. anche TAR Campana, Sez. VI, 07.01.2014, n. 1).
L’intervento edilizio in questione -tenendo peraltro conto che la piscina oggetto della segnalazione di inizio attività, pur composta da pennelli prefabbricati, ha la rilevante dimensione di quasi mq. 150– necessitava, quindi, del permesso di costruire (cfr. anche Cass. Pen., sez. III 19.03.2014 n. 19444) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.06.2015 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla “sanatoria giurisprudenziale”, si tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una normale via di ordinaria gestione degli interventi sul territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile dissipazione di mezzi e risorse.
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti realizzati senza previo titolo.

Va a questo punto considerato quanto alla, evocata dall’amministrazione, “sanatoria giurisprudenziale”, che si tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una normale via di ordinaria gestione degli interventi sul territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile dissipazione di mezzi e risorse (tra varie, Cons. Stato, V, 06.07.2012, n. 3961).
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti realizzati senza previo titolo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.06.2015 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In materia urbanistica costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono.
---------------
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali.
Nell’occasione, la richiamata coesistenza è stata ammessa stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue finalità di interesse pubblico.
Ma è altresì evidente che –per le medesime ragioni– la richiamata compatibilità resti ammessa solo a condizione che la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul soprasuolo, a verde attrezzato.
Si tratta esattamente della situazione che si riscontra nel caso in esame, in cui la realizzazione delle rampe d’accesso nel soprasuolo è idonea a sottrarre porzioni apprezzabili di superficie alla destinazione tipica di Piano (anche in considerazione dell’estensione non rilevante dell’area).
In siffatte ipotesi, la coesistenza fra il vincolo conformativo e la realizzazione dei parcheggi interrati può infatti essere ammessa, ma solo a condizione che la realizzazione dei secondi non alteri la piena estensione del primo, neppure in modo parziale e neppure per la realizzazione degli interventi accessori e strumentali i quali dovranno in via di principio trovare collocazione esternamente all’area.

7. Deve essere ora esaminato il quarto motivo di ricorso con cui si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno respinto il motivo di ricorso relativo all’illegittimità della D.I.A. del 2008 in quanto –inter alia- ammetteva la realizzazione di una rampa di accesso all’immobile andando ad incidere su un’area destinata a verde attrezzato sulla base di un vincolo non decaduto.
7.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
7.1.1. Ora, va premesso che la sentenza in epigrafe è certamente meritevole di conferma per la parte in cui afferma che la destinazione a ‘Verde attrezzato’ impressa all’area per cui è causa dalla pertinente disciplina di piano, atteso il suo carattere conformativo, non è soggetta a decadenza.
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato –e qui condiviso– indirizzo secondo cui in materia urbanistica costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 06.05.2013, n. 2432; id., IV, 23.04.2013, n. 2254; id., IV, 29.11.2012, n. 6094).
7.1.2. Neppure può essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui, anche ad ammettere la persistenza del richiamato vincolo conformativo, sarebbe comunque consentita la realizzazione, nell’ambito di aree destinate a ‘verde attrezzato’, di rampe destinate all’accesso a parcheggi interrati.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali (in tal senso, Cons. Stato, VI, 19.10.2006, n. 6256).
Nell’occasione, la richiamata coesistenza è stata ammessa stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue finalità di interesse pubblico.
Ma è altresì evidente che –per le medesime ragioni– la richiamata compatibilità resti ammessa solo a condizione che la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul soprasuolo, a verde attrezzato.
Si tratta esattamente della situazione che si riscontra nel caso in esame, in cui la realizzazione delle rampe d’accesso nel soprasuolo è idonea a sottrarre porzioni apprezzabili di superficie alla destinazione tipica di Piano (anche in considerazione dell’estensione non rilevante dell’area).
In siffatte ipotesi, la coesistenza fra il vincolo conformativo e la realizzazione dei parcheggi interrati può infatti essere ammessa, ma solo a condizione che la realizzazione dei secondi non alteri la piena estensione del primo, neppure in modo parziale e neppure per la realizzazione degli interventi accessori e strumentali i quali dovranno in via di principio trovare collocazione esternamente all’area.
Né a conclusioni diverse da quelle appena delineate può giungersi in relazione al contenuto della delibera consiliare n. 32 del 2005, pure richiamata dagli appellanti a sostegno delle proprie tesi.
A tacere d’altro, si osserva che la delibera in questione ha sancito la richiamata compatibilità/coesistenza (e ha dettato prescrizioni per la realizzazione delle rampe d’accesso), ma non sembra aver affermato il principio secondo cui la superficie destinata alle rampe possa essere sottratta a quella destinata alla fruizione del verde pubblico attrezzato
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.06.2015 n. 2769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’argomento introdotto dalla ricorrente nella memoria conclusiva per cui il regolamento edilizio del 1924 del Comune sarebbe da ritenersi abrogato, ovvero invalido e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942 (che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani), è da ritenersi infondato.
La previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza.
Si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l. n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei centri abitati.

Con il presente gravame la ricorrente impugna il provvedimento indicato in epigrafe, di diniego del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, relativo alla ristrutturazione e all’ampliamento di una concimaia mediante innalzamento delle pareti laterali e realizzazione della copertura.
A fondamento del diniego il Comune di Verona ha opposto, principalmente, che l’intervento non può essere qualificato come “manutenzione straordinaria” bensì, deve essere considerato come “nuova costruzione”, avendo ad oggetto un manufatto privo di titolo edilizio.
Infatti, sostiene il Comune, l’indicazione di manufatto esistente nella cartografia EIRA del 1961 non sarebbe sufficiente a legittimare la costruzione, in quanto, nel Comune di Verona il nulla osta per la realizzazione di nuove costruzioni era richiesto già dal Regolamento Edilizio del 02.10.1924; inoltre, il manufatto ricade in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, con conseguente impossibilità di sanare nuovi volumi.
A sostegno del gravame la ricorrente ha dedotto che il manufatto esisteva sin dal 1961 e pertanto, per la sua realizzazione non era richiesto alcun titolo edilizio; mentre, il Regolamento Edilizio del Comune di Verona non poteva essere applicato alla fattispecie, in quanto il mappale interessato dalla costruzione alla data del 02.10.1924 non faceva parte del Comune di Verona, bensì del Comune di Avesa, aggregato al Comune di Verona nel 1927.
Quindi, la ricorrente ha dedotto che l’intervento non poteva essere qualificato come di nuova costruzione bensì di manutenzione straordinaria di un manufatto preesistente.
Si è costituito il Comune di Verona per resistere al gravame.
In vista dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie conclusive e di replica.
All’udienza del 21.05.2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Il ricorso è infondato.
E’ pacifico che la concimaia in questione sia stata realizzata nella prima metà degli anni “60, dunque in epoca anteriore al 1967, al di fuori del centro abitato, sotto il vigore della legge n. 1150/1942 che, nella sua formulazione originaria, prescriveva l'obbligo della licenza edilizia solo nell'ambito dei centri abitati e ove esistesse il piano regolatore comunale.
Tuttavia, come rilevato dall’amministrazione nella motivazione del provvedimento impugnato, in quell’epoca era in vigore il Regolamento Edilizio del Comune di Verona del 1924 che, già da allora, prescriveva la preventiva autorizzazione del Sindaco per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale (e dunque non solo all’interno del centro abitato).
Risulta poi totalmente irrilevante che il Comune di Avesa sia stato aggregato al Comune di Verona nel 1927, non essendo né dedotto né dimostrato che il manufatto sia stato realizzato tra il 1924 e il 1927.
Infine l’argomento introdotto dalla ricorrente nella memoria conclusiva per cui il regolamento edilizio del Comune di Verona sarebbe da ritenersi abrogato, ovvero invalido e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942 (che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani), è da ritenersi inammissibile in quanto non proposto nella forma dei motivi aggiunti di cui all’art. 43 del c.p.a., come eccepito dalla difesa del Comune di Verona nella memoria di replica.
In ogni caso, tale argomento è infondato.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza.
Si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l. n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei centri abitati (cfr. TAR Veneto, II sez., 30.01.2014 n. 121; Cons. St. VI, 05.01.2015, n. 13).
E’ pertanto evidente che l’intervento di manutenzione straordinaria in questione non poteva essere assentito avendo ad oggetto un manufatto privo di titolo edilizio.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2015 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sui requisiti soggetti dei membri della commissione di gara.
L'art. 84 del d.lgs. 163/2006, laddove ha previsto che i commissari siano selezionati tra gli esperti "nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto", deve essere inteso nel senso che è “la commissione nel suo complesso a dover garantire il possesso delle conoscenze tecniche globalmente occorrenti nella singola fattispecie”.
Correlativamente, è stato reputato che la costituzione di una commissione di cinque membri a presenza maggioritaria di tecnici esperti sia invece coerente con le regole di carattere generale in tema di commissioni giudicatrici di procedure concorsuali che sono state messe a fuoco dalla giurisprudenza a salvaguardia delle superiori esigenze di buon andamento, imparzialità e trasparenza.
E si è pertanto respinta la tesi secondo cui, anche in caso di maggioranza della commissione pacificamente composta da tecnici, vi sarebbe illegittimità della costituzione per il mero fatto il relativo collegio non è composto in via "esclusiva" da esperti "nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”, sul presupposto che così andrebbe interpretato l’art. 84 del Codice dei contratti pubblici: una interpretazione tanto radicale del precetto non risponde, peraltro, all’elaborazione giurisprudenziale cui la norma si riallaccia né al più ampio principio di cui la stessa è espressione, che portano a ritenere indispensabile, sì, ma di regola anche sufficiente, che i tecnici dello specifico settore rappresentino la maggioranza (e non addirittura la totalità) dei componenti della commissione.

Superate le eccezioni di carattere preliminare, si può entrare nel merito del ricorso, partendo dai motivi di impugnazione concernenti la composizione della commissione giudicatrice in quanto articolati in via principale dalla ricorrente.
Sul punto la P.C. spa ha formulato le seguenti doglianze: violazione dell’art. 84 comma 2 del d.lgs. n. 163 del 2006 per non essere stata la commissione composta da “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto dell’appalto”; violazione dell’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006 per essere stati nominati quali commissari (fatta eccezione per il Presidente) soggetti diversi dai funzionari della stazione appaltante, senza previo accertamento della carenza in organico presso la stessa di adeguate professionalità in grado di espletare l’incarico, così da evitare il ricorso ad esperti esterni; violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 (i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto o svolgere alcuna funzione o incarico relativamente al contratto del cui affidamento si tratta) per essere stato nominato tra i commissari l’Ing. L.Dell’A., funzionario tecnico del Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la Puglia e Basilicata, ente quest’ultimo che ha provveduto, in relazione all’opera per cui è causa, alla verifica della progettazione definitiva ed esecutiva, emettendo il Rapporto di Verifica Finale n. 1 del 06.05.2014.
Tutte le censure appena esposte ad avviso del collegio vanno disattese.
Invero, quanto all’ultimo aspetto evidenziato, l’Autorità Portuale di Taranto costituendosi in giudizio ha dimostrato (mediante produzione in giudizio del Rapporto di Verifica citato) che l’Ing. Dell’A., benché Funzionario Tecnico del provveditorato, non si è occupato della verifica della progettazione definitiva ed esecutiva dell’opera per cui è causa, essendo del tutto estraneo al gruppo di verifica (c.d. “Unità di Verifica Progetti”, costituita dagli Ing. N., M. e R.) che ha compiuto tale attività redigendo il conseguente Rapporto di Verifica, sicché nessuna incompatibilità ex art. 84, comma 4, del d.lgs. 163 del 2006 può ritenersi sussistente nel caso in esame.
Quanto, invece, alla nomina nell’ambito della commissione giudicatrice di soggetti esterni all’Autorità Portuale, l’infondatezza della censura trova conferma nell’art. 120, comma 4, del DPR 207 del 2010 che riconosce la generale possibilità di scegliere commissari esterni alla stazione appaltante nel caso di lavori di importo superiore a 25 milioni di euro nei quali le componenti architettonica e/o strutturale e/o impiantistica siano non usuali e di particolare rilevanza, ipotesi configurabile nel caso in esame, come correttamente evidenziato nell’atto di nomina della commissione di cui si discute.
Quanto, infine, alle contestazioni inerenti la scelta dei commissari e più specificamente alle loro qualifiche e conoscenze, la ricorrente ha nell’atto introduttivo formulato doglianze puntuali in relazione alla Dott.ssa B.A. e all’Arch. M.R.A., mettendo in discussione le loro competenze.
In particolare la Piacentini Costruzioni spa ha sostenuto che la dott.ssa A. non sarebbe munita della necessaria professionalità in quanto laureata in giurisprudenza e priva di conoscenze ed esperienze tecniche in ordine al settore oggetto dell’appalto; la Dott.ssa An., invece, benché architetto, ad avviso della ricorrente non potrebbe qualificarsi come esperto ai fini della valutazione delle offerte della procedura per cui è causa, in quanto reca nel proprio curriculum incarichi pregressi estranei alle specifiche tecniche ingegneristiche rilevanti nell’appalto in esame.
Tale censura non può, tuttavia, essere condivisa alla luce dei consolidati e condivisibili principi affermati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di composizione delle commissioni giudicatrici: l'art. 84 del d.lgs. 163/2006, laddove ha previsto che i commissari siano selezionati tra gli esperti "nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto", deve essere inteso nel senso che è “la commissione nel suo complesso a dover garantire il possesso delle conoscenze tecniche globalmente occorrenti nella singola fattispecie” (C.d.S., sentenza sez. V del 28.05.2012, n. 3124; sentenza sez. V del 16.01.2015, n. 92; sentenza sez. VI, del 10.06.2013, n. 3203). “I casi noti in cui questo Consiglio ha riscontrato la presenza del vizio che viene qui dedotto erano caratterizzati dalla prevalenza, nelle singole commissioni, di elementi sprovvisti di competenze tecniche specifiche (C.d.S., sentenza sez. VI, 25.07.1994, n. 1261), ad esempio per il fatto che quattro componenti del collegio su cinque erano privi di diploma di laurea (C.d.S., sentenza sez. V, 17.03.2009, n. 6297), oppure in quanto il personale amministrativo predominava su quello tecnico (C.d.S., sentenza sez. V, n. 5100 del 2008), o comunque quest’ultimo costituiva una netta minoranza (C.d.S., sentenza sez. V, 09.06.2003, n. 3242)” (Consiglio di Stato, sentenza n. 1824 del 09.04.2015).
Correlativamente, è stato reputato che la costituzione di una commissione di cinque membri a presenza maggioritaria di tecnici esperti sia invece coerente con le regole di carattere generale in tema di commissioni giudicatrici di procedure concorsuali che sono state messe a fuoco dalla giurisprudenza a salvaguardia delle superiori esigenze di buon andamento, imparzialità e trasparenza (C.d.S., sentenza sez. V, 26.04.2005, n. 1902).
E si è pertanto respinta la tesi secondo cui, anche in caso di maggioranza della commissione pacificamente composta da tecnici, vi sarebbe illegittimità della costituzione per il mero fatto il relativo collegio non è composto in via "esclusiva" da esperti "nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”, sul presupposto che così andrebbe interpretato l’art. 84 del Codice dei contratti pubblici: una interpretazione tanto radicale del precetto non risponde, peraltro, all’elaborazione giurisprudenziale cui la norma si riallaccia né al più ampio principio di cui la stessa è espressione, che portano a ritenere indispensabile, sì, ma di regola anche sufficiente, che i tecnici dello specifico settore rappresentino la maggioranza (e non addirittura la totalità) dei componenti della commissione (C.d.S., Sez. V, 20.12.2011, n. 6701).
Nel caso in esame, quindi, essendo pacifico che dei cinque componenti la commissione giudicatrice quattro erano tecnici (un architetto e tre ingegneri) e uno solo (la Dott.ssa A.) risultava laureato in giurisprudenza deve ritenersi che i principi suesposti concernenti la legittima composizione del collegio siano stati rispettati.
Peraltro, la Dott.ssa A., benché membro "non tecnico" in quanto, appunto, dotato di laurea in giurisprudenza, risulta attualmente “dirigente della Divisione n. 5 presso il Ministero delle Infrastrutture, con l’incarico di coordinamento dell’assetto del territorio. Programmi e progetti europei di sviluppo spaziale ed urbano” e reca tra le esperienze maturate in passato quella di redazione di “convenzioni PON”, “gestione di programmi di iniziativa territoriale, transnazionale, trasfrontaliera, interregionale”, “redazione di un programma innovativo porti e stazioni”, sicché non se ne può certamente affermare la totale estraneità rispetto alle competenze necessarie ai fini della procedura per cui è causa, implicando la stessa, in primo luogo, l’utilizzazione di cognizioni giuridiche ai fini del corretto svolgimento delle operazioni valutative e, in secondo luogo aspetti di carattere gestionale ed organizzativo (si pensi all’organizzazione del cantiere, voce che costituisce oggetto di specifica valutazione nell’ipotesi in discussione) nel cui ambito la Dott.ssa A. ha sicuramente potuto offrire un utile apporto, a maggior ragione tenuto conto del fatto che il lavoro oggetto dell’appalto rientra proprio tra le azioni PON “Reti e mobilità 2007/2013” ed è stato finanziato anche da fondi europei, con conseguente necessità da parte dei commissari di conoscere i profili e le normative connesse a tali gare.
Quanto, invece, alla Dott.ssa An., innanzitutto non se ne può affermare il profilo “non tecnico” essendo la stessa laureata in architettura; né si può ritenere, come sostiene invece la ricorrente, che tale commissario non sia “esperto” nel settore oggetto della gara d’appalto per il fatto che tra le esperienze dallo stesso maturate non rientrerebbero mansioni specificamente attinenti alle tecniche ingegneristiche coinvolte nell’appalto per cui è causa.
Invero, dal curriculum della professionista in esame emerge che la Dott.ssa An., laureata in architettura, si è specializzata dopo la laurea in “progettazione architettonica assistita dal computer” e in “architettura antisismica e protezione civile” e reca tra le proprie attività di ricerca quella dello studio dei “siti archeologici ed infrastrutture”; inoltre ha curato il coordinamento delle monografie riguardanti proprio i “quaderni del PON Reti e mobilità 2007/2013”, nel cui ambito si colloca l’iniziativa oggetto dell’appalto.
Essa si è altresì occupata, presso il Ministero dei Trasporti, di progettazione preliminare, direzione lavori, collaudo ed ha svolto mansioni di responsabile del procedimento e membro di altre commissioni, sicché non sussistono dubbi in ordine al fatto che la stessa possa ritenersi dotata delle competenze necessarie per valutare le offerte per cui è causa.
Né possono condividersi le argomentazioni di parte ricorrente secondo cui la necessità di particolare conoscenze in capo ai commissari deriverebbe nel caso in esame dalla complessità dell’appalto, atteso che pur riguardando la gara in esame un intervento di sicura complessità (interventi di dragaggio di sedimenti in area Molo Polisettoriale per la realizzazione di un primo lotto della cassa di colmata funzionale all’ampliamento del V sporgente del Porto di Taranto), va tuttavia evidenziato che alle società concorrenti non è stato chiesto di effettuare l’intera progettazione dell’opera ma solo di determinare, in relazione al progetto definitivo dettagliato già posto a base di gara, “le modalità tecnico realizzative del tratto a mare della struttura di confinamento della cassa di colmata” e “gli interventi migliorativi volti a limitare i lavori necessari al completamento della cassa di colmata ai fini del suo utilizzo finali”, aspetti sui quali una commissione formata prevalentemente da ingegneri e da un architetto è sicuramente in grado di esprimere il proprio giudizio in modo adeguato e corretto.
Pertanto, ad avviso del collegio, la censura di illegittima composizione della commissione per mancato inserimento nella stessa di esperti "nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto" deve essere disattesa, tenuto conto della prevalenza nel collegio di ingegneri (tre su cinque), del fatto che dei due componenti contestati dalla ricorrente solo uno (la Dott.ssa A.) gode di una laurea “non tecnica” (in giurisprudenza) mentre l’altra (la Dott.ssa An.) è, invece, un architetto e, in ogni caso, delle considerazioni suesposte circa la capacità tecnica e la competenza giuridico-amministrativa in tema di gare anche di questi ultimi due commissari, i cui profili hanno quindi sicuramente completato il patrimonio di cognizioni della commissione nel suo insieme, rendendola pienamente idonea alla complessa attività valutativa da compiere (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 1854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una lottizzazione abusiva materiale quando vengano realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando, pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento e della vendita in lotti di un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo edificatorio”.

6. Ciò premesso, è anzitutto infondato il primo motivo di ricorso, che nega in radice l’esistenza della contestata lottizzazione, nella forma definita di lottizzazione “cartolare” (ricorso, p. 12 § 3 c).
In proposito, è sufficiente osservare che in generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una lottizzazione abusiva materiale quando vengano realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando, pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento e della vendita in lotti di un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo edificatorio” (per tutto ciò, molto puntualmente, la recente C.d.S. sez. IV 19.06.2014 n.3115)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In termini generali, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo.
11. Infondato è ancora il quinto motivo, fondato sulla presunta tolleranza dell’abuso da parte del Comune. In termini generali, infatti, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo: così per tutte, da ultimo, C.d.S. sez. V 07.08.2014 n. 4213.
E’ poi appena il caso di ricordare che la sentenza di questo TAR sez. I 28.04.2014 n. 448, citata a proprio favore dal ricorrente (memoria 18.04.2015 p. 4 rigo dodicesimo), appare in realtà non esattamente pertinente, poiché decide un caso in cui non era accertata l’esistenza stessa dell’abuso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALINiente albo? Niente parcella. Iscrizione necessaria per la redazione di un parere. Cassazione: l'avvocato sia abilitato al patrocinio presso le magistrature superiori.
Redigere un parere circa l'opportunità di promuovere un giudizio d'impugnazione prevede che per la remunerazione di tale attività è necessaria, in ogni caso, l'iscrizione nell'apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio presso le magistrature superiori.

Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 03.06.2015 n. 11446.
I giudici di piazza Cavour, hanno altresì osservato che in caso di mancata iscrizione si avrà nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, pertanto l'avvocato non sarà legittimato a richiedere l'azione per il pagamento della retribuzione.
Già la stessa Cassazione in tema di onorari di avvocato e procuratore, ha avuto modo di precisare che la redazione di un parere scritto sull'opportunità di promuovere il giudizio di impugnazione deve essere ricompresa nella «voce» di studio della controversia e consultazioni con il cliente e non può pertanto essere liquidata separatamente quale prestazione stragiudiziale (si veda: Cass. 17/05/1991, n. 5579).
Pertanto, per la remunerazione dell'attività di «redazione del parere preventivo», oggetto del caso in esame, nel segno del 1° comma dell'art. 2231 c.c. nulla potrà competere all'avvocato (si veda: Cass. 12/10/2007, n. 21495, secondo cui l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi degli articoli 1418 e 2231 c.c., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto; pertanto, il professionista non iscritto in detti albi non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa).
Il caso sul quale gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi vedeva un avvocato citare in giudizio il suo cliente per aver ricevuto il mandato di redigere ricorso al Consiglio di stato, e al contempo di predisporre un «parere preventivo diretto ad illustrare i margini di successo del proponendo appello».
L'avvocato, sebbene non fosse abilitato al patrocinio presso le magistrature superiori, garantiva comunque la difesa al suo assistito chiarendo di essere in contatto con diversi studi legali specializzati nel settore, che avrebbero potuto sottoscrivere l'atto da lui predisposto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015).

ENTI LOCALI: Bar, licenza sospesa per schiamazzi.
Il bar della movida chiude una settimana perché gli schiamazzi non fanno dormire i residenti. Licenza sospesa nella località di vacanze al di là delle responsabilità del gestore: la folla in strada crea pericoli all'ordine pubblico e alla circolazione stradale. Con la recidiva lo stop è di dieci giorni.
È legittima la sospensione della licenza decisa dalla questura in base all'art. 100 del Tulps: l'assembramento di giovani in strada crea pericoli all'ordine pubblico e alla circolazione dei veicoli. E ciò al di là della responsabilità del gestore. Se il problema non si risolve il secondo stop all'esercizio pubblico è più lungo: dieci giorni invece che una settimana.

È quanto emerge dalla sentenza 01.06.2015 n. 843, pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
Tempi duri per il locale finito sotto la lente della questura. Decine di giovani fra le undici e l'una del mattino prendono d'assolto il bar, troppo piccolo per contenerli tutti: i giovani sciamano in strada fra grida e sghignazzi, per la gioia dei condomini circostanti.
Ecco allora che scatta lo stop della questura con la sospensione della licenza di somministrare alimenti e bevande a carico del bar: il provvedimento risulta motivato in modo adeguato dal momento che i giovani, stazionando in strada, complicano anche il passaggio di eventuali ambulanze, oltre a rallentare il traffico dei veicoli normali, creando «disagio e pericolo».
Nessun dubbio: la questura ha il potere di chiudere il bar quando si configurano rischi «concreti e attuali» per la collettività. Al titolare non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 17.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Nulla osta paesaggistici, diniego motivato senza strafare.
Il diniego di nulla osta paesaggistico può ritenersi sufficientemente motivato laddove siano indicate le ragioni assunte a fondamento della valutazione di compatibilità dell'intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo.

Lo hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Toscana, con la sentenza 21.05.2015 n. 815.
I giudici amministrativi toscani hanno evidenziato che si dovrà, pertanto, considerare soddisfacente anche una motivazione scarna e sintetica da parte dell'Amministrazione, purché idonea a rivelare gli estremi logici della ritenuta incompatibilità.
In questi casi la Soprintendenza sarà chiamata a manifestare semplicemente la piana applicazione del disposto di cui all'art. 146, comma 8, dlgs n. 42/2004, in forza del quale il Soprintendente rende il proprio parere «limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso e alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico [ ]».
Per regola generale, non è poi ravvisabile a carico dell'amministrazione alcun obbligo di indicare, in una logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni tese a rendere l'intervento compatibile con la bellezza d'insieme tutelata, la cui protezione risponde ad un fondamentale interesse pubblico normalmente prevalente su quello privato, anche per la rilevanza costituzionale che il primo presenta.
I giudici fiorentini hanno poi evidenziato come le scelte effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscano apprezzamenti di merito tendenzialmente sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Evidenziando che esse non richiedono una motivazione puntuale e mirata, essendo sufficiente l'indicazione dei profili generali e dei criteri di fondo che sorreggono le determinazioni assunte, salvo che queste incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo le legittime aspettative di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifica considerazione, e che tradizionalmente vengono fatte dipendere dal superamento degli standard minimi di cui al dm 02.04.1968, ovvero dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato intercorsi con il Comune, dall'esistenza di giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015).

APPALTIIl prezzo è parte dell'offerta. È una scelta insindacabile dell'impresa concorrente. APPALTI/ Sentenza del Tar Abruzzo sulle gare decise in base al costo più basso.
In caso di appalto da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso determinato mediante offerta a prezzi unitari, questi ultimi sono frutto di scelte insindacabili delle imprese concorrenti, fissi e immutabili, e pertanto l'indicazione dei prezzi unitari costituisce un elemento essenziale dell'offerta.

Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. del TAR Abruzzo-L'Aquila, con la sentenza 21.05.2015 n. 413.
I giudici amministrativi de L'Aquila hanno altresì ribadito, in ossequio anche a un consolidato orientamento che nel caso di appalto «a corpo», nel quale il corrispettivo è determinato in una somma fissa e invariabile, ciò che costituisce elemento fondamentale dell'offerta economica è solo il prezzo finale offerto, mentre il richiamo ai prezzi unitari e ai calcoli contenuti nel computo metrico estimativo ha valore di semplice traccia indicativa delle modalità di formazione del prezzo globale, che è destinata a restare fuori dal contenuto essenziale dell'offerta e quindi del contratto che si andrà a stipulare, e ciò trova conferma nell'art. 53, comma 4, del dlgs 163/2006, il quale prevede che: «per le prestazioni a corpo il prezzo convenuto non può essere modificato sulla base della verifica della quantità o della qualità della prestazione».
Circa, poi, il vantaggio competitivo che sarebbe attribuito all'impresa alla quale sia consentito l'utilizzo di prezziari non più in vigore, i giudici hanno osservato come l'indicazione di prezzi diversi rispetto a quelli contenuti nel prezziario ufficiale rappresenti l'effetto naturale dell'offerta al ribasso, il quale, applicato alle singole voci del prezziario, determina il ribasso sull'importo complessivo base di gara e, pertanto, «l'eventuale indicazione di prezzi diversi, difformi dal prezziario regionale (che ha funzione di garanzia della congruità dei prezzi posti a base di gara e adeguato supporto per le eventuali valutazioni di anomalia) connota solo una fattispecie di sospetta anomalia il cui effetto non è già (né può essere) l'automatica esclusione, bensì l'attivazione eventuale del procedimento di verifica in contraddittorio» (Tar L'Aquila, sentenza 02.11.2011, n. 508) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La spending non impone di rinegoziare i contratti.
La spending review non legittima l'ente a rinegoziare i vecchi contratti senza gara. L'obbligo di bandire una gara rispettando i principi europei della libera concorrenza prevale anche sulla prospettiva di risparmi di spesa e benefici organizzativi per l'amministrazione
Non c'è spending review che tenga. L'amministrazione non può continuare ad assicurarsi il servizio in appalto rinegoziando i vecchi contratti senza gara, anche di fronte alla prospettiva di risparmi di spesa e benefici organizzativi interni: bisogna sempre rispettare i principi europei della concorrenza, garantendo un libero confronto fra le imprese nell'accesso alla procedure pubbliche.
No all'affidamento diretto e perfino alla procedura negoziata con bando: serve la gara con i criteri dell'offerta economicamente più vantaggiosa. La stazione appaltante non risulta giustificata dalla necessità di dover provvedere in attesa che sia indetta una gara europea.

È quanto emerge dalla sentenza 21.05.2015 n. 398, pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-L'Aquila.
Differimento illegittimo. Due Asl si fondono e la nuova azienda sanitaria locale deve risolvere il problema della fornitura di sistemi diagnostici: decide per la via più breve dell'affidamento diretto, motivando la scelta con la necessità di verificare il fabbisogno del territorio e dare poi il via alla gara, garantendo nel frattempo i servizi di assistenza indispensabili.
Si tratterebbe dunque di differimenti solo «tecnici» dei contratti ereditati dalle Asl sciolte e per fare il punto della situazione e bandire «procedure competitive economicamente vantaggiose per l'azienda e per la collettività». E ciò per «omogeneizzare i prodotti, allineare i prezzi e aggiornare i macchinari», come emerge dalla delibera.
La procedura intrapresa, tuttavia, viola norme nazionali ed europee: trova ingresso il ricorso del concorrente. Già la proroga e il rinnovo senza gara sono contrarie ai principi di trasparenza e imparzialità dell'amministrazione. Ma in questo caso l'Asl dà vita di fatto a un nuovo contratto unico che scaturisce dalla proroga dei vecchi rapporti in essere.
Non serve giustificarsi con la spending review laddove l'affidamento diretto consentirebbe con vantaggi definiti «di importanza cruciale e irrinunciabile». Mai le esigenze di contenimento della spesa pubblica, concludono i giudici, possono consentire la distorsione delle regole della libera concorrenza (articolo ItaliaOggi del 18.06.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso –relativamente allo scrutinio di legittimità della delibera oggetto di impugnativa- si manifesta fondato.
E’ noto che il rinnovo dei contratti pubblici ex art. 6, comma 2, ultimo periodo della legge 24.12.1993 determinò una situazione di contrasto con l’ordinamento comunitario, atteso che tale norma, ammettendo il rinnovo tacito dei contratti per la fornitura di beni e servizi della pubblica amministrazione delle pubbliche amministrazioni, determinò l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese, recata dal parere motivato della Commissione europea n. 2003 del 16.12.2003, chiusasi a seguito dell’abrogazione della norma in parola ad opera dell’art. 23 della legge 18.04.2005.
Più di recente una norma non dissimile (art. 1 d.l. 95/2012, come modificato in sede di conversione dalla legge n. 135/2012) , consentendo la proroga dei rapporti di fornitura mediante il raddoppio delle quantità ovvero degli importi massimi complessivi delle convenzioni Consip in corso, è stata direttamente disapplicata dai giudici amministrativi perché in frontale violazione del diritto comunitario (cfr. questo Tar, 05.06.2014 n. 515, Consiglio di Stato, sez. III, 30.01.2014, nn. 1486 e 1793, 515, TAR Sardegna, sez. I , 08.05.2013, n. 361).
Tornando al disposto dell’art. 23 della legge 18.04.2005, ogni deroga al divieto ivi introdotto di prorogare i contratti aveva una portata meramente transitoria, trattandosi di proroga per periodi max semestrali, riferita ai soli residui –ed ormai da tempo esauriti- contratti che sarebbero scaduti entro sei mesi dalla sua entrata in vigore (novembre 2005, per l’appunto). In questo senso, neanche la lettura della norma offerta dalla ricorrente appare convincente, laddove –senza considerare il contesto transitorio sopra evidenziato- si sarebbe quantomeno “tollerato”, nella vicenda in esame, un intervento prorogatorio dell’ASL basato su tale disposizione, purché non superiore a sei mesi.
Piuttosto,
il rinnovo a regime del contratto (e non solo quindi la mera proroga) risulta introdotto con l’art. 57, comma 2, lett. b, del d.leg.vo 163/2006, come interpretato dalla giurisprudenza in conformità al disposto dell’art. 31, comma 1, n. 4, lett. b), della direttiva 18/2004, così consentendosi per l’appunto il rinnovo espresso, a condizione però che detta possibilità sia prevista ab origine negli atti di gara da cui è scaturito il contratto scaduto od in scadenza e l’importo totale previsto per la prosecuzione del rapporto sia indicato nella lex specialis, fatta salva adeguata motivazione sul punto, ma sempre che tale possibilità sia esercitata entro tre anni dalla stipula del contratto iniziale.

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione con modifica dei prospetti e necessità di permesso di costruire.
Anche le recenti modifiche introdotte, non hanno prodotto novità per quanto riguarda quelle opere edilizie che comportino modifica dei prospetti. Il concetto di prospetto, infatti, non va confuso con quello di sagoma.
Per sagoma deve intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro, considerato in senso verticale ed orizzontale, così che solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma. La modifica di prospetti attiene alla facciata dell'edificio, per cui non va confusa e compresa nel concetto di sagoma, che indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
I prospetti, in altri termini, costituiscono un quid pluris rispetto alla sagoma, attenendo all'aspetto esterno, e quindi al profilo estetico-architettonico dell'edificio. La chiusura di preesistenti finestre e la loro apertura in altre parti, l'apertura di balconi in luogo di finestre, così come l'allargamento del portone di ingresso, essendo relativi al prospetto, non afferiscono al concetto di sagoma.
Pertanto un intervento di ristrutturazione edilizia, che ha visto una parziale demolizione e successiva ricostruzione del manufatto, mantenendo le medesime dimensioni di quello preesistente (e quindi la sua sagoma), ma comportando lo spostamento di una finestra dal lato est -dove veniva chiusa- al lato nord -dove veniva aperta- (e quindi modifica dei prospetti) necessitava di permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380.

3. Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) (modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002), com'è noto, definisce ristrutturazione edilizia gli interventi rivolti a trasformare i manufatti attraverso un insieme sistematico di opere che possono condurre ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi possono comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio e la eliminazione, la modifica, l'inserimento di nuovi elementi o impianti (cfr. questa sez. 3, n. 834 del 04.12.2008 dep. il 13.01.2009).
Orbene, va evidenziato che opere come quelle di cui all'odierno decidere non hanno visto modificato il loro regime autorizzatorio in virtù dei recenti e plurimi interventi normativi che pure hanno interessato negli ultimi mesi la disciplina urbanistica.
Va ricordato, infatti, che dal 21.08.2013 è in vigore la legge 09.08.2013, n. 98 di conversione del decreto "del fare" (D.L. 21.06.2013, n. 69), che ha introdotto in materia numerose novità, quali: 1) l'eliminazione del vincolo della sagoma come prescrizione necessaria ai fini dell'inquadramento degli interventi di demolizione e ricostruzione nella categoria edilizia della ristrutturazione edilizia; 2) la previsione nell'ambito della categoria della ristrutturazione edilizia anche degli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti, purché si possa accertarne la preesistente consistenza; 3) fatti salvi alcuni casi, l'estensione della SCIA agli interventi di ristrutturazione edilizia nonché delle cd. "varianti minori" ai permessi di costruire in caso di modifica della sagoma.
La nuova definizione di ristrutturazione edilizia semplifica, dunque, le procedure di rilascio del titolo abilitativo edilizio, poiché consente di effettuare i lavori con la segnalazione certificata inizio attività anche nei casi in cui la ristrutturazione edilizia comporti la modifica la sagoma dell'edificio preesistente, purché l'intervento non sia sottoposto a vincolo dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni.
Negli interventi di ristrutturazione edilizia, dunque, il legislatore pone particolare attenzione sulla consistenza volumetrica o alla superficie dell'edificio demolito e consente invece la sua ricostruzione con sagoma diversa dalla precedente. La modifica di quest'ultima, in altri termini, con la sola eccezione degli immobili sottoposti a vincolo dei beni culturali e del paesaggio, non assume più rilevanza ai fini della individuazione del permesso di costruire come titolo abilitativo necessario per l'intervento di ristrutturazione edilizia.
E' poi intervenuto il decreto-legge n. 133 del 12.09.2014 (il cosiddetto "sblocca Italia") convertito con la legge 11.11.2014, n. 164, recante "Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività' produttive", che ha previsto, tra l'altro, che tra gli interventi di manutenzione straordinaria, vengono ora ricompresi anche quelli volti al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione d'uso.
4. Tuttavia, come si diceva, anche le modifiche introdotte, non hanno prodotto novità per quanto riguarda quelle opere edilizie che, come nel caso che ci occupa, comportino modifica dei prospetti.
Il concetto di prospetto, infatti, non va confuso con quello di sagoma. Questa Corte di legittimità ha in più occasioni sottolineato come per sagoma debba intendersi la conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo perimetro, considerato in senso verticale ed orizzontale, così che solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma (cfr questa sez. 3, n. 19034 del 18.3.2004 , Calzoni, rv. 228624).
Coerentemente con quanto afferma sul punto anche la giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. 3, 22.07.2004, n. 3210) la modifica di prospetti attiene alla facciata dell'edificio, per cui non va confusa e compresa nel concetto di sagoma, che indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
I prospetti, in altri termini, costituiscono un quid pluris rispetto alla sagoma, attenendo all'aspetto esterno, e quindi al profilo estetico-architettonico dell'edificio.
La chiusura di preesistenti finestre e la loro apertura in altre parti, l'apertura di balconi in luogo di finestre, così come l'allargamento del portone di ingresso, essendo relativi al prospetto, non afferiscono al concetto di sagoma.
Pertanto un intervento di ristrutturazione edilizia come quello del 410 caso che ci occupa, che ha visto una parziale demolizione e successiva ricostruzione del manufatto, mantenendo le medesime dimensioni di quello preesistente (e quindi la sua sagoma), ma comportando lo spostamento di una finestra dal lato est -dove veniva chiusa- al lato nord -dove veniva aperta- (e quindi modifica dei prospetti) necessitava di permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.05.2015 n. 20846 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione tettoia di copertura.
Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata.
Ciò in quanto, in urbanistica, il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio stesso appartiene senza autonomia alla sua struttura.

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, la Corte di merito -pronunciandosi sulla medesima doglianza qui riproposta- ha evidenziato con argomento adeguato e privo di censure logiche che la tettoia realizzata non poteva affatto esser qualificata quale mera pertinenza edilizia; ciò alla luce delle rilevanti dimensioni (circa 200 mq.) e del carattere del manufatto stesso, che «costituisce, all'evidenza, una forma di ampliamento del fabbricato cui inerisce» (il ristorante).
In sintesi, non un "servizio", ma una "integrazione" della costruzione principale, parte di esso quale elemento che attiene all'essenza dell'immobile.
In tal modo, dunque, la sentenza ha fatto buon governo del principio, più volte affermato in sede di legittimità, secondo cui integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata (Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2014, Salanitro, Rv. 257290; Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628; Sez. 3, n. 40843 dell'11/10/2005, Daniele, Rv. 232363); ciò in quanto, in urbanistica, il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio stesso appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n. 17083 del 07/04/2006, Miranda, Rv. 234193).
Il motivo, pertanto, non può essere accolto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.05.2015 n. 20544 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Bosco ed efficacia del vincolo indipendentemente dalla qualificazione dell'area da parte degli strumenti urbanistici.
La definizione legislativa di "bosco" si applica ai fini dell'individuazione dei territori coperti da boschi di cui all'articolo 142, lett. g), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
I limiti di applicabilità all'applicazione del vincolo, previsti in via del tutto eccezionale dall'art. 142, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, dimostrano "a contrariis" che, una volta accertata la natura boschiva di un'area, esso produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali e comporta l'ineludibile obbligo di presentare all'amministrazione competente il progetto degli interventi che si intendano intraprendere affinché l'area non venga distrutta o vi siano introdotte modificazioni che possano recar pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione (art. 146, commi 1 e 2, d.lgs. n. 42 del 2004).

6.9. Limitandoci per ora alle questioni che attengono alla sussistenza del reato (e dunque alla esistenza del  vincolo violato), è necessario ricordare che la  definizione legislativa di "bosco" «si applica ai fini dell'individuazione dei territori coperti da boschi di cui all'articolo 146, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490» (oggi art. 142, lett. g, d.lgs. 22.01.2004, n. 42).
6.10. I limiti di applicabilità all'applicazione del vincolo, previsti in via del tutto eccezionale dall'art. 142, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, dimostrano "a contrariis" che, una volta accertata la natura boschiva di un'area, esso produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali e comporta l'ineludibile obbligo di presentare all'amministrazione competente il progetto degli interventi che si intendano intraprendere affinché l'area non venga distrutta o vi siano introdotte modificazioni che possano recar pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione (art. 146, commi 1 e 2, d.lgs. n. 42 del 2004).
6.11. Il fatto che il PRG del Comune di Pelago classificasse la zona come "area ad attrezzature" ricompresa all'interno del perimetro del centro abitato non vale ad escluderne la natura boschiva (e dunque la sussistenza del vincolo) se, come già detto, sussistevano i requisiti di fatto per classificarla come tale.
6.12. Né rileva il fatto che l'area fosse compresa all'interno del perimetro del centro abitato poiché tale circostanza legittima l'esclusione del vincolo nei soli casi tassativamente ed eccezionalmente previsti dal già citato art. 142, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004, nessuno dei quali ricorre nel caso di specie e comunque mai nemmeno dedotti nei giudizi di merito.
6.13. Non ha nemmeno importanza stabilire se i lavori disposti con D.I.A. dovessero essere o meno autorizzati con permesso di costruire; quel che rileva, perché possa dirsi insussistente il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004, è che l'intervento, oltre quelli che l'art. 149, stesso d.lgs., già sottrae alla necessità dell'autorizzazione, sia di tale minima consistenza da non avere nemmeno in astratto l'attitudine a ledere i valori paesaggistici protetti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.05.2015 n. 19533 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro 90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza.
Ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4, DPR 380/2001- costituisce soltanto titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.

4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, si osserva che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede -con riguardo alle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ovvero con variazioni essenziali- un'articolata disciplina volta alla demolizione delle stesse; in particolare, l'autorità comunale ingiunge al proprietario ed al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento; viene quindi concesso un termine di 90 giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale il bene e l'area di semine vengono acquisiti di diritto, e gratuitamente, al patrimonio del Comune; l'opera acquisita   infine demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare "non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali".
Lo stesso art. 31, inoltre, stabilisce che per le opere abusive di cui al medesimo articolo, il Giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se non sia stata altrimenti eseguita.
Questo complessivo dato normativo è prevalentemente interpretato nel senso che l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro novanta giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza (Sez. 3, n. 45705 del 26/10/2011, Perticaroli, Rv. 251321; Sez. 3, n. 22237 del 22/04/2010, Gotti, Rv. 247653; Sez. 3, n. 39075 del 21/05/2009, Bifulco, Rv. 244891; Sez. 3, n. 1819 del 02/10/2008, dep. 19/01/2009, Ercoli, Rv. 242254); ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4, cit.- costituisce soltanto titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.
L'effetto ablatorio, quindi, si verifica ope legis, alla scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, e senza che lo stesso debba esser previsto nella pronuncia di condanna; proprio come avvenuto nel caso di specie, atteso che il Comune di Milazzo ha emesso un'ordinanza ingiunzione di demolizione in data 14/10/2008, rimasta del tutto inattuata e poi indicata nel provvedimento qui impugnato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17134).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, nel sistema del T.U. edilizia 06.06.2001 n. 380, in forza dell’art. 22, sono realizzabili mediante SCIA quattro categorie di interventi: le prime tre, che qui non interessano riguardano le varianti a permesso di costruire (comma 2 e 2-bis), le ristrutturazioni (comma 3, lettera a) e le nuove costruzioni, in buona sostanza, già dettagliatamente disciplinate da un piano di livello superiore (comma 3, lettere b e c). Vi è poi la quarta categoria, che si definisce per differenza: esclude a valle gli interventi liberi di cui all’art. 6 e a monte gli interventi per cui, in base all’art. 10, serve il permesso di costruire (comma 1).
---------------
Andando ad esaminare il citato art. 10, l’intervento per cui è causa (tamponamento pareti laterali di tre tettoie e, quindi, nella loro trasformazione in capannoni) non sarebbe assentibile con SCIA, ma richiederebbe il permesso di costruire, comportando quanto meno un aumento di volumetria.
---------------
Resta da considerare che lo stesso art. 22, al comma 4, consente alla legge regionale di ampliare o restringere il campo di applicazione della SCIA.
In Lombardia, dispone in proposito l’art. 41 della l. 11.03.2005 n. 12, modificato proprio dopo l’introduzione della SCIA, che nella parte rilevante recita: “Ferma restando l’applicabilità della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) nei casi e nei termini previsti dall’articolo 19 della legge 241/1990 e dall’articolo 5, comma 2, lettera c), del d.l. 70/2011, chi ha titolo per presentare istanza di permesso di costruire ha facoltà, alternativamente e per gli stessi interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia, di inoltrare al comune denuncia di inizio attività, salvo quanto disposto dall'articolo 52, comma 3-bis”.
La norma, la cui lettera è non chiarissima, è stata, com’è noto, interpretata dagli uffici regionali, sulla scorta di conformi istruzioni ministeriali (comunicato 08.10.2010 della D.G. Territorio), che la SCIA continua ad applicarsi ai soli interventi edilizi minori, ovvero alle sole ristrutturazioni cd. leggere, ovvero non rientranti, come nella specie, nella previsione dell’art. 10 T.U..
---------------
La ricorrente, che è titolare in Ospitaletto, alla locale via ..., di un complesso produttivo formato da vari edifici (ricorso, p. 2 § 1, fatti pacifici in causa), ha presentato a quel Comune, al fine di procedere al cd. tamponamento, ovvero alla chiusura con pareti laterali, di tre tettoie comprese nel perimetro del proprio stabilimento, una prima DIA 25.02.2014 (doc. 12 Comune, copia di essa), a fronte della quale ha ricevuto l’inibitoria di cui al provvedimento del 21.03.2014 (doc. 15 Comune, copia di essa).
Ha allora da un lato richiesto l’annullamento d’ufficio di tale inibitoria, e se lo è visto negare (doc. 3 ricorrente, copia provvedimento); dall’altro ha presentato, in data 23.04.2014, una SCIA per lo stesso intervento (doc. 19 Comune, copia di essa e memoria Comune 27.06.2014 p. 5 ultime tre righe), ed ha ricevuto una nuova inibitoria 16.05.2014 (doc. 1 ricorrente, copia di essa).
Nel ricorso principale, come si desume dal contenuto dei motivi dedotti, la ricorrente impugna in sostanza la sola inibitoria 16.05.2014, motivata unicamente con l’esistenza sulle tettoie in questione di un “vincolo unilaterale di concessione precaria che garantisce al Comune…il diritto di richiedere la demolizione delle velette [nome tecnico delle tettoie in parola]…per motivi legati a nuova viabilità…in forza dell’impegnativa [testuale] registrata il 27.12.1979 a Brescia …” e ivi trascritta nei registri immobiliari” (doc. 1 ricorrente, cit.).
A sostegno, ha dedotto cinque censure, corrispondenti in ordine logico ai seguenti tre motivi:
- con il primo di essi, corrispondente alla censura quarta a p. 8 dell’atto, deduce violazione dell’art. 7 della l. 07.08.1990 n. 241, per omissione dell’avviso di inizio del procedimento;
- con il secondo motivo, corrispondente alle censure prima e quinta alle pp. 5 e 9 dell’atto, deduce violazione del principio di tipicità dell’atto amministrativo, non essendo, in sostanza, il vincolo descritto previsto dalla legge;
- con il terzo motivo, corrispondente alla censura terza a p. 7 dell’atto, deduce eccesso di potere per difetto di motivazione, in quanto il vincolo, a tutto voler concedere, sarebbe stato posto a servizio di una viabilità allo stato da tempo realizzata, e comunque non sarebbe stato pregiudicato dalla richiesta modifica delle pensiline esistenti, che sarebbero rimaste pur sempre amovibili, come nel loro assetto precedente.
Ha resistito il Comune, con memoria 27.06.2014, ed ha chiesto la reiezione del ricorso.
Questo Tribunale, con ordinanza 04.07.2014 n. 471, ha sospeso tale provvedimento, ritenendo tale “impegnativa” in sostanza priva di efficacia, ma facendo salvi ulteriori provvedimenti dell’amministrazione relativi ad altri profili di legittimità dell’opera in questione.
Il Comune ha adottato quindi il provvedimento (doc. 11 ricorrente, copia di esso) impugnato con i motivi aggiunti, motivato con riguardo all’importanza dell’intervento consistente nella chiusura delle tettoie in questione e quindi nella loro trasformazione in capannoni e ritenuto non realizzabile con semplice SCIA.
...
... per (A – ricorso principale) l’annullamento, previa sospensiva:
- del provvedimento 16.05.2014 prot. n. 9682, conosciuto in data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area tecnica del Comune di Ospitaletto ha disposto nei confronti della ricorrente Aran R.E. S.r.l. il divieto di prosecuzione dell’attività di cui alla segnalazione certificata di inizio attività – SCIA edilizia 23.04.2014 prot. n. 8058;
- del provvedimento 21.03.2014 prot. n. 5617, conosciuto in data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area tecnica del Comune di Ospitaletto ha disposto nei confronti della medesima ricorrente il divieto di dare inizio all’attività di cui alla dichiarazione di inizio attività – DIA edilizia 25.02.2014 prot. n. 3712;
- del provvedimento 16.04.2014 prot. n. 7654, conosciuto in data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area tecnica del Comune di Ospitaletto ha denegato l’annullamento in autotutela del predetto provvedimento 21.03.2014 prot. n. 5617;
...
4. Infondato è poi il secondo motivo, dovendosi condividere quanto evidenziato dall’amministrazione sia nel provvedimento, sia nelle proprie difese. L’intervento per cui è causa, che in sostanza porterebbe a trasformare alcune tettoie in altrettanti capannoni chiusi, non è infatti, nei termini che ora si illustreranno, fra quelli realizzabili con semplice SCIA.
5. Come è noto, nel sistema del T.U. edilizia 06.06.2001 n. 380, in forza dell’art. 22, sono realizzabili mediante SCIA quattro categorie di interventi: le prime tre, che qui non interessano riguardano le varianti a permesso di costruire (comma 2 e 2-bis), le ristrutturazioni (comma 3, lettera a) e le nuove costruzioni, in buona sostanza, già dettagliatamente disciplinate da un piano di livello superiore (comma 3, lettere b e c). Vi è poi la quarta categoria, che si definisce per differenza: esclude a valle gli interventi liberi di cui all’art. 6 e a monte gli interventi per cui, in base all’art. 10, serve il permesso di costruire (comma 1).
6. Andando ad esaminare il citato art. 10, l’intervento per cui è causa non sarebbe assentibile con SCIA, ma richiederebbe il permesso di costruire, comportando quanto meno –come correttamente rilevato dal Comune (memoria 29.08.2014 p. 9)- un aumento di volumetria, come ritenuto da TAR Abruzzo L’Aquila 07.03.2008 n. 123 in un caso analogo.
7. Resta da considerare che lo stesso art. 22, al comma 4, consente alla legge regionale di ampliare o restringere il campo di applicazione della SCIA. In Lombardia, dispone in proposito l’art. 41 della l. 11.03.2005 n. 12, modificato proprio dopo l’introduzione della SCIA, che nella parte rilevante recita: “Ferma restando l’applicabilità della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) nei casi e nei termini previsti dall’articolo 19 della legge 241/1990 e dall’articolo 5, comma 2, lettera c), del d.l. 70/2011, chi ha titolo per presentare istanza di permesso di costruire ha facoltà, alternativamente e per gli stessi interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia, di inoltrare al comune denuncia di inizio attività, salvo quanto disposto dall'articolo 52, comma 3-bis”.
8. La norma, la cui lettera è non chiarissima, è stata, com’è noto, interpretata dagli uffici regionali, sulla scorta di conformi istruzioni ministeriali (comunicato 08.10.2010 della D.G. Territorio), che la SCIA continua ad applicarsi ai soli interventi edilizi minori, ovvero, per quanto qui interessa, alle sole ristrutturazioni cd. leggere, ovvero non rientranti, come nella specie, nella previsione dell’art. 10 T.U..
9. Da quanto sin qui esposto, risulta che l’intervento non era e non è assentibile con lo strumento della SCIA invocato dalla ricorrente: vanno quindi respinte, per difetto del requisito del danno ingiusto, tutte le domande risarcitorie proposte (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.02.2015 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa osservato che l’eventuale erroneità dell’indicazione di una fonte normativa, non vizia di per sé l’atto che la rechi, qualora il provvedimento risulti comunque conforme al superiore paradigma normativo.
Questo è il caso che ricorre nella fattispecie, giacché il divieto di edificare in aree gravate da vincolo cimiteriale è contenuto anche nell’art. 338, primo comma, del R.D. n. 1265/1934, vigente ratione temporis (“I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai centri abitati. E' vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri”) e del pari, correttamente, richiamato nel ridetto parere dell’Ufficiale sanitario.
---------------
La possibilità di deroga al vincolo cimiteriale, consistendo in una previsione eccezionale rispetto al generale divieto di edificazione, deve ritenersi ammessa soltanto al fine di conseguire un interesse superindividuale, come la costruzione di un'opera pubblica o l'attuazione di un intervento urbanistico (oppure nel caso di fabbricati già esistenti o in corso di costruzione, purché iniziati prima del 31.10.1956, così l’art. 2 della L. n. 983/1957).
Analoga deroga all’ampiezza della fascia di rispetto non potrebbe invece disporsi per soddisfare interessi privati finalizzati al mantenimento di una costruzione abusivamente realizzata in spregio al vincolo.
---------------
Il Consiglio di Stato ha chiarito come non sia meritevole di scrutinio favorevole la censura con la quale si sia sostenuta la tesi della inapplicabilità dei vincoli cimiteriali per le opere realizzate al di fuori dei centri abitati (come avvenuto nel caso in esame).
Si è osservato, difatti, che le disposizioni di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934, e successive modificazioni, sono rivolte a disciplinare, da una parte, l'attività costruttiva dei cimiteri da parte del Comune, che deve scegliere aree distanti almeno duecento metri dai centri abitati, e, dall'altra, l'attività costruttiva del privato (una volta realizzato il cimitero) che non può costruire intorno al cimitero entro il raggio di duecento metri.
Di conseguenza il riferimento ai "centri abitati" di cui al suddetto articolo, rileva unicamente per la realizzazione e l'ampliamento dei cimiteri da parte del Comune e non per l'attività costruttiva del privato, che deve comunque rispettare le prescritte distanze dal cimitero anche se la costruzione dovesse essere edificata fuori dai centri abitati.
---------------
Infine, è decisivo osservare che il Consiglio di Stato ha pure affermato che, stante il vincolo assoluto di inedificabilità all'interno della fascia di rispetto cimiteriale posto dall'art. 338 del T.U. n. 1265/1934, in tale fascia non è possibile applicare la sanatoria degli abusi, essendo consentita in essa solo il recupero del patrimonio edilizio e non anche gli interventi di trasformazione in senso residenziale di organismi edilizi già esistenti.

CONSIDERATO:
1. – Queste Sezioni Riunite ritengono, condividendo l’avviso espresso dall’ULL, che il ricorso sia infondato. Ed invero, non merita accoglimento il primo motivo.
Al riguardo va innanzitutto precisato che la menzione all’art. 57 del D.P.R. n. 803/1975 era contenuta nel parere dell’Ufficiale sanitario (ossia in un atto endoprocedimentale), mentre differente era la motivazione del provvedimento impugnato che, senza citare una specifica fonte normativa, fondava il rigetto sulla insistenza del fabbricato abusivo in una zona sottoposta a vincolo cimiteriale.
Tanto precisato, va osservato che l’eventuale erroneità dell’indicazione di una fonte normativa, non vizia di per sé l’atto che la rechi, qualora il provvedimento risulti comunque conforme al superiore paradigma normativo.
Questo è il caso che ricorre nella fattispecie, giacché il divieto di edificare in aree gravate da vincolo cimiteriale è contenuto anche nell’art. 338, primo comma, del R.D. n. 1265/1934, vigente ratione temporis (“I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai centri abitati. E' vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri”) e del pari, correttamente, richiamato nel ridetto parere dell’Ufficiale sanitario. D’altra parte che il manufatto abusivo ricada entro la sunnominata fascia di rispetto non è circostanza contestata.
Ancorché le superiori considerazioni siano dirimenti ai fini del rigetto della censura, nondimeno occorre soggiungere che l'art. 57 del D.P.R. n. 285/1990, invocato dalla ricorrente, sanciva, al comma 3 (fino all’abrogazione disposta dall’art. 28, comma 2, della L. 01.08.2002, n. 166), il divieto generale di costruire, entro la fascia di rispetto, nuovi edifici o di ampliare quelli preesistenti e che soltanto il comma 4 della disposizione (ugualmente abrogato) consentiva, limitatamente alle ipotesi di ampliamento dei cimiteri esistenti e ricorrendo altre condizioni, la possibilità di ridurre la distanza da detti cimiteri a non meno di 100 metri dai centri abitati: al caso in esame si applicava tuttavia il comma 3 dell’art. 57 e non il quarto (o, comunque, la ricorrente non ha offerto elementi per ritenere che dovesse farsi applicazione del quarto comma).
2. – Infondato è anche il secondo mezzo di gravame. Difatti, non sussiste il difetto di motivazione denunciato dalla ricorrente.
La possibilità di deroga alla quale accenna la signora A., consistendo in una previsione eccezionale rispetto al generale divieto di edificazione, deve ritenersi ammessa soltanto al fine di conseguire un interesse superindividuale, come la costruzione di un'opera pubblica o l'attuazione di un intervento urbanistico (oppure nel caso di fabbricati già esistenti o in corso di costruzione, purché iniziati prima del 31.10.1956, così l’art. 2 della L. n. 983/1957); analoga deroga all’ampiezza della fascia di rispetto non potrebbe invece disporsi per soddisfare interessi privati finalizzati al mantenimento di una costruzione abusivamente realizzata in spregio al vincolo, peraltro ben conosciuto dalla ricorrente (nel provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca si dà infatti conto della circostanza che il Comune di Mascalucia, in data 26.11.1980, rilasciò alla signora A. un certificato dal quale risultava che il terreno, interessato dal fabbricato abusivo, ricadeva in zona di vincolo cimiteriale e che esso era inedificabile secondo lo strumento urbanistico vigente).
La signora A. nemmeno ha poi offerto un principio di prova della risalenza della costruzione, o almeno del suo inizio, a un’epoca antecedente al 31.10.1956 (anzi, nel modulo di condono la ricorrente indicò il periodo dal 30.01.1977 al 01.10.1983 quale epoca di ultimazione dell’abuso in parola).
In ogni caso l’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 contempla una facoltà di deroga, riservata alla discrezionalità del Prefetto e del Consiglio comunale, con la conseguenza che una specifica motivazione sul punto diviene necessaria, attivandosi per l’appunto un potere eccezionale, soltanto nel caso in cui dette Autorità abbiano scelto di derogare alla distanza di 200 mt. e non anche quando difettino esigenze pubblicistiche di rango almeno pari a quelle poste alla base del vincolo medesimo (come invece preteso dalla ricorrente allo scopo di salvaguardare la sua costruzione abusiva).
3. – Nemmeno il terzo motivo è suscettibile di accoglimento, avendo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 1593 del 29.03.2006) chiarito come non sia meritevole di scrutinio favorevole la censura con la quale si sia sostenuta la tesi della inapplicabilità dei vincoli cimiteriali per le opere realizzate al di fuori dei centri abitati (come avvenuto nel caso in esame).
Si è osservato, difatti, che le disposizioni di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934, e successive modificazioni, sono rivolte a disciplinare, da una parte, l'attività costruttiva dei cimiteri da parte del Comune, che deve scegliere aree distanti almeno duecento metri dai centri abitati, e, dall'altra, l'attività costruttiva del privato (una volta realizzato il cimitero) che non può costruire intorno al cimitero entro il raggio di duecento metri.
Di conseguenza il riferimento ai "centri abitati" di cui al suddetto articolo, rileva unicamente per la realizzazione e l'ampliamento dei cimiteri da parte del Comune e non per l'attività costruttiva del privato, che deve comunque rispettare le prescritte distanze dal cimitero anche se la costruzione dovesse essere edificata fuori dai centri abitati.
4. - Infine, e conclusivamente, ai fini del rigetto del ricorso in esame, è decisivo osservare che il Consiglio di Stato ha pure affermato che, stante il vincolo assoluto di inedificabilità all'interno della fascia di rispetto cimiteriale posto dall'art. 338 del T.U. n. 1265/1934, in tale fascia non è possibile applicare la sanatoria degli abusi, essendo consentita in essa solo il recupero del patrimonio edilizio e non anche gli interventi di trasformazione in senso residenziale di organismi edilizi già esistenti (Cons. Stato, sez. V, n. 4256 dell’08.09.2008) (C.G.A.R.S., parere 21.07.2014 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATrattandosi di opere edilizie abusive ed avendo la violazione delle norme edilizie natura di illecito permanente, l’amministrazione, nell’esercitare il potere repressivo, è tenuta ad applicare la disciplina in vigore al momento dell’adozione del provvedimento.
Essendo peraltro pacifico che, in ragione della natura, non propriamente sanzionatoria bensì ripristinatoria della legalità oggettiva violata dall’abuso, del provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, il principio dell’irretroattività delle sanzioni amministrative previsto dalla L. n. 689/1981 non sia applicabile alle misure repressive degli abusi edilizi.
---------------
Nel caso in esame trova dunque piena e coerente applicazione l’attuale art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 che disciplina gli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, e dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Tale disciplina, differente rispetto a quella ordinaria dettata dall'art. 31 del t.u. dell'edilizia e che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici.
---------------
Anche ammettendo che la costruzione (ndr: abusiva) sia stata realizzata prima del 1967, era in vigore il Regolamento Edilizio del Comune del 1929, che già da allora prescriveva la preventiva autorizzazione del Podestà per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale.
Né può fondatamente sostenersi che tale regolamento fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante.

4. Con il secondo motivo il ricorrente oppone la violazione dell’art. 31 della L. n. 1150/1942, in quanto le opere in questione erano state realizzate in epoca anteriore al 1967 e, pertanto, le stesse non necessitavano di alcun titolo edificatorio, atteso che l'art. 31 della legge n. 1150/1942, nella sua formulazione originaria, prescriveva l'obbligo della licenza edilizia solo nell'ambito dei centri abitati e ove esistesse il piano regolatore comunale.
In ogni caso, secondo il ricorrente, la legge dell’epoca del compimento dell’abuso ipotizzava il pagamento di una mera sanzione pecuniaria.
4.1. Le tesi proposte sono destituite di fondamento, dal momento che anche ammettendo che la costruzione sia stata realizzata prima del 1967, era in vigore il Regolamento Edilizio del Comune di Venezia del 1929, che già da allora (come rilevato dall’amministrazione nel corso del procedimento), prescriveva la preventiva autorizzazione del Podestà per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale.
4.1.2. Né può fondatamente sostenersi che tale regolamento fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante.
4.2. Inoltre, non va dimenticato che le opere abusive in questione (bilancione da pesca, capanno attrezzi e pontile) insistono su suolo appartenente al demanio marittimo, e che, nel periodo ante 1967 in cui secondo il ricorrente sarebbero state realizzate le opere in questione, la necessità di un ulteriore titolo abilitativo era prevista dal Codice della Navigazione (del 1942) dove, all'art. 55, si prevedeva che “l'esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione del capo del compartimento”.
Anche di tale autorizzazione dell’autorità marittima competente non v’è traccia alcuna nella documentazione depositata.
Né tale titolo può ritenersi insito nelle varie concessioni lagunari di volta in volta rilasciate dal Magistrato delle Acque, le quali attribuiscono ai vari titolari succedutisi solo un titolo di disponibilità temporanea delle opere in questione, senza interferire sul diverso piano della regolarità urbanistico-edilizia delle stesse (cfr. TAR Veneto: 11.12.2013 n. 1395; 28.11.2013 n. 1333).
4.3. Ne consegue che, trattandosi di opere edilizie abusive ed avendo la violazione delle norme edilizie natura di illecito permanente, l’amministrazione, nell’esercitare il potere repressivo, è tenuta ad applicare la disciplina in vigore al momento dell’adozione del provvedimento. Essendo peraltro pacifico che, in ragione della natura, non propriamente sanzionatoria bensì ripristinatoria della legalità oggettiva violata dall’abuso, del provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, il principio dell’irretroattività delle sanzioni amministrative previsto dalla L. n. 689/1981 non sia applicabile alle misure repressive degli abusi edilizi.
4.3.2. Nel caso in esame trova dunque piena e coerente applicazione l’attuale art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 che disciplina gli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, e dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi. Tale disciplina, differente rispetto a quella ordinaria dettata dall'art. 31 del t.u. dell'edilizia e che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici (cfr. TAR Abruzzo-Pescara - Sez. I, 14.01.2010, n. 23) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 30.01.2014 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce acquisizione giurisprudenziale consolidata che l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti eseguiti in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, costituisca condizione sufficiente per individuare il destinatario dell’ordine di ripristino.
In casi analoghi, la giurisprudenza ha, infatti, chiarito come sia sufficiente ad individuare il legittimato passivo dell’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente realizzato sul demanio, o nella relativa fascia di rispetto, la qualità di utilizzatore dell’immobile medesimo, senza necessità di accertare non solo chi ha realizzato l’abuso, ma nemmeno il proprietario dell’area o del manufatto.
Detto orientamento è condiviso da questa sezione, atteso che la disponibilità dell’immobile consente all’interessato di porre fine alla situazione antigiuridica.

5. Con il terzo, il quinto ed il sesto motivo di gravame il ricorrente contesta sotto vari profili il provvedimento poiché rivolto, non nei confronti dell’originario costruttore delle opere, bensì dell’attuale titolare, privo di legittimazione passiva in quanto non responsabile dell’abuso.
Tale argomento è privo di fondamento giuridico.
Infatti, costituisce acquisizione giurisprudenziale consolidata che l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti eseguiti in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, costituisca condizione sufficiente per individuare il destinatario dell’ordine di ripristino.
In casi analoghi, la giurisprudenza (TAR Emilia Romagna, Bologna, 20.03.2003, n. 259; C. Si, 18.11.1998, n. 662) ha, infatti, chiarito come sia sufficiente ad individuare il legittimato passivo dell’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente realizzato sul demanio, o nella relativa fascia di rispetto, la qualità di utilizzatore dell’immobile medesimo, senza necessità di accertare non solo chi ha realizzato l’abuso, ma nemmeno il proprietario dell’area o del manufatto.
Detto orientamento è condiviso da questa sezione (si vedano tra le ultime la già citata n. 1333/2013 e la n. 222/2013 aventi ad oggetto casi analoghi), atteso che la disponibilità dell’immobile consente all’interessato di porre fine alla situazione antigiuridica.
Pertanto, nel caso di specie, legittimamente, in applicazione del disposto di cui all’art. 35 D.P.R. 380/2001, è stata imposta al ricorrente la demolizione delle opere abusive in oggetto, eseguite su area demaniale (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 30.01.2014 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.06.2015

ã

QUOTA ANNUALE DI ISCRIZIONE ALL'ALBO/ORDINE PROFESSIONALE:
perché la Corte dei Conti non si pronuncia??

     Nell'ambito dell'AGGIORNAMENTO AL 14.05.2015 davamo conto di un'ampia rassegna pareristica/giurisprudenziale sul tema in oggetto a seguito della tanto rumorosa (a detta di pochi intimi e per il "nulla") sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
     Ebbene, ad oggi abbiamo contezza di un primo (non) pronunciamento della Corte dei Conti, dopo la suddetta sortita della Suprema Corte, che di seguito riportiamo:

PUBBLICO IMPIEGOSulla questione circa  la rimborsabilità, a carico dell’amministrazione comunale, delle spese relative al contributo di iscrizione all’albo professionale del dipendente professionista, la richiesta va dichiara inammissibile poiché  “la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della contabilità pubblica, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita (…) dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
---------------
La questione proposta dal Comune di Massa e Cozzile concerne la rimborsabilità, a carico dell’amministrazione comunale, delle spese relative al contributo di iscrizione all’albo professionale del dipendente professionista.
L’ente evidenzia, nella richiesta, un contrasto interpretativo tra questa Sezione (
parere 22.04.2008 n. 11), sfavorevole ad un’imputazione all’ente pubblico della spesa di cui si discute, e una recente sentenza della Cass., Sez. lavoro, n. 7776/2015, che impone all’ente pubblico il pagamento degli oneri di iscrizione agli albi professionali.
...
Il punto va risolto facendo riferimento alla deliberazione 13.01.2011 n. 1 delle Sezioni Riunite -in sede di controllo- della Corte dei Conti  che, pronunciandosi su questione di massima in ordine ad un quesito analogo a quello sottoposto all’odierno esame, ha affermato: “
la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della contabilità pubblica, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita (…) dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione”.
Ne è conseguita una pronuncia di inammissibilità oggettiva che, pur riferita alla sola rimborsabilità dell’iscrizione all’albo del dipendente avvocato, esprime un principio di diritto valevole per tutte le fattispecie analoghe.
A tale principio si è già successivamente uniformata questa Sezione con parere 26.05.2011 n. 98, (così superando il proprio precedente
parere 22.04.2008 n. 11, richiamata dal richiedente, che pronunciava invece nel merito, avendo risolto positivamente la questione preliminare dell’ammissibilità), nonché altre Sezioni regionali di controllo, tra cui Puglia (delib. nn. 14/2013 e 91/2012), Veneto (delib. n. 181/2013) e Lombardia (parere 23.10.2012 n. 442 e parere 12.01.2012 n. 2).
La Sezione conclude pertanto nel senso della inammissibilità della richiesta in esame (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 08.06.2015 n. 162).

     Certo che tale motivazione, per non pronunciarsi, è semplicemente stupefacente laddove ogni anno, in sede di controllo del conto consuntivo, si spulciano voci di spesa anche di poche decine di euro onde verificare se alcune siano legittimamente annoverabili, per esempio, nelle spese di rappresentanza degli amministratori locali.
     Ed il fatto di pagare al proprio dipendente la quota annuale di iscrizione all'albo/ordine professionale (e stiamo parlando di 200/250 € l'anno ... dipende dalla singola sede provinciale) ed avere la certezza se ciò sia legittimo -o meno- evidentemente non è degno di attenzione preventiva col rischio (tutt'altro che remoto) di cagionare danno erariale ... allora, volenti o nolenti, bisognerà attendere che arrivi la Procura regionale della Corte dei Conti per dirci come stanno le cose ...
     Nell'attesa, abbiamo trovato altri pareri sull'argomento proposti a seguire.
13.06.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

PUBBLICO IMPIEGOLa richiesta di parere (in merito all’ammissibilità o meno del pagamento, da parte del Comune, della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per il proprio dipendente incaricato dell’avvocatura comunale) deve essere dichiarata inammissibile in quanto la questione prospettata solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Suzzara (MN) ha chiesto alla Sezione un parere in merito all’ammissibilità o meno del pagamento, da parte del Comune, della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per il proprio dipendente incaricato dell’avvocatura comunale.
Nel formulare i predetto quesito, il Sindaco afferma che l’ente ha preso visione del precedente parere su identica questione già rilasciato da questa Sezione con deliberazione n. 655/2009/PAR e chiede conferma di tale orientamento anche a seguito di diverso avviso espresso da altri plessi giurisdizionali (Consiglio di Stato e Tribunale di Potenza).
...
Con specifico riferimento alla richiesta oggetto della presente pronuncia, la Sezione osserva che la stessa è inammissibile sul piano oggettivo.
La questione risulta essere stata affrontata in più occasioni dalla Corte dei conti, sia da parte delle Sezioni regionali di controllo nell’esercizio della funzione consultiva (Sez. Emilia-Romagna,
parere 28.04.2009 n. 10; Sez. Toscana, parere 22.04.2008 n. 11; Sez. Basilicata, deliberazione 15.06.2007 n. 12; Sez. Piemonte, parere 29.03.2007 n. 2; Sez. Sardegna, parere 19.01.2007 n. 1), sia da parte della Sezione Autonomie in sede di coordinamento (nota n. 6935/C21 del 07.06.2007).
Tali pronunce sono state univoche nell’escludere che della spesa della quota d’iscrizione all’albo professionale del dipendente possa essere gravato l’ente di appartenenza.
Questo Collegio, con il richiamato parere 22.09.2009 n. 655, ha ritenuto in precedenza di condividere tale orientamento ed
ha concluso che, con riferimento specifico al quesito posto, si dovesse ritenere esclusa per l’ente locale la possibilità “di procedere, per i propri dipendenti avvocati, al pagamento (o al rimborso) della quota annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio avanti alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori”.
Successivamente a tale pronuncia, con deliberazione 26.10.2010 n. 722/2010/PAR, la Sezione regionale di controllo per le Marche, in occasione dell’esame di un parere sulla medesima questione, ha sospeso la pronuncia e ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti per le determinazioni di competenza ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, il quale, a sua volta ha deferito alle Sezioni riunite una questione di massima di particolare rilevanza del seguente tenore:
a) se rientri nel concetto di contabilità pubblica di cui all’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 e quindi se sia ammissibile la richiesta di parere concernente il quesito relativo alle spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3, r.d.l. 27.11.1933, n. 1578);
b) se rientri, ex art. 7, comma 8, della legge citata n. 131 del 2003, nella competenza della Sezione regionale di controllo esprimere avviso in merito a quesiti riferiti a casi concreti limitatamente ai profili di stretta interpretazione normativa;
c) se, in caso di ammissibilità del quesito, le spese relative all’iscrizione alla sezione speciale dell’albo degli avvocati, finalizzate all’esclusivo patrocinio a vantaggio dell’amministrazione, debbano essere poste a carico del privato oppure, secondo quanto ritenuto dalla Corte di cassazione (Cass. Lavoro n. 3928/2007), delle amministrazioni locali.
Con deliberazione 13.01.2011 n. 1/CONTR/11 le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno affermato al riguardo che: “La questione è agevolmente risolvibile alla luce della recente pronuncia di queste stesse Sezioni riunite n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010, che ha chiarito l’ambito oggettivo delle pronunce di orientamento generale di competenza di questa Corte relative al coordinamento della finanza pubblica, laddove vengano prospettate, in sede di richiesta di parere delle Sezioni regionali di controllo, questioni in materia di contabilità pubblica".
Al riguardo, nella citata pronuncia, si è affermato che l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica […] in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa affermata nella deliberazione n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010, che attiene alle condizioni di ammissibilità dei quesiti –intervenuta peraltro successivamente all’avvenuto deferimento della questione da parte della Sezione di controllo remittente–,
deve ritenersi che la questione sia inammissibile per carenza delle caratteristiche indicate nella citata deliberazione, in quanto, come d’altro canto la stessa Sezione riconosce (pag. 6), la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito della competenza consultiva della Sezione.
Se ne deve concludere che la questione sottoposta all’esame di queste Sezioni riunite è inammissibile e, pertanto, gli atti vanno restituiti alla Sezione di controllo remittente.
Pertanto, in osservanza al disposto dell’art. 17, comma 31, secondo periodo, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, a mente del quale “Tutte le sezioni regionali di controllo si conformano alle pronunce di orientamento generale adottate dalle Sezioni Riunite”, e recependo le conclusioni della sopra riportata deliberazione SSRR n. 1/CONTR/11 del 13.01.2011,
la richiesta di parere proveniente dal Sindaco del Comune di Suzzara (MN) deve essere dichiarata inammissibile (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.01.2012 n. 2).

PUBBLICO IMPIEGODeve ritenersi che la questione sia inammissibile (…) in quanto la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo– solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della contabilità pubblica, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito delle competenze consultive della Sezione.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione, con nota in data 13.05.2011 prot. n. 8243/1.13.9, una richiesta di parere formulata dal Sindaco del comune di Campi Bisenzio, in cui l’ente chiede se sia legittimo accogliere la domanda di alcuni dipendenti tesa ad ottenere il rimborso della spesa sostenuta per l’iscrizione all’albo professionale, nonché la domanda tesa ad ottenere il rimborso della spesa sostenuta per ottenere il rilascio della carta di qualificazione del conducente (CQC).
...
In merito alla richiesta di legittimità del rimborso di quanto versato per l’iscrizione all’albo professionale, questa (deliberazione n. 11/2008) ed altre sezioni (Emilia Romagna 10/2009, Basilicata 14/2009, Campania 97/2010, Lombardia 673/2010) si sono espresse con esiti diversi in tema di ammissibilità oggettiva della domanda.
A dirimere la questione sono intervenute le Sezioni Riunite della Corte dei conti, coinvolte con una richiesta di pronunciarsi su questione di massima ai sensi dell’art. 17, comma 31, della L. 102/2009, di conversione del D.L. 78/2009.
La deliberazione 13.01.2011 n. 1, in risposta ad un quesito proposto sulla medesima questione oggetto del parere in argomento, recita <<l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può comportare un’estensione dell’attività consultiva a tutti i settori dell’azione amministrativa, ma va delimitata ai profili che risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica –espressione della potestà legislativa concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione– contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio.
Sulla base di questa premessa (…), deve ritenersi che la questione sia inammissibile (…) in quanto la questione prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo– solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della contabilità pubblica, presupponendo la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito delle competenze consultive della Sezione
>>.
Per le esposte ragioni,
la richiesta deve ritenersi inammissibile da un punto di vista oggettivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 26.05.2011 n. 98).

PUBBLICO IMPIEGOSi deve ritenere esclusa la “possibilità per la Provincia di procedere, per i propri dipendenti avvocati, al pagamento (o al rimborso) della quota annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio avanti alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori”.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Presidente della Provincia di Mantova ha chiesto alla Sezione di rendere apposito parere in ordine “alla possibilità per la Provincia di procedere, per i propri dipendenti avvocati, al pagamento (o al rimborso) della quota annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio avanti alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori
...
La questione risulta essere stata affrontata in più occasioni dalla Corte dei conti, sia da parte delle Sezioni regionali di controllo nell’esercizio della funzione consultiva (Sez. Emilia-Romagna,
parere 28.04.2009 n. 10; Sez. Toscana, parere 22.04.2008 n. 11; Sez. Basilicata, deliberazione 15.06.2007 n. 12; Sez. Piemonte, parere 29.03.2007 n. 2; Sez. Sardegna, parere 19.01.2007 n. 1), sia da parte della Sezione Autonomie in sede di coordinamento (nota n. 6935/C21 del 07.06.2007).
Tali pronunce sono state univoche nell’escludere che della spesa della quota d’iscrizione all’albo professionale del dipendente possa essere gravato l’ente di appartenenza.
Questo Collegio ritiene di condividere tale orientamento e di poter esprimere al riguardo le seguenti considerazioni.

In primo luogo va precisato che
la questione acquista rilievo solo nella misura in cui l’iscrizione all’albo professionale (in questo caso l’albo degli avvocati) costituisca requisito necessario per lo svolgimento dell’attività del dipendente. Ove l’iscrizione, se mai consentita dalle diverse normative vigenti, fosse da imputarsi alla libera scelta del dipendente, dovrebbe ritenersi ovviamente a suo carico il pagamento della relativa tassa d’iscrizione.
Rientrano in tale ipotesi anche i casi in cui l’accesso al rapporto di pubblico impiego abbia presupposto, quale titolo, il conseguimento dell’abilitazione all’esercizio della professione, non risultando poi necessaria l’iscrizione al relativo albo per lo svolgimento dell’attività del dipendente.
La questione si pone, dunque, per le fattispecie in cui i dipendenti debbano essere iscritti all’albo avvocati, in quanto requisito necessario per l’esercizio delle funzioni (di consulenza, rappresentanza e patrocinio legale) che svolgono per l’ente.
In questi casi,
deve ritenersi che l’iscrizione all’albo professionale, anche se necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta dal dipendente per l’ente, non sia effettuata nell’esclusivo interesse dell’ente stesso-datore di lavoro.
Da un lato, infatti, è vero che il rapporto che s’instaura tra il dipendente avvocato e l’ente di appartenenza è di tipo esclusivo, nel senso che il dipendente svolge la propria attività professionale solo in rappresentanza e in favore dell’ente; ciò potrebbe indurre a ritenere che conseguentemente spetti all’ente sostenere la spesa della quota d’iscrizione all’albo professionale del dipendente, proprio perché presupposto di un’attività di quest’ultimo che va ad esclusivo vantaggio dell’ente stesso.
Dall’altro lato, tuttavia, v’è da considerare che il rapporto di lavoro in questione è caratterizzato da un’attività di alta specializzazione e professionalità, che, a differenza di altri rapporti di lavoro pubblico, è remunerata al dipendente avvocato, oltre che con la retribuzione base, anche tramite la corresponsione delle cosiddette “propine”. In quest’ottica, il mantenimento dell’iscrizione del dipendente all’ordine professionale deve ritenersi rimesso alla sua responsabilità, comportando esso vari obblighi, tra cui anche quello di provvedere agli adempimenti legati al pagamento della quota annuale d’iscrizione al proprio albo professionale, adempimenti che, appunto in quanto attengono a profili strettamente connessi con la professionalità del soggetto iscritto, arrecano benefici diretti nella sua sfera d’interessi.

Alle suesposte considerazioni si aggiunge anche la constatazione che
gli strumenti di contrattazione collettiva non prevedono alcun onere specifico in tal senso a carico dell’amministrazione.
Pertanto,
deve ritenersi che, in assenza di espresse disposizioni normative sul punto, debba prevalere la scrupolosa osservanza dei vigenti criteri di contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica (art. 1, comma 1, lett. b, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165), ed il principio in base al quale “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratti individuali (art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165).
Conclusivamente, con riferimento specifico al quesito posto,
si deve ritenere esclusa la “possibilità per la Provincia di procedere, per i propri dipendenti avvocati, al pagamento (o al rimborso) della quota annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio avanti alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 22.09.2009 n. 655).

CONVEGNI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L'Associazione Nazionale Consulenti Tecnici di Ufficio organizza per sabato 20.06.2015 - ore 14,30, nell'ambito di EXPO 2015, un seminario gratuito dal titolo “Risorsa territorio, sviluppo sostenibile e giustizia”.
Per maggiori dettagli e per iscriversi cliccare qui.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Maggiorazione costo di costruzione di cui all’art. 16, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 a’ sensi dell’art. 5, comma 10, della L.R. 28.11.2014 n. 31.
---------------
Per quei comuni che non avessero ancora provveduto a deliberare, ecco un fac-simile di testo liberamente modificabile.

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: ASSEGNI AL NUCLEO FAMILIARE - A chi e quanto spetta? (CGIL di Bergamo, CGIL materiali giugno 2015 - n. 3).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 12.06.2015 n. 134 "Aggiornamento degli allegati al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, relativo alle disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 05.05.2009, n. 42" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 20.05.2015).

ENTI LOCALI: G.U. 10.06.2015 n. 132, suppl. ord. n. 27, "Adozione delle note metodologiche e dei fabbisogni standard per ciascun comune delle regioni a Statuto ordinario, relativi alle funzioni di istruzione pubblica, nel campo della viabilità e dei trasporti, di gestione del territorio e dell’ambiente e nel settore sociale" (D.P.C.M. 27.03.2015: volume I - volume II).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.05.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.06.2015 n. 83).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 05.06.2015 n. 128 "Metodi di valutazione delle stazioni di misurazione della qualità dell’aria di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 13.08.2010 n. 155" (Ministero dell'Ambiente e ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 05.05.2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Segretari di rigore. C'è l'obbligo di presa in servizio. PROVINCE/ Il ministero dell'interno applica la legge.
Province obbligate a prendere in servizio, e remunerare, i segretari provinciali, anche se sono impossibilitate ad assumere qualsiasi dipendente, debbono tagliare della metà i costi del personale e sono letteralmente strangolate dalla legge 190/2014, come ha certificato la Corte dei conti, Sez. Autonomie, con deliberazione 11.05.2015 n. 17/2015.
Succede a Cuneo, dove il ministero dell'interno, applicando rigorosamente la norma, ha inviato d'ufficio un segretario alla provincia, per coprire la sede liberatasi lo scorso novembre a seguito del pensionamento del precedente titolare.
Il presidente della provincia di Cuneo aveva ritenuto di poter fare a meno della nomina di un nuovo segretario, lasciando che a svolgere la connessa attività fosse il vice segretario, sul presupposto che il disegno di legge di riforma della p.a. all'attenzione della camera prevede l'abolizione dei segretari e la loro confluenza nel ruolo unico della dirigenza locale.
Un malinteso modo di concepire le riforme, anticipate nella loro attuazione prima ancora che entrino in vigore e che rivela i rischi che stanno dietro un sistema che attribuisce eccessivo peso alle scelte discrezionali e sostanzialmente immotivate della politica, che il disegno di legge delega rende praticamente libera di incaricare i dirigenti.
Più comprensibile e giustificata l'altra motivazione che aveva spinto il presidente della provincia di Cuneo a non attivare la procedura per sostituire il segretario: evitare di accollarsi il costo di un dirigente (circa 115 mila euro lordi), mentre la normativa obbliga a fare a meno di metà del personale, vieta di effettuare assunzioni e impone pesantissime limitazioni alle spese correnti, con influenze estremamente negative sui servizi.
Appare oggettivamente paradossale che enti come le province, in predicato di andare tutti in dissesto a causa delle manovre finanziarie insostenibili, alle quali è vietato da tre anni di effettuare qualsiasi assunzione, debbano ciò nonostante assumersi la spesa per il segretario. Il ministero dell'interno ha certamente adempiuto alla legge che considera il segretario obbligatorio.
Tuttavia, la tempestività dell'intervento lascia da pensare, considerando che le sedi vacanti nei comuni sono migliaia. Ma, soprattutto, se per un verso è ineccepibile comunque la copertura delle sedi di segreteria delle province, è certo incomprensibile gravare la spesa corrente di questi enti di ulteriori pesi.
Sarebbe certamente molto più corretto e logico che lo stato, che preleva forzosamente alle province 2,9 miliardi di euro di spese correnti (diverranno 4,9 a regime nel 2017), dovendo coprire le sedi di segreteria provinciali (mentre restano scoperte migliaia di sedi di comuni che ne hanno molto più bisogno) si accollasse la relativa spesa (articolo ItaliaOggi del 05.06.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Rosolen, Nuovi delitti, nuovi reati presupposto 231 e nuovi meccanismi estintivi in campo ambientale (09.06.2015 - tratto da www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Sergio, La delega delle funzioni dirigenziali nel settore degli enti locali (08.06.2015 - link a www.studiocataldi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Giampietro, Le acque meteoriche di dilavamento non sono più “assimilabili” alle acque reflue industriali (03.06.2015 - tratto da www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Laudante, La problematica dell’individuazione dell’organo competente, nell'ambito degli enti locali territoriali, alla nomina dell’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) - Commento a TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza n. 2347/2015 (03.06.2015 - link a www.diritto.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Oneri aziendali della sicurezza (ANCE di Bergamo, circolare 12.06.2015 n. 134).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.M. 30.01.2015 - DURC "on-line" - prime indicazioni operative (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 08.06.2015 n. 19/2015).
---------------
DURC on line: arrivano i chiarimenti dal Ministero del Lavoro.
Illustrata la nuova disciplina sul DURC “on-line” e forniti i primi chiarimenti di carattere interpretativo necessari per una corretta applicazione del decreto interministeriale del 30.01.2015, con la circolare n. 19 dell’08.06.2015 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Pubblicata la circolare n. 19 dell’08.06.2015, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con cui si illustra la nuova disciplina sul DURC “on-line” che sarà efficace decorsi 30 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta del decreto interministeriale del 30.01.2015 (avvenuta il 01.06.2015), e con cui il Ministero fornisce i primi chiarimenti di carattere interpretativo necessari per una corretta applicazione.
Si riassumono brevemente le novità rispetto al decreto:
Soggetti abilitati alla verifica della regolarità contributiva
In attesa delle implementazioni informatiche, i soggetti delegati sono esclusi dalla possibilità di avviare la verifica della regolarità contributiva, mentre possono effettuarla i soggetti delegati ai sensi dell'art. 1 della L. n. 12/1979 già abilitati per legge allo svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale.
Verifica di regolarità contributiva
l soggetti abilitati possono verificare in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS e dell’INAIL e, per le imprese classificabili ai fini previdenziali nel settore dell’industria o artigianato per le attività dell’edilizia, delle Casse Edili.
Requisiti di regolarità
La regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata. La verifica riguarda tutti i contributi dovuti dall’impresa per tutte le tipologie di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intrattenuti compresi quelli relativi ai soggetti tenuti all’iscrizione alla gestione separata.
La verifica sarà effettuata inserendo il codice fiscale del soggetto.
E’ bene precisare che la regolarità sussiste anche in caso di scostamenti tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascuna gestione che risulti pari o inferiore a € 150,00 comprensivi di eventuali accessori di legge.
Assenza di regolarità
In assenza di regolarità sarà inviato, tramite PEC, solo al soggetto interessato della verifica o ad un soggetto delegato ai sensi dell’art. 1 della legge 12/1979, un invito a regolarizzare entro il termine non superiore ai quindici giorni, con l’indicazione analitica delle cause. Per il rilascio del DURC è necessario comunque che la regolarizzazione avvenga prima del trentesimo giorno dalla data della prima richiesta.
Modalità della verifica
La verifica sarà effettuata tramite un’unica interrogazione negli archivi dell’INPS , dell’INAIL e delle Casse Edili tramite codice fiscale e nel caso sia presente il rilascio di un DURC in corso di validità, il sistema rimanderà allo stesso senza emettere un nuovo pdf.
Il documento ha validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica.
La circolare si sofferma in particolare sul rilascio del DURC in caso di procedure concorsuali, sulle cause ostative della regolarità e sul periodo transitorio che non deve andare oltre il 17.01.2017 (commento tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Introduzione di nuovi reati in campo ambientale (ANCE di Bergamo, circolare 05.06.2015 n. 126).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc on-line – Decreto interministeriale (ANCE di Bergamo, circolare 05.06.2015 n. 124).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Legge 27.05.2015 n. 69, contenente disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministratine, di associazioni di tipo mafioso, nonché di falso in bilancio (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento, circolare 04.06.2015 n. 10/2015).

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) e Tributo per i servizi indivisibili (TASI) – Problematiche concernenti gli obblighi dichiarativi (Ministero dell'Economie e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, circolare 03.06.2015 n. 2/DF).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Novità legislative: Legge n. 68 del 22.05.2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente” (Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario - Settore Penale, nota 29.05.2015).
---------------
Sommario: Premessa. – 1. Il delitto di inquinamento ambientale – 1.1. segue: la compromissione o il deterioramento “significativi e misurabili” - 1.2. segue: l’oggetto della compromissione o del deterioramento - 1.3 segue: il rapporto di causalità - 1.4. segue: l’abusività della condotta - 1.5.: segue: ancora sulla nozione di “abusivamente” - 2. Il delitto di morte o lesioni come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale - 3. Il delitto di disastro ambientale - 3.1. segue: la condotta - 3.2. segue: la clausola di riserva - 4. L’elemento soggettivo. L’inquinamento e il disastro ambientali colposi - 5. Il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività - 6. L’impedimento del controllo - 7. Le aggravanti - 8. Il “ravvedimento operoso” - 9. Le disposizioni sulla confisca - 10. Il ripristino dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica - 11. La responsabilità degli enti da delitto ambientale - 12. L’intervento sulla prescrizione – 13. L’estinzione delle contravvenzioni ambientali – 14. Le disposizioni residue.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Definizione di manifestazione temporanea (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 19.05.2015 n. 5918 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sale di alberghi destinate a riunioni varie (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 19.05.2015 n. 5915 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Autorimessa interrata - Quesito (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 21.04.2015 n. 4869 di prot.).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Partiti e accesso.
Quesito
Può un movimento politico esercitare il diritto di accesso per ottenere l'estrazione di copia degli elenchi di atti risalenti agli anni 1987, 1993 e 2001?
Risposta
L'articolo 10 del dlgs 267/2000 dispone che tutti gli atti dell'amministrazione comunale sono pubblici. Secondo la giurisprudenza amministrativa tale norma non intende radicare un interesse generico alla legittimità dell'azione amministrativa attraverso un controllo generalizzato degli atti da parte del cittadino o di associazioni, che soggiacerebbe alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha precisato che, ai sensi del richiamato art. 10, è consentito al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi solo rispettare la segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge e tutelare la riservatezza dei terzi.
Occorre, altresì, tenere conto delle vigenti disposizioni che impongono gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, come dettate in particolare dagli articoli 5 e 9 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che prevedono, tra l'altro, il diritto di chiunque di richiedere documenti, informazioni o dati.
Pertanto, si ritiene che la specifica norma sull'accesso agli atti degli enti locali, contenuta nel decreto legislativo n. 267/2000, non sia soggetta alle limitazioni previste dalla legge n. 241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica amministrazione. A supporto di tale orientamento soccorre, altresì, la decisione del 17.01.2013 resa dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, secondo la quale le disposizioni di cui alla legge n. 241/1990 recedono di fronte alla norma di cui all'art. 10 del Tuoel. che, in quanto norma speciale, prevale rispetto alla disciplina generale.
La predetta Commissione, con la determinazione del plenum del 15.03.2011 ha riconosciuto la legittimità della richiesta di accesso avanzata da un movimento politico culturale, con sede nel comune a cui è rivolta la richiesta, ritenendo peraltro, che l'esercizio del diritto di cui all'art. 10 del Tuoel non è correlato alla titolarità di alcuna situazione giuridicamente rilevante né necessita di adeguata motivazione.
Anche il difensore civico della Regione Abruzzo, con determinazione 1.9.9/2012, ha ritenuto legittimo l'accesso agli atti di un comune da parte di un circolo politico in quanto espressione diretta di un movimento politico nazionale e locale che si identifica pienamente tra i soggetti privati portatori di interessi diffusi.
Pertanto, l'accesso agli atti richiesti, qualora si trovino nella disponibilità effettiva dell'ente, non può essere negato. Riguardo all'eventuale gravosità delle richieste, occorrerà disporre misure idonee a garantire il minor aggravio possibile per gli uffici comunali attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'Ente. Infatti il diritto di accesso agli atti deve essere esercitato dai consiglieri comunali con il limite di poter soddisfare la richiesta secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente (articolo ItaliaOggi del 05.06.2015).

PATRIMONIO: Possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto un bene del patrimonio disponibile comunale. Modalità dell'affidamento.
1) Sebbene il comodato costituisca una forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA., il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) La concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto privato (art. 12 l. 241/1990). Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente attenersi.

Il Comune, atteso il principio di fruttuosità dei beni pubblici immobiliari, chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto, ad un imprenditore, un bene facente parte del patrimonio disponibile e, in caso di risposta positiva, desidera sapere se l'assegnazione debba essere o meno effettuata mediante procedura ad evidenza pubblica.
Precisa, altresì, che l'assegnazione avrebbe ad oggetto un immobile destinato ad asilo nido
[1] e che l'amministrazione comunale non offre alcun servizio analogo.
Il principio di fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'articolo 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'articolo 32, comma 8, della legge 23.12.1994, n. 724,
[2] impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali - già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni - il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici».
[3]
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale».
[4]
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata
[5]». [6]
La Corte dei conti,
[7] dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati». [8]
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)».
[9]
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta «nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali».
[10]
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni».
[11]
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[12] giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati, in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo».
[13]
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo».
[14]
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione del 'vantaggio economico'
[15] al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune» [16], a nulla rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale» [17]. [18]
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla Corte dei conti.
Passando a trattare della seconda questione posta inerente le modalità di individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a canone ridotto al disotto dei normali prezzi di mercato, si rileva che, in generale, «la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del contratto di comodato [...] pone a carico del comodatario le spese per l'utilizzo del bene, con la diretta conseguenza che la concessione risulta soggetta alle procedure amministrative prescritte dall'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, in materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici».
[19] Tale articolo così recita: '1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1
'.
Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente attenersi.
[20]
Si osserva che, con riferimento alla richiesta dell'Ente circa la necessità di porre in essere una procedura ad evidenza pubblica per individuare il contraente, la giurisprudenza ha affermato, in generale, per tutti i contratti pubblici l'osservanza dei principi dell'evidenza pubblica di derivazione comunitaria per l'individuazione di tale soggetto.
[21]
Concludendo, in riferimento al caso in esame, preme evidenziare, altresì, che, essendo già in essere un contratto di locazione tra Comune e soggetto privato, qualora l'Ente intenda modificare la tipologia contrattuale in essere (non più locazione ma comodato o locazione a prezzo ridotto) dovrà attendere la scadenza della stessa, o, comunque, pervenire ad uno scioglimento per mutuo consenso o per recesso
[22] per procedere, successivamente, ad una nuova attribuzione dell'immobile nel rispetto delle condizioni sopra riportate.
In particolare, l'Ente, nell'esporre le ragioni sulla cui base vorrebbe stipulare non più un ordinario contratto di locazione ma uno a canone ridotto o, addirittura, un contratto di comodato, dovrebbe adeguatamente indicare i motivi di pubblico interesse sottesi a tale scelta, idonei a giustificare la deroga al principio della fruttuosità dei beni pubblici.
[23]
---------------
[1] Va precisato che l'immobile in riferimento è, attualmente, 'regolarmente locato' ad una società in accomandita semplice che vi svolge l'attività di asilo nido.
[2] Il comma 8 dell'articolo 32 della legge 724/1994 così recita: 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[3] Corte dei Conti, sezione II giurisdizionale centrale d'appello, sentenza del 22.04.2010, n. 149.
[4] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, parere del 05.10.2012, n. 716.
[5] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.»).
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[7] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[8] Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali», e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014, che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[10] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[12] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349.
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[15] Si veda, al riguardo, la previsione di cui all'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241.
[16] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[17] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[18] Per completezza espositiva, si rinvia, anche, alla legge regionale 18.08.2000, n. 20, recante 'Sistema educativo integrato dei servizi per la prima infanzia', la quale, all'articolo 10, declina una serie di attività spettanti ai Comuni, volte al perseguimento delle finalità poste dalla legge in riferimento, e consistenti nel voler garantire il pieno esercizio dei diritti riconosciuti alle bambine e ai bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre anni.
[19] Così, ANCI parere del 03.09.2014.
[20] Tra questi l'amministrazione potrebbe valutare l'inserimento della previsione dell'accollo, da parte del comodatario, di tutti gli oneri di manutenzione dell'immobile dato in comodato. Ciò in quanto la Corte dei Conti, in una propria pronuncia (Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit.), relativa all'ipotesi in cui il comodante era un ente locale, dopo aver richiamato il principio di redditività dei beni pubblici, ne ha ricavato la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso». Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano, altresì, gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]».
[21] Specificamente per la locazione, il Giudice amministrativo (TAR Pescara, Sez. I, sentenza del 05.11.2008, n. 878) ha affermato che, anche in assenza di specifica disposizione normativa che imponga l'adozione di procedure concorrenziali per la selezione del contraente privato, l'amministrazione deve osservare i fondamentali canoni della trasparenza, dell'imparzialità e della par condicio (sul tema si veda, anche, TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, sentenza del 21.05.2008, n. 1978). Vero è che, con riferimento al contratto di comodato, pare che il rispetto di tali principi possa attuarsi osservando ed applicando quei criteri predisposti in sede regolamentare, l'applicazione dei quali dovrebbe consentire di attribuire il bene, in presenza di una pluralità di richiedenti, a colui che meglio pare soddisfare le esigenze della Pubblica Amministrazione.
[22] Si osserva che l'articolo 27, commi settimo e ottavo, della legge 27.07.1978, n. 392, prevede la possibilità, per il conduttore, di recedere dal contratto nel caso in cui una tale possibilità sia prevista contrattualmente o, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, qualora ricorrano gravi motivi.
[23] Al riguardo, spetta all'Ente, in relazione alla situazione concreta, esplicitare le ragioni che giustificherebbero la stipulazione di un contratto non comportante più un introito economico per lo stesso (o, comunque, di entità ridotta rispetto ai valori di mercato). Ad esempio, la determinazione di un canone di locazione ridotto al di sotto dei normali prezzi di mercato potrebbe risultare giustificata a fronte della previsione, nella convenzione intercorrente tra il Comune ed il soggetto gestore dell'asilo nido, di vantaggi ulteriori per la collettività comunale, anche sotto il profilo delle tariffe a carico dell'utenza. Ancora, si potrebbe presentare il caso in cui, a fronte di una mutata situazione di fatto (minori iscrizioni al nido; maggiori costi di gestione) non vi siano più le condizioni per il mantenimento in vita del servizio di asilo. In tale ultimo caso, spetta al Comune valutare se la situazione prospettata sia oggettivamente tale da giustificare e ritenere fondato il cambiamento di tipologia contrattuale
(20.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE: Art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012. Approvvigionamento di carburanti.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate categorie merceologiche, tra cui i carburanti.
Per detti beni, la norma in commento prevede l'obbligo di approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali, ovvero attraverso autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica, a condizione che gli stessi prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni o accordi quadro messi a disposizione da Consip Spa e dalle centrali di committenza regionali, avuto riguardo allo specifico parametro dei prezzi dei beni o servizi che devono essere più bassi ('corrispettivi inferiori').

Il Comune pone la questione dell'acquisizione di carburanti, alla luce di quanto previsto dall'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012
[1], in particolare sulla sussistenza dell'obbligo di acquisto a mezzo convenzione Consip anche in caso di dimostrabile anti economicità della fornitura per ragioni di maggiori distanze dei fornitori Consip e dunque di maggior impiego di tempo, mezzi e persone.
Al riguardo, il Comune chiede di sapere se ci siano aggiornamenti rispetto a quanto già affermato da questo Servizio nella nota prot. n. 2679/2013
[2].
Per chiarezza espositiva, si ritiene utile riportare i contenuti della nota richiamata dal Comune, di sintesi del quadro normativo di interesse, rilevando, sin da adesso, che non si riscontrano nuovi elementi, provenienti da pronunce giurisprudenziali o da circolari esplicative dei competenti organi statali, che consentano di discostarsi da quanto già espresso.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti (per quanto qui di interesse), combustibili per riscaldamento e telefonia.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale caso, i contratti devono essere sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip e delle centrali regionali di committenza che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa i contratti stipulati in violazione di quanto previsto dal comma 7.
A ben vedere, il tenore letterale dell'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, subordina la possibilità di procedere ad affidamenti sul libero mercato alla duplice condizione che gli stessi conseguano a procedure ad evidenza pubblica e prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.a. e dalle centrali di committenza regionali.
In particolare, la procedura ad evidenza pubblica deve determinare condizioni contrattuali più convenienti, avuto riguardo allo specifico parametro previsto dei prezzi dei beni o servizi, che devono essere più bassi ('corrispettivi inferiori'). Mentre, non sono contemplati, nella norma in commento, altri indici di risparmio di spesa pubblica, quali, nel caso di specie, potrebbero essere i risparmi sui costi accessori derivanti dalla maggiore lontananza dei distributori di carburante convenzionati Consip. Un tanto si osserva, fermo restando che, comunque, la norma in commento non consente alle pubbliche amministrazioni di approvvigionarsi da altri fornitori se non previo esperimento di procedure ad evidenza pubblica.
Per come formulato l'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, non è dato, dunque, in questa sede, di assumere una posizione diversa da quella espressa nella precedente nota prot. n. 2679/2013, non essendo ad oggi intervenuti, come sopra anticipato, rilievi giurisprudenziali o indicazioni ministeriali che possano giustificare un'apertura rispetto agli obblighi di approvvigionamento ivi previsti.
Sulla questione, è stata, invero, chiamata a rendere parere la Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Umbria
[3], che, peraltro, non ha offerto una soluzione di merito allo specifico riguardo. In particolare, il comune che ad essa si era rivolto aveva chiesto di poter derogare all'obbligo previsto dall'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, in quanto la fornitura di carburanti presso distributori non rientranti nella convenzione Consip avrebbe consentito, a suo dire, un risparmio di spesa pari ai costi accessori dovuti alla maggiore distanza dal Comune dei distributori previsti dalla convenzione Consip.
La Corte dei conti dell'Umbria ha ritenuto inammissibile la richiesta sotto il profilo oggettivo in quanto relativo alla possibilità di derogare agli obblighi derivanti dalla normativa vigente in materia di forniture di carburanti alle pubbliche amministrazioni.
Specificamente, la Corte dei conti ha rilevato che trattavasi di un quesito concernente uno specifico caso di gestione e non limitato, come dovrebbe essere, a temi di carattere generale in materia di contabilità pubblica
[4], ma comportante di fatto valutazioni relative all'adeguatezza delle specifiche scelte gestionali, sia di natura tecnica che contabile, da adottarsi da parte dell'ente, per cui, eventuali sue pronunce avrebbero contrastato con i principi e le modalità per l'esercizio dell'attività consultiva della Corte dei conti.
--------------
[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese nel settore bancario'.
[2] La nota è rinvenibile all'indirizzo web della Regione FVG: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[3] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l'Umbria, Perugia, parere n. 241 del 30.11.2012.
[4] La Corte dei conti Umbria richiama, in questo senso, i principi e le modalità per l'esercizio dell'attività consultiva, fissati dalla Sezione delle Autonomie, adunanza del 27.04.2004
(04.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso agli atti. Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura, nel trasmettere la nota del segretario del Comune di …, ha chiesto un parere in ordine al diritto di accesso esercitato da un movimento politico che ha presentato istanza per la visione e l’estrazione di copia degli elenchi di atti risalenti agli anni 1987, 1993 e 2001.
Al riguardo, conformemente a quanto già espresso con il parere di questo Ufficio del 22.07.2014, richiamato dal segretario comunale, si osserva che l’articolo 10 del decreto legislativo n. 267/2000 -che disciplina il diritto di accesso e informazione, rafforzando il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa locale per il cittadino, singolo o associato,- dispone che tutti gli atti dell’amministrazione comunale sono pubblici.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale norma non intende, comunque, radicare un interesse generico alla legittimità dell’azione amministrativa attraverso un controllo generalizzato degli atti da parte del cittadino o di associazioni, che soggiacerebbe alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha precisato, che ai sensi del richiamato art. 10, è consentito al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi dell’ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento e senza necessità della previa indicazione delle ragioni della richiesta, dovendosi solo rispettare la segretezza degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge e tutelare la riservatezza dei terzi.
Occorre, altresì, tenere conto delle vigenti disposizioni che impongono gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, come dettate in particolare dagli articoli 5 e 9 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che prevedono, tra l’altro, il diritto di chiunque di richiedere documenti, informazioni o dati.
Pertanto, si ritiene che la specifica norma sull’accesso agli atti degli enti locali, contenuta nel decreto legislativo n. 267/00, non sia soggetta alle limitazioni previste dalla legge n. 241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica amministrazione.
A supporto di tale orientamento soccorre, altresì, la decisione del 17.01.2013 resa dalla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, secondo la quale le disposizioni di cui alla legge n. 241/1990 recedono di fronte alla norma di cui all’art. 10 del T.U.O.E.L. che, in quanto norma speciale, prevale rispetto alla disciplina generale.
La predetta Commissione, con la determinazione del plenum del 15.03.2011 ha riconosciuto la legittimità della richiesta di accesso avanzata da un movimento politico culturale, con sede nel Comune a cui è rivolta la richiesta, ritenendo peraltro, che l’esercizio del diritto di cui all’art. 10 del T.U.O.E.L. non è correlato alla titolarità di alcuna situazione giuridicamente rilevante né necessita di adeguata motivazione.
Anche il Difensore civico della Regione Abruzzo con determinazione 1.9.9/2012 ha ritenuto legittimo l’accesso agli atti di un comune da parte di un Circolo politico in quanto espressione diretta di un movimento politico nazionale e locale che si identifica pienamente tra i soggetti privati portatori di interessi diffusi.
Si ritiene, pertanto, che l’accesso agli atti richiesti, qualora si trovino nella disponibilità effettiva dell’Ente, non possa essere negato.
Riguardo alla lamentata gravosità delle richieste, si ritiene, sulla scorta di quanto previsto anche per l’esercizio del diritto da parte dei consiglieri comunali, che occorra disporre misure idonee a garantire il minor aggravio possibile per gli uffici comunali attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’Ente.
Infatti il diritto si esercita con il limite di potere soddisfare la richiesta secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente
(Ministero dell'Interno, parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sottoscrizione di deliberazioni consiliari da parte del consigliere anziano. Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura, in relazione ad un quesito del Segretario del Comune di oggetto, ha chiesto il parere in ordine alla legittimità del rifiuto di controfirmare due deliberazioni consiliari opposto dal consigliere comunale anziano, il quale ha invece regolarmente sottoscritto i relativi verbali delle sedute consiliari.
Al riguardo, si evidenzia che l’articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 2 dispone che “il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento”, mentre il comma 3 prevede, altresì, che “i consigli sono dotati di autonomia funzionale e organizzativa”.
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle deliberazioni, essendo invece prevista, all’art. 124 la sola obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all’albo pretorio.
Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni interne di cui l’ente si è dotato, in virtù proprio del rimando di cui all’art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
L’art. 22 dello statuto comunale demanda la sottoscrizione del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale, al sindaco ed al consigliere anziano.
I citati soggetti, ai sensi del successivo articolo 23 sottoscrivono anche le deliberazioni comunali.
L’articolo 42 del regolamento consiliare, al comma 6, ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal Presidente, dal Consigliere anziano e dal Segretario comunale. Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni.
Nella fattispecie prospettata, tuttavia, l’obbligo di firma delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano scaturisce proprio dallo statuto comunale che, al richiamato articolo 23, dispone testualmente che le deliberazioni del consiglio comunale sottoscritte dai soggetti di cui all’art. 22, comma 1, tra i quali rientra anche il consigliere anziano.
Si ritiene, altresì, opportuno evidenziare, che la sottoscrizione del provvedimento deliberativo ai fini della pubblicazione, assume una mera funzione certificativa della regolarità formale dell’atto.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta Prefettura, in relazione ad un quesito del Segretario del Comune di oggetto, ha chiesto il parere in ordine alla legittimità del rifiuto di controfirmare due deliberazioni consiliari opposto dal consigliere comunale anziano, il quale ha invece regolarmente sottoscritto i relativi verbali delle sedute consiliari.
Al riguardo, si evidenzia che l’articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 2 dispone che “il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento”, mentre il comma 3 prevede, altresì, che “i consigli sono dotati di autonomia funzionale e organizzativa”.
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle deliberazioni, essendo invece prevista, all’art. 124 la sola obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all’albo pretorio.
Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni interne di cui l’ente si è dotato, in virtù proprio del rimando di cui all’art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
L’art. 22 dello statuto comunale demanda la sottoscrizione del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale, al sindaco ed al consigliere anziano.
I citati soggetti, ai sensi del successivo articolo 23 sottoscrivono anche le deliberazioni comunali.
L’articolo 42 del regolamento consiliare, al comma 6, ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal Presidente, dal Consigliere anziano e dal Segretario comunale. Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni.
Nella fattispecie prospettata, tuttavia, l’obbligo di firma delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano scaturisce proprio dallo statuto comunale che, al richiamato articolo 23, dispone testualmente che le deliberazioni del consiglio comunale sottoscritte dai soggetti di cui all’art. 22, comma 1, tra i quali rientra anche il consigliere anziano.
Si ritiene, altresì, opportuno evidenziare, che la sottoscrizione del provvedimento deliberativo ai fini della pubblicazione, assume una mera funzione certificativa della regolarità formale dell’atto
(Ministero dell'Interno, parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Vice Sindaco di un comune nel far presente che l’ente ha in forza lavoratori LSU stabilizzati co.co.co. ha chiesto se sia possibile munire gli stessi di badge marcatempo al fine di verificare la presenza, senza che gli stessi abbiano la possibilità di rivendicare diritti di assunzione, tenuto conto che gli stessi attualmente firmano su fogli di presenza.
Con una nota il vice sindaco di un Comune, nel far presente che l’ente ha in forza lavoratori LSU ed altri ex LSU stabilizzati con contratti di co.co.co., ha chiesto di conoscere se sia possibile munire gli stessi di badge marcatempo al fine di verificarne la presenza, senza che ciò comporti da parte degli stessi la possibilità di rivendicare diritti di assunzione, tenuto conto che attualmente gli stessi firmano su fogli di presenza.
Si fa, preliminarmente, presente che, com’è noto, le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di dotarsi di sistemi di rilevazione per il controllo automatizzato dell’orario di lavoro. Ciò per ottenere un’efficace razionalizzazione delle proprie risorse finanziarie, con attribuzione del trattamento accessorio solo allorché il lavoro sia effettivamente prestato, e per attuare una maggiore trasparenza nel rapporto fra le predette amministrazioni, i dipendenti e i cittadini.
Ciò posto si rileva che il lavoratore dipendente è tenuto ad osservare l’orario di lavoro e non può assentarsi senza giustificato motivo. Invero, l’inosservanza dell’orario di lavoro oltre a determinare una fattispecie di responsabilità disciplinare, determina una situazione debitoria per la mancata prestazione lavorativa.
Anche i lavoratori socialmente utili, seppur non dipendenti, sono sottoposti ad una serie di doveri, solitamente indicati nei disciplinari regionali relativi all’utilizzazione dei predetti lavoratori. Tra tali doveri rientra quello dell’osservanza l’orario di lavoro e dell’osservanza delle disposizioni di natura formale che attestino detto orario. In tale contesto non osta la possibilità di dotare di badge i lavoratori in questione.
A tal proposito giova richiamare la sentenza n. 12738/2010 con la quale la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha chiarito che il dipendente non può essere obbligato a firmare il registro cartaceo delle presenze, qualora sia utilizzato il sistema di rilevazione a mezzo badge.
Per quanto riguarda i lavoratori ex LSU stabilizzati con contratti di co.co.co. giova rammentare che la natura “autonoma” di dette collaborazioni comporta di per sé l’impossibilità di considerare come un obbligo la prestazione oraria e il relativo controllo delle presenze. Infatti, se è pur vero che potrebbe essere necessario un inserimento del collaboratore nell'organizzazione dell’ente, poiché debbono essere garantiti uno o più risultati continuativi che si integrino in tale organizzazione, ciò dovrà comunque avvenire in presenza di una gestione autonoma del tempo di lavoro da parte del collaboratore.
In altri termini, l'attività del collaboratore potrebbe anche svolgersi in un luogo diverso da quello nel quale opera l'organizzazione che fa capo al committente, venendo questi in contatto con l'organizzazione solo nei tempi utili allo svolgimento della sua collaborazione. Conseguentemente, l’eventuale utilizzo del badge per detti lavoratori, ad avviso dello scrivente, potrebbe avvenire solamente tenendo conto dell’autonomia della prestazione lavorativa ovvero al solo scopo identificativo
(Ministero dell'Interno, parere 23.02.2015 - link a http://incomune.interno.it).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Costituzione in giudizio dell’amministrazione e refusione delle spese legali a dipendenti assolti ex art. 425 c.p.p.. Richiesta di parere.
Con una nota una Amministrazione ha fatto presente di non aver provveduto al rimborso delle spese legali sostenute da alcuni dipendenti, sottoposti nell’anno 2005 a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 81 c.p.v., 479 c.p. in relazione all’art. 476, comma 2, c.p., e prosciolti, nel 2007, con la formula “perché il fatto non sussiste” ex art. 425 c.p.p., atteso il parere negativo espresso dall’Avvocatura comunale che non ravvisò la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 28 del C.C.N.L. 14.05.2000.
All’epoca dei fatti, l’Ente si costituì in giudizio e, contestualmente, l’organo disciplinare interno provvide ad attivare regolare procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti medesimi. Poiché i dipendenti, citati in giudizio dall’avvocato per il pagamento dell’onorario, che ammonta ad una cifra cadauno, si sono costituiti chiamando in causa il comune, si è riproposta la questione sulla accoglibilità della citata richiesta. Viene chiesto, in particolare, di conoscere se in presenza della su accennata pronuncia di proscioglimento, che ha escluso la responsabilità del dipendente, l’Ente sia tenuto a detto rimborso; se la comunicazione della scelta dell’avvocato sia da considerarsi come coinvolgimento dell’Ente nella scelta stessa, oltre, infine a voler conoscere un giudizio di congruità sulle spese legali chieste dall’avvocato difensore.
Al riguardo, si fa presente che il citato art. 28 del CCNL 14.05.2000, disciplinante la materia per il personale di qualifica non dirigenziale, testualmente dispone che: “l’ente anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento.”
L’assunzione dell’onere relativo all’assistenza legale dei dipendenti, pertanto, non è automatico ma presuppone alcune valutazioni che si ricavano dalla formulazione dell’articolo medesimo, valutazioni volte ad accertare il rispetto dell’interesse dell’ente di assicurare una buona amministrazione delle risorse economiche e di tutelare il proprio decoro e la propria immagine.
L’esatto adempimento delle statuizioni del predetto art. 28 obbliga l’ente, prima di convenire di assumere a proprio carico ogni onere di difesa in un procedimento di responsabilità civile o penale aperto nei confronti di un proprio dipendente, a valutare la sussistenza delle seguenti condizioni: necessità di tutelare i propri diritti e i propri interessi; insussistenza di conflitto di interessi con il dipendente come in tutti i casi in cui questi abbia posto in essere atti illegittimi; che si tratti di atti posti in essere dal dipendente durante l’espletamento del servizio e per l’adempimento dei compiti d’ufficio.
L’amministrazione, dunque, ha l’onere di verificare se l’imputazione riguardi un’attività svolta in diretta connessione con i fini del comune e sia imputabile all’ente stesso, nonché di accertare la inesistenza di un conflitto di interesse, valutato non solo sotto il profilo della responsabilità penale, ma anche sotto i profili disciplinare e amministrativo per mancanze attinenti al compimento dei doveri d’ufficio.
Alla luce dei principi illustrati e relativamente al caso prospettato, la circostanza che codesto Ente si sia costituito parte civile e, allo stesso tempo, abbia attivato la procedura disciplinare nei confronti dei dipendenti, sembrerebbe deporre per l’esistenza di un conflitto di interessi tra l’ente e i dipendenti interessati (Cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 13624/2002), che non consentono l’assunzione dell’onere della difesa.
In ogni caso, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, si ritiene che codesta Amministrazione debba attentamente valutare, che il requisito dell’assenza del conflitto di interesse, condizione per poter procedere al rimborso, emerga chiaramente alla conclusione del procedimento penale, tenendo conto non solo della formula assolutoria della sentenza, ma anche da tutte le circostanze del caso, in relazione alle caratteristiche concrete del fatto e delle specifiche finalità che hanno spinto il dipendente a porlo in essere.
Relativamente al giudizio di congruità sulle spese legali richieste, si fa presente che la Corte dei Conti Sez. Reg. Lombardia, nel parere 514/2010, ha affermato l’opportunità, se non la necessità, che la parcella delle spese, da produrre a corredo dell’istanza di rimborso oltre alla fattura debitamente quietanzata dal professionista, rechi il parere di congruità dell’Ordine forense.
A tale proposito, si è dell’avviso che la semplice comunicazione all’amministrazione della scelta dell’avvocato fatta dai dipendenti, non assolva alla condizione posta dalla norma secondo la quale il professionista deve essere scelto preventivamente e concordemente tra le parti (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 552/2007)
(Ministero dell'Interno, parere 15.03.2012 - link a http://incomune.interno.it).

NEWS

APPALTI: Un albo dei direttori dei lavori. Annullabili in autotutela le gare a rischio corruzione. In aula al Senato le proposte dei relatori al disegno di legge delega sugli appalti.
Albo nazionale dei commissari di gara obbligatorio, così come quello dei direttori lavori delle grandi opere; spostamento dell'Avcpass (strumento che serve per la verifica dei requisiti) presso il Ministero delle infrastrutture; Cantone potrà annullare in autotutela le gare a rischio corruzione; braccio di ferro sull'obbligo di gara per gli appalti dei concessionari.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo sui quali si sta focalizzando la discussione del testo del disegno di legge delega sugli appalti
(Atto Senato n. 1678) che l'aula del Senato ha iniziato ad esaminare ieri, partendo della relazione orale dei due relatori Stefano Esposito e Marco Pagnoncelli.
L'articolato, come risultante dal lavoro condotto in commissione lavori pubblici, contiene 61 criteri di delega e risulta ben più preciso e vincolante per il lavoro che il Governo dovrà svolgere, rispetto al testo iniziale approvato dal Consiglio dei ministri del 29 agosto. Sono circa 200 gli emendamenti presentati in Aula dai diversi gruppi, ma la forte accelerazione impressa ai lavori dovrebbe portare a limitate modifiche di cui, peraltro, si sono fatti carico anche i due relatori che in queste ultime ore hanno presentato alcune proposte di modifica.
In particolare una prima correzione tocca le banche dati che dovranno essere utilizzate dalle stazioni appaltanti per verificare i requisiti: secondo la proposta depositata in aula la suddivisione delle competenze sarà tale da spostare presso il Ministero delle infrastrutture lo strumento dell'Avcpass e l'unificazione di tutte le altre banche dati presso l'Autorità nazionale anticorruzione.
Rimanendo all'authority presieduta da Raffaele Cantone –che dovrà anche definire i criteri reputazionali per qualificare le imprese– i relatori hanno precisato che l'albo nazionale dei commissari di gara deve essere obbligatorio per tutti i casi in cui si deve nominare una commissione (anche se il sorteggio dei candidati a commissario sarebbe bene affidarlo alla stessa authority e non alle singole stazioni appaltanti).
Sulla norma che ammette l'annullamento di una gara in caso di fenomeni corruttivi e l'esperimento di una nuova procedura (rinnovazione della gara), in alternativa al commissariamento dell'azienda, i due relatori prevedono l'attribuzione di questo potere direttamente al Presidente Anac e non più all'Autorità nel suo complesso. Diventa obbligatorio anche l'albo nazionale dei direttori dei lavori delle grandi opere: non saranno le stazioni appaltanti a fare la richiesta di nomina, ma il Ministero delle infrastrutture a fornire i candidati da scegliere, presi dall'albo.
Sul tema delle concessioni, elemento di particolare rilievo e delicatezza sul quale la linea scelta in commissione è stata quella di obbligare tutti i concessionari di lavori e di servizi pubblici (con una moratoria di 12 mesi) ad affidare a terzi lavori, servizi e forniture, i relatori hanno proposto di escludere le concessioni affidate con la formula della finanza di progetto, ma già qualche subemendamento ha chiesto di estendere l'esclusione a tutte le concessioni affidate in gara
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAAccesso limitato al Durc online. Nella prima fase alcuni soggetti delegati non potranno avviare la verifica.
Contributi. Dal ministero del Lavoro le prime indicazioni operative: confermata la correzione delle scoperture in 30 giorni.

Durc online ma non per tutti. Con la circolare 08.06.2015 n. 19/2015 pubblicata dal Ministero del Lavoro continua la fase di assemblaggio del puzzle di regole che –dal 1° luglio– consentiranno l’operatività del documento unico di regolarità contributiva online.
Il quadro tracciato dai primi provvedimenti (oltre alla circolare 19, c’è il messaggio Inps 45482) evidenzia come la nuova modalità del Durc telematico partirà depotenziata rispetto all’intento indicato dal legislatore nel Dl 34/2014, ossia la completa sburocratizzazione del processo vigente: infatti, chiarendo la platea abilitata alla verifica del Durc online, viene specificato che «in una prima fase di applicazione della nuova disciplina» non potranno accedere al sistema i soggetti terzi interessati alla richiesta di regolarità che siano stati delegati dalle aziende e dai lavoratori autonomi, fatte salve le figure individuate ai sensi della legge 12/1979, le quali sono già abilitate per legge allo svolgimento degli adempienti di carattere lavoristico e previdenziale.
Solo in un secondo tempo i soggetti indicati –al pari delle banche e degli intermediari finanziari (in particolari fattispecie)– potranno servirsi del sistema del documento unico di regolarità contributiva online, dietro apposita delega che dovrà essere comunicata a cura del delegante agli istituiti coinvolti dalla verifica della regolarità: sul punto la procedura potrà rivelarsi macchinosa e dovranno essere create delle implementazioni ad hoc.
Inoltre, al di là dell’esclusione iniziale di alcuni soggetti dal nuovo sistema, in via transitoria e fino al 31.12.2016, laddove la verifica “in tempo reale” non sia possibile per via della carenza di dati negli archivi degli enti coinvolti, si potranno continuare ad utilizzare le vigenti modalità di rilascio del Durc, nel rispetto però delle regole aggiornate secondo il Dm del 30.01.2015.
L’altra novità rilevante che emerge tra le pieghe della circolare 19 è che –come traspariva già dal messaggio Inps 45482– in tutte le ipotesi in cui dall’interrogazione del sistema non risultino posizioni “cristalline” di regolarità, la procedura si esaurirà nei successivi 30 giorni, come avviene nel sistema vigente.
L’impostazione è positiva per quei soggetti che, trovandosi in una situazione di irregolarità e ricevuto il preavviso per sistemare le scoperture (con 15 giorni di tempo), potranno comunque far generare il Durc online, qualora effettuino i pagamenti dovuti prima del 30° giorno dalla data della prima richiesta: infatti, prima di tale scadenza –nelle fattispecie descritte– gli Istituti coinvolti non potranno dichiarare l’irregolarità.
La circolare interviene altresì a chiarire alcuni aspetti tecnici. Con riferimento al requisito della regolarità, ad esempio, non potranno essere considerate positive al rilascio del Durc quelle condotte omissive laddove il soggetto interessato -al quale sia stato spedito l’invito a regolarizzare- non abbia presentato le denunce contributive o le abbia presentate con importo pari a zero, ovvero con contenuto privo degli elementi necessari: il sistema riporterà così l’esito di irregolarità, specificando l’informazione dell’omissione con importo pari a zero.
Invece per le aziende di recente costituzione, poiché la verifica opera con riferimento ai pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del 2° mese antecedente a quello della stessa, l’interrogazione del sistema indicherà la data di decorrenza dell’iscrizione agli enti, senza attestare la regolarità, in quanto non rilevabile.
Resta, infine, confermato, anche nell’impianto del Durc online, l’intervento sostituivo delle stazioni appaltanti pubbliche, nel caso in cui l’esito irregolare rilevi posizioni a debito e ove ne ricorrano i presupposti di legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2015).

CONDOMINIO - ESPROPRIAZIONE: Espropri, coinvolgimento ampio. L’intesa sul risarcimento deve essere approvata all’unanimità. Azioni amministrative. Notifiche ai singoli comproprietari - Possibili ricorsi al Tar e alla Corte d’appello.
L’esproprio per pubblica utilità entra in condominio: a Milano per la linea 4 della metrò, sono già arrivate le prime notifiche. Il problema è comunque diffuso anche altrove, perché più in generale il processo espropriativo permette alla pubblica amministrazione di ottenere la proprietà di beni necessari per la realizzazione di opere d’ interesse pubblico.
I beni possono essere acquisiti dalla Pubblica amministrazione con il consenso del proprietario (cessione volontaria) o senza, mediante l’esercizio del potere autoritativo che le compete. Il naturale interlocutore della Pubblica amministrazione per tutto il procedimento sia il legittimo proprietario del bene da espropriare.
Cosa accade nel caso in cui il bene da espropriare sia un terreno di proprietà condominiale? Il condominio ha una soggettività limitata e può disporre della cosa comune per la gestione, non potendola alienare:per la vendita di un bene condominiale è infatti necessario il consenso di tutti i condòmini.
La procedura espropriativa, incidendo sul diritto di proprietà ,dovrà pertanto essere indirizzata nei confronti di tutti i comproprietari e non direttamente nei confronti del condominio che ha solo dei limitati poteri di controllo sulla regolarità della procedura.
Agli espropriati sono consentiti, in linea di massima, tre tipi di tutela nei confronti dell’Autorità espropriante.
La prima tutela riguarda la valutazione della pubblica utilità la cui sussistenza giustifica l’esproprio. Gli interessati possono dimostrare che l’opera da realizzare non soddisfa un reale interesse pubblico , o che potrebbe essere utilizzato altro terreno più idoneo. Questo di tipo di contestazione deve essere indirizzata al Tar o su richiesta del condominio, la cui soggettività è idonea a svolgere azioni legali a tutela del godimento comune, oppure su richiesta del singolo condòmino, anch’egli intitolato del pieno diritto di difendere la sua comproprietà.
La seconda tipologia di tutela è legata il rispetto delle regole del procedimento espropriativo. Il Testo Unico sugli espropri (Dl 327/2001) scandisce tempi e modalità del procedimento espropriativo, la cui mancata osservanza può essere utilmente contestata innanzi al Giudice amministrativo. Anche in questo caso il ricorso potrà essere proposto sia dal condominio che dal singolo condòmino, essendo entrambi portatori di interesse meritevole di tutela.
La terza e ultima categoria di contestazioni riguarda la misura del «ristoro» da assicurare al soggetto espropriato. Le problematiche legate alla misura dell’indennizzo dovuto sono affidate al giudice ordinario, con un giudizio speciale che si svolge direttamente in Corte d’appello.
In linea di massima dobbiamo ricordare come all’espropriato oggi competa, finalmente, il valore venale del bene al momento dell’esproprio. Questo è il punto di arrivo cui si è giunti dopo due celebri sentenze dalla Corte costituzionale (348 e 349/2007) che hanno sgombrato il campo da tutte le disposizioni che limitavano , a volte in modo pesantissimo, le aspettative di ristoro degli espropriati.
I privati possono, ed è anzi auspicabile, partecipare al procedimento trovando con la Pubblica amministrazione un’intesa sulla misura del ristoro.
Il legislatore, in tal caso, al fine di dissuadere gli interessati da lunghe e socialmente onerose controversie giudiziarie, assicura a quanti raggiungono un accordo una premialità pari al 10% del valore del bene.
Nel caso di area condominiale la stima dovrà necessariamente essere accettata da tutti i condòmini individualmente e non basterà il consenso o la valutazione positiva del condominio a maggioranza .
Qualora non si riesca ad arrivare ad un accordo e la misura dell’indennità offerta sia oggetto di contestazione, il giudizio dovrà essere promosso dai singoli condòmini, essendo da escludere la legittimazione del condominio.
Nel caso la stima dell’area risulti significativamente più alta di quanto in prima battuta offerto, l’espropriante verrà condannato a pagare, oltre le spese di processo, anche il 10% di premialità di cui gli espropriati avrebbero potuto beneficiare se fosse stata loro offerta una stima congrua.
È importante segnalare , infine , che gli effetti della sentenza, positivi o negativi che siano, si produrranno solo nei confronti dei condòmini che hanno partecipato alla lite.
Della nuova e diversa stima non beneficeranno, conseguenzialmente, i condòmini che non hanno proposto opposizione nei termini, accettando con «acquiescenza» l’indennità loro offerta.
---------------
in sintesi
   
01 GLI INTERESSATI
La procedura espropriativa dovrà essere indirizzata a tutti i condòmini individualmente e non al condominio
02 L’OPPOSIZIONE
La prima tutela (al Tar) permette di provare che non c’è la «pubblica utilità» la cui sussistenza giustifica l’esproprio. La seconda tutela è legata al rispetto delle regole formali del Dpr 327/2001 , che scandisce tempi e modalità del procedimento (sempre
davanti al Tar)
03 IL RISARCIMENTO
Il «ristoro» è al valore venale del bene al momento dell’esproprio; i privati possono trovare un’intesa, incassando il 10% in più. Nel caso di area condominiale la stima dovrà essere accettata da tutti i condòmini. Qualora non si riesca ad arrivare a un accordo il giudizio dovrà essere promosso dai singoli condòmini, essendo da escludere la legittimazione del condominio
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Vecchi Durc fino alla scadenza. Validi i certificati rilasciati prima del passaggio online. I chiarimenti del ministero in vista del debutto (dal 1° luglio) della nuova procedura.
Vecchi Durc validi fino a scadenza. Infatti, i certificati di regolarità contributiva (Durc) ottenuti prima dell'entrata in vigore della procedura online, fissata al 1° luglio, si potranno utilizzare nei casi e per i periodi di validità previsti dalla vecchia disciplina.

Lo precisa il Ministero del lavoro nella
circolare 08.06.2015 n. 19/2015, spiegando però che, in fase di avvio del nuovo sistema, non sarà possibile fare verifiche online a imprese, lavoratori autonomi, banche e consulenti.
Subito in vigore (dal 16 giugno) la norma sullo «scostamento non grave»: c'è comunque regolarità in presenza di debiti fino a 150 euro (oggi 100 euro).
Operazione di semplificazione. A distanza di un anno arriva in porto la semplificazione del Durc. Dal 1° luglio si potrà verificare in tempo reale se un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i contributi e gli adempimenti nei confronti dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili (quest'ultima soltanto per le aziende dell'edilizia).
A prevedere la novità è stato il dl n. 34/2014 (convertito dalla legge n. 78/2014) attuata dal dm 30 gennaio, pubblicato sulla G.U. n. 125/2015, in vigore dal prossimo 16 giugno relativamente alle norme degli art. 3, commi 2 e 3 (requisiti di regolarità), art. 5 (procedure concorsuali) e art. 8 (cause ostative alla regolarità).
Soggetti abilitati. La verifica online sarà possibile anche da parte delle stesse imprese e lavoratori autonomi per le proprie posizioni contributive ovvero, su delega di questi, da chiunque vi abbia interesse, nonché da parte di banche e intermediati finanziari.
Poiché in questi casi la verifica è subordinata alla sussistenza di delega, il ministero spiega che nella prima fase di avvio della nuova disciplina questi soggetti resteranno esclusi dalla possibilità in «attesa delle necessarie implementazioni informatiche». L'esclusione in ogni caso non riguarda i consulenti del lavoro e gli altri professionisti abilitati per legge (art. 1, legge n. 12/1979).
Scostamenti non gravi. La regolarità presuppone i pagamenti dovuti dall'impresa per i lavoratori subordinati e quelli impiegati in collaborazioni coordinate e continuative nonché dei lavoratori autonomi, scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui è fatta la verifica, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni casi, poi, la regolarità sussiste comunque anche in presenza di parziali scoperture (tra l'altro in presenza di rateizzazioni concesse dall'Inps, dall'Inail o dalle casse edili ovvero dagli agenti di riscossione; sospensione dei pagamenti disposti dalla legge ecc.), oppure in presenza di uno scostamento definito «non grave» tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale e a ciascuna cassa edile; ossia se il predetto scostamento risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro inclusi gli eventuali accessori di legge.
Stessa deroga è prevista anche oggi, ma con doppio limite, ossia quando la differenza tra dovuto e versato non supera il 5% oppure lo supera ma il debito complessivo non arriva a 100 euro. Il nuovo e unico limite (150 euro) entra in vigore il 16 giugno.
Validi i vecchi Durc. Infine, la circolare precisa che i Durc richiesti prima dell'entrata in vigore della nuove regole e in corso di validità possono essere utilizzati nelle ipotesi e per i periodi di validità fissati dalla previgente disciplina. Mentre in via transitoria non oltre il 01.01.2017 resta assoggettato alle previgenti modalità il Durc richiesto in applicazione delle disposizioni indicate in tabella
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc interno, pioggia di avvisi. La procedura informatizzata carente alimenta gli invii. In corso di ultimazione le operazioni di controllo della regolarità dei datori di lavoro.
Una pioggia di preavvisi d'irregolarità in arrivo da parte dell'Inps.

Lo prevede il
messaggio 21.05.2015 n. 3454 (si veda ItaliaOggi del 22 maggio) per mezzo del quale l'Istituto comunica che, in vista del prossimo rilascio del nuovo sistema di gestione del cosiddetto Durc online, sono in corso di ultimazione le operazioni di controllo della regolarità dei datori di lavoro ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi e che, conseguentemente, sono riprese le operazioni di spedizione dei preavvisi di accertamento negativo ai fini delle fruizione dei benefici stessi (come anticipato da ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).
Ad alimentare gli invii, anche «finte» irregolarità frutto di carenze della piattaforma informatizzata di gestione del Durc interno, che ancora, ad oggi, non risulta in grado di elaborare tutte le informazioni relative alle effettive situazioni aziendali (si veda altro articolo in pagina).
Il Durc. Il Durc è il certificato che, sulla base di un'unica richiesta, attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti dell'Inps, dell'Inail e della Cassa Edile.
Allo scopo di favorire la creazione di un sistema che concretamente premi i comportamenti virtuosi delle imprese, il legislatore ha introdotto alcuni requisiti che i datori di lavoro sono tenuti a rispettare.
Più precisamente l'art. 1, comma 1175, della legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007) ha subordinato la fruizione dei benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale: a) Al possesso del Durc regolare; b) Al generale rispetto, da parte dei datori di lavoro, degli obblighi di legge e degli accordi e contratti collettivi di qualunque livello (quindi nazionali, regionali, territoriali o aziendali ove presenti) stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
L'art. 3 del dm 24/10/2007 prevede che, in caso di coincidenza tra istituto che rilascia il certificato e quello che ammette il datore di lavoro alla fruizione dei benefici contributivi, sia compito dell'istituto stesso verifica la sussistenza delle condizioni di regolarità senza procedere alla materiale emissione del documento (c.d. «Durc interno»).
A tal proposito si rammenta che la circolare Inps n. 51/2008 ha chiarito che la richiesta del Durc per fruire dei benefici si ritiene assolta attribuendo al mod. DM10 (denuncia mensile nella quale vanno indicate le agevolazioni e gli sgravi) il carattere di idonea manifestazione di volontà del datore di lavoro.
Avviso di accertamento negativo del debito. L'art. 7, comma 3, del dm 24/10/2007 prevede che, qualora gli Enti preposti al rilascio del Durc rilevino, nel corso della procedura, una carenza dei requisiti di regolarità (o più semplicemente della documentazione mancante) che sia di ostacolo al rilascio del certificato, debbono, prima dell'emissione del Durc negativo o prima dell'annullamento del documento positivo già rilasciato, consentire all'interessato di intervenire nel procedimento per sanare la propria posizione.
Si tratta, come osservava il ministero del lavoro nella circolare n. 5/2008, di un meccanismo che il regolamento ha mutuato dall'art. 10-bis della legge n. 241/1990 e che si concretizza in una sorta di preavviso di accertamento negativo. Il comma 8, dell'art. 31 del dl n. 69/2013, intervenendo sugli aspetti legati all'emissione del certificato, ha rafforzato il dettato regolamentare contemplando che, in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio del Durc, gli istituti invitino l'interessato a regolarizzare, entro un termine non superiore a 15 giorni (da considerarsi perentorio), la riscontrata non conformità indicando analiticamente le cause d'irregolarità.
Allo scopo di velocizzare la procedura di regolarizzazione e la conseguente emissione del documento, la normativa individua la posta elettronica certificata quale strumento attraverso il quale procedere alla comunicazione di che trattasi. Col recente mess. n. 3454/2015 l'Inps ribadisce che in futuro, il preavviso sarà prioritariamente spedito all'indirizzo Pec del datore di lavoro ovvero del titolare/legale rappresentante e, solo in mancanza dei predetti indirizzi, all'indirizzo Pec dell'intermediario delegato (consulente del lavoro o altro professionista abilitato ai sensi della legge n. 12/1979 risultante dagli archivi).
L'istituto, pertanto, richiama l'attenzione dei datori di lavoro sulla necessità di operare al più presto l'aggiornamento degli indirizzi Pec all'interno dell'anagrafica aziendale. Qualora l'impresa non dia, entro il termine assegnato, fattivo riscontro all'invito, l'Istituto si pronuncerà sulla base delle informazioni che sono in suo possesso certificando l'irregolarità dell'interessato con tutto ciò che ne consegue.
I benefici. I benefici normativi e contributivi la cui fruizione resta preclusa in mancanza del Durc regolare, sono individuati da una tabella (avente carattere esemplificativo e non esaustivo) allegata alla circolare del ministero del lavoro n. 5/2008, classificazione alla quale fa a sua volta esplicito rinvio anche la circolare Inps n. 51/2008.
In linea generale, spiega il Dicastero, per benefici contributivi devono intendersi «quegli sgravi collegati alla costituzione e gestione del rapporto di lavoro che rappresentano una deroga all'ordinario regime contributivo» (es. l'esonero contributivo per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato previsto dalla Legge n. 190/2014).
Non rientrano in questa nozione quei regimi di sottocontribuzione che caratterizzano interi settori (es. agricoltura), territori (es. zone montane o zone a declino industriale), ovvero speciali tipologie contrattuali che godono di un'aliquota contributiva «speciale» prevista per legge (es. apprendistato). I benefici normativi sono, invece, «quelle agevolazioni che operano su un piano diverso da quello della contribuzione previdenziale ma sempre di natura patrimoniale e comunque sempre in materia di lavoro e legislazione sociale».
Rientrano, quindi, in quest'ultima categoria le agevolazioni fiscali, i contributi e le sovvenzioni previsti dalla normativa vigente connesse alla costituzione e gestione del rapporto di lavoro (es. riduzione del cuneo fiscale ecc.).
Il rispetto dei contratti collettivi. La fruizione dei benefici economici e normativi è subordinata anche al rispetto, da parte del beneficiario, degli accordi e contratti collettivi. A tal proposito il ministero del lavoro, con la circolare n. 34/2008, ha affermato che la previsione normativa s'intende rispettata anche «solo» con l'applicazione, da parte del datore di lavoro, della parte economica e normativa dei suddetti patti (senza quindi necessità di applicare anche la c.d. parte obbligatoria).
Sotto l'aspetto procedimentale, inoltre, il dicastero ha ritenuto che tale circostanza non possa essere oggetto di autocertificazione, ma solo di verifica da parte del personale ispettivo. In pratica, se in sede di vigilanza, dovesse emergere il non rispetto di questo requisito, gli istituti procederanno al recupero delle somme indebitamente fruite dai datori di lavoro a far data dal momento in cui il datore di lavoro non ha osservato l'obbligo.
---------------
False irregolarità, ai professionisti non va giù.
L'Istituto sta procedendo in questi giorni al recapito dei primi preavvisi di accertamento che evidenziano presunte irregolarità da parte dei datori di lavoro. In realtà, come denunciato nei giorni scorsi dal Cno dei consulenti del lavoro in una nota trasmessa al presidente dell'Inps e al ministro del lavoro, nella maggior parte dei casi, più che d'irregolarità vere e proprie, si tratta di una carenza della procedura informatizzata di gestione del Durc interno, piattaforma che purtroppo non si dimostra ancora in grado di mettere a sistema tutta le informazioni e notizie (es. presenza di istanze di rateizzazione, pagamento dei contributi effettuati presso il concessionario della riscossione, pendenza di ricorsi, ecc.) necessarie alla corretta e puntuale valutazione della situazione contributiva aziendale.
Al presidente Inps hanno scritto anche i commercialisti dell'Anc, in una missiva nella quale i professionisti contestano non solo le modalità di invio (finora all'intermediario, invece che all'impresa interessata), ma anche «l'assoluta inadeguatezza» del termine (15 giorni) per gestire le pratiche.
Le carenze evidenziate dalla procedura risultano ancor più preoccupanti in ragione del fatto che, dal prossimo 1° luglio, entrerà pienamente a regime il c.d. «Durc online» teorizzato dal dl n. 34/2014 e recentemente disciplinato dal dm 30/01/2015. Eventuali disallineamenti fra le banche dati integrate degli istituti rischiano, in questo caso, di moltiplicare esponenzialmente i falsi avvisi con deplorevoli effetti anche negli altri ambiti di utilizzo del certificato (es. appalti, accesso alle sovvenzioni e benefici comunitari ecc.) e conseguenti inevitabili ricadute di segno negativo sui bilanci delle incolpevoli aziende
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAEco-delitti ad ampio raggio. Necessari scrupolosi accertamenti in sede processuale. Nella relazione della Cassazione le prime indicazioni sui nuovi illeciti ambientali.
I nuovi delitti d'inquinamento e disastro ambientale possono abbracciare le più diverse forme di aggressione all'ecosistema, colpire anche le condotte solo formalmente aderenti a prescrizioni normative e con portata che va temporalmente oltre la prima materiale alterazione delle matrici verdi. Ma necessitano di un'attenta verifica dell'effettivo nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso, un riscontro dei livelli di inquinamento provocato da condursi sulla base dei parametri offerti dalla normativa e la prova della violazione di regole precauzionali conoscibili ed esigibili.

Queste le prime coordinate di navigazione sulla nuova mappa dei delitti ambientali disegnata dalla legge 22.05.2015, n. 68 che appaiono essere tracciate dall'Ufficio del massimario della Corte di cassazione, il quale con la nota 29.05.2015 (giorno dell'entrata in vigore della normativa) ha fatto luce su alcuni punti critici della disciplina.
Al centro del documento i due nuovi eco-delitti di inquinamento e disastro ambientale introdotti dalla citata legge nel Codice penale insieme a quelli di morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale, traffico o abbandono di materiale altamente radioattivo, omessa bonifica, impedimento di controlli.
Inquinamento ambientale. Il nuovo articolo 452-bis del Codice penale introdotto dalla legge 68/2015 punisce chiunque abusivamente cagiona compromissione o deterioramento significativi e misurabili di: acque, aria, porzioni estese e significative suolo o sottosuolo; ecosistema, biodiversità, flora o fauna.
La Corte di cassazione sembra rilevare come la nuova fattispecie vada inquadrata tra i reati di danno, caratteristica che comporterà sul piano processuale la necessità di uno scrupoloso accertamento del nesso di causalità (tra condotta ed evento) ai fini della contestazione, soprattutto in presenza di comportamenti segmentati nel corso del tempo.
Ad ampio raggio sembrano per il Massimario essere le condotte riconducibili nel nuovo delitto laddove in materia richiama anche, per la funzione ermeneutica che potrà svolgere, la definizione di «inquinamento ambientale» prevista dall'articolo 5 del Codice ambientale (dlgs 152/2006) a mente del quale è tale «l'introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell'aria, nell'acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell'ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell'ambiente o ad altri suoi legittimi usi».
A indicare i confini del nuovo delitto sono i parametri di «significatività e misurabilità» della compromissione o deterioramento delle eco-matrici che rendono rilevanti il danno ambientale ai fini penali.
Sotto questo profilo la Cassazione appare suggerire che la condotta dovrebbe essere inquadrata nel nuovo delitto d'inquinamento entro l'arco logico che si colloca tra il superamento delle «concentrazioni soglie di rischio» previste dal dlgs 152/2006 (cd. «Csr», che oltrepassati determinano la classificazione della matrice ambientale come contaminata, facendo scattare obblighi di bonifica o messa in sicurezza) e quello della compromissione «irreversibile o particolarmente onerosa» dell'ecosistema, che integra il più grave e nuovo delitto di disastro.
Disastro ambientale. Il nuovo articolo 452-quater del Codice penale punisce infatti chi, fuori dai casi ex articolo 434 C.p., abusivamente cagiona (alternativamente): un'alterazione dell'equilibrio dell'ecosistema irreversibile o con eliminazione particolarmente onerosa tramite provvedimenti eccezionali; una rilevante offesa pubblica incolumità (per estensione compromissione, effetti lesivi o numero persone offese/esposte a pericolo).
Anche questo nuovo delitto, sembra la Corte sottolineare, si pone come reato di danno laddove il delitto di «disastro innominato» ex articolo 434, C.p., si ricorda, è dalla giurisprudenza normalmente inquadrato come illecito di pericolo, in quanto integrato con la realizzazione della minaccia concreta di un macro evento dannoso, eventualmente aggravato dal suo realizzarsi.
Rispetto alla storica figura ex articolo 434, c.p., il nuovo delitto, si evince dalla Relazione della Corte, sarebbe però configurabile anche ricorrendo solo uno degli elementi «dimensionali» (l'alterazione) o «offensivi» (il pericolo per la pubblica incolumità) previsti dal neo articolo 452-quater. Anche qui sono i parametri del danno ambientale a definire i confini dell'illecito.
E per la Cassazione la caratteristica dell'«irreversibilità» dell'alterazione dovrebbe non essere considerata in assoluto, ma relativamente alle categorie dell'agire umano, per sui sarebbe tale anche quella ovviabile solo in un ciclo temporale che lo superi. Ancora, varrebbe a configurare il neo delitto anche l'arduità della reversibilità coincidente con la necessità di provvedimenti amministrativi deroganti all'ordinaria disciplina ambientale.
Abusività della condotta. La Suprema Corte appare evidenziare come la caratteristica dell'abusività che qualifica come illecita la condotta di entrambi i reati abbia confini molto estesi. Per suggerirne la dimensione, la Relazione chiama in rassegna l'interpretazione già data al termine «abusivo» dalla giurisprudenza di legittimità, in base alla quale è da considerarsi tale sia una condotta non autorizzata (alla quale è paragonato anche l'agire in dispregio di prescrizioni e limiti imposti da titoli validi o in presenza di atti scaduti) sia una condotta formalmente ed esteriormente corrispondente (sì) a una prescrizione normativa o a un'autorizzazione, ma di fatto incongruente rispetto a questi e posta in essere sviando dalla funzione tipica del diritto o facoltà concessi.
Ipotesi colpose. Per entrambi i nuovi delitti è prevista (dal nuovo articolo 452-quinquies del Codice penale, con una riduzione di pena) anche una fattispecie colposa, in alcuni casi con una anticipazione della punibilità alla condotta che cagioni il semplice pericolo di danno ambientale.
La Corte pare arginare una lettura estensiva di tali norme, sottolineando come esse non conferiscono un carattere direttamente precettivo al principio di precauzione previsto dal Codice ambientale. L'attribuzione a titolo di colpa dell'inquinamento o del disastro non dovrà infatti prescindere dall'accertamento della effettiva prevedibilità (sulla base di comportamenti precauzionali già tipizzati) ed evitabilità (da parte dell'agente modello) degli eventi antigiuridici posti in essere.
Prescrizione. Due gli aspetti del tema messi in luce dalla Relazione della Cassazione. In primo luogo l'evidente allungamento dei termini di prescrizione previsto dalla legge 68/2015 mediante la diretta modifica dell'articolo 157 del Codice penale (che portano fino a 50 anni, in presenza di atti interruttivi, la perseguibilità del disastro doloso).
In secondo luogo la citata formulazione in chiave «naturalistica» degli eventi dannosi sottesi ai neo delitti di inquinamento e disastro ambientale, che potrebbe avere come conseguenza il perfezionamento degli illeciti stessi molto tempo dopo rispetto all'ultima condotta di materiale immissione di sostanze nell'eco-sistema o di sua fisica alterazione.
Riflessioni, queste della Cassazione, che se lette insieme potrebbero effettivamente suggerire l'introduzione da parte della nuova legge 68/2015 di un vero e proprio «effetto moltiplicatore» delle prescrizioni relative ai nuovi delitti ambientali
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdifici classificati su format. Anche l'Ape si rinnova e si unifica a livello nazionale. Le novità in vigore dal 1° luglio contenute in due decreti sul risparmio energetico.
Rivoluzione in vista per il risparmio energetico. Dal 1° luglio entreranno in vigore i nuovi metodi di calcolo della prestazione energetica degli edifici adeguati alla normativa europea e le nuove norme per la redazione dell'attestato di prestazione energetica.
Il primo decreto sugli edifici a energia zero ha ricevuto il 25 marzo il via libera della conferenza unificata e si appresta ad approdare in Gazzetta ufficiale. Il secondo, relativo alle linee guida nazionali per l'attestato di certificazione energetica, dovrebbe approdare a breve in conferenza unificata.
Requisiti minimi. Il primo decreto noto come «decreto requisiti minimi» fissa i criteri e le modalità di calcolo della prestazione energetica degli edifici. La classificazione degli edifici avverrà in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa e tecnica della prestazione degli edifici.
Dal 01.07.2015 i requisiti minimi saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni 5 anni, prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a energia quasi zero.
L'Ape (Attestato di prestazione energetica) conterrà anche gli indici di climatizzazione estiva, di illuminazione, l'indicazione dell'energia prelevata dalla rete e i vantaggi legati alle diagnosi energetiche e agli interventi di riqualificazione energetica, con lo scopo di rendere più reali le raccomandazioni già oggi presenti nell'attestato.
Queste alcune delle novità contenute nel decreto Mise (emanato di concerto con il ministero dell'ambiente e dei trasporti) di prossima pubblicazione in G.U. che ridefinirà le modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici, e i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche.
Il decreto entrerà in vigore il prossimo 01.07.2015 ed è attuativo dell'articolo 5 del decreto fare) convertito nella legge 03/08/2013 n. 90.
Edificio a energia zero. Per la prima volta, all'interno del decreto una definizione tecnica di «edificio a energia quasi zero». L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione e ventilazione).
Ci sarà una definizione più chiara dei consumi energetici così da permettere all'utente di individuare il consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e degli impianti.
Nuova Ape nazionale. Il secondo decreto introduce un Ape unico per tutto il territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea. Le classi energetiche con la nuova Ape passeranno da sette a dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore). La nuova Ape nazionale entrerà in vigore il 1° luglio prossimo e verrà applicato alle regioni e province autonome che non abbiano ancora provveduto a recepire la direttiva 2010/31/Ue.
Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente. Inoltre verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione ai non tecnici. Le nuove linee guida sostituiranno quelle per la certificazione energetica emanate con il dm 26.06.2009.
Queste le novità contenute nella bozza definitiva di decreto, contenente le linee guida nazionali per l'attestazione della prestazione energetica degli edifici dal ministero dello sviluppo economico e inviate alle regioni alla fine di maggio. Per la piena operatività bisogna attendere ancora tre passaggi: il via libera della conferenza unificata, la registrazione alla Corte dei conti e la pubblicazione in G.U.. Di seguito le novità più importanti:
Attestato unico. Introduzione di un attestato unico semplificato riguardante tutto il territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea per la classificazione delle prestazioni energetiche. Le regioni dovranno adeguarsi entro due anni. Con predisposizione di un sistema informativo comune per tutto il Paese, dal nome Siape, dove saranno raccolti tutti i dati relativi agli attestati di prestazione energetica affinché le regioni possano effettuare i controlli.
Contenuti attestato. Per ciò che concerne i contenuti, il nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica globale sia in termini di energia primaria totale sia di energia primaria non rinnovabile. Andranno specificati gli interventi da realizzare sull'edificio distinguendo tra interventi di ristrutturazione edilizia e interventi di riqualificazione energetica.
La classe energetica dovrà essere determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale, espresso in energia primaria non rinnovabile. L'attestato dovrà contenere i consumi energetici non solo per il riscaldamento invernale ma altresì per le attività di raffrescamento estivo, oltre a riportare le emissioni di anidride carbonica e l'energia esportata.
Schema annuncio. Definito uno schema di annuncio di vendita e locazione per uniformare le informazioni riguardanti la qualità energetica degli edifici riportando anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIL’avvio del concordato non blocca il Durc. Si può ottenere il certificato dopo la pubblicazione della domanda nel Registro imprese.
Regolarità contributiva. Il decreto sulla procedura online ribadisce l’orientamento di prassi sulle aziende che continuano l’attività
L’impresa ammessa al concordato preventivo con continuità dell’attività aziendale può ottenere il rilascio del Documento unico di regolarità contributiva (Durc) a partire dalla pubblicazione della domanda di concordato nel Registro delle imprese.
È la conclusione alla quale arriva l’Inps, che ha recepito, con il messaggio 24.04.2015 n. 2835, l’orientamento del ministero del Lavoro, espresso con la nota del 21 aprile.
Peraltro, si tratta di una fattispecie raccolta e confermata anche dal decreto interministeriale attuativo del nuovo Durc online (decreto del 30.01.2015, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 125 del 1° giugno scorso) che debutterà dal 1° luglio, in attuazione del Dl 34/2014.
La precisazione interviene su una linea di prassi ormai consolidata ma è funzionale a dirimere le criticità che si erano originate nella pratica sull’effettiva decorrenza dalla quale l’azienda potesse avere il rilascio del Durc: in particolare, sul fatto che dovesse essere negato il documento alle aziende che, pur avendo presentato la domanda, ma essendo in attesa del perfezionamento della procedura di omologa, si trovavano nell’impossibilità di adempiere agli obblighi contributivi sorti prima del deposito della domanda stessa di concordato.
Su questo punto era già intervenuto il ministero del Lavoro con l’interpello 41/2012, affrontando la problematica delle condizioni necessarie, per il rilascio del Durc, nel caso di imprese in concordato preventivo in continuità dell’attività aziendale, in base all’articolo 186-bis della legge fallimentare (in seguito alle modifiche disposte dal Dl 83/2012).
Era stata dunque prevista la possibilità del rilascio del Durc per l’impresa, se il piano inerente il concordato omologato dal tribunale avesse contemplato l’integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali contratti prima dell’attivazione della procedura concorsuale e se fosse stata espressamente prevista la cosiddetta moratoria indicata dall’articolo 186-bis, comma 2, lettera c), della legge fallimentare, per un periodo non superiore a un anno dalla data dell’omologazione
Secondo il ministero del Lavoro, l’ipotesi rientra nell’alveo dell’articolo 5, comma 2, lettera b), del Dm 24.10.2007 secondo cui la regolarità contributiva sussiste nelle ipotesi delle «sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative». È un’apertura che si sposa con le finalità sottese alla procedura concorsuale perché offre all’impresa la possibilità di continuare a operare, garantendo la prosecuzione dell’attività aziendale e la salvaguardia dei livelli occupazionali.
Nel dettaglio, infatti, la pubblicazione della domanda di concordato nel Registro delle imprese (articolo 161 della legge fallimentare) determina il divieto per i creditori per titolo o causa pregressa di intraprendere azioni esecutive: lo stesso divieto coinvolge anche il pagamento dei debiti anteriori
Come accennato sopra, l’impostazione descritta rimarrà valida anche con la piena operatività del Durc online: attraverso la nuova procedura, chiunque vi abbia interesse, compresa la stessa impresa, potrà verificare in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps, dell’Inail e delle Case edili. L’interrogazione fornirà una certificazione che avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione, sostituendo a ogni effetto il Durc, come regolato nella sua veste attuale.
A questa innovazione si accompagnano, per le imprese interessate, indubbi vantaggi in termini di tempi e di costi rispetto al sistema in vigore oggi ma sarà opportuno gestire le situazioni particolari, come quella sopra esaminata: se l’interconnessione tra gli archivi degli enti coinvolti dal processo non sarà efficace, c’è il rischio che fattispecie di “potenziale” regolarità diano invece luogo a interrogazioni negative da parte di chi accederà alla piattaforma, dovute, appunto, al mancato aggancio di informazioni specifiche o allo sfasamento temporale nella loro acquisizione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

APPALTIPiù spazio per la sanatoria in gara.
Appalti pubblici. Il Dm del 1° giugno potrebbe risolvere il nodo degli orientamenti diversi tra i giudici sulla possibilità di mettersi in regola entro 15 giorni da un esito negativo.
L’impresa che partecipa a una gara deve possedere il requisito della regolarità contributiva al momento della presentazione dell’offerta oppure, in mancanza dei requisiti di regolarità, deve essere invitata a sanare la posizione previdenziale entro 15 giorni prima di essere esclusa dalla gara?
È il quesito sul quale si è animato il dibattito giurisprudenziale negli ultimi tempi a causa della stratificazione di leggi in materia e che potrebbe essere risolto dall’articolo 10 del Dm 30.01.2015 sul Durc online (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 01.06.2015 e in vigore dal 1° luglio). Il provvedimento dispone infatti l’abrogazione di tutte le disposizioni di legge incompatibili con la sanatoria della posizione previdenziale. Ma analizziamo meglio la questione partendo proprio dalla normativa.
L’articolo 38, comma 1, lettera i), del Codice degli appalti (Dlgs 163/2006) sancisce l’esclusione dalla gara (o l’impossibilità di stipulare contratti) dei soggetti che abbiano commesso gravi violazioni della normativa contributiva e assistenziale. Per effetto dell’entrata in vigore del Dm 30.01.2015, il requisito della regolarità contributiva, salvo ipotesi particolari, sarà soddisfatto dal rispetto della nuova normativa sul Durc online.
L’articolo 31, comma 8, del Dlgs 69/2013 -il cui contenuto risulta confermato dall’articolo 4 del decreto ministeriale- consente una sanatoria delle irregolarità previdenziali. Se non è possibile attestare la regolarità contributiva, infatti, l’ente previdenziale deve invitare l’interessato a regolarizzare la propria posizione entro quindici giorni.
Trascorso il termine, il risultato negativo della verifica dovrà essere comunicato ai soggetti che hanno effettuato l’interrogazione. Ci si è chiesti dunque se il partecipante alla gara possa sanare la propria posizione tramite la procedura prevista dal Dlgs 69/2013 oppure no. Su questo punto i giudici amministrativi sono divisi.
No a regolarizzazioni in corsa
Una parte della giurisprudenza considera inapplicabile la normativa sulla sanatoria del Durc (sentenze Tar Emilia-Romagna 1153 del 27.11.2014; Tar Lazio 18.07.2004 n. 7732; Tar Campania n. 3619 del 02.07.2014).
Da una parte, infatti, l’articolo 38 richiede che il requisito della regolarità contributiva debba sussistere già al momento della partecipazione alla gara e permanga fino alla stipula del contratto; dall’altra, una diversa interpretazione sarebbe incompatibile con i principi di tutela dell’interesse pubblico e della par condicio tra imprese concorrenti.
Il Consiglio di Stato «apre»
Il Consiglio di Stato, invece, propende per una soluzione diversa, consentendo la sanatoria anche in corso di gara.
Con la sentenza 781 del 16.02.2015, ha affermato l’illegittimità dell’esclusione dalla gara dell’impresa partecipante senza che gli enti preposti l’abbiano invitata a sanare l’irregolarità contributiva entro quindici giorni. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, l’articolo 31 del Dl 69/2013 ha modificato l’articolo 38 del Dlgs 163/2006, laddove stabilisce che il requisito della regolarità contributiva debba sussistere al momento della domanda di partecipazione alla procedura concorsuale.
In altri termini, il requisito deve sussistere al momento della scadenza dei 15 giorni assegnati dall’ente previdenziale per regolarizzare la posizione contributiva.
Il tema della sanatoria del Durc non riguarda solo il diritto italiano. Recentemente il Consiglio di Stato (ordinanza 1236 dell’11.03.2015) ha sollevato una questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia europea.
La normativa italiana, che richiede il controllo d’ufficio e storico della regolarità contributiva senza possibilità di regolarizzazione in corso di gara, sarebbe in contrasto con l’articolo 45 della Direttiva 18/2004/Ce che, invece, dispone l’allegazione del Durc al momento dell’aggiudicazione. Ora la normativa sul Durc online potrebbe contribuire a risolvere la questione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAPer il Durc online correzioni manuali e rischio ritardi. Lavoro. Se i dati in archivio non sono aggiornati.
Si aggiunge un nuovo tassello nel percorso di avvicinamento che sta portando all’avvio del Durc online: a riscontrare le novità introdotte dal decreto interministeriale attuativo che entrerà in vigore il 1° luglio è stato l’Inps, con il messaggio 05.06.20145 n. 45482.
L’intervento, con l’obiettivo di diffondere alle sedi dell’istituto le prime anticipazioni sulla procedura, lascia trasparire alcune considerazioni applicative.
Prima fra tutte, la conferma delle criticità che potranno emergere con l’entrata a regime del nuovo impianto sul documento unico di regolarità contributiva: il rischio è che il rilascio in tempo reale del Durc finisca per essere relegato a casistiche numericamente ridotte, rispetto alla generalità dei datori di lavoro, a maggior ragione in questo particolare momento storico di difficoltà che le aziende stanno attraversando.
Infatti, come prevede lo stesso testo del decreto attuativo (comma 2, dell’articolo 9), rimane invariata l’attuale procedura di richiesta del Durc nelle situazioni in cui la verifica non sia possibile per l’assenza dei dati necessari negli archivi informatizzati degli enti coinvolti dal processo (Inps, Inail e Casse edili). Sul punto non va, peraltro, tralasciata la complessità dell’operazione qualora siano coinvolte tutte le gestioni interessate: posizione contributiva riferita ai dipendenti, gestione separata per i lavoratori parasubordinati, gestione dei lavoratori autonomi; posizione assicurativa e posizione presso le Casse edili per le aziende del settore.
Di fatto, in tutti i casi in cui dall’interrogazione non derivi una posizione assolutamente regolare –riferita a tutti gli enti– le tempistiche di emissione dell’esito saranno distanti dall’obiettivo ricercato dal legislatore, ossia l’emissione in tempo reale. Si pensi a questo esempio: un soggetto interessato accede al sistema del Durc online il 01.07.2015 e il documento di regolarità in formato pdf non viene rilasciato subito perché il sistema rileva alcune irregolarità contributive.
A quel punto –come specificato nel messaggio dell’Inps– la sede territorialmente competente ha tempo 72 ore (dall’istanza di verifica) per correggere d’ufficio (se possibile) le incongruenze. Si tratta di un aspetto positivo perché consente di eliminare a monte tutte quelle criticità degli archivi che non corrispondo a situazioni di irregolarità effettiva.
In caso contrario, l’Inps invierà al soggetto interessato il preavviso di irregolarità, consentendo di verificare e di sanare la propria posizione nel termine di 15 giorni dallo stesso, attraverso i canali già in uso: la regolarizzazione genererà l’estrazione del Durc a chi ne ha fatto richiesta, mentre la mancata regolarizzazione farà scattare la comunicazione dell’esito negativo della verifica.
L’Inps precisa che «l’intero iter dovrà necessariamente concludersi entro 30 giorni dall’istanza di verifica», ossia in tempi pari a quelli che regolano l’attuale processo, con le vecchie regole. Va, infine, precisato come occorra comunque attendere le circolari operative del ministero e dell’Inps che dovranno fornire i dettagli gestionali del Durc online
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, rimedi fai-da-te per le trasgressioni leggere.
Le violazioni meno importanti verso l'ambiente punite con una contravvenzione ora si potranno rimediare con il ripristino dello stato dei luoghi e il pagamento di una sanzione pecuniaria. Ma dal beneficio resteranno escluse le infrazioni punite solo con l'arresto come per esempio la mancata ottemperanza all'ordinanza del sindaco in materia di rifiuti. E in ogni caso la novella si potrà applicare solo ai procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato dopo il 29 maggio.

La legge 22.05.2015, n. 68 ha modificato il codice dell'ambiente (dlgs 152/2006) introducendo, tra l'altro, i nuovi articoli 318–bis e seguenti dedicati ai reati ambientali meno pericolosi e invasivi.
In buona sostanza per le contravvenzioni punite con l'ammenda da sola ovvero alternativa o cumulativa alla pena dell'arresto è possibile attivare la nuova procedura deflattiva. Purché non si sia determinato un pericolo concreto ed attuale alla risorse ambientali, paesaggistiche e urbanistiche protette.
Spetterà alla polizia giudiziaria verificare queste condizioni e attivare la particolare procedura indicata negli artt. 318–bis del codice dell'ambiente. Ovvero impartire al contravventore un'apposita prescrizione asseverata tecnicamente, fissando un termine per la regolarizzazione e il ripristino dello stato dei luoghi.
Spetterà all'organo di vigilanza verificare la regolarizzazione e gestire il seguito del procedimento informando tempestivamente la procura anche sull'effettività del pagamento della sanzione da parte del trasgressore. Il procedimento penale eventualmente aperto con la comunicazione della notizia di reato rimarrà sospeso fino all'esito di queste procedure che fanno capo alla polizia, specifica la nota. Se verrà comunicato che il trasgressore ha adempiuto tempestivamente alla prescrizione imposta e ha pagato la sanzione il reato si estinguerà.
La nota illustra poi tutta la filiera procedimentale del nuovo istituto specificando che la novella non si applica ai procedimenti già in corso ma solo alle notizie di reato registrate successivamente al 29.05.2015 (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIANuove norme sugli ecoreati: i dubbi della Cassazione. Linee guida. Sottolineati problemi strutturali e mancato coordinamento.
Con un provvedimento fiume (36 pagine) dell’ufficio del Massimario-Settore Penale, la Corte di Cassazione traccia le prime linee guida sulla controversa legge 68/2015 che ridisegna i reati ambientali.
Un documento asettico (nota 29.05.2015), come è nel ruolo dell’istituzione, ma che non manca di sottolineare problemi strutturali delle nuove norme, dal lessico al coordinamento con il Codice ambientale e con il vecchio reato “innominato” (articolo 434 del Codice penale) utilizzato nelle recenti, grandi inchieste sui disastri ambientali.
Per quanto riguarda il delitto di inquinamento ambientale (da 1 a sei anni e fino a 100 mila euro di multa) secondo la Corte i punti critici sono i concetti di «deterioramento e compromissione» e, soprattutto, la «misurabilità» del danno. Sul primo aspetto, dopo aver stabilito una continuità tra l’illecito disegnato nel codice ambientale e il nuovo reato -in sostanza sono compatibili- il relatore suggerisce una sostanziale identità di significato tra le due condotte distruttive ( deterioramento e compromissione), che peraltro traggono ispirazione dalla direttiva 99/2008.
La misurabilità del danno invece, a giudizio della Cassazione, nonostante abbia sollevato notevoli polemiche, è un requisito necessario della fattispecie -appunto per non cadere in una indeterminatezza discrezionale poco compatibile con il principio di tassatività- e inoltre delimita il reato: il livello di “ingresso” è il superamento delle soglie di rischio autorizzate (nel caso appunto di attività inquinanti lecite), mentre il confine superiore è il più grave illecito di disastro. Ma è sull’oggetto del deterioramento che sorgono i problemi più seri: l’ecosistema citato dal legislatore, pur avendo un rilievo costituzionale (articolo 117) non ha una definizione legislativa, pertanto le Corti si misureranno con le indicazioni della scienza e, soprattutto, si atterranno al dato normativo che esige la compromissione non «dell’» (intero) ecosistema, ma «di un» (solo, anche se minuscolo) ecosistema.
Certamente però, secondo la Corte, la nuova strutturazione del reato come di evento -e non più di pericolo- rende più difficile la ricostruzione del nesso causale, non bastando più oggi il semplice superamento dei valori soglia per l’incriminazione. Quanto all’abusività della condotta, la Cassazione finisce per inquadrare l’avverbio in una formula “elastica” necessaria per ricomprendere una platea di fattispecie non esauribile in un dettagliato, e perciò limitato, elenco di condotte tipizzate.
Problemi di inquadramento sorgono con l’aggravante dell’evento morte (articolo 452-ter), soprattutto perché non è prevista per il più grave reato di disastro ambientale. Secondo il relatore si crea il paradosso di un evento giuridico tale da provocare la morte di una persona fuori dai casi di disastro e, soprattutto, fuori da un contesto di «irreversibile compromissione» dell’ambiente.
Ma è proprio nel nuovo reato di disastro ambientale (452-quater) che si intravedono problemi, soprattutto perché si passa dal delitto a consumazione anticipata del vecchio «disastro innominato» (in cui l’evento è una semplice circostanza aggravante) a una vera fattispecie di evento, con tre presupposti alternativi: la compromissione irreversibile di un ecosistema, ovvero un suo risanamento comunque troppo oneroso o lungo, o ancora l’intensità dell’offerta alla popolazione. La questione, qui, sta proprio nell’aver separato due aspetti -l’elemento dimensionale del disastro e quello dell’offesa- che la giurisprudenza costituzionale aveva considerato legati, e legittimi, nel vecchio disastro colposo innominato.
Delicato poi il rapporto tra il principio di precauzione previsto nel Codice ambientale e il reato colposo all’articolo 452-quinquies (inquinamento o disastro per colpa) del Codice penale. Secondo la Corte per il secondo vale sempre la regola della prevedibilità dell’evento lesivo.
Temi non risolti dalla legge sono poi il ravvedimento operoso, le aggravanti e la confisca per equivalente, mentre per la prescrizione -che pure può arrivare a cinquant’anni per i casi più gravi- si pone il problema del tempus commissi delicti legato alla struttura “a evento” del reato , che nei casi più subdoli di inquinamento certo non agevola la ricerca della prova e la dimostrazione del nesso causale
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Minambiente. Potature a scopo energetico.
Possono essere impiegati ai fini energetici i residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde se rispettano quanto stabilito dall'articolo 185 del dlgs n. 152/2006 o se possono essere qualificati come sottoprodotti.

Tutto questo lo afferma la direzione generale dei rifiuti del ministero dell'ambiente che, con la nota 27.05.2015 n. 6038 di prot. di risposta alla Fiper riconosce la possibilità di poter impiegare i residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde a fini energetici al di fuori della normativa in materia di rifiuti.
I tecnici dell'ambiente ricordano che i residui derivanti da attività di manutenzione del verde possono essere qualificati «sottoprodotti» a patto che rispettino i quattro requisiti definiti dall'articolo 184-bis del Testo unico ambientale.
Per essere qualificato sottoprodotto la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante, ma il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza (articolo ItaliaOggi del 05.06.2015).

LAVORI PUBBLICI: Uno sbarramento alle varianti. Direzione lavori off limits per il contraente generale. APPALTI/ Cosa prevede il ddl delega approvato mercoledì in commissione al Senato.
Appalti con forti limiti alle varianti, ammesse soltanto se impreviste o imprevedibili ed entro una determinata soglia; divieto di direzione lavori al contraente generale; limiti all'appalto integrato; divieto di proroga delle concessioni autostradali; più poteri all'Anac; maggiori tutele per le piccole e medie imprese; divieto di deroga al codice appalti se non per calamità naturali; introdotti l' albo dei commissari di gara e dei direttori dei lavori delle grandi opere.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo contenuti nel testo disegno di legge delega sugli appalti pubblici (Atto Senato n. 1678) approvata mercoledì sera dalla commissione lavori pubblici del Senato in sede referente.
Il provvedimento attraverso il quale si avvierà il processo di recepimento delle nuove direttive europee sugli appalti pubblici e, soprattutto, la riforma del codice dei contratti pubblici e del relativo regolamento di attuazione, adesso va in aula dove è già previsto all'8 giugno il termine per gli emendamenti, segno evidente di una accelerazione dei lavori dopo il lungo e approfondito esame in commissione, iniziato sei mesi fa.
Fra gli emendamenti approvati mercoledì al testo predisposto dai due relatori, Esposito e Pagnoncelli (che ad aprile ha sostituito integralmente quello del Governo di agosto 2014), si segnala quello concernente le concessioni autostradali, con il divieto di proroga e l'obbligo di gara da esperire almeno 24 mesi prima della scadenza della concessione.
Un altro emendamento approvato l'altra sera riguarda il regime delle varianti, con la possibilità per la stazione appaltante di risolvere il contratto laddove le varianti -ammesse soltanto se determinate da eventi imprevisti e imprevedibili e adeguatamente motivate- superino una determinata soglia che dovrà essere fissata in sede di attuazione della delega; sullo stesso argomento si precisa che la responsabilità del progettista per errori od omissioni progettuali vale anche in caso di predisposizione di varianti.
Prevista anche, con una modifica introdotta mercoledì sera, l'indicazione alle stazioni appaltanti di mettere in gara contratti che, per la loro entità, favoriscano la partecipazione delle piccole e medie imprese; sostanzialmente si tratta di una attuazione del divieto di mega-lotti, tipici degli interventi della cosiddetta «legge obiettivo». Sulle grandi opere viene confermato il divieto di affidamento della direzione lavori al general contrastar e la creazione di una sorta di albo dei direttori dei lavori presso il Ministero delle infrastrutture.
Il nuovo codice dei contratti pubblici sarà obbligatorio e le deroghe saranno ammesse soltanto per calamità naturali. Le stazioni appaltanti saranno tenute a utilizzare prevalentemente il criterio di aggiudicazione dell'offerta offerta economicamente più vantaggiosa e si dovrà disciplinare quando usare, residualmente, il criterio del prezzo più basso: si tratta di una delle indicazioni finalizzate alla valorizzazione del progetto e in generale all'innalzamento degli aspetti qualitativi e tecnici dell'opera, unitamente al principio generale di affidamento dei lavori sulla base del progetti esecutivo.
I contratti misti di progettazione e costruzione, come l'appalto integrato, vengono infatti relegati alle ipotesi di particolare complessità tecnologica e impiantistica, praticamente tornando alla previsione della cosiddetta «Merloni-Ter» del 1998.
Un ruolo fondamentale, all'interno delle nuove regole che verranno scritte nei decreti delegati, viene assegnato all'Anac, l'Autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, che vede molto rafforzati i propri poteri, a partire dalla vincolatività dei propri provvedimenti: le stazioni appaltanti dovranno seguire le linee guida e le indicazioni dell'authority.
Inoltre sarà l'Anac a gestire un albo dei commissari di gara cui le stazioni appaltanti dovranno fare riferimento quando dovranno costituire le commissioni giudicatrici, un elemento di forte moralizzazione del sistema. Dovrà poi essere rivisto il sistema di verifica dei requisiti denominato Avcpass, oggetto di critiche da parte del mondo delle amministrazioni e degli operatori economici (articolo ItaliaOggi del 05.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Tasi, dichiarazione come l'Imu. Ai fini dell'adempimento si utilizza lo stesso modello. Circolare delle Finanze. Esentati gli occupanti diversi dai titolari del diritto reale.
Non è necessaria l'approvazione di un apposito modello di dichiarazione Tasi, perché può essere utilizzato quello previsto per la dichiarazione dell'Imu.
Gli «occupanti» diversi dai titolari del diritto reale sull'immobile non devono presentare la dichiarazione Tasi se il comune è già a conoscenza delle informazioni relative agli immobili locati.

È quanto si legge nella circolare 03.06.2015 n. 2/DF della direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del dipartimento delle finanze del ministero dell'economia.
In realtà nella risoluzione n. 3/DF del 25.03.2015, alla quale i tecnici di via dei Normanni fanno rinvio, era stato precisato che anche il modello di dichiarazione Tasi, come quello dell'Imu, deve essere approvato con decreto del ministro dell'economia e delle finanze ed essere, quindi, unico e valido su tutto il territorio nazionale, e non poteva esserci spazio per modelli deliberati dai comuni, sui quali incombe solo l'onere specifico, dettato dal comma 685 dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, di mettere a disposizione dei contribuenti il modello di dichiarazione.
Con l'approssimarsi del termine del 30.06.2015 previsto per l'adempimento dell'obbligo dichiarativo relativo alla Tasi, tutti si attendevano un modello ministeriale unico a livello nazionale che, a dire il vero, non ci sarà.
Il motivo è semplice: allo scopo di semplificare gli adempimenti dei contribuenti, tenuto conto del fatto che le informazioni necessarie al comune per il controllo e l'accertamento del corretto assolvimento dell'obbligazione tributaria ai fini Imu e Tasi, sono sostanzialmente identiche, è sufficiente utilizzare il modello previsto per la dichiarazione dell'Imu, approvato con decreto del ministro dell'economia e delle finanze 30.10.2012.
Nella risoluzione si precisa, altresì, che tale determinazione è assunta «anche in vista della preannunciata riforma della tassazione immobiliare locale», circostanza che fa, quindi, propendere per una soluzione che non addossi per quest'anno ulteriori adempimenti a carico dei contribuenti.
Del resto, tale semplificazione era già stata enunciata relativamente alla dichiarazione Imu prevista per gli enti non commerciali di cui all'art. 7, comma 1, lett. i), del dlgs n. 504, del 1992, per la quale si prevede un unico modello con il quale viene assolto sia l'obbligo dichiarativo Imu sia quello Tasi. La seconda questione affrontata nella circolare riguarda l'art. 1, comma 681, della legge n. 147 del 2013, in base al quale «nel caso in cui l'unità immobiliare è occupata da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale sull'unità immobiliare, quest'ultimo e l'occupante sono titolari di un'autonoma obbligazione tributaria».
Ebbene una rigida applicazione della norma imporrebbe agli «occupanti» diversi dai titolari del diritto reale sull'immobile, che non hanno, quindi, finora assolto gli adempimenti dichiarativi in materia di Imu, di presentare la dichiarazione Tasi.
In realtà varie sono le ipotesi in cui il comune è già a conoscenza delle informazioni relative agli immobili locati e quindi non vi è necessità di dichiarazione da parte del contribuente. Nella risoluzione si fa riferimento a quanto già illustrato nelle istruzioni alla dichiarazione Imu, dove si legge che la dichiarazione non deve essere presentata:
- nel caso di contratti di locazione e di affitto registrati dal 01.07.2010, poiché da tale data, al momento della registrazione devono essere comunicati al competente ufficio dell'Agenzia delle entrate anche i relativi dati catastali;
- nel caso in cui il comune ha previsto, nel regolamento, ai fini dell'applicazione dell'aliquota ridotta, specifiche modalità per il riconoscimento dell'agevolazione, consistenti nell'assolvimento da parte del contribuente di particolari adempimenti formali quali, per esempio, la consegna del contratto di locazione o la presentazione di un'autocertificazione.
Nella risoluzione si precisa, inoltre, che il comune può adottare ulteriori strumenti di integrazione delle informazioni assumendole, in particolare:
- da quelle relative ad altri tributi, come al prelievo sui rifiuti;
- dai dati risultanti dai versamenti Tasi effettuati dai possessori degli immobili, visto che in base ai commi 681 e 688 dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, detti soggetti sono tenuti a versare la Tasi nella misura del 90%, se il comune non ha stabilito la misura del versamento Tasi a carico dell'occupante oppure fino al limite del 70% dell'imposta, nel caso in cui il comune abbia deliberato una diversa misura della percentuale a carico dell'occupante.
Ne consegue che il contribuente che sia un soggetto diverso dal titolare del diritto reale sull'immobile e che deve ad ogni modo fornire i dati necessari al comune, che non ne è entrato in possesso in altro modo, deve utilizzare la parte del modello di dichiarazione Imu dedicata alle «Annotazioni» per precisare il titolo (per esempio, «locatario») in base al quale l'immobile è occupato ed è sorta la propria obbligazione tributaria (articolo ItaliaOggi del 05.06.2015).

GIURISPRUDENZA

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Legge Severino, legittima la stretta sugli arbitrati. Via libera anche alla disciplina della fase transitoria. Corte costituzionale. Promossa la necessità dell’autorizzazione pubblica.
La legge Severino, nella parte in cui condiziona ad autorizzazione l’utilizzo dell’arbitrato, passa l’esame di costituzionalità. Anche nella disciplina della fase transitoria.
La Corte costituzionale con la sentenza 09.06.2015 n. 108, scritta da Daria de Pretis, depositata ieri, ha infatti giudicato infondate le questioni sollevate su quella parte della legge (articolo 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012) che, nel prevedere la necessita dell’«autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell'amministrazione» per la devoluzione ad arbitri della soluzione delle controversie su diritti soggettivi nell’ambito dell’esecuzione di contratti pubblici stabilisce l’applicazione anche a quegli arbitrati che sono stati conferiti dopo l’entrata in vigore della Severino sulla base di clausole compromissorie pattuite precedentemente.
L’inefficacia sopravvenuta di queste ultime, non autorizzate dalla pubblica amministrazione, sarebbe in contrasto con il principio di certezza e di stabilità dell’ordinamento giuridico e con la libertà di iniziativa economica.
Una tesi che però la Corte costituzionale non condivide. Il divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione, sottolinea la Consulta, non ha l’effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, ma “solo” quello di sancirne l’inefficacia per il futuro.
Una conseguenza dell’applicazione del principio secondo il quale la nullità di un contratto o di una sua singola clausola, prevista da una norma limitativa dell’autonomia contrattuale che sopraggiunge nel corso di esecuzione di un rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la sua singola clausola si devono ritenere non più operanti. Non si pone conseguentemente alcun problema di retroattività.
Quanto alla parte più strutturale, quella dell’autorizzazione, che contrasterebbe con gli articoli 3 e 111 della Costituzione perché si «risolverebbe in un vero e proprio diritto potestativo all'instaurazione del giudizio arbitrale, tale da pregiudicare la parità delle parti nel processo e da determinare uno sbilanciamento in favore della parte pubblica», il giudizio finale resta il medesimo: infondatezza.
Per la Corte costituzionale si tratta di una limitazione che non è manifestamente irragionevole, vista la necessità della pubblica amministrazione di limitare i costi in controversie dall’elevato valore economico. Tanto più che, nel caso esaminato adesso dalla Consulta (che peraltro ricorda un precedente di tenore analogo del 2001, sentenza n. 376), si accompagna anche la finalità generale di prevenire l’illegalità nella pubblica amministrazione.
A questo obiettivo è ispirata la norma della legge Severino, che non esprime un irragionevole sfavore per il ricorso all’arbitrato, ma si limita a subordinare il deferimento delle controversie ad arbitri a una preventiva autorizzazione amministrativa che assicuri la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto
 
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2015).

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il politico autorizza l'arbitrato nei lavori. Una sentenza della Consulta salva la legge 190 del 2012.
Il politico decide se autorizzare l'arbitrato per una controversia su un appalto pubblico. Si tratta di una scelta discrezionale, che è legittimo affidare all'organo di governo. Inoltre l'obbligo di preventiva autorizzazione si applica anche agli appalti anteriori all'entrata in vigore della legge 190/2012.

Con questa motivazione la Corte costituzionale ha promosso proprio la legge 190/2012, e l'articolo 241 del Codice degli appalti (dlgs 163/2006), che hanno modificato le possibilità di ricorrere all'arbitrato al posto delle cause davanti al giudice.
La sentenza 09.06.2015 n. 108 della Consulta ha scrutinato sotto diversi profili la norma, che ne è uscita indenne.
Vediamo di illustrare la questione.
La legge 190/2012 (norme anticorruzione) prevede, per la risoluzione delle controversie relative agli appalti pubblici, il ricorso all'arbitrato solo se c'è la preventiva autorizzazione dell'organo di governo dell'amministrazione; inoltre si prevede la nullità delle clausole compromissorie e dei procedimenti di arbitrati senza l'autorizzazione.
Questa norma si applica anche ai contratti precedenti alla introduzione della norma, facendo, però, salvi gli arbitrati già iniziati o già autorizzati.
Propria questa regola ha convinto un collegio arbitrale a sollevare la questione, per più motivi, alla Corte costituzionale, che, però, ha ritenuto infondato il ricorso.
Innanzi tutto la norma non può essere censurata, perché retroattiva: in realtà non lo è, perché si limita a disciplinare per il futuro l'efficacia delle clausole dei contratti precedenti, che vengono integrate dalla norma successiva.
Non c'è, poi, prevaricazione della pubblica amministrazione sul privato: la p.a. unilateralmente può decidere se autorizzare o meno la clausola sull'arbitrato; ci sono interessi pubblici superiori da tutelare come il contenimento dei costi delle cause e la finalità di prevenire l'illegalità.
Nessun problema anche per l'assegnazione della competenza a dare l'autorizzazione all'organo politico di governo, anziché ai dirigenti. Anzi, l'attribuzione del compito al politico ha una sua ragionevolezza.
Si tratta, infatti, di verificare se sono in gioco verifiche tecniche o scelte di indirizzo politico. La Corte costituzionale si pronuncia a favore della seconda opzione.
La sentenza in esame spiega che la scelta di autorizzare l'arbitrato è di carattere altamente discrezionale, non è riconducibile alla categoria delle valutazioni tecniche, ma impone di formulare giudizi molto delicati, affidati all'organo di governo.
Confisca antimafia
Si può fare solo per violazione di legge, il ricorso in cassazione contro i provvedimenti di confisca, quale misura di prevenzione. Non è, invece, possibile il ricorso per vizio di motivazione (possibile per contestare le misure di carattere personale).
La consulta (sentenza 106 depositata il 09.06.2015) ha ritenuto infondata la questione di illegittimità relativa all'articolo 4 della legge 1423/1975 e dell'articolo 3-ter della legge 575/1965
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTAZIONERisarcimento integrale per l’architetto che perde la gara. Appalti. Responsabilità extracontrattuale per la Pa che preferisce il candidato con meno titoli.
La pubblica amministrazione deve risarcire il professionista per le spese sostenute, il guadagno sfumato e il mancato incremento del suo curriculum se nella gara gli ha preferito un concorrente con meno titoli.
La Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la sentenza 08.06.2015 n. 11794, dà partita vinta a un architetto che era entrato in lizza per un incarico di progettista nell’ambito di un progetto di edilizia residenziale pubblica.
Compito che era stato assegnato a un altro partecipante con minor punteggio, scelta che avevano portato il Tar Calabria ad accogliere il ricorso dell’escluso annullando la delibera, per la mancata comparazione dei curricula. Il Tar aveva nominato anche un commissario ad acta per la valutazione dei titoli, una verifica dalla quale era emerso che il “posto” spettava al ricorrente.
Una soddisfazione che era arrivata troppo tardi per poter svolgere l’ambìto incarico, ormai già espletato, ma non per chiedere il risarcimento per lucro cessante e danno emergente. Pretesa legittima secondo il tribunale di prima istanza che accorda le due voci, ritenendo il pregiudizio subìto dal professionista provato già dai fatti. Diversa l’opinione della corte d’Appello che riconosce solo il danno emergente, quantificato nelle spese per sostenere la gara, e “taglia” il lucro cessante perché non era stato concluso alcun contratto né svolta alcuna attività.
L’ultimo verdetto sgombra il campo dai dubbi. La Cassazione bacchetta il Tribunale che ha sbagliato solo nella premessa: la colpa dell’amministrazione non è mai in re ipsa, per affermarla non basta l’adozione del provvedimento illegittimo ma bisogna capire come sarebbero andate le cose per il ricorrente se la gara si fosse svolta correttamente. Scivolone giurisprudenziale a parte, è giusta la conclusione, perché il diritto al risarcimento è integrale.
Un punto sul quale a sbagliare è invece la Corte d’appello che, pur verificando corettamente tutti i presupposti della responsabilità extracontrattuale, nesso causale tra attività illegittima e danno compreso, “cade” sulla quantificazione limitando la somma da riconoscere al danno emergente.
La Suprema corte spiega che accolta la domanda per «la lesione degli interessi legittimi pretensivi, i criteri per la quantificazione del danno sono quelli ordinari».
Appurato che il “sorpasso” da parte del meno titolato era illegittimo e che se non ci fosse stato il ricorrente avrebbe intascato il guadagno derivante dall’incarico, ha diritto alle spese di competizione, alle entrate perse e anche al mancato arricchimento del curriculum
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATANell’ipotesi in cui l’ordinanza ingiuntiva (di demolizione) sia indirizzata ad un soggetto che non è il diretto autore dell’opera ed attinga un bene di realizzazione assai risalente, essa deve menzionare le esigenze di pubblico interesse sottese alla emanazione del provvedimento demolitorio.
Tanto più giusta il carattere risalente delle opere (esistenti quantomeno da 22 anni risultando menzionate nell’atto di compravendita stipulato) e buona fede dell'acquirente (avendo egli acquistato l’immobile facendo affidamento sulla dichiarazione del dante causa in ordine alla conformità dei beni compravenduti alla concessione edilizia n. 114 del 16.09.1986).

...per l'annullamento dell’ordinanza n. 26 del 16.04.2014, con la quale è stata disposta la demolizione di manufatti ritenuti abusivi, di ogni atto connesso e presupposto, compreso il rapporto prot. n. 58994 del 10.04.2014
...
Espone il ricorrente di aver acquistato in data 22.06.1993, dal sig. G.P., i seguenti immobili facenti parte del complesso residenziale denominato P.co Bouganville, sito alla Via ... n. 1 del Comune di Salerno:
- appartamento costituente l’intero secondo piano del fabbricato distinto con la lett. C del predetto complesso;
- locale deposito in piano terra del fabbricato C;
- locale box sito al piano terra del medesimo fabbricato C;
- locale box sito ugualmente al piano terra del fabbricato D.
Lamenta quindi che, a distanza di oltre 28 anni dalla realizzazione dei manufatti, l’amministrazione comunale, rilevata a seguito di sopralluogo la realizzazione sine titulo dei due box, ne ha ingiunto la demolizione.
...
Tanto premesso, la domanda di annullamento è meritevole di accoglimento.
Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza n. 1016 del 04.03.2014, nell’ipotesi in cui l’ordinanza ingiuntiva sia indirizzata ad un soggetto che non è il diretto autore dell’opera ed attinga un bene di realizzazione assai risalente, essa deve menzionare le esigenze di pubblico interesse sottese alla emanazione del provvedimento demolitorio.
Ebbene, i suindicati presupposti per imporre all’amministrazione, in occasione dell’esercizio del potere repressivo, uno specifico onere motivazionale sussistono nella fattispecie in esame, allegando il ricorrente, senza essere smentito dall’amministrazione comunale, il carattere risalente delle opere (esistenti quantomeno a far data dal 22.06.1993, risultando menzionate nell’atto di compravendita stipulato in pari data dal ricorrente, dalla coniuge e dal dante causa sig. P.G.) e la sua buona fede (avendo egli acquistato l’immobile facendo affidamento sulla dichiarazione del dante causa in ordine alla conformità dei beni compravenduti alla concessione edilizia n. 114 del 16.09.1986).
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi sulla scorta del fatto, evidenziato dalla difesa comunale, che le opere de quibus ricadono in area paesaggisticamente tutelata (cd. Masso della Signora) ex d.m. 15.09.1971, trattandosi di dato rilevante in sede di eventuale riesercizio del potere repressivo, in occasione del quale l’amministrazione ben potrà tenere conto, previa attenta valutazione della consistenza delle opere abusive e della loro ubicazione, della effettiva incidenza delle stesse sui valori paesaggistici tutelati e meritevoli di conservazione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.06.2015 n. 1348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente doppia sanzione sugli incarichi. Pubblico impiego. Cancellata dalla Consulta la penalità per i soggetti che non comunicano il compenso alla Pa di appartenenza.
Chi conferisce un incarico a un dipendente pubblico e non comunica alla Pa di appartenenza dello statale il compenso erogato entro 15 giorni dal pagamento non si vedrà più chiedere una sanzione pari al doppio del compenso stesso.
La norma che prevedeva questa penalità è stata infatti cancellata dalla Corte costituzionale, nella sentenza 05.06.2015 n. 98 (presidente Criscuolo, relatore Grossi) diffusa ieri.
Per capire il problema bisogna ricostruire l’architettura delle regole, come al solito complessa e figlia di varie stratificazioni normative. In pratica, i soggetti privati e gli enti pubblici economici possono conferire incarichi agli statali (così come ai dipendenti di Regioni ed enti locali) previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, ed entro 15 giorni dal pagamento devono comunicare alla stessa amministrazione l’ammontare del compenso.
Questi obblighi sono accompagnati da una sanzione pari al doppio del compenso erogato, che colpisce sia chi conferisce incarichi senza che la Pa di appartenenza autorizzi il dipendente, sia chi non comunica il compenso entro 15 giorni dal pagamento. La norma finita sui tavoli della Consulta e cancellata dai giudici delle leggi (articolo 53, comma 15, del Testo unico del pubblico impiego, Dlgs 165/2001) riguarda solo il secondo caso, quello della mancata comunicazione.
A convincere i giudici che fosse necessario cancellare questa norma sono stati due fattori: il primo è un eccesso di delega, dovuto al fatto che la regola è stata introdotta da un decreto legislativo (Dlgs 80/1998) attuativo di una delle tante riforme della Pubblica amministrazione, prevista dalla legge 59/1997. Dal momento che nessuno dei criteri direttivi di questa legge sembrava adombrare una sanzione da applicare anche ai casi di mancata comunicazione, il testo del decreto attuativo è uscito dal seminato.
Ma queste considerazioni sulla gerarchia delle leggi si accompagnano nella sentenza a riflessioni sostanziali, che censurano l’«irragionevolezza» e la mancata proporzionalità della sanzione. La stessa penalità (due volte il compenso erogato) si applica infatti sia al conferimento di incarichi senza aver ottenuto l’autorizzazione della Pa di appartenenza del dipendente, sia alla mancata comunicazione del compenso, «perequando situazioni del tutto differenziate per gravità e natura».
L’obbligo di comunicazione, infatti, è solo strumentale, serve al funzionamento dell’anagrafe delle prestazioni (che in realtà anche oggi rimane lontana dal pieno regime), e non può essere sanzionato come la violazione sostanziale determinata dalla mancata autorizzazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCompensi ai dipendenti pubblici, sanzione in soffitta. La corte costituzionale sulla mancata comunicazione da parte degli enti e soggetti privati erogatori.
Incostituzionale la sanzione imposta a enti pubblici e soggetti privati che non comunichino alle amministrazioni di appartenenza eventuali compensi erogati ai loro dipendenti.
La Corte costituzionale, con la sentenza 05.06.2015 n. 98, a seguito della questione di legittimità sollevata dal giudice del lavoro di Ancona, ha bocciato la sanzione (pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma) prevista dal dlgs 165/2001.
La Consulta ha ritenuto fondato il ricorso, in applicazione degli articoli 3 e 76 della Costituzione, quest'ultimo posto a disciplinare il procedimento di delegazione legislativa. In sintesi, dunque, l'incostituzionalità dell'articolo 53, comma 15, del dlgs 165/2001 deriva dalla violazione da parte del legislatore delegato, cioè il governo, dei criteri direttivi fissati dal parlamento con la legge delega.
L'articolo 53, comma 15, è il frutto di un intricato e complicato susseguirsi di disposizioni normative. La prima è l'art. 2, comma 1, lett. p), della legge 421/1992, che dava mandato al governo di obbligare enti pubblici economici e soggetti privati a comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli emolumenti corrisposti a dipendenti pubblici da essi incaricati a qualsiasi titolo, «allo scopo di favorire la completa attuazione dell'anagrafe delle prestazioni». La legge delega, dunque, non conteneva alcuna indicazione tendente a indurre il legislatore delegato a introdurre una sanzione amministrativa in caso di omissione della comunicazione.
L'art. 58 del dlgs 29/1993 aveva attuato la delega prevista, proprio senza aver previsto alcuna sanzione amministrativa. Successivamente, il dl 79/1997, convertito dalla legge 140/1997, con l'art. 6 introduceva nell'ordinamento, per la prima volta, la sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti pubblici o privati, per non aver rispettato l'obbligo di comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli incarichi conferiti a dipendenti pubblici.
Un anno dopo, l'art. 26 del dlgs 80/1998, introdusse rilevanti modificazioni all'art. 58 del dlgs 29/1993, sostituendo l'obbligo della mera comunicazione dell'incarico a dipendenti pubblici, con quello della previa autorizzazione da parte della amministrazione di appartenenza; contestualmente, correlò la sanzione amministrativa all'inadempimento all'obbligo di preventiva autorizzazione. Ma, il citato art. 26 del dlgs 80/1998, frutto della legge delega 59/1997, non si limitò a questo, perché estese la medesima sanzione amministrativa anche all'ipotesi di mancata comunicazione degli emolumenti erogati ai dipendenti pubblici incaricati.
È, dunque, l'art. 26 del dlgs 80/1998 ad aver violato la disciplina dell'art. 76 della Costituzione sulla delegazione legislativa. L'art. 53 del dlgs 165/2001, che ha sostituito il dlgs 29/1993, si è limitato poi a riprodurre le disposizioni come determinate dal citato articolo 26 del dlgs 80/1998, confermandone così un contenuto influenzato dal vizio di costituzionalità evidenziato.
La Consulta nella sentenza mette in rilievo che il governo, in applicazione delle deleghe legislative, dispone sicuramente di un ampio margine di discrezionalità. Tuttavia, «ove, come nella situazione di specie, si discuta della predisposizione, da parte del legislatore delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di espressa indicazione nell'ambito della delega, lo scrutinio di «conformità» tra le discipline appare particolarmente delicato» e «la sanzione non rappresenta affatto l'indispensabile corollario di una prescrizione e che quest'ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un'esauriente ed efficace osservanza».
Dunque, il governo non disponeva del margine per introdurre una sanzione per l'omessa comunicazione degli emolumenti, tanto più che tale comunicazione aveva il solo scopo «accessorio» di permettere la completa formulazione dell'anagrafe delle prestazioni dei dipendenti pubblici. La sanzione, dunque, considerata incostituzionale è stata valutata dalla Consulta irrazionale e particolarmente afflittiva (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

EDILIZIA PRIVATAMette conto evidenziare che, in linea generale, nei procedimenti in materia di edilizia ed urbanistica, ed in particolare, nel caso di rilascio di concessione edilizia e di autorizzazione paesaggistica, non si rivela necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento a soggetti terzi dal momento che, in subiecta materia, non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Il vicino controinteressato non è, dunque, un soggetto cui deve essere inviata la comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio (ma lo stesso è a dirsi anche rispetto all’autorizzazione paesaggistica), ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, pur se egli già si sia opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.

... per l'annullamento del parere reso con nota prot. n. 16349/2011con cui la Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia ha espresso il proprio avviso favorevole, ai sensi dell’articolo 167 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2014, sull’istanza di compatibilità paesaggistica presentata dal controinteressato,
...
Esaurita la disamina delle questioni di rito, e venendo al merito della res iudicanda, rileva il Collegio che priva di pregio si rivela, anzitutto, la censura con cui la parte ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento.
Ed, invero, mette conto evidenziare che, in linea generale, nei procedimenti in materia di edilizia ed urbanistica, ed in particolare, nel caso di rilascio di concessione edilizia e di autorizzazione paesaggistica, non si rivela necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento a soggetti terzi dal momento che, in subiecta materia, non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III 12.12.2014 n. 6138).
Il vicino controinteressato non è, dunque, un soggetto cui deve essere inviata la comunicazione di avvio del procedimento per un titolo edilizio (ma lo stesso è a dirsi anche rispetto all’autorizzazione paesaggistica), ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, pur se egli già si sia opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante. Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento (Consiglio di Stato sez. VI 10.04.2014 n. 1718) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.06.2015 n. 3042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuanto all’inquadramento dell’intervento qui in rilievo nelle varie categorie edilizie previste dalla disciplina di settore, la realizzazione di un balcone, in ragione del quid novi che ad essa si riconnette rispetto al pregresso stato dei luoghi, debba essere ascritta nel genus della cd. ristrutturazione edilizia.
---------------
La enucleabilità di un intervento di ristrutturazione non vale di per sé a rendere inammissibile l’istanza di sanatoria di cui all’articolo 167, comma IV, del d.lgs. 42/2004, a mente del quale “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Ed, invero, la richiamata disciplina di riferimento non esclude, in via astratta, la possibilità di un accertamento della compatibilità paesaggistica di un intervento di ristrutturazione edilizia già effettuato in assenza di previo rilascio di autorizzazione paesistica; il solo elemento a ciò ostativo in via assoluta, preso in considerazione dal legislatore nell'occasione, è la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente assentiti, pur con l'esclusione dei lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria ai sensi dell'art. 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In siffatte evenienze, dunque, s’impone piuttosto una puntuale valutazione in concreto onde appurare se l’intervento di ristrutturazione eseguito integri un incremento non consentito, tra l’altro, di superficie utile, valutazione nella specie del tutto omessa, non evincendosi sul punto alcun utile riferimento nel corpo del provvedimento gravato che giustifica il proprio favorevole avviso con la seguente laconica espressione “parere favorevole in quanto paesaggisticamente compatibile ben inserendosi il balcone nell’architettura locale”.
--------------
Non è possibile ritenere che l’obbligo generale della motivazione patisca eccezioni nel caso di atti di contenuto positivo.
E’ stato, infatti, più volte evidenziato in giurisprudenza, proprio in subiecta materia, che sia i provvedimenti negativi che quelli positivi debbano essere sostenuti da adeguata motivazione. Invero, l'esigenza di una congrua motivazione —che si giustifica, innanzitutto, con la considerazione del valore costituzionale da preservare (tutela del paesaggio ex art. 9 cost.)— postula che l'atto autorizzatorio fornisca la piena ricostruzione dell'itinerario seguito in ordine alle ragioni di compatibilità/incompatibilità effettiva che, in riferimento agli specifici valori paesistici del luogo, possano, ove sussistenti, consentire o meno i progettati lavori.
L'onere di motivazione non sussiste, dunque, solo in caso di diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli interventi edificatori in riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi, occorrendo dare sufficiente prova dei criteri di merito seguiti per giustificare il finale e positivo giudizio di compatibilità ambientale del manufatto medesimo.

Deve, viceversa, ritenersi fondata la censura con cui il ricorrente lamenta l’insufficienza del corredo motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato.
Vale premettere, quanto all’inquadramento dell’intervento qui in rilievo nelle varie categorie edilizie previste dalla disciplina di settore, che la realizzazione di un balcone, in ragione del quid novi che ad essa si riconnette rispetto al pregresso stato dei luoghi, debba essere ascritta nel genus della cd. ristrutturazione edilizia (arg. ex Consiglio di Stato sez. VI 05.12.2013 n. 5804; TAR Napoli (Campania) sez. VII 07.06.2012 n. 2717; TAR Napoli (Campania) sez. IV 28.10.2011 n. 5052; Cassazione penale sez. III 20.05.1988; Cassazione penale sez. III 20.05.1988).
Ciò nondimeno, la enucleabilità di un intervento di ristrutturazione non vale di per sé a rendere inammissibile l’istanza di sanatoria di cui all’articolo 167, comma IV, del d.lgs. 42/2004, a mente del quale “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
”.
Ed, invero, la richiamata disciplina di riferimento non esclude, in via astratta, la possibilità di un accertamento della compatibilità paesaggistica di un intervento di ristrutturazione edilizia già effettuato in assenza di previo rilascio di autorizzazione paesistica; il solo elemento a ciò ostativo in via assoluta, preso in considerazione dal legislatore nell'occasione, è la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente assentiti, pur con l'esclusione dei lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria ai sensi dell'art. 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Napoli (Campania) sez. VII n. 2665 del 05/05/2010).
In siffatte evenienze, dunque, s’impone piuttosto una puntuale valutazione in concreto onde appurare se l’intervento di ristrutturazione eseguito integri un incremento non consentito, tra l’altro, di superficie utile, valutazione nella specie del tutto omessa, non evincendosi sul punto alcun utile riferimento nel corpo del provvedimento gravato che giustifica il proprio favorevole avviso con la seguente laconica espressione “parere favorevole in quanto paesaggisticamente compatibile ben inserendosi il balcone nell’architettura locale”.
D’altro canto, e come efficacemente evidenziato dal ricorrente, l’inettitudine funzionale della sopra riportata proposizione a dar conto di una puntuale e approfondita disamina dell’opera con la disciplina di riferimento è fatta palese anche dall’assenza di qualsivoglia contributo esplicativo idoneo a chiarire la ritenuta compatibilità dell’intervento in argomento con le cogenti prescrizioni conformative del vigente PTP, nemmeno menzionato nel provvedimento impugnato e che non si perita nemmeno di accertare la zona di riferimento ed il relativo regime giuridico.
Senza contare, sotto diverso profilo, che, anche per gli stessi profili di merito della suddetta valutazione, nella parte in cui si afferma la compatibilità paesaggistica dell’opera, appare di tutta evidenza l’insufficienza della detta motivazione.
Ed, invero, ad una piana lettura del provvedimento qui impugnato, emerge, con particolare nitore, che le informazioni veicolate nel corpo dell’atto finale sono manifestamente insufficienti, anche sotto tale ultimo profilo, a dar conto, in modo chiaro, della traiettoria argomentativa seguita dall’Autorità procedente.
Deve, infatti, ritenersi apodittica, in assenza di plausibili argomentazioni esplicative, l’affermata meritevolezza dell’istanza attorea “...ben inserendosi il balcone nell’architettura locale”.
Tale statuizione, siccome del tutto disancorata da pertinenti indicazioni esplicative, si rivela manifestamente inidonea a disvelare, da un lato, il quadro di riferimento utilizzato come parametro di riferimento e, dall’altro, i ravvisati profili di presunta omogeneità dell’opera con il tessuto architettonico locale.
Né è possibile ritenere che l’obbligo generale della motivazione patisca eccezioni nel caso di atti di contenuto positivo.
E’ stato, infatti, più volte evidenziato in giurisprudenza, proprio in subiecta materia, che sia i provvedimenti negativi che quelli positivi debbano essere sostenuti da adeguata motivazione. Invero, l'esigenza di una congrua motivazione —che si giustifica, innanzitutto, con la considerazione del valore costituzionale da preservare (tutela del paesaggio ex art. 9 cost.)— postula che l'atto autorizzatorio fornisca la piena ricostruzione dell'itinerario seguito in ordine alle ragioni di compatibilità/incompatibilità effettiva che, in riferimento agli specifici valori paesistici del luogo, possano, ove sussistenti, consentire o meno i progettati lavori (arg. ex TAR Roma (Lazio) sez. II 08.08.2012 n. 7317).
L'onere di motivazione non sussiste, dunque, solo in caso di diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli interventi edificatori in riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi, occorrendo dare sufficiente prova dei criteri di merito seguiti per giustificare il finale e positivo giudizio di compatibilità ambientale del manufatto medesimo (arg. ex TAR Napoli (Campania) sez. VI n. 1640 del 05/04/2012)  (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.06.2015 n. 3042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni:
a) se sia o meno obbligatoria, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, l’indicazione già in sede di presentazione dell’offerta del nominativo del subappaltatore, qualora il concorrente sia privo dei necessari requisiti di qualificazione per talune categorie scorporabili ed abbia espresso l’intento di subappaltare tali prestazioni;
b) se, ammessa la risposta affermativa al quesito che precede, per le procedure nelle quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al pronunciamento della Plenaria, sia possibile ovviare all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d. soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente interessato a integrare la dichiarazione carente;
c) se, in relazione all’obbligo di indicazione in sede di offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale, affermato anche per gli appalti di lavori dalla sentenza nr. 3 del 2015, sia del pari possibile, per le procedure nelle quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al ridetto pronunciamento, ovviare all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d. soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente interessato a integrare o precisare la dichiarazione carente.

10. Tutto ciò premesso, la Sezione ritiene di dover devolvere all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni di diritto meglio di sèguito indicate, che risultano sottese al presente giudizio e in relazione alle quali sussistono –o, comunque, potrebbero sussistere– difformità di indirizzi in giurisprudenza potenzialmente idonei a pregiudicare l’equa ed uniforme applicazione della normativa di riferimento.
11. Più specificamente, e principiando dal tema oggetto degli appelli principale e incidentale, questo attiene alla necessità (o meno) dell’indicazione del nominativo dei subappaltatori in sede di offerta da parte dei concorrenti di una gara di appalto, i quali abbiano dichiarato di voler subappaltare parte delle prestazioni oggetto dell’affidamento, per le quali non risultino in possesso della richiesta qualificazione.
11.1. Sul punto, si è già rilevato in sede cautelare che effettivamente l’orientamento di gran lunga prevalente, consolidatosi almeno negli ultimi due anni presso tutte le Sezioni di questo Consiglio di Stato, è nel senso che l’art. 118, comma 2, del d.lgs. nr. 163/2006, nella parte in cui sottopone l’affidamento in subappalto alla condizione che i concorrenti all’atto dell’offerta abbiano indicato i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o concedere in cottimo, va interpretato nel senso che la dichiarazione deve contenere anche l’indicazione del subappaltatore, unitamente alla dimostrazione del possesso in capo al medesimo dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario in conseguenza del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (cd. subappalto necessario); detta dichiarazione può invece essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nell’ipotesi in cui il concorrente disponga autonomamente delle qualificazioni necessarie per l’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto, ossia quando il ricorso al subappalto rappresenti per lo stesso concorrente una facoltà e non la via necessitata per partecipare alla gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, nr. 944; id., 10.02.2015, nr. 676; id., sez. III, 26.11.2014, nr. 5856; id., sez. V, 28.08.2014, nr. 4405; id., sez. IV, 26.08.2014, nr. 4299; id., 26.05.2014, nr. 2675; id., 13.03.2014, nr. 1224; id., 05.12.2013, nr. 5781).
Questa Sezione condivide tale indirizzo, la cui ratio risiede manifestamente nell’esigenza di assicurare sempre e comunque la partecipazione alle gare di concorrenti i quali risultino in possesso della qualificazione richiesta dalla lex specialis per tutte le prestazioni oggetto dell’appalto; l’opposto indirizzo, infatti, produrrebbe l’effetto di consentire la partecipazione di imprese sfornite dei necessari requisiti di qualificazione all’atto della presentazione dell’offerta, consentendo poi loro di integrare ex post, in sede di esecuzione del contratto ed al momento della successiva indicazione dei subappaltatori, i predetti requisiti non posseduti: ciò che, con ogni evidenza, comporterebbe una grave e ingiustificata violazione della par condicio tra i concorrenti.
A fronte di tali rilievi, non appaiono dirimenti le considerazioni sovente addotte, e anche nel presente giudizio sostenute dalle parti appellanti, a sostegno dell’opposta conclusione nel senso della non necessità di un’immediata indicazione dei subappaltatori: considerazioni riassumibili nel non essere tale obbligo espressamente sancito dall’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006, nel porsi la conseguente esclusione –ove non prevista dal bando di gara– in violazione del principio di tassatività delle cause ostative oggi codificato all’art. 46, comma 1-ter, del medesimo decreto, e nell’inidoneità in ogni caso dell’indicazione dei subappaltatori a fornire alla stazione appaltante serie garanzie sul possesso dei requisiti in capo al concorrente.
Quanto al primo aspetto, è agevole rilevare che nell’ipotesi in esame l’esclusione del concorrente dalla procedura selettiva conseguirebbe non già alla mera inosservanza di un obbligo dichiarativo, ma alla circostanza sostanziale del mancato possesso dei necessari requisiti di qualificazione per parte delle prestazioni oggetto dell’appalto: donde l’irrilevanza della carenza di una specifica previsione nell’art. 118, discendendo l’esigenza di un’indicazione nominativa del subappaltatore dalla logica stessa del sistema in materia di necessario possesso dei requisiti tecnico-organizzativi di partecipazione.
Con riguardo al secondo profilo, va rammentato che, nell’accezione “sostanzialistica” fatta propria dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. sent. 07.06.2012, nr. 21), il principio di tassatività va inteso nel senso che l’esclusione dalle gare possa essere disposta non nei soli casi in cui disposizioni del Codice dei contratti pubblici o del regolamento attuativo la prevedano espressamente, ma anche in ogni altro caso in cui dette disposizioni impongano adempimenti doverosi ai concorrenti o candidati, pur senza prevedere una espressa sanzione di esclusione (in tal modo restando irrilevante la mancata previsione esplicita di una comminatoria di esclusione, in quanto si realizza una eterointegrazione legale della lex specialis); tale argomento, con richiamo alle norme in tema di possesso dei titoli di qualificazione indispensabili per l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto, è richiamato dalle pronunce che sostengono l’orientamento interpretativo cui qui si aderisce (cfr. ad esempio la sent. nr. 1124/2014, cit.).
Infine, quanto al terzo dei profili evocati, l’indirizzo prevalente finisce invero per essere idoneo a garantire la stazione appaltante in ordine al possesso dei requisiti di qualificazione in capo al concorrente, nella misura in cui si assuma –come in fatto è, nelle decisioni che a tale impostazione aderiscono– che il concorrente, il quale sia sprovvisto della qualificazione per le categorie scorporabili e dichiari di voler subappaltare le relative prestazioni, sia tenuto non solo a indicare nominativamente i subappaltatori, ma anche e soprattutto ad attestare il possesso dei requisiti in capo agli stessi (svolgendo di fatto il subappalto, in tale ipotesi, la medesima funzione dell’avvalimento ex art. 49 del d.lgs. nr. 163/2006).
11.2. Se tali sono gli argomenti che militano a favore dell’opzione maggioritaria, non può però sottacersi che ancora in tempi recenti l’opposto orientamento è emerso nella giurisprudenza sia di primo grado (cfr. TAR Puglia, sez. II, 27.03.2014, nr. 393) sia d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.07.2014, nr. 3449, sia pure con riferimento a una fattispecie concreta in cui non si trattava di subappalto c.d. “necessario”; id., 19.06.2012, nr. 3653), nonché nell’avviso costantemente espresso sul punto dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, oggi Autorità Nazionale Anticorruzione, secondo cui “la normativa vigente non pone l’obbligo d’indicare i nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, a differenza di quanto previsto dall’art. 49 del d.lgs. 12.04.2006, nr. 163 per l’impresa ausiliaria, ma soltanto l’onere di dichiarare preventivamente le lavorazioni che il concorrente intenda subappaltare, qualora privo della necessaria qualificazione, fermo restando, in tal caso, che la mancanza della qualificazione nelle categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria deve essere compensata da un corrispondente incremento della qualificazione nella categoria prevalente, e ciò a tutela della stazione appaltante, circa la sussistenza della complessiva capacità economica e finanziaria in capo all’appaltatore” (cfr. parere nr. 11 del 30.01.2014; nello stesso senso, determinazione 10.10.2012, nr. 4, e, da ultimo, determinazione 08.01.2015, nr. 1).
11.3. Al di là della perdurante difformità di indirizzi testé evidenziata, tale da giustificare ex art. 99 cod. proc. amm. la devoluzione all’Adunanza plenaria, rileva l’ulteriore questione evidenziata dalle appellanti principali nella propria memoria conclusiva, laddove si è osservato come, avuto riguardo all’epoca in cui è stata indetta la procedura selettiva per cui è causa (ottobre 2013), l’offerta è stata presentata in un momento in cui era estremamente vivo il contrasto di indirizzi sopra descritto, solo di recente in via di risoluzione con la prevalenza dell’opzione più rigorosa; pertanto, in diretta applicazione del principio di diritto comunitario che preclude l’esclusione del concorrente da una procedura selettiva per la violazione di una regola non connotata da chiarezza, precisione e univocità al momento in cui sono stati posti in essere i relativi adempimenti, la stazione appaltante avrebbe dovuto ammettere l’impresa interessata al c.d. soccorso istruttorio, consentendole di integrare la dichiarazione carente.
Al riguardo, questa Sezione rileva che effettivamente, in precedenti occasioni in cui l’Adunanza plenaria ha enunciato principi di diritto suscettibili di incidere anche su procedure di gara in corso, è stato lo stesso Supremo Collegio a porsi il problema degli effetti della loro possibile applicazione in relazione a vicende pregresse, svoltesi in fase di perdurante incertezza sull’interpretazione della normativa di riferimento, ammettendo per tali casi l’esperibilità del soccorso istruttorio: ciò è avvenuto, ad esempio, allorché è stata generalizzata la regola della pubblicità della seduta di gara concernente l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche e la verifica del loro contenuto (cfr. sent. 27.06.2013, nr. 16), nonché quando, a proposito degli effetti della omessa indicazione per i concorrenti di una gara di appalti della esistenza di condanne penali nei loro confronti passate in giudicato, ex art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. nr. 163/2006, nell’affermare la sussistenza di tale obbligo in relazione alla posizione degli amministratori di società interessate da processi di fusione o incorporazione con il concorrente, è stato precisato che tali condizioni dovessero ritenersi operanti per le gare successive all’arresto interpretativo così raggiunto, mentre per le gare precedenti, salvo espresse previsioni delle norme di gara, dovesse negarsi l’ipotesi di espulsione per mera omessa dichiarazione, dovendosi a tal fine dare ingresso al c.d. soccorso istruttorio (cfr. sent. 07.06.2012, nr. 21).
Pertanto, qualora l’Adunanza plenaria dovesse condividere il più rigoroso indirizzo che qui si sostiene, sarebbe opportuno che si esprimesse anche in ordine alle sue ricadute sulle procedure esperite in epoca anteriore, sotto lo specifico profilo dell’ammissibilità (o meno) di un’integrazione delle dichiarazioni rese dal concorrente interessato, con l’indicazione nominativa dei subappaltatori destinati a svolgere le prestazioni per le quali difetti in capo all’impresa la necessaria qualificazione.
12. Una questione di diritto intertemporale, analoga a quella testé prospettata, viene altresì sollecitata dall’ulteriore motivo di censura articolato in primo grado, rimasto assorbito dalla sentenza appellata e riproposto nel presente grado dalla parte appellata, con riguardo alla necessità, per quanto riguarda gli appalti di lavori, di indicare già in sede di presentazione dell’ offerta i costi da sostenere per gli oneri di sicurezza aziendale (motivo destinato a venire in rilievo ove si concludesse nel senso della fondatezza degli appelli sotto il profilo fin qui esaminato).
Sul punto, in sede di reiezione dell’istanza di sospensiva avanzata in una all’appello, è stato sinteticamente richiamato, a sostegno della possibile fondatezza di tale doglianza, il recente indirizzo dell’Adunanza plenaria nel senso dell’obbligatorietà di detta indicazione, non potendo il relativo accertamento rimettersi alla fase, successiva e solamente eventuale, della verifica di congruità dell’offerta economica (cfr. sent. 20.03.2015, nr. 3).
Tuttavia, anche con riguardo a tale questione parte appellante evidenzia che nella specie la formulazione dell’offerta risale ad epoca in cui il principio era tutt’altro che pacifico (sottolineandosi anzi, nella stessa decisione della Plenaria sopra richiamata, che negli anni più recenti l’orientamento della giurisprudenza era stato in senso opposto, e, cioè, nel senso che per gli appalti di lavori non fosse necessario indicare già in sede di offerta gli oneri per la sicurezza aziendale).
Di conseguenza, anche a tale riguardo la Sezione reputa opportuno rimettere all’Adunanza plenaria gli opportuni chiarimenti in ordine al “regime” cui assoggettare, quanto all’esperibilità o meno del soccorso istruttorio, le vicende –quale è quella che qui occupa- antecedenti all’arresto giurisprudenziale da ultimo consolidatosi.
13. Riepilogando, sulla base delle motivazioni fin qui esposte, si ritiene di dover deferire all’Adunanza plenaria le questioni esposte in narrativa, e segnatamente:
a) se sia o meno obbligatoria, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, l’indicazione già in sede di presentazione dell’offerta del nominativo del subappaltatore, qualora il concorrente sia privo dei necessari requisiti di qualificazione per talune categorie scorporabili ed abbia espresso l’intento di subappaltare tali prestazioni;
b) se, ammessa la risposta affermativa al quesito che precede, per le procedure nelle quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al pronunciamento della Plenaria, sia possibile ovviare all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d. soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente interessato a integrare la dichiarazione carente;
c) se, in relazione all’obbligo di indicazione in sede di offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale, affermato anche per gli appalti di lavori dalla sentenza nr. 3 del 2015, sia del pari possibile, per le procedure nelle quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al ridetto pronunciamento, ovviare all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d. soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente interessato a integrare o precisare la dichiarazione carente.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 03.06.2015 n. 2707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Rammenta il Collegio come sia inveterato insegnamento dottrinale l’assunto che le ordinanze –delle quali quelle contingibili ed urgenti ex art. 50, d.lgs. n. 267/2000 costituiscono una species– nella sistematica giuridica vengono annoverate tra gli ordini, che sono atti autoritativi espressione della potestà di imperio della pubblica Amministrazione con i quali vengono imposte ai privati determinate prestazioni o attività finalizzate al perseguimento di specifici obiettivi di interesse pubblico nel caso concreto, per lo più afferenti alla pubblica incolumità, all’ordine pubblico e all’igiene e sanità pubblica, facendosi l’esempio degli ordini di abbattimento di animali affetti da malattie epidemiche e diffusive, degli ordini di requisizione della proprietà privata per soddisfare eccezionali e temporanee esigenze pubbliche, delle ordinanze di messa in sicurezza di edifici privati pericolanti etcetera..
Orbene, il tratto caratteristico che accomuna siffatti ordini è individuabile sotto il profilo oggettivo e contenutistico nell’imposizione di talune prestazioni o attività e, correlativamente, nella natura afflittiva del provvedimento, mentre sotto il profilo finalistico nella sua preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico, oltretutto cagionate da situazioni impreviste, imprevedibili ed eccezionali e come tali determinanti l’urgenza di provvedere.
--------------
Il primo e più macroscopico elemento che difetta nell'ordinanza contingibile ed urgente qui appellata è la natura impositiva e il correlato carattere afflittivo, essendosi ordinata non l’effettuazione di un’attività sacrificante o l’imposizione di una prestazione, ma l’esplicazione di una facoltà giuridica comportante conseguenze vantaggiose e riflessi accrescitivi della sfera giuridico–economica dei destinatari, secondo il classico modulo del provvedimento ampliativo della posizione giuridica dei privati, atto a rimuovere un limite posto dall’ordinamento all’esercizio di un’attività per la quale il destinatario vanta, secondo la sistematica sandulliana, un c.d. diritto in attesta di espansione, alias di un interesse pretensivo, di talché il provvedimento, rimuovendo quel limite si profila come creativo di un diritto.
Rammenta il Collegio come il precipitato giuridico sostanziale della delineata differenziazione sia il dato che a fronte di un ordine e di un’ordinanza, il privato destinatario versa in una situazione giuridica soggettiva di interesse oppositivo, là dove quella in cui versa il destinatario di un provvedimento autorizzativo –o ampliativo in genere– è, prima della comunicazione del provvedimento, di interesse pretensivo.
Difetta inoltre nell’impugnata ordinanza anche il presupposto funzionale, che nelle ordinanze contingibili ed urgenti è rappresentato, come detto, dalla preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico, mentre l’ordinanza all’esame realizza l’interesse privato delle tre imprese di navigazione controinteressate, l’interesse pubblico rimanendo sullo sfondo della vicenda.
---------------
La giurisprudenza pronunciatasi sui presupposti del potere di ordinanza di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 è vastissima, qui richiamandosi solo gli arresti più significativi che confermano come la norma consenta di adottare tale tipologia di provvedimento solo per far fronte a situazioni di pericolo, imprevedibili ed eccezionali, da esternare con congrua motivazione e che non possono essere fronteggiate esercitando gli strumenti ordinari allestiti dall’ordinamento (c.d. residualità) determinando quindi un’urgenza di provvedere mediante l’adozione di un provvedimento extra ordinem.
Si è al riguardo statuito che “Il potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. Pertanto, l'ordinanza contingibile ed urgente non può essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie, e richiede sempre la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile”.
Si è pure compiutamente precisato che “I presupposti delle ordinanze contingibili e urgenti sono da rinvenire, da un lato, nella necessità, intesa come situazione di fatto, che rende indispensabile derogare agli ordinari mezzi offerti dalla legislazione, tenuto conto delle presumibili serie probabilità di pericolo nei confronti dello specifico interesse pubblico da salvaguardare e, dall'altro, nell'urgenza, consistente nella materiale impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo”.
Con riferimento all’art. 38 della abrogata L. n. 142/1990 che contemplava anche l’edilizia e la polizia locale tra le materie di consentito oggetto di ordinanza sindacale, si era efficacemente affermato che “Il potere di ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli strumenti ordinari di cui può disporre normalmente l'autorità amministrativa” e analogamente, che “Ai sensi dell'art. 38, comma 2, l. 08.06.1990 n. 142, all'epoca vigente, legittimamente il sindaco, in qualità di ufficiale del governo, ha la potestà di adottare, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini”.
---------------
L’altro indefettibile requisito che condiziona la legittimità dello strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente è l’evenienza formale che, oltre alla già accertata situazione di pericolo derivante da circostanze imprevedibili ed eccezionali, la legge non contempli onde fronteggiare l’urgenza di provvedere, altri e tipici provvedimenti.
L’ordinanza ex artt. 50 e 54 del Testo unico sugli enti locali rappresenta dunque l’extrema ratio del potere amministrativo, la valvola di chiusura del sistema, configurando un rimedio extra ordinem che, sia pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, è atto a derogare al principio di legalità e al suo corollario in cui tale principio declina sul versante dell’attività provvedimentale e che è costituito dal principio di tipicità dei provvedimenti.
Si è in giurisprudenza di recente rammentato che “incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento” essendosi anche in tal senso evidenziato che ai fini dell’adozione dell’ordinanza in parola la situazione imprevista ed eccezionale “non possa essere fronteggiata con altri rimedi apprestati dall’ordinamento”.

Sotto il primo profilo, rammenta il Collegio come sia inveterato insegnamento dottrinale l’assunto che le ordinanze –delle quali quelle contingibili ed urgenti ex art. 50, d.lgs. n. 267/2000 costituiscono una species– nella sistematica giuridica vengono annoverate tra gli ordini, che sono atti autoritativi espressione della potestà di imperio della pubblica Amministrazione con i quali vengono imposte ai privati determinate prestazioni o attività finalizzate al perseguimento di specifici obiettivi di interesse pubblico nel caso concreto, per lo più afferenti alla pubblica incolumità, all’ordine pubblico e all’igiene e sanità pubblica, facendosi l’esempio degli ordini di abbattimento di animali affetti da malattie epidemiche e diffusive, degli ordini di requisizione della proprietà privata per soddisfare eccezionali e temporanee esigenze pubbliche, delle ordinanze di messa in sicurezza di edifici privati pericolanti etcetera..
Orbene, il tratto caratteristico che accomuna siffatti ordini è individuabile sotto il profilo oggettivo e contenutistico nell’imposizione di talune prestazioni o attività e, correlativamente, nella natura afflittiva del provvedimento, mentre sotto il profilo finalistico nella sua preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico, oltretutto cagionate da situazioni impreviste, imprevedibili ed eccezionali e come tali determinanti l’urgenza di provvedere.
Ebbene, in disparte l’ausilio delle indicazioni giurisprudenziali sulla quali breviter infra, rileva il Collegio come nessuno dei divisati requisiti del canonico provvedimento di ordinanza sia presente nella gravata ordinanza n. 54 del 23.04.2013 assunta dal Comune di Capri.
Invero, il primo e più macroscopico elemento che difetta è la natura impositiva e il correlato carattere afflittivo, essendosi ordinata non l’effettuazione di un’attività sacrificante o l’imposizione di una prestazione, ma l’esplicazione di una facoltà giuridica comportante conseguenze vantaggiose e riflessi accrescitivi della sfera giuridico–economica dei destinatari, secondo il classico modulo del provvedimento ampliativo della posizione giuridica dei privati, atto a rimuovere un limite posto dall’ordinamento all’esercizio di un’attività per la quale il destinatario vanta, secondo la sistematica sandulliana, un c.d. diritto in attesta di espansione, alias di un interesse pretensivo, di talché il provvedimento, rimuovendo quel limite si profila come creativo di un diritto.
Rammenta il Collegio come il precipitato giuridico sostanziale della delineata differenziazione sia il dato che a fronte di un ordine e di un’ordinanza, il privato destinatario versa in una situazione giuridica soggettiva di interesse oppositivo, là dove quella in cui versa il destinatario di un provvedimento autorizzativo –o ampliativo in genere– è, prima della comunicazione del provvedimento, di interesse pretensivo.
3.3. Difetta inoltre nell’impugnata ordinanza anche il presupposto funzionale, che nelle ordinanze contingibili ed urgenti è rappresentato, come detto, dalla preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico, mentre l’ordinanza all’esame realizza l’interesse privato delle tre imprese di navigazione controinteressate, l’interesse pubblico rimanendo sullo sfondo della vicenda.
---------------
3.5. Al riguardo giova rammentare che la giurisprudenza pronunciatasi sui presupposti del potere di ordinanza di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 è vastissima, qui richiamandosi solo gli arresti più significativi che confermano come la norma consenta di adottare tale tipologia di provvedimento solo per far fronte a situazioni di pericolo, imprevedibili ed eccezionali, da esternare con congrua motivazione e che non possono essere fronteggiate esercitando gli strumenti ordinari allestiti dall’ordinamento (c.d. residualità) determinando quindi un’urgenza di provvedere mediante l’adozione di un provvedimento extra ordinem.
Si è al riguardo statuito che “Il potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento. Pertanto, l'ordinanza contingibile ed urgente non può essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece prevedibili ed ordinarie, e richiede sempre la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile” (TAR Veneto, Sez. 04.08.2009, n. 2274) e si è pure compiutamente precisato che “I presupposti delle ordinanze contingibili e urgenti sono da rinvenire, da un lato, nella necessità, intesa come situazione di fatto, che rende indispensabile derogare agli ordinari mezzi offerti dalla legislazione, tenuto conto delle presumibili serie probabilità di pericolo nei confronti dello specifico interesse pubblico da salvaguardare e, dall'altro, nell'urgenza, consistente nella materiale impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo” (TAR Lazio, II, 14.02.2007, n. 1352).
Con riferimento all’art. 38 della abrogata L. n. 142/1990 che contemplava anche l’edilizia e la polizia locale tra le materie di consentito oggetto di ordinanza sindacale, si era efficacemente affermato che “Il potere di ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli strumenti ordinari di cui può disporre normalmente l'autorità amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, sez. III, 31.07.2008, n. 3124) e analogamente, che “Ai sensi dell'art. 38, comma 2, l. 08.06.1990 n. 142, all'epoca vigente, legittimamente il sindaco, in qualità di ufficiale del governo, ha la potestà di adottare, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini” (TAR Lazio-Roma, Sez. II, 02.05.2006, n. 3086).
3.6. Per concludere sul punto va altresì ricordato che l’altro indefettibile requisito che condiziona la legittimità dello strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente è l’evenienza formale che, oltre alla già accertata situazione di pericolo derivante da circostanze imprevedibili ed eccezionali, la legge non contempli onde fronteggiare l’urgenza di provvedere, altri e tipici provvedimenti.
L’ordinanza ex artt. 50 e 54 del Testo unico sugli enti locali rappresenta dunque l’extrema ratio del potere amministrativo, la valvola di chiusura del sistema, configurando un rimedio extra ordinem che, sia pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, è atto a derogare al principio di legalità e al suo corollario in cui tale principio declina sul versante dell’attività provvedimentale e che è costituito dal principio di tipicità dei provvedimenti.
Si è in giurisprudenza di recente rammentato che “incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento” (TAR Toscana, Sez. III, 27.08.2012, n. 1484) essendosi anche in tal senso evidenziato che ai fini dell’adozione dell’ordinanza in parola la situazione imprevista ed eccezionale “non possa essere fronteggiata con altri rimedi apprestati dall’ordinamento” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Marche, 04.02.2003 n. 26; TAR Emilia Romagna–Parma, 10.01.2003, n. 1, nonché, più di recente, TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 11.04.2009, n. 711; Consiglio di Stato, Sez. V, 16.02.2010, n. 868)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 01.06.2015 n. 3011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOccorre distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici.
Mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
---------------
Ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004) gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 d.P.R. 380/2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.

... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di Castellammare di Stabia n. 72701 del 24.12.2009, con la quale è stata ordinata al ricorrente, ai sensi degli articoli 31 del d.P.R. n. 380/2001 e 167 del decreto legislativo n. 42/2004, la demolizione di opere abusive poste in essere alla via Cosenza n. 153, quali nel suo corpo indicate,
...
4- Procedendo con la fase valutativa/decisionale, osserva il Collegio come dalla stessa prospettazione attorea e dalla documentazione versata in atti a supporto delle formulate denunce si trae che, a seguito dell’incendio della caldaia di cui innanzi, si è fatto luogo alla realizzazione -ex novo nelle attuali dimensioni- di quello che nello stesso ricorso viene definito “locale a servizio della cucina, ossia uno spazio destinato a soddisfare tutte le attività strumentali da svolgere per la corretta gestione della vita familiare” (pag. 4 del gravame); locale che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente nel primo mezzo di impugnazione e però senza adeguati supporti probatori atti a smentire le contestazioni ricevute, ha determinato la creazione di un nuovo organismo, la cui fattibilità non appare esser sancita dal regolamento del condominio che consente solo “la copertura del balcone con tettoia di vetro resinato”: ovvero, non la creazione di un locale avente le sopradescritte più ampie finalità.
4a- Fermo che, in ogni caso, le previsioni condominiali non fanno venir meno gli obblighi di legge sotto il versante pubblicistico, ne consegue (ne conseguiva) la necessità di premunirsi dei titoli abilitativi richiesti dalla legge in quanto la natura pertinenziale del nuovo vano, quale creato nelle sopra descritte dimensioni, a differenza di quanto denunciato nel secondo mezzo di impugnazione non rende illegittima la sanzione demolitoria irrogata.
Ed invero, per giurisprudenza consolidata e condivisa:
- “occorre distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici. Mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire” (cfr. per il principio, Tar Campania, questa settima sezione, sentenza n. 1645 del 19.03.2015 e, sesta sezione, n. 2150 del 16.04.2014 e n. 1770 del 18.04.2012);
- ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004) -che qui anche viene ad aversi- gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 d.P.R. 380/2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica” (cfr., ex multis, Tar Campania, sezione sesta, sentenza n. 4676 del 23.10.2013) (Cons. Stato, sezione sesta, sentenza n. 2226 del 04.05.2015) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 28.05.2015 n. 2971 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’orientamento del giudice di appello, in situazione fattuale che si appalesa pressoché identica a quella qui data, ha ribadito che un manufatto, di più ampie dimensioni rispetto al preesistente, realizzato senza assenso edilizio su un terrazzo di un appartamento, produce “l’effetto di incremento di volumetria e di modifica della sagoma dell’edificio ....”, senza che “la veranda possa essere considerata mero volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo potenziale…”, di guisa che “in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione circa la natura pertinenziale o meno del manufatto realizzato”.
4b- Ancorché quanto sopra, ovvero la contestata mancanza del titolo paesaggistico, sia sufficiente ad imporre di negare ingresso alle doglianze attoree aventi pregnanza sostanziale, ovvero sia al primo ed al secondo mezzo di impugnazione, è il caso di richiamare ancora l’orientamento del giudice di appello che, in situazione fattuale che si appalesa pressoché identica a quella qui data, ha ribadito che un manufatto, di più ampie dimensioni rispetto al preesistente, realizzato senza assenso edilizio su un terrazzo di un appartamento, produce “l’effetto di incremento di volumetria e di modifica della sagoma dell’edificio ....”, senza che “la veranda possa essere considerata mero volume tecnico a protezione della caldaia, alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale anche solo potenziale…”, di guisa che “in quanto comportante modifica del volume, della sagoma e del prospetto dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui realizzazione sconta il previo permesso di costruire da parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione circa la natura pertinenziale o meno del manufatto realizzato” (Cons. Stato, sezione sesta, sentenza n. 2226 del 04.05.2015) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 28.05.2015 n. 2971 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

VARI: Nessun obbligo di prodotti «bio» nel supermercato. Tar di Napoli. È solo fattore di premialità.
Non si può imporre a un supermercato la vendita di alimentari provenienti da agricoltura biologica locale: lo sottolinea il TAR Campania-Napoli, Sez. III, nella sentenza 28.05.2015 n. 2950.
Nel caso specifico, un Comune aveva subordinato il rilascio della licenza commerciale, in ampliamento di una struttura per la vendita al dettaglio di alimentari, all’impegno di vendere questi prodotti regionali per almeno il 5% del totale del food venduto.
Secondo i giudici amministrativi questa clausola è illegittima: a tutto concedere, una norma locale (nel caso specifico, la legge regionale della Campania 1/2014), può solo considerare la vendita di prodotti locali quale fattore di premialità al rilascio delle autorizzazioni per grandi strutture. In altri termini, l’impegno del titolare della struttura, a porre in vendita prodotti alimentari a chilometri zero provenienti da agricoltura biologica certificata, può giovare per benefici ulteriori, ma non può condizionare l'originario rilascio della licenza commerciale.
La previsione della legge regionale Campania contrasta quindi con la liberalizzazione delle attività economiche, quale scaturisce dai d.l. 138/2011 n. 201/2011 e n. 1/2012 ed è stata perciò disapplicata per contrasto con il diritto comunitario. Quest'ultimo è infatti applicabile in via diretta, in luogo del diritto interno, sia da parte dei giudici sia dagli organi della pubblica amministrazione nello svolgimento della loro attività di diritto pubblico, e ciò anche di ufficio, cioè indipendentemente da richieste o sollecitazioni di parte.
Gli elementi fondamentali di tale liberalizzazione, secondo il Tar napoletano sono due: il primo è la libertà di apertura e di ampliamento degli esercizi commerciali, la quale non può subire restrizioni se non per la tutela di interessi costituzionalmente rilevanti.
Applicando questo principio è stato ritenuto legittimo –ad esempio- il limite della collocazione di un discount in una precedente sede di banca, per mancanza di parcheggi (Tar Liguria 220 del 2015), l'attivazione di 12 autorizzazioni per il servizio di noleggio con conducente da parte di un Comune di 18.000 abitanti (TAR Umbria 68/2015); il regime degli orari di apertura (Cons. Stato 5288/2014), l'apertura di esercizi in di gioco e scommesse (Corte cost. 220/2014).
La seconda tappa del processo di liberalizzazione si manifesta nel divieto di contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, anche relativi alle modalità di organizzazione e svolgimento delle attività economiche, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, incluso quello urbano e dei beni culturali.
Non è quindi possibile imporre aliquote di prodotti in vendita, perché vi sarebbe una restrizione contraria al principio di libertà. Si può invece parlare di requisiti premiali, utilizzando il sistema (appunto, premiale), che si applica nell'edilizia, qualora si adottino materiali ecocompatibili, e nelle procedure di appalto, con il sistema delle white list e del rating di legalità
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2015).

EDILIZIA PRIVATALa salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri prevista dall'art. 338 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), cioè il c.d. “vincolo cimiteriale”, comporta un vincolo assoluto di inedificabilità, in considerazione dei molteplici interessi pubblici tutelati (quali le esigenze di natura igienico-sanitaria, la peculiare sacralità dei luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403, secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale prevista dal citato art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie, da misurare a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità -tale da imporsi anche rispetto a contrastanti previsioni di P.R.G.- che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici sia di opere incompatibili col vincolo medesimo).
Da tale effetto di inedificabilità assoluta e legale discende che le amministrazioni comunali non dispongono di alcun potere discrezionale di valutazione in ordine alla concreta compatibilità delle opere di volta in volta realizzate con i valori tutelati dal vincolo.
Inoltre non incide sulla legittimità del provvedimento impugnato quanto riferito genericamente dal ricorrente riguardo all’avvenuto rilascio di provvedimenti concessori per altri immobili (del pari ricadenti nella medesima area di rispetto cimiteriale), posto che l’eventuale illegittimità di detti assensi non potrebbe giustificare l’annullamento di un diniego legittimo (Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894, secondo cui la legittimità dell'operato della Pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione).
---------------
In base all’art. 28 della L. n. 166/2002 il divieto di inedificabilità assoluta vigente nell'area di rispetto cimiteriale (200 m.) può essere derogato soltanto per realizzare un'opera pubblica o per attuare un intervento urbanistico e sempre che non vi ostino ragioni igienico-sanitarie: nella fattispecie, tuttavia, le opere realizzate non rientrano in alcuna delle categorie in relazione alle quali la legge ammette una possibilità di deroga al divieto e, comunque, la riduzione della fascia di rispetto, sebbene possa riguardare anche gli ampliamenti, è espressione di discrezionalità urbanistica dell’ente civico il cui esercizio non è oggetto di un obbligo.
---------------
Il vincolo di rispetto della fascia cimiteriale, in quanto previsto dalla legge (art. 338 del T.U. 27.07.1934 n. 1265, come modificato dalla legge 04.12.1956 n. 1428, e dalla legge 17.10.1957 n. 983 , nonché art. 57 del D.P.R. 21.10.1975 n. 803), incide sull'edificabilità dei suoli in modo generale ed obiettivo, nei confronti di tutti i proprietari di determinati beni. I vincoli posti dalla citata norma, pertanto, non avendo carattere espropriativo ed essendo previsti a tempo indeterminato, non sono soggetti a decadenza.

CONSIDERATO
1. – Il ricorso non merita accoglimento. Ed invero, è manifestamente infondato il primo motivo sub litteris a) e c).
Difatti, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, la salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri prevista dall'art. 338 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), cioè il c.d. “vincolo cimiteriale”, comporta un vincolo assoluto di inedificabilità, in considerazione dei molteplici interessi pubblici tutelati (quali le esigenze di natura igienico-sanitaria, la peculiare sacralità dei luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403, secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale prevista dal citato art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie, da misurare a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto di inedificabilità -tale da imporsi anche rispetto a contrastanti previsioni di P.R.G.- che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici sia di opere incompatibili col vincolo medesimo).
Da tale effetto di inedificabilità assoluta e legale discende che le amministrazioni comunali non dispongono di alcun potere discrezionale di valutazione in ordine alla concreta compatibilità delle opere di volta in volta realizzate con i valori tutelati dal vincolo (C.G.A., sez. riun., 08.05.2012, n. 260/12; Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2009, n. 6547).
Inoltre non incide sulla legittimità del provvedimento impugnato quanto riferito genericamente dal ricorrente riguardo all’avvenuto rilascio di provvedimenti concessori per altri immobili (del pari ricadenti nella medesima area di rispetto cimiteriale), posto che l’eventuale illegittimità di detti assensi non potrebbe giustificare l’annullamento di un diniego legittimo (Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894, secondo cui la legittimità dell'operato della Pubblica amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione).
2. – I superiori rilievi travolgono anche gli altri motivi di ricorso, posto che –stante la condizione di assoluta inedificabilità e, quindi, di non condonabilità dell’area in parola– il ricorrente non può aspirare alla formazione del titolo in sanatoria per silentium né in applicazione dell’art. 28 della L. n. 166/2002.
A quest’ultimo riguardo va osservato che, in base a detta disposizione, il divieto di inedificabilità assoluta vigente nell'area di rispetto cimiteriale (200 m.) può essere derogato soltanto per realizzare un'opera pubblica o per attuare un intervento urbanistico e sempre che non vi ostino ragioni igienico-sanitarie (Cons. Stato, sez. IV, n. 609 del 27.01.2011): nella fattispecie, tuttavia, le opere realizzate non rientrano in alcuna delle categorie in relazione alle quali la legge ammette una possibilità di deroga al divieto e, comunque, la riduzione della fascia di rispetto, sebbene possa riguardare anche gli ampliamenti, è espressione di discrezionalità urbanistica dell’ente civico il cui esercizio non è oggetto di un obbligo. Vanno, dunque, respinti i motivi I), sub b), III) e IV).
Infine è infondato il secondo motivo dal momento che il vincolo di rispetto della fascia cimiteriale, in quanto previsto dalla legge (art. 338 del T.U. 27.07.1934 n. 1265, come modificato dalla legge 04.12.1956 n. 1428, e dalla legge 17.10.1957 n. 983 , nonché art. 57 del D.P.R. 21.10.1975 n. 803), incide sull'edificabilità dei suoli in modo generale ed obiettivo, nei confronti di tutti i proprietari di determinati beni. I vincoli posti dalla citata norma, pertanto, non avendo carattere espropriativo ed essendo previsti a tempo indeterminato, non sono soggetti a decadenza (C.G.A.R.S., parere 28.05.2015 n. 551 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINemmeno l’omissione multipla esclude il concorrente dalla gara. Soccorso istruttorio. Pioggia di interventi del Consiglio di Stato.
Il nuovo soccorso istruttorio non consente l’esclusione di un concorrente dalla gara nemmeno quando questo non abbia reso più dichiarazioni relative ai requisiti.
La giurisprudenza sta elaborando interpretazioni molto operative delle regole introdotte dall’articolo 38, comma 2-bis e dall’articolo 46 del Codice dei contratti, in base alle quali l’operatore economico può regolarizzare la mancanza, l’incompletezza o le irregolarità formative di dichiarazioni e documenti indispensabili per prendere parte alla gara, dovendo peraltro pagare una sanzione per gli inadempimenti.
Il Consiglio di Stato è intervenuto sui problematici profili applicativi con una serie di sentenze, che evidenziano numerose criticità rilevate nelle procedure selettive, rispetto alle quali deve aversi un’applicazione sostanziale delle disposizioni sul soccorso istruttorio.
La Sez. VI, con la sentenza 26.05.2015 n. 2662, ha evidenziato che il nuovo soccorso istruttorio è stato definito dal legislatore per impedire l’esclusione di concorrenti per mere carenze documentali. In questa prospettiva, le stazioni appaltanti devono evitare esclusioni fondate solo su elementi formali e procedere alla completa acquisizione istruttoria dei documenti necessari.
Se, quindi, un operatore economico omette di rendere una dichiarazione inerente un requisito di ordine generale, questo comportamento non comporta un falso, ma si sostanzia in una semplice omissione, alla quale si applica il sistema di sanzione-regolarizzazione previsto dall’articolo 38, comma 2-bis, del Dlgs 163/2006 (come osservato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, nella
sentenza 25.05.2015 n. 2589).
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della mancanza al fine del soccorso istruttorio (secondo una linea precisata dall’Anac nella determinazione 1/2015).
L’istituto e la sua procedura si applicano anche se la dichiarazione è resa dal legale rappresentante dell’operatore economico in forma sintetica e risulta non esaustiva rispetto alla descrizione della situazione riguardante (per le misure di prevenzione e le condanne) anche gli altri soggetti obbligati, come gli atri rappresentanti e i direttori tecnici (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.05.2015 n. 2681).
Il principio si applica anche alle dichiarazioni che devono essere rese dall’impresa ausiliaria, quando il concorrente decida di utilizzare l’avvalimento per i requisiti di capacità.
Rispetto alla mancanza delle dichiarazioni (particolarmente di quelle relative ai requisiti di ordine generale) la linea interpretativa del Consiglio di Stato definisce ampie garanzie per gli operatori economici, i quali, tuttavia, in alcuni casi arrivano all’eccesso di limitarsi a produrre l’istanza di partecipazione sottoscritta, ma priva delle dichiarazioni essenziali, costringendo le stazioni appaltanti all’avvio del procedimento sanzionatorio e di regolarizzazione con incidenza conseguente sulle tempistiche della gara.
L’esclusione dalla procedura può comunque aversi per cause di vario genere (ad esempio per il mancato superamento della soglia di sbarramento qualitativo o per violazioni del principio di segretezza dei plichi).
In questi casi si applica il periodo conclusivo del comma 2-bis dell’articolo 38 secondo il quale ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 26.05.2015 n. 2609, ha infatti precisato che la previsione si utilizza non solo per i casi di esclusione connessi all’applicazione del nuovo soccorso istruttorio, ma anche nelle altre ipotesi di “espulsione” dei concorrenti dalla gara, dato l’ambito esteso di applicabilità della regola generale, che viene ad essere definita come principio di stabilità della soglia di anomalia, una volta terminata in sede amministrativa la fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

APPALTISoglie di anomalia bloccate. L'esclusione d'impresa non porta al ricalcolo delle medie. Il principio di stabilità del dl fare limita i tentativi di concorrenza sleale tra appaltatrici.
Chiuse le offerte per l'appalto, la soglia di anomalia resta tale anche se una delle imprese partecipanti è poi esclusa dalla gara. E ciò grazie al decreto fare, che ha introdotto nel codice dei contratti pubblici un vero e proprio «principio di stabilità» per evitare ogni tentazione di concorrenza sleale fra imprese nelle gare: ogni variazione successiva non implica il ricalcolo delle medie nella procedura pubblica, compresa l'ipotesi in cui arrivi la sentenza di un giudice in proposito.

È quanto emerge dalla sentenza 26.05.2015 n. 2609, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Tutela esclusa
Niente da fare per l'impresa edile che ha perso l'appalto per ristrutturare la scuola. In discussione non c'è solo l'aggiudicazione, ma anche la mancata estromissione di un concorrente che pure ha perso la gara: in caso di esclusione di quest'ultima, sostiene la difesa, i lavori sarebbero stati aggiudicati alla ricorrente grazie al ricalcolo della soglia di anomalia delle offerte.
Le censure si appuntano sul contratto di avvalimento che ha consentito al concorrente di partecipare alla gara, incidendo così sulla media delle offerte: l'oggetto del negozio sarebbe indeterminato e lo stesso documento non sarebbe stato riprodotto nella dichiarazione resa dall'ausiliaria alla stazione appaltante.
Ma se anche le doglianze fossero fondate, la soglia di anomalia delle offerte resterebbe tale: il decreto fare ha introdotto una norma di carattere generale che ha una portata precettiva più ampia della stessa disposizione del codice appalti nella quale è stata inserita per motivi contingenti; risultato: qualsiasi sopravvenienza rispetto al calcolo delle medie che servono per aggiudicare l'appalto deve ritenersi irrilevante perché con il dl fare il legislatore ha mostrato interesse a rendere più stabili gli esiti finali del procedimento.
E non riconosce alcuna protezione giuridica all'impresa che vuole far riaprire la fase ormai chiusa della presentazione delle offerte.
Nessun dubbio di costituzionalità: la riforma non introduce una norma processuale, mentre le medie per il calcolo della soglia di anomalia costituiscono meri dati convenzionali rispetto ai quali è ampia la discrezionalità del legislatore. Spese compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il cliente è risarcito anche se non risponde alle lettere.
L'avvocato sarà tenuto al risarcimento del cliente anche nel caso in cui quest'ultimo non risponda alle lettere del suo legale e il diritto cade in prescrizione.

Lo hanno sottolineato i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 22.05.2015 n. 10527.
La responsabilità professionale dell'avvocato, è opportuno in via introduttiva rammentare, non viene meno per il fatto che il cliente sia dotato, per scienza personale o per ragioni di lavoro, di un certo bagaglio di conoscenze giuridiche, poiché l'incarico professionale, una volta conferito, investe l'avvocato della «piena responsabilità della sua gestione, senza che possa attribuirsi alcuna forma di corresponsabilità a carico del cliente».
Sembra opportuno in sede di commento ribadire come dovere primario del difensore sia quello di tutelare, le ragioni del proprio cliente secondo la regola di diligenza di cui all'art. 1176 c.c.; e che gli atti interruttivi della prescrizione non richiedono alcuna particolare e specifica competenza.
Secondo la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione l'affermazione relativa al carattere ordinario dell'atto di interruzione della prescrizione «ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo comma, c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine (sentenze 18.07.2002, n. 10454, 28.11.2007, n. 24764, e 05.08.2013, n. 18612)».
Il caso specifico sul quale i giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi aveva a oggetto la conclusione del rapporto professionale tra un avvocato e un cliente al fine di ottenere il risarcimento dei danni da quest'ultimo patiti a seguito di sinistro stradale, in aggiunta a quanto liquidato dall'Inail, trattandosi di infortunio in itinere
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: La colpa dell'avvocato valutata con attenzione.
Solo nel caso in cui la condotta che si dichiara colposa, posta in essere dall'avvocato nell'esercizio delle sue funzioni, si possa sostituire con quella che si ritiene astrattamente esigibile e quest'ultima procuri un vantaggio concreto all'assistito, allora si avrà responsabilità professionale dell'avvocato.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 22.05.2015 n. 10526.
Il procedimento logico sembra essere lineare: i giudici di piazza Cavour hanno altresì osservato, in ossequio anche ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, come la responsabilità del prestatore d'opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presupponga la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente.
Gli Ermellini hanno altresì evidenziato che nel caso in cui si tratti dell'attività di un legale, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita (si vedano, fra le altre, le sentenze della Cassazione: 09.06.2004, n. 10966, 27.03.2006, n. 6967, 27.05.2009, n. 12354, 05.02.2013, n. 2638, e 13.02.2014, n. 3355).
Il caso sul quale la Suprema corte è stata chiamata a esprimersi vedeva un avvocato che otteneva dal tribunale un decreto ingiuntivo contro un proprio cliente che si era reso inadempiente al pagamento delle competenze professionali per ben quattro cause. L'opposizione del cliente veniva rigettata, ma successivamente la Corte d'appello riduceva quanto dovuto, ma il cliente non pago ricorreva in Cassazione.
La Corte di cassazione rigettava il ricorso sotto ogni profilo, evidenziando, quindi, che non si può prospettare una mera perdita di chance su base probabilistica, ma occorre dimostrare concretamente che il comportamento diverso da quello effettuato dal legale sarebbe potuto essere vincente
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Utilizzabili solo progetti con l'ok. Il Consiglio di stato sugli appalti.
In un appalto pubblico sono utilizzabili soltanto i progetti approvati, anche se non eseguiti; per progetti svolti verso committenti privati occorre il requisito della avvenuta esecuzione.

È quanto afferma il Consiglio di Stato con la sentenza 22.05.2015 n. 2567 della V Sez. che ribalta nuovamente la sentenza 10.02.2015 n. 692 che invece aveva aperto all'utilizzazione delle referenze anche di progetti valutati positivamente in gara, anche se poi non approvati.
La questione riguarda l'interpretazione del secondo comma dell'art. 263 del dpr 207/2010 che, ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti tecnico-organizzativi, indica i servizi «iniziati, ultimati e approvati nel decennio o nel quinquennio antecedente la gara».
Per i giudici non c'è dubbio che per i committenti pubblici debba esserci una formale «approvazione». Per i committenti privati, invece, i lavori connessi alla progettazione devono essere stati eseguiti. Il perché di questo diverso trattamento risiede, dice il Collegio, nella diversità soggettiva dei destinatari dei servizi di progettazione: da una parte, la pubblica amministrazione che, in qualità di committente pubblico, offre garanzie di certificazione, anche in mancanza della concreta attuazione del progetto; dall'altra parte, il committente privato che assicura un livello analogo di garanzie soltanto nel caso in cui il progetto abbiano ricevuto concreto svolgimento mediante l'esecuzione dei lavori e ciò anche per evitare, dice la sentenza, ogni problema di falsa referenza.
In definitiva la stazione appaltante può valutare i servizi di progettazione «approvati» da un'altra stazione appaltante, ovvero i servizi di progettazione «eseguiti» per conto di un committente privato. In quest'ultimo caso, dice la sentenza, occorre che siano prodotti o i certificati di buona e regolare esecuzione, rilasciati dai committenti privati, o la o dichiarazione dell'operatore economico e la documentazione di quanto dichiarato, su richiesta della stazione appaltante.
In particolare i contratti e le fatture devono intendersi come relativi all'esecuzione dell'opera e non alla prestazione del servizio (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, il divieto di sanatoria sancito nel codice del 2004 è frutto di precisa scelta del legislatore delegato che ha ritenuto così di reagire ad un orientamento giurisprudenziale favorevole all’autorizzabilità ex post.
Tale indirizzo interpretativo, basato su un parallelismo tra (il necessariamente successivo) accertamento di conformità in materia edilizia, introdotto dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985 -sostanzialmente vincolato-, e (la ben diversa) valutazione di compatibilità, di natura essenzialmente tecnico-discrezionale, rendeva il sistema di tutela del paesaggio perennemente esposto a una sorta di condono permanente, attraverso la monetizzazione dell’infrazione, ovvero il pagamento della relativa oblazione, ex articolo 15 della legge n. 1497 del 1939.
Lo stesso decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 ammette l’autorizzazione paesistica postuma nelle ipotesi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, quando venga realizzata “un’opera senza creazione di superfici utili o volumi”; di conseguenza, occorre qualificare sotto tale aspetto il caso in esame.
---------------
L’Ufficio comunale riconduce il manufatto a “interventi di nuova costruzione e di volumi (piattaforma in calcestruzzo “fuori terra”, traliccio in ferro zincato di m. 15, vano-cabinet, etc.) che comportano una irreversibile modificazione dello stato naturale dei luoghi ed integrano pertanto attività di trasformazione urbanistica ed edilizia”.
È evidente che né la piattaforma in calcestruzzo, né il traliccio, né il vano-cabinet (un’armadiatura a protezione degli allacci elettrici) sviluppino superficie o volumetria utile, sebbene rappresentino, come giustamente sottolinea l’Amministrazione, pur sempre una “trasformazione urbanistica ed edilizia”.
Di conseguenza, deve ritenersi errata la conclusione dell’Ufficio tecnico, il quale esclude la sussumibilità del caso concreto riguardante tale specifica opera nella fattispecie descritta dall’articolo 167, quarto comma.
Ciò ovviamente non significa negare l’impatto visivo dell’impianto (che, se collocato in una zona vincolata, è dunque soggetto ad autorizzazione), ma solo rilevare che la mancanza della previa acquisizione dell’assenso da parte dell’autorità preposta alla tutela non comporta, di per sé, preclusione all’esame della pratica confluente nell’autorizzazione unica, di cui all’articolo 87 del D.Lgs. 01.08.2003, n. 259.
---------------
In secondo luogo, non è condivisibile la posizione dell’Autorità municipale, laddove giustifica il diniego (della compatibilità paesaggistica) sul presupposto che "l’intervento comunque non risulta conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La giurisprudenza che si è occupata della questione, è partita dal presupposto che tali opere integrino impianti tecnologici e volumi tecnici costituenti una rete di infrastrutture, legislativamente qualificate come opere di urbanizzazione primaria.
Ha dedotto quindi che esse siano in astratto compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate, evidenziando poi che l'insediamento degli impianti -la cui compatibilità urbanistica va poi in concreto operata nell'ambito della procedura autorizzatoria degli art. 86 e seguenti del d.lgs. 01.08.2003, n. 259- non può aprioristicamente prescindere dalla realtà di fatto di una rete di telecomunicazione, la quale per sua natura postula una diffusione sul territorio, segnatamente nei casi di telefonia mobile c.d. cellulare, che compensa la debolezza del segnale di antenna con la maggiore contiguità delle singole stazioni radio base.
In altri termini, poiché l'art. 90 del vigente D.Lgs. n. 259 del 2003 dispone che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno "carattere di pubblica utilità" e che rientrano nelle opere di urbanizzazione primaria, a norma dell’articolo 86, essi possono essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche e, ad esempio, “non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti”.
Il ridimensionamento del potere urbanistico dell’ente locale che normativamente si produce non solo riflette la rilevanza dell’interesse pubblico (che si arresta solo di fronte alle discipline poste a tutela degli interessi differenziati -in quanto espressione di principi fondamentali della Costituzione- come quello naturalistico-ambientale.
Esso trova altresì giustificazione nella circostanza che le prescrizioni urbanistico-edilizie preesistenti si riferiscono a tipologie di opere diverse da questi impianti e sono state elaborate con riferimento a possibilità di diverso utilizzo del territorio, nell'inconsapevolezza del fenomeno della telefonia mobile e, più in generale, dell'inquinamento elettromagnetico. Tali strutture non possono essere assimilate alle normali costruzioni edilizie e, pertanto, il titolo autorizzatorio non può essere negato se non avuto riguardo ad una specifica disciplina conformativa, che prenda in considerazione le reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico, attraverso l’apposito regolamento previsto dall’articolo 8, comma sesto, della legge 22.02.2001, n. 36.

C. Devono essere invece congiuntamente esaminati l’atto recante motivi aggiunti depositato il 23.10.2014 e quello prodotto il giorno 11.02.2015, in quanto il provvedimento nel primo contestato (26.06.2014 prot. n. 13714) è stato integrato con provvedimento prot. n. 27943 del 31.12.2014 (emanato dopo l’ordinanza cautelare n. 598/2014) che ribadisce l’esito della pratica, sviluppando e aggiungendo ragioni e argomenti a sostegno del rigetto dell’istanza edilizia, provvedimento quest’ultimo da qualificare come atto non meramente confermativo.
C.1. In primo luogo, il Comune ha opposto diniego all’accertamento di conformità (con l’atto prot. n. 27943/2014 ma analogamente anche con il precedente prot. n. 13714/2014) perché non è ammessa la cosiddetta sanatoria paesaggistica (tranne nei casi previsti dall’articolo 167 -comma 4- del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che, secondo l’Ufficio tecnico, non ricorrono nella fattispecie).
Il divieto dell’autorizzazione paesistica in sanatoria è stato introdotto dall’articolo 146, comma quarto, del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 -Codice dei beni culturali e del paesaggio-, il quale dispone che “L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
Come noto, il divieto di sanatoria sancito nel codice del 2004 è frutto di precisa scelta del legislatore delegato che ha ritenuto così di reagire ad un orientamento giurisprudenziale favorevole all’autorizzabilità ex post (Consiglio Stato, Ad. gen., 11.04.2002 n. 4; Sez. VI, 09.10.2000 n. 5373; 31.10.2000 n. 5851; 27.03.2003, n. 1594 e 15.05.2003, n. 2653).
Tale indirizzo interpretativo, basato su un parallelismo tra (il necessariamente successivo) accertamento di conformità in materia edilizia, introdotto dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985 -sostanzialmente vincolato-, e (la ben diversa) valutazione di compatibilità, di natura essenzialmente tecnico-discrezionale, rendeva il sistema di tutela del paesaggio perennemente esposto a una sorta di condono permanente, attraverso la monetizzazione dell’infrazione, ovvero il pagamento della relativa oblazione, ex articolo 15 della legge n. 1497 del 1939.
Lo stesso decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 ammette l’autorizzazione paesistica postuma nelle ipotesi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, quando venga realizzata “un’opera senza creazione di superfici utili o volumi”; di conseguenza, occorre qualificare sotto tale aspetto il caso in esame.
L’Ufficio comunale riconduce il manufatto a “interventi di nuova costruzione e di volumi (piattaforma in calcestruzzo “fuori terra”, traliccio in ferro zincato di m. 15, vano-cabinet, etc.) che comportano una irreversibile modificazione dello stato naturale dei luoghi ed integrano pertanto attività di trasformazione urbanistica ed edilizia”.
È evidente che né la piattaforma in calcestruzzo, né il traliccio, né il vano-cabinet (un’armadiatura a protezione degli allacci elettrici) sviluppino superficie o volumetria utile, sebbene rappresentino, come giustamente sottolinea l’Amministrazione, pur sempre una “trasformazione urbanistica ed edilizia”.
Di conseguenza, deve ritenersi errata la conclusione dell’Ufficio tecnico, il quale esclude la sussumibilità del caso concreto riguardante tale specifica opera nella fattispecie descritta dall’articolo 167, quarto comma.
Ciò ovviamente non significa negare l’impatto visivo dell’impianto (che, se collocato in una zona vincolata, è dunque soggetto ad autorizzazione), ma solo rilevare che la mancanza della previa acquisizione dell’assenso da parte dell’autorità preposta alla tutela non comporta, di per sé, preclusione all’esame della pratica confluente nell’autorizzazione unica, di cui all’articolo 87 del D.Lgs. 01.08.2003, n. 259.
C.2. In secondo luogo, non è condivisibile la posizione dell’Autorità municipale, laddove giustifica il diniego sul presupposto che (b) “l’intervento comunque non risulta conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La giurisprudenza che si è occupata della questione, è partita dal presupposto che tali opere integrino impianti tecnologici e volumi tecnici costituenti una rete di infrastrutture, legislativamente qualificate come opere di urbanizzazione primaria. Ha dedotto quindi che esse siano in astratto compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate (Cons. Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n. 4910), evidenziando poi che l'insediamento degli impianti -la cui compatibilità urbanistica va poi in concreto operata nell'ambito della procedura autorizzatoria degli art. 86 e seguenti del d.lgs. 01.08.2003, n. 259- non può aprioristicamente prescindere dalla realtà di fatto di una rete di telecomunicazione, la quale per sua natura postula una diffusione sul territorio, segnatamente nei casi di telefonia mobile c.d. cellulare, che compensa la debolezza del segnale di antenna con la maggiore contiguità delle singole stazioni radio base.
In altri termini, poiché l'art. 90 del vigente D.Lgs. n. 259 del 2003 dispone che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno "carattere di pubblica utilità" e che rientrano nelle opere di urbanizzazione primaria, a norma dell’articolo 86, essi possono essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche e, ad esempio, “non soggetti in linea di massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza e cubatura delle costruzioni circostanti” (Cons. Stato, Sez. VI, 13.04.2010, n. 2055).
Il ridimensionamento del potere urbanistico dell’ente locale che normativamente si produce non solo riflette la rilevanza dell’interesse pubblico (che si arresta solo di fronte alle discipline poste a tutela degli interessi differenziati -in quanto espressione di principi fondamentali della Costituzione- come quello naturalistico-ambientale (Cons. Stato, Sez. III, 19.03.2014, n. 1361).
Esso trova altresì giustificazione nella circostanza che le prescrizioni urbanistico-edilizie preesistenti si riferiscono a tipologie di opere diverse da questi impianti e sono state elaborate con riferimento a possibilità di diverso utilizzo del territorio, nell'inconsapevolezza del fenomeno della telefonia mobile e, più in generale, dell'inquinamento elettromagnetico. Tali strutture non possono essere assimilate alle normali costruzioni edilizie e, pertanto, il titolo autorizzatorio non può essere negato se non avuto riguardo ad una specifica disciplina conformativa, che prenda in considerazione le reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico (C.G.A.S., 25.06.2013, n. 624; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 15.01.2015, n. 100), attraverso l’apposito regolamento previsto dall’articolo 8, comma sesto, della legge 22.02.2001, n. 36.
In conclusione, in accoglimento delle censure attorie -e anche prescindendo dalla questione se l’ordinanza cautelare n. 598/2014 consentisse un’integrazione motivazionale-, devono ritenersi illegittimi i provvedimenti 26.06.2014 prot. n. 13714 e 31.12.2014 prot. n. 27943.
Di conseguenza, nel complesso, il ricorso originario è da dichiararsi improcedibile, mentre i motivi aggiunti (rispettivamente depositati il 23.10.2014 e il giorno 11.02.2015) devono essere accolti, con annullamento del provvedimento 26.06.2014 prot. n. 13714 (e delle ordinanze di demolizione n. 15 del 14.07.2014 e n. 17 del 27.08.2014, fondate sul primo atto), nonché del provvedimento 31.12.2014 prot. n. 27943 (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 21.05.2015 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIDEONTOLOGIA FORENSE/ Sentenza della Corte di cassazione.
Serve diligenza media. Responsabilità professionale per chi la viola. Se l'avvocato viola il dovere di diligenza media, incorrerà nella responsabilità professionale.

A ribadirlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 20.05.2015 n. 10289.
I medesimi giudici hanno evidenziato, altresì, che quella dell'avvocato si configura come obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto il dovere di diligenza media sarà esigibile ai sensi dell'art. 1176 c.c.
Il professionista legale potrà, quindi, incorrere in suddetta violazione nel caso in cui adotti mezzi difensivi che possano risultare di pregiudizio per il cliente.
Nel caso in cui, poi, tali mezzi siano stati suggeriti dal cliente medesimo, si sottolinea, in ossequio anche a un consolidato orientamento giurisprudenziale, che sarà «compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale» (si veda Cass. n. 20869/2004).
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini riguardava un cliente che aveva chiamato in causa il suo legale, chiedendo la condanna dello stesso al risarcimento dei danni patrimoniali per negligente condotta professionale.
I giudici della Cassazione hanno, poi, sottolineato che l'avvocato è tenuto ad assolvere, secondo giurisprudenza della stessa Corte, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, «non solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione dello stesso ed essendo tenuto, tra l'altro, a sconsigliare il cliente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole» (si veda Cass. 30.07.2004, n. 14597).
Inoltre i giudici di piazza Cavour, nella medesima sentenza in commento, hanno affermato che se un ricorrente propone una questione in sede di legittimità avrà l'onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la attendibilità di tale asserzione prima di verificare nel merito la questione stessa (si veda Cass. 28.09.2008, n. 20518)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Sette parametri per provare il mobbing. Le linee guida fissate dalla Corte di cassazione.
Linee guida certe per riconoscere il mobbing dalla Corte di Cassazione.

I giudici di legittimità, infatti, con la
sentenza 15.05.2015 n. 10037, offrono oggi il «metodo» certo per scoprire se il lavoratore ricorrente ha diritto a ottenere un risarcimento da parte del proprio datore di lavoro. In sostanza si tratta del riconoscimento da parte della giurisprudenza di un già noto metodo scientifico di valutazione del danno lavorativo. I parametri che, secondo l'autorevole pronuncia, devono essere provati dal soggetto che si dice mobbizzato concernono puntualmente i seguenti aspetti:
1) l'ambiente di lavoro (nel senso che le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro);
2) la durata (con contrasti avvenuti in un congruo periodo di tempo);
3) la frequenza (le provate attività vessatorie devono essere reiterate e molteplici nel tempo);
4) tipo di azioni ostili (le azioni poste in essere devono rientrare in almeno due delle categorie di azioni ostili riconosciute: attacchi alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti delle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze o minacce);
5) dislivello tra gli antagonisti (provando l'inferiorità del soggetto mobbizzato);
6) andamento secondo fasi successive (almeno alcune tra, conflitto mirato; inizio del mobbing; sintomi psicosomatici; errori e abusi; aggravamento salute; esclusione dal mondo del lavoro ecc);
7) intento persecutorio (ossia la prova di un disegno vessatorio coerente).
Perché si abbia mobbing, a giudizio della Cassazione, devono ricorrere tassativamente e contestualmente tutte e sette le predette condizioni. Nel caso trattato, dei predetti profili, i giudici di merito, in fase istruttoria, avevano avuto prova certa, argomentando di conseguenza le proprie motivazioni.
La vicenda traeva origine dalla vicenda di un dipendente pubblico che lamentava di avere sofferto mobbing a causa di un conflitto con il proprio diretto superiore gerarchico, senza che il datore di lavoro intervenisse per evitare la situazione di vessazione. Già i giudici di merito, a seguito di prove testimoniali e perizie, nonché sulla base della documentazione prodotta, erano venuti a riconoscere che il dipendente aveva sofferto «la sottrazione delle proprie mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era il proprio sottoposto, l'assegnazione a un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo più cocente l'umiliazione». Ora, in sede di giudizio di legittimità, confermano l'ineccepibilità delle decisioni di merito che già avevano dato ragione al lavoratore.
Da osservare come, a conforto delle tesi espresse nelle pronunce di merito, la S.C. richiami più volte la sostanziale e, si direbbe, quasi dirimente, rilevanza dell'autorevole perizia eseguita in sede penale «da uno dei massimi esperti di mobbing».
Sempre nell'annosa attesa di una disciplina normativa del mobbing, la sentenza n. 10037/2015 segna un decisivo e ulteriore passo verso un più definito assetto della nozione di vessazioni sul luogo di lavoro. Da un lato, disincentivando azioni avventate (o comunque poco meditate) da parte dei lavoratori. Dall'altro, offrendo, a parti e giudici, gli «appigli» sicuri di una ponderata road map di riscontri che devono essere posti alla base del riconoscimento del danno del lavoratore (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Tar Campania. Dieci metri di distanza tra gli edifici.
Dieci metri, balconi compresi. È la distanza minima che il nuovo fabbricato deve osservare dall'edificio preesistente che ha pareti con finestre, altrimenti non se ne fa niente. Lo stop al permesso di costruire scatta anche se il regolamento comunale consente di calcolare il minimo al lordo e non al netto dei balconi: la disposizione dell'ente deve infatti essere disapplicata e sostituita dalla norma generale ex articolo 9 del dm 1444/1968, dettata per evitare che nei complessi residenziali si formino intercapedini a rischio per l'igiene e la salute dei residenti.

È quanto emerge dalla sentenza 15.05.2015 n. 2688 della II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condominio e di alcuni proprietari che fanno dichiarare illegittimo il titolo edilizio che il dirimpettaio ha ottenuto dall'amministrazione in un paesone dell'entroterra napoletano. I lavori puntano a riconvertire un capannone industriale trasformandolo in edificio residenziale, ma di fronte c'è un fabbricato con tanto di vedute che si aprono in quella direzione.
Per i condomini è come trovarsi qualcuno in casa da un giorno all'altro. La distanza minima di dieci metri può essere calcolata al lordo dei balconi soltanto quando si tratta di aggetti meramente decorativi e di piccole dimensioni: risulta sempre necessario calcolarla al netto quando le strutture sono invece «vivibili» perché consentono al proprietario di estendere l'uso dell'appartamento. Proprietario, impresa e comune pagano le spese (articolo ItaliaOggi del 06.06.2015).

EDILIZIA PRIVATACome evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
E da ciò deriva che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina.
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli aggetti costituenti elementi architettonici o meramente decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che presentino modeste dimensioni, sicché non può che concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità, solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo.
Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per l’applicazione del regime garantistico della distanza minima dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata: la sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in discussione.

2.1. L’eccezione non merita accoglimento.
2.2. Milita in tal senso in primo luogo l’analisi della documentazione in atti e, in particolare, lo stato di sviluppo del progetto all’epoca indicata dai controinteressati, dovendosi attribuire precipuo rilievo –al fine di escludere un livello di ragionevole certezza in ordine alla possibilità di percezione del profilo di illegittimità, imprescindibile al fine di fondare una valutazione di tardività del gravame– alla consistenza complessiva dell’intervento, sicché lo stato di avanzamento deve essere necessariamente rapportato all’intervento progettato nella sua integrità, stanti anche le difficoltà, in tali casi, di individuare nelle fasi prodromiche o intermedie dell’edificazione l’incidenza di singoli elementi costruttivi pure rilevanti nella rilevazione del contestato vizio.
2.3. Si osserva, inoltre, che la difficoltà di percezione del vizio dedotto in una fase antecedente all’acquisizione di dati connotati da una maggiore certezza ed attendibilità risulta, nella fattispecie, acuita dalla sussistenza di una disciplina regolamentare (art. 99, commi 18 e 19) che espressamente prevede che “i balconi aperti, le pensiline, i cornicioni non formano distanze fino ad un aggetto pari a 1/8,50 della distanza dai confini e per un massimo di metri 1,20”.
2.4. Ciò senza considerare che la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 è stata, comunque, dedotta con il ricorso introduttivo, notificato in data 07.08.2013, sicché le successive argomentazioni articolate con il ricorso per motivi aggiunti non costituiscono delle censure nuove, ponendosi quale sviluppo e puntualizzazione di una contestazione già lamentata, conseguente all’acquisizione dei dati necessari ad una più specifica e circostanziata qualificazione dell’asserito vizio.
3. Il Collegio rileva che proprio l’analisi di tale censura riveste, nell’articolato impianto delle doglianze sviluppate dalla difesa di parte ricorrente, carattere assorbente ai fini della fondatezza del ricorso nella parte riferita alla legittimità dei permessi di costruire n. 55 del 29.05.2012 e n. 26 del 22.02.2013.
3.1. Nella fattispecie, il C.T.U. (pagg. 36, 41 e 42 dell’elaborato peritale) ha espressamente rilevato che la conformità alla disciplina dettata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 può essere affermata esclusivamente escludendo dal computo delle distanze i balconi, sicché la previsione del regolamento comunale sopra richiamata costituisce condizione imprescindibile al fine del rispetto dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444.
3.2. Il problema che si pone, dunque, è quello di verificare la legittimità della previsione regolamentare in rapporto alla ratio sottesa alla disposizione contenuta nel decreto ministeriale.
3.3. Il Collegio non ritiene suscettibili di un favorevole apprezzamento le controdeduzioni sviluppate dalle difese dei controinteressati, dirette a sostenere la ragionevolezza della previsione regolamentare e la possibilità per le amministrazioni di operare una valutazione “a monte”, attraverso, appunto, le norme regolamentari in ordine al computo o meno dei balconi.
3.4. Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati. E da ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n. 21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cons. St., sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
3.5. Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria Sez. I, 12.02.2004 n. 145). Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina (cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909).
3.6. La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli aggetti costituenti elementi architettonici o meramente decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che presentino modeste dimensioni, sicché non può che concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità, solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
3.7. Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per l’applicazione del regime garantistico della distanza minima dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata (Cons. St., sez. IV, 31.03.2015, n. 1670): la sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in discussione.
3.8. Come sopra esposto, infatti, a prescindere da ogni considerazione in merito all’impugnazione della disposizione regolamentare, la sussistenza dei suddetti presupposti consente la disapplicazione, pure richiesta dalla difesa di parte ricorrente, della norma regolamentare, dovendosi ritenere l’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 automaticamente inserito al posto della norma illegittima (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.05.2015 n. 2688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità … Al tempo stesso l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità.
L’art. 25 del d.p.r. n. 380/2001 prescrive espressamente che, ai fini del rilascio del certificato di agibilità, risulta necessaria: “b) dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti”.

Il quarto motivo di ricorso è infondato in quanto, per pacifica giurisprudenza, l’agibilità presuppone non solo il rispetto dei requisiti igienico sanitari ma altresì la conformità dell’opera ai titoli abilitativi presupposti.
Ex pluribus Consiglio di Stato n. 5523/2013 secondo cui: “il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità … Al tempo stesso l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità”.
L’art. 25 del d.p.r. n. 380/2001 prescrive espressamente che, ai fini del rilascio del certificato di agibilità, risulta necessaria: “b) dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti”.
Né può trovare spazio la valutazione di agibilità parziale posto che la normativa subordina il rilascio del certificato all’ultimazione dei lavori, conformemente al progetto; ancora l’art. 49, co. 12, della l.r Piemonte n. 56/1977 nella versione vigente all’epoca di adozione degli atti impugnati (e per altro il co. 6 del medesimo articolo del testo normativo nella formulazione attualmente in vigore) prevede che: “per ultimazione dell'opera si intende il completamento integrale di ogni parte del progetto, confermata con la presentazione della comunicazione di ultimazione dei lavori" (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.05.2015 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisdizione è del Tar nei recessi causa antimafia.
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in quei casi nei quali un'amministrazione pubblica recede da un contratto di appalto già stipulato con l'impresa aggiudicataria della relativa gara, a causa, non già di inadempimento contrattuale da parte dell'impresa, ma in forza dell'adozione, da parte della competente Autorità prefettizia, di informativa interdittiva c.d. «antimafia», riguardante l'impresa stessa.

Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 13.05.2015 n. 461.
I giudici amministrativi bolognesi hanno altresì evidenziato che in ossequio anche a quanto stabilito dalle Sezioni Unite, «Il recesso di cui si tratta non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all'informativa del Prefetto ai sensi del dpr n. 252 del 1998 art. 10, e, quindi è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti indicati nel citato art. 1, e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata» (si veda Cassazione, sezioni unite civili 29.08.2008 n. 21928).
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici bolognesi, l'ordinanza del Commissario delegato, pur avendo ad oggetto formalmente l'esercizio del potere di recesso dal contratto (e, quale diretta conseguenza del recesso, l'incameramento della cauzione definitiva), risultava essere espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, che attiene, per consolidato orientamento giurisprudenziale, alla scelta del contraente stesso e il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto ex art. 11 del decreto del presidente della repubblica n. 252 del 1998 (si veda ancora Cassazione, sezioni unite civili n. 21928 del 2008 cit.).
Nel caso di specie, sembra opportuno osservare come la Prefettura adottava misura interdittiva antimafia nei riguardi di una società per azioni, recante l'obbligo, per l'Amministrazione che aveva chiesto l'informativa, di recedere dai contratti stipulati con l'impresa destinataria della suddetta misura interdittiva.
Pertanto nel caso di specie il recesso dal contratto di appalto da parte dell'Amministrazione è stato determinato dall'adozione di una misura interdittiva antimafia che, ancorché adottata successivamente alla stipulazione del contratto di appalto, ha pur sempre natura provvedimentale e origine nella precedente fase procedimentale ad evidenza pubblica per la scelta del contraente della pubblica amministrazione.
Sicché, a parere del Tar per l'Emilia-Romagna, in tali casi, all'obbligato recesso dal contratto non può seguire l'ulteriore misura dell'incameramento della cauzione definitiva, stante l'evidente mancanza del necessario presupposto, espressamente richiesto dall'art. 113 decreto legislativo n. 163 del 2006, di sussistenza di un “mancato od inesatto adempimento” contrattuale imputabile all'impresa privata
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.06.2015).

APPALTIIl Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la controversia circa l’individuazione del corretto criterio da applicare in una gara d’appalto al fine della risoluzione di discordanze tra offerta esposta dal concorrente in cifre e offerta esposta in lettere, nel caso in cui la legge di gara sia silente al riguardo.
2. Oggetto sostanziale della presente controversia è l’individuazione del corretto criterio da applicare in una gara d’appalto al fine della risoluzione di discordanze tra offerta esposta dal concorrente in cifre e offerta esposta in lettere, nel caso in cui la legge di gara sia silente al riguardo.
In linea generale la giurisprudenza appare consolidata nell’affermare che non necessita alcun criterio di risoluzione ove il contrasto (tra ribasso in cifre e in lettere) sia dovuto ad errore materiale facilmente riconoscibile, dovendosi in tal caso dare rilievo a quegli elementi di valutazione diretti ed univoci che consentano di riconoscere (art. 1431 cod. civ.) l'errore materiale o di scritturazione in cui sia incorso l'offerente e di emendarlo, dando così prevalenza al valore effettivo dell'offerta.
Problemi interpretativi sorgono invece allorché (come nel caso all'esame) la discordanza sia tutt'altro che macroscopica ed anzi obiettivamente marginale, di talché non è dato a priori riconoscere con sicurezza quale delle due diverse indicazioni sia frutto di errore.
Come è noto, nei rapporti tra privati il criterio discretivo in analoghe situazioni di differenza negli importi è sostanzialmente quello della prevalenza dell’importo indicato in lettere, come si desume dall’art. 6 R.D. 1669/1933 (cambiali) e art. 9 R.D. 1736/1933 (assegni).
Per contro, l’ordinamento di settore della contrattualistica pubblica contiene due norme, diversamente orientate, alle quali sembra possibile fare riferimento.
L’art. 72 del R.D. n. 827 del 1924 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato) nel disciplinare il procedimento di asta pubblica prevede al comma secondo che: “Quando in una offerta all'asta vi sia discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida l'indicazione più vantaggiosa per l'amministrazione.”.
L’art. 119 del Regolamento di esecuzione del codice degli appalti approvato con D.P.R. n. 207 del 2010, nel disciplinare il caso dell'aggiudicazione al prezzo più basso mediante offerta a prezzi unitari, prevede per quanto di interesse ai commi 2 e 3 che: “2... Il prezzo complessivo ed il ribasso sono indicati in cifre ed in lettere. In caso di discordanza prevale il ribasso percentuale indicato in lettere.
3. Nel caso di discordanza dei prezzi unitari offerti prevale il prezzo indicato in lettere.....
”.
Nell’ambito del codice appalti e del regolamento non si rinvengono invece norme di portata generale per la risoluzione della questione in esame.
In proposito, questo Consiglio si è di recente espresso nel senso della specialità della regola dettata dall’art. 119 (e cioè della sua attinenza al solo caso dell’offerta a prezzi unitari) e invece della generale applicabilità della diversa regola sancita dall’art. 72 del Regolamento di contabilità (cfr. CGA n. 511 del 2014).
A tale conclusione questo Consiglio è pervenuto in primo luogo escludendo l'intervenuta abrogazione dell'art. 72 del Regolamento di contabilità per effetto dell'entrata in vigore del codice appalti, in quanto l'art. 256 del D.l.vo n. 163 del 2006 individua analiticamente le disposizioni abrogate a seguito dell'entrata in vigore del codice stesso fra le quali non è ricompreso l'art. 72 citato (cfr. CGA n. 54 del 2014 ma vedi in precedenza VI Sez. n. 248 del 2010).
In secondo luogo si è rilevato che la normativa oggi contenuta nell’art. 119 del Regolamento non ha carattere di novità, riproponendo essa il contenuto dell’art. 90 del vecchio Regolamento di attuazione delle legge quadro di cui al D.P.R. n. 554 del 1999 e prima ancora dell’art. 5 della legge n. 14 del 1973: di talché mal si comprende come il Legislatore del codice possa aver inteso implicitamente elevare al rango generale una regola che dal 1973 si è costantemente riferita e si riferisce ancor oggi espressamente al peculiare caso dell’offerta mediante ribasso sui prezzi unitari.
Altra parte della Giurisprudenza, anche di questo Consiglio, è invece orientata in senso contrario e ritiene che quella della prevalenza dell’offerta in lettere si configura come clausola di chiusura volta a prevenire eventuali contestazioni circa l’effettiva volontà della parte privata e a risolvere, nel rispetto dei fondamentali canoni di certezza e trasparenza delle operazioni di affidamento degli appalti di lavori pubblici, ogni incertezza nell'ipotesi di discordanze tra le diverse componenti dell'offerta (cfr. CGA n. 884 del 2007, IV Sez. n. 4104 del 2009, V Sez. n. 5095 del 2011 e III Sez. n. 4873 del 2013).
All’indirizzo da ultimo richiamato aderisce appunto con la sentenza qui impugnata il TAR Palermo il quale, dopo aver sottoposto a revisione critica il contrario orientamento, ha acutamente affermato la possibile coesistenza delle due diverse impostazioni, riferibili l’una (art. 119) all’intero settore degli affidamenti di appalti e l’altra (art. 72) alle residue procedure prodromiche alla stipula di contratti con diverso oggetto (locazioni, vendite etc.).
Infine per completezza occorre dar conto di quanto rilevato, con riguardo alla specifica tipologia di gara in controversia, dall’Avvocatura erariale.
In sintesi, secondo l’Avvocatura, la regola dell’art. 72 non sarebbe comunque e ontologicamente applicabile ad una gara sottosoglia con esclusione automatica delle offerte anomale, nella quale a priori non è possibile stabilire quale sia l’offerta effettivamente più vantaggiosa per l’Amministrazione: infatti un’offerta che ex ante appare più vantaggiosa in quanto esprime un maggior ribasso potrebbe poi risultare anomala ed essere esclusa, con pregiudizio finale per la stazione appaltante.
3. Premessi tali riferimenti normativi e giurisprudenziali, questo Collegio osserva che della attuale vigenza dell’art. 72 del Regolamento di contabilità non sembra possibile dubitare.
Occorre quindi valutare se, come appunto implicitamente statuito dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati ed esplicitamente dal TAR Palermo con la sentenza impugnata, esso sia in realtà oggi inapplicabile al settore degli appalti, da considerare governato nella sua interezza dal criterio speciale di cui all’art. 119 del Regolamento.
In un’ottica sistematica può rilevarsi che l’art. 72 valorizza l’interesse immediato della P.A. procedente e quindi, in applicazione del principio di responsabilità, addossa all’aggiudicatario il costo dell’errore compiuto in sede di offerta, e ciò a prescindere da ogni ricostruzione della sua reale volontà.
Per contro l’art. 119 appare invece ispirato al criterio di privilegiare quella forma di espressione del ribasso offerto (la scrittura in lettere) che di norma –come comprova l’esempio dell’assegno e della cambiale- si considera più meditata e quindi presuntivamente più aderente all’effettiva intenzione di chi formula l’offerta.
Indubbiamente, quindi, l’art. 119 orbita –come ben rilevato dal TAR- in un’ottica paritetica più sensibile al principio di concorrenza e quindi alla necessità che nelle procedure di evidenza pubblica il confronto competitivo tra i concorrenti si sviluppi su un piano di effettiva parità.
Ugualmente, sul piano sistematico non può trascurarsi il rilievo che il criterio dell’art. 72 (il ribasso più significativo) mal si inserisce in un sistema di aggiudicazione che oggi fa perno sull’eliminazione (specie se automatica) delle offerte anormalmente basse.
Come si è più volte ricordato, il principale ostacolo alla applicazione generalizzata dell’art. 119 del Regolamento all’intero settore degli appalti sta nel fatto che tale articolo regola solo l’offerta mediante offerta a prezzi unitari e non l’offerta con ribasso sull’elenco prezzi o importo dell’appalto, disciplinata dall’art. 118 in cui il problema delle discordanze non è invece considerato.
Analogamente, nel caso dell’aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa, né l’art. 120 del Regolamento né l’art. 83 del codice prevedono la risoluzione di eventuali discordanze nell’indicazione del prezzo da parte dei concorrenti.
Tale apparente anomalia potrebbe essere spiegata osservando che in realtà quello dell’offerta a prezzi unitari (appunto art. 119) è il solo caso in cui espressamente la fonte generale impone al concorrente (per esigenze pratiche di organizzazione dei fogli della lista lavorazioni) di esprimere obbligatoriamente i prezzi sia in lettere che in cifre.
Invece nel caso di massimo ribasso sull’elenco prezzi/importo lavori o di offerta economicamente più vantaggiosa la legge non impone che il ribasso o il prezzo offerti siano indicati in forma duplice: e quindi la regola generale sarebbe stata collocata solo là ove essa è di più probabile applicazione.
Certamente anche volendo aderire a questa ricostruzione resta però –come si è ricordato sopra– la stranezza di una clausola generale celata in una normativa che dal 1973 si riferisce ad uno specifico criterio di formulazione dell’offerta.
Ciò premesso, in un contesto normativo e giurisprudenziale venato da così rilevante perplessità ed avuto riguardo al significativo rilievo pratico della questione controversa sopra delineata, questo Collegio ritiene opportuno deferire d’ufficio la definizione del ricorso all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del codice del processo amministrativo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (C.G.A.R.S., ordinanza 11.05.2015 n. 390 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per la 104 nel mirino. Ormai la legge è divenuta un colabrodo, nuovo intervento. Condanne a gogò dei giudici contro l'utilizzo improprio e a fini personali delle misure.
Mano pesante dei giudici ordinari nei confronti dei lavoratori che utilizzano impropriamente i tre giorni mensili di permesso retribuito, previsti dall'articolo 33 della legge 104 del 1992, come modificata dalle leggi n. 53/2000 e n. 183/2010, per assistere parenti disabili in situazione di gravità. L'utilizzo improprio si configura, per esempio, svolgendo, in uno o in tutti i tre giorni di permesso, altre attività sia ludiche o turistiche che manuali incompatibili con l'obbligo di assistere il parente disabile.

Sul punto sono sempre più numerose le sentenze di condanna pronunciate dai giudici ordinari nei confronti appunto di lavoratori che utilizzano non correttamente, secondo i giudici, i permessi previsti dal predetto articolo 33.
L'ultima in ordine di tempo è la sentenza 30.04.2015 n. 8784 pronunciata dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Con questa sentenza, in particolare, i giudici della Cassazione hanno sostenuto -come peraltro avevano fatto in precedenza quelli della Corte di Appello dell'Aquila- che il comportamento tenuto nella circostanza dal lavoratore (durante la fruizione del permesso per assistere la madre disabile grave aveva partecipato ad una serata danzante) implica un disvalore sociale nel momento in cui i permessi richiesti e concessi per assistere un parente disabile in situazione di gravità vengono utilizzati per soddisfare proprie esigenze personali, scaricando il costo di tale esigenza sulla intera collettività.
Stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall'ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa.
Effetti questi ultimi che nella scuola si risentono quotidianamente e ciò in ragione di un aumento esponenziale del numero di richieste dei tre giorni di permesso per assistere un parente disabile, permessi da fruire in moltissimi casi esclusivamente nella giornata del sabato o del lunedì.
La mano pesante che stanno adottando i giudici dovrebbe ora indurre il legislatore a predisporre norme finalizzate non a comprimere un civilissimo istituto, quale è quello dell'assistenza ai disabili, come disciplinato dall'articolo 33 attualmente in vigore, ma a favorirne l'utilizzo, anche per un maggior numero di giornate mensili, da parte dei lavoratori che possano dimostrare che quei giorni di permesso richiesti servono effettivamente ad assistere il parente disabile.
Le disposizioni contenute in particolare nel comma 3-bis non sembrano essere più sufficienti a tal fine
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Va motivata la scelta dei dirigenti a termine. Il Tar Umbria non consente una decisione in base a punteggi predeterminati.
Selezione annullata perché non trasparente. Stop alla procedura del Comune per l'incarico a termine al dirigente se i criteri per reclutare i manager si limitano a punteggi predeterminati in modo generico, mentre il decreto Brunetta impone all'amministrazione di motivare comunque il conferimento dell'incarico, per quanto triennale: diversamente si finirebbe per ledere i principi che regolamentano l'accesso al pubblico impiego.
E invocando la mera necessità del rapporto fiduciario nei tre anni di contratto si potrebbe assumere soltanto chi risulta «affine» alla maggioranza politica che in quel momento governa l'ente locale.

È quanto emerge dalla sentenza 30.04.2015 n. 192, pubblicata dal TAR Umbria.
Nessun dubbio che si configuri la giurisdizione del giudice amministrativo, almeno per l'annullamento degli atti che hanno portato il Comune a ingaggiare il manager, peraltro subito spostato a un incarico più prestigioso. Nelle amministrazioni si entra soltanto per concorso pubblico e non c'è dubbio che il candidato escluso abbia un interesse legittimo a ottenere l'incarico attraverso procedure trasparenti.
È vero: l'iter «incriminato» è soltanto una selezione pubblica e non una vera e propria tornata concorsuale, ma deve comunque essere ritenuta una procedura para-concorsuale perché risulta previsto un colloquio oltre che l'esame dei curricula.
Ed è proprio lì che si trova «l'area grigia» tale da far annullare gli atti. Alla commissione di valutazione nominata dal Comune il bando riconosce una discrezionalità praticamente assoluta dal momento che non risultano stabiliti i parametri da osservare per poter accedere al colloquio e valutare i candidati.
In particolare risultano ammessi all'orale soltanto gli aspiranti dirigenti a termine che ottengono un punteggio superiore a 28/40: si configura comunque una valutazione comparativa dei candidati da parte dell'organo di valutazione.
E il decreto legislativo 150/2009, il cosiddetto decreto Brunetta, ha cambiato le regole che governano il pubblico impiego precisando che bisogna spiegare le ragioni per cui l'amministrazione dà l'incarico a uno piuttosto che a un altro dei partecipanti
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2015).
---------------
MASSIMA
3. Preliminarmente, deve essere affrontata l’eccezione di giurisdizione sollevata dal Comune resistente.
3.1. Secondo la difesa comunale, la selezione effettuata ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL non avrebbe natura concorsuale, trattandosi di selezione preordinata al conferimento di carattere fiduciario di incarichi dirigenziali nell’ente locale, con conseguente esclusione della giurisdizione del g.a. in materia di controversie inerenti procedure concorsuali prevista dal comma 4, dell’art. 63 del D.lgs. 165 del 2001, e attrazione nella giurisdizione del g.o. (prevista dal comma 1 del medesimo D.lgs.) in tema di controversie concernenti il conferimento degli incarichi dirigenziali.
3.2. Invero,
è oramai principio pacifico che su tale ultima tipologia di controversie sussista la giurisdizione del giudice ordinario (ex multis Cass. civ. sez. unite, 23.09.2013, n. 21671; id. 01.12.2009, n. 25254; id. 14.04.2008, n. 9814; Consiglio di Stato sez. V, 29.04.2009 n. 2713) come peraltro statuito anche dall’adito TAR (sent. n. 330 del 06.06.2013) quantomeno in riferimento all’affidamento di incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa (peraltro nella fattispecie conferito a soggetto interno e non preceduto da selezione pubblica).
3.3. Occorre però stabilire, anzitutto, se la selezione disciplinata dall’art. 110, comma 1, TUEL a monte del conferimento dell’incarico dirigenziale (da parte del Sindaco) abbia o meno carattere concorsuale, poiché in ipotesi affermativa ne discenderebbe la giurisdizione del g.a. ai sensi del citato art. 63, c. 4, del D.lgs. 165/2001.
3.4. Recentemente la Cassazione (sez. lav. 13.01.2014, n. 478) invero senza affrontare funditus la natura della selezione di che trattasi, ne ha affermato la natura di “strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitu personae” riconoscendo la contempo la necessità di integrare la disciplina di cui all’art. 110 TUEL con l’art. 19 del D.lgs. 165 del 2001 (peraltro espressamente richiamato nell’avviso pubblico della selezione per cui è causa) quanto al profilo del termine minimo di durata degli incarichi.
In precedenza è stata altresì sostenuta l’assenza di vincoli di carattere procedimentale, risultando il conferimento dell’incarico, appunto, atto privatistico di gestione (ex multis Cassazione sez. lav. 20.03.2004, n. 5659).
E’ stato però anche affermato che il conferimento di incarico dirigenziale non è incompatibile con la preventiva attivazione di una procedura selettiva tra gli aspiranti che assuma le caratteristiche del pubblico concorso (Cass. sez. unite 23.03.2005, n. 6217; id. sez. lav., 14.04.2015, n. 7495).
Più di recente, pur ribadendo la natura privatistica degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, è stato evidenziato che, le norme contenute nell'art. 19, comma 1, D.lgs. 30.03.2001 n. 165, obbligano l'Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.; tali norme obbligano la p.a. a valutazioni anche comparative, all'adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l'Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile (così Cassazione 14.04.2008, n. 9814; id. sez. lav., 14.04.2015, n. 7495).
3.5. Va anche evidenziato che ai sensi dell’art. 40, c. 1, lett. b), del D.lgs. 27.10.2009 n. 150 c.d. “Brunetta”, che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 19 del D.lgs. 165 del 2001, è imposto all’Amministrazione un preciso onere motivazionale circa le ragioni e i criteri seguiti per il conferimento dell’incarico.
Infine, secondo orientamento oramai minoritario, la regola dell’evidenza pubblica sarebbe inderogabile per il conferimento degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni (TAR Calabria-Catanzaro sez. II, 04.12.2008, n. 1560; TAR Campania-Napoli sez. V, 09.12.2002, n. 7887) dovendo necessariamente distinguersi tra conferimento di incarichi dirigenziali interni ovvero a soggetti già in possesso della qualifica dirigenziale ed incarichi a soggetti esterni all’Amministrazione conferente, per i quali venendosi a costituire un rapporto di pubblico impiego occorre selezione assimilabile a quella concorsuale (Corte Costituzionale 2007 n. 108).
3.6. Ciò premesso, secondo orientamento diffuso della giurisprudenza amministrativa di prime cure,
l’art. 110 del TUEL nel consentire agli enti locali di affidare incarichi di responsabilità dirigenziale con contratti a tempo determinato, non li esonera dallo svolgere procedure concorsuali (TAR Sicilia Catania sez. II, 11.10.2013, n. 2465; TAR Piemonte sez. II, 21.03.2012, n. 362; TAR Toscana sez. I, 11.11.2010 n. 6578; TAR Campania Napoli sez. V, 09.12.2002, n. 7887).
3.7. Va evidenziato che la selezione indetta nel caso di specie dal Comune di Città di Castello è risultata pubblica ovvero aperta ai candidati esterni alla struttura organizzativa comunale e contraddistinta da una selezione dei candidati sia quanto alla valutazione del curriculum (max 40 punti) sia del colloquio (max 40 punti) a cui potevano accedere soltanto i candidati che avevano conseguito un punteggio di 28/40 per il curriculum.
Pur a fronte della prevista esclusione della formazione di una graduatoria, non sfugge al Collegio che una selezione così strutturata, pur non essendo riconducibile ad un concorso pubblico in senso stretto, pare assumere valenza para-concorsuale essendovi una selezione comparativa tra i candidati a fronte della quale le relative posizioni sostanziali assumono consistenza di interesse legittimo all’ottenimento dell’incarico, secondo le regole predeterminate dalla legge e dall’avviso pubblico.
3.8. Vi è in sostanza, prima dell’atto di conferimento dell’incarico, la necessaria e preventiva intermediazione di un potere autoritativo di tipo discrezionale tecnico (comparazione dei curricula e del colloquio) che assegna alla posizione azionata dal dott.ssa D.S. valenza di interesse legittimo.
3.9.
Diversamente opinando ovvero qualificando la selezione di cui all’art. 110, comma 1, TUEL quale scelta “intuitu personae” risulterebbe assai dubbia la compatibilità costituzionale della norma in riferimento all’art. 97 commi 2 e 4, Cost., dal momento che il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione comporterebbe, in quanto costitutivo di un rapporto di impiego pubblico, una aperta deroga al principio costituzionale dell’accesso tramite pubblico concorso -valevole anche per le assunzioni a tempo determinato (Corte Cost. 23.04.2013, n. 73; Consiglio di Stato sez. VI, 04.11.2014, n. 5431)- non sorretta da esigenze di buon andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarla (Corte Costituzionale 13.06.2013 n. 137; Id. n. 205 del 2006; nn. 297, 363 e 448 del 2006, 104 del 2007; 161 del 2008, 215 e 293 del 2009; n. 9, 10, 169, 195, 225, 235, 267, 354 del 2010; 7, 42, 52, 67, 68, 108, 127, 189, 299 e 310 del 2011; 30, 62, 100, 161, 177, 211, 212, 217, 226, 231 del 2012; 3 e 28 del 2013).
3.10. La scelta “intuitu personae”, motivata con l’esigenza di un rapporto di fiducia tipico del profilo dirigenziale, risulterebbe preordinata non già alla scelta del Dirigente migliore bensì a quello “maggiormente affine” all’indirizzo politico dell’Amministrazione -come non a torto sostenuto dalla difesa del ricorrente- con grave pregiudizio per lo stesso principio di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione amministrativa sancita dal Codice sul Pubblico Impiego (artt. 13 e seg.) e dallo stesso TUEL (art. 107) principio ritenuto - anche di recente - espressione del buon andamento (Corte Cost. sent. 03.05.2013, n. 81) e che non avrebbe alcun significato ove la scelta del Dirigente fosse a monte “intuitu personae”.
Diversamente dal conferimento di incarichi dirigenziali a personale già dotato della qualifica dirigenziale, il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione conferente, presupponendo una selezione assimilabile a quella concorsuale (C.Cost. 2007 n. 108), rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
3.11. Va quindi affermato che
l’art. 110, comma 1, del TUEL, indipendentemente dalla questione della natura pubblica o privata dell’atto terminale di conferimento dell’incarico dirigenziale, non costituisce una piena deroga alla regola del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost. trattandosi di selezione para -concorsuale retta dai principi di trasparenza, imparzialità e par condicio.
E ciò è più vero laddove l’Amministrazione, come nel caso di specie, abbia applicato lo strumento offerto dall’art. 110, c. 1, del TUEL prevedendo l’assegnazione di un punteggio ai curricula con una soglia minima per l’accesso al colloquio e con un punteggio finale dato dalla sommatoria tra i punti ottenuti nella valutazione del curriculum e del colloquio stesso, ovvero optando per una valutazione di tipo comparativo e procedimentalizzata, come non le è certo vietato bensì imposto
(secondo la tesi di Cassazione sez. lav. 14.04.2008 n. 9814).
3.12. Ritiene poi il Collegio che anche a voler ragionare in termini di piena deroga allo strumento del concorso pubblico, di cui si ribadisce il forte sospetto di incostituzionalità, la sostenuta e condivisibile necessità di valutazioni comparative e di motivazione delle valutazioni al fine della compatibilità coi principi di imparzialità e buon andamento, denota inequivocabilmente, in punto di giurisdizione, la natura di interesse legittimo della posizione azionata dal ricorrente, che si duole proprio della ingiusta violazione dei suddetti principi.
Non ritiene infatti il Collegio di poter qualificare la posizione soggettiva di cui il ricorrente prospetta la lesione come di interesse legittimo di diritto privato (Cass. sez. unite, 24.02.2000, n. 41; id. sez. lav., 14.04.2015, n. 7495) ovvero di diritto soggettivo tutelabile dal g.o., collocandosi la presente controversia non già nel rapporto privatistico di lavoro dirigenziale bensì nella presupposta fase di selezione a monte del conferimento dell’incarico.
3.13. D’altronde, a voler estendere il campo di indagine oltre al settore dei concorsi pubblici, è del tutto pacifico come nell’attività dell’Amministrazione di affidamento di forniture di beni e servizi di modesto importo con procedure negoziate semplificate (art. 125 D.lgs. 163/2006) laddove non è imposta l’applicazione di procedure ad evidenza pubblica, siano indefettibili ed immanenti i principi di trasparenza e parità di trattamento (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 16.01.2015, n. 65) la cui violazione, come nessun dubita, determina l’illegittimità del procedimento amministrativo e la lesione di posizioni sostanziali di interesse legittimo nei confronti degli aspiranti al perfezionamento del contratto.
E ciò non solo in virtù dell’interesse comunitario che permea la materia dell’affidamento di contratti pubblici, oggetto come noto di puntuali direttive sul versante sostanziale che processuale, bensì ancor prima in applicazione dei principi fondamentali di trasparenza e imparzialità (art. 1 legge 241 del 1990) di chiara matrice costituzionale.

APPALTI: Bachi informatici, responsabilità oggettiva. Tar di Trento. I sistemi digitali non sono amministrazioni parallele e indipendenti.
I sistemi informatici non sono amministrazioni pubbliche parallele indipendenti, per cui chi ne ha predisposto il funzionamento è responsabile delle anomalie, così come lo è il dipendente che non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per soddisfare le legittime richieste degli utenti.
È scritto nella sentenza 15.04.2015 n. 149 del T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Trento, che ha accolto il ricorso di un privato contro l’ultimo atto di esclusione «implicito, pronunciato online» da un concorso straordinario per l’apertura di nuove farmacie in non più di due Regioni o Province autonome.
Il ricorrente aveva presentato tre domande di ammissione attraverso la piattaforma informatica creata dal ministero della Salute per gli enti interessati: le prime due erano state escluse dal sistema per l’assenza dell’indirizzo di posta elettronica certificata, mentre la terza era stata bloccata perché il numero massimo di istanze consentite (due) era stato già superato.
La Provincia autonoma di Trento, pur informata dell’errore prima della scadenza del bando, aveva bocciato la richiesta di sblocco.
I giudici amministrativi, dopo aver già concesso trenta giorni per depositare la domanda cartacea (poi ammessa), hanno spiegato come per la pubblica amministrazione «l’informatica costituisca sicuramente (...)uno strumento ormai doveroso e imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento (e in particolare dal Dlgs 82/2005 - Codice dell’amministrazione digitale) al fine di raggiungere crescenti obiettivi di efficienza e efficacia dell’azione amministrativa» e che quindi «sarebbe (...)gravemente errato vedere nel procedimento informatico una sorta di amministrazione parallela, che opera in piena indipendenza dai mezzi e dagli uomini, e che i dipendenti si devono limitare a osservare con passiva rassegnazione: le risposte del sistema informatico sono invece oggettivamente imputabili all’amministrazione, come plesso, e dunque alle persone che ne hanno la responsabilità».
Per il Tar Trento, quindi, se i sistemi informatici causano anomalie «vi è anzitutto una responsabilità di chi ne ha predisposto il funzionamento senza considerare tali conseguenze», ma anche un’altra «almeno omissiva, del dipendente che, tempestivamente informato, non si è adoperato per svolgere, secondo i principi di legalità e imparzialità, tutte quelle attività che, in concreto, possano soddisfare le legittime pretese dell’istante, nel rispetto, comunque recessivo, delle procedure informatiche».
Nel decidere il ricorso, i giudici trentini imputano «il rifiuto della piattaforma informatica» alla Pa interessata. Inoltre, «la partecipazione tecnica del Ministero estende, ma non sostituisce la responsabilità», poiché, accertata l’assenza di violazioni formali «era dunque tenuta a valutarne la legittimità (...)e ciò non avrebbe costituito violazione della par condicio, ma attuazione del principio di legalità»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2015).

EDILIZIA PRIVATACambi d’uso con meno vincoli. Il Consiglio di Stato «liberalizza» i passaggi nella stessa categoria funzionale.
Urbanistica. Impossibile bloccare i mutamenti nell’ambito di un comparto, ma resta il nodo delle discipline locali preesistenti.
«Padroni in casa propria» era lo slogan della legge obiettivo (la n. 443/2001) che allargava la super-Dia a tutta Italia, rendendo così più semplici i lavori di ristrutturazione.
Sembra che il Consiglio di Stato -Sez. IV- abbia preso spunto da qui con la recente sentenza 19.03.2015 n. 1444, riferita all’utilizzo che ciascuno fa dei propri immobili, siano essi ad uso commerciale o terziario (caso considerato dalla decisione), oppure residenziale o produttivo.
Secondo i giudici amministrativi di secondo grado, la disciplina sul mutamento della destinazione d’uso -da ultimo modificata dall’articolo 23-ter del Testo unico edilizia (Dpr 380/2001) introdotto dal decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014) e citato dalla decisione in parola- manifesta «evidenti risvolti sulla tutela della proprietà».
Le conseguenze di questa affermazione potrebbero essere notevolissime, atteso che nella materia dell’ordinamento civile (cui afferisce il diritto di proprietà) la potestà legislativa è di esclusiva competenza statale, per cui le leggi approvate dal parlamento non possono essere disattese dalle regioni e, a maggior ragione, dai regolamenti locali come i piani regolatori. Al contrario, se il cambio di destinazione d’uso dovesse appartenere solo alla materia urbanistica, si aprirebbero ancora spazi di autonomia legislativa per le Regioni.
In altre parole, e in concreto, non sarebbero modificabili in sede locale (se non nei limiti stabiliti dalla stessa norma statale) le previsioni dell’articolo 23-ter per cui:
- costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso solo l’utilizzo dell’immobile che comporti l’assegnazione di una diversa categoria funzionale tra residenziale, turistico-ricettiva, produttiva-direzionale, commerciale e rurale;
- il mutamento della destinazione d’uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Di fatto quindi nelle Regioni che non hanno legiferato entro il termine loro assegnato e ormai scaduto (tutte tranne Liguria, Umbria e Toscana) troverebbe diretta applicazione la disciplina nazionale che rende più semplici i cambi d’uso, ammettendoli sempre all’interno della stessa categoria. Non sarebbero dunque salve le leggi regionali esistenti in materia.
Di diverso avviso la Regione Emilia Romagna (si veda articolo a fianco) per cui al contrario le discipline preesistenti -tra cui la propria- resterebbero in vigore.
La precedente giurisprudenza amministrativa non soccorre a sciogliere i dubbi.
Sino all’entrata in vigore dell’articolo 23-ter del Testo unico edilizia, il mutamento delle destinazioni d’uso veniva infatti principalmente trattato all’articolo 10, comma 2, del Testo unico che demanda alle regioni il compito di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
Le legislazioni regionali sul punto erano dunque piuttosto eterogenee e spesso rinviavano la disciplina di dettaglio agli strumenti urbanistici comunali. Gli unici principi comuni in materia derivavano da primarie nozioni urbanistiche e dall’evoluzione giurisprudenziale. In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la destinazione d’uso di un fabbricato è quella impressa dal titolo edilizio (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.02.2001 n. 583) e che il mutamento della destinazione impressa ad un fabbricato in favore di altra funzione è ammesso solo se la destinazione che si intende assegnare ricada tra quelle astrattamente ammesse per l’area dallo strumento urbanistico generale (Tar Lombardia, Milano, sezione II, sentenza 07.05.1992, n. 219).
La giurisprudenza ha inoltre precisato come il mutamento di destinazione sia urbanisticamente “rilevante” solamente allorquando sussista un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, ossia aventi diverso regime contributivo in ragione del diverso carico urbanistico.
Con l’articolo 23-ter, il legislatore statale ha evidenziato una maggiore attenzione sul tema e la volontà di porre rimedio all’eterogeneità delle discipline regionali. Ma il tentativo non appare però andato pienamente a buon fine, in ragione dei dubbi interpretativi emersi anche con la sentenza del Consiglio di Stato.
 
---------------
L’adeguamento. La mappa sul territorio. Solo tre le Regioni già allineate alla semplificazione.
Sono solo tre le Regioni che hanno centrato l’obiettivo imposto dal decreto Sblocca Italia di adeguare le proprie leggi sui cambi d’uso alla semplificazione introdotta dal Dl Sblocca Italia: Liguria, Umbria e Toscana.
L’articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) ha imposto alle Regioni di adeguare la propria legislazione, entro 90 giorni dall’entrata in vigore (termine già decorso), ai principi secondo i quali:
costituisce mutamento «rilevante» della destinazione d’uso di un immobile o di un’unità immobiliare solo l’utilizzo che comporti il passaggio da una ad altra delle categorie funzionali «residenziale», «turistico-ricettiva», «produttiva e direzionale», «commerciale» e «rurale»;
il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
La norma ha altresì disposto che, scaduti i 90 giorni, questi principi avrebbero avuto diretta applicazione. Le autonomie che hanno tempestivamente risposto all’appello del legislatore nazionale sono, appunto, tre. La Liguria è intervenuta con la legge 41/2014, la Toscana, ha ottemperato con la legge sul governo del territorio (Lr 65/2014) e la Regione Umbria recentemente ha approvato la legge 1/2015.
Altre autonomie, come ad esempio, l’Emilia Romagna, in risposta alle richieste di chiarimenti avanzate in relazione agli effetti della disciplina nazionale, sono invece intervenute con semplici note interpretative.
La circolare 11.03.2015 della Regione Emilia Romagna è utile per comprendere i profili di criticità che il dettato normativo nazionale porta con sé.
La Regione Emilia Romagna si è, infatti, limitata ad evidenziare che la disposizione introdotta a livello nazionale, in realtà, non comporta significative innovazioni sul territorio, atteso che il legislatore nazionale, rispetto a i due principi nazionali, ha espressamente fatto salve le diverse discipline contenute nelle leggi regionali.
Così la Regione ha riferito che la diretta applicabilità delle statuizioni nazionali sia possibile solamente nelle Regioni prive di legislazione di dettaglio in materia di cambio d’uso.
Questa lettura, effettivamente confortata del dettato letterale dell’articolo 23-ter (che non manca di rivelare profili di contraddittorietà), chiarisce come l’intento di uniformare la materia, sotteso all’introduzione della nuova disposizione nel corpo del Testo unico sia soggetto a notevoli limitazioni.
Il legislatore potrebbe, dunque, aver mancato l’importante obiettivo di eliminare le disparità ad oggi esistenti tra le discipline previste dalle singole regioni per regolare mutamenti d’uso tra loro identici, salvo che per il territorio sul quale sono posti in essere.
Il contenuto sostanziale della disposizione nazionale ha, comunque, il pregio di distinguere in modo puntuale le singole categorie funzionali e di identificare le modifiche d’uso attuabili liberamente senza incidere sul carico urbanistico esistente e quindi sulla dotazione di aree per servizi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale è perpetuo, ai sensi dell'art. 338 del Testo unico. 27.07.1934 n. 1265, e la sua reiterazione nel piano regolatore generale (peraltro ricognitiva) non dà luogo a indennizzo, anche perché non integra un vincolo preordinato all'esproprio, bensì un vincolo di natura “conformativa” discendente ex lege per ragioni soprattutto di tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica.
Considerato.
La Sezione osserva sul piano generale che la giurisprudenza amministrativa si è ripetutamente espressa nel senso che il vincolo cimiteriale è perpetuo, ai sensi dell'art. 338 del Testo unico. 27.07.1934 n. 1265, e che la sua reiterazione nel piano regolatore generale (peraltro ricognitiva) non dà luogo a indennizzo (ex multis, C.G.A. Reg. Sicilia - sez. giurisdizionale, 08.10.2007, n. 929), anche perché non integra un vincolo preordinato all'esproprio, bensì un vincolo di natura “conformativa” discendente ex lege per ragioni soprattutto di tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica.
Nel caso di specie, il PGT si limita a recepire le previsioni del vigente piano regolatore cimiteriale, sia nella parte che classifica come G1 (zone cimiteriali) la porzione di vigneto ricadente nella fascia di rispetto cimiteriale, sia nella parte in cui individua come possibile zona di espansione dell’attuale cimitero l’area ove ricade il vigneto in questione.
Ne consegue che l’eventuale lesività delle suddette previsioni non discende, come sostengono i ricorrenti, dal PGT bensì dal piano regolatore cimiteriale divenuto inoppugnabile (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 18.03.2015 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Per l’antenna tv non serve l’ok dell’assemblea. Condominio. Anche se c’è l’impianto centralizzato.
L’assemblea non può negare al singolo condomino di installare sul tetto o sul lastrico comune una propria antenna ricetrasmittente televisiva in quanto con il divieto viene ad essere menomato il diritto di ciascun partecipante all’uso della copertura e si va ad incidere sul di lui diritto di proprietà. Né il condomino può impedire il passaggio del personale tecnico all’interno della propria unità immobiliare, se ciò consegue al diritto di installare l’impianto d’antenna.
Simile principio, dapprima previsto nel Dlgs 259/2003 all’articolo 91, è stato poi nuovamente sancito dal nuovo articolo 1122-bis del Codice civile introdotto con legge di riforma del condominio che lo ha esteso anche in relazione a qualunque altro genere di flusso informatico, anche da satellite o via cavo.
I condomini possono dunque operare in tal senso senza necessità di ottenere il preventivo consenso da parte dell’assemblea, qualora l’intervento sia eseguito in modo tale da arrecare il minor pregiudizio possibile sia alle parti comuni dell’edificio e sia alle unità immobiliari di proprietà dei singoli condomini.
Resta sempre fermo l’obbligo di rispettare il decoro architettonico dello stabile, nonché, in generale, la stabilità e la sicurezza dell’edificio perché così continua a prevedere il comma terzo dell’articolo 1120 del Codice civile in tema di innovazioni.

Così ha disposto anche il TRIBUNALE di Milano (presidente: Manunta, relatore: Rota) con provvedimento 26.02.2015 (nel procedimento 14231/2014) che, accogliendo in sede di reclamo la congiunta istanza formulata sulla base dell’articolo 700 del Codice di procedura civile dal singolo condomino e dal suo conduttore verso il condominio, ha ritenuto legittima la pretesa avanzata dai predetti di istallare sul lastrico solare comune un sistema di antenna fondamentale per lo svolgimento da parte della società conduttrice della propria primaria attività, indicando nel contempo punto del lastrico in cui doveva essere posizionato l’impianto.
Ha inoltre condannato due singoli condomini a consentire il passaggio ai tecnici incaricati della posa dell’impianto attraverso il loro terrazzo per il tempo necessario alla realizzazione delle opere sul lastrico condominiale.
Nemmeno la presenza in condominio di un impianto centralizzato impedisce dunque al singolo condomino di installarne uno proprio.
Solo un regolamento condominiale di natura contrattuale può limitare tale facoltà del condomino, proprio perché in grado di invadere la sfera di proprietà degli altri condomini, sia in ordine alle cose comuni e sia a quelle esclusive (Cassazione 26468/2007).
Se però l’installazione dei nuovi impianti comportano delle modificazioni delle parti comuni, allora l’interessato ha l’obbligo di indicare all’amministratore il contenuto specifico degli interventi e le modalità con cui vuole porli in essere, affinché relazioni l’assemblea. Spetta a quest’ultima, con le maggioranza di cui al quinto comma dell’articolo 1136 del Codice civile, prescrivere soluzioni alternative di esecuzione, prevedendo semmai una idonea garanzia per eventuali danni ne dovessero conseguire
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015).

ATTI AMMINISTRATIVILa tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi ex art. 22 della l. n. 241 cit. e “la tutela del diritto di accesso civico connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza”, sono due istituti sono tra loro diversi.
La distinzione e non sovrapponibilità tra i due istituti è stata delineata anche dalla più recente giurisprudenza, la quale ha rimarcato come le nuove disposizioni dettate con il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A. regolino situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi degli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle P.A., allo scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione e per la realizzazione di un’Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato decreto legislativo ed aventi ad oggetto l’organizzazione, nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere a tali siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell’obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente –continua la giurisprudenza– l’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di “documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati” i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si rivolge l’accesso, cosicché in funzione di tale interesse l’istanza di accesso deve essere motivata opportunamente.
---------------
Per la giurisprudenza consolidata nella materia del risarcimento dei danni, vertendosi in tema di diritti soggettivi, trova piena applicazione il principio dell’onere della prova e non l’onere del principio di prova che, almeno tendenzialmente, si applica in materia di interessi legittimi.

... per l’annullamento del provvedimento del Comune di Cervaro prot. n. 5487 del 29.05.2014, recante rigetto della richiesta di accesso agli atti presentata dalla sig.ra N.P. il 15.04.2014, avente ad oggetto le delibere/determine del Consiglio Comunale e/o della Giunta Municipale, con cui è stata istituita l’Avvocatura Comunale
...
- Considerato che con il ricorso in epigrafe la sig.ra N.P. ha agito per ottenere l’ostensione dei documenti amministrativi del Comune di Cervaro oggetto dell’istanza di accesso inoltrata dalla medesima al citato Comune il 15.04.2014 (ed assunta al protocollo con n. 4204);
- Considerato che la riferita istanza di accesso è stata respinta dal Comune di Cervaro con nota prot. n. 5487 del 29.05.2014 –di cui la ricorrente chiede l’annullamento– sul rilievo della carenza, in capo alla sig.ra P., della legittimazione ad estrarre le copie richieste;
- Considerato che la ricorrente propone, inoltre, domanda di risarcimento dei danni;
- Osservato che il Comune di Cervaro ed il sig. M.C. (quest’ultimo, evocato nella sua qualità di Segretario Comunale), pur evocati, non si sono costituiti in giudizio;
- Osservato che con istanza depositata il 02.10.2014 la ricorrente ha chiesto, altresì, il riesame del diniego di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, di cui al verbale n. 28 dell’11.09.2014;
- Osservato che, ai sensi dell’art. 116, comma 4, c.p.a., sul ricorso in materia di accesso ai documenti amministrativi il giudice decide con sentenza in forma semplificata ex art. 74 c.p.a.;
- Considerato che il ricorso, nella parte in cui ha ad oggetto l’istanza di accesso, è inammissibile, non avendo la ricorrente chiarito (pur a fronte delle interrogazioni ad essa rivolte dal Collegio in sede di discussione del gravame, anche ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.) se con il medesimo ha inteso azionare il cd. diritto all’ostensione dei documenti amministrativi previsto dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, ovvero il cd. accesso civico di cui al d.lgs. n. 33/2013;
- Considerato, sul punto, che pur essendo il rito ex art. 116 c.p.a. esperibile sia a tutela dell’accesso ai documenti amministrativi ex art. 22 della l. n. 241 cit., sia “per la tutela del diritto di accesso civico connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza”, i due istituti sono tra loro diversi (come rammenta la stessa documentazione depositata dalla ricorrente: cfr. il comunicato dell’A.N.A.C. del 15.10.2014), vista, in particolare, la differenza dei relativi presupposti. Essi, perciò, non devono essere confusi;
- Osservato che la distinzione e non sovrapponibilità tra i due istituti è stata delineata anche dalla più recente giurisprudenza (C.d.S., Sez. VI, 20.11.2013, n. 5515), la quale ha rimarcato come le nuove disposizioni dettate con il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A. regolino situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi degli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle P.A., allo scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione e per la realizzazione di un’Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato decreto legislativo ed aventi ad oggetto l’organizzazione, nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere a tali siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell’obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente –continua la giurisprudenza– l’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di “documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati” i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si rivolge l’accesso, cosicché in funzione di tale interesse l’istanza di accesso deve essere motivata opportunamente;
- Osservato, tuttavia, che la causa petendi fatta valere dalla ricorrente da un lato sembra da rinvenire nell’accesso ex l. n. 241/1990, come, d’altronde, ha inteso il verbale di diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (negato per la ritenuta assenza di un interesse giuridicamente rilevante all’ostensione degli atti richiesti) e, prima ancora, in sede procedimentale, il medesimo Comune di Cervaro (che ha respinto l’istanza di accesso per l’assenza di legittimazione, id est di una posizione legittimante, all’ostensione); dall’altro, invece, sembra da rinvenire nel diritto di accesso civico ex d.lgs. n. 33 cit., come si evince, ad es., dal sesto e dal settimo motivo di gravame. Il tutto, senza che nel ricorso sia precisata alcuna graduazione tra le suddette posizioni, che vengono, invero, azionate in modo indistinto;
- Considerato che la commistione e sovrapposizione, da parte della ricorrente, di due causae petendi distinte, autonome e non sovrapponibili non può che portare alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, nella parte in cui ha ad oggetto, più propriamente, l’istanza di accesso, visti i dubbi circa la legittimazione attiva della predetta ricorrente;
- Considerato che l’inammissibilità discende, altresì, dalla confusione del petitum, poiché non è dato comprendere se l’obiettivo avuto di mira dalla ricorrente sia la pubblicazione, da parte del Comune di Cervaro, degli atti e documenti di cui al d.lgs. n. 33/2013, ovvero la presa visione ed estrazione di copia degli atti oggetto dell’istanza inoltrata al Comune il 15.04.2014;
- Considerato, inoltre, che, con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni, si può prescindere dall’esaminare la questione se la stessa sia da reputare inammissibile, non potendosi ammettere che con lo speciale rimedio processuale ex art. 116 c.p.a. possa veicolarsi altresì la domanda risarcitoria (come affermato dalla concorde giurisprudenza nel vigore della disciplina processuale anteriore al d.lgs. n. 104/2010: cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.08.2004, n. 5514; id., Sez. V, 18.10.2001, n. 5519; TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 26.03.2008, n. 2599; id., Sez. I, 11.06.2004, n. 5601), ovvero se al rito dell’accesso possa applicarsi analogicamente l’art. 117, comma 6, c.p.a., che per il cd. rito speciale del silenzio consente che l’eventuale domanda risarcitoria proposta sia rimessa sul ruolo per essere trattata con il rito ordinario (oppure immediatamente decisa, quando emerga da subito la sua infondatezza: TAR Lazio, Latina, Sez. I, 20.05.2013, n. 470). Ciò, in quanto nella fattispecie all’esame la domanda di risarcimento dei danni è manifestamente infondata e da respingere;
- Considerato, infatti, in proposito, che per la giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 26.08.2014, n. 4293; id., Sez., VI, 23.03.2009, n. 1716), anche di questa Sezione (cfr, ex multis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.09.2014, n. 728; id., 20.05.2013, n. 464), nella materia del risarcimento dei danni, vertendosi in tema di diritti soggettivi, trova piena applicazione il principio dell’onere della prova e non l’onere del principio di prova che, almeno tendenzialmente, si applica in materia di interessi legittimi.
Orbene, nel caso ora in esame la ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio a sostegno della pretesa risarcitoria da essa avanzata: tale pretesa, perciò, non può che essere respinta (TAR Lazio-Latina, sentenza 09.12.2014 n. 1046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 05.06.2015

ã

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla liquidazione delle parcelle legali.
Quando la difesa legale non riguarda la particolare fattispecie di giudizio per l’accertamento della eventuale responsabilità dei propri dipendenti, l’ente locale prima di procedere al pagamento della parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di esaminare la documentazione relativa all’attività svolta dal difensore per valutarne la congruità.
Detta valutazione di congruità
risponde all’esigenza di garantire una “attenta e prudente gestione della spesa pubblica”, pertanto deve tenere conto, “da un lato dell’incertezza dell’esatta individuazione delle voci che potrebbero concorrere alla determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità dovute agli avvocati per l’esercizio della loro attività professionale e dei relativi parametri legali, dall’altro della necessità di scongiurare il rischio di annoverare nella parcella spese oggettivamente superflue o non proporzionali all’opera prestata”.
Inoltre, anche quando non è richiesto dalla legge il parere dell’Avvocatura dello Stato, la valutazione di congruità deve “riguardare, non solo la conformità della parcella alla tariffa forense, ma anche il rapporto fra l'importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa”.
---------------
Nell'ipotesi di soccombenza laddove "
nel dispositivo della sentenza si legge sempre l'ammontare della parcella dovuta al legale della controparte, mentre nulla è stabilito dal giudice per quella dovuta al legale che ha assistito l'Amministrazione” detta liquidazione può rappresentare un parametro di congruità (per pagare il proprio legale) in relazione al valore della causa, al numero di udienze alle quali hanno partecipato i difensori delle parti in giudizio, nonché al numero di atti processuali redatti e depositati in corso di causa.
---------------
Circa la necessità -o meno- di avviare “la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio per quella parte della parcella eccedente il preventivo impegno di spesa” si osserva quanto segue.

Il riconoscimento degli oneri spettanti ad un legale per l’attività svolta a favore dell’ente rientra nel novero delle acquisizioni di servizi per i quali in astratto può essere attivata legittimamente la procedura prevista dalla lettera e) dell’art. 194 D.lgs. 267/2000”.
Tuttavia, vengono in rilievo anche i principi contabili in tema di contratti di prestazione d'opera intellettuale laddove affermano che “
l'ente deve determinare compiutamente, anche in fasi successive temporalmente, l'ammontare del compenso (esempio gli incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti dall'impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità dell'ente potrà disciplinare l'assunzione di ulteriore impegno, per spese eccedenti l'impegno originario, dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili”.
La Magistratura contabile ha affrontato il caso in cui l’impegno di spesa per un incarico legale non fosse risultato adeguato rispetto alla parcella presentata dal professionista e si è chiesta se in questi casi l’ente locale debba ricorrere alla procedura del debito fuori bilancio per liquidare la differenza rispetto al preventivo.
La fattispecie è stata risolta richiamando il principio secondo cui “
pur in presenza di difficoltà nella individuazione della somma esatta relativa alla parcelle del professionista, l’Ente è tenuto al rispetto dei canoni di buona amministrazione (fra gli altri a quello del prudente apprezzamento), delle regole giuscontabili in materia di spesa e dei principi che caratterizzano la corretta gestione dei pubblici bilanci”.
Così,
con riferimento alla determinazione dell’impegno di spesa per attività professionale legale, va acquisito “dall’avvocato, al quale è stata affidata la rappresentanza in giudizio del Comune, un preventivo di massima relativo agli onorari, alle competenze ed alle spese che presuntivamente deriveranno dall’espletamento dell’incarico stesso ai fini di predisporre un adeguata copertura finanziaria".
D’altra parte,
se si verificano casi in cui è difficile quantificare l’impegno finanziario al momento dell’ordinazione della prestazione ai sensi dell’art. 191 TUEL, in ragione dell’imprevedibile andamento della causa, “la difficoltà di determinazione dell’esatto ammontare di una spesa non esime l’ente dall’obbligo di effettuarne una stima quanto più possibile veritiera e prudenziale, al fine di una corretta imputazione a bilancio del costo complessivo presunto della prestazione. L’importo così determinato dovrà essere impegnato in bilancio nella sua interezza anche se verrà corrisposto, quanto meno in parte, in epoca successiva all’esercizio di competenza".
Dunque,
nell’ordinamento contabile degli enti locali (art. 162 TUEL) vigente prima dell’entrata a regime dell’armonizzazione dei sistemi contabili, è corretta l’assunzione dell’impegno di spesa quando il sottostante contratto (nella specie, mandato d’opera) viene stipulato con il professionista incaricato della tutela legale secondo una prudente e oculata previsione della durata e dell’importo complessivo dell’incarico, al fine di predisporre un’adeguata copertura finanziaria.
In questo caso, l’impegno di spesa per prestazioni professionali a tutela dell’ente può dirsi assunto correttamente quando in presenza di un eventuale maggior onere (emergente dall’imprevedibile lunga durata della causa), l’ente al fine di garantire la copertura finanziaria procede ad adeguare lo stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di spesa
.
In altri termini, “
fatti successivi, non prevedibili al momento dell’originario impegno di spesa quali il protrarsi della durata del processo, costituiscono una legittima causa giuridica per la spesa da sostenere e consentono, quindi, di assumere il relativo impegno in bilancio. In questa ipotesi, anzi, il ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio contrasterebbe con i principi di contabilità pubblica”. Ne consegue che “qualora l’importo legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la differenza non realizza automaticamente una fattispecie di debito fuori bilancio, da legittimare ai sensi dell’art. 194, co. 1, lett. e TUEL”.
Con l’attuazione dell’armonizzazione dei sistemi contabili e, in particolare, l’applicazione del principio della competenza finanziaria potenziata, i richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza contabile trovano ulteriore conferma.
Infatti, “
gli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è determinabile, sono imputati all'esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al principio della competenza potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa. In sede di predisposizione del rendiconto, in occasione della verifica dei residui prevista dall'articolo 3, comma 4 del presente decreto, se l'obbligazione non è esigibile, si provvede alla cancellazione dell'impegno ed alla sua immediata re-imputazione all'esercizio in cui si prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale.
Al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio, l'ente chiede ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto l'impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori impegni. Nell'esercizio in cui l'impegno è cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo pluriennale vincolato al fine di consentire la copertura dell'impegno nell'esercizio in cui l'obbligazione è imputata.
Al riguardo si ricorda che l'articolo 3, comma 4, del presente decreto prevede che le variazioni agli stanziamenti del fondo pluriennale vincolato e dell'esercizio in corso e dell'esercizio precedente necessarie alla reimputazione delle entrate e delle spese reimputate sono effettuate con provvedimento amministrativo della giunta entro i termini previsti per l'approvazione del rendiconto
”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Erbusco chiede alla Sezione un “parere:
- circa la necessità, prima di procedere al pagamento: di sottoporre, o meno, la parcella del legale al parere di congruità della spesa della competente Avvocatura distrettuale dello Stato o, in alternativa, del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati;
- di avviare, o meno, la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio per quella parte della parcella eccedente il preventivo impegno di spesa
”.
...
Venendo al merito della richiesta, il Sindaco del Comune di Erbusco chiede alla Sezione un “parere circa la necessità, prima di procedere al pagamento: di sottoporre, o meno, la parcella del legale al parere di congruità della spesa della competente Avvocatura distrettuale dello Stato o, in alternativa, del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati; di avviare ,o meno, la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio per quella parte della parcella eccedente il preventivo impegno di spesa”.
Primo quesito: è necessario sottoporre “la parcella del legale al parere di congruità della spesa della competente Avvocatura distrettuale dello Stato o, in alternativa, del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati”?
Alla stregua del tenore letterale della richiesta di parere occorre, preliminarmente, chiarire che la Sezione, nell’ambito dell’attività consultiva, non può interferire sulla valutazione dell’amministrazione circa la congruità della parcella presentata dal difensore in relazione all’attività svolta per conto e nell’interesse del Comune, trattandosi di valutazione che deve svolgere in concreto l’ente locale nell’esercizio della piena ed esclusiva discrezionalità che per legge gli spetta.
Tenendo a mente questa premessa, in merito al primo quesito, la Sezione richiama i principi generali ai quali potrà orientarsi l’ente locale nel compiere la valutazione di congruità della parcella presentata dal difensore.
Nella richiesta
l’ente cita il precedente parere deliberato dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (delibera n. 35/2011) che, tuttavia, si occupa della particolare fattispecie di spese di patrocinio legale relative a giudizi per l’accertamento delle responsabilità civili, penali ed amministrative promossi nei confronti di dipendenti ed amministratori dell’ente locale (ipotesi tra l’altro di cui si è occupata, non solo la richiamata delibera della Sezione regionale per il Piemonte, ma anche la Sezione regionale di controllo per il Molise, con la delibera n. 6/2007, e la Sezione regionale di controllo per la Basilicata, con la delibera n. 4/2007).
Questa Sezione ritiene che,
quando la difesa legale non riguarda questa particolare fattispecie di giudizio per l’accertamento della eventuale responsabilità dei propri dipendenti -se così fosse si rinvia integralmente a quanto affermato nella delibera n. 35/2011 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte di cui l’ente locale istante ha già contezza-, l’ente locale prima di procedere al pagamento della parcella presentata dal proprio difensore ha il dovere di esaminare la documentazione relativa all’attività svolta dal difensore per valutarne la congruità.
Detta valutazione di congruità (a prescindere che venga svolta dall’Avvocatura dello Stato come nella particolare fattispecie prevista dall’art. 18, comma 1, del D.L. 25/03/1997, n. 67, convertito, con modificazioni, nella Legge 23/05/1997, n. 135) risponde all’esigenza di garantire una “attenta e prudente gestione della spesa pubblica”, pertanto deve tenere conto, “da un lato dell’incertezza dell’esatta individuazione delle voci che potrebbero concorrere alla determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità dovute agli avvocati per l’esercizio della loro attività professionale e dei relativi parametri legali, dall’altro della necessità di scongiurare il rischio di annoverare nella parcella spese oggettivamente superflue o non proporzionali all’opera prestata (C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011).
Inoltre, anche quando non è richiesto dalla legge il parere dell’Avvocatura dello Stato, la valutazione di congruità deve “riguardare, non solo la conformità della parcella alla tariffa forense, ma anche il rapporto fra l'importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa (C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011 che richiama Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sent. 23.01.2007, n. 1418).
L’ente locale istante nella richiesta di parere, nell’esporre le difficoltà che incontra l’Amministrazione nel valutare la congruità della parcella, aggiunge quando l’Amministrazione medesima è “parte soccombente, nel dispositivo della sentenza si legge sempre l'ammontare della parcella dovuta al legale della controparte, mentre nulla è stabilito dal giudice per quella dovuta al legale che ha assistito l'Amministrazione”.
In proposito, questa Sezione osserva che,
nell’ipotesi rappresentata dall’ente, anche se la sentenza che definisce il contenzioso quantifica le spese legali sostenute da controparte (e non dall’Amministrazione soccombente) detta liquidazione può rappresentare un parametro di congruità in relazione al valore della causa, al numero di udienze alle quali hanno partecipato i difensori delle parti in giudizio, nonché al numero di atti processuali redatti e depositati in corso di causa.
* * *

Secondo quesito: è necessario avviare “la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio per quella parte della parcella eccedente il preventivo impegno di spesa”?
Con riferimento al procedimento che l’ente locale istante deve seguire per contabilizzare in bilancio la spesa che l’Amministrazione comunale è chiamata a sostenere a titolo di corrispettivo per la prestazione professionale svolta dall’avvocato nel suo interesse, si richiamano i principi generali più volte affermati da questa Sezione con riferimento alla disciplina antecedente all’attuazione dell’armonizzazione dei sistemi contabili (ex del d.lgs. n. 118/2011 e succ. mod.).
Questa Sezione, sia in sede di esercizio delle funzioni di controllo sulla sana gestione finanziaria degli enti locali (Lombardia/322/2012/PRSE dell’11.07.2012) sia in sede consultiva (Lombardia/441/2012/PAR del 23.10.2012), ha già avuto modo di affermare che “
il riconoscimento degli oneri spettanti ad un legale per l’attività svolta a favore dell’ente rientra nel novero delle acquisizioni di servizi per i quali in astratto può essere attivata legittimamente la procedura prevista dalla lettera e) dell’art. 194 D.lgs. 267/2000”.
Tuttavia, vengono in rilievo anche i principi contabili in tema di contratti di prestazione d'opera intellettuale laddove affermano che “
l'ente deve determinare compiutamente, anche in fasi successive temporalmente, l'ammontare del compenso (esempio gli incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti dall'impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità dell'ente potrà disciplinare l'assunzione di ulteriore impegno, per spese eccedenti l'impegno originario, dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili” (Testo approvato dall'Osservatorio il 18.11.2008, princ. Cont. n. 2 cpv. 108).
La Magistratura contabile ha affrontato il caso in cui l’impegno di spesa per un incarico legale non fosse risultato adeguato rispetto alla parcella presentata dal professionista e si è chiesta se in questi casi l’ente locale debba ricorrere alla procedura del debito fuori bilancio per liquidare la differenza rispetto al preventivo.
La fattispecie è stata risolta richiamando il principio secondo cui “
pur in presenza di difficoltà nella individuazione della somma esatta relativa alla parcelle del professionista, l’Ente è tenuto al rispetto dei canoni di buona amministrazione (fra gli altri a quello del prudente apprezzamento), delle regole giuscontabili in materia di spesa e dei principi che caratterizzano la corretta gestione dei pubblici bilanci”.
Così,
con riferimento alla determinazione dell’impegno di spesa per attività professionale legale, va acquisito “dall’avvocato, al quale è stata affidata la rappresentanza in giudizio del Comune, un preventivo di massima relativo agli onorari, alle competenze ed alle spese che presuntivamente deriveranno dall’espletamento dell’incarico stesso ai fini di predisporre un adeguata copertura finanziaria (cfr. C. Conti, sez. contr. Campania, par. n. 8 del 04.02.2009; la delibera della Sezione Campana richiama il principio già espresso dalle Sezioni Riunite, in sede di Controllo, per la Regione Sicilia n. 2 del 27.01.2007).
D’altra parte,
se si verificano casi in cui è difficile quantificare l’impegno finanziario al momento dell’ordinazione della prestazione ai sensi dell’art. 191 TUEL, in ragione dell’imprevedibile andamento della causa, “la difficoltà di determinazione dell’esatto ammontare di una spesa non esime l’ente dall’obbligo di effettuarne una stima quanto più possibile veritiera e prudenziale, al fine di una corretta imputazione a bilancio del costo complessivo presunto della prestazione. L’importo così determinato dovrà essere impegnato in bilancio nella sua interezza anche se verrà corrisposto, quanto meno in parte, in epoca successiva all’esercizio di competenza (sul punto Corte dei conti, Sez. contr. reg. Sardegna, parere n. 2/2007).
Dunque,
nell’ordinamento contabile degli enti locali (art. 162 TUEL) vigente prima dell’entrata a regime dell’armonizzazione dei sistemi contabili, è corretta l’assunzione dell’impegno di spesa quando il sottostante contratto (nella specie, mandato d’opera) viene stipulato con il professionista incaricato della tutela legale secondo una prudente e oculata previsione della durata e dell’importo complessivo dell’incarico, al fine di predisporre un’adeguata copertura finanziaria.
In questo caso, l’impegno di spesa per prestazioni professionali a tutela dell’ente può dirsi assunto correttamente quando in presenza di un eventuale maggior onere (emergente dall’imprevedibile lunga durata della causa), l’ente al fine di garantire la copertura finanziaria procede ad adeguare lo stanziamento iniziale integrando l’originario impegno di spesa
(in senso conforme, Sez. Contr. reg. Campania, parere n. 9/2007, che richiama il principio contabile n. 2 punto 52 dei “principi contabili per gli enti locali”, emanati dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali del Ministero Interno, gennaio 2004).
In altri termini, “
fatti successivi, non prevedibili al momento dell’originario impegno di spesa quali il protrarsi della durata del processo, costituiscono una legittima causa giuridica per la spesa da sostenere e consentono, quindi, di assumere il relativo impegno in bilancio. In questa ipotesi, anzi, il ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio contrasterebbe con i principi di contabilità pubblica” (LOMBARDIA/19/2009/PAR del 05.02.2009). Ne consegue che “qualora l’importo legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la differenza non realizza automaticamente una fattispecie di debito fuori bilancio, da legittimare ai sensi dell’art. 194, co. 1, lett. e TUEL (LOMBARDIA/19/2009/PAR del 05.02.2009).
Con l’attuazione dell’armonizzazione dei sistemi contabili (ex del d.lgs. n. 118/2011 e succ. mod.) e, in particolare, l’applicazione del principio della competenza finanziaria potenziata, i richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza contabile trovano ulteriore conferma.
Infatti, nell’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/11 relativo al principio generale di competenza finanziaria, si afferma che “
gli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è determinabile, sono imputati all'esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al principio della competenza potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa. In sede di predisposizione del rendiconto, in occasione della verifica dei residui prevista dall'articolo 3, comma 4 del presente decreto, se l'obbligazione non è esigibile, si provvede alla cancellazione dell'impegno ed alla sua immediata re-imputazione all'esercizio in cui si prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale.
Al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio, l'ente chiede ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto l'impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori impegni. Nell'esercizio in cui l'impegno è cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo pluriennale vincolato al fine di consentire la copertura dell'impegno nell'esercizio in cui l'obbligazione è imputata.
Al riguardo si ricorda che l'articolo 3, comma 4, del presente decreto prevede che le variazioni agli stanziamenti del fondo pluriennale vincolato e dell'esercizio in corso e dell'esercizio precedente necessarie alla reimputazione delle entrate e delle spese reimputate sono effettuate con provvedimento amministrativo della giunta entro i termini previsti per l'approvazione del rendiconto
” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 20.05.2015 n. 200).

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla legittimità di indire un concorso pubblico per l'assunzione del dirigente del "settore Lavori Pubblici" riservato ai soli ingegneri e non anche agli architetti.
Il Collegio dà atto che secondo consolidato orientamento di giurisprudenza gli artt. 51 e 52 del R.D. 2537/1925, che sono ancora in vigore e che pertanto ancora oggi costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri, debbono essere interpretati nel senso che appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, e depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici civili.
Tra le opere igienico-sanitarie la cui progettazione appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri, vanno incluse, tra le altre, anche gli impianti cimiteriali.
---------------
L’elenco delle opere la cui progettazione è di esclusiva competenza degli ingegneri include, come si vede, larga parte delle opere pubbliche di necessaria competenza dei comuni, all’interno dei quali il Settore di riferimento è certamente quello che ha in carico, appunto, i lavori pubblici.
E’ evidente che le opere pubbliche di che trattasi non esauriscono il panorama delle opere pubbliche che un comune può decidere di realizzare (scuole, centri sportivi; biblioteche e centri culturali; etc. etc.); tuttavia è importante rimarcare che non tutte le opere classificabili come “pubbliche”, come tali rientranti nella competenza istituzionale del settore “Lavori pubblici” di un comune, sono di competenza concorrente degli ingegneri ed architetti, essendo che le opere di urbanizzazione primaria e quelle afferenti la sfera igienico-sanitaria appartengono alla sfera esclusiva di competenza degli ingegneri.
Valga inoltre la considerazione che la sfera di competenza esclusiva degli architetti finisce invece per interessare solo gli edifici civili con rilevante carattere artistico nonché quelli di cui alla L. 364/1909, -fermo restando che anche in tal caso sussiste una competenza concorrente tra architetti ed ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica” (art. 52 comma 2, R.D. 2537/1925)-, e risulta pertanto di marginale importanza se riferita al settore “Lavori Pubblici” di un comune: infatti, mentre ogni comune deve confrontarsi, prima o poi, con la necessità di dotarsi di opere di urbanizzazione primaria e di opere igienico-sanitarie, costituisce invece una mera evenienza il fatto che un comune risulti proprietario di beni di particolare interesse artistico in relazione ai quali intenda effettuare interventi edilizi.
---------------
Il Collegio ritiene che la laurea in ingegneria e l’abilitazione alla professione di ingegnere costituiscono titoli aventi un collegamento diretto con l’attività del settore “Lavori Pubblici” di un qualsiasi comune e che, pertanto, il bando di concorso indetto per la selezione del dirigente di un tale settore non deve contenere una specifica motivazione a giustificazione della scelta di indicare la laurea in ingegneria e l’abilitazione alla professione di ingegnere quali requisiti di ammissione alla selezione.
Si deve ricordare che nella materia dei concorsi pubblici, ferma la definizione del titolo (laurea o altro titolo di studio), che è affidata alla legge, "deve essere riconosciuto all’Amministrazione un potere discrezionale nella determinazione della tipologia del titolo di studio richiesto, che deve essere correlato alla professionalità ed alla preparazione culturale richieste per lo svolgimento delle mansioni proprie dei posti che si intendono ricoprire”.
E’ ben vero che, in considerazione della attività propria del settore “Lavori Pubblici” di un comune, anche la laurea in architettura ed il titolo di architetto possono considerarsi pertinenti alle mansioni proprie del dirigente di tale settore. Tuttavia, in forza del principio dianzi richiamato non si può affermare che l’Amministrazione comunale abbia l’obbligo di indicare, tra i requisiti di partecipazione al concorso indetto per selezionare il dirigente di un tale settore, entrambi i titoli di studio e di abilitazione, né, correlativamente, che abbia l’obbligo di motivare in maniera specifica la scelta di circoscrivere ad una o all’altra categoria dei citati professionisti la possibilità di partecipare al concorso, scelta che essa Amministrazione effettuerà tenendo conto delle peculiarità della attività del proprio settore “lavori Pubblici” nonché delle proprie priorità.
Così, mentre una Amministrazione proprietaria di un ingente patrimonio immobiliare di rilevanza artistica potrà ritenere opportuno selezionare un architetto da preporre al proprio settore “Lavori Pubblici”, un’altra Amministrazione, che abbia tra le proprie priorità quella di procedere alla realizzazione di determinate opere che appartengano alla sfera di competenza esclusiva degli ingegneri, potrà invece legittimamente ritenere appropriato di affidare la dirigenza del settore competente ad un ingegnere, circoscrivendo ai soli ingegneri la partecipazione alla relativa selezione.
Ciascuna di tali scelte non abbisogna di particolare e specifica motivazione non solo perché, come già precisato, le Amministrazioni dispongono di un potere discrezionale nella scelta del titolo di studio richiesto per accedere ad una determinata selezione, il quale potere è soggetto a limiti solo nella misura in cui si richiede che il titolo di studio richiesto sia coerente con le mansioni proprie del posto da ricoprire: ciò che nella specie si è verificato.
-----------------
In ordine al fatto che il bando impugnato sia illegittimo perché prevede limiti di partecipazione che non si giustificano anche alla luce di quanto stabilisce l’art. 110 T.U.E.L. in ordine alla selezione del personale della dirigenza, il Collegio non ritiene che la previsione di un certo numero di anni di pregressa esperienza nel settore “Lavori Pubblici – Area Tecnica” ed in qualità di dipendente di enti pubblici, sia incoerente con le previsioni dell’art. 110 T.U.E.L., secondo il quale il personale dirigenziale deve essere in possesso di “comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
La norma, come si vede, stabilisce che la pregressa esperienza del dirigente non deve limitarsi ad un anno, ma neppure specifica un limite massimo di anni di esperienza che si può pretendere dall’aspirante dirigente: il periodo di esperienza pregressa può quindi ragionevolmente variare a seconda della complessità delle mansioni che il dirigente è chiamato a svolgere e bisogna dire che nella prassi esso è frequentemente indicato, come nel caso di specie, in un periodo variabile tra i tre ed i cinque anni.
L’art. 110 T.U.E.L. richiede poi che la pregressa esperienza sia specifica in relazione alle materie oggetto dell’incarico, e si deve ritenere che questa specificità possa comprendere, quantomeno quando il posto da ricoprire sia quello di dirigente del settore Lavori Pubblici di un comune, anche il contesto lavorativo in cui tale esperienza è maturata: ciò per la ragione che, come sopra precisato, il settore Lavori Pubblici di un Comune si occupa normalmente della realizzazione di opere (quelle di urbanizzazione primaria e le opere di natura igienico-sanitarie) di cui un libero professionista raramente si occupa in via continuativa, a meno che non sia specializzato nel settore e non sia organizzato in modo da poter partecipare a numerose gare per l’affidamento della progettazione di simili opere.
Il Settore Lavori Pubblici si occupa poi spesso, come emerso nel corso del giudizio, della gestione delle gare di affidamento di lavori, ed è evidente che anche in tale materia una esperienza significativa viene maturata solo alle dipendenze di una amministrazione pubblica che debba gestire gare d’appalto. Anche la richiesta che l’esperienza pregressa sia stata maturata nel settore “Area Tecnica-Lavori Pubblici” è evidentemente coerente con il posto messo a concorso.
I criteri di selezione introdotti dal bando di che trattasi sono, in definitiva, coerenti con quanto stabilito dall’art. 110 T.U.E.L.; conseguentemente da essi non è possibile trarre alcun argomento a sostegno dell’assunto secondo cui il Comune di Novi Ligure avrebbe inteso, consapevolmente, restringere la platea dei partecipanti alla selezione onde favorire l’ing. R..

... per l'annullamento:
1. dell'avviso pubblico indetto da Comune di Novi Ligure e relativo alla selezione per l'assunzione di n. 1 dirigente tecnico a tempo determinato e pieno, per anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale, approvato con determinazione n. 198/723 del 14.07.2014;
2. della determina del Comune di Novi Ligure n. 248/875 del 15.9.2014 Settore: Sett. 8 - Personale e Organizzazione - Affari generali, Ufficio: Personale, con cui sono stati ammessi i candidati della selezione per l'assunzione di n. 1 dirigente tecnico a tempo determinato e pieno, per anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale ed è stato escluso l'arch. C.P. per mancanza del titolo di studio richiesto nell'avviso di selezione;
3. della graduatoria del Comune di Novi Ligure approvata con determinazione n. 266/928 del 01/10/2014 Sett. 8 - Personale e organizzazione - Affari Generali - Ufficio Personale, con cui sono stati individuati i soggetti ammessi per l'assunzione di n. 1 dirigente tecnico a tempo determinato e pieno, per anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale;
4. del decreto del Comune di Novi Ligure n. 11 del 03.10.2014 con cui è stato conferito l'incarico di dirigente tecnico a tempo determinato e pieno, per anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale, all'ing. P.I.R. a seguito della procedura di selezione;
...
11. Procedendo nella disamina del merito del ricorso il Collegio dà atto che secondo consolidato orientamento di giurisprudenza gli artt. 51 e 52 del R.D. 2537/1925 (C.d.S. sez. IV, n. 2938/2000; TAR Palermo, sez. I, n. 2274/2002; TAR Catanzaro sez. II, n. 354/2008; TAR Veneto sez. I, n. 1153/2011; C.d.S. sez. VI, n. 1150/2013; TAR Lecce, sez. II, n. 1270/2013; TAR Lazio-Latina, sez. I, n. 608/2013), che sono ancora in vigore e che pertanto ancora oggi costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri, debbono essere interpretati nel senso che appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, e depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici civili. Tra le opere igienico-sanitarie la cui progettazione appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri, vanno incluse, tra le altre, anche gli impianti cimiteriali (C.d.S. n. 2938/2000 cit.).
12. L’elenco delle opere la cui progettazione è di esclusiva competenza degli ingegneri include, come si vede, larga parte delle opere pubbliche di necessaria competenza dei comuni, all’interno dei quali il Settore di riferimento è certamente quello che ha in carico, appunto, i lavori pubblici.
E’ evidente che le opere pubbliche di che trattasi non esauriscono il panorama delle opere pubbliche che un comune può decidere di realizzare (scuole, centri sportivi; biblioteche e centri culturali; etc. etc.); tuttavia è importante rimarcare che non tutte le opere classificabili come “pubbliche”, come tali rientranti nella competenza istituzionale del settore “Lavori pubblici” di un comune, sono di competenza concorrente degli ingegneri ed architetti, essendo che le opere di urbanizzazione primaria e quelle afferenti la sfera igienico-sanitaria appartengono alla sfera esclusiva di competenza degli ingegneri.
Valga inoltre la considerazione che la sfera di competenza esclusiva degli architetti finisce invece per interessare solo gli edifici civili con rilevante carattere artistico nonché quelli di cui alla L. 364/1909, -fermo restando che anche in tal caso sussiste una competenza concorrente tra architetti ed ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica” (art. 52, comma 2, R.D. 2537/1925)-, e risulta pertanto di marginale importanza se riferita al settore “Lavori Pubblici” di un comune: infatti, mentre ogni comune deve confrontarsi, prima o poi, con la necessità di dotarsi di opere di urbanizzazione primaria e di opere igienico-sanitarie, costituisce invece una mera evenienza il fatto che un comune risulti proprietario di beni di particolare interesse artistico in relazione ai quali intenda effettuare interventi edilizi.
13. In base alle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che la laurea in ingegneria e l’abilitazione alla professione di ingegnere costituiscono titoli aventi un collegamento diretto con l’attività del settore “Lavori Pubblici” di un qualsiasi comune e che, pertanto, il bando di concorso indetto per la selezione del dirigente di un tale settore non deve contenere una specifica motivazione a giustificazione della scelta di indicare la laurea in ingegneria e l’abilitazione alla professione di ingegnere quali requisiti di ammissione alla selezione.
13.1 Si deve ricordare che nella materia dei concorsi pubblici, ferma la definizione del titolo (laurea o altro titolo di studio), che è affidata alla legge, "deve essere riconosciuto all’Amministrazione un potere discrezionale nella determinazione della tipologia del titolo di studio richiesto, che deve essere correlato alla professionalità ed alla preparazione culturale richieste per lo svolgimento delle mansioni proprie dei posti che si intendono ricoprire” (TAR Puglia-Bari, sez. II, n. 1359/2013; C.d.S. sez. V, n. 5351/2012; C.d.S. sez. VI, n. 2994/2009; TAR Lazio sez. III, n. 253/2008).
13.2. E’ ben vero che, in considerazione della attività propria del settore “Lavori Pubblici” di un comune, anche la laurea in architettura ed il titolo di architetto possono considerarsi pertinenti alle mansioni proprie del dirigente di tale settore. Tuttavia, in forza del principio dianzi richiamato non si può affermare che l’Amministrazione comunale abbia l’obbligo di indicare, tra i requisiti di partecipazione al concorso indetto per selezionare il dirigente di un tale settore, entrambi i titoli di studio e di abilitazione, né, correlativamente, che abbia l’obbligo di motivare in maniera specifica la scelta di circoscrivere ad una o all’altra categoria dei citati professionisti la possibilità di partecipare al concorso, scelta che essa Amministrazione effettuerà tenendo conto delle peculiarità della attività del proprio settore “lavori Pubblici” nonché delle proprie priorità.
Così, mentre una Amministrazione proprietaria di un ingente patrimonio immobiliare di rilevanza artistica potrà ritenere opportuno selezionare un architetto da preporre al proprio settore “Lavori Pubblici”, un’altra Amministrazione, che abbia tra le proprie priorità quella di procedere alla realizzazione di determinate opere che appartengano alla sfera di competenza esclusiva degli ingegneri, potrà invece legittimamente ritenere appropriato di affidare la dirigenza del settore competente ad un ingegnere, circoscrivendo ai soli ingegneri la partecipazione alla relativa selezione.
Ciascuna di tali scelte non abbisogna di particolare e specifica motivazione non solo perché, come già precisato, le Amministrazioni dispongono di un potere discrezionale nella scelta del titolo di studio richiesto per accedere ad una determinata selezione, il quale potere è soggetto a limiti solo nella misura in cui si richiede che il titolo di studio richiesto sia coerente con le mansioni proprie del posto da ricoprire: ciò che nella specie si è verificato.
13.3. Il primo motivo di ricorso deve quindi essere respinto, non potendosi affermare che la sfera di competenze tra architetti ed ingegneri sia completamente sovrapponibile né potendosi ravvisare difetto di motivazione nel bando di concorso impugnato, nella parte in cui non ha giustificato la scelta di escludere la laurea in architettura tra i requisiti che legittimavano a partecipare alla selezione per cui è causa.
Alla luce di tali constatazioni diventa poi irrilevante il fatto che la delibera di Giunta n. 143 del 26/03/2014, che peraltro non è stata impugnata dai ricorrenti, non abbia dato indicazione specifiche in ordine al titolo di studio da richiedere per la copertura del posto di dirigente del settore Lavori Pubblici; né assume rilevanza il fatto che gli atti del procedimento non evidenzino le ragioni -esplicitate invece negli atti di questo giudizio- che in concreto avrebbero indotto l’Amministrazione a selezionare un ingegnere.
14. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che il bando impugnato sia comunque illegittimo perché prevede limiti di partecipazione che non si giustificano anche alla luce di quanto stabilisce l’art. 110 T.U.E.L. in ordine alla selezione del personale della dirigenza.
14.1. Il Collegio premette, preliminarmente, che i ricorrenti hanno interesse alla decisione su tale motivo di ricorso, atteso che esso è sostanzialmente finalizzato ad evidenziare aspetti di sviamento di potere che nella specie avrebbero ispirato l’azione amministrativa e che sarebbero stati finalizzati a garantire l’assunzione dell’ing. R., che già lavorava per il Comune di Novi Ligure: l’interesse a verificare la sussistenza di possibili profili di sviamento di potere sussiste, in particolare, proprio in ragione della ampia discrezionalità che si deve riconoscere alle Pubbliche Amministrazioni nello stabilire i requisiti di partecipazione alle procedure concorsuali e nella correlativa insussistenza di uno specifico obbligo di motivare la scelta di tali requisiti.
14.2. Ebbene, il Collegio non ritiene che la previsione di un certo numero di anni di pregressa esperienza nel settore “Lavori Pubblici – Area Tecnica” ed in qualità di dipendente di enti pubblici, sia incoerente con le previsioni dell’art. 110 T.U.E.L., secondo il quale il personale dirigenziale deve essere in possesso di “comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
14.2.1. La norma, come si vede, stabilisce che la pregressa esperienza del dirigente non deve limitarsi ad un anno, ma neppure specifica un limite massimo di anni di esperienza che si può pretendere dall’aspirante dirigente: il periodo di esperienza pregressa può quindi ragionevolmente variare a seconda della complessità delle mansioni che il dirigente è chiamato a svolgere e bisogna dire che nella prassi esso è frequentemente indicato, come nel caso di specie, in un periodo variabile tra i tre ed i cinque anni.
14.2.3. L’art. 110 T.U.E.L. richiede poi che la pregressa esperienza sia specifica in relazione alle materie oggetto dell’incarico, e si deve ritenere che questa specificità possa comprendere, quantomeno quando il posto da ricoprire sia quello di dirigente del settore Lavori Pubblici di un comune, anche il contesto lavorativo in cui tale esperienza è maturata: ciò per la ragione che, come sopra precisato, il settore Lavori Pubblici di un Comune si occupa normalmente della realizzazione di opere (quelle di urbanizzazione primaria e le opere di natura igienico-sanitarie) di cui un libero professionista raramente si occupa in via continuativa, a meno che non sia specializzato nel settore e non sia organizzato in modo da poter partecipare a numerose gare per l’affidamento della progettazione di simili opere.
Il Settore Lavori Pubblici si occupa poi spesso, come emerso nel corso del giudizio, della gestione delle gare di affidamento di lavori, ed è evidente che anche in tale materia una esperienza significativa viene maturata solo alle dipendenze di una amministrazione pubblica che debba gestire gare d’appalto. Anche la richiesta che l’esperienza pregressa sia stata maturata nel settore “Area Tecnica-Lavori Pubblici” è evidentemente coerente con il posto messo a concorso.
14.3. I criteri di selezione introdotti dal bando di che trattasi sono, in definitiva, coerenti con quanto stabilito dall’art. 110 T.U.E.L.; conseguentemente da essi non è possibile trarre alcun argomento a sostegno dell’assunto secondo cui il Comune di Novi Ligure avrebbe inteso, consapevolmente, restringere la platea dei partecipanti alla selezione onde favorire l’ing. R..
15. Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 15.05.2015 n. 846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.
4.2. — Quanto al secondo motivo di ricorso, è sufficiente qui rilevare che i giudici di primo e secondo grado muovono dalle evidenze processuali, costituite dalla macroscopicità della violazione e dalla specifica competenza tecnica di entrambi gli imputati, per farne logicamente conseguire, pur in mancanza di prova di un accordo fra i due, la piena sussistenza dell'elemento soggettivo, rappresentato dalla piena consapevolezza e partecipazione di entrambi gli imputati alla commissione del reato.
E la natura macroscopica dell'abuso risulta ulteriormente confermata -secondo la coerente valutazione dei giudici di merito- dall'analogia tra la fattispecie qui in esame e la vicenda relativa ad altro centro commerciale (I...) nella quale era già venuta in rilievo l'illegittimità di insediamenti commerciali nell'area F3 destinata a verde pubblico; con la conseguenza che, anche a prescindere dall'assoluta chiarezza delle disposizioni dello strumento urbanistico sul punto, vi è ulteriore conferma che gli imputati avessero piena e puntuale contezza dell'illiceità dell'attività che andavano svolgendo. Né osta a tale conclusione il generico richiamo della difesa a non meglio precisati chiarimenti che l'imputato Biondi avrebbe richiesto in via preventiva alla Procura della Repubblica.
E del resto, come costantemente affermato da questa Corte, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (ex plurimis, sez. 6, 15.04.2014, n. 36179, rv. 260233; sez. 3, 07.11.2013, n. 48475, rv. 258290).
Ne deriva la manifesta infondatezza di tale censura (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19182 - tratto da www.lexambiente.it).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: E' legittima, e non spetta alcun indennizzo (per), la detenzione subìta dal dirigente comunale  che si presta alla consapevole consumazione di illeciti da parte del sindaco.
Anche il comportamento passivo del connivente può assumere valenza ostativa, rispetto al diritto alla equa riparazione, qualora il soggetto non si sia limitato ad assistere passivamente alla consumazione di un reato da parte di terzi, ma abbia tollerato che il reato venisse consumato, pur essendo in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione della attività criminosa.
Come è noto, in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, il giudice, per valutare se chi l'ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.
Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione "ex ante" -e secondo un iter logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito- non se tale condotta integri estremi di reato ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell'autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ad effetto" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 34559 del 26/06/2002, dep. 15/10/2002, Rv. 222263).
Sul punto, si è anche recentemente rilevato che il giudizio per la riparazione dell'ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi, che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall'utilizzo di parametri di valutazione differenti (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 39500 del 18/06/2013, dep. 24/09/2013, Rv. 256764).
Preme pure evidenziare che le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno chiarito, nell'esaminare funditus l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione, che risulta evidente l'avvicinamento fra le ipotesi di cui all'art. 314 cod. proc. pen., commi 1 e 2, sotto il profilo della possibile comune derivazione della "ingiustizia" della misura da elementi emersi successivamente al momento della sua applicazione; che l'elemento della accertata "ingiustizia" della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le ragioni che integrano l'ingiustizia stessa) ne disvela il comune fondamento e ne impone una comune disciplina quanto alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento; e che tale ricostruzione, conforme alla logica del principio solidaristico, implica, l'oggettiva inerenza al diritto in questione, in ogni sua estrinsecazione "del limite della non interferenza causale della condotta del soggetto passivo della custodia" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 32383 del 27.05.2010, Rv. 247663).
Le Sezioni unite, nella sentenza ora richiamata, hanno pure evidenziato che risulta legittima una disciplina normativa che preveda l'esclusione dal beneficio in esame di chi, avendo contribuito con la sua condotta a causare la restrizione, non possa esserne considerato propriamente "vittima".
Tanto premesso, occorre considerare che la giurisprudenza di legittimità risulta consolidata nel rilevare che
condotte sinergicamente rilevanti, rispetto alla cautela sofferta, possono essere di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l'adozione del provvedimento restrittivo) o di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull'esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione.
A tal fine,
nei reati contestati in concorso, va apprezzata la condotta che si sia sostanziata nella consapevolezza dell'attività criminale altrui e, nondimeno, nel porre in essere una attività che si presti sul piano logico ad essere contigua a quella criminale (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4159 del 09/12/2008, dep. 28/01/2009, Rv. 242760).
E deve, in particolare, rilevarsi che la Corte regolatrice ha ripetutamente affermato che
anche il comportamento passivo del connivente può assumere valenza ostativa, rispetto al diritto alla equa riparazione, qualora il soggetto non si sia limitato ad assistere passivamente alla consumazione di un reato da parte di terzi, ma abbia tollerato che il reato venisse consumato, pur essendo in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione della attività criminosa (cfr. Cass. Sezione 4, Sentenza n. 40297 del 10.06.2008, dep. 29.10.2008, Rv. 241325) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.05.2015 n. 22063).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Sindaco: l'avocazione non opera per rimediare ad atti illegittimi.
E' illegittima la decisione del Sindaco di avocare a sé un singolo procedimento ed affidarlo ad un dirigente di altro settore con il compito di dargli corso sul presupposto che le valutazioni operate dal dirigente competente “si pongono in aperto contrasto con le conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale” del Comune stesso.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione il Sindaco non aveva posto un obiettivo gestionale, ma di fatto adottato l’atto di gestione: egli non si è, infatti, limitato a dettare un indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad adottare il provvedimento, ma ha configurato in modo puntuale il contenuto che il provvedimento doveva assumere, avvalendosi di un parere legale da lui stesso richiesto e facendo ad esso assumere una portata assoluta e vincolante.
Il Sindaco non può dunque esercitare poteri di fatto per rimediare ad eventuali atti illegittimi compiuti dai dirigenti preposti agli uffici comunali: nel quadro normativo vigente, infatti, la competenza negli enti locali a provvedere in sede di autotutela va riconosciuta unicamente all'organo che ha emanato l'atto illegittimo (commento tratto tratto da a e link a http://studiospallino.blogspot.it).
---------------
Sul fatto che il Sindaco avochi a sé il procedimento amministrativo gestito dal Dirigente del Dipartimento Urbanistica assegnandolo al Dirigente del Dipartimento Lavori Pubblici Servizi Tecnologici ed Operativi–Servizi Finanziari affinché si proceda ad adeguare la concessione edilizia già rilasciata a quanto statuito nel parere dell’Ufficio Legislativo e Legale della Regione Siciliana in ordine al recupero di somme a titolo di contributo di costruzione non precedentemente quantificate all'atto del rilascio.
Rileva la società ricorrente che la competenza del dirigente del Dipartimento LL.PP. a modificare il permesso di costruire rilasciato dal Dirigente del Dipartimento Urbanistica non può trovare fondamento nella determina sindacale n. 37/2012, a sua volta illegittima perché contraria all’art. 51 l. n. 142/1990 e non poggiante su una espressa deroga o previsione ad hoc neppure di tipo regolamentare.
Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato, per un triplice ordine di ragioni.
È pacifico che il vigente ordinamento delle autonomie locali demanda -in base al criterio di distinzione fra le responsabilità di natura politico amministrativa e quelle di gestione operativa- in via esclusiva ai dirigenti l'adozione di quegli atti gestionali in precedenza riservati agli organi di vertice dell'Ente, cui ora spettano solo i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione del 26.09.2012 il Sindaco non ha posto un obiettivo gestionale (come si legge nelle difese in atti), ma ha di fatto adottato l’atto di gestione: egli non si è, infatti, limitato a dettare un indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad adottare il provvedimento (profilo di cui si dirà a breve), ma ha configurato in modo puntuale il contenuto che il provvedimento riguardante la società ricorrente doveva assumere, avvalendosi di un parere legale da lui stesso richiesto (e peraltro non stringente nella sua formulazione) e facendo ad esso assumere una portata assoluta e vincolante.
Il Sindaco ha inoltre contestualmente avocato a sé ed affidato ad un dirigente di altro settore ritenuto “dotato di adeguata professionalità”, diverso da quello competente, il compito di dar corso al singolo procedimento sul presupposto che le valutazioni operate dal dirigente competente “si pongono in aperto contrasto con le conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale”.
Tale modus operandi è illegittimo.
Premesso che le attribuzioni dei dirigenti, ai sensi dell’art. 107, comma 4, T.U. n. 267/2000, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative, è di norma il regolamento che disciplina il funzionamento degli organi e degli uffici.
Inoltre, il Sindaco, salvo appunto quanto previsto dall'art. 107, esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti (art. 50, co. 3), tra cui la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi, l’attribuzione e definizione degli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali (co. 10).
L’art. 109 stabilisce per quanto qui interessa che “Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”.
Dal combinato disposto delle suddette norme discendono gli ulteriori due aspetti di illegittimità di cui si diceva.
Per un verso deve escludersi che l’ordinamento conosca un potere di avocazione di singoli affari in capo al Sindaco o un suo potere di intervento per rimediare ad eventuali atti illegittimi compiuti dai dirigenti preposti agli uffici comunali.
Il principio della separazione tra funzione di gestione, rientrante nei compiti dei dirigenti preposti all'apparato burocratico degli enti, e funzione di indirizzo e di controllo, devoluta agli organi elettivi, esclude, infatti, la sussistenza di un rapporto di tipo gerarchico tra i primi ed i secondi ed esclude altresì l’applicabilità, al di fuori delle amministrazioni dello Stato, della disposizione dettata dall'art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, che conserva un potere sostitutivo sul singolo atto e di annullamento per motivi di legittimità solo all'autorità ministeriale.
Dall’altro, un siffatto intervento non trova avallo neppure nel regolamento comunale che tratta solo l’ipotesi di assenza o impedimento del soggetto titolare, che è diversa da quella verificatasi nella vicenda in esame, stabilendo comunque non già la sostituzione del dirigente assente od impedito con un dirigente di altro settore, ma piuttosto con un dipendente dello stesso dipartimento ed esattamente con un “dipendente incaricato dell’area delle posizioni organizzative operante nel dipartimento ed in mancanza con un dipendente di categoria D (o C nel caso di assenza di dipendenti di categoria D) nell’ambito del medesimo dipartimento, individuato formalmente dal Sindaco, ove non provveda il Dirigente” (art. 25, co. 6, reg.)
Ne discende che in tale quadro normativo e regolamentare (vd. anche co. 8 dell’art. 25) negli enti locali la competenza a provvedere in sede di autotutela va riconosciuta solo allo stesso organo che ha emanato l'atto illegittimo.

... per l'annullamento:
quanto al ricorso introduttivo:
- della determina dirigenziale n. 71 del 04.02.2013, notificata il successivo giorno 11, con la quale il dirigente del dipartimento IV lavori pubblici del Comune di Licata ha disposto la rettifica, prevedendo il pagamento degli oneri di concessione, del permesso a costruire n. 76 del 20.10.2006 (det. dir. 1233 del 20.10.2006) rilasciato dal dirigente del settore urbanistica-edilizia privata per la realizzazione del porto turistico di Licata ed opere connesse;
- di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale e, in particolare:
- della direttiva sindacale n. 37 del 26.09.2012;
- della deliberazione di G.M. n. 43 del 12.04.2012, nonché, ove occorra,
per l'accertamento negativo, previa adozione di ogni più opportuna misura cautelare del diritto del Comune di Licata ad ottenere il pagamento delle somme richieste con atto di diffida e messa in mora del 14.02.2013;
quanto al ricorso per motivi aggiunti:
- della determina dirigenziale n. 222 ll.pp. del 12.04.2013, con la quale il Dipartimento lavori pubblici del Comune di Licata ha emesso nei confronti della ricorrente un’ingiunzione di pagamento ai sensi del r.d. 639 dei 14.04.1910 per la somma di £ 4.928.865,93, oltre £ 704.625,27 per interessi legali dal 20.10.2006 (data di rilascio della concessione edilizia) all'11.02.2013.
...
1. Viene all’esame del Tribunale la questione della legittimità di un intervento tutorio parziale, fatto a distanza di diversi anni e ad opera già quasi integralmente eseguita, avente ad oggetto un permesso di costruire per la realizzazione di un porto turistico da parte di un soggetto privato concessionario della relativa area demaniale, rilasciato dal Comune di Licata gratuitamente sul presupposto, poi ritenuto erroneo, dell’applicabilità dell’art. 17 DPR n. 380/2001.
Ritiene questo Collegio, ad un ulteriore e più approfondito esame degli atti, che sia necessario prendere le mosse dal terzo motivo di gravame col quale la società lamenta l’incompetenza del dirigente che ha adottato tanto il provvedimento impugnato col ricorso principale, quanto l’ingiunzione aggredita coi motivi aggiunti.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, confermato anche nella vigenza del c.p.a., il vizio di incompetenza deve, infatti, essere sempre scrutinato per primo, anche qualora la parte non lo abbia indicato come primo motivo e addirittura anche nel caso in cui lo abbia subordinato al rigetto degli altri motivi di impugnazione.
2. Ciò premesso, si ritiene opportuna una puntuale ricostruzione della vicenda per i profili che interessano il tema della competenza.
In data 20.10.2006 il Comune di Licata rilasciava alla società ricorrente un permesso di costruire per la realizzazione del porto turistico, con la clausola che “non è dovuto il pagamento di oneri di concessione, giacché trattasi di attrezzature d’interesse pubblico previste dal PRG vigente e dal PRP ai sensi dell’art. 17 del DPR n. 380/2001”.
Con nota prot. n. 19702 del 06.05.2011 il Sindaco del Comune di Licata inoltrava a vari enti, statali e regionali, richiesta di parere legale in merito al pagamento degli oneri concessori degli interventi edilizi compresi nel porto turistico “Marina di cala del Sole”.
Con nota del 21.07.2011 prot. n. 48625 il Dirigente generale dell’ARTA offriva alcuni elementi di giudizio inerenti la fattispecie concreta e con nota prot. n. 26113 – 131/11/2011, ricevuta dall’ARTA il 24.08.2011 e dal Comune di Licata il 31.08.2011, l’Ufficio legislativo e legale della Presidenza regionale condivideva e faceva proprio l’avviso negativo espresso dal Dirigente “in ordine alla richiesta di rilascio della concessione edilizia gratuita …”.
Accadeva che il Dirigente del Dipartimento Urbanistica del Comune di Licata, con più note (prot. n. 39044 del 19.09.2011, n. 44182 del 02.11.2011 e n. 46512 del 21.11.2011), riteneva di non dare corso al parere, assumendo sostanzialmente la legittimità del proprio operato.
Pertanto, la Giunta comunale, ribadita la “ferma intenzione di … procedere al recupero di quanto si ritiene dovuto dalla Società I.I.Spa a titolo di oneri concessori” con deliberazione n. 43 del 12.04.2012 immediatamente esecutiva approvava un atto di indirizzo col quale invitava il Dirigente del Dipartimento LL.PP. a provvedere, previa comunicazione di avvio del procedimento, al calcolo degli oneri concessori ed il Dirigente del Dipartimento Affari generali a conferire successivamente mandato al Responsabile dell’avvocatura comunale di provvedere alla formale richiesta di pagamento di quanto calcolato, con l’ulteriore avvertenza che se la società non provvederà spontaneamente il Dirigente del Dipartimento LL.PP. “valuterà gli atti da adottare ai fini dell’ingiunzione di pagamento degli oneri calcolati”.
Occorre aggiungere che su detta deliberazione interveniva il Segretario generale del Comune evidenziandone “gravi irregolarità amministrative ed illegittimità” in quanto priva del parere di regolarità tecnica, priva della firma del responsabile del procedimento e comunque contraria al dettato dell’art. 4 D.lgs. n. 165/2001 sui compiti dei dirigenti.
In data 30.04.2012 il Dirigente LL.PP. dava comunicazione di avvio del procedimento di pagamento degli oneri alla società I.I.Spa e con nota prot. 28087 del 12.06.2012 trasmetteva al Dirigente del Dipartimento Affari generali ed al Sindaco la tabella degli oneri concessori.
Successivamente il Sindaco, dopo aver inviato altro sollecito al Dirigente del Dipartimento urbanistica a provvedere entro cinque giorni ad adeguare la concessione edilizia al parere dell’Ufficio legislativo ed aver ricevuto, da parte del suddetto Dirigente, ulteriore nota con la quale ribadiva la correttezza della gratuità della concessione, con determinazione n. 37 del 26.09.2012 –qui pure impugnata dalla Società ricorrente– decideva, senza più menzionare la delibera di Giunta, di “avocare il procedimento relativo alla pratica in oggetto, in atto gestito dal Dirigente del Dipartimento Urbanistica Ing. V.O., assegnandolo al Dirigente del Dipartimento 4° Lavori Pubblici Servizi Tecnologici ed Operativi – Servizi Finanziari, Arch. F.M., affinché si proceda ad adeguare la Concessione edilizia n. 76 del 20.10.2006 di cui alla determina dirigenziale n. 1233 del 20.10.2006 a quanto statuito nel parere prot. n. 26133/2011 dell’Ufficio Legislativo e Legale della Regione Siciliana”.
Il Dirigente Arch. F. adottava, dunque, la determina n. 71 del 04.02.2013, pure oggetto del presente giudizio.
3. Rileva la società, col terzo motivo di ricorso, che la competenza del dirigente del Dipartimento LL.PP. a modificare il permesso di costruire rilasciato dal Dirigente del Dipartimento Urbanistica non può trovare fondamento nella determina sindacale n. 37/2012, a sua volta illegittima perché contraria all’art. 51 l. n. 142/1990 e non poggiante su una espressa deroga o previsione ad hoc neppure di tipo regolamentare.
Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato, per un triplice ordine di ragioni.
3.1. È pacifico che il vigente ordinamento delle autonomie locali demanda -in base al criterio di distinzione fra le responsabilità di natura politico amministrativa e quelle di gestione operativa- in via esclusiva ai dirigenti l'adozione di quegli atti gestionali in precedenza riservati agli organi di vertice dell'Ente, cui ora spettano solo i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione del 26.09.2012 il Sindaco non ha posto un obiettivo gestionale (come si legge nelle difese in atti), ma ha di fatto adottato l’atto di gestione: egli non si è, infatti, limitato a dettare un indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad adottare il provvedimento (profilo di cui si dirà a breve), ma ha configurato in modo puntuale il contenuto che il provvedimento riguardante la società ricorrente doveva assumere, avvalendosi di un parere legale da lui stesso richiesto (e peraltro non stringente nella sua formulazione) e facendo ad esso assumere una portata assoluta e vincolante.
3.2. Il Sindaco ha inoltre contestualmente avocato a sé ed affidato ad un dirigente di altro settore ritenuto “dotato di adeguata professionalità”, diverso da quello competente, il compito di dar corso al singolo procedimento sul presupposto che le valutazioni operate dal dirigente competente “si pongono in aperto contrasto con le conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale”.
Tale modus operandi è illegittimo.
Premesso che le attribuzioni dei dirigenti, ai sensi dell’art. 107, comma 4, T.U. n. 267/2000, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative, è di norma il regolamento che disciplina il funzionamento degli organi e degli uffici.
Inoltre, il Sindaco, salvo appunto quanto previsto dall'art. 107, esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti (art. 50, co. 3), tra cui la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi, l’attribuzione e definizione degli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali (co. 10).
L’art. 109 stabilisce per quanto qui interessa che “Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”.
3.3. Dal combinato disposto delle suddette norme discendono gli ulteriori due aspetti di illegittimità di cui si diceva.
Per un verso deve escludersi che l’ordinamento conosca un potere di avocazione di singoli affari in capo al Sindaco o un suo potere di intervento per rimediare ad eventuali atti illegittimi compiuti dai dirigenti preposti agli uffici comunali.
Il principio della separazione tra funzione di gestione, rientrante nei compiti dei dirigenti preposti all'apparato burocratico degli enti, e funzione di indirizzo e di controllo, devoluta agli organi elettivi, esclude, infatti, la sussistenza di un rapporto di tipo gerarchico tra i primi ed i secondi ed esclude altresì l’applicabilità, al di fuori delle amministrazioni dello Stato, della disposizione dettata dall'art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, che conserva un potere sostitutivo sul singolo atto e di annullamento per motivi di legittimità solo all'autorità ministeriale (in termini TAR Napoli, I, 05.05.2006, n. 3967).
Dall’altro, un siffatto intervento non trova avallo neppure nel regolamento comunale che tratta solo l’ipotesi di assenza o impedimento del soggetto titolare, che è diversa da quella verificatasi nella vicenda in esame, stabilendo comunque non già la sostituzione del dirigente assente od impedito con un dirigente di altro settore, ma piuttosto con un dipendente dello stesso dipartimento ed esattamente con un “dipendente incaricato dell’area delle posizioni organizzative operante nel dipartimento ed in mancanza con un dipendente di categoria D (o C nel caso di assenza di dipendenti di categoria D) nell’ambito del medesimo dipartimento, individuato formalmente dal Sindaco, ove non provveda il Dirigente” (art. 25, co. 6, reg.)
Ne discende che in tale quadro normativo e regolamentare (vd. anche co. 8 dell’art. 25) negli enti locali la competenza a provvedere in sede di autotutela va riconosciuta solo allo stesso organo che ha emanato l'atto illegittimo.
Si aggiunga per completezza che appare inconsistente il richiamo, fatto negli atti difensivi del Comune, alla necessità di affidare urgentemente il compito ad altro dirigente per evitare il concretizzarsi di un danno erariale: esso è comunque superato dal fatto che già nel 2007 la Corte dei Conti aveva ritenuto di non contestare alcuna violazione, archiviando il procedimento (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 21.05.2015 n. 1206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria.
La sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale, atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
3. - Il ricorso non è fondato.
3.1. - Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale; atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328, rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi, presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs. n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste dal codice della strada, perché la tutela del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto ai corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis, Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724; sez. 3, 10.04.2013, n. 39796, rv. 257677). E tale giurisprudenza ha ampiamente superato il contrario orientamento isolatamente espresso dalla sentenza sez. 3, 03.05.2006, n. 323, richiamata dalla difesa.
Né può valere ad escludere la sussistenza del reato il riferimento alla deliberazione della giunta della Regione Calabria 22.07.2011, n. 330 (Approvazione elenco opere dichiarate «minori». Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di edifici esistenti). Si tratta infatti, a ben vedere, di una delibera che, per la parte che qui rileva, deve essere ritenuta illegittima, perché crea ex novo la categoria delle "opere minori" che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
E l'illegittimità della deliberazione regionale emerge dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel preambolo si riconosce espressamente che «le norme legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra».
Anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte, deve in ogni caso rilevarsi che tale deliberazione -contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente- non opera una liberalizzazione generalizzata dell'istallazione di strutture di sostegno per pannelli pubblicitari.
Non vi è dubbio che l'art. 2 del provvedimento stabilisca che le opere minori individuate nell'allegato A sono esentate dalla trasmissione del progetto presso gli uffici regionali al fine dell'ottenimento dell'autorizzazione ai sensi delle leggi nazionali e regionali in materia edilizia sismica, e che in tale allegato siano comprese le «strutture di sostegno per dispositivi di illuminazione, segnaletica stradale, pannelli pubblicitari, insegne e simili, isolate e non ancorati agli edifici, e qualora ancorati agli edifici, aventi un peso complessivo uguale o inferiore a 1 KN [...]» (punto 17 dell'allegato A).
Nondimeno, tale esenzione risulta sottoposta a due condizioni. La prima, prevista dal successivo art. 3, è che «la rispondenza della progettazione e della realizzazione delle opere di che trattasi alle norme tecniche in vigore dovrà essere certificata presso l'Ufficio tecnico del Comune interessato, da un tecnico abilitato che dovrà dichiarare, altresì che le stesse sono quelle riportate nel citato elenco A».
 La seconda è fissata dal richiamato punto 17 dell'allegato A, il quale prevede che siano escluse dall'assoggettabilità alle procedure previste in materia edilizia sismica le strutture di sostegno, anche per pannelli pubblicitari, alla condizione che esse siano dotate di certificato e/o brevetto ministeriale. Ne consegue che, anche a prescindere dalla già rilevata illegittimità della deliberazione, la stessa non può avere in nessun caso l'effetto di depenalizzare la condotta del ricorrente, perché la realizzazione di sostegni per pannelli pubblicitari non è libera, ma sottoposta ai regimi di certificazione sopra richiamati. E del resto nel caso di specie il ricorrente non ha neanche prospettato che il sostegno da lui realizzato fosse dotato di certificazione ai sensi dell'art. 3 e di certificato e/o brevetto ministeriale ai sensi dell'art. 17 dell'allegato A alla richiamata deliberazione regionale del 22.07.2011.
In relazione, infine, alle dimensioni del manufatto, va osservato che le stesse sono molto significative, trattandosi di un sostegno di 60 cm di diametro e di un'altezza all'incirca corrispondente a quella di un edificio di due piani; con la conseguenza che le considerazioni svolte dalla difesa circa l'esclusione dei manufatti di piccole dimensioni dall'ambito di applicazione della disciplina antisismica risultano comunque irrilevanti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19185 - tratto da www.lexambiente.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, aprile 2015).

VARI: FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle Entrate, aprile 2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: D. M. Massaini, Al via il “nuovo” Durc on-line: assicurata la regolarità in tempo reale (03.06.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 05.06.2015, "Bando regionale 2015 per l’eliminazione e il superamento delle barriere architettoniche negli edifici privati in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 34-ter della legge 20.02.1989 n. 6 e della deliberazione di Giunta regionale del 13.03.2014 n. X/1506" (decreto D.S. 28.05.2015 n. 4394).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2015, "Approvazione delle «Modalità di gestione della banca dati georeferenziata regionale della rete ciclabile» e delle «Indicazioni operative per la digitalizzazione della rete ciclabile»" (decreto D.S. 26.05.2015 n. 4292).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 01.06.2015 n. 125 "Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC)" (Ministero del Lavoro e delle delle Politiche Sociali, decreto 30.01.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 30.05.2015 n. 124 "Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio" (Legge 27.05.2015 n. 69).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 27.05.2015 n. 121 "Approvazione del modello unico per la realizzazione, la connessione e l’esercizio di piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli edifici" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 19.05.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Articolo 212, comma 8, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, nota 29.05.2015 n. 437 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Classificazione dei residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento, nota 27.05.2015 n. 6038 di prot.).
---------------
Ministero dell’Ambiente: ok all’impiego delle potature del verde urbano a fini energetici se si rispettano i criteri definiti per i sottoprodotti.
A seguito di richiesta di parere inviata da Fiper in data 19.05.2015 per la classificazione delle potature del verde pubblico quale sottoprodotto della gestione del verde (allegato 1), arriva una buona notizia da parte della Direzione Generale dei Rifiuti del Ministero dell’Ambiente che, nella nota U. 6038 del 27.05.2015 inviata alla Federazione (allegato 2), riconosce la possibilità di poter impiegare i residui di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde a fini energetici al di fuori della normativa in materia di rifiuti.
Il Ministero dell’Ambiente specifica che, fermo restando l'esclusione dal campo di applicazione della normativa in materia di rifiuti prevista per i residui di potatura derivanti da attività agricole e reimpiegati in attività agricola o per la produzione di energia, i residui derivanti da attività di manutenzione del verde possono essere qualificati come sottoprodotti a patto che rispettino i 4 requisiti definiti dall’art. 184-bis del Testo Unico Ambientale, che prevede che è un sottoprodotto è non un rifiuto una qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
1) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione di cui costituisce parte integrante, il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
2) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato nel corso della stesso o di un successivo processo di produzione da parte del produttore o di terzi;
3) la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale
4) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute o dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente e sulla salute umana.
Il Ministero specifica inoltre come, con riferimento alla fattispecie, la nozione di residuo produttivo vada intesa nell’accezione più ampia, ricomprendendo anche i residui derivanti dalla manutenzione del verde.
L’operatore di caso in caso deve dimostrare la sussistenza dei 4 requisiti relativi alla definizione di sottoprodotto, altrimenti i materiali derivanti da attività di sfalcio, potatura e manutenzione del territorio dovranno essere qualificati ,a seconda della provenienza, come rifiuti urbani o speciali.
Commenta Righini: "Da quattro anni la Fiper combatte una battaglia sulle potature del verde urbano che fino a ieri sono state considerate un rifiuto e come tali dovevano essere smaltite, con un costo notevole per le amministrazioni comunali. Il chiarimento del Ministero dell’Ambiente significa che questi residui da costo potranno diventare una risorsa; infatti il Comune invece di spendere dai 5 ai 7 euro al quintale di costo di smaltimento potrebbe recuperare 2-3 euro al quintale, nel rispetto dei requisiti definiti per i sottoprodotti, conferendolo alle centrali di teleriscaldamento e producendo calore. La forbice mi sembra notevole" (tratto da www.fiper.it).

TRIBUTI: Oggetto: Tributo per i servizi in divisibili (TASI) - Corretta applicazione dell'imposta sugli immobili di interesse storico ed artistico ubicati nel comune di Verona  - Quesito (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, nota 22.05.2015 n. 16252 di prot.).

ENTI LOCALIOggetto: Veicoli da locare senza conducente alle Polizie Locali e da adibire a servizi di polizia stradale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 22.05.2015 n. 12291 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Quesito assenze gravi patologie (Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ufficio Scolastico Regionale per l’Umbria, nota 21.05.2015 n. 6587 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: regolamento locale di igiene tipo: art. 124 della legge regionale n. 33/2009 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità) - Ulteriori indicazioni (Regione Lombardia, Direzione Generale Salute, nota 14.05.2015 n. 14336 di prot.).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Uffici tecnici senza incentivi per le manutenzioni. Corte dei conti. Le conseguenze applicative del decreto sul pubblico impiego.
I dipendenti degli uffici tecnici dei Comuni e delle altre amministrazioni pubbliche non possono ricevere incentivazioni per lo svolgimento di qualunque attività di manutenzione, sia essa ordinaria sia straordinaria.

In questa direzione vanno le indicazioni dettate dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti dell'Umbria e contenute nel parere 14.05.2015 n. 71. Si afferma quindi una lettura restrittiva e formale delle novità introdotte dalla legge di conversione del Dl 90/2014.
Il parere perviene a questa conclusione sulla base delle seguenti considerazioni. In primo luogo, il dettato letterale della nuova disposizione che esclude la incentivazione delle manutenzioni tout court. Indicazione legislativa che arriva dopo che si era consolidata una lettura per cui potevano essere incentivate le manutenzioni straordinarie a condizione che le stesse non fossero intervenute nel caso di appalti di servizi manutentivi, che vi fosse stata una attività progettuale e che i lavori fossero stati realizzati a seguito di una gara, quindi con esclusione di quelli svolti in economia.
Ed ancora, viene evidenziato che «l'attrazione delle opere di manutenzione straordinaria nell'alveo delle spese di investimento» non costituisce un argomento che possa essere speso in questa direzione, visto che esso ha finalità esclusivamente di tipo contabile e non ha alcuna attinenza con le scelte legislative in esame.
Altro argomento è che l’incentivazione ai tecnici dipendenti dell'ente è finalizzata allo scopo di «valorizzare al massimo le competenze e le professionalità tecniche possedute dal personale dipendente.. e ad evitare di ricorrere .. a professionalità esterne con conseguente aggravio di costi». Elementi che la sezione non ritrova nella incentivazione delle manutenzioni straordinarie.
Il parere evidenzia infine, sulla scorta delle indicazioni dettate dalla sezione Autonomie della magistratura contabile nella
deliberazione 24.03.2015 n. 11, che la decorrenza delle nuove disposizioni è da ritenere fissata nei pagamenti che sono relativi ad attività svolte a partire dallo scorso 19 agosto, cioè dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del Dl 90/2014.
Ne consegue che l’applicazione degli incentivi è guidata dal principio di competenza e non da quello di cassa, che seguirebbe cioè la data dei pagamenti; questo principio si deve applicare anche ai compensi relativi alle manutenzioni straordinarie.
Si deve infine ricordare che, sulla scorta dei principi fissati dalla sentenza della Corte dei Conti della Puglia n. 203 dello scorso 14 aprile la erogazione di questi compensi è subordinata al rispetto delle seguenti due condizioni.
In primo luogo, queste risorse devono essere inserite nel fondo per la contrattazione decentrata, parte variabile, ex articolo 15, comma 1, lettera k), del contratto collettivo nazionale del 01.04.1999, cioè risorse provenienti da specifiche disposizioni di legge. In secondo luogo, esse non possono essere oggetto di una autoliquidazione da parte del dirigente o del responsabile dell'area tecnica, in quanto lo stesso ha un obbligo di astensione, che il recente Dpr n. 62/2013 (il Codice di comportamento) ha rafforzato
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il segretario verbalizza. Compiti fissati dal Testo unico enti locali. Il caso dell'assenza di regolamento sul funzionamento del consiglio.
Qual è la corretta modalità di verbalizzazione delle sedute di consiglio comunale, qualora l'ente non sia dotato di regolamento per il funzionamento del consiglio comunale e lo statuto non rechi indicazioni sulle modalità di verbalizzazione? In tal caso, può ritenersi corretta la proceduta adottata dal segretario comunale, volta a supplire a tale carenza, consistente nella registrazione e trascrizione integrale della discussione e nella pubblicazione della stessa sull'albo pretorio online e sul sito web istituzionale?

L'adozione del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale è riservata, ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, all'autonomia dell'ente. Tale strumento, da adottare nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è necessario per il corretto funzionamento del consiglio, proprio per l'ampia serie di istituti da regolamentare, e per il superamento della disciplina transitoria di cui all'art. 273, comma 6, del citato decreto legislativo.
Nelle more di una disciplina autonoma, il Tar Lazio, I Sez. con sentenza 10.10.1991, n. 1703, ha stabilito che «il verbale, non attiene al procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona con la proclamazione del risultato della votazione, ma assolve ad una funzione di mera certificazione dell'attività dell'organo deliberante». Tale strumento «ha l'onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto «iter» di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l'eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse. D'altra parte deve aggiungersi che il verbale della seduta di un organo collegiale, quale il consiglio comunale, costituisce atto pubblico che fa fede fino a querela di falso dei fatti in esso attestati» (Conforme Consiglio di stato, Sez. IV, 25/07/2001, n. 4074).
Atteso che il presidente del consiglio comunale, in base all'articolo 39 del richiamato Tuoel, ha poteri di convocazione nonché di direzione dei lavori e delle attività del consiglio che potrebbero comportare la possibilità di fornire istruzioni in merito opportunamente condivise dal consiglio comunale, la «cura delle verbalizzazioni» delle sedute del consiglio e della giunta sono riservate, ai sensi dell'art. 97, comma 4, del citato decreto legislativo n. 267/2000, direttamente al segretario comunale (articolo ItaliaOggi del 29.05.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Controfirma delle delibere.
È legittimo il rifiuto, da parte di un consigliere comunale anziano, di controfirmare due deliberazioni consiliari dopo aver regolarmente sottoscritto i relativi verbali delle due sedute consiliari?

L'articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 2 dispone che «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento», mentre il comma 3 prevede che «i consigli sono dotati di autonomia funzionale e organizzativa».
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle deliberazioni, essendo invece prevista, all'art. 124 la sola obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all'albo pretorio. Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni interne di cui l'ente si è dotato, in virtù proprio del rimando di cui all'art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
Nel caso di specie, lo statuto comunale demanda la sottoscrizione del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale, al sindaco ed al consigliere anziano. Tali soggetti sottoscrivono anche le deliberazioni comunali. Il regolamento consiliare, inoltre, ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal presidente, dal consigliere anziano e dal segretario comunale.
Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni; tuttavia, l'obbligo di firma delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano scaturisce proprio dallo statuto comunale che dispone testualmente che le deliberazioni del consiglio comunale sottoscritte dai soggetti tra i quali rientra anche il consigliere anziano.
La sottoscrizione del provvedimento deliberativo, ai fini della pubblicazione, assume una mera funzione certificativa della regolarità formale dell'atto (articolo ItaliaOggi del 29.05.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso a delibere comunali risalenti nel tempo.
L'art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 disciplina il nuovo istituto dell'accesso civico, stabilendo che l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione. L'accesso civico, ha precisato il Consiglio di Stato, non può intendersi riferito agli atti antecedenti all'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, entrato in vigore il 20.04.2013.
L'accesso a delibere comunali risalenti nel tempo va dunque risolto alla luce della disciplina in materia di accesso, quella specifica per gli atti comunali, di cui al D.Lgs. n. 267/2000, e quella generale per i documenti della p.a. di cui alla L. n. 241/1990.
Il coordinamento tra queste due discipline ha dato luogo a diversi orientamenti in seno alla giurisprudenza: a fronte del filone di alcuni TAR nel senso della legittimazione del cittadino dell'ente locale all'accesso agli atti comunali senza dover dimostrare un interesse, si è registrato un ulteriore orientamento nel senso dell'accessibilità a tutta la cittadinanza degli atti delle amministrazioni locali se prevista nei regolamenti dei singoli enti locali, con un'ultima pronuncia del Consiglio di Stato che ha aderito, invece, all'indirizzo che ritiene prevalente la normativa generale di cui alla L. n. 241/1990, in forza della quale è sempre richiesta la dimostrazione dell'interesse e del collegamento tra questo ed il documento richiesto.

Il Comune pone un quesito in relazione alla trasparenza amministrativa, in particolare sull'accessibilità di delibere comunali risalenti nel tempo (ad esempio del 1980), alla luce della normativa vigente (D.Lgs. n. 267/2000
[1]; L. n. 241/1990 [2]; D.Lgs. n. 33/2013 [3]).
Si chiarisce sin da subito che l'ambito di applicazione dell'istituto dell'accesso civico è circoscritto agli atti emanati dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 33/2013
[4] o emanati in precedenza ma ancora operativi al momento dell'entrata in vigore del decreto sulla trasparenza [5]. Per cui, la questione dell'accessibilità delle delibere comunali risalenti nel tempo va risolta alla luce della disciplina in materia di accesso, quella specifica per gli atti comunali di cui al D.Lgs. n. 267/2000 e quella generale per i documenti della pubblica amministrazione di cui alla L. n. 241/1990, coordinate nei termini che si andranno ad analizzare nel corso della trattazione.
Precisato un tanto, si può passare ad un esame più approfondito dell'istituto dell'accesso civico, dell'accesso agli atti delle amministrazioni comunali e di quello ai documenti delle pubbliche amministrazioni.
Ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. n. 33/2013, la trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Gli obblighi di pubblicazione previsti dal decreto hanno ad oggetto una serie di documenti -specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo decreto e concernenti l'organizzazione, nonché diversi specifici campi di attività delle predette amministrazioni
[6]- che devono essere pubblicati tempestivamente sul sito istituzionale dell'amministrazione (art. 8) [7], in un'apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente», al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente (art. 9), cui chiunque può accedere direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione (art. 2). Chiunque ha diritto di conoscere e di fruire gratuitamente di detti atti, in quanto pubblici (art. 3).
In questo contesto, l'art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 disciplina l'innovativo istituto dell'accesso civico, stabilendo che 'l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione' (comma 1).
La norma viene esplicitata dal Consiglio di Stato
[8], il quale chiarisce che, in caso di omessa pubblicazione dei documenti per cui è prevista la pubblicazione obbligatoria, può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013, il cosiddetto 'accesso civico', consistente in una richiesta -che non deve essere motivata- di effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all'obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul processo (D.Lgs. n. 104/2010).
L'accesso civico non può, però -precisa il Consiglio di Stato- intendersi riferito agli atti antecedenti all'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, entrato in vigore il 20.04.2013.
Posizione, questa, da cui non pare discostarsi il Giudice amministrativo di primo grado, che, in una recente pronuncia, ha sì esteso l'applicabilità del decreto sulla trasparenza anche agli atti emanati prima dell'entrata in vigore del decreto medesimo, ma purché dispieghino ancora i loro effetti a quella data
[9].
Alla luce di queste considerazioni della giurisprudenza amministrativa, il quesito dell'Ente istante relativo all'accessibilità di una delibera adottata diversi decenni fa non può dunque essere risolto ai sensi del D.Lgs. n. 33/2013.
Si tratta, allora, di verificare in quali termini possa trovare applicazione la normativa specifica sull'accesso agli atti delle amministrazioni comunali, di cui al D.Lgs. n. 267/2000, tenuto conto della normativa generale sull'accessibilità ai documenti amministrativi, di cui alla L. n. 241/1990.
L'art. 10 del TUEL prevede che tutti gli atti dell'amministrazione comunale sono pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco che ne vieti l'esibizione, per non pregiudicare il diritto di riservatezza delle persone, dei gruppi e delle imprese (comma 1), e demanda alla fonte regolamentare la disciplina delle modalità di esercizio dell'accesso per assicurare ai cittadini, singoli e associati, il diritto di accesso agli atti amministrativi e più in generale alle informazioni di cui è in possesso l'amministrazione, senza prevedere la necessità di una specifica motivazione (comma 2).
Diverso contenuto rivela, invece, la disciplina generale dell'accesso ai documenti amministrativi, contenuta negli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990. In particolare, l'art. 22 prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi, intendendosi per interessati tutti i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso; in funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata
[10].
Il coordinamento tra la disciplina specifica di cui all'art. 10 del TUEL e quella generale di cui alla L. n. 241/1990 ha dato luogo a diversi orientamenti in seno alla giurisprudenza amministrativa e allo stesso Consiglio di Stato, con un ultimo arresto del Supremo Giudice amministrativo che ha aderito all'indirizzo che ritiene prevalente la normativa generale (L. n. 241/1990), in forza della quale è sempre richiesta la dimostrazione dell'interesse e del collegamento tra questo ed il documento richiesto.
In questa sede, si illustrano, pertanto, le diverse posizioni assunte dal Consiglio di Stato e dai TAR, nonché, sul piano della prassi, le interpretazioni fornite dal Ministero dell'Interno e dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi.
Con la pronuncia n. 1772 del 24.03.2011, la sezione V del Consiglio di Stato ha affermato che la disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 10 del TUEL sancisce il principio della pubblicità degli atti delle amministrazioni locali (fatte salve le esclusioni ivi contemplate), senza tuttavia con ciò implicare una diversa configurazione del diritto di accesso e una diversa disciplina delle modalità di esercizio del diritto di accesso, come delineate dalla L. n. 241/1990. Per quanto riguarda i requisiti di accoglimento della domanda di accesso non sussiste dunque alcuna ragione per discostarsi da quelli contenuti nella disciplina generale di cui agli artt. 22 e seguenti della L. n. 241/1990. Ciò vale anche per le norme statutarie e regolamentari che devono conformarsi al principio generale dell'art. 22, L. n. 241/1990
[11].
A fronte di quest'indirizzo giurisprudenziale che subordina comunque l'esercizio del diritto di accesso nell'ordinamento degli enti locali alla dimostrazione di un interesse concreto ed attuale, si registra una diversa pronuncia in seno alla medesima sezione V del Consiglio di Stato, nel senso dell'accessibilità a tutta la cittadinanza degli atti delle amministrazioni locali, se prevista nei regolamenti dei singoli enti locali.
Specificamente, sempre la Sezione V del Consiglio di Stato ha affermato che il rapporto tra le discipline recate rispettivamente dall'art. 10 del TUEL e dalle norme sul diritto di accesso contenute nella L. n. 241/1990 va posto in termini di coordinazione, con la conseguenza che le disposizioni della legge 241 penetrano all'interno degli ordinamenti degli enti locali in tutte le ipotesi in cui nella disciplina di settore non si rinvengano appositi precetti che regolino la materia con carattere di specialità. In particolare, l'art. 10 del TUEL ha introdotto una disposizione per gli enti locali che si pone semplicemente in termini integrativi rispetto a quella, di contenuto generale, di cui all'art. 22, L. n. 241/1990
[12]. Pertanto, in caso di mancata emanazione del regolamento previsto dall'art. 10 del TUEL, non si può ritenere operante il principio di generalizzata accessibilità agli atti dell'ente locale [13].
Su questa linea si è espresso altresì il Ministero dell'Interno, secondo cui la specifica norma sull'accesso agli atti degli enti locali, di cui all'art. 10 del TUEL, non è soggetta alle limitazioni previste dalla L. n. 241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica amministrazione. Di qui il diritto di accesso a tutti i documenti dell'amministrazione non classificati come 'segreti' o contenenti dati sensibili, che possono essere consegnati ai richiedenti sulla base e con le modalità dettate dalle specifiche norme regolamentari di cui gli enti sono tenuti a dotarsi
[14].
La dottrina
[15] osserva come l'orientamento giurisprudenziale, nel senso dell'accessibilità a tutta la cittadinanza degli atti delle amministrazioni locali se prevista nei regolamenti dei singoli enti, sia aderente a quanto consentito dalla normativa generale in materia di accesso agli atti della p.a., circa la possibilità per gli enti locali di prevedere livelli ulteriori di tutela in tema di accesso alla documentazione amministrativa rispetto ai livelli essenziali di tutela garantiti dagli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 (art. 29, comma 2, L. n. 241/1990; art. 14, comma 2, D.P.R. n. 184/2006 [16]).
Si segnala infine che sull'accesso agli atti delle amministrazioni comunali si è più volte espressa anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, secondo la quale ai sensi dell'art. 10, D.Lgs. n. 267/2000, qualora l'istante risieda nel territorio del Comune, si deve ritenere che possa accedere a tutti i documenti dell'ente locale, 'senza essere condizionato alla titolarità in capo al soggetto accedente di una situazione giuridica differenziata né alla necessità di motivare la sua istanza con riferimento ad uno specifico interesse all'accesso, atteso che l'esercizio di tale diritto è equiparabile all'attivazione di un'azione popolare finalizzata ad una più efficace e diretta partecipazione del cittadino all'attività amministrativa dell'ente locale e alla realizzazione di un più immanente controllo sulla legalità dell'azione amministrativa'
[17].
---------------
[1] D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, recante: 'Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali'.
[2] L. 07.08.1990, n. 241, recante: 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'.
[3] D.Lgs. n. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013, n. 5515, di cui si dirà nel prosieguo.
[5] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.11.2014, n. 5671, di cui si dirà nel prosieguo.
[6] In particolare, sul piano degli obblighi di pubblicazione, il decreto distingue tra informazioni che riguardano: l'organizzazione e l'attività della p.a. (capo II), l'uso delle risorse pubbliche (capo III), le prestazioni offerte e i servizi erogati (capo IV), i settori speciali quali i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e la pianificazione urbanistica (capo V).
[7] Un aspetto innovativo della normativa in esame sta nel fatto che l'accessibilità alle informazioni per cui è prevista la pubblicazione obbligatoria deve essere garantita attraverso l'utilizzo del web: l'amministrazione deve infatti pubblicare le informazioni in questione sul proprio sito internet oppure creare un link apposito al sito sul quale siano presenti le informazioni (cfr. in dottrina, Riccardo Bianchini, L'accesso civico riguarda anche atti vigenti all'entrata in vigore della norma, nota di commento a TAR Campania, Napoli, sez. V, 05.11.2014, n. 5671).
[8] Consiglio di Stato, n. 5515/2013, cit..
[9] TAR Campania, n. 5671/2014, cit., il quale precisa che in tal caso, per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione, di cui al D.Lgs. n. 33/2013, potranno operare cumulativamente tanto il diritto di accesso classico' ex L. n. 241/1990, quanto il diritto di accesso civico ex D.Lgs. n. 33/2013, mentre, per gli atti non rientranti in tali obblighi di pubblicazione, opererà esclusivamente il solo diritto di accesso procedimentale classico' di cui alla L. n. 241/1990.
[10] Consiglio di Stato, n. 5515/2013, cit..
[11] La Sezione V del Consiglio di Stato conferma nel 2011 quanto già rilevato dalla medesima Sezione nelle pronunce n. 7773 del 29.11.2004, n. 1412 del 18.03.2004, e n. 6879 del 20.10.2004.
Di avviso contrario rispetto a questo orientamento del Consiglio di Stato, si pongono alcune pronunce dei Giudici amministrativi di primo grado, le quali riconoscono che al cittadino dell'ente locale è attribuita una posizione più ampia, che non richiede la dimostrazione dell'interesse. Cfr. in questo senso, TAR Lecce, sez. II, 12.04.2005, n. 2067, che espressamente afferma di discostarsi dal filone suesposto; TAR Ancona, 12.10.2001, n. 1133; TAR Ancona, sez. I, 03.04.2006, n 101; TAR Milano, sez. I, 30.06.2004, n. 2708.
[12] Consiglio di Stato, sez. V, 08.09.2003, n. 5034.
[13] TAR Milano, sez. II, 22.07.2004, n. 3174, che richiama TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 14.06.2003, n. 1009.
[14] Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e territoriali, parere del 22.07.2014.
[15] Cfr. Alberto Zucchetti, L'accesso ai documenti: limiti, procedimento, responsabilità: aggiornato con il regolamento sull'accesso (d.p.r. 12.04.2006, n. 184), Giuffrè, Milano, 2006, p. 144 e segg.. L'autore muove in tal senso dalla lettura combinata dell'art. 10 del TUEL e dell'art. 22, comma 1, L. n. 241/1990, che nel testo previgente prevedeva che 'Resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela'. La previsione sui livelli ulteriori di tutela in materia di diritto di accesso è ora contenuta, a seguito della novella recata dalla L. n. 69/2009, nell'art. 29, comma 2-quater, L. n. 241/1990.
La combinazione dell'art. 10 del TUEL richiamato -che nel suo tenore letterale incardina nella sola qualità di cittadino la legittimazione all'accesso agli atti delle amministrazioni comunali, senza dover dimostrare uno specifico interesse, demandando al regolamento comunale la disciplina dell'esercizio di accesso- e della previsione dei livelli ulteriori di tutela, riconoscibili dalle autonomie locali nell'ambito della loro potestà normativa, tende a configurare -rileva l'autore- il regolamento locale in materia di diritto di accesso quale disciplina speciale applicabile al di là (in questo, precisamente, il contenuto del 'livello ulteriore') di quanto statuito in via generale negli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990.
[16] D.P.R. 12.04.2006, n. 184, recante: 'Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi'.
[17] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, seduta del 27.09.2011. Conformi: seduta del 10.05.2011; seduta del 15.03.2011; seduta del 07.07.2011; seduta del 17.01.2013.
Si osserva che quella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha ritenuto che anche per gli atti delle amministrazioni locali valga la norma secondo cui il diritto di accesso è riconosciuto unicamente a chi vanti un interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, ha nel contempo affermato che non convince la tesi (adombrata in quelle sedi dalle parti appellanti) di un diritto di accesso agli atti degli enti locali libero per i soli residenti, in quanto non sarebbe in linea con la fondamentale direttiva costituzionale sull'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (cfr. Consiglio di Stato, n. 7773/2004, e n. 6879/2004, citt.)
(15.05.2015 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

TRIBUTI: Tasse locali, tempo di acconti. Imu e Tasi al 16 giugno. Sulla Tari decidono i comuni. Un vademecum per orientarsi tra i pagamenti delle imposte sulla casa nel 2015.
Contribuenti alla cassa per il pagamento degli acconti Imu, Tasi e Tari. Mentre per i primi due tributi il termine ultimo per versare gli acconti è quello classico del prossimo 16 giugno, per la tassa rifiuti le scadenze per il pagamento sono fissate dai comuni.
L'acconto Imu dovrà essere versato da tutti i contribuenti titolari di fabbricati, aree edificabili e terreni, ad eccezione degli immobili adibiti a abitazione principale, sono tenuti invece a pagare la Tasi solo coloro che possiedono fabbricati e aree edificabili.
Per entrambi i tributi l'acconto va calcolato sulla base delle aliquote e delle detrazioni deliberate dai comuni per i dodici mesi dell'anno precedente. Quindi va versato il 50% di quanto pagato nel 2014. Fermo restando che i contribuenti possono effettuare i pagamenti in un'unica soluzione se già conoscono le deliberazioni adottate dalle amministrazioni comunali.
Imu. Il primo appuntamento con l'imposta municipale, al solito, è confermato per il 16 giugno. Non devono versare l'imposta i titolari di immobili destinati a prima casa e equiparati per i quali è prevista l'esenzione. Dall'esenzione sono esclusi gli immobili classificati nelle categorie catastali A1, A8 e A9 (immobili di lusso, ville e castelli). Questi fabbricati fruiscono comunque di un trattamento agevolato, perché deve essere applicata un'aliquota ridotta (dal 2 al 6 per mille), deliberata dal comune, e una detrazione di 200 euro.
I soggetti obbligati al pagamento dovranno mettere mano al portafoglio e versare il 50% dell'imposta calcolata in base a aliquote e detrazioni adottate nel 2014. I comuni, infatti, hanno tempo fino al prossimo 30 luglio per approvare bilanci preventivi, regolamenti e delibere. Il resto dovrà essere pagato entro il 16 dicembre, a conguaglio di quanto dovuto per l'intero anno facendo riferimento a aliquote e detrazioni deliberate per il 2015.
Tasi. Sono obbligati al pagamento della Tasi sia proprietari che inquilini. L'articolo 1, commi 671 e 681, della legge di Stabilità 2014 (147/2013) individua come distinti soggetti passivi possessori e detentori degli immobili. Il titolare dell'immobile, a titolo di proprietà, usufrutto, uso e via dicendo, non è tenuto a pagare la quota che il comune pone a carico del detentore, nel caso in cui quest'ultimo non versi l'imposta dovuta. Solo in caso di occupazione temporanea, non superiore a 6 mesi, è obbligato al versamento del tributo colui che risulti possessore dell'immobile.
L'imposta sui servizi comunali indivisibili si paga solo sui fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione i terreni. La base imponibile è la stessa dell'Imu Va ricordato che i comuni non sono tenuti a inviare ai contribuenti i modelli di pagamento Tasi precompilati. L'imposta sui servizi, come l'Imu, deve essere versata in autoliquidazione e spetta al contribuente fare i calcoli e pagare quanto dovuto. In effetti, la legge non prevede l'obbligo di invio dei modelli precompilati.
Il bollettino va predisposto su richiesta dell'interessato, ma non c'è un obbligo di invio generalizzato. Le amministrazioni locali devono garantire ai contribuenti un servizio di assistenza compilando, su richiesta, i bollettini di pagamento.
Acconti Tari. Per la tassa rifiuti i comuni possono richiedere il pagamento degli acconti in attesa dell'approvazione del bilancio di previsione, delle delibere tariffarie e dei regolamenti. Nulla osta, dunque, all'invio degli avvisi di pagamento degli acconti della tassa rifiuti anche se i comuni non hanno ancora approvato i regolamenti e determinato le tariffe.
Il tributo può essere calcolato sulle tariffe del 2014. Nonostante non vi sia una norma ad hoc che attribuisca questo potere, i comuni hanno il potere di determinare gli acconti Tari calcolando gli importi in base a quanto pagato dai contribuenti l'anno precedente. In questo senso, tra l'altro, si è espresso il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia con la nota 5648/2014.
Secondo il dipartimento delle finanze non serve un'apposita disposizione legislativa per riscuotere gli acconti Tari. Del resto, il comma 688 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) attribuisce ai comuni la piena facoltà di prevedere liberamente le scadenze, con l'unico limite di garantire un numero minimo di due rate semestrali.
Modalità di pagamento. Il pagamento di Imu e Tasi può essere effettuato con il modello F24 o tramite apposito bollettino di conto corrente postale, secondo le regole stabilite dall'articolo 17 del decreto legislativo 241/1997. Quindi, le somme versate dai contribuenti vengono incassate dalla «Struttura di gestione» e riversate all'ente interessato. Gli stessi canali di pagamento possono essere utilizzati per la Tari.
Per la Tari, inoltre, è possibile pagare tramite i servizi elettronici di incasso e interbancari. La legge, però, impone che Tasi e Tari devono essere versate in momenti diversi, fermo restando che gli interessati hanno la facoltà di pagare in un'unica soluzione entro il 16 giugno, qualora siano già a conoscenza delle deliberazioni adottate dall'ente.
---------------
Imponibile a metà per fabbricati di interesse storico-artistico. Tributo sui servizi indivisibili/ Le finanze rispondono al comune di Verona.
Anche ai fini Tasi, i fabbricati di interesse storico e artistico possono usufruire della riduzione al 50% del valore imponibile prevista per l'Imu.

Lo chiarisce il Dipartimento delle finanze (nota 22.05.2015 n. 16252 di prot.) rispondendo a un quesito posto dall'Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili di Verona, che ha sollevato la questione dopo che il comune aveva negato l'estensione del beneficio dall'ambito dell'imposta municipale a quello del tributo sui servizi indivisibili.
Come ricordano le Finanze, la disciplina di riferimento è contenuta nel comma 675 della l 147/2013. Tale norma dispone che la base imponibile Tasi è «quella prevista per l'applicazione» dell'Imu. In virtù di tale richiamo, è applicabile alla Tasi anche l'art. 13, comma 3, del dl 201/2011, il quale prevede il dimezzamento della base imponibile per i suddetti immobili.
La stessa tesi, del resto, era stata sostenuta anche nelle Faq pubblicate dallo stesso Dipartimento (Faq n. 8 del 04.06.2014). Del medesimo tenore è la stessa disciplina regolamentare adottata dal comune scaligero, che richiama per la Tasi le stesse regole di determinazione della base imponibile previste per l'Imu, ivi compreso lo sconto per gli immobili di pregio. Soddisfazione è stata espressa dai commercialisti veronesi e dal presidente Alberto Mion. Ai fini dell'identificazione degli immobili di interesse storico-artistico, rileva la classificazione di cui all'art. 10 del dlgs 42/2004.
La medesima agevolazione spetta anche ai fabbricati inagibili/inabitabili, sempre che tale condizione sia stata accertata dall'ufficio tecnico comunale o dichiarata dal contribuente mediante autocertificazione e purché risultino di fatto non utilizzati. Se un fabbricato inagibile/inabitabile è anche di interesse storico-artistico l'agevolazione si applica una volta sola, per cui la riduzione della base imponibile è sempre del 50% (e non del 25%) (articolo ItaliaOggi del 04.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Da luglio cambia l'Ape. Si passa da 7 a 10 classi di spreco energetico. Nuovo attestato di prestazione energetica degli edifici. Pronte le linee guida.
Sono in dirittura d'arrivo le linee guida nazionali che dovranno ridefinire l'Ape, ovvero l'attestato di prestazione energetica che viene utilizzato per determinare l'efficientamento degli immobili.

Le nuove linee guida sostituiranno quelle per la certificazione energetica emanate con il dm 26.06.2009. Le classi energetiche con la nuova Ape passeranno da sette a dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore). Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica degli edifici.
Per fornire un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente.
Inoltre verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione ai non tecnici. La nuova Ape nazionale, entrerà in vigore il primo giorno di luglio del 2015 e verrà applicato alle regioni e province autonome che non abbiano ancora provveduto a recepire la direttiva 2010/31/Ue.

Queste le novità contenute nella bozza definitiva di decreto contenente le linee guida nazionali per l'attestazione della prestazione energetica degli edifici (si veda ItaliaOggi del 31.03.2015) redatte dal ministero dello sviluppo economico e inviate alle regioni alla fine di maggio. Per la piena operatività bisogna attendere ancora tre passaggi: il via libera della conferenza unificata, la registrazione alla corte dei conti e la pubblicazione in gazzetta ufficiale. Di seguito le novità più importanti.
Attestato unico. Introduzione di un attestato unico semplificato riguardante tutto il territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea per la classificazione delle prestazioni energetiche. Le regioni dovranno adeguarsi entro due anni. Con predisposizione di un sistema informativo comune per tutto il Paese, dal nome Siape, dove saranno raccolti tutti i dati relativi agli attestati di prestazione energetica affinché le regioni possano effettuare gli opportuni controlli.
Contenuti attestato. Per ciò che concerne i contenuti, il nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica globale sia in termini di energia primaria totale che di energia primaria non rinnovabile. Andranno specificati gli interventi da realizzare sull'edificio distinguendo tra interventi di ristrutturazione edilizia ed interventi di riqualificazione energetica.
La classe energetica dovrà poi essere determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale, espresso in energia primaria non rinnovabile. L'attestato dovrà contenere i consumi energetici non solo per il riscaldamento invernale ma altresì per le attività di raffrescamento estivo, oltre a riportare le emissioni di anidride carbonica e l'energia esportata.
Schema annuncio. Definito uno schema di annuncio di vendita e locazione per uniformare le informazioni riguardanti la qualità energetica degli edifici riportando anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente (articolo ItaliaOggi del 04.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc, con irregolarità stand by di un mese. Procedura online. Il sistema blocca eventuali interrogazioni.
Uno dei punti critici del nuovo Durc online che debutterà il 1° luglio è costituito dalla gestione di eventuali casi di irregolarità vera o presunta delle aziende che potrebbero determinare dei danni alle stesse (si vedano gli articoli pubblicati ieri su «Il Sole 24 Ore»).
Il decreto interministeriale attuativo del 30.01.2015, pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» del 1° giugno, prevede che, nel caso in cui la regolarità contributiva non sia attestabile, il sistema –tramite Pec– invierà un preavviso di irregolarità al soggetto in questione (o all’intermediario delegato) invitando lo stesso a regolarizzare le proprie scoperture entro 15 giorni dalla notifica dell’invito. In questa situazione, eventuali ulteriori interrogazioni del sistema saranno “congelate”, per un periodo non superiore a 30 giorni dalla data dell’interrogazione che ha originato il blocco.
Se la regolarizzazione non avviene, l’esito negativo viene comunicato a chi ha effettuato l’interrogazione, con indicazione degli importi oggetto dell’irregolarità.
Il decreto, confermando in larga parte l’impianto vigente, precisa che la regolarità è comunque rilasciata in presenza di queste ipotesi: rateizzazioni concesse dagli enti coinvolti ovvero dagli agenti della riscossione; sospensione dei pagamenti in forza di disposizioni legislative ovvero sospensione della cartella di pagamento o dell’avviso di addebito a seguito di ricorso giudiziario; crediti in fase amministrava oggetto di compensazione (purché verificati); crediti in fase amministrativa in pendenza di contenzioso amministrativo o giudiziale, rispettivamente fino alla decisione che respinge il ricorso o fino al passaggio in giudicato della sentenza.
Inoltre non genera l’irregolarità lo scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate (nella misura massima di 150 euro, compresi eventuali accessori di legge, con riferimento a ciascuna gestione).
Da notare come l’articolo 5 del decreto abbia recepito l’orientamento di prassi secondo il quale il Durc -nelle ipotesi di concordato preventivo con continuità dell’attività aziendale- debba essere rilasciato già a partire dalla pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese, se il piano contempla l’integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali contratti prima dell’attivazione della procedura concorsuale. In queste fattispecie l’impresa dovrà comunque essere regolare con riferimento agli obblighi contributivi correnti.
Infine merita segnalare come resti confermato l’obbligo in capo all’interessato di autocertificare alla Dtl l’inesistenza a proprio carico di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali definitivi in ordine alla commissioni delle violazioni indicate all’allegato A del decreto attuativo stesso.
Se la verifica di regolarità ha esito positivo, in tempo reale viene generato un documento in formato “pdf” non modificabile recante i dati identificativi del soggetto, l’iscrizione all’Inps, all’Inail e alla Cassa edile (ove prevista), la dichiarazione di regolarità, il numero identificativo, la data di effettuazione della verifica e la scadenza del Durc (che viene fissata, in via universale, in 120 giorni)
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2015).

APPALTI: Mini-enti, acquisti liberi. Sotto 40 mila euro niente centralizzazione. Lo prevede la bozza di dl ormai in dirittura in consiglio dei ministri.
Mano libera ai piccoli comuni sugli acquisti per importi inferiori a 40.000 euro. C'è anche questo nel menù del decreto «enti locali», che dovrebbe essere emanato nei prossimi giorni dal consiglio del ministri, dopo una lunga e tribolata gestazione.

Nelle ultime bozze del provvedimento, infatti, è stato inserito un correttivo all'art. 23-ter del dl 90/2014. Tale disposizione ha riscritto la tempistica attuativa dell'art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006), il quale, a sua volta, impone ai comuni non capoluogo di provincia di avvalersi per i propri acquisti di una centrale unica di committenza da istituire all'interno delle unioni o mediante accordo consortile, ovvero di un soggetto aggregatore ovvero ancora delle province. In alternativa, gli stessi comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore di riferimento.
Tale obbligo, più volte rinviato, dovrebbe scattare dal prossimo 1° settembre, sia per i servizi e le forniture, che per i lavori. Esso, inoltre, è rafforzato dal divieto imposto all'Anac di rilasciare il Codice identificativo gara (Cig) ai comuni inadempienti, di fatto bloccando le gare «fuori legge». L'unica deroga al momento prevista riguarda gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40.000 euro, per i quali è consentito di procedere autonomamente, ma ai soli comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti. Ebbene, il dl in arrivo dovrebbe cancellare questa limitazione demografica, estendendo la deroga anche ai comuni di minori dimensioni.
In origine, l'obbligo di centralizzare gli acquisti era imposto ai soli comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. Ma era sorto il dubbio se permanesse in capo al comune la competenza per lavori, servizi e forniture realizzati mediante acquisizioni in economia (art. 125 del codice dei contratti), cioè mediante cottimo fiduciario o amministrazione diretta, trattandosi di procedure che non richiedono il previo esperimento di una «gara» tra potenziali aggiudicatori.
Alcune sezioni regionali della Corte dei conti (Piemonte, parere n. 271/2012, Lombardia, parere n. 165/2013) avevano escluso l'obbligo di avvalersi della centrale unica sia per l'amministrazione diretta che per il cottimo fiduciario semplificato, ammesso solo per importi inferiori a 40.000 euro. Tale orientamento era stato infine recepito dalla l. 147/2013, ma le modifiche successive lo hanno limitato ai soli comuni medio-grandi.
Ora tale possibilità potrebbe essere nuovamente concessa ai mini-enti, come da chiesto richiesto dalle relative associazioni rappresentative e sollecitato anche da numerosi esponenti politici, preoccupati di una possibile espulsione dal mercato dei piccoli fornitori (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti assimilati agli urbani. L'impresa nell'albo gestori.
Obbligo di iscrizione all'albo gestori ambientali per l'impresa che intende trasportare nei centri di raccolta i rifiuti speciali assimilati a quelli urbani prodotti dalla propria attività. L'art. 212, 8 comma, del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152, non opera alcuna distinzione tra i rifiuti speciali e i rifiuti speciali assimilati ai rifiuti urbani e non prevede deroghe all'obbligo di iscrizione all'albo gestori ambientali per il trasporto di questi ultimi effettuato dal produttore iniziale.

Queste le istruzioni contenute nella nota 29.05.2015 n. 437 di prot. dell'albo nazionale gestori ambientali.
L'iscrizione all'albo nazionale dei gestori ambientali è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto dei rifiuti e costituisce titolo per l'esercizio di tali attività (art. 210, commi 5 e 6, dlgs n. 152 del 2006). La sospensione dell'iscrizione comporta il venir meno, per tutto il periodo della durata, dell'efficacia del titolo necessario per poter esercitare le attività per le quali l'impresa è stata iscritta.
Sicché lo svolgimento «medio tempore» dell'attività (in questo caso) di trasporto di rifiuti deve ritenersi effettuato in mancanza di autorizzazione, dovendosi aver riguardo, a tal fine, non alla mancanza fisica dell'iscrizione, bensì agli effetti autorizzatori connessi all'iscrizione, sospesi (e dunque mancanti) per tutta la durata del relativo provvedimento.
La procedura di iscrizione ordinaria riguarda i soggetti di cui all'articolo 212, comma 5, del dlgs 152/2006. Parliamo di imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi.
La procedura prevede la presentazione della domanda d'iscrizione alla sezione regionale o provinciale nel cui territorio è sita la sede legale dell'impresa (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Durc online pronto al debutto. Dal 1° luglio verifica in tempo reale della regolarità. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che fissa le nuove regole di rilascio e validità.
Conto alla rovescia per il Durc online. A partire dal 1° luglio si potrà verificare in tempo reale se un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i contributi e gli adempimenti nei confronti dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili (quest'ultima soltanto per le aziende dell'edilizia), inserendo semplicemente il codice fiscale del soggetto da controllare nella procedura online. In caso d'esito positivo, viene emesso un documento in formato «pdf» non modificabile: è il nuovo Durc che ha validità di 120 giorni (anche per i lavori privati dell'edilizia).

A fissare le nuove regole è il dm 30 gennaio pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 di ieri, che entrerà in vigore tra 30 giorni.
Verifiche online. La verifica della regolarità contributiva, stabilisce il decreto, si potrà fare online, in tempo reale, nei confronti dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi per i quali è richiesto il possesso del Documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Praticamente, la verifica si farà accedendo ad un'unica procedura online (tra Inps, Inail e casse edile), indicando soltanto il codice fiscale del soggetto da controllare. L'accesso alla verifica (ed eventualmente al Durc se già formato) sarà possibile tramite gli appositi link presenti nei siti internet degli istituti interessati (Inps, Inail e casse edili).
Il Durc online. Se la verifica dà come esito la regolarità contributiva del soggetto controllato, la procedura telematica genera un documento in formato «pdf» non modificabile, con i seguenti contenuti minimi:
a) la denominazione o ragione sociale, la sede legale e il codice fiscale del soggetto verificato;
b) l'iscrizione all'Inps, all'Inail e, ove previsto, alle casse edili;
c) la dichiarazione di regolarità;
d) il numero identificativo, la data d'effettuazione della verifica e quella di scadenza di validità del documento.
Validità di 120 giorni. Il decreto stabilisce che il nuovo Durc ha validità di 120 giorni dalla data di effettuazione della verifica, senza precisazioni circa l'ambito di applicazione. In tal modo, perciò, deve intendersi superata la distinzione oggi esistente: la validità è per tutte le finalità di utilizzo del Durc, inclusi i lavori privati dell'edilizia per i quali oggi è di 90 giorni.
I requisiti di regolarità. La verifica della regolarità in tempo reale, stabilisce ancora il decreto, riguarda i pagamenti dovuti dall'impresa in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, nonché i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui è fatta la verifica, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni casi, poi, è previsto che la regolarità sussista comunque anche in presenza di parziali scoperture (tra l'altro in presenza di rateizzazioni concesse dall'Inps, dall'Inail o dalle casse edili ovvero dagli agenti di riscossione; sospensione dei pagamenti disposti dalla legge ecc.).
Infine, la regolarità sussiste in presenza di uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale e a ciascuna cassa edile, ossia se il predetto scostamento risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro inclusi gli eventuali accessori di legge (articolo ItaliaOggi del 02.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Visite per gravi patologie senza la trattenuta Brunetta.
Le assenze per visite specialistiche collegate alla cura di gravi patologie non sono soggette alla «trattenuta Brunetta». E non rientrano nemmeno nel periodo di comporto.

Lo ha spiegato l'ufficio scolastico regionale per l'Umbria con la nota 21.05.2015 n. 6587 di prot..
La nota vincola solo le istituzioni scolastiche umbre. Ma si tratta comunque di un parere autorevole, che può essere utile agli addetti ai lavori su tutto il territorio nazionale.
Di recente, peraltro, il Tar ha annullato la circolare della funzione pubblica che poneva restrizioni alla fruizione delle assenze per malattia in caso di visite specialistiche (si veda Italia Oggi del 12.05.2015). E il ministero dell'istruzione si è conformato alle direttive dei giudici amministrativi con una nota emanata il 6 maggio scorso (7457).
Il Miur ha ricordato, inoltre, che la normativa generale che regola l'equiparazione delle assenze per viste specialistiche ad assenze per malattia prevede un aggravamento degli oneri di giustificazione: non basta un mero certificato medico, ma è necessaria anche l'attestazione dello specialista.
L'amministrazione centrale, però, non ha affrontato il delicato nodo delle assenze per viste specialistiche collegate alle gravi patologie. Una materia per la quale l'ordinamento prevede un regime di particolari tutele. Tant'è che le assenze, in questo caso, non solo non sono soggette alla trattenuta introdotta dal decreto Brunetta, ma non rientrano nemmeno nel calcolo del periodo di comporto, cioè nel numero massimo di assenze per malattia, superato il quale, è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro.
L'intervento interpretativo dell'ufficio scolastico dell'Umbria riempie questo vuoto. Facendo riferimento all'articolo 17, comma 9, del vigente contratto di lavoro, la direzione regionale ha spiegato che: «Considerato che il suddetto articolo parla di conseguenze certificate delle terapie, in detta dizione deve farsi rientrare qualsiasi effetto derivante dalle stesse, facendosi ricomprendere anche le eventuali visite specialistiche che si ritengano necessarie ai fini della corretta effettuazione della terapia» (articolo ItaliaOggi del 02.06.2015).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIn Gazzetta il Dm per il Durc online.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta ieri, del decreto del ministero del Lavoro 30.01.2015, è confermata l’entrata in vigore il 1° luglio del Durc online.

L’atteso passaggio dall’attuale versione a quella evoluta era stato annunciato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, nel corso di una conferenza stampa il 21 maggio (si veda il Sole 24 Ore del 22 maggio).
Il documento unico di regolarità contributiva è stato previsto dal decreto legge 34/2014 e il relativo decreto ministeriale di attuazione (quello pubblicato ieri) avrebbe dovuto essere emanato entro il 20 maggio dell’anno scorso.
La nuova procedura, come sottolineato dal ministero del Lavoro, comporterà vantaggi in termini di tempo e di costi. Attualmente per ottenere un documento unico di regolarità contributiva un’impresa in regola può dover attendere anche un mese. In futuro, invece, la certificazione sarà emessa in tempo reale a meno che si riscontrino delle irregolarità. In tal caso le posizioni da sanare saranno comunicate all’azienda interessata entro 72 ore.
Sempre il ministero ha calcolato che con la nuova procedura le pubbliche amministrazioni risparmieranno oltre 80 milioni di euro all’anno, importo determinato dal costo di 16 euro per un’ora di lavoro di un dipendente moltiplicato per i 5,2 milioni di Durc rilasciati ogni anno. Sul fronte delle imprese, invece, il risparmio è stato stimato in oltre 25 milioni di euro.
Altra conseguenza positiva del Durc online è costituita dal fatto che mentre oggi è la singola azienda che deve richiedere il certificato e presentarlo poi al soggetto che lo richiede, in futuro potrà essere quest’ultimo a ottenerlo direttamente. La messa a punto del Durc online ha reso necessario aggiornare e mettere in comunicazione le banche dati di Inps, Inail e Casse edili (per le imprese che operano nell’edilizia).
Un processo non semplice, anche perché finora, spesso, le informazioni in possesso degli istituti non erano aggiornate e quindi poteva accadere che un’azienda, per sbaglio, risultasse irregolare
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Per le dipendenti della Pa scalino di sei anni. Oltre la riforma Fornero. L’incremento dei minimi per accedere alla pensione è conseguenza di diversi provvedimenti adottati dal 2004 in poi.
Le più penalizzate sono le lavoratrici del pubblico impiego, per le quali l’età minima necessaria per il pensionamento, tra il 2010 e il 2015, è aumentata di sei anni. Il passaggio dalla pensione di anzianità a quella anticipata, invece, ha comportato un incremento, tra il 2007 e il 2012, di sette anni di contributi e cinque di età (per non subire penalizzazioni economiche). Le modifiche minori riguardano l’assegno di vecchiaia per gli uomini, dipendenti o autonomi, il cui requisito anagrafico negli ultimi quindici anni è salito solo di 15 mesi.
Sono questi gli effetti principali, in termini di requisiti minimi, delle riforme previdenziali effettuate negli ultimi undici anni, in cui si contano quelle a firma Maroni (2004), Prodi (2007), il decreto legge 78/2009, la “manovra estiva Sacconi” del 2010 e quella del 2011. Già, perché anche se buona parte dei lavoratori oggi maledice la riforma Monti-Fornero di fine 2011, l’intervento sui requisiti è stato effettuato in più anni con provvedimenti successivi.
Di certo la più recente revisione straordinaria ha stravolto il futuro di una platea di lavoratori non indifferente. Il superamento della pensione di anzianità (a quel tempo raggiungibile con 60 anni di età, 35 di contributi e una quota di 96) e l’istituzione della pensione anticipata (42 o 41 anni di contributi più un mese) ha significato per molti attendere l’età prevista per il conseguimento della pensione di vecchiaia.
Salvo i casi di coloro che hanno iniziato a lavorare stabilmente prima dei 24 anni, o che dopo la laurea hanno trovato immediatamente un impiego, la pensione anticipata rischia di essere posticipata rispetto alla vecchiaia e quindi un traguardo impossibile da raggiungere. Il differimento maggiore lo hanno pagato i lavoratori e le lavoratrici nate nel 1952 che, anziché accedere alla pensione nel 2012, rischiano di arrivare al traguardo non prima del 2018.
Il salto verso l’alto del requisito anagrafico che ha penalizzato le dipendenti del pubblico impiego, invece, dipende più dalla riforma del 2010 che dalla Monti-Fornero. Fino al 2009 per queste lavoratrici erano sufficienti 60 anni. Nell’estate di sei anni fa, però, il requisito venne portato a 65 anni. Di conseguenza le donne nate nel 1961, con ameno 20 anni di contributi, hanno avuto l’illusione, fino al 2010, di poter accedere nel 2013 alla vecchiaia, ma così non sarà: infatti per effetto di quella manovra e della Monti-Fornero ora dovranno attendere il 2017-2018, quando avranno il minimo di 66 anni e 7 mesi.
All’estremo opposto, pochi cambiamenti riguardano la pensione di vecchiaia ordinaria per gli uomini, anche se, sul piano concreto, la penalizzazione si verifica perché non c’è più la pensione di anzianità (salvo che per alcune categorie) che in origine richiedeva solo 57 anni di età e 35 di contributi per poi salire a 60 e 35 nel 2011. Preso atto di ciò, i minimi della vecchiaia sono passati dai 65 anni di età con 20 di contributi del 2001 agli attuali 66 anni e 3 mesi.
In prospettiva, invece, saranno le dipendenti del settore privato a dover fare i conti con l’incremento più consistente dei requisiti. A seguito dell’adeguamento alla speranza di vita che si applicherà nel triennio 2016-2018 (+4 mesi), ma anche di quanto già previsto dalle manovre estive del 2010 e del 2011, il minimo per il trattamento di vecchiaia passerà dai 63 anni e 9 mesi attuali ai 66 e 7 mesi del 2018. Uno scalino di 34 mesi che non ha uguali per le altre categorie di lavoratori: per le autonome sarà di 22 mesi, per le dipendenti del pubblico impiego (che, come visto, “hanno già dato”) e per tutti gli uomini sarà di 4 mesi.
Il 2018 sarà l’anno dell’equiparazione dei requisiti per la vecchiaia di tutte le categorie. Salvo ulteriori interventi, dal 2019 ogni due anni, si applicherà solo l’adeguamento alla speranza di vita
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015).

CONDOMINIOI rischi del neo-condòmino. Chi acquista deve controllare il regolamento e gli eventuali debiti pregressi.
Compravendita. Nelle regole interne può essere previsto che la solidarietà con il venditore si estenda oltre i due anni.

Chi subentra in uno stabile come nuovo condòmino dovrebbe seguire, per evitare spiacevoli sorprese sempre possibili, alcune regole fondamentali.
Innanzitutto, l’accertamento dell’eventuale presenza di norme del regolamento di condominio che potrebbero penalizzarlo o limitarlo nei suoi diritti soggettivi, ma anche l’eventuale “eredità” che il suo venditore potrebbe lasciargli a causa del mancato pagamento di oneri condominiali.
Meglio poi che il nuovo condòmino abbia ben chiaro, qualora vi siano lavori straordinari (magari anche molto ingenti) in corso, quali spese toccheranno a lui e quali al suo dante causa.
Il regolamento
La prima cosa da fare per il neo condòmino sarà pertanto farsi dare copia del regolamento, per poi chiarire se si tratti o meno di un regolamento contrattuale: in questo secondo caso farà bene a consultarlo con attenzione, dato che potrebbero esservi regole a lui opponibili (una volta che lo accetti divenendo a sua volta condòmino), per esempio su determinate attività commerciali che non si possono svolgere in condominio, o che vietino (cosa ancora possibile se decisa dall’unanimità dei condomini, nonostante la legge 220/2012 abbia introdotto una nuova norma sul punto a favore degli amanti degli animali) di detenere animali in condominio.
Il subentrante particolarmente attento, inoltre, dovrebbe cercare di capire, magari con l’aiuto dell’amministratore dato che non sempre si tratta di cosa così scontata, se alcuni parti dello stabile siano di natura condominiale o appartengono in via esclusiva ad alcuni condòmini. Il principio cardine per distinguere fra parti private e parti comuni, è quello dell’utilizzo che ne viene fatto o da un solo condòmino (e in questo caso si tratterà di proprietà esclusiva), o (anche solo ipoteticamente) da più o addirittura da tutti i condomini.
A questo tipo di situazione dovrà fare particolarmente caso chi acquisti un vano abitativo con annesso sottotetto, dato che spesso si tratta di spazi condominiali di difficile attribuzione. Il criterio, in sostanza, se l’articolo 1117 del Codice civile o il regolamento di condomino non siano chiari sul punto, è verificare se la parte contesa sia al servizio (anche solo virtuale) o meno di un unico condomino.
I debiti
L'articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile prevedono che «chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento di contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente».
Come minimo, pertanto, il condòmino dovrà accertare quali somme relative alle spese condominiali del biennio predetto siano state eventualmente tralasciate dal venditore: per fare ciò gli dovrebbe essere sufficiente interpellare l’amministratore o farsi consegnare i vari rendiconti.
È possibile, tuttavia, che il condominio abbia deciso di tutelarsi (cosa riconosciuta valida da parte di diversi tribunali) inserendo nel proprio regolamento una norma che imponga al condòmino entrante di farsi carico, anche se in solido con il venditore, di tutti i debiti lasciati (e quindi non solo quelli del biennio) dal predecessore: cosa che può essere pericolosa specialmente per chi abbia acquistato, magari anche tramite assegnazione da una esecuzione immobiliare, un immobile per una cifra divenuta immediatamente non congrua data la pesante eredità di debiti lasciata dal suo predecessore, di cui dovrà necessariamente farsi carico e che non recupererà mai.
Spese straordinarie
Per quanto riguarda le spese straordinarie, infine, la Cassazione ha chiarito che, in base alla natura “accertativa” delle delibere assembleari, queste divengono esigibili non quando l’assemblea abbia genericamente dichiarato che un dato lavoro dovrà essere eseguito, ma quando successivamente con una nuova delibera si darà effettivamente incarico ad una ditta di procedere in tal senso. Chi compra, pertanto, dovrà -anche da questo punto di vista con accortezza- consultare almeno le ultime delibere, onde evitare di dover a breve trovarsi a far fronte a spese straordinarie anche ingenti.
È sicuramente sintomo di professionalità che l’amministratore che accolga il neo condòmino gli fornisca i dati importanti del condominio, quali: la presenza di norme regolamentari sulle parti private, la situazione debitoria del venditore, la previsione a breve o meno di lavori straordinari già deliberati o da deliberare, l’esistenza di eventuali cause.
 
---------------
LE AVVERTENZE
01 NEL REGOLAMENTO
Il regolamento di condominio è da consultare con attenzione: potrebbe contenere norme relative alle parti private o ai diritti soggettivi, ad esempio, vietando lo svolgimento di attività commerciali in condominio o la presenza di animali domestici
02 VECCHI DEBITI
Altro aspetto fondamentale è la verifica dei debiti del condòmino che vende: chi subentra per legge è responsabile in solido dei debiti condominiali lasciati dal suo predecessore relativi all’anno in corso e a quello precedente.
È tuttavia possibile che il regolamento condominiale ampli tali termini prevedendo che il nuovo condòmino risponda in generale del mancato pagamento delle spese condominiali da parte del suo predecessore senza limiti di tempo
03 LAVORI IMPREVISTI
Sul rischio di trovare spese straordinarie di cui non si conosceva l’esistenza, occorrerà consultare almeno le ultime delibere assembleari per verificare se è previsto lo svolgimento di spese o interventi straordinari sul condominio.
Tali spese divengono esigibili non in seguito ad una delibera generica che le approvi, ma solo quando viene effettivamente designata la ditta e dato incarico dall’assemblea all'amministratore di concludere il contratto
04 L'AMMINISTRATORE
È sicuramente sintomo di professionalità che l’amministratore che accolga il neo condòmino gli fornisca i dati importanti del condominio, quali: la presenza di norme regolamentari sulle parti private, la situazione debitoria del venditore, la previsione a breve o meno di lavori straordinari già deliberati o da deliberare, l’esistenza di eventuali cause (articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, imprese sul chi va là. Dall'1/6 nuovi obblighi (e rischi) per chi gestisce gli scarti. Le regole Ue di classificazione impongono maggiore allerta per controlli e sanzioni.
Dal 01.06.2015 detentori e gestori di rifiuti sono chiamati a osservare le nuove regole di matrice comunitaria sulla classificazione dei rifiuti, con la necessità di effettuare un controllo anche su documentazione di tracciamento ed autorizzazioni ambientali già in essere al fine di non incorrere nelle relative sanzioni.
Il tutto nell'ottica che già dal precedente 29.05.2015, in virtù dell'entrata in vigore della nuova legge 68/2015 sugli eco-delitti, inquinamento e disastro ambientale provocati in dispregio delle norme di settore potrà costare la reclusione fino a 20 anni.
La nuova classificazione dei rifiuti. Dal 1° giugno i rifiuti devono essere riclassificati in base alle norme previste a monte dalla decisione 2014/995/Ue e dal regolamento n. 1357/2014, provvedimenti direttamente applicabili sul territorio nazionale e recanti rispettivamente il neo Elenco europeo dei rifiuti ed i rinnovati criteri di attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai residui.
Al fine di allineare alle nuove prescrizioni Ue le norme interne, il Minambiente ha tuttavia previsto un decreto correttivo delle analoghe disposizioni contenute rispettivamente negli allegati D e I al Titolo I della Parte IV del dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale).
Nel rinnovato Elenco dei rifiuti previsto dalla decisione 2014/995/Ue (di modifica della precedente decisione 2000/532/Ce) fanno il loro esordio le nuove voci «010310*» (fanghi da attività estrattive), «160307*» e «190308*» (mercurio) e la riformulazione di quelle rubricate come «010309» e «190304*».
Le nuove regole sull'attribuzione delle caratteristiche di pericolo ai rifiuti recate dal regolamento Ue n. 1357/2014 prevedono invece la riformulazione delle relative classi generali (che passano da «H» ad «Hp»), la revisione di alcune categorie e valori limite, la rimodulazione degli specifici criteri per l'attribuzione delle caratteristiche di rischio.
L'inosservanza delle nuove norme farà scattare le sanzioni previste dall'articolo 258 del dlgs 152/2006 (che punisce le inesatte o false informazioni sulla natura dei rifiuti attestate nei documenti di tracciamento) ed, eventualmente, quelle ex articolo 256 dello stesso Codice ambientale (sull'attività di gestione di rifiuti non autorizzata, ove integrata).
Un upgrade è già stato in anticipo predisposto per le operazioni da effettuare in ambiente Sistri: sebbene le infrazioni delle regole previste dal nuovo sistema di tracciamento telematico sui rifiuti siano sanzionabili solo dal 01.01.2016, già dallo scorso 25 maggio il sistema informatico è stato aggiornato per permettere la riclassificazione dei residui che risultano essere registrati «in giacenza» dallo stesso software.
I nuovi delitti ambientali. Ad aumentare la criticità delle nuove regole sulla classificazione dei rifiuti è, come accennato, l'efficacia dallo scorso 29 maggio delle nuove norme in materia di «Delitti contro l'ambiente» previste dalla legge 22.05.2015, n. 68, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 del 28 maggio ed entrata in vigore il giorno successivo.
La nuova legge 68/2015 introduce infatti direttamente nel Codice penale le nuove fattispecie di inquinamento ambientale, morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico o abbandono di materiale altamente radioattivo, omessa bonifica ed impedimento di controlli.
E a integrare, in particolare, la condotta dei nuovi delitti di inquinamento e disastro sarà, nella logica del rinnovato Codice penale (che li persegue sia a titolo di dolo che di colpa), la compromissione dell'eco-sistema provocata «abusivamente», dunque proprio in mancanza o in dispregio delle autorizzazioni ambientali necessarie ad operare, anche nel campo della gestione dei rifiuti.
---------------
Autorizzazioni necessarie anche per avviare un oggetto a recupero.
Integra gli estremi del «disfarsi» di un oggetto, che diventa di conseguenza giuridicamente un «rifiuto», non solo l'azione puramente dismissiva del bene ma anche l'intenzione di avviarlo ad un processo di recupero o smaltimento. Con la conseguenza che qualora la seconda delle due condotte non sia accompagnata, anche nelle fasi (come il suo trasporto o la sua commercializzazione) che precedono il trattamento cui il residuo è destinato da specifica autorizzazione ambientale il relativo autore commette il reato di gestione illecita di rifiuti.
A ricordare l'ampiezza del concetto del «disfarsi» previsto dal dlgs 152/2006 (e, dunque, quella del reato di gestione illecita di rifiuti) è la recente sentenza 15.04.2015 n. 15447 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
Il caso. La questione sottesa alla pronuncia del giudice di legittimità riguarda il trasporto tramite bagaglio personale di scarti di lavorazione odontoiatrica e protesi dentarie da parte di un passeggero di un aereo di linea nazionale, trasporto risultante da un controllo effettuato nell'aeroporto di destinazione privo di documentazione che ne giustificasse detenzione e movimentazione ai sensi del Codice ambientale.
Contestato al trasportatore, risultante esercente attività d'impresa connessa al commercio dei materiali in parola, il reato di gestione illecita di rifiuti ex articolo 256, comma 1, del dlgs 152/2006, la relativa difesa eccepiva l'illegittima applicazione al caso di specie della disciplina propria dei rifiuti, sia per l'avere gli oggetti in parola un valore economico, sia per la conseguente mancanza di una volontà di disfarsene, essendo gli stessi (ritirati presso studi dentistici e odontoiatrici) destinati invece ad essere reimmessi sul mercato.
La pronuncia della Corte. La Cassazione rigetta entrambe le eccezioni difensorie, ritenendo invece gli oggetti in parola rientranti nel novero dei rifiuti, con conseguente applicazione del relativo regime. Sotto il primo punto di vista, secondo il giudice non vale a escluderne la natura di rifiuti il solo fatto che gli scarti abbiano utilità dal punto del mercato poiché la stessa norma incriminatrice ex articolo 256, comma 1, del dlgs 152/2006 sanziona penalmente (oltre a raccolta, trasporto, recupero e smaltimento) anche il commercio di rifiuti effettuato in mancanza della prescritta autorizzazione.
Quanto alla natura di rifiuto degli stessi oggetti, il giudice ne individua la sussistenza sia sotto l'aspetto oggettivo che quello soggettivo. Detti scarti, ricorda la Cassazione, sono oggettivamente collocati tra i rifiuti derivanti da attività sanitaria ai sensi degli articoli 184, comma 3, lettera h), e 227 del Codice ambientale, come poi specificati (per espresso richiamo effettuatone dallo stesso dlgs 152/2006) nell'allegato I del dpr 254/2003 (rifiuti da gabinetti dentistici e interventi odontotecnici).
Sotto il profilo soggettivo, appare suggerire lo stesso giudice, la stessa volontà di reimmissione sul mercato degli stessi oggetti per via del valore dei metalli nobili in essi contenuti è foriera di quella del loro necessario trattamento (vera e propria attività di gestione dei rifiuti) finalizzato ad estrarne le parti preziose, non essendo essi riutilizzabili tal quali (cosa che ne esclude anche l'inquadramento tra i sottoprodotti).
È sotto questa ottica, ossia della prospettiva della destinazione a successivo trattamento, che deve evidentemente ritenersi integrata la volontà del «disfarsi» perno attorno al quale ruota la nozione di rifiuto ex articolo 183, comma 1, lettera a), dello stesso Codice ambientale), volontà (come sottolinea la sentenza) riconducibile fin all'originario detentore/produttore dei residui che poi ha provveduto a consegnarli all'imputato (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti pericolosi, registri con doppio binario. Ambiente. Da domani le nuove regole: come gestire la fase transitoria.
Scattano, domani, lunedì 01.06.2015, le nuove regole previste dalla Ue per la classificazione dei rifiuti. Si tratta della Decisione 955/2014/Ce che modifica l’elenco europeo dei rifiuti e la sua introduzione e del Regolamento (Ue) 1357/2014 che contiene le nuove indicazioni europee per attribuire ai rifiuti le caratteristiche di pericolo; inoltre, vengono sostituite le precedenti caratteristiche da H1 a H15 con le nuove da HP1 a HP15, acronimo di “Hazardous Properties”. Quindi, da domani gli allegati D e I alla parte IV del Codice ambientale saranno sostituiti da queste norme comunitarie (si veda Il Sole 24 Ore del 23 maggio).
A differenza di quanto previsto dalla legge 116/2014, per l’attribuzione della pericolosità, ora la norma si concentra sulla ricerca delle “sostanze pericolose pertinenti” e non più sul punitivo e inutile parametro dei “composti peggiori” (ad esclusione dell’HP 9 – infettivo che ha riferimenti diversi). Se un rifiuto figura nel nuovo Elenco europeo come pericoloso “assoluto” (quindi, senza “voci specchio”, cioè rifiuti a volte pericolosi e a volte no) vanno comunque verificate le caratteristiche concrete di pericolo.
Era atteso un Dm che, pur non recependo le regole comunitarie direttamente applicabili, sostituisse formalmente gli allegati D e I alla parte quarta del Codice ambientale con le nuove norme. Ma lo schema di Dm prevedeva qualcosa in più e il Consiglio di Stato, con parere n. 1480 del 14 maggio, ha corretto la rotta. I giudici di Palazzo Spada hanno ricordato la natura ricognitiva e non innovativa del Dm. Infatti, dopo la legge 116/2014, che ha “rilegificato” la materia, il Governo non ha più il potere di modificare con Dm gli allegati al Codice ambientale. Pertanto, l’HP 14–ecotossico va attribuita in base all’allegato VI alla direttiva 67/548/Cee e non in base alle norme Adr come lo schema di decreto prefigurava.
La direttiva 67/548/Cee sarà abrogata da domani ma il regolamento (Ue) 1342/2014 fa un rinvio statico al suo allegato VI; quindi, l’abrogazione della direttiva non incide su tale allegato. Il nuovo metodo di ricerca dell’HP 14 rappresenta la principale ragione di una possibile trasformazione di alcuni rifiuti in pericolosi.
Di qui, alcuni problemi pratici. Ad esempio, autorizzazioni non in linea con la nuova classificazione. Si ritiene che, in attesa dell’aggiornamento, come consigliato anche da Confindustria nella sua nota di aggiornamento del 28 maggio, sarà opportuno mantenere un “doppio binario” di H e HP per rendere evidente la corretta gestione. Ancora, rifiuti prodotti o gestiti prima di domani e caricati sui registri con le vecchie H.
Si ritiene che se pericolosi assoluti, oppure “voce specchio” che resta pericolosa, sul registro sarà opportuno annotare anche le nuove HP. Per la “voce specchio” diventata pericolosa, saranno annotati il nuovo Cer e la nuova HP e il rifiuto sarà gestito da soggetti autorizzati per i pericolosi. Lo stesso, con le debite differenze, se la “voce specchio” diventa non pericolosa. L’annotazione della nuova HP sarà salvifica anche per i formulari che accompagnano i rifiuti prodotti prima di domani ma gestiti dopo tale data.
L’annotazione sarà fondamentale anche se è partito un rifiuto pericoloso che diventa non pericoloso. Il doppio binario H-HP non potrà essere usato per il Sistri perché il sistema accetta solo le HP
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIALa classificazione dei rifiuti verso la soluzione.
Forse sta per arrivare a soluzione il problema, tutto italiano, della classificazione dei rifiuti. Quelle poche righe, contenute in extremis nella legge 116/2014, che ha convertito il ddl Competitività e introdotto la nuova classificazione, hanno creato, negli ultimi tre mesi, difficoltà e costi aggiuntivi per le imprese.

La nuova disciplina, infatti, che ha modificato la precedente ha previsto un percorso complesso, e costoso. In che modo? I rifiuti possono essere pericolosi, non pericolosi, «a specchio», vale a dire «pericolosi» o «non pericolosi» a seconda dei casi. In passato, i rifiuti «a specchio» erano analizzati, una volta per tutte, dall'impresa e poi classificati secondo tale valutazione anche in seguito. La legge 106/2014, invece, ha imposto che queste analisi vengano effettuate sempre, caso per caso, con un investimento pesante di tempo e denaro.
È il caso dei trucioli di falegname, che sono pericolosi solo se contengono vernici, ma anche dei calcinacci delle imprese edili o delle bombolette di shampoo dei parrucchieri. Complessivamente, più di 200 mila imprese coinvolte di cui, almeno 150 mila piccole imprese sotto i dieci dipendenti.
Che cosa sta succedendo in queste settimane? Molte imprese hanno deciso di definire «pericolosi» rifiuti che in realtà potrebbero non essere tali, pur di evitare le complicazioni delle analisi, ma accollandosi però un costo consistente. Nel frattempo, numerosi trasportatori, non attrezzati a movimentare rifiuti pericolosi, stanno perdendo i clienti. E molte discariche cominciano a mandare indietro questi rifiuti pericolosi, perché stanno rapidamente raggiungendo i limiti di carico.
In seguito alle segnalazioni delle associazioni di impresa, e grazie anche alle novità che arrivano dall'Europa, sembra che il ministero dell'ambiente si sia reso conto dei problemi e stia provvedendo a risolverli. Tutto ciò è accaduto, è utile ricordarlo, mentre l'Unione europea stava riscrivendo le regole in materia di rifiuti. In particolare sono cambiati i criteri relativi alle caratteristiche di pericolo dei rifiuti, ed è stato modificato l'elenco europeo dei rifiuti. Queste novità saranno direttamente esecutive a partire da lunedì 1° giugno e non contemplano la procedura di classificazione introdotta in Italia.
Che succederà, concretamente, nei prossimi giorni? Appena le regole Ue saranno in vigore dovrebbero, di fatto, essere superati i problemi emersi in questi mesi. Nel frattempo, è opportuno che il Testo unico ambientale si adegui a queste novità, in modo da fugare ogni dubbio nell'applicazione delle norme, rendendo coerente il quadro normativo nazionale con quello europeo (articolo ItaliaOggi del 30.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIADebuttano i nuovi «ecoreati». Ingresso nel Codice per cinque fattispecie - Termini di prescrizione più lunghi.
Diritto penale. Ieri la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» della legge con le disposizioni che sono in vigore già da oggi.

In vigore da oggi le nuove norme sui reati ambientali. È di ieri, infatti, l’approdo in Gazzetta (Gu 122) della legge 68/2015 che interviene sugli ecoreati. La norma introduce nel codice penale cinque nuovi delitti e allunga i termini di prescrizione per perseguire i delitti con meno affanno, aumenta le pene ma concede la possibilità di “pentirsi”: con il ravvedimento operoso è assicurato lo sconto di pena dalla metà a due terzi. Nel testo anche l’aggravante mafiosa e la confisca preventiva.
Nel nuovo titolo del Codice penale «delitti contro l’ambiente» fanno ingresso: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale radioattivo,impedimento di controllo e omessa bonifica. La norma, inasprisce le sanzioni e coinvolge nella responsabilità anche la persona giuridica per i reati commessi nel suo interesse.
Il delitto di inquinamento ambientale è punito con la reclusione da due a sei anni e con multe che vanno da 10mila a 100mila euro, ma il suo perfezionamento richiede una duplice condizione : l’esistenza di un danno ambientale e di una condotta abusiva. Le aggravanti scattano se ad essere danneggiata è un’area protetta o l’azione ha causato il ferimento o la morte di persone.
L’elemento dell’abusivismo è presente anche nel disastro ambientale, che può costare fino a 15 anni di reclusione. Per parlare di disastro ambientale è necessario che si verifichino, alternativamente, alcune condizioni che riguardano un’alterazione senza ritorno dell’equilibrio dell’ecosistema, la possibilità di eliminare le conseguenze solo con mezzi particolarmente onerosi e provvedimenti eccezionali e un’offesa all’incolumità pubblica rilevante per il numero di persone coinvolte.
Il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo è punito con la reclusione da due a sei anni, con relative aggravanti in caso di danni all’ambiente o alle persone.
Si paga con il carcere, da sei mesi a tre anni, il tentativo di depistare o compromettere le indagini mettendo off-limit i luoghi oggetto di controllo. La legge 68 prevede anche l’invocata aggravante dell’associazione mafiosa per i sodalizi dediti al “business ambientale”, mentre ancora un inasprimento di pena è previsto per i pubblici ufficiali che entrano nel “giro”. Via libera alla confisca, compresa quella per equivalente, applicata anche al traffico illecito di rifiuti. Una misura però esclusa se l’imputato mette i luoghi in sicurezza o li ripristina. Possibile anche la confisca preventiva sui valori ingiustificati rispetto al reddito, in caso di disastro ambientale , traffico di rifiuti e associazione a delinquere.
Con il ravvedimento operoso, attraverso lo sconto di pena, si punta a ottenere la collaborazione per evitare che i reati producano conseguenze ulteriori o per scoprire i colpevoli. Niente sconto ma pena accessoria del divieto di contrattare con la Pa nelle ipotesi di inquinamento ambientale, disastro, traffico di materiale radiaottivo, impedito controllo e traffico illecito di rifiuti.
Mano più pesante anche sulla prescrizione che si allunga in maniera direttamente proporzionale alla gravità del reato. Per la responsabilità degli enti ci sono le sanzioni pecuniarie tarate sulle quote fino a un massimo di 1000 per l’associazione mafiosa. La norma entra in vigore proprio in vista della scadenza del 2 giugno, termine entro il quale la Commissione Europea chiede alle regioni di scoprire le carte sugli interventi fatti per mettersi in regola con le discariche.
L’Italia era stata condannata dalla Corte di Giustizia (C-333/13 e C-196/13 ) a pagare una sanzione forfettaria di 40 milioni di euro e 42,8 per ogni semestre di ritardo nell’adeguarsi alla sentenza del 2007.
----------------
INTERVENTO - I delitti scivolano sull’indeterminatezza.
Entra oggi in vigore, col fragore di molti applausi e col sibilo di qualche fischio, un nuovo sistema sanzionatorio in materia ambientale. Cerchiamo qui di dare qualche flash sui nuovi principali delitti inseriti nel Codice penale: inquinamento e disastro.
Il primo punisce chi abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili di acqua, aria o di porzioni estese o significative di suolo o sottosuolo, nonché di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora e della fauna. Il secondo sanziona chi, abusivamente, cagiona un disastro ambientale costituito, in via alternativa, dall’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema irreversibile, oppure la cui eliminazione sia particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, oppure ancora dall’offesa alla pubblica incolumità quando si tratti di un fatto rilevante per l’estensione degli effetti lesivi o per il numero di persone offese o esposte al pericolo.
Tali delitti, in forza della previsione dell'articolo 452-quinquies, sono puniti pure a titolo colposo.
Un primo elemento comune a entrambi è il termine «abusivamente» che qualifica la condotta. Il significato del riferimento non è di facile individuazione. A prima lettura sembrerebbe limitare la rilevanza penale ai fatti commessi senza o contro una autorizzazione. Inoltre, la presenza dell’avverbio crea ulteriori interrogativi: sembra arduo, in presenza della violazione di un’autorizzazione, formulare una contestazione in forma colposa.
I due nuovi delitti soffrono altresì di scarsa determinatezza, caratteristica non secondaria per un reato che dovrebbe avere nella precisione dei contorni un requisito irrinunciabile.
Nell’inquinamento, le parole «compromissione» e «deterioramento», non essendo termini tecnici, risultano assai poco denotativi. Chi può dire quando davvero insorge una compromissione o un deterioramento? L’una e l’altro, poi, debbono essere significativi e misurabili. E se la nozione di «significativo» non aiuta a colmare il vuoto di precisione già segnalato, il riferimento al secondo aggettivo lascia quasi sbalorditi. Non sembrano esistere compromissioni e deterioramenti non misurabili. Certo, a meno di non voler ritenere che con ciò il legislatore abbia inteso escludere dalla punizione i fenomeni incommensurabili.
Se i reati in esame fossero compresi in una disciplina complementare il legislatore forse avrebbe previsto delle definizioni, ma trattandosi di normativa codicistica, si precipita nell’indeterminatezza.
Il delitto di disastro, poi, oltre ad avere analoghi problemi di genericità, prevede una definizione del fenomeno i cui presupposti paiono non c’entrare con il fatto, come ad esempio l’onerosità della eliminazione delle conseguenze o il coinvolgimento di un elevato numero di persone.
I delitti colposi suscitano anch’essi qualche diffidenza. Oltre alla difficoltà di contestare in tale forma una condotta qualificata come abusiva, il comma 2 dell’articolo 452-quinquies prevede una disposizione la cui logica sfugge. Se dalla commissione dei fatti di inquinamento e disastro deriva il pericolo di inquinamento e disastro le pene sono ulteriormente diminuite. Come, da un fatto di inquinamento o disastro, possa derivare un pericolo di quello stesso e già cagionato inquinamento o disastro, è circostanza oscura.
In conclusione: che dovessero essere inseriti nel Codice delitti di danno e di pericolo concreto gli studiosi da anni lo sostengono e di recente l’Europa l’ha imposto. Il risultato, però, minato da eccessi di legislazione simbolica, lascia scettici. Almeno quanto la dichiarazione del ministro che ha ipotizzato di effettuare un “tagliando” alla normativa.
Fa piacere sapere l'ovvio -il legisl atore è pronto a modificare una normativa che non faccia buona prova di sé- dispiace però avere la certezza che sia stato licenziato un testo con la riserva mentale di una revisione a breve
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2015).

APPALTIA rischio incostituzionalità i limiti di pagine ai ricorsi.
Appalti. Direttiva del Consiglio di Stato sulle dimensioni degli atti per gli appalti.

Massimo 30 pagine, senza barare: questo è il limite di lunghezza per i ricorsi in materia di appalti deciso dal Consiglio di Stato con il decreto 25.05.2015 n. 40, di prossima pubblicazione in «Gazzetta» ufficiale. Dal mese successivo a tale pubblicazione, per scrivere fino a 50 pagine dovrà ottenere un nulla-osta dall’organo giudicante, ad esempio per cause su opere strategiche, o di valore superiori a 50 milioni.
La finalità è quella di snellire tempi e procedimenti, e si collega alla possibilità di redigere sentenze brevi, di decidere quali motivi esaminare, dando precedenza ai motivi immediatamente esaminabili. Le pagine, sono anche definite con specifiche grafiche (corpi e caratteri, interlinee e margini), mentre nulla si dice sull’uso del fronte retro (che pure ridurrebbe pesi e consumi).
Il riordino grafico già riguardava i provvedimenti amministrativi, che possono limitarsi ad allegare (senza trascriverli) altri provvedimenti (articolo 3, legge 241/1990); nei bandi di gara sono possibili limiti alle descrizioni dei beni e servizi offerti (ad esempio cinque pagine) mentre misure di contenimento sono operanti in Corte di Cassazione (20 pagine più un riassunto di 3 pagine) e nella giustizia delle Corti europee. Alcuni di questi limiti sono connessi all’uso della telematica, (ma il limite equivale in pdf a molte centinaia di pagine).
L’articolo 40 del decreto legge 90/2014, che consente di imporre limiti quantitativi, sottolinea che il giudice è tenuto ad esaminare le questioni trattate nelle pagine consentite, e qualora manchi tale esame è possibile impugnare la sentenza. Da ciò si desume che tutto ciò che è scritto nelle pagine eccedenti può essere trascurato dal giudice senza possibilità di appello. Una sanzione del genere è stata ritenuta legittima nelle offerte in gare di appalto (Consiglio di Stato n. 2745/2012) ma solo per garantire l’eguale trattamento per tutti i concorrenti, mentre nel caso della difesa giudiziale non vi è antagonismo tra giudice e parti litiganti.
Se quindi le esigenze di speditezza fanno condividere il limite posto dalla direttiva del Consiglio di Stato, la sanzione dell’omessa considerazione delle pagine eccedenti suscita rilevanti dubbi di costituzionalità. La difesa in giudizio è garantita dall’articolo 24 della Costituzione, e già la sentenza 345/1987 della Corte costituzionale ha esaminato un caso analogo, sul divieto di nominare più consulenti nel processo penale.
Nell’attesa di una verifica di costituzionalità, gli studi cercano di correre ai ripari togliendo dai ricorsi tutto ciò che è diversamente documentabile: massime di giurisprudenza, descrizioni tecniche, fotografie, relazioni giurate diventeranno elementi esterni al ricorso e quindi non soggetti al limite di lunghezza. Stesso incremento avranno i link (ammessi da Tar Cagliari 91/2012) e i rinvii a Google maps o siti qualificati (Tar Catanzaro 443/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIADa oggi cinque nuovi ecoreati. Pugno duro, dal disastro ambientale all'omessa bonifica. Pubblicata ieri in Gazzetta Ufficiale la legge 68/2015 che entra subito in vigore.
Da oggi nel nostro ordinamento entrano (di diritto) cinque nuovi ecoreati: con la pubblicazione in G.U. n. 122 del 28/05/2015 della legge 68/2015 sarà possibile punire chi commette disastro ambientale, inquinamento ambientale, traffico e abbandono di materiale radioattivo, impedimento del controllo e omessa bonifica.
Il provvedimento, varato definitivamente dal senato pochi giorni fa (ItaliaOggi del 20/05/2015), prevede reclusione e multe severe, stabilendo per il disastro ambientale da 5 a 15 anni di carcere, per l'inquinamento da 2 a 6 anni (con multa da 10 mila a 100 mila euro); per entrambe le fattispecie si introducono inasprimenti, in caso dalle azioni commesse derivino lesioni personali, o la morte.
Laddove, poi, i reati di inquinamento e di disastro ambientale vengano commessi per colpa, anziché dolo, le pene vengono ridotte da un terzo a due terzi, mentre il traffico e il rilascio nei terreni di materiale ad alta radioattività cagionerà da 2 a 6 anni di carcere; e impedire i controlli di luoghi avvelenati costerà da 6 mesi a 3 anni.
Il Parlamento ha introdotto, inoltre, lo «sconto» per chi mette in sicurezza le zone inquinate: mediante il cosiddetto «ravvedimento operoso», infatti, scatterà il beneficio della riduzione da un terzo alla metà della pena, e di un terzo per chi collaborerà con la magistratura, o con le forze di polizia «nella ricostruzione del fatto, nell'individuazione degli autori, o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
E, ancora, la norma ha disposto delle aggravanti, qualora nella contaminazione del territorio abbiano avuto un ruolo le organizzazioni mafiose, delle cui indagini dovrà esser avvisato il procuratore nazionale Antimafia, nonché le Entrate (articolo ItaliaOggi del 29.05.201).

ENTI LOCALI: Targhe fai-da-te per i vigili. È meglio immatricolare il mezzo per uso generico. Indicazioni contenute in una circolare delle Infrastrutture del 22 maggio scorso.
La polizia locale può scegliere di immatricolare un veicolo per uso speciale di polizia stradale anche senza applicare sul mezzo la nuova targa personalizzata per i vigili. Nella sostanza cambia poco a parte l'applicazione del nuovo fregio e la necessità della patente di servizio.
Meglio allora immatricolare il mezzo per uso generico di polizia locale che comprende anche l'attività generica di controllo stradale.

Lo ha evidenziato implicitamente il Ministero dei Trasporti con la nota 22.05.2015 n. 12291 di prot..
L'identità funzionale della polizia municipale è poco chiara e questo si riflette anche nella disciplina corrente della gestione dei trasporti. Con la riforma della patente a punti sono stati infatti introdotti nell'ordinamento sia la patente di servizio che le targhe speciali dedicate alla polizia locale ma le finalità di questi istituti sono stati traditi dalla pratica operativa.
Per quanto riguarda l'immatricolazione dei veicoli della pm in particolare, la circolare è molto chiara. I mezzi dei vigili possono essere immatricolati per uso polizia locale oppure per impiego esclusivo di polizia stradale, con o senza il rilascio della speciale targa di polizia. In buona sostanza i comandi di polizia municipale a parere del ministero dei trasporti non hanno l'obbligo di avvalersi dello speciale sistema di targatura «essendo rimesso al loro insindacabile apprezzamento se richiedere il rilascio di targhe pl o targhe nazionali».
Nel caso di un veicolo da adibire esclusivamente a compiti di polizia locale non sussistono i presupposti per il rilascio delle nuove targhe speciali, prosegue la circolare. In ipotesi di un mezzo da attrezzare solo per controlli di polizia stradale spetterà al comando scegliere se applicare sul veicolo le targhe normali o le targhe speciali con le insegne di polizia.
Ma in questo caso la conduzione del mezzo potrà essere riservata solo ai conducenti in divisa muniti della speciale patente di servizio. Come ha chiarito il ministero dell'interno alla prefettura di Treviso con il parere del 14.11.2012.
Un boomerang specie per molti comandi medio piccoli che non possono disporre di un parco veicoli ad hoc (articolo ItaliaOggi del 29.05.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Gomme. Nevicate, mani legate al sindaco.
Anche in caso di forti nevicate in atto il primo cittadino non può imporre ai camion in transito di dotarsi sia di gomme da neve che di catene contemporaneamente. Al massimo il comune potrà inibire temporaneamente la circolazione nel tratto interessato dal ghiaccio. Ma solo per il tempo strettamente necessario.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con l'inedito parere 17.04.2015 n. 1734 di prot..
Un piccolo comune montano del Piemonte ha adottato una originale misura di emergenza invernale. In caso di ghiaccio e forti nevicate i mezzi pesanti che circolano sulla strada di fondovalle devono munirsi sia di catene che di gomme da neve.
Questa determinazione non è coerente con il dettato normativo, specifica il ministero dei trasporti. Il codice stradale infatti non ammette mai l'uso congiunto delle catene da neve assieme alle gomme tassellate.
In buona sostanza una misura così originale non ha consistenza giuridica. In caso di forti precipitazioni resta sempre possibile inibire completamente la circolazione (articolo ItaliaOggi del 29.05.2015).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIL’atto di mera conferma ricorre nei casi in cui l’Amministrazione si sia limitata, sul piano strettamente ricognitivo, al riscontro di avere provveduto in ordine a un determinato affare o oggetto.
Quando invece…sia stato rinnovato l’esame dei presupposti del provvedere, si versa a fronte di un nuovo esercizio del potere, cui segue l’adozione di un atto che, anche se emesso a conferma del provvedimento oggetto di riesame, ha natura provvedimentale e non si identifica con l’atto confermato.

L’atto del Comune del 27.12.2012 (prot. n. 23574), impugnato in primo grado dalla signora L., deve essere qualificato come atto di conferma e non meramente confermativo dell’autorizzazione paesaggistica n. 25 del 2011.
Questo Consiglio ha chiarito che “L’atto di mera conferma ricorre nei casi in cui l’Amministrazione si sia limitata, sul piano strettamente ricognitivo, al riscontro di avere provveduto in ordine a un determinato affare o oggetto. Quando invece…sia stato rinnovato l’esame dei presupposti del provvedere, si versa a fronte di un nuovo esercizio del potere, cui segue l’adozione di un atto che, anche se emesso a conferma del provvedimento oggetto di riesame, ha natura provvedimentale e non si identifica con l’atto confermato” (Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2015, n. 908)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.06.2015 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/04 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Non par dubbio che tale mutato quadro normativo abbia giustificato sul piano normativo una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica.

Alla luce di questa normativa, che attribuisce in particolare al previo parere della Soprintendenza natura vincolante (art. 146, comma 5), questo Consiglio ha precisato che “…con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare non più un sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/04 nel regime transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9) ma una valutazione di “merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Non par dubbio che tale mutato quadro normativo abbia giustificato sul piano normativo una diversa e più penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina vincolistica
” (Cons. Stato, Sez. VI, 25.02.2013, n. 1129)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.06.2015 n. 2751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal medesimo dirigente che ha rilasciato anche il correlato permesso di costruire.
... per l'annullamento dell'autorizzazione paesaggistica prot. n. 622 del 27/01/2015;
...
- Considerato che, conformemente all’orientamento giurisprudenziale di questo TAR (cfr. TAR Veneto, II. 24/04/2013, n. 619), risulta fondato il secondo motivo col quale si lamenta l’adozione da parte del medesimo dirigente comunale sia dell’impugnata presupposta autorizzazione paesaggistica sia dell’impugnato presupponente permesso di costruzione, contro l’art. 146, comma 6, D.Lgs. 42/2004 e la delibera G.R. 835/2010;
- Ritenuto, infatti, che la normativa predetta, proprio perché fa riferimento alla necessità di garantire l’effettiva “differenziazione” tra l’attività amministrativa edilizia e la tutela paesaggistica, non possa essere interpretata in modo riduttivo, tale da richiedere che –come intervenuto nella fattispecie concreta– solo una relazione istruttoria sul vincolo ambientale sia stata esperita da un soggetto distinto, mentre un unico soggetto abbia esercitato le valutazioni di merito e le decisioni finali su entrambe le pratiche amministrative;
- Ritenuto cioè, e in specie, che la “responsabilità del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica” di cui alla delibera G.R. 835/2010 non possa essere limitata a una parte delle sole attività istruttorie;
- Considerato pertanto che, assorbiti gli altri profili, il ricorso debba essere accolto, mentre le spese di lite possono essere compensate ... (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.06.2015 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOa) le dimissioni costituiscono un negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui sono portate a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (il principio, tradizionalmente applicato al lavoro privato, è stato esteso anche al pubblico impiego privatizzato da Cass. 57/2009);
b) una volta divenute efficaci, con l’avvenuta comunicazione al datore di lavoro, le dimissioni sono irrevocabili. Ne deriva che una volta estinto per dimissioni, il rapporto di lavoro non può essere unilateralmente ripristinato per effetto di altro simmetrico atto unilaterale del lavoratore che le ha rassegnate.

RITENUTO che il ricorso appare fondato sulla scorta delle seguenti ragioni:
1) l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico non era, nella specie, necessaria per il semplice motivo che l’arch. V., in data 29.01.2015 (subito dopo aver presentato la domanda di partecipazione, ma prima della scadenza del termine di presentazione dell’offerte), aveva già rassegnato le dimissioni dall’incarico ricoperto presso il Comune di Oria, con decorrenza 05.02.2015;
2) la circostanza che il Commissario straordinario del Comune di Oria abbia differito le dimissioni dell’arch. V. al 28.02.2015, al fine di ottenere il rispetto del termine di preavviso, e che il rapporto di lavoro sia proseguito nel periodo di preavviso (cd. efficacia reale del preavviso) non appare idonea a determinare l’esclusione della ricorrente atteso che:
a) le dimissioni costituiscono un negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui sono portate a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (il principio, tradizionalmente applicato al lavoro privato, è stato esteso anche al pubblico impiego privatizzato da Cass. 57/2009);
b) una volta divenute efficaci, con l’avvenuta comunicazione al datore di lavoro, le dimissioni sono irrevocabili. Ne deriva che una volta estinto per dimissioni, il rapporto di lavoro non può essere unilateralmente ripristinato per effetto di altro simmetrico atto unilaterale del lavoratore che le ha rassegnate. Preso atto che l’arch. V. aveva comunicato le proprie dimissioni al datore di lavoro, la stazione appaltante non poteva pertanto escludere la ricorrente dalla procedura, non sussistendo più, in capo alla medesima, la situazione di incompatibilità che imponeva la produzione dell'autorizzazione (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 28.05.2015 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONell'ambito del conferimento di una posizione organizzativa eventuali controversie sono devolute sono devolute al giudice ordinario e non al giudice amministrativo.
Invero, la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva … Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della posizione organizzativa.

... per l'annullamento dell'avviso prot. n. 5213 del 03.02.2013 di selezione interna per il conferimento di n. 1 incarico di Posizione Organizzativa relativo al Servizio Polizia Municipale con il quale il Dirigente VI Settore del Comune di Vasto rende noto che con propria determina n. 7 del 02.02.2015 è stato approvato l'avviso pubblico per la suddetta selezione; della determinazione dirigenziale n. 23 del 12.03.2015 con la quale è stato conferito l'incarico al controinteressato; del verbale del 02.03.2015 con cui sono state esaminate le domande prodotte dai partecipanti la selezione; nonché di tutti gli altri atti prodromici, connessi e consequenziali.
...
Va condivisa l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevata dal Comune resistente;
Va infatti ritenuto che il conferimento di posizioni organizzative esuli dall’ambito delle procedure concorsuali di cui al co. 4 dell’art. 63 d.lgs. 165/2001 in quanto “la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva … Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l'attribuzione della posizione organizzativa …" (Cass. sez. un. ord. 8836/2010; in termini analoghi TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I – 16.12.2014, n. 1238, con richiami a decisioni di identico tenore).
Va quindi rilevato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, salvi gli effetti derivanti dalla riproposizione del giudizio al giudice ordinario ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm. (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 28.05.2015 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROSubappalti, decisiva l’autonomia. L’obbligo prevenzionistico viene meno se manca il potere di ingerenza.
Prevenzione. L’appaltatore che non sovrintende all’organizzazione non ha responsabilità sulla sicurezza.
Nel caso di subappalto dei lavori è configurabile l’esclusione di responsabilità dell’appaltatore solo nel caso in cui al subappaltatore sia affidato lo svolgimento dei lavori che questi svolga in piena autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all’appaltatore.
È questo uno dei principi che vengono sottolineati dalla Corte di Cassazione (Sez. IV penale) con la sentenza 26.05.2015 n. 22032.
La vicenda che ha portato alla pronuncia della Corte nasce dall’infortunio subito da un lavoratore per la caduta da una altezza di oltre tre metri a causa del cedimento di parte del parapetto posto a protezione di un solaio sul quale stava lavorando.
Gli imputati erano stati individuati nel committente i lavori ed il coordinatore per la sicurezza, nell’impresa affidataria ed il capo cantiere, e nell’amministratore dell’impresa esecutrice, tutti condannati per le rispettive riconosciute responsabilità sia in prima, sia in secondo grado, seppure con una riduzione delle pene in sede di appello.
La Corte di cassazione, non condividendo la posizione dei giudici di merito nei confronti di tutti gli imputati ricorrenti ,ha annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di appello.
Soffermando l’attenzione sui rapporti tra committente e coordinatore per l’esecuzione la Corte, richiamandosi all’articolo 6, comma 2, del Dlgs 494/1996 (trasfuso nell’articolo 92, comma 2, del Dlgs 81/2008 , il Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, evidenzia che esso da una parte prevede che il coordinatore per la progettazione rediga il piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e che disponga un fascicolo contenenti informazioni utili ai fini della sicurezza, dall’altra che durante la realizzazione dell’opera il coordinatore per l’esecuzione provveda a verificare, tramite le opportune azioni, l’applicazione da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, le disposizioni contenute nel Psc e la corretta applicazione delle procedure di lavoro. Tutto ciò tenendo anche presente che tale controllo verrà svolto con modalità le quali escludono la presenza continuativa in cantiere ma che tuttavia assicurino il risultato, ossia che le prescrizioni del piano operativo di sicurezza (Pos) siano osservate.
Si tratta di “alta vigilanza”, la quale deve intendersi: a) come il controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel Psc, nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori; b) nella verifica dell’idoneità del Pos e nell’assicurazione della sua coerenza rispetto al Psc; c) nell’adeguamento dei piani in relazione all’evoluzione dei lavori e alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi Pos.
L’obbligo del committente invece è quello di verificare che il coordinatore svolga effettivamente tale compito, il quale non si concretizza in un controllo capillare e continuo dell’attività di questi, ma si sostanzia con modalità che valgono a descriverla anch’essa come “alta vigilanza”, come quella testé richiamata per il coordinatore.
Fermo restando il principio secondo il quale nell’ambito dei subappalti gli obblighi prevenzionistici gravano su tutti coloro che esercitano i lavori e, quindi, anche sul sub appaltatore interessato all’esecuzione di un'opera parziale e specialistica, vale quindi il principio secondo cui il subappaltante è esonerato dagli obblighi di protezione solo nel caso in cui il lavori subappaltati rivestano una completa autonomia, sicché non possa verificarsi alcuna sua ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatori
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2015).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di canne fumarie, l'esistenza di un regolamento comunale (di igiene) preclude in capo al Giudice di poter disporre discrezionalmente.
Il rispetto della distanza prevista dall'art. 890 del codice civile, nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria è collegato a una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima.
Diversamente, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino.

Col primo motivo si lamentano violazione degli arti. 890 cc, 57 r.e. e 42 reg. di igiene perché contrariamente a quanto reputa la sentenza disciplinano le distanze ed integrano l'art. 890 cc, con quesito.
Col secondo motivo si denunzia violazione dell'art. 2697 cpc, recte cc, perché erra la sentenza nel ritenere D. gravato della prova di nocività, con quesito. 
Col terzo motivo si deducono difetto di motivazione sulla sufficienza della prova offerta da Z. sulla innocuità della fabbrica e violazione degli artt. 111.6 Cost., 112 cpc, 132 cpc..
Col quarto motivo si denunzia insufficiente motivazione con indicazione del fatto decisivo non considerato nella nocività o pericolosità della canna fumaria.
Ciò premesso si osserva:
La Corte di appello ha dedotto che né l'art. 890 cc né l'art. 7 del r.e. prevedono distanze per le canne fumarie mentre quella di metri dieci era prevista nell'art. 6, comma 15, dpr 1391/1970, norma dichiarata inapplicabile dal primo giudice, senza censura sul punto di alcuna parte.
In ordine alla nocività o pericolosità il D. non aveva fornito alcuna prova mentre controparte aveva documentato l'esistenza di due provvedimenti giudiziari, in particolare ex art. 700 cpc, che avevano escluso conseguenze nocive per l'appartamento e la salute dell'appellato.
Ciò premesso, la prima censura afferma l'esistenza di una normativa sulle distanze esclusa dalla sentenza (si legge, invero, a pagina quattro che sia l'art. 890 cc che l'art. 57 del reg.ed. non contengono alcuna prescrizione in tema di distanze ed in particolare la norma regolamentare prevede solo una altezza dei comignoli di almeno un metro dal colmo delle coperture, in modo da evitare danni a terzi per i fumi).
Va tuttavia considerato che l'art. 890 cc rinvia alle norme locali e solo in mancanza demanda l'accertamento al Giudice.
Se è violata la norma locale, la nocività o pericolosità è presunta iuris et de iure, mentre se manca la norma locale la presunzione è iuris tantum.  Nel caso in esame la sentenza cita l'art. 42 del regolamento locale di igiene il quale prevede che lo sbocco superiore dei fumaioli... .dovrà elevarsi almeno di un metro sul tetto della casa più alta vicina, al momento della costruzione del camino stesso.
Una distanza, sia pure in verticale, è prevista e pertanto è integrato l'art. 890 cc ed il giudice non aveva alcun potere discrezionale al riguardo. Nel controricorso si sostiene che il regolamento edilizio del 1989 avrebbe abrogato quello di igiene del 1942 ma il rilievo è inesatto in quanto hanno oggetti diversi (l'uno lo sviluppo urbanistico, l'altro la tutela della salute).
La norma codicistica fa riferimento alle distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, a quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
Donde l'accoglimento del primo motivo con assorbimento degli altri (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.05.2015 n. 10814).

EDILIZIA PRIVATA: Non sconta il versamento del costo di costruzione la parte di fabbricato destinata ad artigianato.
In un fabbricato con duplice destinazione (artigianale e commerciale), il conteggio del contributo di costruzione deve essere condotto in maniera distinta sulle superfici afferenti ai diversi usi che, con riguardo alla componente del costo di costruzione, soggiacciono a regimi diversi, non potendosi dar corso al criterio della destinazione prevalente in una fattispecie caratterizzata dalla netta separazione strutturale delle due destinazioni, e dalla comprovata non accessorietà dell’attività artigianale rispetto a quella commerciale.
... per l'accertamento che l’edificio di proprietà della ricorrente è oggettivamente destinato allo svolgimento di attività artigianale e che nello stesso la ricorrente svolge attività artigianale e la dichiarazione che non è dovuto, per la parte dello stesso destinata ad attività artigianale, il pagamento del costo di costruzione.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Nel caso all’esame, come risulta dalle planimetrie depositate in giudizio e dalla denuncia di inizio attività che attesta l’esecuzione dei lavori approvati dai vigili del fuoco (cfr. la tavola 3h relativa al progetto di variante a consuntivo del permesso di costruire e la predetta denuncia di inizio attività di cui ai docc. 1 e 2 del secondo elenco documenti depositato in giudizio il 17.03.2015) la parte commerciale e artigianale dell’immobile sono chiaramente delimitate e strutturalmente separate, e l’attività artigianale, che comprende lo svolgimento di lavori meccanici, elettrici, di gommista e lavaggio, ha un’autonomia funzionale, perché svolta non solo in favore degli acquirenti dei veicoli oggetto dell’attività commerciale, ma anche nei confronti di proprietari di automobili di altri marchi, come risulta dai contratti di service partner depositati in giudizio (cfr. docc. da 7 a 10 allegati al ricorso), dalle insegne luminose autorizzate (che recano anche la scritta “meccanico – elettrauto gommista”, cfr. doc. 12 allegato al ricorso), nonché dalla nota di accettazione delle consistenti somme fissate quale obiettivo complessivo di vendita di ricambi originali (cfr. doc. 5 allegato al secondo elenco documenti depositato in giudizio il 27.03.2015), e la Società non opera solo nel ramo di attività commerciale, ma anche in quello dell’industria meccanica come risulta dall’attestazione Inps del 13.03.2006 (cfr. doc. 3 allegato al secondo elenco documenti depositato in giudizio il 27.03.2015).
In un tale contesto nel quale il Comune non contesta né la descrizione della costruzione effettuata dalla parte ricorrente, né l’esercizio dell’attività artigianale secondo le modalità da essa indicate, in base al criterio dell’oggettiva destinazione funzionale delle opere, il conteggio deve essere condotto in maniera distinta sulle superfici afferenti ai diversi usi che, con riguardo alla componente del costo di costruzione, soggiacciono a regimi diversi, non potendosi dar corso al criterio della destinazione prevalente in una fattispecie caratterizzata dalla netta separazione strutturale delle due destinazioni, e dalla comprovata non accessorietà dell’attività artigianale rispetto a quella commerciale.
Peraltro il Comune non ha indicato né in sede procedimentale né in giudizio come applicare il criterio di prevalenza alla fattispecie in esame e, come evidenziato dalla parte ricorrente nella memoria di replica, il riferimento al criterio della superficie produrrebbe l’effetto paradossale di esentare dal pagamento del costo di costruzione anche la superficie con destinazione commerciale, dato che la superficie con destinazione artigianale (mq 3.131,10) è molto maggiore di quella commerciale (mq 1710,60).
Ne discende che il ricorso deve essere accolto.
Ai fini della quantificazione della somma da corrispondere, il Collegio ritiene di fare applicazione della previsione di cui al’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., secondo cui, in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine, stabilendo che debbano essere restituite dal Comune di Venezia le somme corrisposte dalla parte ricorrente a titolo di costo di costruzione relativo al computo metrico estimativo riferito alla parte della costruzione con destinazione artigianale, maggiorate degli interessi legali dalla data della domanda sino all’effettivo soddisfo ai sensi dell’art. 2033 del codice civile, con esclusione della rivalutazione monetaria (rispetto all’esclusione della rivalutazione cfr. Tar Toscana, Sez. III, 27.11.2014, n. 1902; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2172; Consiglio di Stato, Sez. V, 17.10.2013, n. 5045; Tar Friuli Venezia Giulia, 12.12.2013, n. 649) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.05.2015 n. 589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti, è previsto che siano “esclusi dalla partecipazione alle procedure” i soggetti “che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Ciò implica che basti una delle due condizioni per legittimare l’esclusione dalla gara.
----------------
Diverso è ovviamente il profilo della qualità dei fatti da dichiarare, visto che in un caso, per i rapporti con la stessa stazione appaltante, si verte in una “grave negligenza o malafede”, mentre nel secondo, per i rapporti con altri soggetti, rileva “un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale”.
In questo senso, la giurisprudenza tende a far risaltare l’ambito decisionale lasciato all’amministrazione, atteso che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità soltanto quando il comportamento di deplorevole trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con la stessa stazione appaltante che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio d’inaffidabilità professionale su un'impresa partecipante a una gara pubblica è subordinato alla preventiva motivata valutazione della stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
In ogni caso ciò che rileva a detti fini è che l'errore ascritto sia espressione di un difetto di capacità professionale e lo stesso, nella sua obiettiva rilevanza, costituisca elemento sintomatico della perdita del requisito di affidabilità e capacità professionale a fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico perseguiti dall'ente committente.
Proprio lo spazio lasciato all’apprezzamento dell’amministrazione, e quindi alla necessità che la stessa abbia contezza di come si siano stati svolti i pregressi rapporti contrattuali del partecipante alla gara al fine di poter compiutamente esprimere il suo voto, rende ragione dell’ampiezza con cui deve essere inteso l’obbligo di informazione in capo all’impresa.
Questa ratio giustifica l’estensione del dovere di esternazione dei fatti, atteso che “si tratta di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione la valutazione dell'errore grave che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova. La circostanza pertanto assume il carattere di elemento sintomatico in ogni caso apprezzabile, anche se proveniente da altra Amministrazione, e che può fornire elementi oggettivi per le determinazioni della stazione appaltante”.
---------------
Parte appellante ha effettivamente mancato di indicare, nella sua domanda di partecipazione, l’esistenza di un fatto valutabile come errore rilevante ai fini dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006.
Le tesi contrapposte sono del tutto chiare e così riassumibili. Secondo una prima prospettazione, la mancata indicazione di un fatto rilevante ai sensi dell’art. 38 non può essere considerato “errore”, ma dichiarazione non veritiera a norma dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, comportando così la decadenza dai benefici conseguiti, ossia in questo caso l’ammissione alla procedura di gara. Secondo una seconda prospettazione, si sarebbe in presenza di una mera omissione, e come tale ricompresa nell’ambito applicativo del sopravvenuto comma 2-bis dell’art. 38.
Questa seconda lettura pare alla Sezione meritevole di accoglimento, in quanto maggiormente in linea con la norma recentemente introdotta (di per sé prevalente, sia perché successiva nel tempo rispetto al d.P.R. del 2000, sia perché speciale, concernendo unicamente la materia delle procedure di gara per contratti pubblici), sia perché più coerente con l’interpretazione datane dalla citata sentenza n. 16 del 2014 dell’Adunanza plenaria.
Si noti, infatti, che il comportamento della parte è consistito nella mancata indicazione di un determinato elemento (ossia l’esistenza di una vicenda rilevante a norma dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti). Si tratta quindi di una fattispecie che si connota strutturalmente per una sua mancata interezza e come tale considerata dall’interpretazione appena esaminata (che considera come fatto che impone il soccorso istruttorio della pubblica amministrazione anche l’omissione totale). Questa è quindi strutturalmente mancante e, come tale, fa sorgere l’obbligo dell’amministrazione di procedere a quanto disposto dal comma 2-bis dello stesso art. 38.
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della situazione a monte ai fini del citato comma 2-bis.
Conclusivamente, la mancata indicazione da parte dell’appellante dell’esistenza di un fatto rilevante ai fini dell’art. 38, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006 imponeva all’amministrazione l’attivazione dei doveri di soccorso di cui al comma 2-bis dello stesso articolo, evenienza concretamente non verificatasi.

4.1. - La censura non ha pregio.
Il supposto scollamento tra i contenuti della norma primaria, di cui all’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti e il punto 2, lett. h), del disciplinare di gara è palesemente insussistente.
La norma primaria prevede che siano “esclusi dalla partecipazione alle procedure” i soggetti “che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”. Ciò implica che basti una delle due condizioni per legittimare l’esclusione dalla gara.
Il disciplinare ha richiesto che le parti dichiarassero che nessuna delle due condizioni di esclusione sussistesse, ossia ha richiesto alla parte che non esistesse né la prima (“grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara”), né la seconda (commissione di “un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale”) e si è posto quindi in linea con il disposto normativo, atteso che entrambi i complessi disciplinari richiedono che venga data prova dell’inesistenza di entrambi i tipi di fatti escludenti.
Diverso è ovviamente il profilo della qualità dei fatti da dichiarare, visto che in un caso, per i rapporti con la stessa stazione appaltante, si verte in una “grave negligenza o malafede”, mentre nel secondo, per i rapporti con altri soggetti, rileva “un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale”.
In questo senso, la giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 28.12.2011 n. 6951) tende a far risaltare l’ambito decisionale lasciato all’amministrazione, atteso che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità soltanto quando il comportamento di deplorevole trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con la stessa stazione appaltante che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio d’inaffidabilità professionale su un'impresa partecipante a una gara pubblica è subordinato alla preventiva motivata valutazione della stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
In ogni caso ciò che rileva a detti fini è che l'errore ascritto sia espressione di un difetto di capacità professionale e lo stesso, nella sua obiettiva rilevanza, costituisca elemento sintomatico della perdita del requisito di affidabilità e capacità professionale a fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico perseguiti dall'ente committente.
Proprio lo spazio lasciato all’apprezzamento dell’amministrazione, e quindi alla necessità che la stessa abbia contezza di come si siano stati svolti i pregressi rapporti contrattuali del partecipante alla gara al fine di poter compiutamente esprimere il suo voto, rende ragione dell’ampiezza con cui deve essere inteso l’obbligo di informazione in capo all’impresa.
Questa ratio giustifica l’estensione del dovere di esternazione dei fatti, atteso che “si tratta di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione la valutazione dell'errore grave che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova. La circostanza pertanto assume il carattere di elemento sintomatico in ogni caso apprezzabile, anche se proveniente da altra Amministrazione, e che può fornire elementi oggettivi per le determinazioni della stazione appaltante” (in termini, Consiglio di Stato, sez. III, 05.05.2014 n. 2289).
La censura non è quindi fondata e va respinta.
5. - Con il secondo motivo di diritto, di carattere subordinato, viene lamentata l’illegittimità del provvedimento di esclusione per violazione dell’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, come introdotto dall’art. 39, comma 1, del D.L. n. 90 del 2014, per la mancata attivazione del dovuto soccorso istruttorio a fronte della rilevata omissione nella dichiarazione.
5.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Come già evidenziato in via cautelare, la fattispecie in esame è effettivamente disciplinata dall’art. 38, comma 2-bis del D.Lgs. n. 163 del 2006, come introdotto dall’art. 39, comma 1, del D.L. 24.06.2014, n. 90 “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari”. Questa disposizione, entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione, ossia dal 24.06.2014, è applicabile alle procedure di gara indette dopo la sua entrata in vigore come quella in esame, dove il bando di gara è stato pubblicato in data 30.06.2014.
La norma così recita: “La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento e' garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, ne' applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara. Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”.
Si tratta di un’evidente riconsiderazione dei poteri unilaterali di esclusione dei partecipanti dalla procedura di gara che, per il suo impatto sull’evoluzione dei procedimenti, è stata immediatamente oggetto di considerazione da parte di questo Consiglio e interpretata dall’Adunanza plenaria, con sentenza 30.07.2014 n. 16, dove si è evidenziata la “chiara volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni)”.
La considerazione, appena riportata, dell’Adunanza plenaria (“ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni”) incide sulla questione qui in scrutino, dove la parte appellante ha effettivamente mancato di indicare, nella sua domanda di partecipazione, l’esistenza di un fatto valutabile come errore rilevante ai fini dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006.
Su tale vicenda e sulla sua qualificazione si è quindi concentrata la discussione tra le parti, dopo che la Sezione, con ordinanza n. 742 del 18.02.2015, aveva esplicitamente sottoposto alle parti il tema, al fine di sollecitarne gli apporti ricostruttivi.
Le tesi contrapposte sono del tutto chiare e così riassumibili. Secondo una prima prospettazione, la mancata indicazione di un fatto rilevante ai sensi dell’art. 38 non può essere considerato “errore”, ma dichiarazione non veritiera a norma dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, comportando così la decadenza dai benefici conseguiti, ossia in questo caso l’ammissione alla procedura di gara. Secondo una seconda prospettazione, si sarebbe in presenza di una mera omissione, e come tale ricompresa nell’ambito applicativo del sopravvenuto comma 2-bis dell’art. 38.
Questa seconda lettura pare alla Sezione meritevole di accoglimento, in quanto maggiormente in linea con la norma recentemente introdotta (di per sé prevalente, sia perché successiva nel tempo rispetto al d.P.R. del 2000, sia perché speciale, concernendo unicamente la materia delle procedure di gara per contratti pubblici), sia perché più coerente con l’interpretazione datane dalla citata sentenza n. 16 del 2014 dell’Adunanza plenaria.
Si noti, infatti, che il comportamento della parte è consistito nella mancata indicazione di un determinato elemento (ossia l’esistenza di una vicenda rilevante a norma dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti). Si tratta quindi di una fattispecie che si connota strutturalmente per una sua mancata interezza e come tale considerata dall’interpretazione appena esaminata (che considera come fatto che impone il soccorso istruttorio della pubblica amministrazione anche l’omissione totale). Questa è quindi strutturalmente mancante e, come tale, fa sorgere l’obbligo dell’amministrazione di procedere a quanto disposto dal comma 2-bis dello stesso art. 38.
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della situazione a monte ai fini del citato comma 2-bis.
Conclusivamente, la mancata indicazione da parte dell’appellante dell’esistenza di un fatto rilevante ai fini dell’art. 38, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006 imponeva all’amministrazione l’attivazione dei doveri di soccorso di cui al comma 2-bis dello stesso articolo, evenienza concretamente non verificatasi.
Ne consegue l’illegittimità dell’esclusione della B. Spa dalla procedura di gara.
Considerato quindi che agli atti di causa non risulta stipulato il contratto, la presente decisione può limitarsi all’annullamento dei soli atti impugnati, come sopra descritti, con l’esclusione del bando di gara e del disciplinare di gara, dei quali si è acclarata la legittimità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2015 n. 2589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Nelle strade con le buche la velocità si paga cara.
Il comune che fa abbassare il limite di velocità sulla strada statale dissestata può anche attivare controlli elettronici della circolazione. E sanzionare chi pigia troppo sull'acceleratore previa segnalazione dell'attività di controllo in atto.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez., VI civile, con l'ordinanza 22.05.2015 n. 10684.
Un paese attraversato da una superstrada con limite ordinario di velocità fissato in 110 km/h ha ottenuto dall'Anas di abbassare il limite a 80 km/h a causa della deformazione del piano viabile. Nell'opporsi a una conseguente multa per eccesso di velocità rilevata tramite l'autovelox, un automobilista ha percorso tutti i gradi del giudizio senza ottenere alcun successo.
Il degrado del manto stradale è una condizione che incide legittimamente sulla modulazione del limite di velocità dei veicoli. In buona sostanza, è corretto abbassare il limite di velocità in presenza di avvallamenti, dissesti e buche e i relativi controlli elettronici non sono viziati da nessun difetto se regolarmente segnalati ed effettuati in conformità alle direttive ministeriali (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi. I titoli prima dell'orale.
Nel concorso pubblico la valutazione dei titoli deve essere comunicata al candidato prima delle prove orali: la trasparenza delle procedure, infatti, impone che chi aspira al posto nell'ente sappia a quanto ammonta per il momento il suo voto per prepararsi meglio al rush finale. E soprattutto per garantirgli che la commissione non stia cambiando i giudizi in corso d'opera.

È quanto emerge dalla sentenza 22.05.2015 n. 2584 della V Sez. del Consiglio di stato.
Confermato l'annullamento della procedura avviata per assumere un dirigente comunale di prima qualifica. Anche se la commissione giudicatrice ha predisposto una griglia con punteggi fissi da attribuire sulla base dei voti riportati alla laurea e all'abitazione professionale dagli ingegneri in lizza per il posto. Quel che conta è che le relative valutazioni non sono state rese note ai partecipanti alla selezione.
Sbaglia il Tar quando sostiene che l'esito della valutazione sui titoli dovrebbe essere comunicato agli interessati prima dello svolgimento di tutte le prove concorsuali: in seguito alla riformulazione delle norme, il voto che la commissione attribuisce al candidato può essere esplicitato anche solo prima dell'orale. Ma nel caso di specie l'onere non risulta mai adempiuto dall'amministrazione e dunque non può comunque scattare l'annullamento della sentenza emessa dal tribunale regionale.
Chi prende parte alla tornata concorsuale ha diritto di conoscere prima della prova decisiva il punteggio che gli è stato attribuito in via provvisoria dalla commissione di valutazione: così può calibrare meglio la sua preparazione e, soprattutto, ha la certezza che i punteggi di merito non possono essere manipolati per indebiti favoritismi.
Inutile per il Comune tentare di far dichiarare improcedibile il ricorso dell'ingegnere sostenendo che il posto di dirigente del settore tecnico posto a concorso è stato in seguito ricoperto con una procedura di mobilità, che l'interessato non ha impugnato. Il professionista conserva l'interesse all'annullamento della procedura perché potrebbe ottenere il risarcimento dalla p.a. Che paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).
---------------
MASSIMA
6. Passando al merito, deve premettersi che il giudice di primo grado ha accolto l’impugnativa dell’ing. T. per violazione dell’art. 12 d.p.r. n. 487/1994 (“recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzioni nei pubblici impieghi”), e ciò perché il risultato della valutazione dei titoli non è stato reso noto ai candidati prima dell’effettuazione delle prove concorsuali, come invece previsto dal comma 2 della disposizione regolamentare ora richiamata.
Il TAR ha sul punto precisato che la scansione procedimentale prefigurata dalla norma in questione è posta a tutela di «un’esigenza sostanziale fondamentale: quella cioè di evitare che la valutazione dei titoli, possa in itinere essere discrezionalmente modificata in seguito ai risultati delle prove orali, così da influenzare l'esito finale dell'intera procedura concorsuale»; ed è dunque strumentale alle superiori esigenze di trasparenza ed imparzialità amministrativa e tale da non ammettere equipollenti.
7. Pur non contestando la mancata comunicazione degli esiti della valutazione dei titoli ai candidati, nel proprio appello il Comune di Civitavecchia nega tuttavia che ciò abbia leso gli interessi dell’ing. T.. L’amministrazione evidenzia al riguardo che nella prima riunione la commissione di gara ha rigidamente predeterminato i criteri di valutazione dei titoli, autovincolando la propria discrezionalità mediante griglie di punteggi proporzionati al punteggio di laurea ed a quello conseguito in sede di abilitazione professionale (verbale n. 1 del 14.05.1997), di cui ha poi fatto pedissequa applicazione. Pertanto, il Comune appellante principale ritiene che la mancata comunicazione dei punteggi attribuiti per i titoli prima delle prove degraderebbe ad irregolarità non invalidante ex art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
8. L’assunto non può essere condiviso, per cui l’appello del Comune di Civitavecchia deve essere respinto, dovendosi conseguentemente dichiarare improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse l’appello incidentale condizionato dell’ing. T..
9. Deve al riguardo precisarsi che, diversamente da quanto rilevato dal TAR,
l’obbligo di comunicazione deve precedere non già lo svolgimento delle prove scritte ma, in seguito alla riformulazione del citato art. 12, comma 2, d.p.r. n. 487/1994 ad opera del d.p.r. n. 693/1996 (“regolamento recante modificazioni al regolamento sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e sulle modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 09.05.1994, n. 487”), solo le prove orali.
Non per questo la decisione di primo grado può tuttavia essere riformata. Ciò per la dirimente considerazione che tale comunicazione non è comunque avvenuta nemmeno prima di queste prove.
Infatti, il fondamento dell’obbligo partecipativo in questione consiste, da un lato, nel rendere noto ai concorrenti prima dello svolgimento dell’ultima prova il punteggio provvisoriamente conseguito fino a tale momento, così da calibrare di conseguenza la preparazione per essa, e, dall’altro lato, di assicurare una rigida scansione dei diversi momenti valutativi nei quali si articola la selezione concorsuale, così da prevenire qualsiasi rischio che i punteggi di merito possano essere manipolati a scopo di indebiti favoritismi.
Pertanto, mediante questa sequenza tra punteggi provvisori, soggetti a comunicazione preventiva, e graduatoria definitiva, si assicura un più elevato tasso di imparzialità della valutazione delle capacità ed attitudini dei candidati, facendosi in modo che la graduatoria definitiva consista nell’effettiva risultante delle diverse fasi valutative, senza indebite commistioni tra le stesse.
Deve poi evidenziarsi che attraverso la comunicazione dei punteggi provvisori si realizza un maggior grado di trasparenza già nella fase concorsuale, al cui perseguimento è preordinato anche l’accesso previsto dal comma 3 dell’art. 12 in esame, finalizzato ad eventuali richieste di correzione prima dello svolgimento della prova finale, allo scopo di prevenire eventuali contenziosi.
10. Trattandosi quindi di un adempimento procedimentale finalizzato alla tutela delle descritte inderogabili esigenze di trasparenza ed imparzialità, la sua mancata osservanza non può ritenersi priva di valenza invalidante ex art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, per effetto della predeterminazione ex ante dei criteri di valutazione dei titoli.
In contrario a quanto sostiene l’amministrazione appellante principale, si rileva che quest’ultima attività risponde a sua volta ad un obbligo inderogabilmente previsto dall’art. 8 del d.p.r. n. 487/1994, ed ancora una volta ispirato alle medesime finalità di trasparenza ed imparzialità finora evidenziate, attraverso la relativa fissazione prima della valutazione delle prove scritte. Anche in questo caso la scansione procedimentale prefigurata a livello regolamentare tende, in primo luogo, a separare le diverse fasi valutative, ed in secondo luogo a prevenire commistioni tra queste. Il tutto secondo modalità analoghe a quelle sopra esaminate per quanto riguarda la prova orale da un parte e la valutazione dei titoli e delle prove scritte dall’altra.
11. Deve ancora rilevarsi che, in ragione della finalità preventiva che connota l’obbligo comunicativo in contestazione nel presente giudizio, la relativa violazione comporta di per sé l’illegittimità della procedura concorsuale, senza che possa invocarsi la sanatoria processuale di cui all’art. 21-octies l. n. 241/1990, non essendo possibile stabilire se la violazione procedimentale abbia o meno determinato una lesione in concreto degli interessi dei singoli concorrenti.
Mutuando una terminologia penalistica, l’illegittimità in questione può quindi essere definita “di pericolo astratto”, analogamente a quanto si afferma per il caso di violazione della regola dell’anonimato delle prove concorsuali (Ad. Plen., 20.11.2013, n. 26; da ultimo: Cons. giust. amm. Sicilia, 20.04.2015, n. 330).

ATTI AMMINISTRATIVIIn caso di emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione ex art. 7 della legge n. 241/1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza di provvedere insita in tale tipologia di atto amministrativo, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo necessariamente posta a presupposto dell’atto medesimo: di fatto, la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza di provvedere, ovvero rispetto alle finalità proprie della tipologia e della natura del provvedimento in questione.
Tali considerazioni valgono però nel caso in cui vi siano effettivamente i presupposti di contingibilità e urgenza indicati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e valorizzati dalla Corte Costituzionale (n. 115/2011).
---------------
L’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e l’art. 2 del D.M. 05.08.2008 richiedono la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l'incolumità pubblica, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria, essendo necessaria la documentata necessità e urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici perseguiti e dovendo comunque rilevare accadimenti non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Tra i requisiti di validità delle ordinanze contingibili e urgenti vi è, inoltre, la fissazione di un termine di efficacia del provvedimento: il carattere della contingibilità esprime l'urgente necessità di provvedere con efficacia ed immediatezza in casi di pericolo attuale od imminente ed a ciò è correlata la natura necessariamente provvisoria di siffatti provvedimenti, la quale implica che le misure previste devono avere efficacia temporalmente limitata.
In tale contesto il potere di ordinanza presuppone che la sussistenza di situazioni non pienamente tipizzate dalla legge sia suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, giustificante l’eccezionalità del potere esercitato: solo in presenza di un’adeguata istruttoria e di un’esauriente motivazione che dia contezza delle ragioni di provvisorietà, sussidiarietà e straordinarietà proprie dell’ordinanza sindacale si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale.
---------------
L’ordinanza sindacale contingibile e urgente, per come disciplinata dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, è legittimamente utilizzabile soltanto in via provvisoria, sussidiaria e straordinaria.
---------------
Non può ritenersi compatibile con la Carta costituzionale un potere atipico di ordinanza sganciato dalla necessità di far fronte a specifiche situazioni contingibili di pericolo, in quanto, diversamente opinando, verrebbe ad essere attribuita in via ordinaria ai sindaci la possibilità di incidere su diritti individuali in modo assolutamente indeterminato ed in base a presupposti molto lati suscettibili di larghissimi margini di apprezzamento.
La giurisprudenza amministrativa ha valorizzato «il disposto del DM del 05.08.2008 laddove aggancia la difesa della sicurezza pubblica al rispetto di norme (preesistenti) che regolano la vita civile, con la conseguenza che il potere sindacale di ordinanza ex art. 54 D.Lgs. 267/2000…non può avere una valenza "creativa" ma deve limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per la sicurezza pubblica. In altre parole il potere in questione può essere esercitato qualora la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal DM del 05.08.2008 (situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma rilevanza solo in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari) ma possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica; in tal caso, venendo in gioco interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale, il Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la minacciano
».
---------------
La finalità di tutelare la sicurezza pubblica, ovvero di far fronte alla lesione dei beni di cui all’art. 2 del D.M. 05.08.2008 (compreso l’intralcio alla viabilità pubblica), non consente comunque di esercitare il potere extra ordinem al di fuori dei casi contingibili e urgenti.
Pertanto la situazione di intralcio alla viabilità pubblica, cui fa riferimento l’atto impugnato, non può rilevare di per sé, dovendo comunque rientrare in situazioni di contingibilità e urgenza e attenere a fenomeni di insorgenza della criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica.

La prima censura è incentrata sull’inosservanza dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento.
Il rilievo è fondato.
In caso di emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a presidio della partecipazione ex art. 7 della legge n. 241/1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza di provvedere insita in tale tipologia di atto amministrativo, anche in ragione della perdurante attualità dello stato di pericolo necessariamente posta a presupposto dell’atto medesimo: di fatto, la comunicazione di avvio del procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza di provvedere, ovvero rispetto alle finalità proprie della tipologia e della natura del provvedimento in questione (Cons. Stato, V, 01.12.2014, n. 5919; TAR Sicilia, Palermo, II, 17.02.2015, n. 485).
Tali considerazioni valgono però nel caso in cui vi siano effettivamente i presupposti di contingibilità e urgenza indicati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e valorizzati dalla Corte Costituzionale (n. 115/2011).
Invece, per le ragioni di seguito evidenziate nella trattazione della successiva censura, l’atto impugnato non risponde alle condizioni previste dalla suddetta norma, con la conseguenza che avrebbe dovuto trovare piena applicazione l’art. 7 della legge n. 241/1990, invocato dalla deducente.
Invero non rileva, ai fini della connotazione di urgenza, che esonera dall’applicazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, la finalità astrattamente perseguita dall’amministrazione con l’ordinanza adottata, ma il potere amministrativo concretamente esercitato.
Né può valere, come partecipazione al procedimento tale da rendere superflua l’informativa ex art. 7 della legge n. 241/1990, la nota del 31.10.2009 (documento n. 7 depositato in giudizio contestualmente all’impugnativa), inviata via fax dalla ricorrente al Comune in assenza di qualsivoglia preavviso sul tipo di provvedimento amministrativo che sarebbe stato adottato e perciò priva di qualsiasi apporto partecipativo riferibile alle peculiarità della contestata azione amministrativa.
Con il secondo motivo l’istante sostiene che non vi sono, nella fattispecie in esame, i presupposti propri dell’ordinanza contingibile e urgente (costituiti dall’impossibilità di differire l’intervento e di provvedere con i mezzi ordinari offerti dalla legislazione), la quale andrebbe sempre adeguatamente motivata e finalizzata a prevenire ed eliminare gravi pericoli per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Il ricorrente lamenta la carenza di motivazione e deduce altresì che appare inappropriato il richiamo, espresso nel gravato provvedimento, all’esigenza di prevenire intralci alla viabilità pubblica ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d, del D.M. n. 33086 del 2008, in quanto la suddetta norma prevede come rilevante l’intralcio riconducibile a fenomeni di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; secondo l’esponente, infine, l’atto impugnato opera a tempo indefinito, mentre invece l’ordinanza contingibile e urgente ha necessariamente natura provvisoria.
La censura va accolta, nei sensi appresso specificati.
L’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e l’art. 2 del D.M. 05.08.2008 richiedono la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l'incolumità pubblica, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria, essendo necessaria la documentata necessità e urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici perseguiti (TAR Piemonte, I, 09.01.2015, n. 46) e dovendo comunque rilevare accadimenti non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento (Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 904; TAR Campania, Napoli, V, 03.03.2015, n. 1367; TAR Molise, I, 13.03.2015, n. 103).
Tra i requisiti di validità delle ordinanze contingibili e urgenti vi è, inoltre, la fissazione di un termine di efficacia del provvedimento: il carattere della contingibilità esprime l'urgente necessità di provvedere con efficacia ed immediatezza in casi di pericolo attuale od imminente ed a ciò è correlata la natura necessariamente provvisoria di siffatti provvedimenti, la quale implica che le misure previste devono avere efficacia temporalmente limitata (Cons. Stato, III, 05.10.2011, n. 5471; TAR Toscana, I, 20.01.2009, n. 53).
In tale contesto il potere di ordinanza presuppone che la sussistenza di situazioni non pienamente tipizzate dalla legge sia suffragata da istruttoria adeguata e da congrua motivazione, giustificante l’eccezionalità del potere esercitato (TAR Calabria, Catanzaro, I, 25.06.2013, n. 709): solo in presenza di un’adeguata istruttoria e di un’esauriente motivazione che dia contezza delle ragioni di provvisorietà, sussidiarietà e straordinarietà proprie dell’ordinanza sindacale si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale (Cons. Stato, V, 25.05.2012, n. 3077).
Al contrario, l’ordinanza adottata dal Comune resistente ha efficacia indeterminata nel tempo e si pone a rimedio di accadimenti fronteggiabili con strumenti ordinari. Sotto quest’ultimo aspetto, i mezzi di tutela dei diritti demaniali, previsti dagli artt. 823, comma 2, e 825 cod. civ. richiamati nell’impugnato provvedimento, escludono la possibilità di ricorrere all’adozione dell’ordinanza in argomento; depone nello stesso senso l’applicabilità dell’art. 2932 cod. civ., ove trovasse conferma la tesi della controinteressata secondo cui il Condominio risulterebbe proprietario dell’area de qua a seguito dell’inottemperanza all’obbligo di cedere l’opera di urbanizzazione realizzata sancito dalla convenzione urbanistica (pagina 10 della memoria di replica di Alter Ego).
Non sussistono quindi i requisiti di contingibilità e urgenza delineati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000; invero, l’ordinanza sindacale contingibile e urgente, per come disciplinata dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, è legittimamente utilizzabile soltanto in via provvisoria, sussidiaria e straordinaria (TAR Molise, I, 20.06.2014, n. 393).
Sotto altro profilo, la contestata ordinanza assume a parametro normativo di raffronto l’art. 2 del D.M. 05.08.2008, che definisce l’ambito di intervento a tutela della sicurezza urbana.
Orbene, premesso che «non può ritenersi compatibile con la Carta costituzionale un potere atipico di ordinanza sganciato dalla necessità di far fronte a specifiche situazioni contingibili di pericolo, in quanto, diversamente opinando, verrebbe ad essere attribuita in via ordinaria ai sindaci la possibilità di incidere su diritti individuali in modo assolutamente indeterminato ed in base a presupposti molto lati suscettibili di larghissimi margini di apprezzamento», la giurisprudenza amministrativa ha valorizzato «il disposto del DM del 05.08.2008 laddove aggancia la difesa della sicurezza pubblica al rispetto di norme (preesistenti) che regolano la vita civile, con la conseguenza che il potere sindacale di ordinanza ex art. 54 D.Lgs. 267/2000…non può avere una valenza "creativa" ma deve limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per la sicurezza pubblica. In altre parole il potere in questione può essere esercitato qualora la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal DM del 05.08.2008 (situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma rilevanza solo in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari) ma possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica; in tal caso, venendo in gioco interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale, il Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la minacciano» (TAR Lombardia, Milano, III, 06.04.2010, n. 981; si veda anche Corte Costituzionale, 01.07.2009, n. 196).
Alla luce di tali premesse il provvedimento impugnato appare affetto da carenza di motivazione e di presupposti in ordine ai pericoli per l'incolumità pubblica o per la sicurezza urbana (come sopra intesa).
Inoltre, la finalità di tutelare la sicurezza pubblica, ovvero di far fronte alla lesione dei beni di cui all’art. 2 del D.M. 05.08.2008 (compreso l’intralcio alla viabilità pubblica), non consente comunque di esercitare il potere extra ordinem al di fuori dei casi contingibili e urgenti (si veda Corte Costituzionale, 07.04.2011, n. 115).
Pertanto la situazione di intralcio alla viabilità pubblica, cui fa riferimento l’atto impugnato, non può rilevare di per sé, dovendo comunque rientrare in situazioni di contingibilità e urgenza (Cons. Stato, VI, 31.10.2013, n. 5276; Corte Costituzionale 07.04.2011, n. 115) e attenere a fenomeni di insorgenza della criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica (TAR Lombardia, Milano, III, 06.04.2010, n. 981).
In definitiva, gli intercorsi dissidi tra privati, le ragioni di quieto vivere e la situazione di intralcio alla pubblica viabilità, ai quali si riferisce l’atto impugnato, non costituiscono presupposto legittimante l’adozione dell’ordinanza contingibile e urgente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.05.2015 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla redazione dell'atto introduttivo il legale non può pretendere il pagamento.
Nel caso in cui l'atto introduttivo di un giudizio venga redatto da un legale diverso da quello a cui è stata rilasciata formalmente la procura, quest'ultimo non avrà diritto di richiedere il pagamento degli onorari e diritti per le attività di studio non richieste e la mera ricerca di documenti.
Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con ordinanza 20.05.2015 n. 10420.
Secondo i giudici di piazza Cavour la ricerca di documenti rappresenta una prestazione d'ordine intellettuale che non va confusa con l'attività meramente materiale con la quale i documenti sono messi a disposizione del professionista.
Evidenziano gli Ermellini, che tale attività si inserisce tra lo studio della controversa e l'attività relativa alla consultazione con il cliente ed è normalmente seguita dalla preparazione e redazione dell'atto introduttivo del giudizio. Sarà pertanto logico il mancato riconoscimento degli onorari e dei diritti per le attività di studio non richieste e per la ricerca di documenti, trattandosi di atti finalizzati alla elaborazione dell'atto introduttivo.
Nella sentenza, i giudici della Cassazione hanno poi sostenuto che, per la revocazione delle sentenze della Cassazione, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrenza dell'errore revocatorio presuppone un errore di fatto e non un qualsiasi errore; inoltre, tale errore dovrà risolversi in un'erronea percezione dei fatti di causa «non ricorrendo, dunque, vizio revocatorio, quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione o interpretazione di documenti e risultanze processuali e non della relativa inesatta percezione».
Sarà altresì opportuno che presenti (oltre ai caratteri dell'essenzialità e decisività ai fini della pronunzia) quelli dell'estraneità a punti controversi su cui il giudice si sia pronunciato nonché dell'assoluta evidenza e della incontrovertibile rilevabilità sulla base del mero raffronto tra sentenza, atti e documenti di causa (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha affermato che, rispetto ad un’ordinanza di demolizione, non sono configurabili controinteressati e ciò anche nel caso in cui sia ravvisabile una posizione di vantaggio per il terzo, scaturente dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo abbia segnalato all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso.
Diverso, però, il caso in cui non si tratti di un generico vicino di casa che abbia presentato una segnalazione o un esposto, ma di un vicino denunciante che risulti leso in modo diretto dall’attività abusiva posta in essere, giacché in questo caso si è in presenza di un interesse qualificato a difendere un diritto di proprietà. In presenza di una situazione del genere il vicino deve essere considerato un controinteressato, essendo direttamente avvantaggiato dall’attività repressiva dell’attività abusiva.
---------------
L’ordinanza di demolizione è un atto di carattere vincolato, che deve essere adottato in base all’accertamento dell’abuso.
Esso, in quanto provvedimento sanzionatorio, non richiede particolare motivazione anche a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso rilevato, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il decorso del tempo non può legittimare.

... per l’annullamento dell’ordinanza n. 18/2013 Reg. Ord. del 17.05.2013 del Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Rossano di demolizione di opere abusive e riduzione in pristino;
...
Con ricorso notificato al Comune di Rossano e ai Sig.ri L.A. e D.I. in data, rispettivamente, 31.07.2013 e 26.07.2013 e depositato nella Segreteria del Tribunale Amministrativo Regionale di Catanzaro il 07.08.2013, i sig.ri G.C. e D.P. hanno impugnato l’ordinanza n. 18/2013 Reg. Ord. del 17.05.2013 del Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Rossano, con cui è stato loro ingiunto di provvedere a propria cura e spese alla demolizione delle opere realizzate senza titolo autorizzativo e/o abitativo site in C.da Lampa del Comune di Rossano.
L’ordinanza reca la seguente descrizione delle opere di cui è ordinata la demolizione: “1) ampliamento di un capannone agricolo con copertura in eternit ad una falda inclinata, lo stesso misura internamente m12,50x411,60xH media 3,90, in aderenza allo stesso sono adibiti un locale adibito a deposito con manto di copertura in tegole ad una falda inclinata, delle dimensioni interne di m 6,30x4,00xH media 3,00, ed un locale adibito a forno, con copertura in eternit ad una falda inclinata, delle dimensioni interne di 2,95x4,00xH media in 3,00;
2) realizzazione, in aderenza a fabbricato esistente, di un vano adibito a cucina con copertura ad una falda inclinata in eternit, (1,20x3,60xH media 2,75) che dista 1 m dal confine, da cui fuoriescono 2 tubi in plastica adibiti a scarico di una lavatrice e di un lavandino che scaricano a cielo aperto;
3) realizzazione di un massetto in calcestruzzo dalle dimensioni di m 1,67x1,10 dello spessore di 15 cm, con posizionamento di un serbatoio di acqua che dista 1,30 m dal confine;
4) installazione, sul lato sud ovest del fabbricato esistente, di un condizionatore che dista dal confine circa 1,50 m;
5) vasca Imhoff a servizio del fabbricato
”.
I ricorrenti hanno dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato in quanto viziato per violazione e falsa applicazione dell’art. 10 legge 765/1967 e dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, rilevando che la maggior parte delle opere cui si riferisce l’ordinanza sarebbero stati realizzati prima dell’01.09.1967, data di entrata in vigore della L. 765/1967 (Legge Ponte).
Hanno dedotto, altresì, violazione di legge ed eccesso di potere, carenza di motivazione e di istruttoria (art. 3 L. 241/1990): la sopraelevazione di circa un metro dei muri del capannone agricolo, la copertura di parte dello stesso, e la costruzione di un locale adibito a cucina –uniche opere successive all’acquisto del terreno nel 1974– sarebbero stati effettuati circa venticinque anni prima dell’emissione del provvedimento oggetto di questa controversia; pertanto l’ordinanza di demolizione impugnata avrebbe dovuto contenere un’adeguata motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla repressione dell’abuso.
Con il terzo e quarto motivo di ricorso i ricorrenti hanno dedotto, infine, la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 6 e 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Con il terzo motivo hanno rilevato che il provvedimento impugnato non indicherebbe con precisione quale sia la parte di opera di cui si ingiunge la demolizione.
Con il quarto motivo hanno sottolineato che l’ordinanza oggetto di causa ingiunge la demolizione di un massetto in calcestruzzo, di un condizionatore e di una vasca Imhoff –opere necessarie ad integrare gli impianti tecnologici esistenti, che, in quanto interventi di manutenzione ordinaria, non avrebbero necessitato di alcun titolo abitativo o autorizzativo; anche qualora classificati come interventi di manutenzione straordinaria- per i quali è invece richiesta una comunicazione di inizio lavori – la sanzione prevista sarebbe stata pecuniaria.
...
Va esaminata, in via preliminare, l’eccezione di difetto di legittimazione sollevata dai confinanti L.A. e D.I., che hanno rilevato di non avere alcun interesse in relazione alla causa in questione.
La giurisprudenza ha affermato che, rispetto ad un’ordinanza di demolizione, non sono configurabili controinteressati e ciò anche nel caso in cui sia ravvisabile una posizione di vantaggio per il terzo, scaturente dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo abbia segnalato all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso (Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Cons. St., sez. V, 03.07.1995 n. 991; Cons. St. sez. II, 22.01.1992 n. 759).
Diverso, però, il caso in cui non si tratti di un generico vicino di casa che abbia presentato una segnalazione o un esposto, ma di un vicino denunciante che risulti leso in modo diretto dall’attività abusiva posta in essere, giacché in questo caso si è in presenza di un interesse qualificato a difendere un diritto di proprietà. In presenza di una situazione del genere il vicino deve essere considerato un controinteressato, essendo direttamente avvantaggiato dall’attività repressiva dell’attività abusiva (Cons. St., sez. VI, 29.05.2012 n. 3212; Cons. St., sez. VI, 29.05.2007 n. 2742).
...
Il motivo è privo di fondamento.
L’ordinanza di demolizione è un atto di carattere vincolato, che deve essere adottato in base all’accertamento dell’abuso. Esso, in quanto provvedimento sanzionatorio, non richiede particolare motivazione anche a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso rilevato, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il decorso del tempo non può legittimare (Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2013, n. 1268) (Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2015 n. 406; Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2013, n. 498).
È infondato anche il terzo motivo di gravame, con cui viene censurata la genericità dell’ordinanza di demolizione, che non conterrebbe alcuna specificazione in ordine al rilevato ampliamento. Dall’esame del provvedimento sanzionatorio impugnato e dal verbale di accertamento n. 6413 del 26.04.2013 della Polizia Municipale, corredato da foto, con il quale sono stati accertati gli abusi commessi, si evince in maniera sufficientemente chiara l’entità dell’ampliamento del capannone agricolo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.05.2015 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla natura di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, un orientamento giurisprudenziale che fa capo ad un parere del Consiglio di Stato, afferma che l’installazione di condizionatori e climatizzatori non è soggetta ad alcun titolo abilitativo, trattandosi di opere libere.
Secondo il TAR Puglia in particolare il posizionamento dei condizionatori climatici all’esterno dell’edificio, può dirsi opera del tutto minore e sostanzialmente libera non idonea a ledere in modo apprezzabile né l’interesse paesaggistico né tantomeno quello urbanistico.
Secondo altro orientamento invece una regolare installazione di climatizzatori o condizionatori –in quanto impianti tecnologici- richiede la DIA. I climatizzatori e condizionatori rientrano nella nozione di impianti tecnologici posti in rapporti di strumentalità necessaria rispetto agli edifici esistenti, come tali sono considerati interventi edilizi minori.
Uguale problematica potrebbe porsi per gli altri elementi menzionati, quali la vasca interrata, la cisterna e il massetto. I caratteri di tali manufatti potrebbero condurre ad affermare che si tratta di interventi minori, per i quali non è necessaria l’acquisizione di alcun titolo.
Ma, in ogni caso, anche a far rientrare la realizzazione delle opere in questione nel novero degli interventi edilizi definiti dall’art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto tali assoggettati a dichiarazione di inizio di attività ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001, il Comune di Rossano, come dedotto dai ricorrenti, avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 37 D.P.R. n. 380 del 2001 e non ingiungerne la demolizione.
Per le ragioni su esposte, il ricorso in epigrafe è fondato e deve essere accolto nella parte in cui è dedotta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione in riferimento ai manufatti sopra indicati per i quali è stata ingiunta la demolizione, realizzati antecedentemente al settembre 1967, nonché con riguardo al massetto in calcestruzzo, al serbatoio di acqua, al condizionatore e alla vasca Imhoff e va, per tale parte, accolto.

Appare, invece, fondata la censura mossa con il quarto ed ultimo motivo di gravame, con il quale si denuncia l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui prevede la demolizione di un massetto in calcestruzzo con sovrastante posizionamento di un serbatoio di acqua, di un condizionatore e della vasca Imhoff.
Sulla natura di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, un orientamento giurisprudenziale che fa capo ad un parere del Consiglio di Stato del 16.03.2005 n. 2602/2003, afferma che l’installazione di condizionatori e climatizzatori non è soggetta ad alcun titolo abilitativo, trattandosi di opere libere.
Secondo il TAR Puglia in particolare il posizionamento dei condizionatori climatici all’esterno dell’edificio, può dirsi opera del tutto minore e sostanzialmente libera non idonea a ledere in modo apprezzabile né l’interesse paesaggistico né tantomeno quello urbanistico (Tar Puglia Sez. III, ord. 847/2011).
Secondo altro orientamento invece una regolare installazione di climatizzatori o condizionatori –in quanto impianti tecnologici- richiede la DIA (Tar, Campania, Napoli, sez. IV, 15.04.2011 n. 2157; Cons. St., sez. VI 01.10.2008 n. 4744). I climatizzatori e condizionatori rientrano nella nozione di impianti tecnologici posti in rapporti di strumentalità necessaria rispetto agli edifici esistenti, come tali sono considerati interventi edilizi minori.
Uguale problematica potrebbe porsi per gli altri elementi menzionati, quali la vasca interrata, la cisterna e il massetto. I caratteri di tali manufatti potrebbero condurre ad affermare che si tratta di interventi minori, per i quali non è necessaria l’acquisizione di alcun titolo.
Ma, in ogni caso, anche a far rientrare la realizzazione delle opere in questione nel novero degli interventi edilizi definiti dall’art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto tali assoggettati a dichiarazione di inizio di attività ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001, il Comune di Rossano, come dedotto dai ricorrenti, avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 37 D.P.R. n. 380 del 2001 e non ingiungerne la demolizione.
Per le ragioni su esposte, il ricorso in epigrafe è fondato e deve essere accolto nella parte in cui è dedotta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione in riferimento ai manufatti sopra indicati per i quali è stata ingiunta la demolizione, realizzati antecedentemente al settembre 1967, nonché con riguardo al massetto in calcestruzzo, al serbatoio di acqua, al condizionatore e alla vasca Imhoff e va, per tale parte, accolto.
Nel resto e, specificamente, con riferimento all’ordine di demolizione relativo all’ampliamento del capannone, all’edificazione del locale cucina di cui al punto 2) dell’ordinanza impugnata, esso è infondato e deve essere rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 20.05.2015 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ammissione che il fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano la medesima sagoma già implica che l’intervento non possa qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo ex d.lgs. n. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione, affinché l’intervento sia qualificabile come ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se le sagome divergono, per quanto modesta possa essere la divergenza, l’intervento non è più qualificabile come ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina valevole per gli interventi di “nuova costruzione”.
In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume dell’immobile ricostruito sia (leggermente) inferiore al volume di quello demolito, perché la legge richiede il rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla sagoma (che deve essere la “medesima”).

... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione del permesso di costruire n. 3713 del 09.07.2013, del permesso di costruire in variante n. 3728 del 10.04.2014 e del permesso di costruire n. 3729 del 24.04.2014.
...
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano che l’intervento edilizio assentito con il permesso di costruire del luglio 2013 non avrebbe potuto essere qualificato come ristrutturazione, costituendo invece un intervento di nuova costruzione; trattandosi di un intervento di nuova costruzione, esso avrebbe dovuto essere conforme ai parametri previsti dall’articolo 15/0 delle n.t.a. del P.R.G. comunale (e quindi essere posto a 5 metri dai confini e a 10 metri dalle pareti finestrate e rispettare il rapporto di copertura 0,15).
La tesi dei ricorrenti è che la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione implicherebbe che l’edificio da ricostruire abbia i medesimi forma, volume e sagoma del preesistente fabbricato da demolire; nella fattispecie invece è stato autorizzato un fabbricato con caratteristiche sostanzialmente diverse sia sotto il profilo della forma che sotto i profili del volume e della sagoma.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono fondate.
Va premesso che la nozione di “ristrutturazione edilizia” e in particolare quella di “ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione” è stata oggetto di varie modifiche alcune delle quali risalgono proprio all’epoca dei permessi di costruire impugnati.
Alla data del rilascio del primo di essi –cioè alla data del 09.07.2013– era vigente la definizione recata dall’articolo 3, comma 1, lettera d), come modificata dall’articolo 30 del d.l. 21.06.2013, n. 69.
Il testo vigente alla data del 09.07.2013 riconduceva alla ristrutturazione gli interventi di demolizione e ricostruzione alla condizione che l’immobile da ricostruire avesse il medesimo volume di quello demolito (il testo previgente prevedeva il doppio limite del rispetto della sagoma e della volumetria); tuttavia per gli immobili soggetti a vincolo ex d.lgs. 22.01.2004, n. 42 era in pratica fatta salva la disciplina precedente, e quindi il doppio limite della sagoma e del volume, perché il nuovo testo stabiliva che “rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente” (questo limite è rimasto anche nel testo attualmente vigente).
L’immobile che viene in rilievo ricade incontestatamente in area soggetta a vincolo (si legga la relazione tecnica) tant’è che sul progetto è stata acquisita l’autorizzazione paesaggistica (che è infatti citata nel preambolo del permesso di costruire; d’altra parte una seconda autorizzazione paesaggistica datata 18.03.2014 è stata rilasciata per il progetto in variante e quest’ultima autorizzazione è citata anche nel preambolo del permesso di costruire del 24.04.2014). Di conseguenza, affinché il progetto potesse qualificarsi nei termini di una ristrutturazione, sarebbe stato necessario che la prevista ricostruzione avvenisse nel rispetto della sagoma del preesistente fabbricato; la sagoma è stata invece modificata (per quanto di poco) e di conseguenza l’intervento non è qualificabile come ristrutturazione.
Sul punto non appaiono convincenti le argomentazioni del comune e della società controinteressata che evidenziano come il mutamento della sagoma risulti modesto e come il volume del fabbricato da ricostruire risulti persino inferiore (anche se di poco) a quello demolito.
Per quanto riguarda il primo profilo, l’ammissione che il fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano la medesima sagoma già implica che l’intervento non possa qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo ex d.lgs. n. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione, affinché l’intervento sia qualificabile come ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se le sagome divergono, per quanto modesta possa essere la divergenza, l’intervento non è più qualificabile come ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina valevole per gli interventi di “nuova costruzione”.
In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume dell’immobile ricostruito sia (leggermente) inferiore al volume di quello demolito, perché la legge richiede il rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla sagoma (che deve essere la “medesima”).
Parimenti non fondato è l’argomento basato sul disposto dell’articolo 17 della legge regionale 11.08.2008, n. 15 (cui fa riferimento la relazione tecnica al progetto e che è stato invocato nelle difese); che le divergenze tra immobile demolito e immobile ricostruito non superino il limite della variazione essenziale come definita in quell’articolo non è rilevante nella fattispecie, perché la definizione dell’articolo 17 attiene alla materia del trattamento sanzionatorio delle divergenze tra progetto assentito dall’amministrazione e quanto di fatto realizzato (come del resto lo stesso primo comma precisa con l’inciso “ai fini dell’applicazione degli articoli 15 e 16”); del resto –se anche si ritenesse di poter desumere argomenti per la decisione dall’articolo 17 citato- l’ultimo comma di esso stabilisce che “gli interventi di cui al comma 1 (tra cui rientra la “modifica della sagoma quando la sovrapposizione di quella autorizzata, rispetto a quella realizzata in variante, dia un'area oggetto di variazione, in debordamento od in rientranza, superiore al 10 per cento della sagoma stessa”), effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti in aree naturali protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal titolo abilitativo”.
Quanto alle argomentazioni basate sulla disciplina introdotta dall’articolo 1 d.lgs. 27.12.2001, n. 201 (cioè sulla norma che ha modificato la definizione di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione sostituendo all’espressione “demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente” quella di “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”) anch’esse, benché suggestive, non sono condivisibili; il ricorrente sostiene che il concetto di ricostruzione con stessa sagoma e stessa volumetria non possono interpretarsi come identica sagoma e identica volumetria ma come “standard massimi”, dato che altrimenti sarebbe vanificata la novella del 2002.
Al contrario va rilevato che la novella del 2002 ha fatto venir meno il vincolo della fedele ricostruzione dell’immobile demolito ma ha comunque mantenuto quello della identità di sagoma e di volume; il vincolo della identità di sagoma è poi venuto meno per effetto delle modifiche del 2013 ma è stato mantenuto per gli immobili da demolire e ricostruire in ambito soggetto a vincolo ex d.lgs. n. 42. In definitiva medesima sagoma non può che significare che le sagome dell’immobile demolito e dell’immobile da ricostruire debbano essere uguali; se non lo sono l’intervento –allorché si tratti di ambito vincolato- non è più una ristrutturazione ma una nuova costruzione con tutte le relative implicazioni.
Né può sostenersi che le modifiche siano state rese necessarie dall’adeguamento alla normativa antisismica, dato che non è stato dimostrato –e invero appare decisamente improbabile- che non fosse possibile ricostruire un immobile avente la medesima sagoma di quello demolito conforme alla normativa antisismica (ovvero perché la sagoma preesistente fosse incompatibile con la normativa antisismica).
In definitiva la controinteressata aveva due alternative; o presentare un progetto che prevedesse un nuovo fabbricato con sagoma e volume identici a quello da demolire ovvero presentare un progetto che superasse questo limite; in quest’ultimo caso però –trattandosi di nuova costruzione– si sarebbero dovuti rispettare i parametri urbanistici previsti per questa categoria di intervento; l’operazione autorizzata dal comune si è invece tradotta nella realizzazione di una nuova costruzione con la elusione dei limiti previsti dalle n.t.a. del P.R.G. per questa categoria di interventi (che, ove correttamente applicati, avrebbero implicato la realizzazione di un intervento ben più modesto data la necessità di rispettare le distanze dai confini e il prescritto rapporto di copertura).
Di conseguenza è fondato il primo motivo, cosicché il permesso di costruire del 09.07.2013 è illegittimo ed è illegittimo per invalidità derivata anche il permesso in variante assentito il 10.04.2014 (TAR Lazio-Latina, sentenza 20.05.2015 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACom'è noto, la procedura disciplinata dall'art. 31 del D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall'art. 7 della L. 47/1985) prevede che l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione dell'immobile abusivo; se il responsabile non provvede alla demolizione nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale; l'art. 31, terzo comma, dispone che "se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune", indicando che l'effetto ablatorio si verifica ope legis per effetto dell'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma: "l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente").
Questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla logica degli istituti giuridici che connotano la specifica disciplina, in quanto la scadenza del termine per ottemperare configura il presupposto per l'applicazione automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà sull'immobile non demolito.
Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto comma).
Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà notificare formalmente all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa e della giurisprudenza penale di legittimità secondo cui la notifica del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento della notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
---------------
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione.

Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Dall’istruttoria svolta, infatti, è emerso che, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, l’ingiunzione di demolizione n. 6 del 17.03.2008, avente ad oggetto le opere abusive edificate sul fondo di proprietà della ricorrente è stata ritualmente notificata alla stessa mediante consegna di copia dell’atto al marito convivente, in data 26.03.2008.
La ricorrente non ha in alcun modo contestato le modalità della notifica né dedotto una eventuale invalidità della stessa, di tal che la comunicazione dell’atto sanzionatorio risulta correttamente effettuata.
Peraltro il procedimento è iniziato a seguito di sopralluogo effettuato in presenza della stessa ricorrente in data 13.02.2008, sopralluogo nel corso del quale è stata constatata l’esistenza di opere abusive e sequestrato il cantiere, con apposizione dei sigilli; il 29.02.2008 è stato comunicato alla ricorrente l’avvio del procedimento sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; il 06.11.2008 veniva constatata, sempre in presenza della ricorrente, la violazione dei sigilli apposti al cantiere.
Né la ricorrente può affermare la propria estraneità rispetto all’edificazione abusiva, in quanto, in primo luogo, non ha fornito alcuna dimostrazione di tale assunto, ad esempio deducendo e documentando la concessione ad altri della disponibilità del suolo, e, inoltre, sia dal verbale di sopralluogo e sequestro che da quello di violazione di sigilli risulta chiaramente la sua presenza in loco al momento dell’esecuzione dei lavori.
Con il secondo motivo di diritto parte ricorrente assume l'illegittimità dell'iter procedimentale per omessa notifica del verbale di inottemperanza all'ordine di demolizione, in violazione dell'art. 31, quarto comma, del D.P.R. 380/2001.
Al riguardo va evidenziato che, com'è noto, la procedura disciplinata dall'art. 31 del D.P.R. 380/2001 (e ancor prima, dall'art. 7 della L. 47/1985) prevede che l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione dell'immobile abusivo; se il responsabile non provvede alla demolizione nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, l'immobile è acquisito di diritto gratuitamente al patrimonio comunale; l'art. 31, terzo comma, dispone che "se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime ... sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune", indicando che l'effetto ablatorio si verifica ope legis per effetto dell'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. art. 31, quarto comma: "l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente") (TAR Napoli, sez. VIII, 26/03/2014 n. 1780, Consiglio di Stato sez. VI 08.05.2014 n. 2368).
Questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla logica degli istituti giuridici che connotano la specifica disciplina, in quanto la scadenza del termine per ottemperare configura il presupposto per l'applicazione automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà sull'immobile non demolito.
Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto comma). Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis), sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente alla demolizione, dovrà notificare formalmente all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (Consiglio Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174), seguita anche da questo Tribunale (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012 n. 1542; Sez. III, 19.01.2010 n. 195) e della giurisprudenza penale di legittimità (Cassazione penale, Sez. III, 28.11.2007 n. 4962 e 16.02.2005 n. 14638) secondo cui la notifica del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento della notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
Sono del pari infondati gli ulteriori due motivi con i quali l'esponente censura, rispettivamente, l'omessa specificazione dei manufatti oggetto di demolizione e la mancata ponderazione dell'interesse pubblico al ripristino con quello contrapposto del privato destinatario dell'atto sanzionatorio.
Sotto un primo profilo, le opere abusive acquisite di diritto ai sensi dell'art. 31, terzo comma, del D.P.R. 380/2001 vanno individuate in quelle realizzate ed ubicate sulla porzione immobiliare dettagliatamente indicata nei suoi estremi catastali (Foglio 2, particella 5044) e sono state specificamente descritte nell’ingiunzione a demolire che riporta: “All'interno di una recinzione costituita da parete in c.a. di cui è stata presentata regolare D.I.A. protocollo n. 4149 del 01.10.2007, risulta realizzata una costruzione composta da un vespaio in cemento armato rialzato dal suolo di circa mt. 1,00, su cui poggiano n. 12 pilastri con il relativo solaio di copertura, il tutto ancora armato e puntellato. Al primo piano sono eretti n. 5 armature in ferro e legno per pilastri prive di getto. Il manufatto insiste su di un area di circa 170 mq. (dimensioni mt. 15,00 x mt. 11,50 circa). L'abuso ricade nella zona "E" (Agricola) del P.R.G. del Comune di Casapesenna regolarmente approvato. L'abuso risulta realizzato su una zona di terreno distinta in catasto al foglio n. 2 particella 5044 di mq. 648,00”.
La descrizione risulta quindi analitica e individua compiutamente le opere e le relative dimensioni.
Quanto al pubblico interesse sotteso all'adozione del provvedimento, giova rammentare che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.02.2013 n. 718) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito), che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso, che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio si sposta, dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all'annullamento dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori.
In tali ipotesi, pertanto, viene a mancare l'interesse della parte ricorrente alla decisione sull'impugnativa del primo provvedimento sanzionatorio, in considerazione della necessaria successiva formazione di un ulteriore provvedimento (positivo o negativo) sull'istanza di sanatoria o "condono", anch'esso eventualmente censurabile in sede giurisdizionale dall'interessato.

La giurisprudenza amministrativa ha affermato costantemente che la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione, produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito), che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso, che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'interesse del responsabile dell'abuso edilizio si sposta, dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all'annullamento dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 07.11.2008, n. 1482; TAR Campania Napoli, sez. IV, 07.11.2008, n. 19352; TAR Sicilia Catania, sez. I, 04.11.2008, n. 1911; TAR Lazio Roma, sez. II, 15.09.2008, n. 8306).
In tali ipotesi, pertanto, viene a mancare l'interesse della parte ricorrente alla decisione sull'impugnativa del primo provvedimento sanzionatorio, in considerazione della necessaria successiva formazione di un ulteriore provvedimento (positivo o negativo) sull'istanza di sanatoria o "condono", anch'esso eventualmente censurabile in sede giurisdizionale dall'interessato (TAR Napoli, Sez. VII, n. 3605 del 26.07.2012)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il preavviso di diniego ex art. 10-bis della L. n. 241 del 07.08.1990 non può ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, che il privato non può limitarsi a denunciare la mancata o incompleta comunicazione del preavviso di rigetto, ma è anche tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento.
---------------
Nel caso in esame, attesa la palese non conformità delle opere alla disciplina pianificatoria vigente, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito.
Infatti, a fronte dell'entità dell'abuso edilizio (nuova costruzione di un edificio in zona nella quale non sono consentiti interventi di tale portata), l'attività provvedimentale sull'istanza di sanatoria (di per sé vincolata al riscontro della doppia conformità e priva di margini discrezionali), non può che condurre al rigetto della stessa, con conseguente inconsistenza delle censure formali attinenti alla violazione degli artt. 7 e 10-bis , l. n. 241 del 1990.

Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto che non sarebbe stato inviato il preavviso di diniego dell’istanza.
In proposito deve rilevarsi che il preavviso di diniego ex art. 10-bis della L. n. 241 del 07.08.1990 non può ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, che il privato non può limitarsi a denunciare la mancata o incompleta comunicazione del preavviso di rigetto, ma è anche tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (in tal senso ex multis TAR Sardegna, sez. II, 17.11.2014 n. 952).
Di contro, nella specie la parte istante non ha in alcun modo contestato le ragioni sostanziali poste a fondamento del diniego, e relative all’insistenza dell’abuso in zona A2 contraddistinta dalla presenza di edifici monumentali, laddove sono consentiti dalla disciplina urbanistica vigente solo interventi di restauro e di utilizzo dei beni esistenti.
Nel caso in esame, quindi, attesa, la palese non conformità delle opere alla disciplina pianificatoria vigente, il vizio connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto stabilito (TAR Napoli, sez. II 10.04.2013 n. 1903).
Infatti, a fronte dell'entità dell'abuso edilizio (nuova costruzione di un edificio in zona nella quale non sono consentiti interventi di tale portata), l'attività provvedimentale sull'istanza di sanatoria (di per sé vincolata al riscontro della doppia conformità e priva di margini discrezionali), non può che condurre al rigetto della stessa, con conseguente inconsistenza delle censure formali attinenti alla violazione degli artt. 7 e 10-bis , l. n. 241 del 1990 (TAR Napoli, sez. IV 08.04.2013 n. 1822)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
Con i motivi aggiunti notificati il 16.09.2008 la ricorrente ha impugnato l’ordinanza commissariale n. 2052 del 04.06.2008 con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive, deducendo in primo luogo l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Al riguardo va rilevato che secondo costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (Consiglio di Stato VI Sezione 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio di Stato IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all'adozione dell'ordine di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento, perché il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, sicché nell'ipotesi di rigetto dell'istanza l'Amministrazione deve adottare un nuovo ordine di demolizione, con l'assegnazione in tal caso di un nuovo termine per adempiere.
Pertanto, considerato la sopravvenuta inefficacia dell'ordine di demolizione per effetto dell'istanza di accertamento di conformità, coerentemente con tale ricostruzione all’esito del procedimento, ed a seguito del diniego di sanatoria, l'amministrazione deve notificare una nuova ingiunzione a demolire per consentire all'interessato, che si è visto rigettare l'istanza di sanatoria, di optare per la demolizione in proprio al fine di evitare l'effetto pregiudizievole dell'acquisizione del bene al patrimonio pubblico.

Quanto, invece, all’impugnazione del provvedimento prot. 3259 del 23.9.2008, con il quale è stata accertata l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione prot. 2052 del 04.06.2008, il gravame è fondato.
Le ricorrenti hanno infatti dedotto l’inefficacia dei provvedimenti sanzionatori antecedenti alla richiesta di sanatoria (presentata l’08.07.2008) e quindi dell’avviso di acquisizione delle opere al patrimonio comunale, che avrebbe dovuto essere preceduto da un nuovo provvedimento sanzionatorio a seguito del diniego di sanatoria dell’08.07.2008.
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile in questione è stata infatti disposta con riferimento all’inottemperanza all’ordine di demolizione n. 2052 del 04.06.2008, a seguito del quale è stata presentata istanza di sanatoria, sfociata nel successivo diniego.
Come già visto secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all'adozione dell'ordine di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento (ex multis, TAR Campania, Sez. IV, 28.10.2005, n. 17863; 13.09.2004, n. 11983), perché il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, sicché nell'ipotesi di rigetto dell'istanza l'Amministrazione deve adottare un nuovo ordine di demolizione, con l'assegnazione in tal caso di un nuovo termine per adempiere.
Pertanto, considerato la sopravvenuta inefficacia dell'ordine di demolizione per effetto dell'istanza di accertamento di conformità, coerentemente con tale ricostruzione all’esito del procedimento, ed a seguito del diniego di sanatoria, l'amministrazione deve notificare una nuova ingiunzione a demolire per consentire all'interessato, che si è visto rigettare l'istanza di sanatoria, di optare per la demolizione in proprio al fine di evitare l'effetto pregiudizievole dell'acquisizione del bene al patrimonio pubblico (TAR Lazio, Roma, sez. II 04.02.2011 n. 1076, TAR Campania, Napoli, sez. III 13.05.2014 n. 2623, sez. III 19.02.2014 n. 1050, sez. VII 04.12.2008 n. 20973, TAR Catania, sez. I, 19/11/2008)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto all’omessa indicazione dei beni da acquisire in caso di inottemperanza alla demolizione, si evidenzia che ai fini della motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all'eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
---------------
Le censure incentrate sui vizi formali del provvedimento, con particolare riferimento alla violazione dell'art. 7 L. n. 241 del 1990 e alla omessa motivazione non sono suscettibili di accoglimento in quanto costituisce principio consolidato della giurisprudenza quello di considerare l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi come un atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo; ne consegue, quindi, che tale provvedimento vincolato non necessita di particolare motivazione in ordine alle norme violate, all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso e agli interessi privati coinvolti -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
---------------
Infine, con riferimento alla impossibilità di ottemperare all’ingiunzione demolitoria stante il sequestro penale dell’immobile, si rileva che ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p., il proprietario di un bene in sequestro può chiederne la riconsegna all'A.G. competente, la quale se del caso potrà accogliere la richiesta, dettando le necessarie prescrizioni e garanzie; di conseguenza il sequestro penale non è inquadrabile tra gli impedimenti assoluti all'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione e perciò non determina la sospensione del termine di novanta giorni per l'esecuzione della stessa, il cui infruttuoso decorso comporta acquisizione gratuita del bene al patrimonio del Comune, in base all'art. 31 del d.p.r. n. 380 del 06.06.2001.

Quanto all’omessa indicazione dei beni da acquisire in caso di inottemperanza alla demolizione, si evidenzia che ai fini della motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all'eventuale successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale (ex multis, da ultimo TAR Napoli, sez. VII, 09.01.2015 n. 68).
Le censure incentrate sui vizi formali del provvedimento, con particolare riferimento alla violazione dell'art. 7 L. n. 241 del 1990 e alla omessa motivazione, di cui al terzo e al quarto motivo, non sono suscettibili di accoglimento in quanto costituisce principio consolidato della giurisprudenza quello di considerare l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi come un atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo; ne consegue, quindi, che tale provvedimento vincolato non necessita di particolare motivazione in ordine alle norme violate, all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso e agli interessi privati coinvolti -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (cfr. ex multis, TAR Campania Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617; idem, Sez. VI, 15.06.2007, n. 6178).
Infine, con riferimento al quinto motivo, relativo alla impossibilità di ottemperare all’ingiunzione demolitoria stante il sequestro penale dell’immobile, si rileva che ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p., il proprietario di un bene in sequestro può chiederne la riconsegna all'A.G. competente, la quale se del caso potrà accogliere la richiesta, dettando le necessarie prescrizioni e garanzie; di conseguenza il sequestro penale non è inquadrabile tra gli impedimenti assoluti all'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione e perciò non determina la sospensione del termine di novanta giorni per l'esecuzione della stessa, il cui infruttuoso decorso comporta acquisizione gratuita del bene al patrimonio del Comune, in base all'art. 31 del d.p.r. n. 380 del 06.06.2001 (TAR Cagliari, sez. II, 11.12.2014 n. 1079; TAR Roma, sez. I, 30.12.2014 n. 13335; TAR Lecce, sez. III, 11.11.2014 n. 2740) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum che, in presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere l’atto, l’omessa censura di una di esse determini l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione giustificatrice non oggetto di censura.
Analogamente occorre, altresì, ritenere che, ove tutte le motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di disamina delle ulteriori censure relative alle restanti motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare alcun interesse all’analisi di tali censure [- «per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati»;
- «nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione»;
- «nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente»].

Osserva il Tribunale che il gravato annullamento del permesso di costruire è sostanzialmente basato su più ragioni, ognuna avente valore autonomo e suscettibile di reggere di per sé il provvedimento: per ragioni di economia processuale e di sinteticità della motivazione della sentenza, appare allora opportuno analizzare per prima cosa la questione relativa alla necessità dell’adozione di un Piano di Lottizzazione prima del rilascio del permesso di costruire in parola, in quanto da sola idonea a sorreggere l’impugnato diniego di condono.
Costituisce, infatti, ius receptum che, in presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere l’atto, l’omessa censura di una di esse determini l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione giustificatrice non oggetto di censura (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 2009; in senso analogo, TAR Liguria Genova, sez. I, 25.10.2010, n. 10015; TAR Campania Napoli, sez. VII, 02.10.2009, n. 5138).
Analogamente occorre, altresì, ritenere che, ove tutte le motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di disamina delle ulteriori censure relative alle restanti motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare alcun interesse all’analisi di tali censure [ex multis, TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui «per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati»; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui «nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione»; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui «nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente»]
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che “E' illegittima la pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale, allorquando sia accertato che la costruzione in progetto insiste nel lotto residuo di un'area già edificata e dotata delle necessarie opere di urbanizzazione (cd. "lotto intercluso")”, sempre la giurisprudenza amministrativa ha anche precisato che tale principio non è però applicabile “nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione)”.
O
sserva il Tribunale come sia incontroverso che l’area in questione ricade in zona classificata “C”, di espansione residenziale, dal PRG del Comune di Baselice; e che tale strumento urbanistico condiziona gli interventi da effettuarsi ivi alla previa redazione e approvazione di un Piano di Lottizzazione, il quale nella specie è invece mancante (e, in ogni caso, lo stesso è stato ritenuto non necessario al momento del rilascio del permesso di costruire oggetto dell’annullamento qui in discussione).
La tesi portata avanti dal C., all’atto della presentazione dell’istanza edilizia e anche in questa sede, è, infatti, che il lotto di sua proprietà sarebbe in sostanza “di completamento”, essendo ubicato in zona centrale dell’abitato (limitrofa al centro antico), del tutto urbanizzata e dotata delle necessarie infrastrutture: la previa redazione di pianificazione attuativa non sarebbe allora necessaria, poiché, come chiarito da giurisprudenza costante in fattispecie analoghe, non avrebbe più alcuna utile funzione.
Peraltro, sostiene sempre il ricorrente, i box auto da realizzare avrebbero il carattere della pertinenzialità rispetto ad un edificio da costruire in un secondo momento (cfr. relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire prot. n. 2828 del 28.05.2012).
Ora, se è vero che la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che “E' illegittima la pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale, allorquando sia accertato che la costruzione in progetto insiste nel lotto residuo di un'area già edificata e dotata delle necessarie opere di urbanizzazione (cd. "lotto intercluso")” (così TAR Sardegna n. 576 del 30.03.2007; nonché in senso analogo cfr. TAR Sicilia-Catania n. 386 del 13.02.2012; TAR Puglia-Lecce n. 15 del 10.01.2012; TAR Campania-Napoli n. 546 del 30.01.2009), sempre la giurisprudenza amministrativa ha anche precisato che tale principio non è però applicabile “nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione)” (così TAR Sardegna n. 117 del 10.02.2011, nonché, analogamente, Cons. di Stato sez. IV, n. 4255 del 22.08.2013; Cons. di Stato sez. IV, n. 7486 del 13.10.2010; TAR Puglia-Lecce n. 294 del 10.02.2011; TAR Basilicata n. 28 del 14.01.2011)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: La giurisprudenza amministrativa ritiene che l’art. 107 del T.U. 18.08.2000 n. 267 vada letto, alla stregua del correlato art. 4 del T.U. 30.03.2001 n. 165 sul pubblico impiego, come un’actio finium regundorum tra le competenze degli organi di governo e quelle delle strutture amministrative, e dunque non come obbligo dei vertici di queste ultime di esercitare direttamente tutte le attribuzioni ad essi affidate.
Nell'ambito dei poteri di organizzazione riconosciuto ai dirigenti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17, lett. d), del T.U. 30.03.2001 n. 165 (che prevede poteri sostitutivi in caso di inerzia) e 6 della L. 07.08.1990 n. 241 (che enumera le funzioni del responsabile del procedimento), rientra anche la possibilità di delegare alcune competenze a funzionari incardinati nella struttura dell’ufficio, con la precisazione che il comma 1-bis, aggiunto all'art. 17 del citato T.U. dall'art. 2 della L. 15.07.2002 n. 145 (il quale prevede tale facoltà per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, a favore di dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati), costituisce peraltro esplicitazione di un potere che era già implicito in base alla previgente disciplina normativa.
Alla luce della disposizione normativa da ultimo richiamata deve ritenersi che la potestà decisoria conferita dalla legge ai dirigenti in materia di rilascio di concessioni edilizie possa essere delegata a un funzionario e, pertanto, anche i relativi provvedimenti di secondo grado.

Il motivo è infondato.
In punto di diritto, l’art. 107 -Funzioni e responsabilità della dirigenza– del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, al comma 3 prevede, per quello che in questa sede interessa, che: “3. Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: a) ….. f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie; g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale;”.
Inoltre l’art. 17 -Funzioni dei dirigenti– al comma 1 tra l’altro dispone: “1. I dirigenti, nell'ambito di quanto stabilito dall'articolo 4 esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri: …d) dirigono, coordinano e controllano l’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia;….” ed il comma 1-bis., comma aggiunto dall’art. 2, comma 1, della L. 15.07.2002, n. 145, prevede: “1-bis. I dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del codice civile.”
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ritiene che l’art. 107 del T.U. 18.08.2000 n. 267 vada letto, alla stregua del correlato art. 4 del T.U. 30.03.2001 n. 165 sul pubblico impiego, come un’actio finium regundorum tra le competenze degli organi di governo e quelle delle strutture amministrative, e dunque non come obbligo dei vertici di queste ultime di esercitare direttamente tutte le attribuzioni ad essi affidate.
Nell'ambito dei poteri di organizzazione riconosciuto ai dirigenti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17, lett. d), del T.U. 30.03.2001 n. 165 (che prevede poteri sostitutivi in caso di inerzia) e 6 della L. 07.08.1990 n. 241 (che enumera le funzioni del responsabile del procedimento), rientra anche la possibilità di delegare alcune competenze a funzionari incardinati nella struttura dell’ufficio, con la precisazione che il comma 1-bis, aggiunto all'art. 17 del citato T.U. dall'art. 2 della L. 15.07.2002 n. 145 (il quale prevede tale facoltà per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, a favore di dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati), costituisce peraltro esplicitazione di un potere che era già implicito in base alla previgente disciplina normativa.
Alla luce della disposizione normativa da ultimo richiamata deve ritenersi che la potestà decisoria conferita dalla legge ai dirigenti in materia di rilascio di concessioni edilizie possa essere delegata a un funzionario (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II Consultiva, n. 321 del 09.12.2004) e, pertanto, anche i relativi provvedimenti di secondo grado.
Passando ad esaminare la fattispecie oggetto di gravame, il Collegio, confermando quanto già sostenuto da questa Sezione nell’ordinanza n. 1662 del 09.10.2014, con la quale è stata respinta la domanda incidentale di sospensione cautelare proposta dai ricorrenti, ritiene che il provvedimento impugnato non sia viziato per incompetenza, stante la delegabilità delle funzioni per un singolo procedimento ai sensi dell’art. 17 comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001, nella specie peraltro motivata per la ricorrenza in atto di una situazione di conflitto di interesse, funzioni delegate dal dirigente del V Settore Urbanistica del Comune di Marcianise al geom. M.A. con la disposizione dirigenziale prot. n. 9871 del 29.04.2014 anch’essa oggetto di gravame.
Occorre precisare che parte ricorrente ha solo apoditticamente censurato la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 dello Statuto del Comune di Marcianise; di contro la suddetta disposizione dirigenziale prot. n. 9871 del 29.04.2014 è stata adottata sul presupposto della precedente determinazione numero 785 del 06.05.2013, prodotta in giudizio da parte resistente, con la quale il medesimo dirigente aveva tra l’altro nominato il geom. Matteo Alberico quale suo sostituto “nel caso in cui ricorre l’obbligo di astensione a carico dello stesso dal partecipare all’adozione di atti, decisioni o attività che coinvolgono interessi propri o di altri soggetti, come individuati dal codice di comportamento dei dipendenti della P.A.”; tale determinazione espressamente richiama la delibera di Giunta Comunale n. 105 del 15.03.2011 “Integrazione regolamento degli uffici e dei servizi comunali - delega funzioni dirigenziali” disciplinante l’esercizio della delega da parte dei dirigenti
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In riferimento all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che tale distanza va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
---------------
Secondo la consolidata giurisprudenza, la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni. Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.

Il suddetto motivo è infondato in punto di fatto.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, l’ordinanza impugnata esplicita le ragioni di pubblico interesse poste a fondamento del provvedimento adottato in autotutela, “la tutela dell'interesse pubblico all'igiene, alla sicurezza e al decoro della collettività”, evidentemente diverse dall’interesse al ripristino della legalità ed idonee a giustificare, ad avviso del Collegio, il sacrificio del contrapposto interesse privato, in conformità a quanto previsto dell'art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990.
Ed infatti nel provvedimento impugnato è, in particolare, rappresentato: “Atteso che:
- Per quanto sopra e tenendo conto degli interessi pubblici, di quelli dei proprietari dell'immobile di che trattasi nonché di eventuali soggetti comunque interessati e quelli dei contro interessati,… è opportuno e necessario annullare i seguenti titoli abilitativi:…. perché risultano essere illegittimi e lesivi degli interessi pubblici e privati ed in quanto sussistono ragioni di pubblico interesse in particolare: …….
- Per l'esistenza di distanze minime non garantite (DM 1444/1968), in quanto la norma sulla stesse è preordinata, più che alla tutela di interessi privati, alla tutela dell'interesse pubblico all'igiene, alla sicurezza e al decoro della collettività, attesi che il rispetto della distanza minima imposta è necessario per impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario;
- Per la valutata impossibilità di procedere ad eventuale rilascio di titolo edilizio in “sanatoria” od applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie in alternativa alla demolizione, atteso il mancato rispetto delle distanze fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti per fabbricati in Zona Classificata B del vigente PRG Comunale il tutto per la succitata tutela degli interessi privati, tutela dell'interesse pubblico cogente ed attuale dell'igiene, della sicurezza e del decoro della collettività, precisato, come sopradetto, che il rispetto della distanza minima imposta è necessario per impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario;….
”.
Sotto altro profilo non può attribuirsi rilievo all’affidamento ingeneratosi per effetto del rilascio del pregresso titolo in sanatoria dal momento che l’affidamento della parte privata alla stabilizzazione del rapporto giuridico in conformità del titolo in sanatoria appare per vero recessivo, nel caso qui dato, al cospetto degli evidenziati interessi pubblici, di valore preminente (cfr. TAR Napoli, Sezione VIII, 12.06.2014, n. 3264).
In particolare, in riferimento all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che tale distanza va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909, 02.11.2010, n. 7731).
---------------
In riferimento alla violazione delle distanze, il Collegio deve rilevare che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9 -Limiti di distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2, dispone: “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:.. 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal senso, Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n.4413, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art. 9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni. Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano, con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici, rende necessaria e vincolante l’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela.

Al riguardo il Collegio ritiene che principio per certo rilevante per il caso in esame è quello ben consolidato nella condivisibile giurisprudenza e in forza del quale se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché Sez. V, 12.10.2004 n. 6554).
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici, rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In epoca più risalente (1992), in assenza di titolo abilitativo edilizio, risulta che è stata trasformata una tettoia in capannone e, poi (1995), se ne è mutata (con opere materiali, tra cui l’installazione di un voluminoso container) la destinazione da deposito a locale di vendita;
- in epoca più recente (2003-2004), sempre in assenza di titolo abilitativo edilizio, risulta, altresì, esser stato realizzato ex novo un capannone e sostituito tettoie preesistenti con un’altra tettoia.
Ora, l’entità e la natura delle suindicate opere abusive inducono a ripudiare la tesi, propugnata da parte ricorrente, secondo cui si tratterebbe interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, non sanzionabili in via demolitoria.
Ed invero, il C. non si è limitato ad effettuare riparazioni, rinnovazioni e sostituzioni di parti dei manufatti preesistenti, senza alterarne le volumetrie e le destinazioni d’uso, ma ha realizzato organismi edilizi nuovi o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari.
Ha, cioè, costruito e ricostruito capannoni e tettoie, implicanti, per le relative caratteristiche dimensionali, morfologiche, strutturali e funzionali, una significativa e stabile trasformazione del territorio in termini di incremento planivolumetrico e di aggravio del carico insediativo.
Ebbene, una simile attività di trasformazione edilizia non poteva non essere assoggettata, in quanto tale, al regime abilitativo del permesso di costruire ed essere, quindi, sanzionata in via esclusivamente ripristinatoria ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001.

1. Prima di scrutinare i singoli motivi di gravame, giova chiarire, in punto di fatto, che, come rilevato nella relazione di sopralluogo di cui alla nota della Polizia municipale di Teano, prot. n. 51, del 05.11.2007, nonché nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008, e sostanzialmente non contestato da parte ricorrente:
- in epoca più risalente (1992), il C., in assenza di titolo abilitativo edilizio, risulta aver trasformato una tettoia in capannone e, poi (1995), averne mutato (con opere materiali, tra cui l’installazione di un voluminoso container) la destinazione da deposito a locale di vendita;
- in epoca più recente (2003-2004), egli, sempre in assenza di titolo abilitativo edilizio, risulta, altresì, aver realizzato ex novo un capannone e sostituito tettoie preesistenti con un’altra tettoia.
2. Ora, l’entità e la natura delle suindicate opere abusive inducono a ripudiare la tesi, propugnata da parte ricorrente, secondo cui si tratterebbe interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, non sanzionabili in via demolitoria.
Ed invero, il C. non si è limitato ad effettuare riparazioni, rinnovazioni e sostituzioni di parti dei manufatti preesistenti, senza alterarne le volumetrie e le destinazioni d’uso, ma ha realizzato organismi edilizi nuovi o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari.
Ha, cioè, costruito e ricostruito capannoni e tettoie, implicanti, per le relative caratteristiche dimensionali, morfologiche, strutturali e funzionali (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), una significativa e stabile trasformazione del territorio in termini di incremento planivolumetrico e di aggravio del carico insediativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490; sez. IV, 11.11.2010, n. 8026; TAR Piemonte, sez. I, 30.11.2004, n. 3531; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 21.09.2002, n. 5491; Salerno, sez. II, 03.05.2004, n. 311; Napoli, 02.12.2004, n. 18027; 10.05.2005, n. 5765; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; 21.12.2007, n. 16493; 24.01.2008, n. 361; 07.05.2008, n. 3501; sez. III, 09.09.2008, n. 10059; sez. VI, 17.12.2008, n. 21346; sez. II, 29.01.2009, n. 492; sez. VIII, 07.05.2009, n. 2438; sez. II, 02.12.2009, n. 8320; sez. VI, 02.04.2012, n. 1522; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 05.04.2006, n. 359; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.12.2007, n. 6544; TAR Abruzzo, Pescara, 09.02.2008, n. 98; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 17.11.2008 , n. 3323; TAR Liguria, sez. I, 11.04.2012, n. 530).
Ebbene, una simile attività di trasformazione edilizia non poteva non essere assoggettata, in quanto tale, al regime abilitativo del permesso di costruire ed essere, quindi, sanzionata in via esclusivamente ripristinatoria ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui risulta senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (costruzione di organismi edilizi nuovi o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari), non contempla l'irrogazione di una sanzione alternativa a quella ripristinatoria.
La misura alternativa pecuniaria è, infatti, prevista unicamente per le diverse ipotesi di opere di ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31 cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire.
“Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua rimozione.

3. Il superiore approdo elide la censura di carenza di motivazione quanto alla irrogabilità della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
In questo senso, occorre rimarcare che il citato art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui –come detto– risulta senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (costruzione di organismi edilizi nuovi o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari), non contempla l'irrogazione di una sanzione alternativa a quella ripristinatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899).
La misura alternativa pecuniaria è, infatti, prevista unicamente per le diverse ipotesi di opere di ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31 cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire.
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009, n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di ristrutturazione edilizia abusiva, il modello legale tipico e vincolato di atto sanzionatorio è proprio quello dell’ingiunzione di demolizione, in quanto unico atto idoneo a soddisfare pienamente l’interesse pubblico risiedente in re ipsa nella rimozione dell’illecito e nella ricostituzione dell’assetto urbanistico-edilizio violato.
Cosicché, ove l’iter repressivo si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in caso di oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, si renderà applicabile la misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate.

4. Non varrebbe, peraltro, addurre, in senso contrario, che due dei tre manufatti contestati sono stati realizzati in modifica o sostituzione di altri manufatti preesistenti, così da integrare, ipoteticamente, gli estremi della ristrutturazione edilizia abusiva, suscettibile di sanzione alternativa pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001.
4.1. Innanzitutto, la regola immanente al citato art. 33 del d.p.r. n. 380/2001 è rappresentata dall’operatività della misura ripristinatoria, la quale non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale.
Ed invero, nel caso di ristrutturazione edilizia abusiva, il modello legale tipico e vincolato di atto sanzionatorio è proprio quello dell’ingiunzione di demolizione, in quanto unico atto idoneo a soddisfare pienamente l’interesse pubblico risiedente in re ipsa nella rimozione dell’illecito e nella ricostituzione dell’assetto urbanistico-edilizio violato; cosicché, ove l’iter repressivo si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.08.2002, n. 4374; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03.06.2003, n. 7107; 02.12.2003, n. 15208; 13.11.2006, n. 9463; 08.06.2007, n. 6038; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 02.08.2007, n. 1877; TAR Lazio, Roma, sez. I, 21.07.2009, n. 7285); mentre, solo in caso di oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, si renderà applicabile la misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.09.2002, n. 8106).
4.2. A prescindere dal superiore rilievo, deve, poi, osservarsi, in punto di fatto, che il ricorrente neppure ha minimamente documentato trattarsi di interventi di autentica ristrutturazione edilizia, senza incrementi volumetrici e/o alterazioni delle sagome degli originari manufatti, secondo l’accezione sancita dall’art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001 (vieppiù, nella versione applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati (segnatamente, per relationem alla richiamata ordinanza di sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008), l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio) e delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n. 380/2001).
---------------
Deve obiettarsi che, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
---------------
L’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio si rivela insuscettibile di invalidare l'atto finale, essendo stata, in data 06.11.2008, previamente notificata all’interessato la menzionata ordinanza di sospensione dei lavori ed essendo da quest’ultima ragionevolmente e agevolmente inferibile il proponimento dell’amministrazione comunale di applicare le susseguenti e doverose misure sanzionatorie.
Non senza considerare, ancora, che non occorre, comunque, la comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990, allorquando –come, appunto, nel caso in esame–, prima dell’ingiunzione di demolizione di opere abusive, l'interessato sia stato reso avveduto dell'avvio del procedimento finalizzato ad accertare la presenza dell’illecito edilizio in occasione del sopralluogo effettuato dall’autorità competente.

5. Più in generale, va escluso il lamentato deficit motivazionale, anche sotto il peculiare profilo della ponderazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’illecito edilizio e il confliggente affidamento del privato nella conservazione della res, consolidatosi nell’arco temporale trascorso dalla commissione dell’abuso.
Al riguardo, occorre rimarcare che l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, sez. I, 21.03.2011, n. 432);
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati (segnatamente, per relationem alla richiamata ordinanza di sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008: cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio) e delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n. 380/2001) (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n. 4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI, 09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II, 07.10.2008, n. 13456; sez. IV, 29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n. 18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564; 02.12.2008, n. 20794; sez. VI, 17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV, 06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009, n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117; 06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
6. Il C. non può, poi, fondatamente dolersi della mancata comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio.
In proposito, deve obiettarsi che, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
A ciò si aggiunga che, nella specie, l’ordinanza di demolizione è stata preceduta dall’ordinanza di sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008.
Anche sotto tale profilo, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio si rivela insuscettibile di invalidare l'atto finale, essendo stata, in data 06.11.2008, previamente notificata all’interessato la menzionata ordinanza di sospensione dei lavori ed essendo da quest’ultima ragionevolmente e agevolmente inferibile il proponimento dell’amministrazione comunale di applicare le susseguenti e doverose misure sanzionatorie (cfr. TAR Basilicata, 19.01.2008, n. 16; TAR Sardegna, sez. II, 03.09.2008, n. 1738; TAR Lazio, Latina, 26.01.2009, n. 56; TAR Liguria, sez. I, 28.01.2011, n. 169; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 01.09.2011, n. 4272).
Non senza considerare, ancora, che non occorre, comunque, la comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990, allorquando –come, appunto, nel caso in esame–, prima dell’ingiunzione di demolizione di opere abusive, l'interessato sia stato reso avveduto dell'avvio del procedimento finalizzato ad accertare la presenza dell’illecito edilizio in occasione del sopralluogo effettuato dall’autorità competente (cfr. nota della Polizia municipale di Teano, prot. n. 51, del 05.11.2007) (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470; TAR Liguria, Genova, sez. I, 17.10.2013, n. 1217) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACondono edilizio, via obbligata. Non si può prescindere dall'ok della Soprintendenza. Il presupposto di legittimità della concessione in sanatoria arriva sul tavolo del Cds.
È in generale condivisibile il principio secondo cui il nulla osta di competenza della Soprintendenza in materia di condono edilizio costituisce un presupposto di legittimità della concessione in sanatoria da cui non si può prescindere.

Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 18.05.2015 n. 2518.
I giudici di palazzo Spada hanno altresì evidenziato che diversi sono gli interessi tutelati dal Comune rispetto all'Autorità statale dedicata alla tutela del paesaggio, e quindi in astratto è da stigmatizzare l'operato del Comune che si pronunci richiamando pratiche analoghe della Soprintendenza, senza richiedere una espressione di compatibilità sulla vicenda concreta.
Nella sentenza in commento si è richiamata la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 196 del 2004) che ha precisato i limiti di applicabilità del c.d. terzo condono ai soli abusi formali, ovvero realizzati in mancanza del previo titolo a costruire ma non in contrasto con la vigente disciplina urbanistica, nonché la delimitazione del raggio applicativo del condono alle sole tipologie di abusi minori di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato I al decreto legge 269 del 2003, conv. in legge 326 del 2003.
L'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata è limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (si veda: Cassazione penale, sez. III, 01.10.2004, n. 1593)
Già lo stesso Consiglio di stato (si veda: Cons. stato, VI, 02.03.2010, n. 1200 in termini sulle opere minori; IV, 19.05.2010, n. 3174) ha ribadito che, ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, sono sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo le ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) che vi sia il previo parere dell'Autorità preposta al vincolo.
La valutazione espressa dal Comune, della inammissibilità a monte del condono, perché in zona vincolata e perché non rientrante negli abusi minori (condizione sub c), con consequenziale valutazione della inesistenza dei presupposti per coinvolgere (inutiliter) la Soprintendenza (condizione sub d), è in linea con la esigenza di economicità dell'azione amministrativa, essendo superflua nella vicenda esaminata, in acclarata mancanza dei presupposti di legge per la condonabilità delle opere, la effettuazione di un inutile vaglio di compatibilità paesaggistica (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015).
---------------
MASSIMA
L’appello è fondato e come tale da accogliere.
In primo luogo,
va richiamata la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 196 del 2004) che ha precisato i limiti di applicabilità del c.d. terzo condono ai soli abusi formali, ovvero realizzati in mancanza del previo titolo a costruire ma non in contrasto con la vigente disciplina urbanistica, nonché la delimitazione del raggio applicativo del condono alle sole tipologie di abusi minori di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato I al decreto legge 269 del 2003, conv. in legge 326 del 2003.
L’applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata è limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (così Cassazione penale, sez. III, 01.10.2004, n.1593)
Questo Consesso (Cons. Stato, VI, 02.03.2010, n. 1200 in termini sulle opere minori; IV, 19.05.2010, n. 3174) ha ribadito che,
ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, sono sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo le ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) che vi sia il previo parere dell’Autorità preposta al vincolo.
La valutazione espressa dal Comune, della inammissibilità a monte del condono, perché in zona vincolata e perché non rientrante negli abusi minori (condizione sub c), con consequenziale valutazione della inesistenza dei presupposti per coinvolgere (inutiliter) la Soprintendenza (condizione sub d), è in linea con la esigenza di economicità dell’azione amministrativa, essendo superflua nella vicenda esaminata, in acclarata mancanza dei presupposti di legge per la condonabilità delle opere, la effettuazione di un inutile vaglio di compatibilità paesaggistica.
Pertanto, l’accertata estraneità delle opere in questione dall’ambito applicativo del c.d. terzo condono, evidenziando di per sé una ragione giustificativa del diniego originariamente impugnato, consente di ritenere legittimo l’operato dell’amministrazione comunale.
Se pertanto il principio affermato dalla sentenza appellata è in generale condivisibile, nel senso che il nulla osta di competenza della Soprintendenza in materia di condono edilizio costituisce un presupposto di legittimità della concessione in sanatoria da cui non si può prescindere, diversi essendo gli interessi tutelati dal Comune rispetto all’Autorità statale dedicata alla tutela del paesaggio, e quindi in astratto è da stigmatizzare l’operato del Comune che si pronunci richiamando pratiche analoghe della Soprintendenza, senza richiedere una espressione di compatibilità sulla vicenda concreta, si evidenzia, di contro, la superfluità della richiesta di parere alla Soprintendenza nella ipotesi in cui, già per l’assenza di uno dei requisiti essenziali, sia impossibile la concessione in sanatoria del c.d. terzo condono, perché si tratta di abusi non minori.
La censura che il ricorso originario aveva proposto e il primo giudice accolto, non attiene alla contestazione del fatto che l’abuso si trovi in zona vincolata (il ricorso di primo grado non è stato accolto su tale profilo), o sulla insistenza del vincolo paesaggistico, il che richiederebbe accertamenti in punto di fatto, in verità non chiesti, ma alla circostanza che sia stata richiamato parere della Soprintendenza su pratica analoga, al fine di ritenere superfluo, come in effetti è, il giudizio di compatibilità paesaggistica.
E’ evidente che, per natura e dimensioni, anche se si tratta in fatto di manufatto di ridotte dimensioni –tanto che secondo la ricorrente originaria non risponderebbe ad esigenze abitative (trattasi di costruzioni di circa trenta metri quadri)– dal punto di vista della natura delle opere, esse non possono essere che esulare dalla nozione di abusi minori così come sopra classificati sulla base della legge richiamata (restauro, risanamento etc.).
L’accoglimento dell’appello in ordine al diniego di concessione non può che ridondare altresì in ordine alla validità derivata del successivo ordine di demolizione.

TRIBUTI: Ai consorzi di bonifica contributi solo se meritati.
Contributi ai consorzi di bonifica dovuti solo se gli interventi eseguiti hanno apportato benefici all'immobile del contribuente. L'ente che richiede il pagamento ha l'onere di fornire prova del presupposto impositivo. Non è sufficiente riferirsi genericamente a tutti i fabbricati ricompresi nell'area consortile, ma la presunzione di beneficio deve limitarsi a quelli inclusi nel cosiddetto «perimetro di contribuenza». In caso contrario, la cartella di pagamento è nulla per difetto di motivazione.

A ribadire il principio è la Ctp di Campobasso, che con la sentenza 06.05.2015 n. 722/2/15 segna un altro precedente in materia di contributi consortile (si veda anche ItaliaOggi del 26.03.2015).
Il caso in esame vedeva un contribuente opporsi a una cartella da 500 euro notificata dal locale consorzio. Quest'ultimo sosteneva che i proprietari degli immobili siti nei comprensori consortili avrebbero avuto l'obbligo di versare i contributi, dal momento che le opere di bonifica poste in essere avevano incrementato il valore di ogni fabbricato.
I giudici molisani, richiamando la pronuncia n. 8960/96 della Cassazione a sezioni unite, osservano però che «non rileva il beneficio complessivo che deriva dall'esecuzione di tutte le opere di bonifica, destinate a fini di interesse generale, né il miglioramento complessivo dell'igiene e della salubrità dell'aria». Per far scattare il versamento dell'onere al consorzio, infatti, «occorre un incremento di valore dell'immobile soggetto a contributo, in rapporto causale con le opere di bonifica (e con la loro manutenzione)». Pertanto, aggiungono i magistrati della Ctp il beneficio deve essere «diretto e specifico, conseguito o conseguibile a causa della bonifica».
Il consorzio impositore avrebbe dovuto produrre in giudizio sia il piano di classifica approvato dalla regione Molise sia il decreto di delimitazione del perimetro di contribuenza. In assenza di tale documentazione, «non può che accogliersi la proposta eccezione di vizio di motivazione della opposta cartella, con conseguente declaratoria di nullità assoluta della stessa» (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).

EDILIZIA PRIVATANel sistema normativo ratione temporis rilevante (ndr: ottobre 2012), in caso di infruttuoso decorso del termine per l’espressione del parere da parte della Soprintendenza ai sensi del comma 8 dell’articolo 146 D.Lgs. 42/2004, l’Organo statale non resta privato del potere di esprimere comunque un parere (in particolare, nell’ambito della conferenza di servizi di cui al successivo comma 9).
Tuttavia, il parere in tal modo espresso perde il proprio carattere di vincolatività e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso.

2. L’appello è infondato in base alle considerazioni che seguono.
2.1. E’ evidente che assume rilievo del tutto centrale ai fini del decidere la questione se, nell’ambito dello speciale procedimento per il rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici di cui all’articolo 146 del decreto legislativo 146 del 2004 e una volta decorso l’ordinario termine di quarantacinque giorni previsto per il rilascio del parere da parte della Soprintendenza (ivi, comma 8), resti consumato il potere in capo all’Organo statale di rendere tale parere, ovvero se l’atto consultivo possa essere reso anche dopo la scadenza del termine, mantenendo nondimeno la propria valenza vincolante.
2.2. Ad avviso del Collegio, la corretta ricostruzione della questione nei suoi termini normativi e sistematici richiede in primo luogo l’esatta individuazione del pertinente quadro normativo.
Ora, ai fini che qui rilevano giova richiamare i commi da 8 a 10 dell’articolo 146, cit., nella formulazione rilevante al tempo delle vicende di causa (si tratta del testo vigente nel corso del 2012, ossia prima delle modifiche apportate dall’articolo 25, comma 3, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164).
Ebbene, nella formulazione ratione temporis rilevante i commi da 8 a 10 stabilivano quanto segue: “8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione provvede in conformità.
9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Con regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, entro il 31.12.2008, su proposta del Ministro d'intesa con la Conferenza unificata, salvo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, sono stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti, ferme, comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge 07.08.1990, n. 241 e successive modificazioni.
10. Decorso inutilmente il termine indicato all'ultimo periodo del comma 8 senza che l'amministrazione si sia pronunciata, l'interessato può richiedere l'autorizzazione in via sostitutiva alla regione, che vi provvede, anche mediante un commissario ad acta, entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta. Qualora la regione non abbia delegato gli enti indicati al comma 6 al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, e sia essa stessa inadempiente, la richiesta del rilascio in via sostitutiva è presentata al soprintendente
”.
2.3. Ebbene, a fronte di tali previsioni, nel caso di adozione di un parere (negativo) da parte della Soprintendenza successivamente al decorso del richiamato termine di quarantacinque giorni (e successivamente all’indizione da parte dell’amministrazione procedente, della speciale conferenza di servizi di cui al comma 8), erano astrattamente ipotizzabili tre opzioni:
a) in base a una prima opzione (seguita dal TAR) in siffatte ipotesi dovrebbe concludersi nel senso dell’intervenuta consumazione del potere per l’Organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno);
b) in base a una seconda opzione (proposta dal Ministero appellante) nelle medesime ipotesi dovrebbe concludersi nel senso della permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine);
c) in base a una terza opzione interpretativa, nelle ridette ipotesi non potrebbe escludersi in radice la possibilità per l’Organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento; tuttavia il parere in parola perderebbe il carattere di vincolatività e dovrebbe essere autonomamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale.
2.4. Non sfugge al Collegio l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale (peraltro, puntualmente richiamato dall’appellante) di fatto tributario dell’orientamento dinanzi richiamato sub b).
E’ stato in particolare osservato che, in caso di superamento da parte della competente Soprintendenza del termine ordinariamente previsto per il rilascio del proprio parere (vincolante) ai sensi dei commi 5 e 8 dell’articolo 146, cit., il potere in capo all’Organo statale continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e 8 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso dinanzi al G.A. per contestare l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione statale (in tal senso: Cons. Stato, VI, 04.10.2013, n. 4914; in termini simili: Cons. Stato, VI, 18.09.2013, n. 4656).
In base a tale orientamento, la perentorietà del termine riguarderebbe non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal Giudice con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario –in tal senso: sentenza 4914/2013, cit.-).
2.5. Ebbene, pur tenendo nella massima considerazione l’orientamento appena richiamato, il Collegio ritiene che prevalenti ragioni di carattere sistematico depongano nel senso dell’adesione al diverso orientamento volto a riconoscere carattere perentorio al termine di quarantacinque giorni di cui al comma 5 dell’articolo 146, cit. (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 15.03.2013, n. 1561).
La decisione in parola (richiamando il pregresso orientamento che riconosceva carattere perentorio al termine riconosciuto alla Soprintendenza per procedere all’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica reso dall’amministrazione competente ai sensi dell’articolo 82 del d.P,R. 24.07.1977, n 616 –in seguito: articolo 162 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490-) ha quindi ritenuto che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e deve essere adottato.
Si osserva al riguardo che, nell’ambito di entrambi i modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione di controllo e quello attuale basato su un modello di sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del paesaggio attraverso il riconoscimento all’Organo statale di poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo costituzionale- di garantire in massimo grado la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile.
Sul punto occorre tuttavia operare una precisazione.
La sentenza n. 1561, cit. ha stabilito che il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146, cit. “è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante”.
2.6. Ma una volta chiarito che il parere tardivamente espresso resti privo di alcun effetto vincolante, occorre domandarsi se il medesimo articolo 146 ne impedisca tout-court l’espressione, ovvero se -più semplicemente- un siffatto parere possa comunque essere reso in favore dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato.
Ad avviso del Collegio il quesito deve essere risolto nel secondo dei sensi indicati.
Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto”.
Sussiste quindi un univoco indice normativo secondo cui, a seguito del decorso del più volte richiamato termine per l’espressione del parere vincolante (rectius: conforme) da parte della Soprintendenza, l’Organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato disposto dei commi 8, 9 e 10 (dinanzi riportati de extenso) rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione ai fini paesaggistici, una sorta di climax inverso per ciò che riguarda la possibilità per l’Organo statale di incidere attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti della vicenda autorizzatoria.
Ed infatti:
- nel corso di una prima fase –per così dire: fisiologica– che si esaurisce con il decorso del termine di quarantacinque giorni, l’Organo statale può, nella pienezza dei suoi poteri di cogestione del vincolo, emanare un parere vincolante dal quale l’amministrazione deputata all’adozione dell’autorizzazione finale non potrà discostarsi (comma 8);
- una volta decorso inutilmente il richiamato termine senza che la Soprintendenza abbia reso il prescritto parere (seconda fase), l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi nel cui ambito –per le ragioni dinanzi esposte– l’Organo statale, pur se non privato in assoluto del potere di esprimersi, potrà soltanto emanare un parere che l’amministrazione procedente avrà l’onere di valutare in modo autonomo;
- laddove poi l’inerzia della Soprintendenza di protragga ulteriormente oltre il termine di sessanta giorni da quello della ricezione della documentazione completa (terza fase), “l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione” (comma 9, terzo periodo). In tal modo il Legislatore rende chiaro che l’ulteriore, ingiustificabile decorso del tempo legittima l’amministrazione competente all’adozione dell’autorizzazione prescindendo in radice dal parere della Soprintendenza (il quale, evidentemente, viene così a perdere il proprio carattere di obbligatorietà e vincolatività).
2.7. Tanto premesso dal punto di vista generale, si può ora passare all’esame puntuale dei singoli argomenti proposti con il primo motivo di appello.
2.7.1. Non può essere condivisa la tesi secondo cui il richiamo operato dal secondo periodo del comma 8, cit. all’istituto del c.d. ‘preavviso di rigetto’ ai sensi dell’articolo 10-bis della l. 241 del 1990 confermerebbe in via implicita il carattere non consumabile del potere della Soprintendenza di rendere un parere tardivo e nondimeno vincolante.
Si osserva in contrario che il richiamo al c.d. ‘preavviso di rigetto’ ben si coniuga con la ricostruzione sistematica dinanzi offerta sub 2.5. e 2.6., atteso che:
i) il parere negativo del Soprintendente sortirà valenza di sostanziale diniego (e richiederà il previo rilascio del ‘preavviso di rigetto’) nelle sole ipotesi di svolgimento -per così dire– ‘fisiologico’ dell’iter autorizzatorio di cui al comma 8;
ii) al contrario, nelle ipotesi residuali di cui al successivo comma 9 il parere del Soprintendente perderà il suo carattere vincolante e non assumerà alcun effetto di sostanziale arresto procedimentale di segno negativo, in tal modo non richiedendo alcun previo avviso (non a caso, del resto, il comma 9 non richiama la previsione di cui all’articolo 10-bis, cit.).
2.7.2. Non può essere condivisa la tesi dell’appellante volta ad enfatizzare il richiamo contenuto al comma 9 dell’articolo 146, cit. al procedimento per conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14 e seguenti della l. 241 del 1990. Come anticipato in narrativa, l’appellante ritiene qui applicabile, in particolare, il comma 3-bis dell’articolo 14-ter della medesima l. 241 del 1990 secondo cui “in caso di opera o attività sottoposta anche ad autorizzazione paesaggistica, il soprintendente si esprime, in via definitiva, in sede di conferenza di servizi ove convocata, in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”.
Ebbene, il richiamo al comma 3-bis, cit. non sembra presentare alcun profilo di incongruità con la ricostruzione sistematica dinanzi offerta sub 2.5. e 2.6.
Ciò, in quanto il carattere (vincolante o non vincolante) del parere della Soprintendenza non va desunto dalle previsioni di cui al Capo IV della l. 241 del 1990 (il quale è sul punto sostanzialmente ‘neutro’, rinviando alla pertinente disciplina di settore), bensì dall’ordito normativo di cui alla parte II, Titolo IV del decreto legislativo n. 42 del 2004, per come dinanzi sistematicamente ricostruito.
2.7.3. Da ultimo, non può essere condivisa la tesi fondata sulle disposizioni in tema di conferenza di servizi le quali contemplano talune deroghe al pieno operare del principio maggioritario nel caso in cui il dissenso sia espresso da un’amministrazione preposta alla tutela del paesaggio.
Anche in questo caso, il Legislatore del 1990 (e delle successive novelle alla l. 241) si è interessato dei soli aspetti procedimentali relativi all’espressione dei pareri in seno alla conferenza di servizi e delle conseguenti modalità di composizione del dissenso, ma ha rimesso alla disciplina di settore la determinazione del corretto assetto di competenze amministrative (ivi compresa l’individuazione delle amministrazioni in concreto preposte alla tutela dei valori tutelati).
In definitiva, le disposizioni in tema di conferenza di servizi invocate dall’appellante non rappresentano un sistema chiuso e autonomo in tema di determinazione della latitudine dei poteri spettanti alla Soprintendenza, ma si limitano -piuttosto– ad operare una sorta di rinvio esterno alla pertinente disciplina di settore (in questo caso, la parte II, Titolo IV del decreto legislativo n. 42 del 2004, la cui esegesi sistematica è stata dinanzi chiarita retro, sub 2.5. e 2.6.).
2.8. In base a quanto esposto retro (sub 2.5, 2.6. e 2.7) si deve quindi concludere nel senso che, nel sistema normativo ratione temporis rilevante, in caso di infruttuoso decorso del termine per l’espressione del parere da parte della Soprintendenza ai sensi del comma 8 dell’articolo 146, l’Organo statale non restasse privato del potere di esprimere comunque un parere (in particolare, nell’ambito della conferenza di servizi di cui al successivo comma 9). Tuttavia, il parere in tal modo espresso perdeva il proprio carattere di vincolatività e avrebbe dovuto essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso.
Ebbene, siccome l’amministrazione competente (i.e.: l’Unione “Talassa”) ha omesso di valutare in modo autonomo e specifico l’incidenza del parere tardivamente reso dall’Organo statale e ne ha erroneamente ritenuto la valenza comunque vincolante (uniformandosi pedissequamente ad esso), la stessa ha posto in essere un’illegittimità attizia che deve essere censurata attraverso l’annullamento dell’atto di diniego dell’autorizzazione paesaggistica del 12.06.2013 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2015 n. 2136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Facilitato il solare sul pergolato.
Non serve il permesso di costruire per l'installazione di un impianto fotovoltaico su un pergolato. In quanto secondo le linee guida per l'autorizzazione degli impianti, l'installazione può avvenire sugli edifici esistenti e le loro pertinenze. Tra le pertinenze possono rientrare i pergolati, cioè manufatti con natura ornamentale realizzati in struttura leggera, facilmente amovibili e usati per riparare e ombreggiare le superfici di modeste dimensioni. La situazione non cambia se sui pergolati si installano dei pannelli fotovoltaici, purché vengano lasciati spazi per far filtrare la luce e l'acqua e non ci sia un aumento della volumetria.

Queste le precisazioni del Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 27.04.2015 n. 2134.
La nozione di pergolato non muta se alle piante si sostituiscono i pannelli fotovoltaici, sicché gli stessi devono essere collocati in modo tale da lasciare spazi per il filtraggio della luce e dell'acqua e non devono caratterizzarsi come copertura stabile e continua degli spazi sottostanti (articolo ItaliaOggi del 30.05.2015).

URBANISTICALa natura di atto strettamente vincolato della declaratoria di decadenza è elemento acquisito in giurisprudenza e tale orientamento è da tenersi presente in relazione all’atto qui in discussione.
Inoltre non può negarsi che l’atto dichiarativo della decadenza si configuri come manifestazione di tipo ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del termine di efficacia di un pregresso titolo o convenzione come effetto automatico contemplato dalla legge, tanto da non richiedere nemmeno una deliberazione dichiarativa di decadenza.
Avuto riguardo quindi alla natura giuridica e al contenuto dell’atto de quo, ritiene il Collegio che nel caso di specie sussistono quanto meno i presupposti per applicare la regola di cui all’art. 21-octies, 2° comma della legge n. 241/1990 giacché il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello avuto, cioè la declaratoria di decadenza del Piano, attesa la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione nel decennio decorrente dalla stipula della convenzione.
--------------
E' pacifico l’orientamento giurisprudenziale per il quale il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia.
La tesi della dedotta ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale va disattesa in quanto la prosecuzione degli effetti delle previsioni urbanistiche di secondo livello oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura.
---------------
Nella specie le opere di urbanizzazione primaria, nate dalla stipula della convenzione e poste a carico dei lottizzanti, da ritenersi indispensabili per la realizzazione degli interventi edilizi del comparto, non hanno raggiunto una entità tale da consentire il rilascio dei titoli edilizi, sicché si rende applicabile il principio giurisprudenziale secondo il quale se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo non è stato già raggiunto la dotazione minima degli standard urbanistici, la parte inattuata dello strumento urbanistico di secondo livello non permette il rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di nuove costruzioni.
Al di là del rilievo di carattere assorbente testé illustrato, non può concordarsi con la parte appellante la quale definisce factum principis addebitabile unicamente al Comune, e cioè l’aver dato rilevanza al contenzioso civile instauratosi su questioni di confini di proprietà tra il confinante sig. M. e i sigg.ri C..
Ebbene è il caso di osservare che in realtà la controversia va effettivamente ad incidere sull’assetto urbanistico dell’intera lottizzazione sia pure interessando solo una porzione delle proprietà dell’impresa M.: in particolare con l’azione possessoria promossa dal M. si rivendica parte di terreni destinati a realizzare la strada di accesso all’intero comparto e non v’è dubbio che, stante la notevole importanza dell’opera strutturale in questione, la eventuale compromissione della realizzazione della stessa può comportare una alterazione significativa dell’assetto della intera lottizzazione, consigliando, come avvenuto, al Consiglio Comunale, di soprassedere circa il rilascio dei titoli edilizi.
Ad ogni modo vale richiamare, quale elemento dirimente dell’intera questione, la regula iuris affermata da questo Consesso secondo la quale è irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della impossibilità della mancata attuazione se dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante.
Il fatto certo che rileva è che insomma il Piano attuativo (come avvenuto nella fattispecie) è rimasto comunque ineseguito per il periodo di efficacia del convenzionamento e l’inutile spirare del termine decennale è causa sufficiente a produrre l’inefficacia dello strumento de quo, non essendo neppure necessaria l’adozione di un atto dichiarativo della intervenuta caducazione.
---------------
Va osservato con riferimento al bene della vita sostanzialmente rivendicato dall’appellante che se l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro il termine di legge osta al perfezionamento della pretesa al rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del termine di esecuzione di un piano attuativo determina sì l’inefficacia dello stesso ma fa salva la destinazione urbanistica data all’area dal Piano Regolatore, di guisa che l’Amministrazione nell’adozione delle nuove decisioni sull’assetto urbanistico della porzione del territorio interessata non può prescindere totalmente dalle posizioni degli originari sottoscrittori della convenzione.

... per la riforma della sentenza del TAR Sardegna-Cagliari: Sezione II n. 553/2013, resa tra le parti, concernente decadenza piano di lottizzazione - silenzio su istanza di rilascio concessioni edilizie.
...
L’appello è infondato, rivelandosi i profili di doglianza ivi dedotti inidonei ad inficiare le statuizioni rese dal primo giudice con l’impugnata sentenza.
Col primo mezzo d’impugnazione (rubricato sub A) parte appellante denuncia la violazione delle disposizioni di tipo garantistico recate dagli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990, avendo l’Amministrazione omesso di inviare, com’era suo dovere, la previa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Il dedotto vizio procedimentale non sussiste.
La natura di atto strettamente vincolato della declaratoria di decadenza è elemento acquisito in giurisprudenza (cfr Cons. Stato Sez. IV 18/01/2011 n. 1411; Cons. Sez. V 11/07/1985 n. 260; idem 23/04/1982 n. 295) e tale orientamento è da tenersi presente in relazione all’atto qui in discussione.
Inoltre non può negarsi che l’atto dichiarativo della decadenza si configuri come manifestazione di tipo ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del termine di efficacia di un pregresso titolo o convenzione come effetto automatico contemplato dalla legge, tanto da non richiedere nemmeno una deliberazione dichiarativa di decadenza (cfr Cons. Stato Sez. IV 04/12/2007 n. 6170).
Avuto riguardo quindi alla natura giuridica e al contenuto dell’atto de quo, ritiene il Collegio che nel caso di specie sussistono quanto meno i presupposti per applicare la regola di cui all’art. 21-octies, 2° comma della legge n. 241/1990 giacché il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello avuto, cioè la declaratoria di decadenza del Piano, attesa la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione nel decennio decorrente dalla stipula della convenzione.
Con i profili di doglianza di cui alla lettera B) come variamente articolati con i subparagrafi indicati in fatto, l’appellante deduce in primo luogo la non applicabilità del termine decennale di cui all’art. 16 IV comma, 17 e 28 della legge n. 1150/1942, con il mantenimento dell’efficacia del Piano e rileva inoltre:
- che le opere di urbanizzazione sono state eseguite per la gran parte ed è stato il Comune con il suo comportamento ad impedire il completamento delle stesse e comunque la mancata esecuzione delle opere non è imputabile a responsabilità dell’impresa appellante;
- che v’è eccesso di potere per contraddittorietà e travisamento della realtà anche in relazione al fatto che l’Amministrazione avrebbe potuto esercitare i poteri di autotutela ed espropriativi in riferimento al contenzioso intercorso tra il sig. M. e i C. ed in ogni caso si sarebbe potuto rimodulare la situazione con lo stralcio della lottizzazione Massa da quella dei C.;
- che la sospensione del rilascio dei titoli ad aedificandum da parte del Comune ha “paralizzato” i termini di efficacia del Piano che quindi non sarebbero ancora scaduti;
- che l’appellante si è attivato per ottenere il rilascio delle concessioni ed ha cooperato per eliminare ogni problema ostativo al completamento della lottizzazione e comunque il Comune non ha preso minimamente in considerazione gli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda.
Le dedotte censure non appaiono condivisibili.
Quanto alla prima delle doglianze dedotte, è sufficiente osservare come sia pacifico l’orientamento giurisprudenziale per il quale il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI 20/01/2003 n. 200; idem 25/07/2001 n. 4073).
La tesi della dedotta ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, pure fatta valere, va disattesa in quanto la prosecuzione degli effetti delle previsioni urbanistiche di secondo livello oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Cons. Stato Sez. IV 29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543).
Con gli altri profili di doglianza parte appellante mette in discussione i presupposti che hanno condotto alla caducazione del Piano, imputando all’Amministrazione comunale, in ragione del comportamento sostanzialmente omissivo da questa tenuto, la non esecuzione nel termine de quo del Piano stesso, ma tali critiche non colgono nel segno.
In primo luogo occorre rilevare che nella specie le opere di urbanizzazione primaria, nate dalla stipula della convenzione e poste a carico dei lottizzanti (M. e C.), da ritenersi indispensabili per la realizzazione degli interventi edilizi del comparto, non hanno raggiunto una entità tale da consentire il rilascio dei titoli edilizi, sicché si rende applicabile il principio giurisprudenziale secondo il quale se nell’ambito dell’esecuzione dello strumento attuativo non è stato già raggiunto la dotazione minima degli standard urbanistici, la parte inattuata dello strumento urbanistico di secondo livello non permette il rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di nuove costruzioni (Cons. Stato Sez. IV 01/08/2007 n. 4276).
Al di là del rilievo di carattere assorbente testé illustrato, non può concordarsi con la parte appellante la quale definisce factum principis addebitabile unicamente al Comune, e cioè l’aver dato rilevanza al contenzioso civile instauratosi su questioni di confini di proprietà tra il confinante sig. M. e i sigg.ri C..
Ebbene è il caso di osservare che in realtà la controversia va effettivamente ad incidere sull’assetto urbanistico dell’intera lottizzazione sia pure interessando solo una porzione delle proprietà dell’impresa M.: in particolare con l’azione possessoria promossa dal M. si rivendica parte di terreni destinati a realizzare la strada di accesso all’intero comparto e non v’è dubbio che, stante la notevole importanza dell’opera strutturale in questione, la eventuale compromissione della realizzazione della stessa può comportare una alterazione significativa dell’assetto della intera lottizzazione, consigliando, come avvenuto, al Consiglio Comunale, di soprassedere circa il rilascio dei titoli edilizi.
Ad ogni modo vale richiamare, quale elemento dirimente dell’intera questione, la regula iuris affermata da questo Consesso secondo la quale è irrilevante ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della impossibilità della mancata attuazione se dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante (Cons. Stato Sez. IV 10/08/2011 n. 4761).
Il fatto certo che rileva è che insomma il Piano attuativo (come avvenuto nella fattispecie) è rimasto comunque ineseguito per il periodo di efficacia del convenzionamento e l’inutile spirare del termine decennale è causa sufficiente a produrre l’inefficacia dello strumento de quo, non essendo neppure necessaria l’adozione di un atto dichiarativo della intervenuta caducazione.
Con il motivo sub c) parte appellante critica la decisione del primo giudice di dichiarare la improcedibilità del ricorso (il primo) proposto avverso il silenzio serbato in ordine alla richiesta di esitazione delle domande di concessione edilizia, ma la statuizione assunta al riguardo appare ineccepibile.
Nella specie deve ritenersi essersi inverata la figura processuale della improcedibilità atteso che nelle more del giudizio avverso l’inerzia dell’Amministrazione è sopravvenuta l’adozione del provvedimento di decadenza che va ad innestarsi nel rapporto in contestazione traslando l’interesse sostanziale e processuale dei ricorrenti sul gravame interposto nei confronti dell’assunta, successiva determinazione (Cons. Stato Sez. IV 04/06/2014 n. 2862; idem 31/12/2009 n. 9292).
Con il motivo sub c1) vengono riproposti alcuni mezzi d’impugnazione già formulati in primo grado: con dette censure viene ribadita la tesi dell’imputabilità in capo all’Amministrazione delle cause di mancata esecuzione della lottizzazione e al riguardo si fa rinvio a quanto già in proposito osservato circa la non fondatezza di siffatto assunto difensivo.
Rimane da scrutinare il motivo sub D) con cui parte appellante si diffonde sulla richiesta risarcitoria ancorata non solo e non tanto sull’affermata illegittimità della delibera dichiarativa della decadenza, ma sul comportamento complessivo tenuto dal Comune irrispettoso delle regole della correttezza e dell’affidamento insorto in capo ai privati, relativamente alla mancata esecuzione delle obbligazioni pattizie nascenti dal convenzionamento.
Parte appellante sul punto fornisce poi ampi ragguagli sulla insorgenza e sul quantum dei danni patiti e sulla necessità che gli stessi siano risarciti.
Ritiene il Collegio che la domanda risarcitoria sia inammissibile e comunque infondata.
In primo luogo si rileva che in relazione agli interessi oppositivi propri dell’impugnazione proposta, l’assenza di vizi di legittimità a carico della deliberazione gravata impedisce di per sé la configurazione di un’azione amministrativa contra legem causativa di danno ingiusto suscettibile di ristoro patrimoniale, secondo lo schema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 codice civile (Cass. Sez. I Civ. 10/01/2003 n. 157).
Quanto poi agli aspetti di tipo pretensivo collegati al dedotto non corretto comportamento dell’Amministrazione che, ad avviso di parte appellante, avrebbe in sostanza impedito lo sfruttamento dell’attitudine edificatoria dei suoli oggetto di lottizzazione neppure è possibile ravvisare nell’agire del Comune di Pula una condotta contraria ai doveri della correttezza non essendo provata l’inadempienza alle pattuizioni poste in convenzione.
D’altra parte va osservato con riferimento al bene della vita sostanzialmente rivendicato dall’appellante che se l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro il termine di legge osta al perfezionamento della pretesa al rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del termine di esecuzione di un piano attuativo determina sì l’inefficacia dello stesso ma fa salva la destinazione urbanistica data all’area dal Piano Regolatore, di guisa che l’Amministrazione nell’adozione delle nuove decisioni sull’assetto urbanistico della porzione del territorio interessata non può prescindere totalmente dalle posizioni degli originari sottoscrittori della convenzione (Cons. Stato Sez. IV 03/11/1998 n. 1412), il che non giustifica un diritto al risarcimento.
In forza delle su estese considerazioni l’appello, in quanto infondato, va respinto, con la precisazione che ogni altro profilo di censura adombrato in gravame non ha rilevanza tale da far mutare le prese conclusioni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.04.2015 n. 2109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fittizia suddivisione dell'attività edificatoria.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva.

2. La vicenda in esame, secondo quanto emerge dalla ricostruzione effettuata dal Tribunale e dalla testuale riproduzione della provvisoria incolpazione opportunamente riprodotta dal ricorrente nell'atto di impugnazione, riguarda la realizzazione di una tettoia, avente una superficie di 100 mq ed asservita ad un preesistente esercizio commerciale destinato a bar ristorante, di proprietà dell'indagato, mediante presentazione, il 26/4/2010, di una d.i.a., alla quale faceva seguito, il 09/11/2010, altra d.i.a. avente ad oggetto la tamponatura temporanea della medesima tettoia per far fronte alle intemperie.
Tale modus operandi si riteneva tuttavia caratterizzato dall'indebito frazionamento dell'intervento, finalizzato alla realizzazione di nuovi volumi in ampliamento del bar ristorante e dalla falsa attestazione di conformità delle opere agli strumenti urbanistici, tanto da dar luogo ad un primo sequestro del manufatto, all'esito del quale l'indagato presentava istanza di permesso di costruire in sanatoria, accolto dall'amministrazione comunale di Pizzoferrato.
Il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria comportava l'annullamento, ad opera del Tribunale, del vincolo reale imposto sulle opere.
li Pubblico Ministero, tuttavia, disponeva una consulenza tecnica e, tenuto conto della natura e consistenza dell'intervento, della non conformità dello stesso allo strumento urbanistico, della ritenuta incompetenza dell'amministrazione comunale ed dell'assenza di una preventiva istruttoria, considerato che il permesso in sanatoria era stato richiesto il 24.12.2013, vigilia di natale e rilasciato, dopo due giorni festivi, il 27.12.2013, ipotizzava anche il concorrente reato di abuso d'ufficio, chiedendo ed ottenendo l'ulteriore misura cautelare reale poi revocata con il provvedimento impugnato.
...
6. Ciò posto, deve rilevarsi che, effettivamente, come affermato dal ricorrente, il provvedimento impugnato risulta fondato esclusivamente sulle allegazioni difensive, che vengono peraltro recepite senza alcuna valutazione critica, attribuendo loro un effetto demolitorio dell'ipotesi accusatoria che prescinde del tutto non soltanto dalle risultanze dell'attività investigativa dell'autorità inquirente, ma anche da dati fattuali dei quali lo stesso Tribunale ha dato precedentemente contezza.
Invero, la descrizione della vicenda sintetizzata dal Tribunale pone in evidenza una serie di comportamenti la cui particolarità non può essere ignorata.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle modalità con le quali si è proceduto alla realizzazione delle opere attraverso la frammentazione degli interventi, assentiti con d.i.a., per giungere al risultato finale della creazione di nuovi volumi e la successiva richiesta di un permesso di costruire in sanatoria, titolo abilitativo, quest'ultimo, che sarebbe stato dunque necessario fin dall'inizio per la realizzazione del manufatto.
7. Una simile evenienza, che nel caso in esame risulta ancor più rilevante, avendo l'ufficio di Procura ipotizzato la falsità delle asseverazione che accompagnavano le d.i.a. e l'abuso d'ufficio nel rilascio del titolo abilitativo sanante, non poteva essere ignorata, perché si pone in palese contrasto con il principio, ripetutamente affermato da questa Corte e che qui va ribadito, secondo il quale
il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv. 247175; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.04.2015 n. 16622 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condizionatore rimosso anche se comunale. Sentenza del consiglio di stato.
È legittimo il provvedimento adottato dall'amministrazione periferica del ministero dei beni culturali con cui si intima al conduttore di un immobile soggetto a vincolo storico-artistico la rimozione dell'impianto di condizionamento edificato anche quando il bene sia di proprietà del comune e quest'ultimo, in qualità di locatore, abbia espressamente negoziato l'intervento censurato.

Lo ha stabilito la VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 16.04.2015 n. 1942.
Nel caso concreto, i gestori di un'attività commerciale svolta all'interno di un edificio pubblico soggetto a vincolo, hanno edificato nel cortile dell'immobile una tettoia metallica per poi posizionarvi un impianto di condizionamento.
All'esito di alcuni accertamenti, il direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici del ministero dei beni e delle attività culturali ha ordinato la rimozione delle opere realizzate senza titolo autorizzatorio.
I due commercianti hanno, dunque, proposto ricorso contro il provvedimento negativo, chiedendone l'annullamento. All'esito del giudizio di primo grado, tuttavia, il Tribunale amministrativo ha confermato la legittimità della scelta operata dall'amministrazione.
La lite è stata riproposta innanzi al Consiglio di stato, adito in ultima istanza dai due soccombenti. In particolare, i due appellanti hanno contestato l'assoggettamento del cortile in cui era stato posizionato l'impianto di condizionamento al vincolo storico-artistico, siccome non indicato nel decreto che, in origine, aveva riconosciuto il particolare pregio dell'immobile. Sotto altro profilo, i due appellanti hanno sottolineato come gli interventi edilizi censurati con il provvedimento impugnato fossero stati concordati con l'amministrazione proprietaria dell'immobile (il comune), tanto da essere previsti nel contratto di locazione.
Ebbene, il Consiglio di stato, nel confermare quanto già affermato dal Tar, ha respinto entrambe le censure prospettate.
Quanto al perimetro del vincolo, i giudici romani hanno ben evidenziato come, nel decreto di riconoscimento si facesse riferimento alla planimetria catastale all'interno della quale -ancorché non esplicitamente- rientrava anche il cortile. Ad ogni modo -ha spiegato il consiglio di stato- corrisponde al generale criterio di logica e di esperienza ritenere che, salvo non sia diversamente stabilito, «i palazzi storici -che usualmente identificano un complesso unitario, quand'anche formato da successive stratificazioni e addizioni- devono presumersi vincolati nel loro insieme, stante l'esigenza che tali beni siano assoggettati a tutela nella loro interezza, a prescindere dal maggiore o minore pregio storico e artistico delle loro singole parti. Diversamente, la storicità del vincolo -che si riferisce al valore testimoniale dell'unità complessiva del manufatto- perderebbe ragione».
Altrettanto severa è la motivazione offerta nella sentenza con riferimento alla rilevanza della negoziazione intervenuta tra i gestori dell'immobile e il comune proprietario. Sul punto, Palazzo Spada ha spiegato come a nulla rilevi che i lavori sull'immobile fossero stati concordati con il comune, quale proprietario-concedente, in sede di stipula del contratto locativo «posto che l'assenso del proprietario agli interventi edilizi sull'immobile locato incide sulla legittimità degli stessi sul piano meramente contrattuale, ma non ha effetti derogatori su cogenti disposizioni di legge, che attengono a tutt'altra cura amministrativa che l'interesse locatizio».
Ne deriva che grava sempre sul conduttore l'obbligo di munirsi, prima dell'esecuzione dei programmati interventi, di tutti i necessari titoli autorizzatori pubblici presso le competenti amministrazioni, anche quando -come nel caso di specie- la controparte negoziale sia essa stessa un'amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015).

EDILIZIA PRIVATALe sanzioni per illeciti amministrativi –vale a dire, che puniscono comportamenti lesivi di precetti giuridici sanzionati da una norma non penale- si estinguono con la morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi (cfr. art. 7 l. 24.11.1981, n. 689).
Invece, come avviene in materia edilizia, la misura dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale in quanto è volta a ripristinare l’ordine prima ancora materiale che giuridico, alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto, cioè di una cosa, priva di un giusto titolo: non già a sanzionare il comportamento che ha dato luogo a quella cosa (al che presiede, piuttosto, la fattispecie penale dell’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue, a ben vedere, che la stessa qualificazione di ‘sanzione’ della misura ripristinatoria è impropria, perché non si tratta di sanzionare, cioè di punire, un comportamento, ma solo di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico quale si presentava, e che ha di mira solo l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione.
L’ablazione che può conseguire all’inadempimento dell’ordine di demolizione concerne un effetto anch’esso della stessa natura, perché con l’acquisizione al Comune l’ente pubblico può facilmente dar luogo alla realizzazione di quel ripristino a spese dei responsabili: ovvero, compensativamente -e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali- destinare la cosa stessa a soddisfare prevalenti interessi pubblici (art. 31, comma 5).
Per questa ragione, la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito (ad es. gli eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso).
Per tal genere di misure riparatorie a carattere reale, non è dato dubitare, per costante, consolidata e risalente giurisprudenza, della trasmissibilità agli eredi dell’obbligazione ripristinatoria insita nell’ordine di demolizione dell’opera abusiva.
---------------
L’acquisizione al patrimonio disponibile del Comune dell’area sulla quale insiste la costruzione (abusiva) si differenzia dalla stretta e immediata misura ripristinatoria insita nell’ordine di demolizione, posto che non solo estende l’ablazione al sedime (ed eventualmente all’area necessaria per opere analoghe), ma anche ne evidenzia il suo carattere di conseguenza dovuta (cfr. art. 31, comma 2, ultima parte) rispetto alla mancata esecuzione ad opera del destinatario dell’ordine di demolizione in base a quanto sopra detto (tale significando l’espressione ‘responsabile dell’abuso’, di cui al comma 2).
È evidente che non si tratta di sanzione di un comportamento (omissivo), perché se così fosse lo schema procedimentale applicativo dovrebbe essere quello della rammentata l. n. 689 del 1981: la quale invece non si applica alle misure ripristinatorie reali, nel cui alveo questa stessa ablazione va iscritta per le ragioni testé rammentate (v. infra per ulteriori considerazioni).
Nondimeno, poiché si tratta comunque di conseguenza oggettivamente incidente sul diritto di proprietà (estesa al sedime ed eventualmente all’area per opere analoghe), e postulante un volontario inadempimento da parte dell’obbligato, occorre –in omaggio a un elementare criterio di conoscenza ed esigibilità- che la persona dell’obbligato medesimo alla rimozione (o a patire –come si vedrà– l’operazione demolitoria comunale) sia stata fatta formalmente destinataria del previo ordine di demolizione ed abbia avuto a sua disposizione il termine per provvedere alla demolizione.
Non è stato così nel caso qui in esame, dove –come ricordato- l’ordine di demolizione era sì stato notificato, ma solo all’allora vivente proprietario, di cui gli attuali ricorrenti sono i successivi eredi. Né alcun onere di avvenuta informazione può essere presunto in capo a loro, essendo la loro successione nella proprietà del bene avvenuta non già inter vivos (il che comporta la presunzione di conoscenza della legittimità dell’immobile, a norma delle disposizioni incidenti sulla validità dei contratti: cfr art. 30) bensì mortis causa: sicché nulla è loro riferibile.
Ne consegue che –in deroga all’automatismo dell’acquisizione una volta decorso il termine dall’emanazione di un’ordinanza di demolizione come quella del caso presente- non può farsi derivare una così seria conseguenza se costoro stessi non sono stati fatti espressi destinatari di un rinnovato ordine di demolizione e, in seguito, non vi hanno -seppur così rettamente informati- adempiuto.
Ne consegue dunque che, in sede di rinnovazione del procedimento, l’ordine di demolizione dovrà essere comunicato nei confronti dei successori mortis causa.
De resto, non v’è chi non veda che se l’acquisizione al patrimonio comunale fosse –in rottura della coerenza del sistema- qualificata come sanzione personale della condotta di inottemperanza, non solo ne dovrebbe derivare la (già accennata) coerente applicazione secondo lo schema della l. n. 689 del 1981 (con conseguente opposizione in sede giurisdizionale ordinaria; la prescrizione, ecc.); ma anche la considerazione generale dell’irragionevolezza del sistema normativo, perché le ordinanze di demolizione resterebbero facilmente inottemperate col solo mezzo di un’artata alienazione dopo la loro notificazione. L’effettività della legge, in altri termini, rischierebbe di rimanere vanificata rispetto alla misura principe di ripristino dell’ordine urbanistico violato: il che sarebbe conseguenza irragionevole e rinnegante la funzione generale dell’art. 31.
Vero è poi che secondo Corte cost. «l’acquisizione gratuita […] si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso, non potendo di certo operare […] nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento»; e peraltro che «l’operatività dell’ingiunzione a demolire non presuppone sempre necessariamente la preventiva acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale, perché l’ingiunzione è un provvedimento amministrativo di natura autoritativa che, in quanto tale, è assistito, in base ai principî generali che regolano l’azione amministrativa, dal carattere dell’esecutorietà insito nel potere di autotutela che, come è noto, consiste nel potere-dovere degli organi amministrativi di dare esecuzione ai provvedimenti da essi stessi emanati. Di conseguenza, appare evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l’area sia di proprietà del terzo, la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di proprietà del terzo estraneo all’abuso deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la demolizione».
Ed è vero che, analogamente, nella giurisprudenza amministrativa si trova affermato che l’acquisizione gratuita dell'area dove è stato realizzato un immobile abusivo non possa essere dichiarata verso il proprietario estraneo al compimento dell'opera abusiva, che non possa ritenersi responsabile della stessa, facendo eccezione il caso in cui il proprietario, pur non responsabile dell'abuso, ne sia venuto a conoscenza e non si sia adoperato per impedirlo e l’ipotesi che l’attuale proprietario abbia acquistato il manufatto dal proprietario che aveva commesso l’abuso, pur se il nuovo non è responsabile dello stesso, subentrando nella sua posizione giuridica.
Nondimeno, quali che qui debbano essere le conseguenze –ovvero che persistano in concreto i presupposti per l’acquisizione gratuita comunale, o che il Comune debba, in forza di detto suo comportamento dovuto, demolire il manufatto abusivo intervenendo sul sedime altrui e quanto vi insiste- va rilevato che è illegittimo, come qui è avvenuto, disporre l’acquisizione gratuita, o in ipotesi effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell’ordine di demolizione.
---------------
Il proprietario di un manufatto abusivo può evitare che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale abbia effetto e lo colpisca, determinandone l’ablazione del diritto di proprietà, solamente dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile; e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione. Infatti il proprietario dell’area, fino a prova contraria, si presume corresponsabile dell’abuso edilizio.
---------------
La legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione.
Si tratta, del resto, di una conseguenza di una violazione di un obbligo di facere specifico nel termine fissato dall'amministrazione. E si è detto che l'acquisizione è prospettiva funzionale a far sì che il destinatario dell'obbligo di demolizione vi adempia in concreto.
Dunque, la misura dell'acquisizione gratuita –o della demolizione pubblica in danno- può essere rivolta soltanto all'autore della violazione ovvero a chi, subentrato nella titolarità del bene, sia stato destinatario dell’ordine di demolizione e non lo abbia ottemperato nei termini previsti dalla legge.

... per la riforma della sentenza breve del TAR EMILIA ROMAGNA-BOLOGNA: SEZIONE I n. 522/2013, resa tra le parti, concernente acquisizione opere abusive al patrimonio comunale.
...
2.- Prima di passare al merito della vicenda, appare opportuno riepilogare i fatti di causa.
L'ordinanza di demolizione n. 37 del 2007, richiamata nel provvedimento impugnato recante l’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile del Comune, era indirizzata al signor O.A., comproprietario con il signor O.L. di un terreno sul quale insistono due manufatti abusivi e dante causa delle odierne appellanti, che sono subentrate nella sua posizione patrimoniale a titolo di successione universale.
Detta ordinanza è stata impugnata davanti al Tribunale amministrativo dell’Emilia-Romagna dagli originari proprietari. Il ricorso è stato respinto con sentenza del 17.09.2009, n. 1526, passata in giudicato.
In data 15.03.2011 A.O. è deceduto, lasciando eredi le odierne appellanti.
Il Comune, con sopralluogo in data 09.12.2011, accertata l'inottemperanza al precedente ordine di demolizione, ha emanato il provvedimento in epigrafe indicato con il quale ha disposto, in confronto delle odierne proprietarie degli immobili abusivi oggetto dell’ordine di demolizione, l'acquisizione al patrimonio comunale dell'area su cui insistono i manufatti.
3.- Ritiene il Collegio che l'appello meriti accoglimento nei sensi di cui appresso.
4.- Il giudice di primo grado ha respinto il ricorso portato al suo esame sull'assunto che gli eredi, subentrando in locum et ius nella posizione patrimoniale del de cuius, succedono automaticamente in tutti i rapporti attivi e passivi rientranti nel patrimonio del loro dante causa e nella stessa posizione di quest'ultimo, ad ogni effetto giuridico.
5.- Con un unico motivo di ricorso le appellanti contestano la sentenza del Tribunale amministrativo nella parte in cui ha ritenuto che anche la sanzione acquisitiva, prevista dal citato art. 31 del Testo unico in materia edilizia (di cui al d.P.R. n. 380 del 2001), sia sostanzialmente una sanzione di tipo reale e che, come tale, abbia efficacia erga omnes, potendosi pertanto opporre non solo all’autore dell’abuso ma anche ai suoi eredi universali o ai successori o aventi causa a titolo particolare.
Il motivo appare meritevole di favorevole apprezzamento.
6.- Rileva il Collegio che le sanzioni per illeciti amministrativi –vale a dire, che puniscono comportamenti lesivi di precetti giuridici sanzionati da una norma non penale- si estinguono con la morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi (cfr. art. 7 l. 24.11.1981, n. 689).
7.- Invece, come avviene in materia edilizia, la misura dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale in quanto è volta a ripristinare l’ordine prima ancora materiale che giuridico, alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto, cioè di una cosa, priva di un giusto titolo: non già a sanzionare il comportamento che ha dato luogo a quella cosa (al che presiede, piuttosto, la fattispecie penale dell’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue, a ben vedere, che la stessa qualificazione di ‘sanzione’ della misura ripristinatoria è impropria, perché non si tratta di sanzionare, cioè di punire, un comportamento, ma solo di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico quale si presentava, e che ha di mira solo l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione.
L’ablazione che può conseguire all’inadempimento dell’ordine di demolizione concerne un effetto anch’esso della stessa natura, perché con l’acquisizione al Comune l’ente pubblico può facilmente dar luogo alla realizzazione di quel ripristino a spese dei responsabili: ovvero, compensativamente -e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali- destinare la cosa stessa a soddisfare prevalenti interessi pubblici (art. 31, comma 5).
Per questa ragione, la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito (ad es. gli eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso).
Per tal genere di misure riparatorie a carattere reale, non è dato dubitare, per costante, consolidata e risalente giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, VI, 07.04.2014, n. 3392; 10.02.2015, n. 708), della trasmissibilità agli eredi dell’obbligazione ripristinatoria insita nell’ordine di demolizione dell’opera abusiva.
8.- La particolarità della presente fattispecie è che si controverte non già dell’opponibilità dell’ordine di demolizione verso gli eredi dell’autore dell’abuso, quanto dell’esecuzione in confronto di costoro della successiva misura dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area di sedime e in ipotesi di quella per opere analoghe, unitamente a detta opera: e dopo che l’ordine di demolizione era stato notificato non a loro, bensì al loro dante causa quando ancora era in vita.
9.- Al proposito giova ricordare che l’art. 31 del d.P.R. n 380 del 2001 dispone, al comma 2, che l’amministrazione, accertata l’esecuzione di opere in assenza di permesso di costruire, in totale difformità dal medesimo ovvero con variazioni essenziali, ingiunge la demolizione.
Il comma 3 stabilisce poi che se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio comunale. Infine, il comma 4 prevede che l’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, nel termine predetto, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
La norma richiamata prevede un dispositivo articolato in una duplice fase di misure amministrative (ordine di demolizione ed acquisizione al patrimonio comunale in caso di inottemperanza al primo ordine di ripristino) già usuale in applicazione delle disposizioni normative in materia (cfr. art. 15, terzo comma, l. 28.01.1977 n. 10; art. 7 l. 28.02.1985 n. 47), che il Testo unico del 2001 consolida.
10.- Rileva il Collegio che dalla richiamata disposizione possono trarsi le seguenti considerazioni.
Anzitutto, l’acquisizione al patrimonio disponibile del Comune dell’area sulla quale insiste la costruzione si differenzia dalla stretta e immediata misura ripristinatoria insita nell’ordine di demolizione, posto che non solo estende l’ablazione al sedime (ed eventualmente all’area necessaria per opere analoghe), ma anche ne evidenzia il suo carattere di conseguenza dovuta (cfr. art. 31, comma 2, ultima parte) rispetto alla mancata esecuzione ad opera del destinatario dell’ordine di demolizione in base a quanto sopra detto (tale significando l’espressione ‘responsabile dell’abuso’, di cui al comma 2).
È evidente che non si tratta di sanzione di un comportamento (omissivo), perché se così fosse lo schema procedimentale applicativo dovrebbe essere quello della rammentata l. n. 689 del 1981: la quale invece non si applica alle misure ripristinatorie reali, nel cui alveo questa stessa ablazione va iscritta per le ragioni testé rammentate (v. infra per ulteriori considerazioni).
Nondimeno, poiché si tratta comunque di conseguenza oggettivamente incidente sul diritto di proprietà (estesa al sedime ed eventualmente all’area per opere analoghe), e postulante un volontario inadempimento da parte dell’obbligato, occorre –in omaggio a un elementare criterio di conoscenza ed esigibilità- che la persona dell’obbligato medesimo alla rimozione (o a patire –come si vedrà– l’operazione demolitoria comunale) sia stata fatta formalmente destinataria del previo ordine di demolizione ed abbia avuto a sua disposizione il termine per provvedere alla demolizione.
Non è stato così nel caso qui in esame, dove –come ricordato- l’ordine di demolizione era sì stato notificato, ma solo all’allora vivente proprietario, di cui gli attuali ricorrenti sono i successivi eredi. Né alcun onere di avvenuta informazione può essere presunto in capo a loro, essendo la loro successione nella proprietà del bene avvenuta non già inter vivos (il che comporta la presunzione di conoscenza della legittimità dell’immobile, a norma delle disposizioni incidenti sulla validità dei contratti: cfr art. 30) bensì mortis causa: sicché nulla è loro riferibile.
Ne consegue che –in deroga all’automatismo dell’acquisizione una volta decorso il termine dall’emanazione di un’ordinanza di demolizione come quella del caso presente: cfr. da ultimo Cons. Stato, VI, 08.05.2014, n. 2368; V, 11.07.2014, n. 3565- non può farsi derivare una così seria conseguenza se costoro stessi non sono stati fatti espressi destinatari di un rinnovato ordine di demolizione e, in seguito, non vi hanno -seppur così rettamente informati- adempiuto.
Ne consegue dunque che, in sede di rinnovazione del procedimento, l’ordine di demolizione dovrà essere comunicato nei confronti dei successori mortis causa.
De resto, non v’è chi non veda che se l’acquisizione al patrimonio comunale fosse –in rottura della coerenza del sistema- qualificata come sanzione personale della condotta di inottemperanza, non solo ne dovrebbe derivare la (già accennata) coerente applicazione secondo lo schema della l. n. 689 del 1981 (con conseguente opposizione in sede giurisdizionale ordinaria; la prescrizione, ecc.); ma anche la considerazione generale dell’irragionevolezza del sistema normativo, perché le ordinanze di demolizione resterebbero facilmente inottemperate col solo mezzo di un’artata alienazione dopo la loro notificazione. L’effettività della legge, in altri termini, rischierebbe di rimanere vanificata rispetto alla misura principe di ripristino dell’ordine urbanistico violato: il che sarebbe conseguenza irragionevole e rinnegante la funzione generale dell’art. 31.
Vero è poi che secondo Corte cost., 15.07.1991, n. 345 «l’acquisizione gratuita […] si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso, non potendo di certo operare […] nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento»; e peraltro che «l’operatività dell’ingiunzione a demolire non presuppone sempre necessariamente la preventiva acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale, perché l’ingiunzione è un provvedimento amministrativo di natura autoritativa che, in quanto tale, è assistito, in base ai principî generali che regolano l’azione amministrativa, dal carattere dell’esecutorietà insito nel potere di autotutela che, come è noto, consiste nel potere-dovere degli organi amministrativi di dare esecuzione ai provvedimenti da essi stessi emanati. Di conseguenza, appare evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l’area sia di proprietà del terzo, la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di proprietà del terzo estraneo all’abuso deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la demolizione».
Ed è vero che, analogamente, nella giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, V, 11.07.2014, n. 3565) si trova affermato che l’acquisizione gratuita dell'area dove è stato realizzato un immobile abusivo non possa essere dichiarata verso il proprietario estraneo al compimento dell'opera abusiva, che non possa ritenersi responsabile della stessa, facendo eccezione il caso in cui il proprietario, pur non responsabile dell'abuso, ne sia venuto a conoscenza e non si sia adoperato per impedirlo (cfr. Cons. Stato, III, 15.10.2009, n. 2371) e l’ipotesi che l’attuale proprietario abbia acquistato il manufatto dal proprietario che aveva commesso l’abuso, pur se il nuovo non è responsabile dello stesso, subentrando nella sua posizione giuridica.
Nondimeno, quali che qui debbano essere le conseguenze –ovvero che persistano in concreto i presupposti per l’acquisizione gratuita comunale, o che il Comune debba, in forza di detto suo comportamento dovuto, demolire il manufatto abusivo intervenendo sul sedime altrui e quanto vi insiste- va rilevato che è illegittimo, come qui è avvenuto, disporre l’acquisizione gratuita, o in ipotesi effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell’ordine di demolizione.
11.- Essendo l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale –ovvero la demolizione in danno- una misura prevista per l’ipotesi di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un’inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze.
12.- Su queste basi il Collegio qui considera che l’acquisizione gratuita dell’area –come la demolizione pubblica in danno- non possa essere senz’altro disposta nei confronti degli attuali interessati.
Il contrario sarebbe stato se, a norma dell'art. 31, comma 4, l'Amministrazione, previa notifica dell’atto all'interessato, avesse provveduto, prima della morte dei signori A. e L.O., alla trascrizione nei registri immobiliari del provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale.
Invece il provvedimento impugnato, che addebita l'omessa demolizione alle attuali appellanti (che risultano estranee alla attività di realizzazione dell’abuso), fa riferimento non solo ai proprietari originari, ma anche agli eredi, nonostante il richiamo all'ordinanza di demolizione n. 37 del 2007, ove l'unico destinatario era il signor O.A., poi deceduto.
13.- Del resto, il proprietario di un manufatto abusivo può evitare che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale abbia effetto e lo colpisca, determinandone l’ablazione del diritto di proprietà, solamente dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile; e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione. Infatti il proprietario dell’area, fino a prova contraria, si presume corresponsabile dell’abuso edilizio (Cons. Stato, VI, 04.10.2013, n. 4913).
14.- Nella fattispecie in esame è comunque mancata anche la comunicazione di avvio del procedimento acquisitivo, quindi l'acquisizione è stata realizzata nei confronti di soggetti che appaiono estranei all’attività abusiva, di tal che non è legittimo quanto disposto dall’Amministrazione comunale e impugnato davanti al giudice.
Invero, risulta per tabulas che non solo le odierne appellanti non hanno partecipato al procedimento amministrativo che ha portato all'ordinanza di demolizione, ma anche che non erano neanche i destinatari dell'ordinanza di demolizione n. 37 del 02.03.2007, che era indirizzata al signor O.A., deceduto nel marzo del 2011. E scaduto il termine di novanta dall'adozione dell’ordinanza di demolizione e prima del marzo 2011, l'Amministrazione non ha provveduto alla trascrizione nei registri immobiliare dall'accertamento dell'inottemperanza.
Deve essere ancora ricordato che l'acquisizione della proprietà mortis causa non comporta i doveri d'informazione e le responsabilità che caratterizzano il passaggio della cosa per atto inter vivos (né del resto il provvedimento di demolizione è soggetto a qualche forma di pubblicità).
Per conseguenza, diversamente opinando, gli eredi si troverebbero ad essere colpiti per non aver adempiuto ad un onere che non era da loro esigibile.
15.- Del resto, come già richiamato da questa VI Sezione, "la legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione" (cfr. Cons. Stato, VI, 04.10.2013, n. 4913). Si tratta, del resto, di una conseguenza di una violazione di un obbligo di facere specifico nel termine fissato dall'amministrazione. E si è detto che l'acquisizione è prospettiva funzionale a far sì che il destinatario dell'obbligo di demolizione vi adempia in concreto.
Dunque, la misura dell'acquisizione gratuita –o della demolizione pubblica in danno- può essere rivolta soltanto all'autore della violazione ovvero a chi, subentrato nella titolarità del bene, sia stato destinatario dell’ordine di demolizione e non lo abbia ottemperato nei termini previsti dalla legge.
16.- Per quanto si è fin qui detto, nel caso di specie, dette condizioni legali per l’adozione dell’atto acquisitivo in confronto delle odierni appellanti non ricorrono.
17.- In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono, l'appello va accolto, unitamente al ricorso di primo grado, e va annullato, in riforma della gravata sentenza, l'atto impugnato in quella sede impugnato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.04.2015 n. 1927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vicino può verificare se l'autolavaggio è ok.
Fra spazzoloni, lance a spruzzo e aspirapolvere i vicini non ce la fanno più: quell'autolavaggio è troppo rumoroso. Ma chi l'ha autorizzato? Il Comune, anzi l'Unione dei comuni, visto che ci troviamo nella provincia più profonda. In zona ci sono uffici oltre che abitazioni e chi vive nel quartiere vuole sapere se l'impianto è titolato o meno a tutte le immissioni sonore nell'ambiente circostante delle quali si rende responsabile. Se l'amministrazione nicchia, di fronte alla sentenza del giudice non può evitare di consegnare ai confinanti inviperiti tutta la documentazione che riguarda i permessi dell'impianto. E il diritto dei cittadini sussiste anche laddove non hanno intenzione di far causa al gestore o almeno non hanno ancora deciso.

È quanto emerge dalla sentenza 01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Tutela e difese
Accolto il ricorso dei confinanti, che già in passato avevano accertato come l'autolavaggio fracassone non avesse ad esempio diritto a usare l'aspirapolvere che da tempo turba i loro sonni. Ora vogliono andare fino in fondo sapendo se nel frattempo l'impianto ha ricevuto qualche altro permesso o continua a operare nell'illegalità. Non serve richiamare «l'informazione ambientale» di cui al decreto legislativo 195/2005 e scomodare la Convenzione di Aarhus per indurre l'Unione dei comuni a tirar fuori le carte: basta, più modestamente, la legge sulla trasparenza così come modificata nel 2009.
In effetti chi risiede o lavora a ridosso dell'impianto risulta titolare di un interesse qualificato ad accedere agli atti per predisporre opportune difese in modo da evitare ogni danno alla propria sfera giuridica: le «difese» delle quali parla la legge non devono tradursi in un'azione giudiziaria. l'interesse dei cittadini che abitano nei paraggi del lavaggio deve ritenersi «diretto, concreto e attuale»: chiaro il collegamento tra la situazione giuridicamente tutelata e i documenti richiesti da chi vive il quartiere, specie se si tiene presente che il gestore ha perseverato nelle attività rumorose nonostante un primo divieto.
All'amministrazione locale non resta che provvedere a estrarre le carte richieste e pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.
1.1. Nel caso di specie, il Collegio ritiene di poter soprassedere in ordine alla denunciata violazione del d.lgs. n. 195 del 2005 in materia di “accesso all’informazione ambientale” –implicante, tra l’altro, specifiche e autonome valutazioni in ordine alla concreta operatività in casi del tipo di quello in esame delle prescrizioni in esso riportate (specie sotto i profili della corretta configurazione del concetto stesso di “informazione ambientale” e della legittimazione ad agire), dirette precipuamente a salvaguardare “l’ambiente dell’Unione”, a garanzia del diritto “di ogni persona, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere”, così come statuito nella Convenzione di Aarhus, approvata il 25.06.1998 e entrata in vigore il 30.10.2001, poi ratificata in Italia con la legge n. 108 del 16.03.2001, ma anche a livello di normativa comunitaria, in virtù di quanto riportato nella direttiva 2003/4/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, in attuazione della quale il già citato d.lgs. n. 195 del 2005 risulta essere stato approvato (cfr. Corte Giust. U.E., 13.01.2015, n. 402/12)- in quanto sussistono già i presupposti fissati dalla legge per richiedere ed ottenere l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.
In particolare, si riscontra l’interesse dei ricorrenti “diretto, concreto ed attuale” ad avere accesso agli atti indicati nell’istanza del 30.09.2014, inoltrata in medesima data all’Unione di Comuni della Bassa Sabina.
A supporto, si ritiene opportuno ricordare che
la legge n. 241 del 1990, nella parte novellata dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge 18.06.2009, n. 69, conferisce al “diritto” di accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, valore di “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2, nell’attuale formulazione).
Come già osservato in ambito giurisprudenziale,
il diritto di accesso vale, dunque, sì a tutelare interessi individuali di ampiezza tale da riscontrare solo il limite della giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata a principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e della trasparenza dell’azione amministrativa, la quale costituisce “principio generale” inserito a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione ed alla attività soggettivamente amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità.
In questo contesto,
la nozione di interesse giuridicamente rilevante si configura come il complesso di situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali, risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che travalicano la dimensione della tutela processuale di diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo prescinde dalla prima.
In altre parole,
la natura strumentale della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento con la legge n. 241 del 1990 caratterizza marcatamente la strumentalità dell’azione correlata e concentra l’attenzione del legislatore e, quindi, dell’interprete sul regime giuridico concretamente riferibile all’azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell’interesse ma anche la certezza dei rapporti amministrativi.
Di qui trae origine –del resto– la qualificazione in termini “astratti” o “acausali” del diritto di accesso, il quale può essere fatto valere senza che l’amministrazione destinataria dell’istanza (o il controinteressato) possa sindacare, nel merito, la fondatezza della pretesa o dell’interesse sostanziale cui quel diritto è correlato e/o strumentalmente collegato (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. IV, 14.04.2010, n. 2092; TAR Lazio, Roma, 28.01.2008, n. 594).
Ciò detto, la posizione dei ricorrenti e, in particolare, la loro qualità di abitanti e/o lavoranti “nelle immediate vicinanze dell’attività di lavaggio” del sig. M.S. -a cui il ricorso risulta ritualmente notificato in data 13.12.2014- induce inequivocabilmente a riscontrare una posizione qualificata e differenziata, idonea a comprovare la sussistenza dell’interesse prescritto dall’art. 22 della legge n. 241/1990.
In relazione agli atti richiesti
emerge, poi, un chiaro collegamento tra la situazione giuridicamente tutelata ed i documenti, ossia è riscontrabile il perseguimento del fine cui è volta la disciplina in materia di diritto di accesso, da identificare con la possibilità dell’interessato di disporre di tutte le difese più opportune per evitare ogni pregiudizio alla propria sfera giuridica, difese che non necessariamente devono tradursi in un’azione giudiziaria (cfr., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, 03.05.2010, n. 1068; TAR Campania, Salerno, 16.04.2010, n. 3927).

APPALTI: All'ultima pagina del disciplinare di gara si precisa quanto segue: "N.B.: Eventuali rinvii del giorno della gara e successive sedute di gara, saranno comunicate esclusivamente mediante pubblicazione di avviso sul profilo del committente - Comune di Carbonia – www.comune.carbonia.ci.it - Sezione Bandi di Gara/Lavori. È onere delle ditte concorrenti verificare sul sito la presenza di eventuali comunicazioni".
Stante il chiaro tenore letterale della disposizione sopra riportata non può essere condiviso l'assunto del ricorrente secondo cui tale clausola dovrebbe interpretarsi con riferimento ai soli rinvii da seduta pubblica e non anche da seduta riservata, posto che la norma fa riferimento generale ai "rinvii del giorno della gara e successive sedute di gara", senza operare alcuna distinzione tra sedute pubbliche e sedute riservate, per cui deve ritenersi evidente che la disposizione in questione ha riguardo e disciplina il rinvio di tutte le sedute di gara sia pubbliche che riservate.
Stante la chiarezza della disposizione in questione, così come evidenziata nel disciplinare di gara; considerato altresì che alla fine di ogni seduta di gara, ivi compresa quella del 12.09.2014, il presidente della commissione ha ribadito ogni volta il contenuto della predetta clausola del disciplinare in ordine al sistema di comunicazione dei rinvii delle sedute; deve conseguentemente ritenersi che tale sistema di comunicazione dei rinvii dovesse essere pienamente conosciuto o conoscibile da parte di tutti i partecipanti alla gara in questione.
Ritenuto altresì che il relativo onere di consultazione del sito Internet del comune costituisca un adempimento non particolarmente gravoso per i partecipanti alla gara, deve conseguentemente ritenersi che se la ricorrente avesse agito di conseguenza, alla luce di un criterio minimo di diligenza, la medesima avrebbe avuto conoscenza dei rinvii delle sedute di gare in questione, per cui deve ritenersi l'infondatezza di tutte le censure in questione mossa dalla ricorrente.
In particolare, non può rinvenirsi alcuna illegittimità nella circostanza che "la pubblicazione è avvenuta pochissimi giorni prima della data fissata", posto che -si ribadisce- stante la chiara disposizione in tal senso contenuta nel disciplinare di gara, sarebbe stato onere della ricorrente di consultare regolarmente il sito Internet del comune, con la conseguenza che la medesima avrebbe avuto tempestiva conoscenza della data della nuova seduta anche qualora la pubblicazione sia avvenuta pochissimi giorni prima della data fissata, come nel caso di specie, stante -si ribadisce- la non particolare gravosità di tale adempimento per i partecipanti alla gara.
---------------
La pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante dei chiarimenti da fornire ai concorrenti costituisce strumento di comunicazione considerato sia in generale (art. 50 e 54, codice dell'amministrazione digitale approvato con d.lgs. 07.03.2005 n. 82), sia nello specifico (art. 70 e 71, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) idoneo ad informare gli interessati, trattandosi di forma idonea di pubblicità notizia”, dovendosi ritenere equiparabile la fattispecie dei "chiarimenti da fornire ai concorrenti" a quella in esame della "notizia in ordine ai rinvii del giorno della gare e successive sedute di gara", trattandosi in entrambi i casi di questioni (oggetto di pubblicità notizia) di interesse generale per la totalità dei partecipanti alla gara, senza che debba ritenersi necessaria la comunicazione individuale all'interessato.
Non può pertanto ritenersi sussistente alcuna violazione né dei principi invocati dalla ricorrente di pubblicità e trasparenza delle procedure di gara, di pubblicità delle sedute di gara, di correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, né della normativa comunitaria, genericamente prospettata dalla ricorrente, dovendosi ritenere l'idoneità e legittimità del sistema di comunicazione delle successive sedute di gara mediante pubblicazione dell'avviso sul sito Internet del comune, al fine di garantire la necessaria pubblicità e trasparenza delle operazioni di gara medesime.

... per l'annullamento:
- della determinazione del dirigente del II servizio dell’Ufficio lavori pubblici del comune di Carbonia n. 161 del 17.10.2014, con la quale sono stati affidati alla ditta controinteressata i lavori relativi al programma innovativo in ambito urbano denominato “contratto di quartiere II” nel comune di Carbonia - Intervento 2 - CUP G22G06000010006 - cig 58298765DD;
- nonché delle operazioni di sorteggio tra le due migliori offerte non anomale, compiute dalla commissione il 23.09.2014;
- nonché della statuizione espressa in chiusura di tutte le riunioni della commissione (con particolare riguardo, per la sua lesività, a quella del 12.09.2014) secondo cui la data della nuova seduta pubblica sarebbe stata resa nota esclusivamente mediante pubblicazione sul sito internet del comune;
- nonché, in via subordinata, della clausola del disciplinare che prevedeva la pubblicizzazione dei rinvii delle operazioni solo mediante pubblicazione sul sito internet del comune.
...  
Col ricorso in esame si chiede l’annullamento della determinazione del dirigente del II servizio dell’Ufficio lavori pubblici del comune di Carbonia n. 161 del 17.10.2014, con il quale sono stati affidati alla ditta controinteressata i lavori relativi al programma innovativo in ambito urbano denominato “contratto di quartiere II” nel comune di Carbonia - Intervento 2 - CUP G22G06000010006 - cig 58298765DD; nonché delle operazioni di sorteggio tra le due migliori offerte non anomale, compiute dalla commissione il 23.09.2014; nonché della statuizione espressa in chiusura di tutte le riunioni della commissione (con particolare riguardo, per la sua lesività, a quella del 12.09.2014) secondo cui la data della nuova seduta pubblica sarebbe stata resa nota esclusivamente mediante pubblicazione sul sito internet del comune; nonché, in via subordinata, della clausola del disciplinare che prevedeva la pubblicizzazione dei rinvii delle operazioni solo mediante pubblicazione sul sito internet del comune.
Non vengono acquisiti agli atti del giudizio la memoria e i documenti depositati "fuori termine" dalla Difesa del comune resistente, stante l'opposizione all'acquisizione di tali atti da parte della Difesa della ricorrente, espressa alla pubblica udienza del 25.02.2015.
Il ricorso è infondato.
All'ultima pagina del disciplinare di gara si precisa quanto segue: "N.B.: Eventuali rinvii del giorno della gara e successive sedute di gara, saranno comunicate esclusivamente mediante pubblicazione di avviso sul profilo del committente - Comune di Carbonia – www.comune.carbonia.ci.it - Sezione Bandi di Gara/Lavori. È onere delle ditte concorrenti verificare sul sito la presenza di eventuali comunicazioni".
Stante il chiaro tenore letterale della disposizione sopra riportata non può essere condiviso l'assunto del ricorrente secondo cui tale clausola dovrebbe interpretarsi con riferimento ai soli rinvii da seduta pubblica e non anche da seduta riservata, posto che la norma fa riferimento generale ai "rinvii del giorno della gara e successive sedute di gara", senza operare alcuna distinzione tra sedute pubbliche e sedute riservate, per cui deve ritenersi evidente che la disposizione in questione ha riguardo e disciplina il rinvio di tutte le sedute di gara sia pubbliche che riservate.
Stante la chiarezza della disposizione in questione, così come evidenziata nel disciplinare di gara; considerato altresì che alla fine di ogni seduta di gara, ivi compresa quella del 12.09.2014, il presidente della commissione ha ribadito ogni volta il contenuto della predetta clausola del disciplinare in ordine al sistema di comunicazione dei rinvii delle sedute; deve conseguentemente ritenersi che tale sistema di comunicazione dei rinvii dovesse essere pienamente conosciuto o conoscibile da parte di tutti i partecipanti alla gara in questione.
Ritenuto altresì che il relativo onere di consultazione del sito Internet del comune costituisca un adempimento non particolarmente gravoso per i partecipanti alla gara, deve conseguentemente ritenersi che se la ricorrente avesse agito di conseguenza, alla luce di un criterio minimo di diligenza, la medesima avrebbe avuto conoscenza dei rinvii delle sedute di gare in questione, per cui deve ritenersi l'infondatezza di tutte le censure in questione mossa dalla ricorrente.
In particolare, non può rinvenirsi alcuna illegittimità nella circostanza che "la pubblicazione è avvenuta pochissimi giorni prima della data fissata", posto che -si ribadisce- stante la chiara disposizione in tal senso contenuta nel disciplinare di gara, sarebbe stato onere della ricorrente di consultare regolarmente il sito Internet del comune, con la conseguenza che la medesima avrebbe avuto tempestiva conoscenza della data della nuova seduta anche qualora la pubblicazione sia avvenuta pochissimi giorni prima della data fissata, come nel caso di specie, stante -si ribadisce- la non particolare gravosità di tale adempimento per i partecipanti alla gara.
Identiche considerazioni devono essere svolte anche avuto riguardo all'ulteriore profilo lamentato dalla ricorrente, secondo cui la stazione appaltante avrebbe dovuto attendere il decorso dei 10 giorni assegnati ad alcuni concorrenti (tra cui la ricorrente) per la produzione di documenti.
Ritiene infatti il collegio che tale questione non assuma decisivo rilievo in ordine alla legittimità dell'operato dell'amministrazione, dovendosi ritenere che l'amministrazione ben potesse stabilire il giorno della nuova seduta di gara non appena acquisiti i documenti richiesti (a prescindere dal decorso o meno del termine massimo accordato per la produzione di tali documenti), fermo restando che le modalità di comunicazione dei rinvii delle successive sedute di gara non poteva che rimanere quella espressamente e chiaramente stabilita nel disciplinare di gara.
Ugualmente infondata risulta la censura -avanzata in via subordinata dalla ricorrente- secondo cui la clausola del disciplinare di gara sarebbe illegittima.
Ritiene il collegio che debbano trovare applicazione, anche avuto riguardo al caso di specie, i principi affermati nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 13.10.2010 n. 7471, secondo cui “La pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante dei chiarimenti da fornire ai concorrenti costituisce strumento di comunicazione considerato sia in generale (art. 50 e 54, codice dell'amministrazione digitale approvato con d.lgs. 07.03.2005 n. 82), sia nello specifico (art. 70 e 71, d.lgs. 12.04.2006 n. 163) idoneo ad informare gli interessati, trattandosi di forma idonea di pubblicità notizia”, dovendosi ritenere equiparabile la fattispecie dei "chiarimenti da fornire ai concorrenti" a quella in esame della "notizia in ordine ai rinvii del giorno della gare e successive sedute di gara", trattandosi in entrambi i casi di questioni (oggetto di pubblicità notizia) di interesse generale per la totalità dei partecipanti alla gara, senza che debba ritenersi necessaria la comunicazione individuale all'interessato.
Non può pertanto ritenersi sussistente alcuna violazione né dei principi invocati dalla ricorrente di pubblicità e trasparenza delle procedure di gara, di pubblicità delle sedute di gara, di correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, né della normativa comunitaria, genericamente prospettata dalla ricorrente, dovendosi ritenere l'idoneità e legittimità del sistema di comunicazione delle successive sedute di gara mediante pubblicazione dell'avviso sul sito Internet del comune, al fine di garantire la necessaria pubblicità e trasparenza delle operazioni di gara medesime (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 25.03.2015 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - AMBIENTE-ECOLOGIA: Alla stregua della normativa in tema di illecito ambientale contenuta nel D.L.vo 152/2006, ai fini dell’adozione di ordinanze “ambientali”, non sono sufficienti (né necessari) né la qualifica di detentore, possessore, né tantomeno quella di mero proprietario, altrimenti venendosi a configurare una responsabilità oggettiva di posizione in capo alla ditta proprietaria che non trova alcun riscontro nella normativa in parola.
Invero, quanto alla qualità di mero proprietario, come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192- per essere ritenuto responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Pur con tali premesse, deve, però, a tal punto darsi conto della più recente giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare più efficacemente i fenomeni di illecito sversamento di rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti del proprietario dell’area interessata ovvero di coloro che ne hanno il possesso o la mera detenzione (derivante anche dal possesso delle chiavi di accesso alla predetta area) e correlativamente ampliato le ipotesi di negligenza tali da integrare una culpa in omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n. 2977 del 10.06.2014 ha rilevato che nel suo significato lessicale la negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e consiste nella trascuratezza, nell’incuria nella gestione di un proprio bene, e cioè nell’assenza della cura, della vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del bene; l’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce rilievo proprio alla negligenza del proprietario o -come nella specie- dei soggetti ad esso assimilabili, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti (nella fattispecie in esame non prospettabili)- non assume iniziative per evitare l’abbandono dei rifiuti, non pone in essere gli accorgimenti e le cautele idonee alla realizzazione di una efficace custodia e della protezione dell’area (onde impedire che vi potessero essere facilmente depositati rifiuti di vario genere) ed in ultima analisi si disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero affrontandola con misure palesamenti inadeguate.
D’altronde ciò è pienamente in linea con la concezione della proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione (Cfr. art. 42) per la quale la proprietà pone anche degli obblighi al suo titolare di rendersi attivo per vigilare costantemente sulla propria cosa.
In buona sostanza secondo questo nuovo indirizzo giurisprudenziale, invertendosi il pregresso rapporto tra regola ed eccezione e tenuto conto del comportamento ritenuto esigibile dal proprietario o dal possessore o utilizzatore, nella normalità dei casi in quest’ultimo è legittimo presumere una culpa in omittendo o in vigilando, cioè, salvo che, eccezionalmente, non sia altrimenti provata l’esclusione di ogni sua negligenza per essersi attivato per la custodia e/o la gestione del proprio bene ed affrontata concretamente la situazione deprecata con misure adeguate.
---------------
Secondo giurisprudenza che si condivide il potere di ordinanza ex art. 14, D.L.vo 05.02.1997, n. 22 (ora art. 192, D.L.vo n. 152/2006) ha un diverso fondamento rispetto alle ordinanze disciplinate dall’art. 54 T.U. enti locali.
Tale ultimo potere deve essere atipico e residuale e cioè esercitabile (sempre che ricorrano i presupposti dell’urgenza, della gravità e del pericolo, ecc.), quante volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare atti tipici in presenza di presupposti indicati da specifiche normative di settore; viceversa proprio l’art. 14, comma 3, configura una siffatta specifica normativa con la previsione di un ordinario potere d’intervento attribuito all’autorità amministrativa.
Quanto alla individuazione dell’organo competente all’adozione dell’ordinanza ex art. 14 cit., dopo l’entrata in vigore del t.u. enti locali, tale provvedimento rientra nella competenza del responsabile dell’area tecnica e non del sindaco.
Anche questa Sezione ha ritenuto che: <<la competenza ad adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in base all’art. 192, comma 3, D.L.vo 03.04.2006, n. 152 spetti al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali, di cui all’art. 107, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, D.L.vo 08.08.2000, n. 267>>.
---------------
L’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241, al 2° comma, prevede che: <<(……..) Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, quando l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato>>.
Tuttavia giurisprudenza tende a esonerare l’amministrazione da tale ultima probatio diabolica, onerando il ricorrente che solleva la relativa censura di allegare quali sono gli elementi contrari che avrebbe introdotto nel procedimento qualora vi avesse preso parte.
In tal senso si segnala la sentenza secondo la quale: <<Se è vero che la norma di cui all’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990 pone in capo all’Amministrazione (e non al privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non sarebbe potuto essere diverso, tuttavia, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella di dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della omessa comunicazione di avvio, ma debba quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi contrari che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione; cosicché, solo dopo che il ricorrente ha adempiuto a tale onere di allegazione, la P.A. sarà gravata del più consistente onere di dimostrare che ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove, come nella specie, il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione (aggiuntive rispetto a quelle comprese tra i motivi del ricorso principale), il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve intendersi come inammissibile>>.

... per l’annullamento, previa sospensione:
a) dell’ordinanza del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio Igiene Urbana del Comune di Marano di Napoli n. 09 del 15.05.2014, ad oggetto “Ordinanza di bonifica igienico sanitaria e messa in sicurezza fondo sito in località Cantarelle (accessibile da Via del Mare civ. 53/A) di proprietà M.G. - Utilizzatore ed affidatario C.F.”, notificata a C.F. in data 20.05.2014;
b) dell’ordinanza del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio Igiene Urbana Comune di Marano di Napoli n. 14 del 19.06.2014 ad oggetto ”Ordinanza di ripristino ambientale, ivi disposta, fra l’altro, la sostituzione e l’annullamento della precedente ordinanza dirigenziale n. 09/2014 del 15.05.2014", notificata a Crispino Francesco in datata 26.06.2014;
...
3. Con la prima censura il ricorrente deduce la violazione dell’art. 192, commi 1 e 3, del D.L.vo 152/2006 nella parte in cui richiederebbe l’accertamento di una responsabilità, a titolo di dolo o colpa a carico del soggetto intimato, (che, invece, nel caso del ricorrente, non sarebbe stata dimostrata) e l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo potrebbe essere rivolto al proprietario, ovvero al possessore e all’utilizzatore/affidatario dello stesso solo quando ne sarebbe dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo.
Nella specie, il C. sarebbe stato individuato quale soggetto “responsabile” dell’abbandono incontrollato dei rifiuti a seguito di una segnalazione della Tenenza dei Carabinieri di Marano, sul solo presupposto che lo stesso ricorrente sarebbe coltivatore del vigneto immediatamente posto al di sotto della zona rilevata in questione che, di fatto, non sarebbe interessato dai rifiuti medesimi, né dal loro abbandono, e, ciò, in totale assenza di condanna penale, di contestazione di ipotesi di reato, o di avvio di qualsivoglia azione penale nei suoi confronti.
4. La prospettazione di parte ricorrente non merita condivisione.
5. L’impugnata ordinanza n. 9 del 15.05.2014 consegue alla nota della Tenenza dei Carabinieri di Marano del 24.03.2014 relativa alla segnalazione di abbandono incontrollato di rifiuti sversati e rappresentati almeno per la parte visibile da laterizi da costruzione e demolizione e a loro volta coperti da terreno vegetale, su un fondo già oggetto di sequestro penale del 30.10.2013iscritto al N.C.T. del Comune di Marano di Napoli Fg. 23 mappale n. 1640 di proprietà di M.G., individuandosi altresì, quale responsabile dell’abbandono dei predetti rifiuti la persona di C.F..
6. Il Collegio, anche per la copiosa e pregressa sua giurisprudenza sull’argomento è ben consapevole che, alla stregua della normativa in tema di illecito ambientale contenuta nel D.L.vo 152/2006, ai fini dell’adozione di ordinanze “ambientali”, non sono sufficienti (né necessari) né la qualifica di detentore, possessore, né tantomeno quella di mero proprietario, altrimenti venendosi a configurare una responsabilità oggettiva di posizione in capo alla ditta proprietaria che non trova alcun riscontro nella normativa in parola.
7. Invero, quanto alla qualità di mero proprietario, come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis, Cfr: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
8. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192- per essere ritenuto responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
9. Pur con tali premesse, deve, però, a tal punto darsi conto della più recente giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare più efficacemente i fenomeni di illecito sversamento di rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti del proprietario dell’area interessata ovvero di coloro che ne hanno il possesso o la mera detenzione (derivante anche dal possesso delle chiavi di accesso alla predetta area) e correlativamente ampliato le ipotesi di negligenza tali da integrare una culpa in omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n. 2977 del 10.06.2014 ha rilevato che nel suo significato lessicale la negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e consiste nella trascuratezza, nell’incuria nella gestione di un proprio bene, e cioè nell’assenza della cura, della vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del bene; l’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce rilievo proprio alla negligenza del proprietario o -come nella specie- dei soggetti ad esso assimilabili, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti (nella fattispecie in esame non prospettabili)- non assume iniziative per evitare l’abbandono dei rifiuti, non pone in essere gli accorgimenti e le cautele idonee alla realizzazione di una efficace custodia e della protezione dell’area (onde impedire che vi potessero essere facilmente depositati rifiuti di vario genere) ed in ultima analisi si disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero affrontandola con misure palesamenti inadeguate.
D’altronde ciò è pienamente in linea con la concezione della proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione (Cfr. art. 42) per la quale la proprietà pone anche degli obblighi al suo titolare di rendersi attivo per vigilare costantemente sulla propria cosa.
In buona sostanza secondo questo nuovo indirizzo giurisprudenziale, invertendosi il pregresso rapporto tra regola ed eccezione e tenuto conto del comportamento ritenuto esigibile dal proprietario o dal possessore o utilizzatore, nella normalità dei casi in quest’ultimo è legittimo presumere una culpa in omittendo o in vigilando, cioè, salvo che, eccezionalmente, non sia altrimenti provata l’esclusione di ogni sua negligenza per essersi attivato per la custodia e/o la gestione del proprio bene ed affrontata concretamente la situazione deprecata con misure adeguate.
10. Nella fattispecie premesso che, dal sopralluogo congiunto del personale ispettivo comunale e dei tecnici A.r.p.a.c. l’area, oggetto di ispezione viene descritta come “ubicata nel Comune di Marano comprendente una superficie a vigna ed un rilevato ad essa sovrastante delle dimensioni di circa 300 mq. che risulta costituito da terreno misto a rifiuti di costruzione e demolizione”, nel verbale di sequestro redatto in data 29.10.2013 dalla Legione Carabinieri Campania - Tenenza di Marano di Napoli si legge che: “L’accesso all’area avviene attraversando un viale sterrato, recintato e chiuso da un cancelletto improvvisato con una rete con una catena con un lucchetto, del quale era in possesso della chiave il sig. C.F., in oggetto meglio generalizzato, utilizzatore ed affidatario della stessa area.
A tal punto si accedeva unitamente al C.F. all’interno dell’area interessata dallo sversamento del materiale vario di risulta, dove si notavano alcuni frammenti di eternit (amianto). Il C.F. riferiva spontaneamente agli operanti di non essere a conoscenza di chi fosse il proprietario di tale area e di avere in uso da circa 30 anni quella parte di terreno, in quanto tale zona di terreno gli era stata data in affidamento circa trent’anni fa dal Sig. M.A. di Qualiano, deceduto, ed utilizzava tale zona per coltivare alcuni ortaggi per conto suo, recintandola e chiudendola con un cancelletto improvvisato con una rete con un lucchetto.
Lo stesso riferiva che, poiché tale terreno insisteva sotto una zona dove ogni qual volta che veniva a piovere inondava il suo raccolto, decise di far sversare del materiale di risulta per far in modo che si formasse una barriera che impedisse all’acqua piovana di inondare il raccolto. Tale materiale di risulta da circa cinque anni veniva scaricato da alcune persone, delle quali non era in grado di riferire le generalità, né la ditta, poiché quando si trovava a coltivare, passavano e dopo avergli chiesto di scaricare il materiale edile, lo faceva sversare sotto questo costone sempre per creare la barriera per impedire che l’acqua inondasse la parte di terreni coltivata.
Ultimamente circa una settimana fa, mentre stava coltivando l’uva, si presentava un soggetto con un triciclo, del quale non era in grado di riferire le generalità né il numero di targa del triciclo, ed il conducente, dopo avergli chiesto di scaricare il materiale edile, consentiva allo stesso di scaricare il materiale dove aveva sempre fatto scaricare negli anni passati, dopodiché andava via
”.
Quanto da ultimo verbalizzato vale a smentire l’assunto del ricorrente secondo il quale non sia stato accertato in atto uno “scarico” o un “abbandono incontrollato” di rifiuti o di altro ed, inoltre, che la presenza della fitta vegetazione ricoprente gli stessi sicuramente “data nel tempo” il loro abbandono da parte di ignoti.
11. Ne deriva che il comportamento del C. ed, in particolare la decisione “di far sversare del materiale di risulta per far in modo che si formasse una barriera che impedisse all’acqua piovana di inondare il raccolto” non può considerarsi esente da responsabilità, e non solo sotto il profilo della colpa omissiva; inoltre non risulta che lo stesso, nel corso del tempo (l’abbandono di rifiuti non costituisce un episodio sporadico, ma il frutto di un’attività ripetuta nel tempo come emerge dal sopralluogo dell’A.r.p.a.c.), si sia attivato in alcun modo, anche attraverso segnalazioni all’autorità preposta, per evitare o limitare il danno e, nel caso di specie, il dovere di attivarsi in tal senso era tanto più stringente, considerando che, a seguito dell’ulteriore sopralluogo eseguito da personale ispettivo comunale unitamente ai tecnici dell’A.r.p.a.c. in data 17.02.2014 era emersa (tra l’altro) la presenza di rifiuti cod. CER 17.06.05 contenenti amianto - rifiuti speciali pericolosi.
Pertanto legittimamente il C. deve ritenersi passivamente legittimato a divenire destinatario dell’impugnata ordinanza dalla cui motivazione si evince che egli era a conoscenza dell’avvenuto deposito di rifiuti sul fondo e, ciò nonostante, abbia tenuto un comportamento omissivo e disinteressato o addirittura attivo.
12. Inoltre per affermare la responsabilità del C. nell’abbandono incontrollato di rifiuti (anche pericolosi) non necessita certo che l’area sia stata destinata ad una discarica abusiva, né tanto meno sarebbe difficilmente comprensibile che, in totale assenza di condanna penale, di contestazione di ipotesi di reato, o di avvio di qualsivoglia azione penale nei suoi confronti, lo stesso in virtù delle ordinanze successivamente emanate dal Dirigente dell’Area Tecnica abbia visto “variata” la sua prima “qualità” di utilizzatore e affidatario dell’area in questione, per poi divenire nella seconda ordinanza “responsabile dello sversamento dei rifiuti”.
In contrario appena è il caso di rilevare che la conclusione ed, ancor prima la mera pendenza di un procedimento penale, non rappresenta presupposto, né necessario né sufficiente, per esprimere, all’esito di un’istruttoria autonomamente condotta dall’Autorità amministrativa, un giudizio di colpevolezza sulla condotta del soggetto, specie, alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale che obbliga il proprietario ad interessarsi e rendersi parte attiva e diligente per vigilare sulla cosa di sua appartenenza, anche nel suo dinamismo senza che, sul punto, possa profilarsi una responsabilità oggettiva o di posizione.
Inoltre parte ricorrente asserisce, quanto alla qualità attribuitagli di “responsabile dello sversamento dei rifiuti”, che il Comune di Marano sulla scorta della segnalazione di abbandono inoltrata dalla Tenenza dei Carabinieri di Marano avrebbe desunto da un mero fatto (e, cioè, il possesso delle chiavi di accesso al cancelletto in ferro posto a valle dell’area coltivata a vigneto da parte del C., e sottostante il rilevato sul quale è stata riscontrata la presenza dei rifiuti), la responsabilità colposa e/o omissiva, laddove invece tale correlazione non potrebbe costituire effetto di alcun automatismo ma richiederebbe di essere dimostrata anche mediante il ricorso a presunzioni, purché gravi, precise e concordanti.
In proposito deve, rilevarsi che, già di per sé, la circostanza di possedere le chiavi di accesso al cancelletto in ferro da cui si accede all’area interessata dagli sversamenti non è un mero fatto ma, già di per sé, integra una situazione di detenzione tale da garantirgli la disponibilità dell’area, tant’è che -come risulta dalle dichiarazioni spontanee rese ai Carabinieri- “quando si trovava a coltivare, terzi passavano e dopo avergli chiesto di scaricare il materiale edile, lo faceva sversare sotto questo costone sempre per creare la barriera per impedire che l’acqua inondasse la parte di terreni coltivata. Ultimamente circa una settimana fa, mentre stava coltivando l’uva, si presentava un soggetto con un triciclo, del quale non era in grado di riferire le generalità né il numero di targa del triciclo, ed il conducente, dopo avergli chiesto di scaricare il materiale edile, consentiva allo stesso di scaricare il materiale dove aveva sempre fatto scaricare negli anni passati, dopodiché andava via”.
13. Con la seconda censura si deduce il difetto di motivazione in merito ai rischi che legittimano ai sensi dell’art. 192, commi 1 e 3, del D.L.vo 152/2006, l’emanazione reiterata dell’ordine di effettuare la messa in sicurezza e bonifica dell’area ad horas e, comunque, nel termine di giorni 30 dalla notifica dalla notifica -Dovere di bonifica e difetto di legittimazione passiva del ricorrente- Violazione dell’art. 54, comma 4, D.L.vo 267/2000.
Secondo parte ricorrente, né nell’ordinanza n. 9/2014, né in quella successiva sarebbero ravvisabili i caratteri di “contingibilità ed urgenza” per la tutela dell’igiene locale e della salvaguardia della pubblica e privata incolumità ai fini della bonifica e messa in sicurezza del sito e per la successiva rimozione dei rifiuti stessi dall’area in questione; inoltre dall’elaborato peritale del tecnico incaricato dal ricorrente e da quanto accertato dalla Tenenza dei Carabinieri di Marano, ben si evincerebbe che i materiali di risulta sostanzialmente di natura edile, rilevati nel corso dei successivi sopralluoghi, anche dell’Area Tecnica del Comune, nell’area limitrofa a quella coltivata dal ricorrente, sembrerebbero stratificatisi negli anni.
Parte ricorrente asserisce che il provvedimento impugnato non conterrebbe alcun elemento tale da consentire di ascrivere la (cor)responsabilità dell’abbandono, sia pure in via presuntiva al C., coltivatore di una parte (1/8 circa) della p.lla 1640, non essendovi prova che lo stesso abbia provveduto ad impartire disposizioni, ordini o quant’altro per la gestione di chissà che cosa, né che lo stesso potrebbe essere ritenuto altrimenti “responsabile” dell’abbandono dei rifiuti in questione, solo per il fatto che coltivi una piccola parte di fondo appartenente ad una più ampia consistenza di una p.lla di terreno in proprietà di altro soggetto.
14. L’assunto di parte ricorrente non regge a fronte del recente orientamento giurisprudenziale tendente all’ampliamento degli obblighi di diligenza gravanti sul proprietario o su chiunque abbia un potere di fatto sulla cosa che impongono di attivarsi per vigilare, controllare e, comunque, impedire che terzi possano venire a contatto con la stessa e trova smentita dal suddetto sopralluogo eseguito da personale ispettivo comunale unitamente ai tecnici dell’A.r.p.a.c. in data 17.02.2014 da cui era emerso (tra l’altro) la presenza si manufatti in cemento armato, ridotti in pezzi ed i rifiuti evidenziati nel corso del sopralluogo sono classificati a vista come “rifiuti provenienti dalle operazioni di costruzione e demolizione cod. CER 17.09.04 -rifiuti speciali non pericolosi e cod. CER 17.06.05 rifiuti contenenti amianto- rifiuti speciali pericolosi”.
15. Con la terza censura si deduce l’incompetenza del sindaco in ordine all’emanazione delle ordinanze di rimozione dei rifiuti. Violazione degli artt. 54, comma 4 e 107, D.L. vo 267/2000 (TUEL) in relazione all’art. 192, D.L.vo 152/2006 (TUA) sul presupposto della competenza appartenente al Dirigente dell’Area Tecnica del Comune di Marano di Napoli; entrambe le ordinanze impugnate, la n. 9 del 15.05.2014 e la n. 14 del 19.06.2014 sarebbero state emanate dal Dirigente dell’Area Tecnica sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 54, comma 4, del D.L.vo n. 267/2000, testo unico delle autonomie locali, come modificato dal decreto-legge 23.05.2008, n.92 convertito in legge 24.07.2008, n. 125, mentre avrebbero dovuto essere emesse nel rispetto del potere ordinatorio sindacale, tipico e non assunte dal Dirigente dell’Area Tecnica in maniera atipica ed extra ordinem.
16. La censura è priva di pregio.
17. L’ordinanza dirigenziale n. 14 del 19.06.2014, forse ancor più di quella n. 9 del 15.05.2014 che va a sostituire, non riveste le caratteristiche del provvedimento extra ordinem ex art. 54 D.L.vo n. 267/2000, ma è stata emanata nell’esercizio del potere di ordinaria amministrazione riconducibile all’art. 192 del D.L.vo n. 152/2006 (T.U. Ambiente).
Secondo giurisprudenza che si condivide il potere di ordinanza ex art. 14, D.L.vo 05.02.1997, n. 22 (ora art. 192, D.L.vo n. 152/2006) ha un diverso fondamento rispetto alle ordinanze disciplinate dall’art. 54 T.U. enti locali. Tale ultimo potere deve essere atipico e residuale e cioè esercitabile (sempre che ricorrano i presupposti dell’urgenza, della gravità e del pericolo, ecc.), quante volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare atti tipici in presenza di presupposti indicati da specifiche normative di settore; viceversa proprio l’art. 14, comma 3, configura una siffatta specifica normativa con la previsione di un ordinario potere d’intervento attribuito all’autorità amministrativa. Quanto alla individuazione dell’organo competente all’adozione dell’ordinanza ex art. 14 cit., dopo l’entrata in vigore del t.u. enti locali, tale provvedimento rientra nella competenza del responsabile dell’area tecnica e non del sindaco (Cfr. C. di S., Sez. V, 12.06.2009, n. 3765).
Anche questa Sezione ha ritenuto che: <<la competenza ad adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in base all’art. 192, comma 3, D.L.vo 03.04.2006, n. 152 spetti al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali, di cui all’art. 107, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, D.L.vo 08.08.2000, n. 267>> (TAR Campania, Napoli, 10.02.2012, n. 730).
18. Con l’ultima censura è dedotta la violazione dell’art. 192 D.L. vo 152/2006 (TUA), stante l’omessa comunicazione di avvio del procedimento in relazione ai controlli previsti.
19. La censura è inammissibile.
20. Al riguardo l’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241, al 2° comma, prevede che: <<(……..) Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, quando l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato>>.
Tuttavia giurisprudenza -che si condivide- tende a esonerare l’amministrazione da tale ultima probatio diabolica, onerando il ricorrente che solleva la relativa censura di allegare quali sono gli elementi contrari che avrebbe introdotto nel procedimento qualora vi avesse preso parte.
In tal senso si segnala la sentenza secondo la quale: <<Se è vero che la norma di cui all’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990 pone in capo all’Amministrazione (e non al privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non sarebbe potuto essere diverso, tuttavia, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella di dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della omessa comunicazione di avvio, ma debba quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi contrari che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione; cosicché, solo dopo che il ricorrente ha adempiuto a tale onere di allegazione, la P.A. sarà gravata del più consistente onere di dimostrare che ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove, come nella specie, il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione (aggiuntive rispetto a quelle comprese tra i motivi del ricorso principale), il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve intendersi come inammissibile>> (TAR Lombardia, Milano, Sez. III 12.12.2011, n. 3144).
21. Nella fattispecie parte ricorrente si è limitata a rilevare unicamente che il Comune, a distanza di ben otto mesi dal sequestro dell’area operata dai Carabinieri, nulla ha argomentato in ordine alle ragioni di urgenza che avrebbero consentito di derogare all’obbligo di inviare la comunicazione di avvio, ma ha omesso del tutto di allegare - alla stregua della suddetta giurisprudenza - gli elementi contrari e le circostanze che avrebbe inteso sottoporre all’amministrazione, la qual cosa determinando l’inammissibilità della censura.
22. Conclusivamente il ricorso è infondato e deve essere respinto.
23. L’esito del giudizio, sotto il profilo impugnatorio, non lascia margine residuo per coltivare pretese risarcitorie, sia pure in subordine, per equivalente monetario, derivanti dall’intera procedura di annullamento della stabilizzazione e che potrebbero trovare ingresso unicamente in caso di riscontrata illegittimità degli atti impugnati
24. Le recenti oscillazioni giurisprudenziali in tema di individuazione di elementi colpevolezza a carico del proprietario suggeriscono di compensare integralmente fra le parti le spese giudiziali (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 23.03.2015 n. 1691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAggiornamenti vietati per gli oneri urbanistici. Il pagamento è stabilito in fase di rilascio del titolo. Nuove costruzioni. Le linee guida dei giudici per la determinazione degli importi.
Nessun aumento o aggiornamento è possibile per il contributo di costruzione, che deve essere calcolato con le tariffe vigenti al momento del rilascio del titolo abilitativo.
La giurisprudenza non ha dubbi: anche con le ultime pronunce qualsiasi “conguaglio” degli oneri di urbanizzazione è da considerarsi illegittimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2015 n. 1211 e
sentenza 19.03.2015 n. 1504).
Ormai da tempo, infatti, il contributo di urbanizzazione viene qualificato come corrispettivo di diritto pubblico, il cui fondamento è individuato nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla loro presenza. Fatto costitutivo dell’obbligazione di pagamento è il rilascio di un titolo abilitativo che determini un aumento del carico urbanistico (cioè una variazione degli standard urbanistici) ed è a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione dell’entità del contributo.
Dunque l’amministrazione deve provvedere alla liquidazione delle somme dovute a titolo di contributo facendo esclusivo riferimento ai parametri normativi prefissati dalle norme di legge e regolamentari, dovendosi rispettare l’articolo 23 della Costituzione in base al quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge (Tar Puglia- Bari, sezione III, 243/2011; Consiglio di Stato, sezione V, 2258/2006).
Sono stati quindi costantemente ritenuti illegittimi quei provvedimenti con cui i Comuni hanno intimato a titolari di permessi di costruire il pagamento di somme ulteriori rispetto a quelle già versate in occasione del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, motivando la richiesta con riferimento al fatto che si trattasse di somme dovute a causa di un “aggiornamento del contributo di costruzione”, rideterminato con atti deliberativi assunti dopo il rilascio del titolo abilitativo (oltre alle due sentenze citate anche Consiglio di Stato, sezione IV, 3009/2014).
In base allo stesso presupposto, sono stati invece ritenuti legittimi gli atti di riliquidazione quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio, a seguito della scadenza dell’efficacia temporale di quello precedente o per il completamento con mutamento di destinazione d’uso delle opere assentite in origine (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 4320/2012).
Parametri rigidi
La determinazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione ha natura paritetica, trattandosi di un mero accertamento dell’obbligazione contributiva, effettuato dalla Pa in base a rigidi parametri prefissati dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi, nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritativa. Pertanto, la richiesta degli importi costituisce una manifestazione definitiva che, dopo l’adempimento del privato che estingue l’obbligazione, esclude il diritto al conguaglio del Comune, salvo errori macroscopici riconoscibili dal privato (Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, sentenza 462/2008).
Un’altra rilevante conseguenza della natura paritetica dell’atto è che le relative controversie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sezione IV, 4247/2011) e non sono soggette alle regole delle impugnazioni e dei termini di decadenza propri degli atti amministrativi (Consiglio di Stato, sezione IV, 1565/2011).
Il giudizio è quindi azionabile nel termine di prescrizione, salvo che si intenda contestare l’applicazione del contributo per vizi derivanti da atti autoritativi generali, presupposti di quello impugnato, in relazione ai quali la posizione dell’interessato è qualificabile come interesse legittimo; in tal caso il motivo dedotto sarà l’illegittimità dell’assoggettamento, anche nel quantum, all’onere di urbanizzazione di una concessione edilizia e il ricorso andrà quindi proposto entro il termine di decadenza (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 3122/2012).
Lavori in corso
Poiché l’obbligazione contributiva è correlata all’aumento del carico urbanistico derivante dall’esecuzione dell’intervento, il contributo è dovuto non solo per le nuove costruzioni, ma anche nel caso di ristrutturazione, anche se la stessa non riguarda l’intero edificio, ma solo una sua porzione, essendo sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica (Consiglio di Stato, sezione V, 4326/2013). L’obbligo è stato invece escluso quando l’edificio, pur modificando la sagoma ed i prospetti preesistenti, abbia conservato la stessa volumetria e destinazione (Tar Piemonte, sezione I, sentenza 1346/2013).
Il mutamento di destinazione d’uso è rilevante solo quando avvenga tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici (Tar Emilia Romagna–Bologna, sezione I, 601/2013).
----------------
gli indirizzi
01 AGGIORNAMENTO
È illegittimo il provvedimento con il quale un Comune ha chiesto al titolare di un permesso di costruire il pagamento, a titolo di oneri di urbanizzazione, di una somma ulteriore rispetto a quella già versata ai fini del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, motivato con riferimento al fatto che si tratta di somme dovute a titolo di “aggiornamento del contributo di costruzione”, secondo gli indirizzi impartiti con successiva deliberazione della Giunta municipale
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1504
02 ANNUALITÀ
La determinazione degli oneri concessori deve avvenire non solo sulla base delle tariffe vigenti ma non può che essere richiesta una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo
Tar Puglia–Lecce, Sez. III – sentenza 21.04.2015 n. 1302
03 AVVALIMENTO PARZIALE
In caso di avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie consentite, il privato ha diritto alla rideterminazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e alla restituzione della quota riferibile alla porzione non realizzata; il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il titolare comunica all’amministrazione la propria intenzione di rinunciare al titolo abilitativo o dalla data di adozione da parte della Pa del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire per scadenza dei termini o per l’entrata in vigore di previsioni urbanistiche contrastanti
Tar Lombardia, Sez. II, sentenza 24.03.2010 n. 728
04 CAMBIO DESTINAZIONE
Nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si correli un maggiore carico urbanistico è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa.
Il mutamento, pertanto, è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici; al contrario, qualora il mutamento di destinazione d’uso non determini l’incremento del carico urbanistico, il pagamento dei relativi oneri non è dovuto, essendo privo di causa
Tar Emilia Romagna–Bologna, Sez. I – sentenza 06.09.2013 n. 601
05 CARICO URBANISTICO
Ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l’edificio ma è sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4326
06 CONGUAGLIO
In materia edilizia il contributo di costruzione va determinato al momento del rilascio del titolo edilizio. È pertanto illegittimo il provvedimento con il quale, dopo il rilascio del permesso di costruire, il Comune ha chiesto un conguaglio del contributo di costruzione facendo applicazione di una disciplina (nella specie recata dal Dm del 1999), che è successiva rispetto al momento in cui è insorta l’obbligazione contributiva
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2015 n. 1211
07 COSTO COSTRUZIONE
Il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013, n. 6160
08 ONERI URBANIZZAZIONE
Il contributo per gli oneri di urbanizzazione non ha una funzione meramente recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale per la trasformazione del territorio, bensì la caratteristica di corrispettivo dovuto per la partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione connesse all’edificazione e di realizzazione delle urbanizzazioni
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5072
09 RESTITUZIONE
L’amministrazione comunale, che abbia immotivatamente vietato al titolare il permesso di costruire di utilizzarlo al fine di realizzare il fabbricato autorizzato, senza neppure procedere nella via dell’autotutela essendo palese la legittimità del titolo abilitativo già rilasciato, è tenuta alla restituzione ex articolo 2033 del Codice civile della somma riscossa per gli oneri concessori, maggiorata degli interessi legali con decorrenza dalla data della domanda di restituzione proposta dall’impresa interessata, trattandosi di indebito oggettivo più che di debito di valore
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.05.2011 n. 3027
10 RINUNCIA
L’amministrazione comunale è tenuta alla restituzione degli oneri di urbanizzazione corrisposti, in caso di rinuncia o di inutilizzazione della concessione edilizia
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2003 n. 3714
11 PAGAMENTO
I termini per il pagamento del contributo per il costo di costruzione sono individuati dall’articolo 16 del Dpr 380/2001 «non oltre i sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione».
Tar Piemonte, Sez. I, sentenza 04.12.2009, n. 3266
---------------
Imposizione a due vie da Regione e Comune.
L’iter. Il meccanismo di calcolo dei costi di costruzione e delle spese per l’urbanizzazione.
È dal 1977, con la legge “Bucalossi” che è stato sancito il principio per cui ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio deve partecipare agli oneri ad essa relativi . La legge n. 10/1977 ha quindi reso onerosa per il cittadino la possibilità di edificare.
La previsione è oggi contenuta nell’articolo 16 del Dpr 380/2001, in base al quale il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione al Comune di un contributo suddiviso in due quote, una parametrata all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, l’altra relativa al costo di costruzione. Pur essendo disciplinate dalla stessa norma, le due quote del contributo si differenziano quanto a presupposti, natura giuridica, criteri di determinazione e modalità di pagamento.
Costo di costruzione
Il contributo relativo al costo di costruzione, determinato periodicamente dalle Regioni, viene rapportato alle caratteristiche e alla tipologia della costruzione e costituisce una prestazione di natura paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio. La giurisprudenza la ritiene una obbligazione contributiva acausale, dovuta in presenza di ogni trasformazione edilizia che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, sia produttiva di vantaggi economici per il concessionario; situazione che si verifica anche nel caso di mutamento di destinazione d’uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6160/2013) La quota non è dovuta per le costruzioni realizzate su area demaniale, perché prive di intento speculativo e insuscettibili di commercializzazione (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 177/2012).
La quota relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio del titolo, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione.
Oneri di urbanizzazione
Vengono determinati dai Comuni con cadenza quinquennale, in conformità alle direttive regionali. Sono stati qualificati in giurisprudenza come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, dovuto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all’insieme dei benefici che riceve la nuova costruzione.
Non vi è però alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata dalla trasformazione urbanistica ed il contributo va quindi pagato a prescindere sia dalla concreta utilità che il richiedente può conseguire dal titolo edificatorio, sia dall’entità delle spese effettivamente occorrenti al Comune per la realizzazione delle opere di urbanizzazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 2261/2014).
Questa quota è corrisposta al Comune al momento del rilascio del permesso di costruire, ma può essere rateizzata. Inoltre, come modalità alternativa di pagamento (Consiglio di Stato,sezione IV, sentenza n. 3413/2012) ed a scomputo totale o parziale della quota dovuta, l’interessato può eseguire direttamente le opere di urbanizzazione, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, al cui patrimonio indisponibile saranno acquisite le opere.
Nel caso di parziale realizzazione dell’intervento edificatorio, l’interessato ha diritto alla rideterminazione di entrambe le quote del contributo ed alla restituzione della parte riferibile alla porzione non realizzata (Tar Lombardia-Milano, sez. II, n. 728/2010). Nell’ipotesi di rinuncia o di inutilizzazione del titolo abilitativo, l’amministrazione è tenuta alla restituzione degli importi percepiti, maggiorati dagli interessi, decorrenti dalla data della domanda (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3027/2011).
In entrambi i casi la richiesta andrà effettuata nel termine di prescrizione decennale, stesso termine per il diritto del Comune di irrogare sanzioni per omesso o ritardato pagamento del contributo (Consiglio di Stato sezione IV, sentenza n. 5818/2012)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2015).

EDILIZIA PRIVATA: La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
Va quindi ribadito che l’annullamento del provvedimento formatosi sulla d.i.a. edilizia deve essere preceduto dall'avviso di avvio del procedimento e dal rispetto di tutte le forme sostanziali e procedimentali previste per gli atti in autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo grado e la comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del privato, consolidata dal decorso del tempo e dalla consapevolezza dell'intervenuto assenso tacito nei termini di legge: in difetto dei presupposti per l'esercizio dell'autotutela, l'attività dichiarata può legittimamente proseguire.
In particolare, in materia di edilizia –e quindi anche in relazione alla d.i.a., figura cardine dell’edilizia quale strumento di semplificazione-, il potere di autotutela deve essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i loro effetti.
---------------
Il pagamento dei richiesti oneri di urbanizzazione, per giurisprudenza prevalente, non comporta ex se acquiescenza.

1.2 In secondo luogo, come correttamente dedotto in ricorso, per l’annullamento di una d.i.a. nella specie risultano mancare i presupposti, sia temporali, sia di merito, necessari in termini di autotutela.
In linea generale, come noto, la d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela (cfr. ad es. CdS n. 4780/2014).
Va quindi ribadito che l’annullamento del provvedimento formatosi sulla d.i.a. edilizia deve essere preceduto dall'avviso di avvio del procedimento e dal rispetto di tutte le forme sostanziali e procedimentali previste per gli atti in autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo grado e la comparazione dell'interesse pubblico con l'aspettativa del privato, consolidata dal decorso del tempo e dalla consapevolezza dell'intervenuto assenso tacito nei termini di legge: in difetto dei presupposti per l'esercizio dell'autotutela, l'attività dichiarata può legittimamente proseguire.
In particolare, in materia di edilizia –e quindi anche in relazione alla d.i.a., figura cardine dell’edilizia quale strumento di semplificazione-, il potere di autotutela deve essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i loro effetti (cfr. ex multis Tar Lecce 2153/2013 e Tar Latina 215/2014).
Nel caso di specie, dal punto di vista temporale, è pacifico che l’intervento comunale sia avvenuto ben oltre il termine di efficacia della d.i.a..
Dal punto di vista dei presupposti, risultano carenti ed insufficienti sia l’indicazione dell’interesse pubblico ulteriore, sia la presa in considerazione dell’affidamento o comunque della situazione del privato. E ciò è estremamente grave in quanto trattasi di due elementi fondamentali, sia per l’autotutela in genere sia, in particolare, per quella relativa agli strumenti di semplificazione.
A quest’ultimo proposito, infatti, seguendo la lettura dell’ordinamento proposta dal Comune risulterebbe del tutto travisata e sconfitta la scelta di semplificazione compiuta ormai da tempo dal legislatore,il cui carattere di principio fondamentale è stato altresì certificato dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. ad es. sentenze 121/2014 e 282/2014). Infatti, opinando nei termini auspicati dal Comune, nessuna differenza nella specie vi sarebbe rispetto ad un diniego di titolo espresso, basato sulla presunta incompatibilità urbanistica –peraltro nella specie indimostrata ed assente– ovvero su di una presunta errata rappresentazione dei luoghi.
Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, emerge all’evidenza il farraginoso ed illegittimo comportamento comunale che, nel difendere pervicacemente una scelta negativa in relazione ad un intervento presumibilmente sfuggito al controllo (e segnalato ex post da un privato vicino o concorrente), invoca una falsa rappresentazione con riferimento ad una piccola fessura nel muro, avente finalità di areazione.
Al riguardo, la semplice analisi della documentazione versata in atti evidenzia l’assenza di qualsiasi falsa rappresentazione; nella relazione alla d.i.a. e documenti allegati, infatti, è chiaramente evidenziata la realizzazione di un foro passante di ventilazione (cfr. piante del locale). Inoltre, è ben plausibile, oltre che ragionevole ed elemento evidenziante attenzione nell’attività costruttiva, che nelle more degli approfondimenti circa gli eventuali ulteriori impatti estetici, il foro stesso sia stato tappato in superficie.
Né in termini di ulteriore specifico interesse pubblico –né tantomeno di presa in considerazione dell’eventuale affidamento- può valutarsi come legittimo il mero generico riferimento, contenuto nel provvedimento, ad “una lunga serie di atti” di contestazione avverso altri interventi: sia per l’evidente genericità del rinvio, non essendo indicati dal Comune né quali –e quindi dove, rispetto all’edificio ed al contesto in questione- né tantomeno quante siano tali presunte contestazioni e quale esito abbiano avuto; sia in quanto il singolo proprietario di un immobile non è certo tenuto a conoscere aliunde o comunque le ulteriori eventuali contestazioni ad altri immobili (si può solo presupporre collocati nella medesima zona, ma nulla il Comune ha esplicato o indicato sul punto, neppure in sede defensionale).
Analogamente alla deduzione di disparità di trattamento da parte del privato, che deve essere circostanziata e contenere il riferimento ad identiche situazioni, anche la contestazione da parte pubblica dell’identità di trattamento deve essere specificata ed esplicata in termini di identità di situazioni, specie laddove -come nel caso de quo- venga addirittura invocata al fine di porre in dubbio il legittimo affidamento di chi ha utilizzato proficuamente uno strumento di semplificazione, nel seguente silenzio della p.a..
1.3 In terzo luogo, prima facie fondato appare comunque anche il dedotto totale difetto di motivazione in merito al presunto –ma indimostrato– aumento del carico urbanistico che deriverebbe dall’intervento effettuato con d.i.a. ed inibito ex post.
Nessun elemento concreto e specifico è indicato –né appare allo stato ipotizzabile– in ordine all’effettivo aumento del carico urbanistico rispetto ad un magazzino di 19 mq totali, compreso servizio –che prevedeva, quindi, già una presenza umana, come evidenziato dai servizi igienici, di non elevata consistenza numerica– in un piccolo locale commerciale di identiche dimensioni.
In proposito, il numero di persone o di utenti ed il tempo che le stesse potranno passare nel contesto in esame non paiono certo in grado di incidere, nei termini in astratto e genericamente paventati dal Comune, sugli standards; né al riguardo, date le dimensioni ed il contesto, si pone un problema di mezzi che dovranno accedere in più rispetto alla situazione pregressa.
Peraltro, sul punto l’atto impugnato nulla si è premurato di istruire, né di valutare e motivare, ipotizzando unicamente un maggior afflusso di persone, invero difficilmente ipotizzabile a fronte delle limitatissime dimensioni del manufatto e del contesto in cui si inserisce. Invero, il maggior afflusso, presumibilmente ed auspicabilmente turistico, riguarda il centro di Vernazza in quanto tale, non potendo certo imputarsi al solo limitato intervento in questione, in cui ad un mutamento da magazzino a locale commerciale non si accompagna alcun aumento della limitatissima superficie.
Infine, in materia del tutto irrilevante è, nei termini invocati dalla difesa resistente, il pagamento dei richiesti oneri di urbanizzazione che, come correttamente indicato dalla difesa ricorrente, per giurisprudenza prevalente non comporta ex se acquiescenza (cfr. ex multis Tar Liguria n. 1405/2005) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.03.2015 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa scelta dell'amministrazione di fronteggiare una situazione di pericolo attuale con l'emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, attiene al merito dell'azione amministrativa e sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, ove non risulti manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti.
Ugualmente deve dirsi con riferimento alla scelta della p.a. di non fare ricorso a tale strumento eccezionale.
---------------
La giurisprudenza è costante nell’affermare che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e per l'igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo sia nota da tempo.
Il potere l'ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è, difatti, legittimamente utilizzabile anche per rimuovere situazioni risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo sufficiente la permanenza, al momento dell'emanazione dell'atto, della situazione di pericolo.

Parimenti fondata è poi la censura con cui viene lamentato il vizio di difetto di motivazione.
La scelta dell'amministrazione di fronteggiare una situazione di pericolo attuale con l'emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, attiene al merito dell'azione amministrativa e sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, ove non risulti manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti (cfr. fra le tante Consiglio di Stato, sez. V, 28/09/2009, n. 5807).
Ugualmente deve dirsi con riferimento alla scelta della p.a. di non fare ricorso a tale strumento eccezionale.

Nel caso di specie, l’amministrazione ha negato la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri extra ordinem del Sindaco, essendo ormai “superata l’imminenza dei fatti” ed essendosi consolidata la situazione di occupazione abusiva.
Così argomentando, però, l’amministrazione non ha affatto chiarito se, nel caso di specie, sussista o meno una situazione eccezionale di pericolo tale richiedere l’attivazione dei poteri di ordinanza extra ordinem.
Invero, il mero consolidarsi dell’occupazione abusiva dell’immobile non è, di per sé, indicativo dell’insussistenza di una situazione di pericolo attuale.
Inoltre, la circostanza che sia ormai passato il momento in cui è stata attuata l’occupazione abusiva e che la stessa sia ormai consolidata non esclude affatto il potere di intervento del Sindaco, sempre che una situazione eccezionale di pericolo effettivamente sussista e non sia fronteggiabile con gli strumenti ordinari.
Una tale limitazione non può invero ricavarsi da quanto previsto agli articoli 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000.
Al contrario, la giurisprudenza è costante nell’affermare che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e per l'igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo sia nota da tempo (Consiglio di Stato, sez. V, 19/09/2012, n. 4968; sez. IV, 06/12/2011, n. 6414).
Il potere l'ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è, difatti, legittimamente utilizzabile anche per rimuovere situazioni risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo sufficiente la permanenza, al momento dell'emanazione dell'atto, della situazione di pericolo (Consiglio di Stato, sez. V, 25/05/2012, n. 3077; 28.03.2008, n. 1322 e 10.02.2010, n. 670; Sez. IV, 25.09.2006, n. 5639).
La ragione addotta dal Comune di Milano per non fare ricorso al potere ex artt. 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000 è pertanto illegittima, in quanto il potere del Sindaco non era certamente escluso in conseguenza del mero consolidarsi dell’occupazione abusiva, laddove l’amministrazione non avesse altresì affermato che non sussisteva alcun rischio concreto di un danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli strumenti ordinari.
La motivazione del provvedimento è quindi viziata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'annullamento del provvedimento amministrativo per vizi formali non reca di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno.
In considerazione dell’ampio ambito di discrezionalità che, pur dopo l’annullamento dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti, sussiste in capo all’amministrazione nel valutare la sussistenza o meno dei presupposti per l’esercizio del potere di cui agli artt. 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000, allo stato, la domanda risarcitoria non può che essere respinta.
La conclusione non muta anche con riferimento alla richiesta di risarcimento del c.d. "danno da ritardo": la giurisprudenza maggioritaria è invero dell’avviso che il giudice amministrativo possa riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal comportamento inoperoso dell'amministrazione soltanto qualora sia stata accertata la spettanza del c.d. "bene della vita", che costituisce il presupposto indispensabile, in materia di risarcimento degli interessi legittimi di tipo pretensivo, per poter configurare una condanna della stessa al risarcimento del relativo danno.
Ma anche ove volesse ammettersi la risarcibilità del danno da ritardo mero, la domanda proposta con il presente ricorso non potrebbe comunque trovare accoglimento poiché non è quello il danno di cui le ricorrenti hanno chiesto il ristoro.

In conseguenza dell’annullamento dei provvedimenti del 05.08.2014, l’amministrazione è chiamata a pronunciarsi nuovamente sulle istanze presentate dalle società ricorrenti, stante l’annullamento degli atti di diniego per vizi che non escludono e anzi consentono il riesercizio del potere.

Ora, l'annullamento del provvedimento amministrativo per vizi formali, come nel caso all’esame, non reca di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno (così, ad es., Cons. Stato, A.P. 03.12.2008 n. 13 e Sez. IV, 04.09.2013 n. 4439).
In considerazione dell’ampio ambito di discrezionalità che, pur dopo l’annullamento dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti, sussiste in capo all’amministrazione nel valutare la sussistenza o meno dei presupposti per l’esercizio del potere di cui agli artt. 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000, allo stato, la domanda risarcitoria non può che essere respinta.
La conclusione non muta anche con riferimento alla richiesta di risarcimento del c.d. "danno da ritardo": la giurisprudenza maggioritaria è invero dell’avviso che il giudice amministrativo possa riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal comportamento inoperoso dell'amministrazione soltanto qualora sia stata accertata la spettanza del c.d. "bene della vita", che costituisce il presupposto indispensabile, in materia di risarcimento degli interessi legittimi di tipo pretensivo, per poter configurare una condanna della stessa al risarcimento del relativo danno (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, 28.02.2014 n. 4804 e Sez. III, 14.02.2014 n. 3431; Cons. Stato, Sez. V, 22.01.2014 n. 318, 04.09.2013 n. 4452, 08.05.2013 n. 2899, 14.10.2014, n. 5115; sez. IV, 01.07.2014, n. 3295).
Ma anche ove volesse ammettersi la risarcibilità del danno da ritardo mero, la domanda proposta con il presente ricorso non potrebbe comunque trovare accoglimento poiché non è quello il danno di cui le ricorrenti hanno chiesto il ristoro.
Le ricorrenti hanno, invero, domandato il risarcimento di un danno che non è legato alla incertezza sull’esito del procedimento, ma è un danno che presuppone la spettanza del bene della vita.
Dunque, le voci sopra elencate hanno ad oggetto danni che potrebbero, se del caso, essere causalmente ricondotti ad una responsabilità dell’amministrazione comunale, solo dopo che sia affermata la sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza per un intervento a tutela dell’incolumità pubblica ex artt. 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000 e sia accertato il colpevole ritardo dell’amministrazione.
La domanda risarcitoria va, quindi, allo stato, respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune ha illegittimamente proceduto a richiedere un’ulteriore somma a conguaglio di quanto versato, a titolo di costo di costruzione, ponendo alla base del calcolo la normativa del D.M. del 1999 che prevede il costo medio delle costruzioni alberghiere con riferimento ai parametri della Cassa Nazionale degli Ingegneri e Architetti.
Ebbene, siffatta richiesta integrativa di pagamento di somme a titolo di computo integrativo del costo di costruzione non appare correttamente formulata per almeno tre ordini di motivi:
a) il contributo di costruzione va determinato al momento del rilascio del titolo edilizio dovendosi fare applicazione relativamente al quantum dovuto alla normativa allo stato vigente e nella specie l’Amministrazione ha fatto applicazione di una disciplina, quella recata dal D.M. del 1999, che è successiva rispetto al momento in cui è insorta l’obbligazione contributiva, con conseguente violazione del principio del tempus regit actum;
b) le attuali appellanti hanno indicato, con la relazione tecnica fatta pervenire all’Amministrazione, il costo di costruzione dalle stesse sostenuto con i relativi importi, assolvendo così all’obbligo partecipativo di cui all'art. 10 l. 10/1977 e non risulta che il Comune abbia in relazione a quanto rappresentato dalle interessate proceduto a contestare la non veridicità e/o congruità degli importi inoltrati a cura delle beneficiarie della concessione edilizia;
c) al momento dell’adozione dell’atto qui gravato le opere edilizie (la circostanza non è contestata) non sarebbero state ultimate ed è indubbio che il costo “finale” di costruzione deve essere ancorato, quanto al suo computo, al completamento delle opere stesse.
---------------
Le operazioni di calcolo degli importi dovuti in relazione all’obbligazione contributiva correlata al rilascio di titoli edilizi (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) costituisce attività vincolata che si esplica in virtù dell’applicazione delle disposizioni normative disciplinanti la materia senza che possano residuare margini di discrezionalità, di guisa che non sono configurabili a carico degli atti che definiscono siffatti obblighi contributivi vizi di eccesso di potere.

Vanno invece accolti, perché fondati, i profili di doglianza dedotti col terzo motivo d’appello denunciati con riferimento al ricalcolo del costo di costruzione.
La legge n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi) all’art. 10, a proposito del rilascio delle concessioni riguardanti opere ed impianti non destinate alla residenza, al comma 2 stabilisce che la concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività turistiche, commerciali direzionali comporta la corresponsione di un contributo pari all’incidenza delle opere di urbanizzazione nonché “una quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di costruzione da stabilirsi in relazione ai diversi tipi di attività…”.
Dalla disposizione legislativa sopra riportata si rileva quindi una partecipazione (documentata) del privato in ordine alla determinazione del costo di costruzione per le concessioni, come quella qui in rilievo, relative a costruzioni alberghiere e in tali sensi nella specie tale condizione risulta essere soddisfatta, se è vero che le interessate hanno fatto pervenire al Comune nella prodotta relazione tecnica il prospetto delle spese inerenti il costo di costruzione, con l’indicazione di un basso costo di costruzione e tale calcolo risulta essere stato accettato dall’Amministrazione in sede di rilascio di concessione cui va correlato l’avvenuto pagamento degli importi dovuti per tale voce di contribuzione.
Ciò precisato, il Comune ha quindi proceduto con l’atto de quo a richiedere un’ulteriore somma a conguaglio di quanto versato, ponendo alla base del calcolo la normativa del D.M. del 1999 che prevede il costo medio delle costruzioni alberghiere con riferimento ai parametri della Cassa Nazionale degli Ingegneri e Architetti.
Ebbene, siffatta richiesta integrativa di pagamento di somme a titolo di computo integrativo del costo di costruzione non appare correttamente formulata per almeno tre ordini di motivi:
a) il contributo di costruzione va determinato al momento del rilascio del titolo edilizio dovendosi fare applicazione relativamente al quantum dovuto alla normativa allo stato vigente (Cons. Stato Sez. IV 25/06/2010 n. 4109; Con. Stato Sez. V 13/06/2003 n. 3332) e nella specie l’Amministrazione ha fatto applicazione di una disciplina, quella recata dal D.M. del 1999, che è successiva rispetto al momento in cui è insorta l’obbligazione contributiva, con conseguente violazione del principio del tempus regit actum;
b) le attuali appellanti hanno indicato, con la relazione tecnica fatta pervenire all’Amministrazione, il costo di costruzione dalle stesse sostenuto con i relativi importi, assolvendo così all’obbligo partecipativo di cui al citato art. 10 e non risulta che il Comune abbia in relazione a quanto rappresentato dalle interessate proceduto a contestare la non veridicità e/o congruità degli importi inoltrati a cura delle beneficiarie della concessione edilizia;
c) al momento dell’adozione dell’atto qui gravato le opere edilizie (la circostanza non è contestata) non sarebbero state ultimate ed è indubbio che il costo “finale” di costruzione deve essere ancorato, quanto al suo computo, al completamento delle opere stesse.
Da qui la illegittimità della richiesta di versamento integrativo.
Il quarto ed ultimo motivo di appello con cui si denuncia il vizio di carenza di istruttoria e di difetto di motivazione deve considerarsi infondato se non inammissibile: invero, le operazioni di calcolo degli importi dovuti in relazione all’obbligazione contributiva correlata al rilascio di titoli edilizi (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) costituisce attività vincolata che si esplica in virtù dell’applicazione delle disposizioni normative disciplinanti la materia senza che possano residuare margini di discrezionalità, di guisa che non sono configurabili a carico degli atti che definiscono siffatti obblighi contributivi vizi di eccesso di potere sub specie di quelli qui denunciati (cfr., Cons. Stato Sez. IV 19/07/2004 n. 5197).
Conclusivamente l’appello all’esame relativamente al terzo motivo d’impugnazione, relativo al ricalcolo del costo di costruzione, si rivela fondato e in accoglimento delle censure ivi dedotte , il gravato atto del Comune di San Giovanni Rotondo prot. n. 19520 del 28/08/2002 deve considerarsi illegittimo nella parte in cui ha richiesto alle appellanti il versamento di euro 117.970,2469 per “oneri da versare a titolo integrativo per costo di costruzione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2015 n. 1211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65%, schede all'Enea non essenziali.
Per fruire della detrazione per interventi di riqualificazione o risparmio energetico, la comunicazione all'Enea non è un adempimento previsto quale requisito essenziale.

Queste motivazioni si leggono nella sentenza 10.03.2015 n. 853/2015 emessa dalla Sez. XIX della Commissione tributaria regionale di Milano.
La detrazione per il risparmio energetico, introdotta sino dal 2007 dall'art. 1, commi da 344 a 347 della legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007) è stata confermata e ampliata in più occasioni, da ultimo con la legge di Stabilità n. 190/2014 che ha prorogato al 31/12/2015, nella misura del 65% la detrazione fiscale per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici.
Si ricorda che per le spese sostenute sino al 05/06/2013 era prevista una detrazione da ripartire in dieci anni di pari importo, mentre dal 06/06/2013 al 31/12/2015 la percentuale dell'agevolazione è salita al 65% della spesa sostenuta da ripartire sempre nei dieci anni successivi.
Per l'applicazione dell'aliquota relativa all'agevolazione (55 o 65%) occorre fare riferimento alla data di effettivo pagamento (criterio di cassa) per le persone fisiche, gli esercenti arti e professioni e gli enti non commerciali; mentre, per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, dovrà essere applicato il principio di competenza che coincide con la data di ultimazione della prestazione.
Gli adempimenti previsti dalla norma sono: a) l'asseverazione di un tecnico abilitato che attesti la corrispondenza degli interventi eseguiti con la legge di riferimento; b) il pagamento dei lavori tramite bonifico bancario o postale; c) da ultimo la trasmissione telematica all'Enea della copia dell'attestato di «certificazione energetica» dell'edificio, nonché la scheda informativa relativa agli interventi realizzati.
Con la sentenza di cui al commento, la Commissione regionale di Milano ha stabilito che l'omissione nella compilazione della scheda informativa da trasmettere all'Enea non pregiudica, in ogni caso, la deduzione.
---------------
COMMENTO
Con la sentenza n. 853/2015 emessa dalla sezione diciannovesima della Commissione tributaria regionale di Milano, i giudici regionali lombardi, capovolgendo, sul punto, quanto deciso dai colleghi di prime cure della Commissione provinciale di Milano, hanno stabilito che l'invio della documentazione all'Enea, non sia una condizione essenziale per l'ottenimento della detrazione in misura del 55% (o del 65% dal 06.06.2013 al 31.12.2015) previsto dalla normativa per gli interventi di riqualificazione o risparmio energetico.
La contestazione traeva origine da una cartella di pagamento con cui l'Agenzia delle entrate di Monza Brianza recuperava delle deduzioni rivendicate per l'anno d'imposta 2007. Alla base del recupero fiscale, l'Agenzia erariale aveva indicato la mancata produzione della ricevuta di invio della documentazione all'Enea, ente preposto alla verifica di determinate condizioni ritenute essenziali per l'ottenimento della deduzione fiscale; anche le istruzioni ministeriali contenute nell'Unico 2008 evidenziavano la necessità dell'invio di questa certificazione all'Enea.
Mentre, le indicazioni della normativa di riferimento contemplano l'esecuzione dei seguenti adempimenti: a) l'asseverazione di un tecnico abilitato che attesti la corrispondenza degli interventi eseguiti con la legge di riferimento; b) il pagamento dei lavori tramite bonifico bancario o postale; c) da ultimo la trasmissione telematica all'Enea della copia dell'attestato di «certificazione energetica» dell'edificio, nonché la scheda informativa relativa agli interventi realizzati.
Il contribuente replicava assumendo che il mancato invio di documentazione fosse relativo a una mera dimenticanza; quindi, si trattava solo di un adempimento formale, privo di contenuti di controllo e che, comunque, la sua omissione, non essendo specificatamente sanzionata dalla norma, non poteva comportare alcuna decadenza. La Commissione tributaria provinciale, chiamata a decidere sul punto rigettava il ricorso del contribuente.
Di diverso avviso i giudici regionali di Milano che hanno riformato la decisione annullando la pretesa erariale. «Giova ricordare la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 21/E del 23.04.2010», osservano i giudici d'appello, «che in nessuna parte parla di decadenza del beneficio fiscale de quo, anzi prevede che il contribuente possa rettificare la documentazione e la scheda informativa da trasmettere all'Enea, possa essere rettificata con l'invio di una comunicazione di rettifica, al fine di porre rimedio e correggere eventuali errori e omissioni».
Il collegio aggiunge che l'Ufficio ha comunque ricevuto la documentazione nonché la dimostrazione dei lavori eseguiti e delle relative spese sostenute. Da questo l'accoglimento dell'appello del contribuente con la compensazione delle spese di lite (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015).

EDILIZIA PRIVATAQuanto ai limiti dell'esame da parte della Soprintendenza dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante del Giudice amministrativo, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria.
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente. Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio

... per l'annullamento del decreto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo (di seguito: Soprintendenza), in data 04.2.2010 recante annullamento del provvedimento del comune di Tivoli dell’11.02.2009 recante espressione del parere paesaggistico favorevole ex artt. 32 della legge n. 47 del 1985 e 39 della legge n. 724 del 1994 per la costrizione di “Opere abusive consistenti nella realizzazione di una unità immobiliare destinata ad attività agrituristica + tettoia in Tivoli, loc. Pisoni” di mq. 247,46
...
Quanto poi ai limiti dell'esame da parte della Soprintendenza dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante del Giudice amministrativo, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria (cfr. Cons. St. sopra citato cui adde sez. VI, n. 3767 del 2011, n. 4861 del 2010, nn. 7609 e 772 del 2009).
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al richiedente. Tale principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve essere motivato, recando l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (ved. Cons. St., nr. 2395 del 2012).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento comunale di cui si tratta non è stata data alcuna specifica motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il manufatto, dichiarata ex lege di notevole interesse pubblico, limitandosi detto atto ad una mera declaratoria di compatibilità paesaggistica, senza specificare le ragioni che consentivano di giustificare un giudizio di tale natura alla luce delle previsioni del P.t.p. e del (più rigoroso) P.t.p.r..
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato non ha assolto perciò al compito proprio di dare "da solo, piena contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una congrua descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve inserirsi, che dell'opera medesima” (così Cons. St., n. 6885 del 2011 e n. 2219/2012 cit.) e correttamente, di conseguenza, la Soprintendenza ha nel proprio decreto rilevato che nel provvedimento in esame l'Autorità decidente non spiega come e perché l'intervento sanato sia compatibile con le esigenze della tutela ambientale e, su tale base, conclude che l’autorizzazione o il parere non adempiono all’obbligo legale di una motivazione esauriente e completa in ordine alla compatibilità dell’opera realizzata rispetto alle valenze del vincolo ed alla sua disciplina, restando con ciò nei limiti della propria competenza.
Da quanto sopra deriva che il provvedimento della Soprintendenza è legittimo in quanto giustificato dal corretto riscontro della violazione di legge e dell'eccesso di potere che vizia il provvedimento comunale per carenza della relativa motivazione, con accessiva infondatezza della doglianza in trattazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 17.02.2015 n. 2727 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che quello abbattuto.
E’ noto che, per consolidata giurisprudenza, in linea astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che quello abbattuto, circostanza affatto dimostrata in giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 05.02.2015 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere abusive (perché realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo) non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi.
Anche a prescindere da ciò, trova applicazione, nella fattispecie, la previsione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990.
---------------
L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato.
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.
---------------
Non meritano condivisione neanche le deduzioni volte a sostenere la necessità di una diffusa motivazione in merito alla conformità urbanistica delle opere abusive ai fini della verifica della loro sanabilità.
Invero, il Collegio sottolinea che il legislatore non ha inteso richiedere un presupposto ulteriore rispetto all’abusività delle opere al fine di legittimare l’esercizio del potere sanzionatorio; diversamente opinando si sarebbe in presenza di una previsione assolutamente inconciliabile con il sistema normativo che disciplina lo sviluppo edificatorio e l’assetto del territorio in quanto si dovrebbe ammettere che gli abusi edilizi non sarebbero mai rilevati in sé ma solo ove si pongano anche in contrasto con la normativa urbanistica, facendo, peraltro, gravare sull’Amministrazione l’obbligo di motivare specificamente anche su tale ulteriore punto.
In altri termini, è di tutta evidenza che, ove si avallasse la tesi sostenuta dalla difesa di parte ricorrente l’intero sistema teso a regolare la materia edilizia ed urbanistica diverrebbe privo di significato in quanto la stessa funzione dei titoli edilizi finirebbe per divenire scarsamente comprensibile e, con essa, la previsione di un regime sanzionatorio diversificato in ragione della gravità dell’abuso.

2. In relazione al primo motivo di ricorso, con il quale è stata lamentata l’omessa comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, il Collegio reputa sufficiente rilevare, conformemente alla consolidata giurisprudenza (TAR Campania Napoli, sez. II n. 2458 dell’08.05.2009, sez. IV, n. 9710 dell'01.08.2008), che l’ordine di demolizione di opere abusive (perché realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo) non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi; anche a prescindere da ciò, trova applicazione, nella fattispecie, la previsione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990.
---------------
3.2. Per giurisprudenza costante, infatti, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5203).
Nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate e le motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
3.3. In tale quadro, non meritano condivisione neanche le deduzioni volte a sostenere la necessità di una diffusa motivazione in merito alla conformità urbanistica delle opere ai fini della verifica della loro sanabilità.
Anche a prescindere dalla genericità con la quale è stata è stata formulata tale censura –non avendo la difesa di parte ricorrente svolto alcuna considerazione in merito alla sussistenza, nella fattispecie, della conformità urbanistica delle opere contestate– il Collegio sottolinea che il legislatore non ha inteso richiedere un presupposto ulteriore rispetto all’abusività delle opere al fine di legittimare l’esercizio del potere sanzionatorio; diversamente opinando si sarebbe in presenza di una previsione assolutamente inconciliabile con il sistema normativo che disciplina lo sviluppo edificatorio e l’assetto del territorio in quanto si dovrebbe ammettere che gli abusi edilizi non sarebbero mai rilevati in sé ma solo ove si pongano anche in contrasto con la normativa urbanistica, facendo, peraltro, gravare sull’Amministrazione l’obbligo di motivare specificamente anche su tale ulteriore punto.
In altri termini, è di tutta evidenza che, ove si avallasse la tesi sostenuta dalla difesa di parte ricorrente l’intero sistema teso a regolare la materia edilizia ed urbanistica diverrebbe privo di significato in quanto la stessa funzione dei titoli edilizi finirebbe per divenire scarsamente comprensibile e, con essa, la previsione di un regime sanzionatorio diversificato in ragione della gravità dell’abuso
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.01.2015 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: In base all'art. 91 del d.lgs. n. 163/2006, nel caso di valore della progettazione che non superi la soglia dei 100.000 euro gli incarichi di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a professionisti esterni.
Tale procedura, tuttavia, deve rispettare la sia pur limitata concorrenzialità prescritta dall'art. 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, e l'applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90, comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti con le procedure previste dal presente codice per l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed economicità, e incontra due conseguenti condizioni, consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura limitatamente concorrenziale sopra ricordata.

La sentenza impugnata ha correttamente rilevato che in base all’art. 91 del d.lgs. n. 163, nel caso di valore della progettazione che non superi la soglia dei 100.000 euro -circostanza che ricorre nel caso di specie- gli incarichi di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a professionisti esterni.
Tale procedura sconta, peraltro, il rispetto della sia pur limitata concorrenzialità prescritta dall’art. 57, comma 6, e l’applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90, comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti con le procedure previste dal presente codice per l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed economicità, e incontra due conseguenti condizioni, consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura limitatamente concorrenziale sopra ricordata.
La sentenza impugnata erra, perciò, nel ritenere che la scelta di affidare la progettazione all’esterno abbia determinato automaticamente la conseguenza dell’obbligatoria preferenza a favore dei progettisti al momento dell'affidamento della direzione dei lavori. Questo errore si manifesta per un duplice ordine di motivi: innanzitutto, perché la scelta a monte, relativa al soggetto cui affidare la progettazione, non risulta sia stata rispettosa dei principi appena indicati, soprattutto per quanto riguarda la concorrenzialità tra almeno cinque potenziali interessati; in secondo luogo, perché diverse sono le Amministrazioni che hanno condotto le due fasi della procedura, la prima (attinente alla progettazione) di pertinenza della Provincia, la seconda, concernente la direzione dei lavori e la fase attuativa e di controllo, di spettanza dell’istituto scolastico, come, del resto, si legge nell’accordo stipulato tra l’ente locale e l’istituto Pizi.
L’errore appena considerato, peraltro, è rivelatore di un ben più grave fraintendimento da parte del primo giudice, che, pur sottolineando come gli accordi intervenuti tra le Amministrazioni coinvolte nel progetto (Ministero, Provincia, istituto scolastico) hanno assunto la funzione di regolare le specifiche competenze in ordine alle varie fasi del complesso procedimento e non hanno determinato alcuna deroga ai principi contenuti nel Codice dei contratti pubblici che assumono la natura di norme inderogabili, attribuisce portata assolutamente prevalente al principio di continuità della progettazione espresso nell'art. 130 del medesimo Codice, laddove una tale importanza non può che essere riconosciuta, secondo la scala di valore derivante dagli stessi principi comunitari (oltre che dalla lettera delle norme), alle istanze di trasparenza, economicità e concorrenzialità dell’azione amministrativa
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.01.2015 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento del titolo edilizio: i limiti all'autotutela.
Ai sensi dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, il provvedimento amministrativo, illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies, può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro Ente, in esercizio dei poteri sostitutivi, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Di conseguenza l'esercizio del potere di autotutela da parte dell'Amministrazione richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto, debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, essendo, quindi, insufficiente l'identificazione dell'interesse pubblico (ritenuto in re ipsa) nel mero ripristino della legalità violata.
Anzi, il carattere tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio impone una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro, soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un ragionevole affidamento sulla legittimità del titolo stesso, affidamento indotto dallo operato degli stessi uffici comunali.
Nell'ambito di tale motivazione assume, dunque, importanza centrale il principio dell'affidamento del privato che, per quanto riguarda i permessi edilizi, non può che essere valutato, in applicazione del citato art. 21-nonies, alla luce del tempo trascorso dal rilascio del permesso, dello stato effettivo dell'edificazione e della riconoscibilità dell'illegittimità dell'atto.

... per l'annullamento della determina n. 5939 dell’01.08.2013, conosciuta in data 02.09.2013, resa dal Dirigente del Servizio Edilizia Pubblica e Territorio della Provincia di Bari, dott. C.L., recante annullamento ex art. 39, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 del Permesso di Costruire n. 35/2011 rilasciato in data 19.07.2011 dal Comune dì Gioia del Colle a favore della ricorrente Società L.C.C. SrL, nonché di tutti gli atti ivi richiamati, in quanto lesivi.
...
Tanto premesso, il ricorso è fondato.
Sostiene parte ricorrente che la motivazione spiegata dalla Provincia, in ordine alle ragioni di interesse pubblico ulteriori al mero ripristino della legalità, nonché alla loro comparazione con il consolidato interesse del privato, atteso, l’avanzato stato di edificazione, si rivelerebbe, in realtà inconsistente.
L’art. 21-nonies L. 241/1990, che pone presupposti ben precisi per la legittimità dell’annullamento in autotutela, sarebbe violato.
Tale ultima doglianza è certamente fondata.
La qualità della motivazione provinciale in merito alla comparazione degli interessi contrapposti è evanescente.
Recita il provvedimento impugnato “Valutate le ragioni di interesse pubblico, che si dimostrano attuali e concrete, alla rimozione del titolo edilizio, nonché prevalenti sull’interesse privato e sul legittimo affidamento che si è venuto a costituire in seguito al rilascio del permesso di costruire, come meglio specificato in narrativa, avuto riguardo dello stato dei lavori e del decorso periodo di tempo dal rilascio del titolo”.
La parte narrativa a cui si rinvia, recita, a sua volta (v. pag. 17 provvedimento impugnato), “In merito alla sussistenza del pubblico interesse all’annullamento dei provvedimenti, questo è in re ipsa, essendo la questione posta all’evidenza degli Enti competenti all’annullamento da soggetti controinteressati che, come nel caso di specie, propongono una formale istanza di annullamento”.
Come ben chiarisce, al di là di ogni dubbio interpretativo, il dato testuale, la motivazione in ordine all’interesse pubblico, nonché a quello privato ed all’affidamento determinato anche dallo stato di avanzata edificazione, è del tutto assente.
Essa, in merito alla comparazione tra interesse pubblico e privato, nonché alla consistenza di quello pubblico (diverso dal ripristino della legalità), si manifesta meramente tautologica ed assertiva.
Non contiene una indicazione delle ragioni di interesse pubblico, nonché della loro prevalenza rispetto all’interesse privato (la cui rilevanza è amplificata dall’avanzato stato costruttivo, giunto fino alla realizzazione del rustico e di buona parte delle tamponature).
La motivazione contiene, invero, solo un’affermazione apodittica dell’esistenza di tali ragioni e della loro preponderanza.
Tanto non è certo sufficiente a garantire il rispetto della disposizione invocata da parte ricorrente, posto che, ai sensi dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, il provvedimento amministrativo, illegittimo ai sensi del precedente art. 21-octies, può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro Ente, in esercizio dei poteri sostitutivi, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Di conseguenza l'esercizio del potere di autotutela da parte dell'Amministrazione richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto, debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, essendo, quindi, insufficiente l'identificazione dell'interesse pubblico (ritenuto in re ipsa) nel mero ripristino della legalità violata; anzi il carattere tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio impone una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro, soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un ragionevole affidamento sulla legittimità del titolo stesso, affidamento indotto dallo operato degli stessi uffici comunali.
Nell'ambito di tale motivazione assume, dunque, importanza centrale il principio dell'affidamento del privato che, per quanto riguarda i permessi edilizi, non può che essere valutato, in applicazione del citato art. 21-nonies, alla luce del tempo trascorso dal rilascio del permesso, dello stato effettivo dell'edificazione e della riconoscibilità dell'illegittimità dell'atto.
Ai fini indicati, l’Amministrazione avrebbe certamente dovuto considerare, in favore degli interessi privati, lo stato avanzato di edificazione.
Ancora, di segno contrario all’interesse pubblico al ripristino della legalità, gli eventuali aspetti risarcitori scaturenti dall’annullamento (che rifluiscono certamente sull’interesse pubblico, in quanto incidono sul patrimonio dell’Ente destinatario di potenziali richieste risarcitorie).
Per contro, tesi ad escludere l’affidamento sono elementi quali: l’eventuale istruttoria (da valutarsi a seguito di adeguati accertamenti sul punto) compiuta dall’amministrazione di primo grado in ordine alla questione (certamente non pacifica) della edificabilità in zona F1 dell’edificio destinato a fini commerciali, nonché la completezza di tale istruttoria. Risulta infatti, evidente che l’incompletezza istruttoria di primo grado, a fronte di una questione pacificamente controversa, depone contro l’affidamento del privato che ripone colpevolmente fiducia in un atto la cui legittimità è tanto più opinabile, quanto più immotivata è l’adesione ad un orientamento non pacifico.
L’accoglimento di tale doglianza, con conseguente annullamento dell’atto impugnato, esonererebbe la Sezione dal pronunciarsi sulle ulteriori censure.
Sennonché, essendo la Provincia tenuta alla riedizione del potere cassato con la odierna pronuncia (dovendo necessariamente concludere il procedimento avviato in autotutela con un nuovo provvedimento finale), esigenze di effettività della tutela impongono di tracciare le coordinate della riedizione, vagliando, nei limiti della domanda proposta con il ricorso, le ulteriori censure che rifluiscono, peraltro, sulla sorte della domanda risarcitoria.
Procedendo per successive approssimazioni verso il punto nodale della decisione che risiede, come è evidente, nella esatta individuazione delle tipologie costruttive realizzabili in zona F1, è opportuno, in primo luogo sgomberare il campo dall’ulteriore censura (con la dovuta sintesi che la manifesta fondatezza della doglianza impone) inerente la ritenuta inidoneità dell’atto unilaterale d’obbligo (doglianza sub II.2.a del ricorso introduttivo, pagg. 19 e ss).
La giurisprudenza (che non occorre citare in questa sede, in quanto riportata anche nell’atto impugnato, perché sottoposta all’Amministrazione dalla società ricorrente in sede di partecipazione procedimentale), con valutazioni che il Collegio condivide appieno, è sostanzialmente pacifica nell’equiparare in astratto lo strumento convenzionato a quello unilaterale, sicché del tutto inconsistente è la scelta giuridica operata sul punto dalla Provincia, resa ancora più labile dalla manifestata disponibilità (già nella fase istruttoria del procedimento di autotutela) della società a sottoscrivere la richiesta convenzione, a fini sananti e di convalida del provvedimento edilizio.
Cosa ben diversa (di cui tenere debitamente conto in sede di riedizione del potere) è la concreta assimilabilità dello specifico atto unilaterale allo strumento convenzionato, dovendosi vagliare la specificità degli obblighi assunti, la loro completezza, nonché l’eventuale necessità che il Comune presti formale accettazione dell’atto unilaterale (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 14.01.2015 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Chiarimenti resi dalla stazione appaltante: hanno solo valore interpretativo.
Le note informative di chiarimento non modificano affatto il contenuto delle regole di gara e sono solo esplicative del bando di gara; non ha pertanto alcun senso la previsione di una clausola escludente per una omessa accettazione delle stesse con sottoscrizione ulteriore, che sarebbe fortemente penalizzante e non ha alcun profilo sostanziale e funzionale se non quello di ristringere la cerchia dei partecipanti.
Nell’offerta di parte ricorrente vi sono tutti gli elementi essenziali della domanda, in conformità del bando, che è unico e immodificato “ab origine”, costituendo la “lex specialis” che può contenere incertezze interpretative delle clausole, superabili a mezzo di chiarimenti che consentono ai partecipanti di conoscere l’esatta volontà dell’Amministrazione, senza che possa essere modificata, sia per la pendenza dei termini per la presentazione delle offerte, sia quale regola di buona amministrazione (art. 97 cost.), finalizzata ad assicurare la parità di trattamento.
I chiarimenti, pertanto, non possono introdurre previsioni innovative e/o modificative delle prescrizioni già stabilite dal bando, perché ciò significherebbe il suo ritiro, con sostituzione di altro nuovo (art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006).

Il cottimo fiduciario “avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici” e “i procedimenti di acquisizione di prestazioni in economia sono disciplinati, nel rispetto del presente articolo, nonché dei principi in tema di procedure di affidamento e di esecuzione del contratto desumibili dal presente codice, dal regolamento” (art. 125 citato, comma 11° e 14°).
Il regolamento (Dpr. n. 207/2010, artt. 331 e 332) riafferma: la massima trasparenza, contemperando l’efficienza dell’azione amministrativa con i principi di parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza, nonché di rotazione.
Quel che va stabilito è se al cottimo fiduciario, per l’acquisizione di servizi e forniture in economia, sia applicabile o meno l’art. 46, comma 1-bis del d.lgs. n. 163/2006.
La norma prevede che la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette prescrizioni sono comunque nulle (comma introdotto dall’art. 4, comma 2, lett. d), del DL 13/05/2011 n. 70 in vigore dal 14/05/2011, convertito con la legge di conversione 12.07.2011, n. 106, in vigore dal 13/07/2011).
La disposizione è tesa ad assicurare i principi generali di trasparenza, parità di trattamento e di efficienza dell’azione amministrativa, posti a tutela della concorrenza e stabilisce l’essenziale principio della tassatività delle cause di esclusione dalle gare. Tale articolo di legge va collegato all’art. 64, comma 4-bis del d.lgs. n. 163/2006, che richiama il bando emanato dalla stazione appaltante, sulla base dei modelli dei bandi-tipo approvati dall’Autorità e indicanti le tassative cause di esclusione, genericamente poste dal citato art., 46, comma 1-bis, nonché le eventuali motivate deroghe.
Tra le cause d’esclusione (bando-tipo, artt. 1, 2, 3 della parte II, g.u. 254/30.10.2012) vi sono la mancata sottoscrizione dell’offerta, che non è presente nel caso in esame, e la mancata accettazione delle condizioni generali di contratto, anch’essa non rinvenibile nella fattispecie in esame, trattandosi di previsione che non ha nulla a che vedere con la mancata sottoscrizione delle note di chiarimento, di cui nella presente fattispecie. Ciò, invero, è del tutto coerente con il valore assorbente della sottoscrizione primaria dell’offerta fatta e della necessità di evitare duplicità di adempimenti, secondo ragionevolezza e utilità effettiva.
Le note informative di chiarimento non modificano affatto il contenuto delle regole di gara e sono solo esplicative del bando di gara; non ha pertanto alcun senso la previsione di una clausola escludente per una omessa accettazione delle stesse con sottoscrizione ulteriore, che sarebbe fortemente penalizzante e non ha alcun profilo sostanziale e funzionale se non quello di ristringere la cerchia dei partecipanti.
Nell’offerta di parte ricorrente vi sono tutti gli elementi essenziali della domanda, in conformità del bando, che è unico e immodificato “ab origine”, costituendo la “lex specialis” che può contenere incertezze interpretative delle clausole, superabili a mezzo di chiarimenti che consentono ai partecipanti di conoscere l’esatta volontà dell’Amministrazione, senza che possa essere modificata, sia per la pendenza dei termini per la presentazione delle offerte, sia quale regola di buona amministrazione (art. 97 cost.), finalizzata ad assicurare la parità di trattamento (C.S., V, 3093/2014).
I chiarimenti, pertanto, non possono introdurre previsioni innovative e/o modificative delle prescrizioni già stabilite dal bando, perché ciò significherebbe il suo ritiro, con sostituzione di altro nuovo (art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006).
Nel caso in esame, viene inserita una nuova previsione escludente che, stante la funzione esplicativa dei chiarimenti, sarebbe del tutto illogica anche per il suo automatismo escludente.
Il fornitore, invero, si è già impegnato, sottoscrivendo il modulo di presentazione dell’offerta, che, in caso di aggiudicazione, avrebbe osservato tutte le condizioni predisposte dall’ordinante; i chiarimenti, in quanto riferiti alle condizioni sottoscritte in sede di offerta, andranno comunque rispettati senza necessità di una clausola escludente.
L’art. 41, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006, modificato con d.l. n. 70/2011 (art. 4, comma 2°, lett. d, vigente dal 14.05.2011) prevede la tassatività delle prescrizioni possibili e le clausole esclusive sono consentite per gli adempimenti, anche formali, se rientranti nei casi tassativi di legge (A.P. n. 9/2014). La clausola in oggetto è di mera forma e per nulla essenziale, non incidendo in alcun modo sulla regolarità concorrenziale, realizzando, per contro, solo una riduzione della platea dei concorrenti a danno del “favor partecipationis” (C.S., V, 3093/2013).
A voler tutto concedere, la stazione appaltante avrebbe potuto, nella fattispecie, utilizzare il “soccorso istruttorio” per quello che è un requisito meramente formale, ovvero di una clausola fine a se stessa che non altera la regolarità del confronto concorrenziale e verrebbe a danneggiare solo il libero mercato.
Il ricorso è accolto (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 12.01.2015 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lo strumento della perequazione, che trova fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo a condizione che siano rispettati i principi della pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente penalizzanti per i proprietari.
La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti amministrativi (l’art. 8 comma 2-e della LR 12/2005 collega l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una parte del valore economico di tali diritti non può superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di inedificabilità.
Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma di servizi e infrastrutture.
Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate solo in un punto specifico.
Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2 dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano attribuiti identici diritti edificatori, inferiori all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a costruire, e impone l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
La costituzione di una rendita nella forma di diritti edificatori è meno problematica quando corrisponda chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi diritti siano effettivamente commerciabili in modo vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della monetizzazione.
Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in relazione a obiettivi di interesse pubblico (riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica; risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile). L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura (nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone sociale) più è necessario che vi sia un attento bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità economica di chi costruisce.

Sui limiti della perequazione
17. Lo strumento della perequazione, che trova fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
18. Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo a condizione che siano rispettati i principi della pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente penalizzanti per i proprietari.
19. La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti amministrativi (l’art. 8, comma 2-e, della LR 12/2005 collega l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una parte del valore economico di tali diritti non può superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di inedificabilità.
20. Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma di servizi e infrastrutture.
21. Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate solo in un punto specifico.
22. Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2 dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano attribuiti identici diritti edificatori, inferiori all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a costruire, e impone l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
23. La costituzione di una rendita nella forma di diritti edificatori è meno problematica quando corrisponda chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi diritti siano effettivamente commerciabili in modo vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della monetizzazione.
24. Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in relazione a obiettivi di interesse pubblico (riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica; risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile). L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura (nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone sociale) più è necessario che vi sia un attento bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità economica di chi costruisce.
Conclusioni
25. Tornando al caso in esame, inquadrato economicamente come si è visto sopra, si ritiene che le modalità con cui il PGT ha attuato la perequazione presentino le seguenti criticità:
(a) vi è un intervallo eccessivo tra i diritti edificatori generati dall’area interessata dall’intervento e quelli da acquistare, monetizzare, o reperire mediante gli incentivi. Non è possibile stabilire, in mancanza di puntuali indicazioni normative, una ripartizione esatta, ma si può ritenere che almeno la metà dei diritti edificatori necessari per intraprendere una costruzione (indice di densità minimo) debba appartenere alla prima categoria. In questo modo il peso degli incentivi è relativizzato, e viene salvaguardata la libertà di scelta dei privati circa le caratteristiche della costruzione;
(b) con il prezzo iniziale della monetizzazione, e la conseguente necessità di utilizzare tutti gli incentivi, erano praticabili solo l’attività edificatoria dotata dei più elevati standard costruttivi (quindi più costosa) e quella finalizzata all’edilizia sociale (non facilmente gestibile da un privato o da un normale impresa di costruzioni).
In corso di causa è intervenuta la riduzione del prezzo della monetizzazione, ma rimane la necessità di un’indagine più precisa sulla situazione del mercato immobiliare e di un’analisi più dettagliata dei reali costi di costruzione (in particolare, delle voci che presentano rigidità, come lavoro e materiali);
(c) la disciplina del PGT non tiene adeguatamente conto della distinzione tra l’indice di densità minimo e quello massimo. Per raggiungere il primo, i diritti edificatori generati dall’area interessata dall’intervento non possono essere inferiori, come si è visto, alla metà del totale. Nello specifico, per contro, come si è detto, i diritti edificatori generati dall’area in questione sono stati fissati in 0,25 mq/mq e l’indice minimo di densità in 0,80 mq/mq, determinando un differenziale di diritti edificatori da colmare, per ogni mq edificato, pari a 0,55 mq/mq [0,80-0,25], che è alla base di quell’effetto distorsivo che la ricorrente giustamente censura;
(d) è invece in relazione al secondo indice di densità (quello massimo) che, una volta corretto il primo nel senso sopra chiarito, possono trovare maggiore spazio le politiche incentivanti del Comune, le quali, operando su questo segmento della capacità edificatoria, sono in grado di svolgere un’appropriata funzione premiale senza effetti inibitori o distorsivi.
26. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento delle norme del PGT relative alla perequazione. L’effetto conformativo di questa pronuncia comporta l’obbligo per il Comune di riesaminare la disciplina in questione mediante un nuovo pronunciamento del consiglio comunale, nel rispetto delle indicazioni sopra esposte.
Per tale adempimento è fissato il termine di 90 giorni dal deposito della presente sentenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una canna fumaria che interessi anche la facciata in corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante giurisprudenza "non nega a priori la possibilità di effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in questione…”.
---------------
Una volta che l’amministrazione competente ha verificato nei limiti delle proprie possibilità che non vi è violazione di specifiche norme legislative o regolamentari (nel caso di specie viene in evidenza il citato art. 98 del R.E.C.) e che non sussistono pericoli per la salute pubblica, non è possibile negare il rilascio degli atti autorizzativi, i quali, come è noto, vengono adottati con la clausola, anche implicita, “fatti salvi i diritti dei terzi”.
Ciò vuol dire che l’amministrazione non risponde dei pregiudizi cagionati dall’esecuzione non a regola d’arte di lavori regolarmente assentiti, salvo che si tratti di varianti significative e rilevanti dal punto di vista edilizio e/o igienico-sanitario.

... per l'annullamento del permesso in sanatoria relativo a istallazione di canna fumaria.
...
4. Il ricorso va respinto nel merito.
In effetti, fermo ed impregiudicato quanto deciso dal giudice civile all’esito delle varie iniziative giudiziarie promosse dal sig. G. (vedasi, ad esempio, le sentenze depositate da parte ricorrente in data 03/11/2014), nella presente sede giurisdizionale si deve discutere solo dei profili edilizi e igienico-sanitari inerenti il titolo impugnato. I profili igienico-sanitari, però, nella specie non presentano rilievo autonomo, atteso che:
- il controinteressato sig. P. ha infatti chiesto ed ottenuto dal Comune un titolo edilizio in sanatoria ed è questo il provvedimento che il sig. G. e la sig.ra M. hanno impugnato davanti al TAR;
- ne consegue l’irrilevanza, da un punto di vista generale, dei profili afferenti le emissioni odorigene prodotte dalla cottura degli alimenti.
5. Premesso che i ricorrenti non contestano la parte della sanatoria relativa alla realizzazione di una volumetria aggiuntiva mediante tamponatura dei lati aperti di una preesistente tettoia, quanto alla canna fumaria è sufficiente osservare che:
- il controinteressato ha allacciato il condotto di scarico proveniente dai forni della pizzeria ad una canna fumaria preesistente (la quale era però a servizio di una semplice caldaia domestica e dunque potenzialmente non adeguata a sopportare anche i fumi di cottura di alimenti);
- per giurisprudenza consolidata le canne fumarie dal punto di vista edilizio sono da qualificare in generale come volumi o impianti tecnici, essendo necessarie per l’utilizzo di impianti termici che nei moderni edifici sono indispensabili. Tale qualificazione può essere dubbia nel caso di canne fumarie di rilevanti dimensioni (la cui presenza potrebbe provocare problemi anche dal punto di vista della sicurezza statica degli edifici o della pubblica incolumità o anche in relazione alla presenza di eventuali vincoli architettonici sull’immobile sottostante), ma non è questo il caso, trattandosi nella specie di una canna fumaria di dimensioni normali, sulla quale è stato innestato un tubo di piccolo diametro;
- non si vede dunque come avrebbe potuto il Comune di Ancona negare in parte qua il rilascio del titolo in sanatoria in favore del sig. P..
6. Con riguardo poi all’eventuale necessità di un consenso dei condomini, il Collegio condivide la recente pronuncia del TAR Brescia, n. 1308/2014, secondo cui “…In generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una canna fumaria che interessi anche la facciata in corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante giurisprudenza –Cass. civ. sez. II 11.05.2011 n. 10350, T. Roma sez. XII 28.07.2002, T. Milano 26.03.1992 e T. Trento 16.05.2013 n. 432- "non nega a priori la possibilità di effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in questione…”.
Nella specie, per quanto detto in precedenza, non si pone alcun problema di decoro della facciata dell’immobile in cui risiedono i ricorrenti.
7. Quanto ai profili igienico-sanitari, il Comune ha effettuato numerosi approfondimenti istruttori, coinvolgendo anche la competente Zona Territoriale dell’ASUR Marche.
Ebbene, tali approfondimenti non hanno confermato le perplessità degli odierni ricorrenti sulla conformità dell’impianto.
Al riguardo, si deve evidenziare in particolare che, con nota datata 19/06/2006, il S.I.S.P. dell’ASUR Marche - Z.T. n. 7, ha comunicato al competente dirigente comunale che:
- era stato effettuato un sopralluogo presso l’immobile in cui risiedono i ricorrenti (i quali non erano stati rintracciati nel loro appartamento) e in quell’occasione non era stata riscontrata la presenza di esalazioni maleodoranti nel vano scala condominiale, nel cortile retrostante e nella pubblica via;
- poiché il forno utilizzato nella pizzeria è elettrico, lo stesso non è soggetto alle disposizioni di cui all’art. 98 del R.E.C. di Ancona.
Con la successiva nota datata 13/07/2007 il S.I.S.P. ha espresso parere favorevole con prescrizioni (fra le quali la necessità del rispetto delle disposizioni dell’art. 98 R.E.C.) al rilascio del titolo impugnato.
8. Una volta che l’amministrazione competente ha verificato nei limiti delle proprie possibilità che non vi è violazione di specifiche norme legislative o regolamentari (nel caso di specie viene in evidenza il citato art. 98 del R.E.C.) e che non sussistono pericoli per la salute pubblica, non è possibile negare il rilascio degli atti autorizzativi, i quali, come è noto, vengono adottati con la clausola, anche implicita, “fatti salvi i diritti dei terzi”. Ciò vuol dire che l’amministrazione non risponde dei pregiudizi cagionati dall’esecuzione non a regola d’arte di lavori regolarmente assentiti, salvo che si tratti di varianti significative e rilevanti dal punto di vista edilizio e/o igienico-sanitario.
Nella presente vicenda è emerso che le immissioni nell’appartamento di proprietà G. erano cagionate dal fatto che il collegamento fra l’esalatore e la preesistente canna fumaria non era stato realizzato a regola d’arte, per cui i fumi si disperdevano prima di raggiungere il comignolo della canna fumaria (vedasi la relazione a firma dell’ing. L. allegata al ricorso - doc. n. 8).
E poiché l’appartamento del sig. G. si trova proprio nel punto in cui evidentemente il raccordo fra i due condotti presentava delle perdite, esso veniva investito per primo dai fumi (e in effetti, nel corso della causa civile che ha viste contrapposte le parti private il consulente nominato dal Tribunale di Ancona aveva individuato alcune soluzioni tecniche idonee a risolvere il problema consentendo nel contempo alla pizzeria di funzionare regolarmente. Vedasi la relazione a firma del c.t.u. ing. C. -doc. allegato n. 10 al ricorso- nonché la citata relazione dell’ing. L.).
Questa, però, è vicenda civilistica, tanto è vero che proprio in sede civile il sig. G. ha viste riconosciute le proprie ragioni (vedasi le citate sentenze depositate in data 03/11/2014, nonché i documenti depositati dal controinteressato unitamente alla memoria del 19/11/2014) (TAR Marche, sentenza 09.01.2015 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl “modus procedendi” seguito dall’Amministrazione comunale –tradottosi nella diretta adozione di un provvedimento repressivo-inibitorio, oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione della denuncia di inizio attività (trenta dalla presentazione e trenta dalla data in cui le opere possono essere realizzate) e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio– si appalesa illegittimo, atteso che la denuncia di inizio attività, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile, seppur esclusivamente “quoad effectum”, al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990.
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia dell’ordinanza dell’08.07.2014 e della successiva ordinanza del 15.07.2014 entrambe adottate dal responsabile del Settore tecnico del Comune di Posta con le quali si è inibito alla odierna ricorrente di effettuare gli interventi edilizi di cui alla denuncia di inizio attività acquisita con prot. n. 250 del 21.01.2014 dal predetto ente locale;
...
- Ritenuto che si presta ad essere accolta la censura con la quale si contesta la legittimità della scelta inibitoria perché assunta dal Comune ben oltre il termine di trenta giorni dalla data di presentazione della denuncia di inizio attività in quanto il provvedimento conclusivo della procedura di controllo svolta dal competente Ufficio tecnico del Comune di Posta non reca alcun elemento attraverso il quale possa fisiognomicamente iscriversi detto atto nella categoria dei provvedimenti assunti in sede di autotutela dall’amministrazione (artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241) né, allo stesso tempo, si rinvengono riferimenti nella parte motiva dei ridetti provvedimenti con i quali si riferiscano pericoli per i quali possa manifestarsi, a causa della costruzione delle opere di cui alla denuncia in questione, “un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale”, per come impone l’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990, né risulta essere effettuato alcun “accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente” (sempre ai sensi dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990);
- Affermato che possa in questa sede riproporsi il costante orientamento della giurisprudenza espresso in materia e sintetizzato anche recentemente dal Consiglio di Stato (cfr., tra le ultime, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780) in virtù del quale, con riferimento al caso qui in esame:
   A) costituisce fatto incontrovertibile che la denuncia di inizio attività fatta oggetto dell’intervento inibitorio qui gravato è stata proposta dalla Signora C. in data 21.01.2014 ed assunta dal Comune di Posta al numero di protocollo 250;
   B) costituisce altresì fatto indubitabile che l’intervento repressivo-inibitorio è stato sviluppato dal Comune con atti dell’08 e del 15.07.2014;
   C) ne deriva che l’amministrazione comunale non solo ha lasciato che la menzionata denuncia di inizio attività si consolidasse, omettendo di esercitare, nel termine perentorio (di trenta giorni dall’inizio della realizzazione delle opere e di sessanta dalla presentazione della denuncia) previsto dall’art. 23, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il potere inibitorio-repressivo ad essa spettante in caso di carenza dei presupposti per la ridetta denuncia, ma ha omesso anche l’esercizio dei c.d. poteri di autotutela decisoria, espressamente richiamati dal secondo periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241/1990 ed inaspriti da quanto stabilito al successivo comma 4;
   D) pare evidente quindi che l’amministrazione comunale, anziché procedere come avrebbe dovuto, all’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241/1990, della denuncia di inizio attività ritenuta illegittima, ha provveduto direttamente, senza alcuna motivazione ulteriore rispetto alla ritenuta illegittimità delle opere eseguite, ad ordinare l’inibizione alla realizzazione (ovvero alla prosecuzione) delle opere;
   E) operando in tal modo il Comune di Posta ha violato le garanzie previste dall’art. 19 legge n. 241/1990 che, in presenza di una denuncia di inizio attività illegittima, consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della denuncia di inizio attività ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo (oltre agli ulteriori elementi riduttivi dell’ambito operativo dell’esercizio del potere di autotutela specificamente descritti nel richiamato comma 4):
- Valutato dunque che il “modus procedendi” seguito dall’Amministrazione comunale –tradottosi nella diretta adozione di un provvedimento repressivo-inibitorio, oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione della denuncia di inizio attività (trenta dalla presentazione e trenta dalla data in cui le opere possono essere realizzate) e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio– si appalesa quindi illegittimo, atteso che la denuncia, una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile, seppur esclusivamente “quoad effectum”, al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.01.2015 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: La facoltà, concessa dall'art. 3 del D.L.Lgt. 1446/1918, di determinare in misura variabile da un quinto sino alla metà il contributo della spesa di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico transito secondo la diversa importanza delle strade, è volta alla efficiente e razionale distribuzione delle risorse pubbliche in funzione dell’uso pubblico delle strade e della conseguente loro importanza, e tale determinazione deve essere ancorata a criteri omogenei in relazione ad analogo uso pubblico, soprattutto laddove le risorse finanziarie non siano capienti rispetto alle esigenze di tutti i Consorzi interessati, rendendosi così ancor più stringente l’esigenza di anteporre alla determinazione del contributo una adeguata attività istruttoria al fine di rispettare la finalità tipica perseguita dalla legge.
Sicché, la deliberazione giuntale deve essere annullata nella parte in cui stabilisce la riduzione al 35% del contributo da corrispondere a favore del Consorzio ricorrente, perché tale riduzione non risulta preceduta da un’adeguata istruttoria (svolta alla luce dei criteri normativamente stabiliti, nonché di quelli prefissati dall’Amministrazione stessa), delle cui risultanze la Giunta avrebbe dovuto dare conto in motivazione.

... per l'annullamento della deliberazione della Giunta Capitolina n. 347 in data 12.12.2012 -recante il seguente oggetto: “Consorzi stradali. Quantificazione del contributo obbligatorio ex art. 3 D.L.Lgt. 1446/1918”- con la quale è stata determinata, per l’anno 2012, la percentuale del contributo pubblico dovuto, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgt. n. 1446/1918, ai consorzi stradali compresi nel territorio di Roma Capitale, per la manutenzione, sistemazione e ricostruzione di strade vicinali soggette al pubblico transito, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale, con conseguente accertamento del diritto del consorzio ricorrente a percepire il predetto contributo pubblico nella misura percentuale del 50%, anziché del 35%,
...
3. Passando al merito, il Collegio osserva che -come si può evincere dalla motivazione dell’impugnata delibera- la Giunta Capitolina, dopo aver evidenziato che la somma stanziata nel bilancio di Roma Capitale per l’anno 2012 (pari ad euro 1.450.000,00) non è sufficiente a garantire la stessa percentuale di contributo prevista per l’anno 2011 dalla deliberazione n. 207 del 22.06.2011, si è limitata a prevedere per l’anno 2012 l’erogazione del contributo di cui trattasi «nelle medesime percentuali previste per l’anno 2011 dalla deliberazione di Giunta capitolina n. 207 del 22.06.2011».
Ne consegue che -avendo questa Sezione annullato, con la sentenza n. 9126 del 23.10.2013, la delibera n. 248/2012, meramente confermativa della precedente delibera n. 207 del 22.06.2011- il presente ricorso risulta fondato alla luce delle medesime considerazioni svolte nella predetta sentenza.
In particolare questa Sezione con la predetta sentenza ha ritenuto la decisione assunta dalla Giunta Capitolina con la delibera n. 207 del 22.06.2011 -confermata con la successiva delibera n. 248/2012- contrastante con l’art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, adottata in esito ad una carente istruttoria e non sorretta da adeguata motivazione, evidenziando in motivazione quanto segue: «deve innanzitutto rilevarsi che l’art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918 dispone, con riferimento alle strade vicinali facenti parte di Consorzi, che il Comune è tenuto a concorrere nella spesa di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle stesse se soggette al pubblico transito in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, secondo la diversa importanza delle strade.
La ricognizione della disciplina di riferimento e dei criteri cui attenersi nella determinazione delle quote di contributo obbligatorio si completa con la delibera di Giunta n. 90 del 31.03.2010, con la quale il Comune di Roma Capitale ha individuato una disciplina transitoria della materia, stabilendo che a decorrere dal 2011 la percentuale del contributo sarebbe stata determinata annualmente sulla base delle disponibilità finanziarie del Comune e delle risultanze tecniche effettuate dagli Uffici Tecnici dei Municipi sull’effettiva necessità dei lavori manutentivi
».
A fronte di tale quadro e in contrasto con esso, la delibera gravata ... dispone la conferma della riduzione del contributo precedentemente stabilita dalla delibera n. 207 del 2011 ... nella considerazione che ... “nessuna variazione funzionale, dal punto di vista urbanistico e territoriale, è intervenuta successivamente al riconoscimento del contributo ex art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, rimanendo peraltro invariati l’importanza e l’uso pubblico delle strade consortili, tenuto anche conto della sviluppo urbanistico ed edilizio del territorio circostante”.
In sostanza, la resistente Amministrazione ha cristallizzato la situazione delle strade consortili alla data di costituzione dei relativi Consorzi, applicando la disposta riduzione ai Consorzi cui, in sede di costituzione, è stato riconosciuto un contributo ex art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918 nella misura minima del 20% in relazione all’importanza delle strade ricomprese nei rispettivi Consorzi.
Osserva al riguardo il Collegio che la motivazione sottesa alla gravata delibera risulta, innanzitutto, basata su considerazioni formulate in maniera generica, cui non viene dato alcun riscontro alla luce di evidenze istruttorie, che contrastano peraltro con il previo riconoscimento, sin dal 2001, a favore del Consorzio ricorrente, per il quale è stata attuata la riduzione per l’anno 2011, del contributo nella misura massima.
Né può ritenersi plausibilmente sostenibile -alla luce del fatto notorio dello sviluppo urbanistico delle aree circostanti il Consorzio- che nessun mutamento urbanistico e territoriale sia intervenuto, nel tempo, successivamente alla costituzione del Consorzio stesso, avvenuta nel 1961, tale da lasciare invariati l’importanza e l’uso pubblico delle strade consortili -per come si afferma nella gravata delibera- tenuto conto del forte sviluppo urbanistico ed edilizio del territorio circostante, che non può non avere avuto diretta incidenza sull’uso pubblico delle strade consortili e, quindi, sulla loro importanza, che costituisce il criterio di riferimento stabilito dal citato art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, la cui valutazione è stata del tutto omessa dall’Amministrazione resistente, la quale si è limitata ad apoditticamente affermare l’invarianza dell’importanza delle strade e del loro uso, senza peraltro dare conto delle ragioni per le quali in precedenza, in applicazione del medesimo criterio normativo, sia stato riconosciuto il contributo nella misura massima a favore del Consorzio ricorrente, in tale modo prendendo atto, presumibilmente, delle variate condizioni urbanistiche ed edificatorie e dell’accresciuta importanza delle strade consortili, tali da portare all’innalzamento nel tempo del contributo dal 20% -originariamente riconosciuto- al 50%.
Né la resistente Amministrazione, nell’adottare la gravata delibera, si è attenuta ai criteri dalla stessa stabiliti con la delibera n. 90 del 2010, ai sensi della quale la percentuale avrebbe dovuto essere stabilita sulla base delle risultanze tecniche effettuate dagli Uffici Tecnici dei Municipi sull’effettiva necessità dei lavori manutentivi, oltre che sulla base delle disponibilità finanziarie.
Nessun cenno a siffatte risultanze ed all’effettiva necessità dei lavori manutentivi è difatti possibile rinvenire né nella delibera gravata con motivi aggiunti né in quella impugnata con il ricorso principale -cui può farsi riferimento al fine di comporre la motivazione sottesa alla complessiva scelta confermativa- limitandosi quest’ultima a ricondurre la necessità della riduzione del contributo alla insufficienza delle disponibilità finanziarie a garantire la medesima percentuale prevista per l’anno 2010.
Se la fissazione del contributo in base alle risorse finanziarie costituisce, alla luce della delibera n. 90 del 2010, uno dei criteri per la relativa determinazione, è indubbio che la distribuzione delle somme disponibili tra i vari Consorzi deve poggiare sulla disamina dell’importanza delle strade aperte al pubblico transito -per come previsto dal citato art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918- e delle risultanze istruttorie circa l’effettiva necessità dei lavori manutentivi alla luce delle risultanze tecniche effettuate dai competenti Uffici Comunali -per come previsto dalla delibera n. 90 del 2010- disamina questa che risulta essere stata del tutto omessa dall’Amministrazione Capitolina, o di cui comunque non è stata dato conto alcuno, così determinandosi, oltre che la violazione della disciplina di riferimento, anche una ingiustificata ed immotivata diversificazione tra i Consorzi, disattendendo i principi di trasparenza, imparzialità e razionalità della gestione dei fondi da destinare ai Consorzi.
Non risultano difatti indicati, nella delibere di determinazione del contributo, le ragioni in base alle quali, in esito ad un giudizio valutativo ancorato a precise risultanze istruttorie, sia stata effettuata la diversificazione della misura del contributo, stabilita nelle diverse percentuali del 50%, 40% e del 35% per i vari Consorzi, in assenza di diverse valutazioni circa l’importanza delle relative strade».
4. Stante quanto precede, in questa sede al Collegio resta solo da evidenziare che la Giunta Capitolina neppure nella delibera n. 347 del 12.12.2012 si è attenuta ai criteri dalla stessa stabiliti con la delibera n. 90 del 2010 -ai sensi della quale la percentuale spettante a ciascun Consorzio deve essere stabilita sulla base delle risultanze dell’istruttoria effettuata dagli Uffici Tecnici dei Municipi sull’effettiva necessità dei lavori manutentivi, oltre che sulla base delle disponibilità finanziarie- e neppure a seguito dell’ordinanza istruttoria n. 265/2014 ha fornito i chiarimenti richiesti, volti a far conoscere i criteri utilizzati per stabilire quali Consorzi assoggettare alla riduzione contributiva del 50%, quali alla riduzione del 40% e quali alla riduzione del 35%, nonché ad illustrare le risultanze dell’istruttoria in base alle quali sono state operate le predette riduzioni percentuali.
Pertanto -posto che- come ulteriormente evidenziato da questa Sezione nella predetta sentenza n. 9126 del 2013 - «la facoltà, concessa dal citato art. 3 del D.L.Lgt., di determinare in misura variabile da un quinto sino alla metà il contributo della spesa di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico transito secondo la diversa importanza delle strade, è volta alla efficiente e razionale distribuzione delle risorse pubbliche in funzione dell’uso pubblico delle strade e della conseguente loro importanza, e tale determinazione deve essere ancorata a criteri omogenei in relazione ad analogo uso pubblico, soprattutto laddove le risorse finanziarie non siano capienti rispetto alle esigenze di tutti i Consorzi interessati, rendendosi così ancor più stringente l’esigenza di anteporre alla determinazione del contributo una adeguata attività istruttoria al fine di rispettare la finalità tipica perseguita dalla legge» - l’impugnata delibera n. 347 in data 12.12.2012 deve essere annullata nella parte in cui stabilisce la riduzione al 35% del contributo da corrispondere a favore del Consorzio ricorrente, perché tale riduzione non risulta preceduta da un’adeguata istruttoria (svolta alla luce dei criteri normativamente stabiliti, nonché di quelli prefissati dall’Amministrazione stessa), delle cui risultanze la Giunta capitolina avrebbe dovuto dare conto in motivazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 08.01.2015 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
In relazione alla individuazione dei soggetti destinatari delle sanzioni in materia edilizia deve rilevarsi che l’ordine di demolizione deve comunque essere rivolto, oltre che al proprietario non responsabile dell’abuso, anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione.
Ciò vale anche nelle ipotesi, quale quella in esame, di opere realizzate senza titolo abilitativo su area oggetto di concessione da parte dell’ente pubblico proprietario (la Regione Campania), dovendo i provvedimenti repressivi adottati dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale del bene, quindi anche nei confronti dell'odierna istante, detentrice dell'area di proprietà pubblica in esame in virtù della concessione, in data 23.12.2003, da parte della Regione dei beni costituenti l’infrastruttura ferroviaria.
---------------
Ai fini dell’ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, mentre l’individuazione della misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.

Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Quanto alla mancata comunicazione di avvio del procedimento, contestata con il primo motivo, va infatti rilevato che secondo costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (Consiglio di Stato VI Sezione 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio di Stato IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Né costituisce omissione procedimentale viziante l’atto in questa sede impugnato il fatto che il Comune non abbia avvisato la società ricorrente della precedente ordinanza di demolizione emessa nei confronti del responsabile dell’abuso M.R., in quanto la notifica della successiva ordinanza di demolizione qui impugnata fa sì che siano state rispettate le necessarie scansioni procedimentali anche nei confronti della ricorrente.
Anche la doglianza di cui al secondo motivo, secondo cui ai sensi dell'art. 7 L. 47/1985 sarebbe illegittima l'emanazione dell'ordinanza di demolizione nei confronti della ricorrente, in quanto non responsabile dell'abuso né proprietaria dell’area, ma solo concessionaria della stessa, deve essere disattesa.
In relazione alla individuazione dei soggetti destinatari delle sanzioni in materia edilizia deve rilevarsi che l’ordine di demolizione deve comunque essere rivolto, oltre che al proprietario non responsabile dell’abuso, anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica (TAR Toscana sez. III, 15.05.2013, n. 801; Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830) indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione (ex multis TAR Umbria, sez. I, 29.01.2014, n. 66, TAR Puglia-Bari sez. III, 10.05.2013, n. 710).
Ciò vale anche nelle ipotesi, quale quella in esame, di opere realizzate senza titolo abilitativo su area oggetto di concessione da parte dell’ente pubblico proprietario (la Regione Campania), dovendo i provvedimenti repressivi adottati dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale del bene (Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008), quindi anche nei confronti dell'odierna istante, detentrice dell'area di proprietà pubblica in esame in virtù della concessione, in data 23.12.2003, da parte della Regione dei beni costituenti l’infrastruttura ferroviaria.
Al riguardo si consideri, altresì, che la ricorrente detiene in via qualificata, per effetto della concessione citata, l’immobile fin da tale data e, quindi, ben avrebbe potuto con la dovuta vigilanza impedire la realizzazione dell’abuso, avvenuto quando il bene pubblico era nella sua disponibilità (il primo accertamento dell’abuso, infatti, risale al verbale del 30.06.2005, di gran lunga posteriore alla concessione).
Va anche respinto il terzo motivo, con il quale la ricorrente ha contestato che la notifica dell’ingiunzione demolitoria la esponeva, benché non proprietaria dell’immobile, alle conseguenze dell’acquisizione del bene di cui è concessionaria.
Invero, da un lato, la ricorrente, quale detentrice qualificata del bene, ben può attivarsi per la demolizione impedendo la successiva acquisizione e, in secondo luogo, quest’ultimo atto non potrebbe comunque essere emesso nei confronti del proprietario estraneo all’abuso (la Regione) e al quale non è stata notificata l’ordinanza di demolizione, come nel caso di specie.
Infine, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, per l’estensione dell’area di sedime di gran lunga superiore rispetto alla superficie occupata dal manufatto abusivo, di mq. 250, va evidenziato che ai fini dell’ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente un'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento (TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164; Sez. VI, 09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n. 3530), mentre l’individuazione della misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma (TAR Lombardia, Milano, 26.01.2010 n. 175) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.01.2015 n. 48 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto ai principi che presiedono al rilascio dei titoli edilizi abilitativi, e sull’aspetto della legittimazione del richiedente e degli impedimenti di carattere negoziale, occorre tener conto che, tra le limitazioni al diritto a costruire, ai fini del rilascio dei titoli abilitativi, anche in sanatoria, si è operata in giurisprudenza un’accurata distinzione tra limiti di natura “legale” e limiti di fonte “negoziale”.
In particolare nell’ambito del diritto civile si distinguono limiti legali dell’attività edificatoria (sempre concernenti i rapporti tra proprietari di fondi finitimi), essenzialmente rivenienti nella disciplina contenuta nel libro terzo, capo II, c.c. (ad es. prescrizioni in materia di distanze, luci e vedute); e limiti che discendono non direttamente dalla legge ma dall’esercizio dell’autonomia negoziale: fra questi spiccano gli iura in re aliena di godimento, tra cui usufrutto e servitù, cui corrispondono altrettante restrizioni del diritto di proprietà riguardanti lo ius aedificandi dei confinanti, che può risultare semplicemente inciso o del tutto sottratto.
I su menzionati limiti operano diversamente sul piano dei controlli esercitabili dall’amministrazione in sede di rilascio del permesso di costruire.
I limiti “legali”, difatti, trovano applicazione generalizzata e conservano sempre il medesimo contenuto, per cui concorrono a formare lo statuto generale dell’attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all’amministrazione che è tenuta a considerarli sempre.
Diversamente, per le limitazioni “negoziali” del diritto di costruire, cui può ricondursi anche il diritto di servitù di cui si discute, la giurisprudenza prevalente afferma l’inesistenza, in capo all’amministrazione, di un autentico obbligo di ricerca di tali limiti, prodromico al diniego del titolo, sul presupposto che all’amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati. Difatti mentre i limiti legali sono destinati ad investire anche il rapporto pubblicistico, quelli negoziali ne esulano e quindi il comune non è tenuto a ricercarli.
Tuttavia, anche nei casi in cui si è ammessa l’esistenza di un onere del Comune di verifica del rispetto dei limiti di natura privatistica, ciò è consentito solo ove essi siano o immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d’atto.

... per l'annullamento della d.i.a. in sanatoria n. 159/2009 e dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi n. 44/2010.
...
2.1 Sul punto, in diritto, quanto ai principi che presiedono al rilascio dei titoli edilizi abilitativi, e sull’aspetto della legittimazione del richiedente e degli impedimenti di carattere negoziale, occorre tener conto che, tra le limitazioni al diritto a costruire, ai fini del rilascio dei titoli abilitativi, anche in sanatoria, si è operata in giurisprudenza un’accurata distinzione tra limiti di natura “legale” e limiti di fonte “negoziale”.
In particolare nell’ambito del diritto civile si distinguono limiti legali dell’attività edificatoria (sempre concernenti i rapporti tra proprietari di fondi finitimi), essenzialmente rivenienti nella disciplina contenuta nel libro terzo, capo II, c.c. (ad es. prescrizioni in materia di distanze, luci e vedute); e limiti che discendono non direttamente dalla legge ma dall’esercizio dell’autonomia negoziale: fra questi spiccano gli iura in re aliena di godimento, tra cui usufrutto e servitù, cui corrispondono altrettante restrizioni del diritto di proprietà riguardanti lo ius aedificandi dei confinanti, che può risultare semplicemente inciso o del tutto sottratto.
I su menzionati limiti operano diversamente sul piano dei controlli esercitabili dall’amministrazione in sede di rilascio del permesso di costruire.
I limiti “legali”, difatti, trovano applicazione generalizzata e conservano sempre il medesimo contenuto, per cui concorrono a formare lo statuto generale dell’attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all’amministrazione che è tenuta a considerarli sempre.
Diversamente, per le limitazioni “negoziali” del diritto di costruire, cui può ricondursi anche il diritto di servitù di cui si discute, la giurisprudenza prevalente afferma l’inesistenza, in capo all’amministrazione, di un autentico obbligo di ricerca di tali limiti, prodromico al diniego del titolo, sul presupposto che all’amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati. Difatti mentre i limiti legali sono destinati ad investire anche il rapporto pubblicistico, quelli negoziali ne esulano e quindi il comune non è tenuto a ricercarli.
Tuttavia, anche nei casi in cui si è ammessa l’esistenza di un onere del Comune di verifica del rispetto dei limiti di natura privatistica, ciò è consentito solo ove essi siano o immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d’atto (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1206)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 07.01.2015 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La favorevole delibazione della domanda di risarcimento del danno cagionato per effetto di un provvedimento o comportamento lesivo di interesse legittimo, richiede la concorrenza dei presupposti della lesione dell'interesse legittimo e della lesione di un bene della vita.
È necessario quindi non solo che il provvedimento sia illegittimo ma anche che sia produttivo di un danno eziologicamente riconducibile in via diretta e immediata, ex art. 1223 c.c., all'esercizio del potere pubblicistico. L'esigenza di verificare la lesione del bene della vita non ricorre solo nel caso di provvedimento lesivo di interessi legittimi pretensivi ma anche laddove venga in rilievo un'azione amministrativa negativamente incidente su interessi legittimi di matrice oppositiva.
La giurisprudenza ha anche affermato che il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile e ciò è quello che "distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile". Il risarcimento del danno c.d. "da perdita di chance" è ancorato a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita.
Numerose recenti pronunce poi, muovendo dall’approdo giurisprudenziale secondo cui dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – incombe sull’amministrazione l’obbligo di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati, hanno sostenuto la tesi per cui, laddove detta rieffusione non sia possibile o utile (ad esempio perché, come nel caso di specie, il bene della vita non sia più attribuibile all’istante) comunque, in via parentetica di vaglio sul petitum risarcitorio, l’Amministrazione potesse evidenziare le ragioni militanti per la non attribuibilità del bene della vita (e, quindi, della tutela risacitoria).
Ove dette ragioni venissero giudicate fondate, dovrebbe essere esclusa la favorevole delibabilità del petitum ex art. 2043 cc, per carenza della premessa maggiore dell’an: la possibilità di attribuire al richiedente il bene della vita richiesto.

Come è noto, la favorevole delibazione della domanda di risarcimento del danno cagionato per effetto di un provvedimento o comportamento lesivo di interesse legittimo, richiede la concorrenza dei presupposti della lesione dell'interesse legittimo e della lesione di un bene della vita.
È necessario quindi non solo che il provvedimento sia illegittimo ma anche che sia produttivo di un danno eziologicamente riconducibile in via diretta e immediata, ex art. 1223 c.c., all'esercizio del potere pubblicistico. L'esigenza di verificare la lesione del bene della vita non ricorre solo nel caso di provvedimento lesivo di interessi legittimi pretensivi ma anche laddove venga in rilievo un'azione amministrativa negativamente incidente su interessi legittimi di matrice oppositiva.
La giurisprudenza ha anche affermato che il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile e ciò è quello che "distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile". Il risarcimento del danno c.d. "da perdita di chance" è ancorato a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita (Cons. Stato Sez. V, 28.04.2014, n. 2187 Cons. Stato Sez. IV, 12.02.2014, n. 674).
Numerose recenti pronunce poi, muovendo dall’approdo giurisprudenziale secondo cui dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – incombe sull’amministrazione l’obbligo di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati, hanno sostenuto la tesi per cui, laddove detta rieffusione non sia possibile o utile (ad esempio perché, come nel caso di specie, il bene della vita non sia più attribuibile all’istante) comunque, in via parentetica di vaglio sul petitum risarcitorio, l’Amministrazione potesse evidenziare le ragioni militanti per la non attribuibilità del bene della vita (e, quindi, della tutela risacitoria).
Ove dette ragioni venissero giudicate fondate, dovrebbe essere esclusa la favorevole delibabilità del petitum ex art. 2043 cc, per carenza della premessa maggiore dell’an: la possibilità di attribuire al richiedente il bene della vita richiesto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di gara d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti) siano presenti, la relativa rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della precisazione "per quanto a sua conoscenza", in quanto se la dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il quale riferisce ciò che è a propria conoscenza.
---------------
La dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta dall'art. 38, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 al legale rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi- procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso.
Inoltre gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini di buona fede quando i fatti da attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto alla società dichiarante.

La giurisprudenza amministrativa ha già da tempo chiarito che (ex aliis ancora di recente TAR Sardegna Cagliari Sez. I, 07.06.2013, n. 472) “in sede di gara d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti) siano presenti, la relativa rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della precisazione "per quanto a sua conoscenza", in quanto se la dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il quale riferisce ciò che è a propria conoscenza”.
Tale principio generale consente di ritenere esatta la valutazione di equivalenza formulata dal Tar: le dichiarazioni sono state rese “sino alla data di cessazione della carica”, perché –come è logico- sino a quel momento il dichiarante poteva ed era tenuto a conoscere le vicende relative ai detti soggetti cessati.
Ad avviso dell’appellante la ratio della prescrizione (ed anche la lex specialis) avrebbe richiesto che la dichiarazione fosse resa “sino ad oggi” (cioè sino al momento di presentazione della domanda partecipativa).
Ma tale formula dichiarativa, ove anche fosse stata utilizzata, non avrebbe in nulla spostato l’ambito e la portata della dichiarazione resa, posto che il dichiarante (trattandosi, lo si ripete, di soggetti cessati) non avrebbe fatto altro che dichiarare dati rientranti nella diretta sfera di conoscenza (e non altri era tenuto a conoscere, non rilevando certo la eventuale conoscenza di altri dati aliunde ottenuta).
Ne consegue che le dichiarazioni rese non appaiono inficiate da alcuna delle lamentate irregolarità; soddisfano esattamente gli oneri discendenti dalla lex specialis e dalla disposizione di cui all’art. 38 del TUAppalti.
Si rammenta in proposito la condivisibile giurisprudenza a tenore della quale “la dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta dall'art. 38, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 al legale rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi- procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini di buona fede quando i fatti da attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto alla società dichiarante" (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; in senso conforme, Consiglio di Stato, sez. V, 20.06.2011, n. 3686).
E proprio nella espressione contenuta nella decisione 22.03.2012, n. 1646 in ultimo citata, si rinviene la ratio del superiore orientamento, che consente di ritenere infondata la censura: posto che il dichiarante non potrebbe che attestare fatti a propria diretta conoscenza, una eventuale dichiarazione priva di tale limite (o dell’identico limite riposante nella data di cessazione dalla carica) sarebbe, ontologicamente, inutiliter data per la porzione temporale esuberante la data di cessazione della carica
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche, in caso di contrasto tra bando di gara e lettera d'invito, prevalgono le disposizioni del primo.
Tale principio va inteso non solo nel senso dell'impossibilità che la lettera possa derogare alle previsioni del bando, che costituisce la lex specialis della procedura selettiva, ma anche nel senso dell'impossibilità -specie in un sistema dominato dalla tassatività ed eccezionalità delle previsioni di esclusione- che attraverso la lettera d' invito possano essere introdotte ipotesi di esclusione ulteriori o più rigorose rispetto a quelle contenute nel bando”.
La lettera invito, quindi, ha funzione meramente integratrice/specificatrice rispetto al bando, ma non potrebbe utilmente contraddire e sconfessare le prescrizioni contenute in quest’ultimo.

Ritiene poi il Collegio che a fronte della chiarissima indicazione della fonte sovraordinata della lex specialis non rivestano pregio gli argomenti incentrati sulle letterali prescrizioni contenute nella lettera di invito.
Si pone in luce in proposito che, per consolidato ed inattaccabile orientamento giurisprudenziale, che costituisce jus receptum, (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 28.11.2012, n. 6026 e ancora di recente Cons. Stato Sez. IV n. 1243/2014) “nelle gare pubbliche, in caso di contrasto tra bando di gara e lettera d'invito, prevalgono le disposizioni del primo. Tale principio va inteso non solo nel senso dell'impossibilità che la lettera possa derogare alle previsioni del bando, che costituisce la lex specialis della procedura selettiva, ma anche nel senso dell'impossibilità -specie in un sistema dominato dalla tassatività ed eccezionalità delle previsioni di esclusione- che attraverso la lettera d' invito possano essere introdotte ipotesi di esclusione ulteriori o più rigorose rispetto a quelle contenute nel bando”.
La lettera invito, quindi, ha funzione meramente integratrice/specificatrice rispetto al bando, ma non potrebbe utilmente contraddire e sconfessare le prescrizioni contenute in quest’ultimo (è rimasta minoritaria,in giurisprudenza, la tesi in passato talvolta sostenuta –ex multis si veda TAR Sardegna, 30.12.1996, n. 1908– secondo la quale “la regolamentazione della gara di aggiudicazione di appalto deve desumersi dall'insieme delle disposizioni ricavabili dal bando e dalla lettera di invito non sussistendo, tra le due fonti, un rapporto di gerarchia che consenta di ritenere l'una prevalente rispetto all'altra”.).
La tassativa e categorica indicazione contenuta nel bando non era quindi “correggibile” in sede di lettera invito: se questa era la volontà della Stazione appaltante (e non trattasi quindi di un acuto ma inaccoglibile espediente defensionale) la “traduzione” nella lex specialis ne ha tradito la ratio, e costituendo il bando autovincolo per l’amministrazione medesima, essa non avrebbe comunque potuto disattenderlo ma, unicamente, valutare se ritirarlo ed emanarne un altro, aderente, questa volta, ai propri desiderata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sempre se il bando ciò non neghi "si ammettono varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a. e, peraltro risulta essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto base, che l'offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese alla prescrizione variata”.
Laddove però tale spazio non sia dal bando permesso, e sia consentita soltanto una modifica minore, si rientra nel novero delle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio.

Ma, invece, interrogandosi sul concetto di variante sul quale a più riprese, in passato, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di soffermarsi, la giurisprudenza nazionale ha elaborato alcuni criteri guida relativi alle varianti in sede di offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.02.2003, n. 923; sez. V, 09.02.2001, n. 578; sez. IV, 02.04.1997, n. 309) nell’ipotesi –diversa da quella oggetto della odierna delibazione- in cui il bando non neghi tale possibilità.
Si è detto pertanto che, sempre se il bando ciò non neghi (Cons. Stato. n. 3481/2008) “si ammettono varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a. e, peraltro risulta essenziale che la proposta tecnica sia migliorativa rispetto al progetto base, che l'offerente dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento proposto e le variazioni alle singole prescrizioni progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese alla prescrizione variata”.
Laddove però tale spazio non sia dal bando permesso, e sia consentita soltanto una modifica minore, si rientra nel novero delle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio (Consiglio di Stato, sezione IV, 11.02.1999, n. 149)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeve osservarsi che nelle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica quando gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché vengano meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto, senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui esistenti, come previsto dagli strumenti urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1, lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, non è sufficiente, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo.
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia strutturalmente che funzionalmente.
---------------
Non può essere condiviso l'assunto degli appellanti che, nel caso di specie, con l'intervenuta ricostruzione dell'immobile si possano conservare i precedenti "commoda", perché la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi. 
Con il secondo motivo di censura, strettamente connesso al precedente, gli appellanti sostengono che, al caso di specie, possa applicarsi il principio dei cosiddetti "commoda" della prevenzione, secondo il quale, nei casi di demolizione ed immediata ricostruzione, il proprietario conserva il diritto di ricostruire con analoga ubicazione rispetto al confine.
Orbene, deve osservarsi che nelle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica quando gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché vengano meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto, senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui esistenti, come previsto dagli strumenti urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario (cfr. Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1, lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, non è sufficiente, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo (cfr. Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia strutturalmente che funzionalmente.
Conseguentemente, non può essere condiviso l'assunto degli appellanti che, nel caso di specie, con l'intervenuta ricostruzione dell'immobile si possano conservare i precedenti "commoda", perché la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
Sulla base di tali considerazioni, anche il secondo motivo di appello risulta manifestamente infondato.
Giova evidenziare, infatti, come rilevato dal TAR, che anche se sulla misura dell'ampliamento le parti non concordano, dalla relazione tecnica depositata dagli stessi appellanti il 09.06.2001, nel primo grado di giudizio, si evince che "il fabbricato è stato alzato di cm. 78-80 meno i cm. 30 che erano preesistenti, per cui il fabbricato è stato alzato di cm. 48-50 dalla situazione prima dell'intervento", mentre il Comune (pag. 4 del controricorso) sostiene che la differenza di altezza sarebbe di 86 cm. e l'incremento del volume totale sarebbe stato di mc. 97,53.
E' quindi incontroverso che un aumento di altezza e di volume ci sia stato e l'ampliamento intervenuto esclude che, nella fattispecie, si tratti di una ristrutturazione e, in parte qua, l’edificio soggiace al rispetto delle distanze legali.
L’accertata legittimità del provvedimento del Comune di Gambettola di diniego di rilascio della concessione edilizia in sanatoria ex art. 13 della legge n. 47/1985, in coerenza con la normativa di riferimento e le prescrizioni delle norme tecniche di attuazione del vigente piano regolatore del Comune, comporta la non sussistenza dei presupposti per prendere in esame, ai fini dell’eventuale accoglimento, la richiesta di risarcimento del danno. avanzata dagli appellanti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.04.2014 n. 1653 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che quello abbattuto.
---------------
Pare utile riportare testualmente un passo della sentenza del Consiglio di Stato in un caso in cui è stata negata la possibilità di ravvisare ristrutturazione in luogo di nuova costruzione: “Manca, infatti, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la Sezione ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale”.

3. – Tali doglianze possono essere condivise.
E’ noto che, per consolidata giurisprudenza, in linea astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che quello abbattuto.
3.1 - Quanto al volume, ritiene il Collegio di dovere necessariamente tenere conto di quanto emerso in sede di consulenza tecnica d’ufficio assunta nel corso del giudizio n. 50/2011, intentato dalla società E.I. s.r.l. per l’annullamento del provvedimento che ha sancito la decadenza della d.i.a. del 2004 in forza della quale la detta società –dante causa dell’odierna ricorrente- ha ricostruito lo stabile.
In quel giudizio, passato in decisione il 16.10.2013 come il presente, il consulente del TAR ha accertato –e da tali conclusioni qui non si rinviene motivo per discostarsi- che la volumetria del fabbricato prima del suo abbattimento d’ufficio era pari a 6.487,04 metri cubi, mentre dopo la ricostruzione la volumetria è pari a 6.348,44 metri cubi, con una diminuzione pari a 138,60 metri cubi.
3.2 – La medesima consulenza tecnica, sulla scorta della documentazione presente agli atti del Comune, attesta la sostanziale identità di superficie tra il fabbricato demolito e quello ricostruito.
Va osservato, sotto il profilo strettamente urbanistico, che l’intervento realizzato tramite d.i.a. presentata il 25.03.2004 è stato eseguito nella vigenza della variante di salvaguardia approvata nel 1998, che ascriveva l’area in parte alla zona A2 ed in parte alla zona C2, nelle quali erano rispettivamente consentite la ristrutturazione edilizia con identità di sagoma e volume e la ristrutturazione edilizia c.d. pesante, ossia con variazioni di sagoma.
3.3 - Nel caso in esame non sussistono la contiguità temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione e l’identità di sagoma: circostanze, queste, che a prima vista potrebbero indurre ad escludere la sussumibilità dell’intervento in questione nel regime della d.i.a. di cui all’art. 22 D.P.R. n. 380/2001 e della sua ascrizione alla nozione di ristrutturazione; con la precisazione che il requisito dell’identità di sagoma è stato eliminato dalla nozione di ristrutturazione da demolizione ricostruzione solo per effetto dell’art. 30 del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, e pertanto successivamente alla presentazione della d.i.a. in questione, avvenuta nel marzo del 2004.
Ritiene tuttavia il Collegio che, nel caso in esame, sia necessario tenere nella dovuta considerazione alcune specifiche circostanze che caratterizzano la fattispecie in esame, costituite dal fatto che la demolizione del fabbricato avvenne in forza di un illegittimo (come statuito da questo TAR) provvedimento di demolizione d’ufficio assunto dal Comune di Napoli a seguito del sisma del 1980-81; dal fatto che il medesimo Comune assunse l’impegno, mai onorato, di riedificare il fabbricato (assumendo la relativa delega dai proprietari del tempo); e soprattutto, dal fatto che, proprio per le particolari circostanze in cui maturò la demolizione, sussiste proprio agli atti del Comune di Napoli la su richiamata documentazione che testimonia con esattezza e certezza della originaria consistenza volumetrica, di superficie e di sagoma del fabbricato.
Occorre poi ribadire che, almeno per una parte dell’area in cui sorge il fabbricato (zona C2), era consentita anche la c.d. ristrutturazione pesante, ossia con sagoma diversa da quella originaria.
3.4 - Ciò premesso, è necessario risalire alle ragioni per cui la giurisprudenza ritiene necessari tali requisiti per distinguere la ristrutturazione per demolizione e ricostruzione dalla nuova costruzione.
Al riguardo pare utile riportare testualmente un passo della sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 475 del 10.02.2004, in un caso in cui è stata negata la possibilità di ravvisare ristrutturazione in luogo di nuova costruzione: “Manca, infatti, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la Sezione ha preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, V, 15.03.1990, n. 293 e 20.12.1985, n. 485)”.
L’individuazione delle pregresse consistenze di cui parla il Giudice d’appello può invece essere effettuata con certezza nel caso in esame, nel quale, come si ripete, sia la demolizione che la mancanza di contestualità devono farsi risalire a condotte dello stesso Comune, peraltro improntate ad illegittimità.
In altri termini, sebbene la demolizione sia oramai lontana nel tempo rispetto alla data della ricostruzione, non può nella circostanza sorgere il dubbio che lo strumento della d.i.a. per ristrutturazione sia stato indebitamente utilizzato per introdurre una nuova costruzione sul territorio in luogo di altra diversa ed avente, in ipotesi, diverse consistenza e destinazione d’uso.
3.5 – Per quanto sin qui si è detto, possono essere accolti anche i motivi quarto, quinto e sesto del ricorso introduttivo, che si appellano, rispettivamente, alla irrilevanza della non contestualità tra demolizione e ricostruzione nel caso di specie, alla riscontrata identità tra fabbricato precedente e fabbricato attuale e alla vigenza della variante di salvaguardia sull’area all’epoca della presentazione (25.03.2004) e della maturazione della d.i.a. (25.04.2004), essendo intervenuta solo successivamente a tali eventi (ossia l’11.06.2004) l’approvazione della nuova variante generale al PRG di Napoli.
Al riguardo, per esigenze di sintesi codificate dall’art. 3 c.p.a., possono essere integralmente richiamate le considerazioni svolte nello scrutinare il terzo ed il nono motivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.01.2014 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 11 della legge n. 10/1977 è sufficientemente chiaro nel prevedere che la diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del titolare della concessione edilizia è modalità alternativa al pagamento dei soli “oneri di urbanizzazione” -quota parte dei complessivi oneri concessori- ciò a motivo del collegamento dei primi con i costi ingenerati in capo all’amministrazione dall’iniziativa edificatoria.
Non può darsi rilievo esegetico, nel senso invocato dall’appellante, alle norme in materia di edilizia convenzionata di cui all’art. 7 della medesima fonte -nella parte in cui consentono, al fine di agevolare l’accesso alla casa, l’esenzione dal contributo collegato al costo di costruzione, a fronte dell’impegno a praticare, ai futuri acquirenti o locatari delle costruende unità abitative, prezzi e canoni convenzionati- poiché esse individuano un caso di esenzione dall’obbligazione tributaria (tale dovendo considerarsi quella parametrata al costo di costruzione) secondo un criterio di specialità che le rende evidentemente insuscettibili di interpretazione analogica.

L’appello non è fondato.
L’art. 11 della legge n. 10/1977 è sufficientemente chiaro nel prevedere che la diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del titolare della concessione edilizia è modalità alternativa al pagamento dei soli “oneri di urbanizzazione” -quota parte dei complessivi oneri concessori- ciò a motivo del collegamento dei primi con i costi ingenerati in capo all’amministrazione dall’iniziativa edificatoria.
Non può darsi rilievo esegetico, nel senso invocato dall’appellante, alle norme in materia di edilizia convenzionata di cui all’art. 7 della medesima fonte -nella parte in cui consentono, al fine di agevolare l’accesso alla casa, l’esenzione dal contributo collegato al costo di costruzione, a fronte dell’impegno a praticare, ai futuri acquirenti o locatari delle costruende unità abitative, prezzi e canoni convenzionati- poiché esse individuano un caso di esenzione dall’obbligazione tributaria (tale dovendo considerarsi quella parametrata al costo di costruzione) secondo un criterio di specialità che le rende evidentemente insuscettibili di interpretazione analogica.
La tesi è del resto confermata, con riferimento alla sequenza procedimentale oggetto di causa, dall’espresso contenuto della deliberazione consiliare 122/1995, che è estremamente chiara nell’escludere dal regime di “scomputabilità” la quota di contributo rapportata al costo di costruzione, pretendendone la corresponsione.
In verità, l’appellante, in ispecie nelle memorie conclusive, insiste più che sulla non esentabilità del tributo, sulla residua ed impregiudicata configurabilità di un accordo a mezzo del quale, a seguito del sorgere del tributo, le parti pattuiscano una corresponsione in opere piuttosto che in danaro, secondo lo schema della datio in solutum.
Tuttavia, anche a voler considerare ammissibile un accordo di tal fatta, di esso non v’è traccia nell’atto di obbligo e negli altri atti esaminati, né può ipotizzarsene un’implicita sussistenza con riferimento all’asserita ultroneità delle opere e delle cessioni rispetto a quelle sufficienti per compensare i soli oneri di urbanizzazione: tanto, potrebbe essere piuttosto il frutto di una scelta finalizzata a supportare la convenienza economica della proposta effettuata nell’ambito della procedura concorsuale, o comunque di un errore nell’individuazione e nella stima dello opere e cessioni assunte a scomputo.
Manca cioè un’inequivoca pattuizione avente ad oggetto la relazione sinallagmatica tra il sacrificio economico accettato dal titolare del permesso di costruire e l’obbligazione tributaria connessa alla costruzione assentita.
Nemmeno può essere condiviso il motivo d’appello avente ad oggetto i profili di incompetenza dell’organismo di vigilanza sull’attuazione dell’accordo.
Come correttamente osservato dal primo giudice, il parere ha avuto influenza nella decisione finale in ragione della bontà dei contenuti e della ricostruzione giuridica che ha fornito, poi fatti propri dal provvedimento, dotato di autonoma efficacia lesiva; non appare pertanto corretto discorrere di un profilo viziante, trattandosi piuttosto di un mero contributo procedimentale alla formazione della volontà del competente organo preposto alla conclusione del procedimento; né a ben vedere, può ragionevolmente escludersi che le questioni trattate rientrino nell’oggettivamente ampio tema dell’“attuazione dell’accordo di programma” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.06.2012 n. 3413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

inizio home-page