|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 26.06.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
SICUREZZA LAVORO: Sulle
responsabilità del dirigente e del sindaco in
materia di sicurezza sul posto di lavoro.
A norma dell'art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008
<Nelle pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende
il dirigente al quale spettano i poteri di gestione,
ovvero il funzionario non avente qualifica
dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia
preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale,
individuato dall'organo di vertice delle singole
amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e
dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene
svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri
decisionali e di spesa. In caso di omessa
individuazione, o di individuazione non conforme ai
criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide
con l'organo di vertice medesimo>.
L'individuazione del dirigente (o
del funzionario) cui attribuire la qualifica di
datore di lavoro è demandata alla pubblica
amministrazione, la quale vi provvede con
l'attribuzione della qualità e il conferimento dei
relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo
tale qualifica essere attribuita implicitamente ad
un dirigente o funzionario solo perché preposti ad
articolazioni della pubblica amministrazione che
hanno competenze nel settore specifico.
Nelle pubbliche amministrazioni, in
altre parole, l'attribuzione della qualità di datore
di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice
non può che essere espressa, anche perché comporta i
poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli
organi di direzione politica che devono procedere
all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e
dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per
tale ragione possibile una scelta non espressa e non
accompagnata dal conferimento di poteri di gestione
alla persona fisica. La conseguenza della mancata
indicazione è la conservazione in capo all'organo di
direzione politica della qualità di datore di
lavoro.
Con la precisazione che agli organi
di direzione politica del Comune (Sindaco e
Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria
anche i poteri di sovrintendere alle scelte di
gestione e direzione amministrativa, con il
conferimento di tutti i poteri conseguenti. Anche il
potere di individuare il datore di lavoro conferma
che all'organo di direzione politica compete un
potere originario.
Occorre coordinare la disciplina sopra indicata con
le regole inerenti ai compiti datoriali non
delegabili, tra i quali rientra l'obbligo di stilare
il documento di valutazione dei rischi a norma
dell'art. 17 d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata
elaborazione costituisce, appunto, il presupposto
sul quale si è fondata l'affermazione di
responsabilità del Sindaco.
Diversi sono, infatti, gli effetti
dell'individuazione del dirigente pubblico al quale
viene conferita la qualifica di datore di lavoro
rispetto alla delega di funzioni datoriali
disciplinata dall'art. 16 d.lgs. n. 81/2008.
L'atto di individuazione è correlato alla specialità
della disciplina dettata per le pubbliche
amministrazioni, alle quali non si applicano i
criteri di imputazione della responsabilità per
cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal
d.lgs. 08.06.2001, n. 231 e dall'art. 30 d.lgs. n.
81/2008; tale specialità impone di chiarire che al
soggetto così individuato competono tutte le
funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni
delegabili e non delegabili, in ragione della
qualifica di datore di lavoro che tale soggetto
viene ad assumere.
In tema di norme per la prevenzione
degli infortuni, la normativa vigente esclude, in
altre parole, che si possa ascrivere al Sindaco,
anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale
organo politico, ogni violazione di specifiche norme
antinfortunistiche, quando risulti individuato il
dirigente con qualifica di datore di lavoro in
correlazione all'ubicazione ed all'ambito funzionale
del singolo ufficio.
Sussisterà responsabilità
per il Sindaco solo se risulti che questi, essendo a
conoscenza della situazione antigiuridica inerente
alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso
all'Ente territoriale, abbia omesso di intervenire,
con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio; tanto
si desume dalla regola dettata dall'art. 18, comma
3, d.lgs. n. 81/2008, in base alla quale <Gli
obblighi relativi agli interventi strutturali e di
manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del
presente decreto legislativo, la sicurezza dei
locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche
amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le
istituzioni scolastiche ed educative, restano a
carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di
norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal
presente decreto legislativo, relativamente ai
predetti interventi, si intendono assolti, da parte
dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici
interessati, con la richiesta del loro adempimento
all'amministrazione competente o al soggetto che ne
ha l'obbligo giuridico>.
Quindi nelle pubbliche
amministrazioni, nel cui novero rientrano ovviamente
gli enti locali, la qualifica di datore di lavoro
-ai fini della normativa sulla sicurezza e salute
nei luoghi di lavoro-, con tutte le conseguenze che
tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente
dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi
poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto
conto peraltro della ripartizione di funzioni
indicata dall'Ordinamento degli enti locali (art.
107 d.lgs. 18.08.2000, n. 267), che conferisce ai
dirigenti amministrativi autonomi poteri di
organizzazione delle risorse.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del
28/01/2014, ha confermato la pronuncia emessa in
data 19/07/2012 dal Giudice dell'Udienza Preliminare
presso il Tribunale di Busto Arsizio, che aveva
dichiarato B.A.M., in qualità di Sindaco del Comune
di Caronno Pertusella (VA), responsabile del delitto
di lesioni personali gravi ai danni del messo
comunale B.A..
2. Il giudice di primo grado aveva così ricostruito
l'infortunio: A.B., addetto all'Ufficio 'Messi e
Notificazioni', il giorno dell'infortunio
avrebbe dovuto archiviare alcuni documenti, da
collocare sulla sommità degli armadi, ormai
incapienti, ad un'altezza superiore a due metri da
terra; aveva, quindi, utilizzato una scala in
dotazione all'Ufficio; si trattava di una scala
portatile in alluminio a due tronchi, che il B. non
aveva, però, potuto aprire in considerazione
dell'esiguità dello spazio intercorrente tra gli
armadi e le scrivanie e che aveva, dunque,
appoggiato chiusa all'armadio; salito sulla scala,
questa era scivolata lateralmente facendo così
cadere il lavoratore di schiena.
3. A.M.B. propone ricorso per cassazione lamentando
omessa motivazione con specifico riferimento al
motivo di appello relativo all'errata
interpretazione ed applicazione dell'art. 2 lett.
b), d.Lgs. 09.04.2008, n. 81, nonché inosservanza o
erronea applicazione della medesima norma.
Le doglianze sviluppate nel ricorso si incentrano,
sostanzialmente, sull'unico punto della decisione in
cui si è affermata la qualifica di <datore di
lavoro> dell'imputata laddove, secondo la
ricorrente, la costituzione presso il Comune di
Caronne Pertusella, con delibera n. 158 del
13.05.2003, dell'Organo Collegiale dei Datori di
Lavoro, avrebbe dovuto esonerare il Sindaco da
responsabilità penale in materia di salute e
sicurezza sul luogo di lavoro, dovendosi riconoscere
a tale Organo Collegiale la qualifica di datore di
lavoro nell'ambito dell'Amministrazione Comunale.
La sentenza impugnata, si assume, avrebbe del tutto
omesso dì prendere in esame tale motivo di gravame,
limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado
che, tuttavia, non aveva affrontato la questione.
La corretta applicazione dell'art. 2, lett. b),
d.Lgs. n. 81/2008, secondo la ricorrente, avrebbe
imposto di ritenere che, una volta individuato il
soggetto al quale attribuire la qualifica di datore
di lavoro, il Sindaco avrebbe dovuto andare esente
da responsabilità in materia antinfortunistica,
avendo il giudice di appello errato nell'ascrivere
l'elemento soggettivo del reato a soggetto diverso
dal datore di lavoro, da individuare invece
nell'Organo Collegiale dei Datori di Lavoro, che
aveva incaricato la società di consulenza M.A.S.
s.r.l. di redigere il documento di valutazione dei
rischi.
4. In data 11.05.2015 la ricorrente ha depositato
memoria difensiva sviluppando i motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre ricordare che, a norma
dell'art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008,
per datore di lavoro si intende <il soggetto
titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o,
comunque, il soggetto che, secondo il tipo e
l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il
lavoratore presta la propria atti vita, ha la
responsabilità dell'organizzazione stessa o
dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri
decisionali e di spesa.
Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, per datore di lavoro si intende il dirigente al
quale spettano i poteri di gestione, ovvero il
funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei
soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un
ufficio avente autonomia gestionale, individuato
dall'organo di vertice delle singole amministrazioni
tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito
funzionale degli uffici nei quali viene svolta
l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali
e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di
individuazione non conforme ai criteri sopra
indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo
di vertice medesimo>.
2.1. In tale disposizione sono confluite le
soluzioni adottate da parte della
giurisprudenza nella vigenza della precedente
normativa, meno esaustiva di quella attuale, laddove
si era specificata la necessità di un atto espresso
di individuazione del dirigente o del funzionario
quale datore di lavoro, altrimenti rimanendo quella
posizione in capo al vertice politico dell'Ente
pubblico.
Si era, in altre parole, riconosciuto carattere
costitutivo all'atto dell'organo di vertice
dell'Ente che attribuisse ad altri la qualità di
datore di lavoro, data la natura originaria della
posizione datoriale del dirigente, individuato in
quanto tale dalla legge.
2.2. Coronario di tali affermazioni di principio,
oggi positivizzate nel testo normativo, è che
l'individuazione del dirigente (o del funzionario)
cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è
demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi
provvede con l'attribuzione della qualità e il
conferimento dei relativi poteri di autonomia
gestionale, non potendo tale qualifica essere
attribuita implicitamente ad un dirigente o
funzionario solo perché preposti ad articolazioni
della pubblica amministrazione che hanno competenze
nel settore specifico.
Nelle pubbliche amministrazioni, in
altre parole, l'attribuzione della qualità di datore
di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice
non può che essere espressa, anche perché comporta i
poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli
organi di direzione politica che devono procedere
all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e
dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per
tale ragione possibile una scelta non espressa e non
accompagnata dal conferimento di poteri di gestione
alla persona fisica. La conseguenza della mancata
indicazione è la conservazione in capo all'organo di
direzione politica della qualità di datore di
lavoro.
Con la precisazione che agli organi
di direzione politica del Comune (Sindaco e
Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria
anche i poteri di sovrintendere alle scelte di
gestione e direzione amministrativa, con il
conferimento di tutti i poteri conseguenti. Anche il
potere di individuare il datore di lavoro conferma
che all'organo di direzione politica compete un
potere originario
(in tal senso soprattutto, Sez. 4, n. 38840 del
22/06/2005, Ioriatti, Rv. 232418).
3. Premesso che in relazione al punto della
decisione concernente la riconducibilità dell'evento
all'inadeguata elaborazione del D.U.V.R.I. non è
stata svolta alcuna censura, occorre coordinare la
disciplina sopra indicata con le
regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili,
tra i quali rientra l'obbligo di stilare il
documento di valutazione dei rischi a norma
dell'art. 17 d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata
elaborazione costituisce, appunto, il presupposto
sul quale si è fondata l'affermazione di
responsabilità del Sindaco A.M.B..
Diversi sono, infatti, gli effetti
dell'individuazione del dirigente pubblico al quale
viene conferita la qualifica di datore di lavoro
rispetto alla delega di funzioni datoriali
disciplinata dall'art. 16 d.lgs. n. 81/2008.
L'atto di individuazione è correlato alla specialità
della disciplina dettata per le pubbliche
amministrazioni, alle quali non si applicano i
criteri di imputazione della responsabilità per
cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal
d.lgs. 08.06.2001, n. 231 e dall'art. 30 d.lgs. n.
81/2008; tale specialità impone di chiarire che al
soggetto così individuato competono tutte le
funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni
delegabili e non delegabili, in ragione della
qualifica di datore di lavoro che tale soggetto
viene ad assumere.
3.1. In tema di norme per la
prevenzione degli infortuni, la normativa vigente
esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al
Sindaco, anche se di un Comune di modeste
dimensioni, quale organo politico, ogni violazione
di specifiche norme antinfortunistiche, quando
risulti individuato il dirigente con qualifica di
datore di lavoro in correlazione all'ubicazione ed
all'ambito funzionale del singolo ufficio.
3.2. Sussisterà responsabilità per
il Sindaco solo se risulti che questi, essendo a
conoscenza della situazione antigiuridica inerente
alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso
all'Ente territoriale, abbia omesso di intervenire,
con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio; tanto
si desume dalla regola dettata dall'art. 18, comma
3, d.lgs. n. 81/2008, in base alla quale <Gli
obblighi relativi agli interventi strutturali e di
manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del
presente decreto legislativo, la sicurezza dei
locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche
amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le
istituzioni scolastiche ed educative, restano a
carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di
norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal
presente decreto legislativo, relativamente ai
predetti interventi, si intendono assolti, da parte
dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici
interessati, con la richiesta del loro adempimento
all'amministrazione competente o al soggetto che ne
ha l'obbligo giuridico>.
3.3. Quindi nelle pubbliche
amministrazioni, nel cui novero rientrano ovviamente
gli enti locali, la qualifica di datore di lavoro
-ai fini della normativa sulla sicurezza e salute
nei luoghi di lavoro-, con tutte le conseguenze che
tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente
dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi
poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto
conto peraltro della ripartizione di funzioni
indicata dall'Ordinamento degli enti locali (art.
107 d.lgs. 18.08.2000, n. 267), che conferisce ai
dirigenti amministrativi autonomi poteri di
organizzazione delle risorse.
4. Esaminando il caso concreto, nella sentenza di
primo grado si era dato atto che il Sindaco, con
decreto del 14.09.2006, dunque in epoca ampiamente
antecedente l'infortunio, avesse nominato un
Direttore Generale con compiti di presidenza delle
riunioni dei datori di lavoro comunali e di
formulazione della proposta per il Piano Esecutivo
di Gestione (PEG), che è lo strumento con il quale
viene attribuito il potere di spesa annuo ai datori
di lavoro, conferendogli <la direzione ed il
coordinamento dell'organo dei Datori di Lavoro>;
il Tribunale aveva accertato, altresì, che il
Sindaco aveva nominato un Responsabile del settore
amministrativo di cui faceva parte l'Ufficio <Messi
e Notificazioni> e che, a norma dell'art. 17 del
Regolamento Comunale sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi, fra le competenze di tale figura
rientravano le <funzioni proprie del datore di
lavoro in relazione al decreto- i legge. n. 626/1994
e successive modifiche, in relazione al proprio
settore>.
Quanto ai poteri di spesa, nella sentenza si legge
che la previsione di spesa per i datori di lavoro
era stata approvata con delibera della Giunta
comunale n. 49 del 18.03.2008, che aveva attribuito
la somma di euro 18.000,00 all'Organo collegiale dei
Datori di Lavoro, composto da tutti i Responsabili
di settore, coordinati dal Direttore Generale.
Nell'esaminare la posizione del Direttore Generale,
il Tribunale aveva ritenuto che le funzioni proprie
del datore di lavoro fossero state conferite ai
singoli Responsabili di Settore e che i poteri di
spesa fossero subordinati ad approvazione della
Giunta Comunale e a delibera del Collegio dei
Datori.
4.1. Si era, tuttavia, affermata la
responsabilità del Sindaco in relazione all'omessa
redazione di un adeguato documento di valutazione
dei rischi, causalmente correlata all'infortunio
occorso al dipendente comunale, sul presupposto che
l'attività prevista dall'art. 17 d.lgs. n. 81/2008
non fosse delegabile e che, per tale ragione,
dell'incompleta redazione di tale documento dovesse,
in ogni caso, rispondere l'organo di vertice
dell'Ente.
4.2. Nella sentenza impugnata la
doglianza concernente l'esonero da responsabilità
penale del Sindaco in materia antinfortunistica,
contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, è stata
espressamente presa in considerazione nell'elenco
dei motivi di appello (ove si richiama la delibera
n. 158 del 13.05.2003 con la quale era stato
individuato l'Organo Collegiale dei Datori di
Lavoro, che aveva a sua volta emanato la delibera n.
105 del 12.04.2005 per conferire l'incarico di
Responsabile del Servizio di prevenzione) e,
successivamente, laddove si è rimarcato che
l'imputata in prima persona avesse affidato alla
società di consulenza M. l'incarico di stilare il
documento di valutazione dei rischi, implicitamente
negando fondamento all'assunto difensivo secondo il
quale si sarebbe dovuto individuare nell'Organo
Collegiale dei funzionari apicali il datore di
lavoro ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b),
d.lgs. n. 81/2008.
4.3. A tale conclusione la Corte territoriale è
pervenuta ribadendo che l'attività
di redazione del documento di valutazione dei rischi
fosse compito non delegabile, come peraltro
confermato dal pacifico dato che fosse stato il
Sindaco B. ad affidare alla società M. il relativo
incarico, richiamando anche il disposto dell'art. 33
(rectius 31), comma 5, d.lgs. n. 81/2008, a
mente del quale il datore di lavoro che <ricorra
a persone o servizi esterni non e' per questo
esonerato dalla propria responsabilità in materia>.
5. Non vi è, dunque, dubbio che nel
caso concreto gli organi di vertice
dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta
Comunale) avessero individuato i dirigenti ai quali
attribuire la qualifica di datore di lavoro, secondo
quanto si legge nella sentenza di primo grado,
ritenendo tuttavia entrambi i giudici di merito che
l'attività la cui omissione aveva nel caso concreto
contribuito al verificarsi dell'infortunio, ossia
l'omessa redazione di un adeguato e completo
documento di valutazione dei rischi, non fosse
delegabile e fosse, per tale motivo, conservata in
capo all'organo di direzione politica la posizione
di garanzia inerente a detta attività.
5.1. Si tratta di motivazione
erronea in diritto, non potendo l'imputata B.
considerarsi <datore di lavoro> ai sensi del
decreto n. 81/2008 e non essendo applicabile alle
pubbliche amministrazioni che abbiano proceduto
all'individuazione del dirigente a norma dell'art.
2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, secondo
quanto si è detto, la regola che limita la
delegabilità di taluni obblighi propri del datore di
lavoro (art. 17 d.lgs. n. 81/2008).
5.2. Tuttavia, tale errore di
diritto non inficia la correttezza della decisione,
ed è quindi emendabile ai sensi dell'art. 619, comma
1, cod. proc. pen., in quanto dalla pronuncia
impugnata emerge come pacifico il dato che il
Sindaco avesse in prima persona provveduto
all'adempimento dell'obbligo di redazione del
D.U.V.R.I., incaricando una società di consulenza,
da tale dato risultando evidente che non avesse
inteso conferire ad altri la relativa posizione di
garanzia
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 27.05.2015 n. 22415). |
EDILIZIA PRIVATA:
Minori distanze per risparmio energetico: non esiste un
"diritto" alla deroga.
Il TAR Abruzzo-Pescara, interviene in
materia di deroga alla normativa sulle distanze tra
costruzioni affermando che l'applicazione della normativa
speciale in materia di risparmio energetico non è
^automatica^ e che invece spetta al Comune valutare se
esista la possibilità di ottenere i medesimi risultati
energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi
subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi.
Nella fattispecie l'A.C. aveva contestato delle irregolarità
nella realizzazione di una palazzina residenziale.
Il privato proprietario aveva proposto istanza di
accertamento di conformità invocando, quanto alle distanze,
la normativa in materia di risparmio energetico (D.lgs.
102/2014 già D.lgs. 115/2008), sostenendo di avere con la
richiesta di sanatoria proposto soluzioni tecniche idonee
(pacchetti termici) ad eliminare le difformità in
particolare relativamente all’altezza dell’edificio e
all’aggetto dei balconi.
Il Comune aveva ritenuto che le soluzioni prospettate
rappresentassero "un espediente o accorgimento
fuorviante, o modo fittizio di far apparire l'altezza e la
distanza rientranti nelle norme" nel tentativo di
superare quanto contestato nell'ordinanza di demolizione.
Pronunciandosi su ordine di demolizione e diniego di
sanatoria, il TAR Abruzzo ha statuito che poiché la norma
(art. 11 D.Lgs. 102/2014) introduce una valutazione di tipo
tecnico in ordine alla verifica di tale presupposto, essa
esclude che sussista un “diritto” alla deroga.
Il che a dire:
• che la deroga ai parametri di altezza e distanze non
costituisce l’automatica conseguenza di una scelta del
costruttore di cui il Comune debba limitarsi a prendere
atto;
• che l'applicazione della norma è invece la conseguenza di
una valutazione effettuata dall’amministrazione in ordine al
carattere necessario della soluzione prescelta, e quindi
rispetto alla possibilità di ottenere i medesimi risultati
energetici senza gravare sulle posizioni giuridiche di chi
subisce la maggiore altezza e/o i minori distacchi;
• che il Comune non può assentire una deroga alle distanze
laddove il maggiore spessore dei muri perimetrali possa
essere “recuperato” verso l’interno, e perciò non
necessariamente verso le proprietà altrui;
• che analoga considerazione può farsi per l’altezza
complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio
comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di
deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale,
con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo
postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”.
In conclusione: l’applicazione dei pacchetti termici ad una
struttura ormai realizzata, con caratteristiche essenziali
già acquisite, giustifica il rigetto della domanda di
sanatoria sulla scorta della disciplina speciale, vera
l’estraneità della suddetta disciplina al procedimento ex
art. 36 t.u. ed. (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.it
- TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 14.05.2015 n. 206 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2 – Quanto al merito, vanno preliminarmente esaminati i
motivi aggiunti.
L’art. 11, co. 1. d.lgs. 115/2008, su cui essenzialmente si
basa la domanda di sanatoria, è stato abrogato dall’art. 19,
co. 1, lett. a), D.lgs. 04.07.2014, n. 102 (entrato in
vigore il 19.07.2014). Tale circostanza, rilevata dal
Comune, è tuttavia ininfluente alla luce dell’art. 36 t.u.
ed., secondo cui gli interessati “possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Stabilito che la norma era all’epoca ancora in vigore, va
evidenziato che,
ai fini delle previste deroghe, la stessa
richiede che le maggiori dimensioni di muri e solai siano
necessari “ad ottenere una riduzione minima…”, e
perciò, introducendo una valutazione di tipo tecnico in
ordine alla verifica di tale presupposto, esclude che
sussista un “diritto” alla deroga, come invece
sembrano in vario modo supporre i ricorrenti.
Deve infatti ritenersi che la deroga ai parametri di altezza
e distanze non costituisca l’automatica conseguenza di una
scelta del costruttore di cui il Comune debba limitarsi a
prendere atto, risultando della norma in parola che essa è
invece la conseguenza di una valutazione effettuata
dall’amministrazione in ordine al carattere necessario della
soluzione prescelta, e quindi rispetto alla possibilità di
ottenere i medesimi risultati energetici senza gravare sulle
posizioni giuridiche di chi subisce la maggiore altezza e/o
i minori distacchi.
Non sembra, cioè, che il Comune possa assentire una deroga
alle distanze laddove il maggiore spessore dei muri
perimetrali possa essere “recuperato” verso
l’interno, e perciò non necessariamente verso le proprietà
altrui. Analoga considerazione può farsi per l’altezza
complessiva dell’edificio, anch’essa in linea di principio
comunque contenibile nell’ambito dei parametri vigenti.
Il che evidenzia l’incompatibilità della richiesta di
deroga, che implica una valutazione tecnico-discrezionale,
con il procedimento finalizzato ad attribuire un titolo
postumo sulla base di un mero “accertamento di conformità”,
come del resto confermato dal dato normativo secondo cui la
deroga è consentita “nell'ambito delle pertinenti
procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo
II del D.P.R. 06.06.2001, n. 380”, e quindi non nel
procedimento di cui all’art. 36 (inserito nel titolo IV).
L’applicazione dei pacchetti termici ad una struttura ormai
realizzata, con caratteristiche essenziali già acquisite,
giustifica perciò le conclusioni del provvedimento, che ha
in buona sostanza ritenuto l’estraneità della suddetta
disciplina al procedimento ex art. 36 t.u. ed., e quindi
irrilevante l’applicazione dei pacchetti termici sul calcolo
dell’altezza del fabbricato e dell’aggetto dei balconi.
Poiché la domanda di sanatoria era (tranne un punto, su cui
infra) pressoché interamente incentrata sulle pretese
conseguenze derivanti dall’applicazione dei pacchetti
termici (cfr. la relazione tecnico-illustrativa, doc. 3
produzioni comunali 12.01.2015), la rilevata carenza dei
presupposti di per sé consolida il diniego riguardo ai punti
2) e 3) della pag. 3 della appena citata relazione. Ne
consegue il rigetto del secondo motivo aggiunto.
In ordine al motivo con cui si deduce la mancata
considerazione delle memorie presentate nel corso del
procedimento di sanatoria, va osservato che la ragione
sostanziale del diniego consiste nella ritenuta
inapplicabilità alla fattispecie della invocata deroga,
sicché è irrilevante il percorso interpretativo attraverso
cui il Comune è pervenuto ad una conclusione che il Collegio
considera corretta. Deve perciò escludersi che le
osservazioni presentate in ordine al punto determinassero
particolari oneri motivazionali.
Parte ricorrente effettua ulteriori considerazioni
richiamando le conclusioni emergenti dalla relazione tecnica
allegata ai motivi aggiunti, in cui si evidenzia tra l’altro
l’alterazione del profilo naturale del lotto in conseguenza
dei lavori eseguiti sui lotti circostanti (la circostanza è
confermata dalle relazioni della Polizia Municipale, quale
quella in data 08.11.2013, doc. 3 produzioni comunali
30.06.2014: “… le quote di riferimento relative alla
pendenza del terreno sono state modificate a seguito delle
opere di sbancamento eseguite per la realizzazione della
strada di accesso e degli edifici circostanti”). Le
circostanze suddette –che avrebbero influito sulle quote
della costruzione ed interferito sulla misurazione
dell’altezza- sono tuttavia estranee all’oggetto della
sanatoria, che sul punto dell’altezza riguardava, come già
osservato, esclusivamente l’accesso alle deroghe di cui
all’art. 11 d.lgs. 115/2008.
L’ultima parte dei motivi aggiunti (pagg. 13 e seg.)
presuppone che “la parte sub 3) dell’ordinanza
demolitoria, nel silenzio del diniego, è stata risolta”,
il che tuttavia non è, visto che il provvedimento impugnato
ribadisce esplicitamente “le motivazioni espresse
nell'avviso ed in particolare: 1. La misura dell’aggetto dei
balconi superiore a mt. 1,60 (limite prescritto dalle NTA)
rimane irregolare…; 2. La distanza dai confini della
scalinata realizzata in aderenza al muro non di proprietà
lato ovest rimane irregolare benché disegnata in parte come
aiuola (perché in sostanza l'aiuola verrà a svolgere la
medesima funzione di rampa d'accesso)”, rispetto alle
quali non è stata comunque dedotta alcuna censura atta ad
evidenziarne l’illegittimità.
Ne deriva il consolidamento del diniego anche riguardo a
tali capi.
I motivi aggiunti vanno in conclusione rigettati. |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province e EE.LL. - Assunzioni e mobilità secondo
la Sezione Autonomie della Corte dei Conti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 22.06.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: risorse destinabili alla contrattazione
collettiva
(ARAN,
nota 18.06.2015 n. 19932 di prot.) |
NOTE, CIRCOLARI E E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Rifiuti – chiarimenti sulle nuove modalità di
classificazione (ANCE di Bergamo,
circolare 19.06.2015 n. 142). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Costo della manodopera in edilizia – D.M.
29.04.2015. Efficacia (ANCE di Bergamo,
circolare 19.06.2015 n. 141). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Durc on-line – Circolare Ministero del Lavoro n.
19/2015 (ANCE di Bergamo,
circolare 19.06.2015 n. 139). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Procedure DURC on-line (COMMISSIONE
NAZIONALE PARITETICA PER LE CASSE EDILI,
nota 19.06.2015 - link a www.cnce.it).
---------------
Si forniscono di seguito alcuni primi chiarimenti
operativi per le Casse Edili alla luce della pubblicazione
del D.M. 30.01.2015 che, come noto, ha dato attuazione
all'art. 4 del D.L. n. 34/2014, recante importanti novità in
tema di semplificazione del Durc.
Tali chiarimenti, anche alla luce della circolare del
Ministero del Lavoro, contenente alcune prime istruzioni e
pubblicata nei giorni scorsi, anticipano il documento
contenente le Regole per le Casse Edili che sarà a breve
approvato dal Comitato della bilateralità. |
SEGRETARI COMUNALI:
Oggetto: convenzioni per l'ufficio di segreteria e
criteri direttivi per l'assegnazione del segretario
(Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni
e Territoriali, Albo Nazionale dei Segretari Comunali e
Provinciali,
nota 18.06.2015 n. 3782 di prot.) |
SEGRETARI COMUNALI:
Oggetto: Art. 31 del CCNL del 16.05.2001. Anzianità di
servizio (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli
Affari Interni e Territoriali, Albo Nazionale dei Segretari
Comunali e Provinciali,
nota 18.06.2015 n. 3782 di prot.) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Regolamento per lo svolgimento dei controlli a campione
sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive di
certificazione e di atto di notorietà ai sensi del Decreto
del Presidente della Repubblica del 28.12.2000, n. 445, rese
ai fini dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori
ambientali (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali,
deliberazione 22.04.2015 n. 1 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Giustiniani e A.S. Pavesi, “I
permessi edilizi alla luce delle recenti novità normative”
(Politecnico di Milano - Scuola di Ingegneria Edile
Architettura – Laurea Magistrale in Gestione del Costruito –
Strumenti e Tecniche di Progettazione sul Costruito - A.A.
2014/2015) (26.06.2015).
---------------
SOMMARIO:
IL GOVERNO DEL TERRITORIO:
- l’oggetto; - le competenze legislative e le funzioni
amministrative.
L’URBANISTICA:
- il sistema tradizionale della pianificazione urbanistica;
- il piano regolatore generale, contenuto; - il piano
regolatore generale, gli standard urbanistici.
L’EDILIZIA:
- il regolamento edilizi; - i titoli abilitativi
all’attività edilizia, profilo storico; - i titoli
abilitativi all’attività edilizia, la disciplina oggi: (i)
le attività completamente libere; (ii) la comunicazione di
inizio lavori per attività libere; (iii) la segnalazione
certificata di inizio attività; (iv) la denuncia di inizio
attività in alternativa al permesso di costruire; (v) il
permesso di costruire; (vi) il permesso di costruire in
deroga; (vii) il permesso di costruire convenzionato; (viii)
gli interventi di conservazione; (ix) i cambi di
destinazione d’uso; - il piano regolatore generale
“adottato”, l’attività edilizia e le misure di salvaguardia;
- il certificato di agibilità.
LA REGIONE LOMBARDIA:
- i nuovi modelli di pianificazione generale, il piano di
governo del territorio («PGT») della Regione Lombardia; - le
definizioni degli interventi edilizi; - la sentenza della
Corte Costituzionale 21.11.2011, n. 309; - i titoli
abilitativi e i procedimenti amministrativi i cambi di
destinazione d’uso; - il PGT della Regione Lombardia,
attività edilizia, misure di salvaguardia e perdita di
efficacia dei piani regolatori generali; - il certificato di
agibilità.
LA BIBLIOGRAFIA:
- i testi consigliati. |
VARI:
A. Casotti e M.R. Gheido,
Lavoro a tempo parziale: scompaiono le tre tipologie
(25.06.2015 - tratto da www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P. Rausei,
Jobs Act: il congedo parentale cambia, per ora soltanto nel
2015 (25.06.2015 - tratto da
www.ispoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
Lo stillicidio, lo scolo ed il diritto sulle acque esistenti
nel fondo
(23.06.2015 -
tratto da http://renatodisa.com).
---------------
Sommario
A) Lo stillicidio – pag. 1
B) Le acque – pag. 12
1) diritto sulle acque esistenti nel fondo – pag. 12
2) apertura di nuove sorgenti e altre opere – pag. 14
3) conciliazione di opposti interessi – pag. 19
4) scolo delle acque – pag. 22
5) consorzi per regolare il deflusso delle acque – pag. 32 |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 26.06.2015, "Interventi
regionali per la prevenzione e il contrasto della
criminalità organizzata e per la promozione della cultura
della legalità" (L.R.
24.06.2015 n. 17). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 25.06.2015, "Approvazione
dello schema del protocollo d’intesa per l’adesione dei
Comuni al macroagglomerato di livello regionale per gli
adempimenti di mappatura acustica di cui al decreto
legislativo 194/2005 «Attuazione della direttiva 2002/49/CE
relativa alla determinazione e alla gestione del rumore
ambientale»" (deliberazione
G.R. 19.06.2015 n. 3735). |
VARI:
G.U. 24.06.2015 n. 14 "Disciplina organica dei contratti
di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a
norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10.12.2014, n.
183" (D.Lgs.
15.06.2015 n. 81). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 24.06.2015 n. 14 "Misure per la conciliazione delle
esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione
dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10.12.2014, n. 183"
(D.Lgs.
15.06.2015 n. 80). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia n. 26 del 23.06.2015
"Definizione dei criteri regionali per l’assenso ai
programmi di alienazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica predisposti ai sensi del decreto interministeriale
24.02.2015 (art. 1, c. 1)" (deliberazione
G.R. 19.06.2015 n. 3737). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia n. 26 del 23.06.2015 "Quinto
aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 18.06.2015 n. 5044). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.R.S.
19.06.2015 n. 25 "Applicazione dell’art. 31, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia), come
integrato dall’art. 17, lettera q-bis del decreto legge
12.09.2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla legge
11.11.2014, n. 164. Sanzioni conseguenti alla inottemperanza
all’ordinanza di demolizione di opere abusivamente eseguite"
(Regione Sicilia, Assessorato del Territorio e
dell'Ambiente,
circolare 28.05.2015 n. 3).
---------------
La circolare offre spunti di riflessione che possono
valere per tutte le regioni (e non solo in ambito siciliano)
sulla scorta di quanto espresso da parte del C.G.A.R.S.,
parere 15.04.2015 n. 322, siccome ampiamente anticipato con
l'AGGIORNAMENTO
AL 22.05.2015. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
costi per la sicurezza nell’offerta. Lavori pubblici. I
chiarimenti dell’Anac sugli interventi di valore superiore
ai 150mila euro.
Gli operatori economici che
concorrono in una gara di appalto per lavori pubblici devono
specificare nell’offerta i costi della sicurezza aziendali,
mentre le stazioni appaltanti devono specificare questo
elemento nel disciplinare.
L’Autorità nazionale
anticorruzione, con il
comunicato del
Presidente del 27.05.2015 ha fornito
alcune importanti precisazioni alle stazioni appaltanti in
ordine al bando-tipo numero 2/2014, che le amministrazioni
devono obbligatoriamente utilizzare per le gare per appalti
di lavori pubblici di valore superiore ai 150mila euro,
indette con il criterio del prezzo più basso.
L’Anac ha chiarito che anche nelle procedure per
l’affidamento di lavori pubblici i concorrenti devono
specificare nell’offerta economica i costi della sicurezza
aziendali, analogamente a quanto previsto per gli appalti di
beni e servizi, con estensione applicativa di quanto
stabilito dall’articolo 87, comma 4, Dlgs. 163/2006,
aderendo all’interpretazione del Consiglio di Stato, che
nella decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 20.03.2015 ha ritenuto che l’obbligo di procedere a tale
indicazione, pur se non dettato expressis verbis dal
legislatore, si ricavi in modo univoco da un’interpretazione
sistematica delle norme regolatrici della materia date sia
nel Codice dei contratti che nel Testo unico sulla sicurezza
sul lavoro.
Dato che nel bando-tipo tale aspetto non era stato
regolamentato, l’Anac specifica che al fine di garantire
l’osservanza del principio di diritto espresso ed evitare di
generare un errato affidamento dei concorrenti in ordine
all’assenza dell’obbligo, le stazioni appaltanti sono tenute
a prevedere nei bandi di gara l’obbligo degli operatori
economici di indicare espressamente nell’offerta gli oneri
di sicurezza aziendali.
L’Anac precisa che deve essere
inserita una specifica frase al punto 1 del paragrafo 17.1
del bando-tipo n. 2/2014 e che analoga formulazione deve
essere contenuta nel modello di dichiarazione di offerta
economica allegato al bando. Per le procedure in corso l’Anac
suggerisce alle stazioni appaltanti di inserire un
chiarimento al bando nel profilo del committente, in cui
specificare ai concorrente l’obbligo di indicazione dei
costi della sicurezza aziendali.
Il bando-tipo per gli appalti di lavori presentava anche un
altro problema, essendo stato definito prima
dell’assestamento del quadro normativo e interpretativo in
materia di nuovo soccorso istruttorio.
L’Anac evidenzia come le cause di esclusione dalla procedura
di gara individuate nel bando-tipo n. 2/2014 siano
regolarizzabili nei modi e nei limiti chiariti nella
determinazione n. 1/2015, con conseguente possibilità di
procedere all’esclusione del concorrente solo dopo
l’infruttuosa richiesta di regolarizzazione da parte della
stazione appaltante.
Per le clausole del bando relative all’esercizio del potere
di soccorso istruttorio, il bando per i lavori pubblici può
essere integrato con le formulazioni proposte dall’Autorità
nello schema per i beni e servizi sottoposto a consultazione
il 18 maggio (articolo Il Sole 24 Ore del
23.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Le comunicazioni con le imprese.
DOMANDA:
Premesso che la PA è tenuta ad intraprendere rapporti con le
imprese mediante l'utilizzo della PEC, con il presente
quesito si desiderano richiedere delucidazioni in merito
alle seguenti problematiche:
1- L'invio di documentazioni ed istanze in formato cartaceo
direttamente mediante servizio postale o allo sportello del
protocollo è ancora possibile, se si fino a quale data?
2- Qualora l'invio cartaceo fosse possibile e la ditta
ometta di indicare la sua PEC, l'ente può mediante
regolamento o disposizioni dirigenziali dichiarare
irricevibile l'istanza con archiviazione diretta della
stessa?
3- Qualora una mail pec inviata all'indirizzo indicato dalla
ditta o reperibile sul sito
www.inipec.gov.it non
venga consegnata con indicazione "avviso di mancata
consegna", condizione non addebitabile a problemi
informatici ma a causa del mancato pagamento del rinnovo
dell'indirizzo mail, quale validità può essere attribuita
alla pec inviata dall'Ente? Ci sono differenze tra
quest'ultimo caso e l'eventuale mancata consegna per casella
piena? E quali rimedi sono esperibili qualora non sia
reperibile un valido indirizzo pec?
RISPOSTA:
A norma dell’art. 5-bis, comma 1, del Codice
dell’Amministrazione Digitale “la presentazione di
istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e
documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le
amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando
le tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Con
le medesime modalità le amministrazioni pubbliche adottano e
comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti
delle imprese”.
Tale disposizione è pienamente vigente e, pertanto, non è
più possibile utilizzare la modalità cartacea per le
comunicazioni tra l’Ente e le imprese. La presenza –su
INI-PEC– di indirizzi di posta elettronica certificata non
attivi, errati o comunque inutilizzati dall’impresa titolare
che, lasciando la propria casella in condizione di non poter
ricevere i messaggi PEC, di fatto impedisce il buon fine
della comunicazione, rappresenta un limite dello strumento.
La mancata consegna della PEC per mancato rinnovo
dell’indirizzo corrisponde alla raccomandata tornata al
mittente per irreperibilità. Diversamente, l’impossibilità
di consegnare il messaggio dovuta al raggiungimento della
capienza massima della casella di posta della società,
seppur dovuta alla mancanza di diligenza di quest’ultima nel
liberare lo spazio sufficiente sulla casella per consentire
la ricezione dei messaggi, non permette l’effettivo
perfezionamento della ricezione del messaggio in quanto il
mittente non riceve la conferma del recapito dello stesso.
In tali casi, al fine di avere la certezza circa l’effettivo
recapito delle comunicazioni, si consiglia di provvedere con
le tradizionali modalità analogiche (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Legittimo il sindaco se la spa è in liquidazione.
Il primo cittadino-dipendente non ha poteri
di rappresentanza. Incompatibilità ristrette.
Può sussistere una causa di incompatibilità ex art. 63,
comma 1, n. 2, del dlgs 18.08.2000, n. 267, nei
confronti del sindaco di un ente, il quale è dipendente con
poteri di rappresentanza di una spa, società a capitale
misto pubblico-privato per la gestione
dell'approvvigionamento e la fornitura all'ingrosso
dell'acqua ad uso potabile ai comuni del territorio della
regione, tra cui è compreso l'ente in questione?
Può
configurarsi la responsabilità del segretario comunale e
dell'organo deliberativo dell'ente laddove, qualora dovesse
ritenersi effettivamente esistente tale preclusione, il
Consiglio comunale non avesse dato avvio al procedimento di
contestazione ai sensi dell'art. 69 del citato dlgs. n.
267/2000?
Di fatto, nel caso di specie, il sindaco del comune è
dipendente della spa ma, allo stato attuale, non ricopre
ruoli o incarichi di rappresentanza o di coordinamento.
Inoltre la società in questione è stata posta in
liquidazione e ha fatto istanza all'organo giurisdizionale
competente per essere ammessa al concordato preventivo.
La
questione va esaminata alla luce dell'art. 63, comma 1, n. 2
del dlgs 267/2000, che prevede l'incompatibilità alla
carica di sindaco di «colui che come titolare,
amministratore e dipendente con poteri di rappresentanza e
di coordinamento, ha parte direttamente o indirettamente in
servizi, somministrazioni o appalti nell'interesse del
comune».
In proposito, la consolidata giurisprudenza della Corte di
cassazione ha chiarito come la norma sia volta ad evitare il
pericolo di deviazioni nell'esercizio del mandato da parte
degli eletti e il conflitto, anche solo potenziale, che la
medesima persona sarebbe chiamata a dirimere se dovesse
scegliere tra l'interesse che deve tutelare in quanto
amministratore dell'ente che gestisce il servizio e l'
interesse che deve tutelare in quanto amministratore del
comune che di quel servizio fruisce.
La Suprema corte ha più
volte affermato che l'art. 63 citato, nello stabilire la
causa di «incompatibilità di interessi» («non può ricoprire
la carica») ivi prevista e rilevante nella fattispecie,
richiede, ai fini della sua sussistenza, una duplice,
concorrente condizione: la prima di natura soggettiva, la
seconda di natura oggettiva.
Sul piano soggettivo, «è necessario che il soggetto, in
ipotesi incompatibile all'esercizio della carica elettiva,
rivesta la qualità di «titolare» (ad es., di impresa
individuale), o «di amministratore» (ad es., di società di
persone o di capitali: cfr. il n. 1 del medesimo comma ove
si parla più ampiamente, sia pure ad altri fini, di
«amministratore di ente, istituto o azienda»), ovvero di
«dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento»
(cfr. Cass. civile, sent. n. 11959 dell'08.08.2003, Sez.
I, ord. n. 550 del 16.01.2004).
Dal punto di vista oggettivo, l'amministratore locale,
«rivestito di una delle predette qualità», può considerarsi
incompatibile, in quanto «abbia parte» in appalti e/o in
servizi, nell'interesse del comune.
L'espressione «avere parte» è qui usata per indicare una
contrapposizione tra l'interesse particolare del soggetto,
in ipotesi incompatibile, e l'interesse del comune,
istituzionalmente generale, quindi una situazione di
potenziale conflitto rispetto all' esercizio imparziale
della carica elettiva.
Atteso che il sindaco non riveste
alcuna delle qualità indicate dalla norma nell'ambito della
società per azioni, peraltro in liquidazione, è ragionevole
ritenere che, nella fattispecie, non sussista la prospettata
situazione ostativa all'esercizio del mandato elettivo
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Contributo di costruzione in relazione a interventi
comprensivi di recupero abitativo di sottotetto esistente.
Parere (Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo,
nota 04.06.2015 n.
5604 di prot.
- tratto da www.ordinearchitettipavia.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei
Comuni «blocco» del personale. Gli effetti della delibera
della Corte dei conti sulla «corsia preferenziale» dalle
Province.
Assunzioni. Impossibile la mobilità fra municipi prima del
totale riassorbimento degli ex provinciali - Verifica
nazionale anche per gli «infungibili».
Nessuno lo
chiama blocco alle assunzioni. Ma quale altro nome dare
all’impossibilità degli enti locali di avvalersi nel 2015 di
forza lavoro?
Il comma 424 della legge 190/2014 ha fornito una
rivisitazione forzata delle modalità assunzionali dei
Comuni, nell’obiettivo di garantire il totale riassorbimento
dei dipendenti in soprannumero delle Province. Ora che la
sezione Autonomie della Corte dei conti, con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19,
si è allineata alla Funzione pubblica, sancendo il divieto
anche della mobilità volontaria, i margini per azioni sul
personale si sono ridotti all’osso.
La disposizione normativa ha imposto agli enti locali di
destinare la capacità assunzionale, per gli anni 2015 e
2016, ai dipendenti collocati in sovrannumero da parte delle
Province e delle Città metropolitane. Poiché la mobilità
volontaria, tra enti con limitazioni alle assunzioni, è
ormai da un decennio considerata “neutra” ai fini del
turn-over, l’obbligo della legge di stabilità sembrava non
riferirsi agli spostamenti di dipendenti da
un’amministrazione all’altra.
La Funzione Pubblica, nella
circolare 1/2015, ha ritenuto però che non fosse più
possibile bandire nuovi avvisi di mobilità o che gli stessi
fossero, almeno, destinati ai soli dipendenti degli enti di
area vasta. E questo fino a quando non sarà “implementato”
il portale della domanda e dell’offerta per favorire la
ricollocazione.
Al di là della difficoltà di trovare una definizione
giuridica al concetto di «implementazione» per individuare
una data certa, il sito destinato ad accogliere i dati è
partito molto lentamente, tanto che solo il 57% dei Comuni
ha inserito le informazioni relative alla dotazione organica
e alla capacità assunzionale. Manca all’appello, oltre al
comune di Roma e di Firenze, anche il 70% degli enti
regionali. Le cose, vanno quindi, molto per le lunghe.
Nel frattempo agli enti locali rimangono a questo punto
poche possibilità di azione. Quella prevista e “obbligata”
dal legislatore è l’assunzione dei vincitori collocati nelle
proprie graduatorie vigenti al 01.01.2015. Non è,
invece, possibile alcuno scorrimento di graduatorie
(idonei), sia di quelle presenti nell’ente sia di quelle di
altre amministrazioni. Addio, quindi, al tanto voluto
ricambio generazionale voluto dal Dl 90/2014.
La Corte dei conti, sezione Autonomie, ha inoltre “vietato”
le procedure di mobilità volontaria almeno fino a quando non
vi sarà la totale ricollocazione dei dipendenti degli enti
di area vasta; nel frattempo, si potranno approvare
solamente bandi riservati a questi lavoratori.
Nel ricordare che il comma 424 fa sempre riferimento alla
totalità delle Province e non solo a quella competente per
singolo territorio, viene indicata nella deliberazione
19/2015 un’unica eccezione assunzionale; quella per le
figure infungibili, per le quali però è posto in capo ai
singoli enti di verificare l’inesistenza di queste
professionalità nelle province. Come questa verifica possa
avvenire su base nazionale senza il portale della mobilità a
pieno regime rimane un mistero.
Anche se il decreto legge enti locali, pubblicato finalmente
sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì (è il decreto
78/2015), ha chiarito la possibilità di utilizzo dei
cosiddetti “resti” assunzionali, rimangono in sospeso due
questioni. La prima: qual è la capacità assunzionale
vincolata ai dipendenti in soprannumero? Solo quella
derivante dalle cessazioni degli anni 2014 e 2015 o anche
quella generata in anni precedenti? L’altro aspetto
sottoposto alla sezione Autonomie riguardava la possibilità
di trasformare a tempo pieno, i contratti di lavoro dei
dipendenti assunti a tempo parziale. Ma su questi dubbi, per
ora, è silenzio (articolo Il Sole 24 Ore del
22.06.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Blocco
totale delle assunzioni e ricollocazione prioritaria del
personale delle Province.
1) “per gli anni 2015 e 2016 la facoltà
di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati
da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art.
4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101,
convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino
alla completa ricollocazione del personale soprannumerario
senza alcuna limitazione geografica”;
2) “per il 2015 ed il 2016 agli enti
locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità
riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli
enti di area vasta. A conclusione del processo di
ricollocazione del personale soprannumerario destinatario
dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie
procedure di mobilità volontaria”;
3) “se l’Ente che deve utilizzare le
risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo
indeterminato, deve coprire un posto di organico per il
quale è prevista una specifica e legalmente qualificata
professionalità attestata, ove contemplato dalla legge, da
titoli di studio precisamente individuati e che tale
assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un
servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta
professionalità è strettamente e direttamente funzionale,
non potrà ricollocare in quella posizione unità
soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo tali condizioni e constatata l’inesistenza di
tali professionalità tra le unità soprannumerarie da
ricollocare, l’ente potrà procedere ad assumere nei modi
ordinari. Tale ricerca va riferita non al solo personale
della Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale
delle Province interessate alla ricollocazione, individuato
ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
4) “la capacità di assunzioni a tempo
indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato
nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con
l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa
pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell’anno
precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al
complemento a cento delle ricordate percentuali è
destinabile unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime
risorse destinandone parte alle predette assunzioni da
graduatorie”.
5) “nell’applicazione delle disposizioni
che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo
indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del
personale soprannumerario delle province vanno considerate
tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della
provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve fare le assunzioni”.
6) “il parametro derogatorio, previsto
dal comma 424, relativo alla non computabilità delle spese
del personale ricollocato nel tetto di spesa ex comma 557
dell'art. 1 della legge n. 296/2006, deve intendersi esteso
anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo
comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del
patto di stabilità interno”;
7) “se il posto da coprire sia
infungibile intendendosi tale, un posto per il quale è
prevista una professionalità legalmente qualificata,
eventualmente attestata, da titoli di studio precisamente
individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire
l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui
prestazioni la predetta professionalità è strettamente e
direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella
posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale
requisiti.
E se questa dovesse essere l’unica esigenza di organico da
soddisfare nell’arco del biennio considerato dalla norma,
una volta constatata l’inesistenza di tali professionalità
tra le unità soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà
procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va
riferita non al solo personale della Provincia di
appartenenza, ma a tutto il personale delle Province
interessate alla ricollocazione come individuati ai sensi
del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
---------------
PREMESSO
1. Per le questioni poste dalla Sezione regionale di
controllo Lombardia, con le deliberazioni n. 120/2015/QMIG e
n. 135/2015/QMIG, all’esito della relazione, l’adunanza
della Sezione ha deciso approfondimenti istruttori, per cui
la trattazione è stata rinviata a nuova data; le altre
vengono trattate e decise.
Le questioni poste vertono tutte sulla corretta
interpretazione ed applicazione di quanto dispone l’art. 1,
comma 424, della legge 23.12.2014, n. 190, legge di
stabilità per il 2015, che così recita: “Le regioni e gli
enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse
per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali
stabilite dalla normativa vigente, all'immissione nei ruoli
dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie
graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in
vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri
ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi
di mobilità. Esclusivamente per le finalità di
ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli
enti locali destinano, altresì, la restante percentuale
della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli
anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del
personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del
patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e
di bilancio dell'ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma non si calcolano, al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296. Il numero
delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è
comunicato al Ministro per gli affari regionali e le
autonomie, al Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e al Ministro dell'economia e delle finanze
nell'ambito delle procedure di cui all'accordo previsto
dall'articolo 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le
assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono
nulle.”
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha
rassegnato con la deliberazione del 24.02.2015 n. 85/2015/QMIG
cinque quesiti posti dal Comune di Botticino (BS) e con la
deliberazione del 04.03.2015, n. 87/2015/QMIG ha deferito
una delle due questioni sollevate dal comune di Borgo
Virgilio (MN).
La Sezione regionale per il Piemonte ha deferito con la
deliberazione del 04.03.2015 n. 26/2015/QMIG tre questioni
proposte dal comune di Omegna (VCO).
Per consentire una più agevole lettura delle analisi svolte
e delle soluzioni interpretative adottate i quesiti saranno
esaminati in sequenza completando, per ognuno di essi,
esposizione della questione e relativa soluzione.
Complessivamente, considerate le questioni sulle quali, come
si dirà in seguito, non vi è luogo a deliberare, saranno
esaminati sette temi interpretativi.
Occorre ancora premettere che le questioni che si vanno a
trattare sono già state iscritte all’ordine del giorno
dell’adunanza del 09.04.2015; in detta occasione è stato
deciso di soprassedere momentaneamente alla decisione delle
questioni di massima in quanto si era considerato che
essendo in corso di predisposizione da parte del Ministro
per la semplificazione e la pubblica Amministrazione il
decreto ministeriale per la determinazione dei criteri
relativi alle procedure di mobilità previsto dall’art. 1,
comma 423, della già ricordata legge di stabilità, la
materia dei quesiti poteva essere interessata dalle emanande
disposizioni ministeriali.
L’esigenza di rendere l’ausilio interpretativo richiesto
dagli enti, perdurando la mancata adozione dei surricordati
atti, ha fatto propendere per la trattazione dei quesiti
nell’odierna adunanza.
Prima di esaminare le varie questioni e le correlate
soluzioni interpretative occorre fare una puntualizzazione
di metodo e cioè che l’esame delle questioni poste, per
quello che qui interessa, è limitato a quelle le cui
difficoltà interpretative, sotto il profilo letterale,
sistematico e logico, sono direttamente ed esclusivamente
connesse al contenuto dispositivo dell’art. 1, comma 424,
della legge n. 190/2014 e cioè ai nuovi e specifici limiti
imposti per gli anni 2015 e 2016 alle assunzioni a tempo
indeterminato negli enti locali; ulteriori istituti
concernenti altre facoltà e modalità assunzionali degli enti
interessati, anche se ipoteticamente ed indirettamente
influenzate dalla predetta disciplina normativa, restano
fuori dal perimetro delle questioni di massima.
L’esame dei
quesiti verrà condotto secondo il filo logico
dell’individuazione di un principio di diritto che, sia pure
nel peculiare contesto della fattispecie, sia finalizzato a
cogliere la portata generale e la ratio dei vincoli
introdotti dalla norma. Ciò anche a ragione della elevata
complessità ed articolazione della disciplina in materia di
personale, i cui molteplici istituti hanno proprie e
diversificate regole applicative tra le quali parametri per
la quantificazione della spesa e vincoli particolari.
Venendo allo specifico tema normativo in questione, sempre
sul piano generale va considerato che con l’art. 1, comma
424 della legge 190/2014 (legge di stabilità 2015) è stata
introdotta una disciplina particolare delle assunzioni a
tempo indeterminato, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016
di quella generale; eventuali assunzioni effettuate in
difformità da dette disposizioni, sono colpite da nullità di
diritto (“le assunzioni effettuate in violazioni del
presente comma sono nulle” comma 424, ultimo periodo).
Peraltro tale particolarità della disciplina non va intesa
alla stessa stregua del carattere della specialità tipico
della configurazione delle antinomie giuridiche; per queste,
infatti, il fondamento derogatorio risiede in una diversa,
sostanziale e strutturale esigenza di eccezione alla norma
generale: nel comma 424 la finalità derogatoria
concretamente riferibile alla priorità della ricollocazione,
discende dalla specifica e temporanea esigenza di
riassorbimento del personale soprannumerario. Soddisfatta
tale esigenza è la stessa norma che contempla,
implicitamente, la riespansione della disciplina ordinaria:
“salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario”.
Il merito della problematica risiede nel fatto che,
all’esito del suddetto riordino, l’art. 1, comma 421, della
legge di stabilità ha disposto che le dotazioni organiche
delle città metropolitane e delle province sono commisurate
alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in
vigore della legge 07.04.2014, n. 56, ridotta,
rispettivamente, del 30 e del 50 per cento; del 30 per cento
per le province con territorio interamente montano e
confinanti con Paesi stranieri secondo quanto previsto
dall’art. 1, comma 3, della richiamata legge 56/2014.
Effetto di tale riduzione è l’emersione di personale
soprannumerario da ricollocare presso le regioni e gli enti
locali utilizzando le risorse indicate dalla norma.
Al di fuori degli aspetti esegetici, sembra opportuno
considerare che l’espressa limitazione temporale ai due
esercizi prima ricordati, potrebbe risultare disallineata
rispetto al concreto conseguimento dell’obiettivo di
ricollocazione. Tuttavia, tenuto conto del tenore letterale
delle disposizioni in esame, i vincoli da essa posti, salvo
ulteriori interventi normativi che ne dovessero estendere
gli effetti, non sembra possano dispiegare efficacia
ultrattiva rispetto all’arco temporale definito.
CONSIDERATO
2. Questioni rimesse dalla Sezione
regionale di controllo per la Lombardia con deliberazione
24.02.2015, n. 85/2015/QMIG.
Il Sindaco del comune di Botticino (BS), con nota n. 353 del
12.01.2015, ha formulato una richiesta di parere alla
Sezione regionale che verte su diversi profili
interpretativi in materia di assunzione di personale da
parte degli enti locali a seguito dell’entrata in vigore
dell’art. 1, comma 424, della legge di stabilità 2015. Di
seguito si illustrano i quesiti posti, la posizione della
sezione remittente e la soluzione deliberata.
2.1. Primo quesito. Il divieto di
attingere dalle graduatorie di concorsi pubblici approvate
da altri enti locali per il biennio 2015/2016, è limitato
solo alla permanenza di personale soprannumerario della
provincia di appartenenza oppure permane comunque per il
biennio considerato?
Il quesito in esame, nasce da una deduzione interpretativa
fatta dal Comune di Botticino che lo ha formulato. In
sostanza l’Ente muove dalla constatazione che l’art. 1,
comma 424, della legge di stabilità, nell’imporre che le
uniche assunzioni a tempo indeterminato possibili per gli
anni 2015 e 2016 sono quelle dei vincitori di concorsi
collocati in proprie graduatorie oppure il personale
soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, fa
venir meno la facoltà di attingere alle graduatorie di
concorsi pubblici approvati da altri enti locali.
Tale
facoltà è astrattamente riconosciuta dall’art. 4, comma
3-ter del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito
dalla legge 30.10.2013, n. 125. Ciò premesso l’ente chiede
di conoscere se tale vincolo possa considerarsi limitato al
permanere di personale soprannumerario, oppure produca
necessariamente i suoi effetti per i due esercizi 2015 e
2016 a prescindere dall’esistenza o meno del personale
soprannumerario.
La Sezione remittente argomenta che “la novella in esame
appare introdurre una lex specialis valevole per i soli anni
2015 e 2016” che integra un regime derogatorio alla
disciplina generale che regola le facoltà assunzionali -soprattutto per i profili dei vincoli assunzionali-
finalizzato a destinare tutte le risorse disponibili per le
assunzioni a tempo indeterminato alla realizzazione di due
obiettivi: l'immissione in ruolo di tutti i vincitori di
concorso pubblico collocati nelle graduatorie dell'Ente e la
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità.
Una volta venute meno
le ragioni che giustificano la deroga troveranno nuovamente
applicazione le disposizioni della disciplina ordinaria ivi
compresa quella di cui all’art. 4, comma 3-ter del decreto
legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125.
Sul punto è condivisibile l’interpretazione della Sezione
remittente così come la precisazione circa l’ambito di
operatività della disposizione che non va inteso limitato
alla sola ricollocazione del personale soprannumerario della
provincia di appartenenza, ma alla completa ricollocazione
del personale soprannumerario senza alcuna limitazione
geografica.
In questo senso sono, anche, gli indirizzi emanati con
circolare n. 1 del 30.01.2015 del Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione e del Ministro
per gli affari regionali e le autonomie, registrata dalla
Corte dei conti in data 20.02.2015 la quale, al
riguardo, prevede che “qualora l'osservatorio nazionale
rilevi che il bacino del personale da ricollocare è
completamente assorbito, vengono adottati appositi atti per
ripristinare le ordinarie facoltà di assunzione alle
amministrazioni interessate”.
Conclusivamente il quesito posto trova soluzione nel
ritenere che per gli anni 2015 e 2016 la facoltà di
attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati da
altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art. 4,
comma 3-ter, del decreto legge 31.08.2013, n. 101,
convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa
fino alla completa ricollocazione del personale
soprannumerario senza alcuna limitazione geografica.
2.2. Secondo quesito. Nel biennio
2015/2016 è possibile, attraverso l’istituto della mobilità,
assumere personale proveniente da enti diversi da quello
inserito tra i soprannumerari della provincia sulla base di
una graduatoria di merito?
Va, innanzitutto, chiarito che nell’illustrazione delle
ragioni del quesito come formulato dall’ente, oltre
all’aspetto principale dello stesso che è quello dell’esperibilità,
o meno, dell’ordinaria mobilità in presenza del nuovo
vincolo, si fa anche riferimento alla concreta difficoltà di
poterlo rispettare.
L’osservanza della norma, infatti,
imporrebbe di limitare la procedura di mobilità ai soli
dipendenti soprannumerari delle province interessate dal
riordino (ciò che presupporrebbe l’esclusione dalla
procedura di altri dipendenti non interessati dalla
ricollocazione), da cui la domanda: se il nuovo,
transitorio, regime per le assunzioni a tempo indeterminato
escluda l’attivazione delle procedura per la mobilità
volontaria ex art. 30 d.lgs. 165/2001.
La Sezione remittente, sul punto, ritiene che nel quesito
posto siano sovrapposti due profili tematici che, invece,
vanno tenuti distinti: il primo, relativo ai vincoli imposti
dal comma 424 alle facoltà di assunzioni a tempo
indeterminato a valere sulle risorse a ciò destinate per gli
anni 2015 e 2016; il secondo, concernente la possibilità di
continuare a fare ricorso, anche per detto biennio,
all’istituto della mobilità esterna fra enti che risulta
finanziariamente neutra.
Fatta questa premessa, la Sezione remittente considera che
il vincolo di attingere dal personale soprannumerario sia
limitato solo alle assunzioni e non ai trasferimenti diretti
di personale a seguito delle procedure di mobilità. Ciò
perché la copertura di un posto in organico con il
trasferimento da altro ente per mobilità è consentito, ai
sensi dell’art. 1, comma 47, della legge 311/2014, in quanto
finanziariamente neutro.
In sostanza poiché tale assunzione
non va imputata alla quota di assunzione normativamente
prevista (calcolata sulla base dei risparmi di spesa
realizzati rispetto al precedente esercizio per
pensionamento, decesso ed altre cause) la stessa non incide
sull’ammontare delle disponibilità che il comma 424 destina
ai surricordati scopi.
E la non imputazione alle nuove
assunzioni deriva dal fatto che la cessazione dall’ente
cedente non è considerata alla stessa stregua di un
pensionamento e, quindi, per il medesimo ente cedente non è
un risparmio di spesa da utilizzare per il calcolo di nuove
quote di assunzioni; ossia l’ente che assume il dipendente
non lo computa nelle quote assunzionali in quanto l’ente che
lo ha ceduto non potrà ricoprire quel posto in organico,
considerandolo un risparmio di spesa.
Situazione questa che,
secondo la Sezione lombarda, non ricorre per il personale
soprannumerario delle province, in quanto le corrispondenti
dotazioni organiche sono state ridotte, quindi le assunzioni
di questo personale non possono che essere imputate alle
nuove disponibilità finanziarie. La Sezione remittente
ritiene, quindi, che la riserva in favore dei dipendenti sovrannumerari delle province non sia pregiudicata dalle
assunzioni a seguito delle ordinarie procedure di mobilità
che restano, quindi, consentite.
Tale tesi non può essere condivisa.
A ciò ostano due ragioni: la prima, di metodo logico
interpretativo; la seconda, di carattere sostanziale.
Per il primo profilo, deve considerarsi che l’assunto
metodologico già considerato nell’affrontare il primo
quesito, e cioè che il comma 424 detta una disciplina
particolare temporaneamente derogatoria, ha valore, per così
dire, conformativo di tutte le necessità esegetiche che
riguardano l’attuazione di quella disposizione. Nel
risolvere il precedente quesito si è considerato che la
sospensione della facoltà di attingere alle graduatorie di
altri enti, normalmente consentita in base alle vigenti
disposizioni, è giustificata dalle prioritarie finalità di
conservazione delle posizioni lavorative dei dipendenti
soprannumerari degli enti interessati dal riordino di cui
alla legge n. 56/2014.
La stessa motivazione sorregge anche
la derogabilità, limitata temporalmente, alle altre
disposizioni che consentono di ricoprire posti vacanti in
organico mediante passaggio diretto dei dipendenti in
servizio presso altre amministrazioni che ne facciano
richiesta (c.d. mobilità volontaria).
Le ragioni di questa deroga hanno, però, come anticipato,
anche un fondamento sostanziale che si va ad illustrare.
Per fare ciò è opportuno partire dai principi contenuti in
alcune statuizioni del D.P.C.M. 20.12.2014, registrato
alla Corte dei conti l’11.03.2015, pubblicato sulla
Gazzetta ufficiale n. 78 del 3 aprile, che disciplina i
criteri di utilizzo e le modalità di gestione delle risorse
del fondo destinato al miglioramento dell’allocazione del
personale presso le pubbliche amministrazioni in esito ai
processi di mobilità di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 30 del
d.lgs. 165/2001.
In detto provvedimento si considera che, in via ordinaria,
la mobilità si svolge, nel limite dei posti disponibili
nella dotazione organica, con le risorse finanziarie che le
amministrazioni pubbliche hanno nella disponibilità dei loro
bilanci, nel rispetto della disciplina prevista per la
mobilità da finanziare con le risorse per le assunzioni
(fattispecie, tra quelle di mobilità elencate nel
provvedimento, caratterizzata dal fatto che, si precisa nel
DPCM, si svolge tra amministrazioni delle quali almeno una
non è soggetta a limitazioni delle assunzioni) e per la
mobilità per la quale ricorrano le condizioni di neutralità
per la finanza pubblica.
Nel caso di specie ricorre
quest’ultima ipotesi per la quale la regola finanziaria che
ne governa l’applicazione è che le risorse da spendere per
ricoprire un posto in organico attraverso la procedura di
mobilità volontaria, sono costituite da quelle non
computabili sull’ammontare delle disponibilità finanziarie
da destinare alle assunzioni (queste ultime per il 2015 ed
il 2016 sono individuate dall’art. 3, comma 5, del decreto
legge 24.06.1990, n. 90 convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.08.2014, n. 114).
In pratica l’assunzione
per mobilità non riduce le facoltà assunzionali dell’ente in
quanto queste facoltà che hanno il loro parametro
finanziario nelle risorse risparmiate nel precedente
esercizio, restano integre mentre la nuova assunzione
nell’aggregato finanziario complessivo del comparto rimane
compensata dall’impossibilità di coprire il posto rimasto
vacante nell’ente di provenienza.
Tuttavia bisogna tenere conto del fatto che l’art. 1, comma
424, oltre a destinare le risorse appena ricordate e cioè
una quota proporzionale dei risparmi di spesa realizzati
rispetto all’anno di riferimento, vincola anche le rimanenti
disponibilità commisurate ai medesimi risparmi di spesa,
solo per l’applicazione dei processi di mobilità per il
ricollocamento del personale soprannumerario di cui all’art.
1, comma 424, della legge n. 190/2014.
Non solo. Il
legislatore ha anche stabilito –ed è questo il punto più
rilevante- che le spese per il personale ricollocato
secondo il comma 424 in esame, non si calcolano al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui all’art. 557 dell’art. 1,
della legge 27.12.2006, n. 296, fermo restando il
rispetto del patto di stabilità e la sostenibilità
finanziaria che diventano i limiti sostanziali invalicabili.
E’ noto che dalle componenti del predetto tetto, come
statuito anche nelle linee guida per la relazione alla
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti (art.
1, commi 166 e ss. L. 266/2005) dell’organo di revisione
contabile del Comune (da ultimo: Delibera Sez. autonomie
n. 18/2013/SEZAUT/INPR), non sono escluse le spese per il
personale assunto per mobilità.
Ora, se lo stesso comma 424
prevede, come appena ricordato, che le ulteriori risorse
impiegate per le ricollocazioni non rilevano ai fini del
tetto di spesa, fermi restando gli altri due limiti
invalicabili (Patto di stabilità interno e sostenibilità),
sarebbe incongruo far salva una quota di questo tetto e,
conseguentemente, una porzione di detti limiti, per il
personale assunto per mobilità volontaria, che non ha la
priorità riconosciuta, invece, dal comma 423 dell’art. 1
della legge 190/2014, alla ricollocazione del personale
soprannumerario secondo le modalità del comma 424.
E’ conseguenziale, quindi, che anche questi spazi assunzionali
debbano essere disponibili per il ricollocamento delle unità
soprannumerarie e fino al completo ricollocamento dello
stesso personale al termine del quale non vi sono ostacoli
all’attivazione di tali procedure di mobilità. In altri
termini, vero è che in astratto l’art. 1, comma 424, della
legge di stabilità non innova nella disciplina della
mobilità volontaria per cui, sempre in linea teorica, non
sembrerebbero sussistere ostacoli alla sua operatività, ma
la priorità della ricollocazione del personale “destinatario
delle procedure di mobilità” secondo le previsioni del comma
424, non è compatibile con la operatività, per il limitato
arco temporale dei due esercizi 2015 e 2016, delle
disposizioni di mobilità volontaria, salvo la completa
ricollocazione del personale soprannumerario. Anche in
questo caso è opportuno richiamare la ricordata circolare n.
1/2015 che nell’evidenziare i “divieti e gli effetti
derivanti dai commi 424 e 425 per le amministrazioni
pubbliche” precisa che non sono consentite procedure di
mobilità.
Per dette ragioni deve ritenersi che per il 2015 ed il 2016
agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di
mobilità riservate esclusivamente al personale
soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del
processo di ricollocazione del personale soprannumerario
destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire
le ordinarie procedure di mobilità volontaria.
2.3. Terzo quesito. Se nell’ambito
del personale soprannumerario della provincia non sono
presenti profili professionali adeguati alla coperture dei
posti per i quali si ricerca la risorsa umana, è possibile
ritenere l’ente locale svincolato dagli obblighi contenuti
nel comma 424?
In ordine al quesito appena riassunto il Comune chiede se
sia possibile ritenere l’ente locale svincolato dagli
obblighi contenuti nel comma 424 nel caso in cui,
nell’ambito del personale soprannumerario della provincia,
non siano presenti profili professionali adeguati alla
copertura dei posti per i quali si ricerca la risorsa umana.
La Sezione remittente ritiene che la sanzione di nullità
comminata dal comma 424 in esame, per assunzioni a tempo
indeterminato fatte senza l’osservanza dei vincoli ivi
imposti, comprovi la esclusività di tale disciplina e,
quindi, l’impossibilità di procedere ad utilizzare le
risorse assunzionali a tempo indeterminato al di fuori dei
casi considerati.
Sull’argomento oggetto del quesito vengono in evidenza due
disposizioni della disciplina legislativa concernente la
mobilità: la prima, l'art. 30, comma 1, del d.lgs. n.
165/2001, in base al quale le amministrazioni possono
ricoprire i posti vacanti in organico mediante passaggio
diretto di dipendenti appartenenti a una qualifica
corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni;
la seconda, il comma 1-bis, dello stesso art. 30, in base al
quale, “l’amministrazione di destinazione provvede alla
riqualificazione dei dipendenti….eventualmente avvalendosi,
ove sia necessario predisporre percorsi specifici o
settoriali di formazione, della Scuola nazionale
dell’amministrazione”.
In sostanza in base alla legge deve
esserci una corrispondenza tra qualifica professionale
acquisita nell’ente cedente e professionalità necessaria ai
compiti da assolvere nell’ente di entrata. Se non c’è
corrispondenza o equivalenza di professionalità, resta la
possibilità di riqualificazione. In base a questi
presupposti, l’unico ostacolo all’immissione negli organici
dell’ente ricevente è la totale carenza dei requisiti
soggettivi di professionalità richiesti in base alla legge e
alla contrattazione collettiva nazionale per ricoprire il
posto in organico disponibile.
D’altra parte, va anche
considerato che la ricollocazione non può operare se non
garantendo alle unità ricollocate la posizione giuridica ed
economica in godimento, almeno con riferimento al
trattamento fondamentale e accessorio, come stabilito
dall’art. 1, comma 96, lett. a) della legge n. 56/2014 per il
personale trasferito a seguito di trasferimento delle
funzioni.
Oltre a queste considerazioni rilevanti sul piano
giuridico-formale, a risolvere il quesito posto concorrono
anche ragioni di ordine sostanziale. Tali sono quelle che si
pongono qualora sia ravvisata la sussistenza dell’assoluta
ed ineludibile necessità per il Comune che deve assumere
l’unità di specifica e legalmente qualificata
professionalità, di dover garantire l’espletamento di un
servizio essenziale alle cui prestazioni la predetta
professionalità è strettamente funzionale.
Sotto questo profilo si oppongono due esigenze: da una
parte, la conformità dell’azione amministrativa alle norme
che disciplinano, nei limiti più volte ripetuti, le
assunzioni a tempo indeterminato negli enti locali per il
2015 ed il 2016 secondo le previsioni dell’art. 1, comma 424,
della legge di stabilità; dall’altra l’obbligo di garantire
l’esercizio dei servizi essenziali che presidiano interessi
pubblici direttamente tutelati anche a livello
costituzionale. Tali esigenze costituiscono implicito limite
alla prescritta ricollocazione del personale soprannumerario
laddove tra questo non sia presente la professionalità
richiesta dal Comune.
Infatti la presenza delle descritte
condizioni eccezionali che caratterizzano le esigenze
dell’ente che ha bisogno di risorse con particolari
professionalità, fa venir meno la finalità derogatoria delle
disposizioni del comma 424 che, come si è ricordato nella
premessa, è concretamente riferibile alla priorità della
specifica e temporanea esigenza della ricollocazione del
personale soprannumerario degli enti destinatari del
riordino ex lege n. 56/2014.
Conclusivamente al quesito posto va data la seguente
soluzione: se l’ente deve coprire un posto di organico per
il quale è prevista una specifica e legalmente qualificata
professionalità, eventualmente attestata da titoli di studio
precisamente individuati –in quanto tale assunzione è
necessaria per garantire l’espletamento di un servizio
essenziale, alle cui prestazioni la predetta professionalità
è strettamente e direttamente funzionale- non potrà
ricollocare in quella posizione unità soprannumerarie
sprovviste di tale requisiti. E se questa dovesse essere
l’unica esigenza di organico da soddisfare nell’arco del
biennio considerato dalla norma, una volta constatata
l’inesistenza di tali professionalità tra le unità
soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad
assumere nei modi ordinari. Tale ricerca va riferita non al
solo personale della Provincia di appartenenza, ma a tutto
il personale delle Province interessate alla ricollocazione
come individuato ai sensi del comma 422 dell’art. 1 della
legge 190/2014.
2.4. Quarto quesito. A quale limite
di spese destinate alle assunzioni a tempo indeterminato
fanno riferimento i primi due capoversi del comma 424
prevedendo la medesima disposizione fattispecie diverse?
Il quesito appena rubricato prospetta difficoltà
interpretative relative alla precisa individuazione
dell’ammontare delle disponibilità finanziarie destinabili
alle assunzioni a tempo indeterminato a seconda che si
proceda ad un’assunzione dei vincitori collocati in
graduatoria o ad una ricollocazione.
Al riguardo va
precisato che il legislatore ha indicato le risorse da
destinare alle assunzioni a tempo indeterminato per il 2015
ed il 2016 per le regioni e gli enti locali, individuando
due plafond: uno, indistintamente, utilizzabile per le
assunzioni da graduatorie approvate e per la ricollocazione
delle unità soprannumerarie, l’altro, solo per la predetta
ricollocazione. Il primo, è quello quantificato in termini
percentuali dei risparmi di spesa destinabili a nuove
assunzioni negli esercizi 2015 (60% della spesa del
personale di ruolo cessato nell’anno precedente) e 2016 (80%
dello stesso parametro) secondo le disposizioni di cui
all’art. 3, comma 5 del D.L. 90/2014; il secondo
corrispondente al complemento a 100 delle medesime
percentuali (40% per il 2015, 20% per il 2016).
Precisa ancora il legislatore che le sole spese per le
assunzioni a tempo indeterminato finalizzate alla
ricollocazione non rilevano al fine del rispetto del tetto
di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296, fermi restando i vincoli del patto di
stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di
bilancio dell’ente.
Conclusivamente va precisato che “la capacità di assunzioni
a tempo indeterminato dei vincitori di concorso pubblico
collocato nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con
l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa
pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell’anno
precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al
complemento a cento delle ricordate percentuali sono
destinabili unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime
risorse destinandone parte alle predette assunzioni da
graduatorie.
2.5. Quinto quesito. Nell’osservanza
del vincolo introdotto dal comma 424 con riferimento al
personale soprannumerario destinatario dei processi di
mobilità, tale deve intendersi esclusivamente il personale
della Provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve assumere oppure il personale delle Province
che la funzione pubblica provvederà ad indicare e quindi di
altre Province?
Secondo il giudizio della Sezione remittente dal dato
normativo di riferimento non pare ricavarsi alcun indice dal
quale poter inferire che il singolo ente possa fare
riferimento al solo personale della Provincia di
appartenenza, facendo, di contro, propendere per la
soluzione opposta la ratio stessa dell’intervento
normativo in esame.
Sul punto, già nella risposta al quesito numero uno sono
state fatte le relative considerazioni secondo le quali è
stato precisato che l’ambito di operatività della
disposizione (comma 424 dell’art. 1 della legge 190/2014)
non va inteso limitato alla sola ricollocazione del
personale soprannumerario della provincia di appartenenza,
ma alla completa ricollocazione del personale
soprannumerario senza alcuna limitazione geografica.
In questo senso, del resto, va pure ribadito, sono gli
indirizzi emanati con la circolare n. 1 del 30.01.2015
del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione e dei Ministro per gli affari regionali e le
autonomie sopra richiamata, che, al riguardo, prevede che
"qualora l'osservatorio nazionale rilevi che il bacino del
personale da ricollocare è completamente assorbito, vengono
adottati appositi atti per ripristinare le ordinarie facoltà
di assunzione alle amministrazioni interessate".
Al quesito posto, concordemente alla tesi della Sezione
remittente, va data soluzione precisando che
nell’applicazione delle disposizioni che vincolano le
risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per
la parte relativa alla ricollocazione del personale sovrannumerario delle province vanno considerate tutte le
unità da ricollocare e non solo quelle della provincia nella
cui circoscrizione territoriale ricade l’ente che deve fare
le assunzioni.
3. Questione rimessa dalla Sezione
regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione
04.03.2015, n. 87/2015/QMIG.
Il Sindaco del Comune di Borgo Virgilio (MN), istituito a
seguito di fusione approvata dalla Regione Lombardia con
L.R. 9/2014, con nota del 13.02.2015, ha avanzato alla
Sezione due quesiti di cui solo il seguente è stato rimesso
alla Sezione delle autonomie:
3.1 Quesito unico. E’ possibile
applicare il parametro derogatorio, previsto dal comma 424
della legge di stabilità 2015, relativo alla non
computabilità delle spese del personale ricollocato
relativamente al solo comma 557 dell'art. 1 della legge n.
296/2006, anche all'analoga disposizione contenuta nel
successivo comma 562 relativo agli enti non soggetti al
rispetto del patto di stabilità?
In ordine alla questione appena riassunta è condivisibile la
tesi della Sezione remittente. Detta Sezione nel valutare
l’estensibilità, o meno, del parametro derogatorio previsto
dal comma 424, relativo alla non computabilità nel tetto di
spesa ex comma 557, anche al tetto valido per gli enti
considerati dal successivo comma 562 ritiene che una lettura
in chiave sistematica della deroga in esame non possa che
portare –nei limiti ivi precisati- ad una risposta positiva.
Giustamente annota, ancora, la Sezione lombarda, non
ammettere una tale interpretazione estensiva sembrerebbe,
infatti, comportare una sterilizzazione, proprio per gli
enti di minore dimensione, dell'effettività dell'intervento
in esame e potrebbe frustrare la ratio di salvaguardia dei
livelli occupazionali, che, come argomentato nella
richiamata deliberazione n. 85/2015/QMIG, appare fortemente
connotare il provvedimento in esame.
Conclusivamente si può affermare che il parametro
derogatorio, previsto dal comma 424, relativo alla non
computabilità delle spese del personale ricollocato nel
tetto di spesa ex comma 557 dell'art. 1 della legge n.
296/06, possa intendersi esteso anche all'analoga
disposizione contenuta nel successivo comma 562 relativo
agli enti non soggetti al rispetto del patto di stabilità
interno.
4. Questioni rimesse dalla Sezione
regionale di controllo per il Piemonte con la deliberazione
04.03.2015 n. 26/2015/SRCPIE/QMIG.
Il Sindaco del Comune di Comune di Omegna (VCO), con nota
del 06.03.2015, ha posto alla Sezione i seguenti quesiti in
ordine all’applicazione del comma 424 dell’art. 1 della
legge di stabilità 2015:
Primo quesito. E’ possibile
effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei
requisiti previsti dalla legge?
Secondo quesito. E’ possibile
conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del TUEL?
Nella premessa metodologica alla presente disamina delle
questioni di massima poste, si è precisato che l’esame delle
questioni è limitato alle difficoltà interpretative, sotto
il profilo letterale, sistematico e logico, direttamente ed
esclusivamente connesse al tenore dell’art. 1, comma 424,
della legge 190/2014; altri istituti concernenti altre
facoltà assunzionali degli enti interessati, anche se
indirettamente rilevanti nell’ambito del lavoro esegetico,
restano fuori dal perimetro della questione di massima.
La
ragione di questa delimitazione dell’ambito esegetico
risiede nel fatto che il comma 424 contiene solo un espresso
regime derogatorio a specifiche norme che regolano la
fattispecie dei limiti e dei vincoli alle assunzioni a tempo
indeterminato. Ciò comporta che la pronuncia di orientamenti
interpretativi su altre disposizioni non toccate da alcuna
novella legislativa esorbita dalla stessa funzione nomofilattica, attesa la diversità della disciplina e delle
fattispecie considerate. Tali fattispecie, estranee alle
disposizioni contenute nell’art. 1, comma 424 della legge
190/2014, restano confermate nella loro peculiare disciplina
normativa anche per quello che attiene ai relativi vincoli
previsti dalle leggi.
Gli specifici quesiti in argomento che si ricordano: il
primo, teso a conoscere se sia possibile effettuare
assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti
previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile conferire
un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1,
del TUEL esorbitano, dunque, secondo i criteri appena
enunciati, dal tema delle difficoltà interpretative ed
applicative del comma 424; sugli stessi, quindi, non vi è
luogo a deliberare.
Terzo quesito. E’ possibile effettuare assunzioni tramite
mobilità volontaria di personale in entrata per la copertura
di posti infungibili che non è possibile coprire mediante
concorso?
Per quel che riguarda il quesito appena riassunto la Sezione
remittente si esprime negativamente argomentando che una
tale assunzione comunque sottrarrebbe un posto dell’organico
alle possibilità di ricollocazione. Il punto specifico dell’esperibilità
della mobilità volontaria è stato analizzato nel secondo
quesito e in quella sede sono state illustrate le ragioni
che conducono a ritenere non esperibile la mobilità
volontaria; al riguardo si ritiene di confermare le
argomentazioni già svolte che, in sostanza, contengono
quelle espresse dalla Sezione del Piemonte.
Tuttavia esigenze di coerenza impongono di puntualizzare che
laddove l’infungibilità integri le specifiche ed eccezionali
condizioni già esplicitate nella risposta al terzo quesito
della Sezione regionale di controllo della Lombardia, che
qui integralmente si richiamano, la mobilità volontaria così
finalizzata sia esperibile.
In relazione a quanto considerato deve essere premesso che
la condizione di infungibilità che assume rilevanza ai fini
della derogabilità ai vincoli imposti dall’art. 1, comma
424, della legge 190/2014 è quella che presuppone il
ricorrere dei seguenti requisiti: a) che per il posto da
ricoprire sia prevista una specifica e legalmente
qualificata professionalità, eventualmente attestata, da
titoli di studio precisamente individuati; b) l’assunzione
deve essere necessaria per garantire l’espletamento di un
servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta
professionalità è strettamente e direttamente funzionale.
Sussistendo le descritte condizioni e constatata
l’inesistenza di tali professionalità tra le unità
soprannumerarie da ricollocare, l’ente potrà procedere ad
assumere anche con la procedura della mobilità volontaria.
La suddetta ricerca va riferita non al solo personale della
Provincia di appartenenza, ma a tutto il personale delle
Province interessate alla ricollocazione, individuato ai
sensi del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulle
questioni interpretative poste dalla Sezione regionale di
controllo per il Piemonte con la deliberazione n. 26/2015/QMIG
e dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con
le deliberazioni n. 85/2015/QMIG e n. 87/2015/QMIG,
pronuncia i seguenti principi di diritto:
1) “per gli anni 2015 e 2016 la facoltà
di attingere alle graduatorie di concorsi pubblici approvati
da altri enti locali, astrattamente riconosciuta dall’art.
4, comma 3-ter del decreto legge 31.08.2013, n. 101,
convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125, è preclusa fino
alla completa ricollocazione del personale soprannumerario
senza alcuna limitazione geografica”;
2) “per il 2015 ed il 2016 agli enti
locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità
riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli
enti di area vasta. A conclusione del processo di
ricollocazione del personale soprannumerario destinatario
dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie
procedure di mobilità volontaria”;
3) “se l’Ente che deve utilizzare le
risorse finanziarie destinate ad assunzioni a tempo
indeterminato, deve coprire un posto di organico per il
quale è prevista una specifica e legalmente qualificata
professionalità attestata, ove contemplato dalla legge, da
titoli di studio precisamente individuati e che tale
assunzione è necessaria per garantire l’espletamento di un
servizio essenziale, alle cui prestazioni la predetta
professionalità è strettamente e direttamente funzionale,
non potrà ricollocare in quella posizione unità
soprannumerarie sprovviste di tale requisiti.
Sussistendo
tali condizioni e constatata l’inesistenza di tali
professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare,
l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale
ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di
appartenenza, ma a tutto il personale delle Province
interessate alla ricollocazione, individuato ai sensi del
comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
4) “la capacità di assunzioni a tempo
indeterminato dei vincitori di concorso pubblico collocato
nelle graduatorie dell’ente” si esaurisce con
l’utilizzazione delle risorse corrispondenti “ad una spesa
pari al 60 per cento (80 per cento nel 2016) di quella
relativa al personale di ruolo cessato nell’anno
precedente”; le ulteriori risorse corrispondenti al
complemento a cento delle ricordate percentuali è
destinabile unicamente alle assunzioni per ricollocazione.
Non è ammessa una promiscua utilizzazione di queste ultime
risorse destinandone parte alle predette assunzioni da
graduatorie”.
5) “nell’applicazione delle disposizioni
che vincolano le risorse destinate alle assunzioni a tempo
indeterminato per la parte relativa alla ricollocazione del
personale soprannumerario delle province vanno considerate
tutte le unità da ricollocare e non solo quelle della
provincia nella cui circoscrizione territoriale ricade
l’ente che deve fare le assunzioni”.
6) “il parametro derogatorio, previsto
dal comma 424, relativo alla non computabilità delle spese
del personale ricollocato nel tetto di spesa ex comma 557
dell'art. 1 della legge n. 296/2006, deve intendersi esteso
anche all'analoga disposizione contenuta nel successivo
comma 562 relativo agli enti non soggetti al rispetto del
patto di stabilità interno”;
7) “se il posto da coprire sia
infungibile intendendosi tale, un posto per il quale è
prevista una professionalità legalmente qualificata,
eventualmente attestata, da titoli di studio precisamente
individuati e che tale assunzione è necessaria per garantire
l’espletamento di un servizio essenziale, alle cui
prestazioni la predetta professionalità è strettamente e
direttamente funzionale, non potrà ricollocare in quella
posizione unità soprannumerarie sprovviste di tale
requisiti.
E se questa dovesse essere l’unica esigenza di
organico da soddisfare nell’arco del biennio considerato
dalla norma, una volta constatata l’inesistenza di tali
professionalità tra le unità soprannumerarie da ricollocare,
l’ente potrà procedere ad assumere nei modi ordinari. Tale
ricerca va riferita non al solo personale della Provincia di
appartenenza, ma a tutto il personale delle Province
interessate alla ricollocazione come individuati ai sensi
del comma 422 dell’art. 1 della legge 190/2014”.
Non vi è luogo a deliberare per il primo ed il secondo
quesito rubricati al punto 4 della parte motiva e che si
riassumono: il primo, teso a conoscere se sia possibile
effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei
requisiti previsti dalla legge; il secondo, se sia possibile
conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del TUEL (Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 16.06.2015 n. 19). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Sezione ritiene che il recupero da parte della Pubblica
Amministrazione di somme indebitamente erogate in eccesso ai
propri dipendenti debba riguardare gli importi computati al
netto, per le ragioni che si passano ad esporre.
Le ritenute fiscali previdenziali ed
assistenziali non sono ripetibili dai dipendenti, in quanto
trattasi di somme che non sono mai entrate nella sfera
patrimoniale di disponibilità di questi ultimi, secondo la
prevalente giurisprudenza amministrativa
e di legittimità.
La Sezione raccomanda la conseguente
regolarizzazione dei rapporti con gli Enti interessati alla
materia previdenziale, assicurativa e fiscale, anche ai fini
della trasparenza dei relativi conti.
Vero è che, in caso di indebita erogazione
di denaro al pubblico dipendente, la buona fede di
quest’ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti
erroneamente corrisposti - attesa la sussistenza in capo
all’Ente di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto
patrimoniale.
Il recupero si atteggia come comportamento
doveroso, privo di valenza provvedimentale che discende
direttamente dall’art. 2033 cod. civ.
non rinunciabile, in quanto correlato al
perseguimento delle finalità di pubblico interesse alle
quali sono istituzionalmente destinate le somme
indebitamente erogate.
In conclusione, la ripetizione
dell’indebito ai sensi dell’art. 2033, c.c., è sì un
diritto-dovere della Pubblica Amministrazione, ma che va
esercitato ed adempiuto sulla base del netto percepito dal
pubblico dipendente.
---------------
Con nota indicata in epigrafe, non inoltrata a questa
Sezione tramite il C.A.L., il Sindaco del Comune di
Tarquinia ha formulato richiesta di parere in materia di
recupero di emolumenti indebitamente erogati ai propri
dipendenti appartenenti al Corpo di Polizia Locale, in
quanto risultati non dovuti all’esito di una verifica
effettuata dal MEF (Dipartimento della Ragioneria Generale
dello Stato-Ispettorato generale di Finanza) sul periodo
2004-2008, per chiedere se il recupero di quanto
indebitamente percepito dai dipendenti vada effettuato al
lordo o al netto delle trattenute previdenziali,
assicurative e fiscali.
...
Quanto agli specifici termini del quesito ermeneutico, il
Sindaco del Comune di Tarquinia ha preliminarmente esposto
che, nell’anno 2009, il Comune è stato sottoposto ad una
verifica da parte del MEF il quale, in relazione al periodo
2004-2008, ha rilevato una non corretta applicazione
cumulativa dei benefici di cui agli articoli 22 e 24 del
CCNL del 14.09.2009 al personale turnista appartenente al
Corpo di Polizia Municipale.
Vi è stato, com’è noto, nella prassi amministrativa e
giurisprudenziale, un acceso dibattito circa la cumulabilità
-per tali turnisti- degli aumenti retributivi di cui
all’art. 22, comma 5, del citato CCNL che, a compensazione
del disagio correlato all’articolazione dell’orario in
turni, prevede una “indennità di turno” (consistente
nella maggiorazione della retribuzione mensile del personale
“turnista”, con fissazione di specifiche percentuali
per il lavoro turnario cadente nelle festività,) con i
benefici di cui all’art. 24 che, a compensazione della
maggior penosità del lavoro festivo, riconosce comunque una
“maggiorazione oraria del 50%” per il lavoro festivo
anche infrasettimanale ed un “riposo compensativo”.
Quest’ultimo riposo è previsto come cumulativo rispetto alla
maggiorazione retributiva, per chi lavora nel giorno di
riposo: 24, comma 1; oppure come alternativo ad essa, in
base alla scelta espressa da chi lavora in giorno festivo
infrasettimanale: 24, comma 2, del CCNL del 14/09/2009.
L’orario lavorativo dei Vigili Urbani, per legittima scelta
discrezionale del Comune di Tarquinia (Consiglio di Stato n.
3047/06; n. 3691/06 e n. 3696/06), si è sempre articolato
turnariamente su sette giorni, comprese le festività anche
infrasettimanali e, nel periodo in questione (2004-2008), si
è sempre riconosciuta la cumulabilità dei menzionati
istituti (art. 22 e art. 24), in adeguamento alla prevalente
giurisprudenza di legittimità e di merito.
Il MEF, per converso, condividendo il contrario orientamento
dell’ARAN e del Dipartimento della Funzione Pubblica-UPPA
(parere n. 4/08 del 15.01.2008) ha ritenuto -all’esito
dell’ispezione- non riconoscibili ai turnisti della Polizia
Municipale di Tarquinia i benefici di cui all’art. 24, comma
2, del CCNL.
A ciò si è adeguato il Comune di Tarquinia dal 2008, con
provvedimento del Segretario Generale n. 19172 del
09.07.2008, che ha dettato conformi direttive ermeneutiche
ed applicative ed è stato poi confermato da un parere del
Ministero dell’Interno, che il Comune ha dovuto richiedere,
stante lo stato di perdurante agitazione dei Vigili Urbani.
Ciò nonostante, le organizzazioni sindacali di categoria ed
i lavoratori turnisti hanno continuato ad invocare
l’applicazione delle sentenze favorevoli emanate dalle S.U.
della Cassazione sull’argomento, richiedendo soluzioni in
sede di contrattazione decentrata integrativa e proponendo
accordi conciliativi, ma il Comune ha tenuto fermo il
proprio diniego, ricordando anche la sussistenza del divieto
di estensione analogica delle decisioni giurisprudenziali
favorevoli passate in giudicato, emanate in materia di
personale delle amministrazioni pubbliche, di cui all’art.
1, comma 132, della L. n. 311 del 30.12.2004 e s.m.i.,
confermato e prorogato dall’art. 1, comma 6, del D.L.
30.12.2008, n. 207.
All’esito dei tentativi obbligatori di conciliazione avviati
dai lavoratori per continuare a fruire della normativa di
favore, respinti dal Comune, sono stati rigettati anche i
relativi ricorsi proposti dai dipendenti al Giudice del
Lavoro di Civitavecchia.
Nel frattempo, tuttavia, per quanto riconosciuto ai
lavoratori turnisti nel pregresso periodo 2004-2008, oggetto
di ispezione da parte del MEF, il 30.05.2011 è intervenuta,
su delega della Procura contabile operante presso la Sezione
giurisdizionale per il Lazio, la Guardia di Finanza, che ha
richiesto al Comune i prospetti di tutte le giornate
lavorative festive infrasettimanali non lavorate o
recuperate in via compensativa in errata applicazione
dell’art. 24.
Il Comune le ha fornite, effettuando il computo del loro
valore complessivo al lordo delle ritenute previdenziali,
assistenziali e fiscali. Di conseguenza il MEF ha
sollecitato il Comune di Tarquinia a procedere al recupero
delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, i
quali hanno invano invocato soluzioni conciliative
alternative, almeno in parte, al recupero monetario.
Il Comune non ha potuto dunque avallare tali proposte
alternative, a causa della ferma opposizione del medesimo
MEF che, con nota n. 78496 dell’08.10.2014, ha rammentato la
doverosità e l’irrinunziabilità del recupero dell’indebito
da parte delle PP.AA. secondo il Consiglio di Stato ed ha
espressamente invitato l’Ente ad avviare le procedure di
recupero, eventualmente anche coattivo.
Il Comune di Tarquinia ha pertanto inviato le relative
diffide e messe in mora, nonostante sussistessero -a parere
dell’Ente- difficoltà connesse all’aggravio di spese legali
ed ai rischi di soccombenza correlati alle procedure
esecutive di ripetizione degli indebiti.
Ciò posto, e riferito che diversi interessati hanno proposto
istanze di rateizzazione, il Sindaco di Tarquinia chiede di
conoscere se il recupero da parte della Pubblica
Amministrazione di somme indebitamente erogate ai dipendenti
debba riguardare gli importi considerato al lordo delle
ritenute previdenziali, assicurative e fiscali, oppure se le
somme in questione debbano essere richieste al netto delle
ritenute operate dall’Ente all’atto del pagamento
dell’indebito e quindi mai entrate nella sfera patrimoniale
personale degli interessati.
La Sezione,
senza ovviamente fare osservazioni, peraltro non richieste,
circa il merito della questione relativa alla debenza o meno
di detti benefici contrattuali, ritiene che
il recupero da parte della Pubblica Amministrazione di somme
indebitamente erogate in eccesso ai propri dipendenti debba
riguardare gli importi computati al netto, per le ragioni
che si passano ad esporre.
Le ritenute fiscali previdenziali ed
assistenziali non sono ripetibili dai dipendenti, in quanto
trattasi di somme che non sono mai entrate nella sfera
patrimoniale di disponibilità di questi ultimi, secondo la
prevalente giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, sez. III, 04.07.2011 n.3984, sez. VI,
02.03.2009, n. 1164, Tar Lombardia n. 2789/2014, Tar Umbria
n. 559/2013, Tar Lazio, n. 2661/2013) e di
legittimità
(Cassazione, sentenza n. 1464 del 2012 e n. 18584 del 2008).
La Sezione raccomanda la conseguente
regolarizzazione dei rapporti con gli Enti interessati alla
materia previdenziale, assicurativa e fiscale, anche ai fini
della trasparenza dei relativi conti.
Vero è che, in caso di indebita erogazione
di denaro al pubblico dipendente, la buona fede di
quest’ultimo non preclude la ripetizione degli emolumenti
erroneamente corrisposti - attesa la sussistenza in capo
all’Ente di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto
patrimoniale
(Corte conti, Sezione Regionale di controllo Lombardia,
deliberazione n. 65/2010/PAR).
Il recupero si atteggia come comportamento
doveroso, privo di valenza provvedimentale che discende
direttamente dall’art. 2033 cod. civ.
(Consiglio di Stato sez. IV n. 2203/2004. Sez. VI n.
1045/2002) non rinunciabile, in quanto
correlato al perseguimento delle finalità di pubblico
interesse alle quali sono istituzionalmente destinate le
somme indebitamente erogate.
In conclusione, la ripetizione
dell’indebito ai sensi dell’art. 2033, c.c., è sì un
diritto-dovere della Pubblica Amministrazione, ma che va
esercitato ed adempiuto sulla base del netto percepito dal
pubblico dipendente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 15.06.2015 n. 125). |
NEWS |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc interno in recupero. L'Inps accelera sulle
pratiche in sospeso. Le contromisure
dell'istituto a ridosso dell'avvio della procedura online.
Colpo di acceleratore dell'Inps sul Durc interno. Per non
arrivare impreparati all'appuntamento del 1° luglio con il
Durc online (e soprattutto con situazioni in sospeso),
infatti, l'istituto raccomanda agli uffici territoriali di
affrettare la soluzione delle pratiche relative alle note di
rettifica, mediante un veloce riscontro delle segnalazioni
di imprese e consulenti pervenute tramite il cassetto
previdenziale.
Lo spiega l'INPS nel messaggio n. 4277/2015.
Aziende interessate.
Le note di rettifica sono state inviate alle aziende che
hanno fruito d'incentivi senza essere in regola con le norme
sul Durc interno. L'invio ha interessato le aziende attive a
maggio 2015 che presentavano irregolarità, ancora
sussistenti, da gennaio 2008.
I preavvisi sono stati spediti via Pec ai consulenti, dando
loro 45 giorni di tempo per il ripristino della regolarità
aziendale; in mancanza, le imprese dovranno restituire i
benefici fruiti maggiorati di sanzioni.
La spedizione.
Le operazioni di spedizione dei preavvisi di irregolarità,
come ha precisato l'Istituto di previdenza nel precedente
msg 3454/2015, sono avvenute nel corso del mese di maggio, e
interessano le imprese che hanno fruito di benefici
normativi e contributivi soggetti alla verifica della
regolarità della posizione aziendale (il cosiddetto Durc
interno). Ai datori di lavoro risultati regolari al
controllo, invece, il sistema segnala la sussistenza di
regolarità contributiva con la generazione di semaforo verde
in relazione ai mesi di maggio, giugno, luglio e agosto
2015.
Il preavviso di irregolarità viene inviato tramite Pec
all'intermediario delegato; nel caso in cui l'Inps non
disponga dell'indirizzo Pec, il preavviso viene inviato
all'indirizzo Pec del datore di lavoro o, in mancanza, del
suo titolare/legale rappresentante; in mancanza di indirizzo
Pec, la comunicazione viene spedita all'azienda con
raccomandata. In futuro, il preavviso sarà prima spedito
all'indirizzo Pec del datore di lavoro e, solo in mancanza
dei predetti indirizzi, all'indirizzo Pec dell'intermediario
delegato. Per tale motivo, i datori di lavoro sono pregati
di aggiornare gli indirizzi Pec nell'anagrafica aziendale.
Contatti.
È di tutta evidenza, si legge nella nota di ieri, che la
gestione dei «Contatti» del cassetto previdenziale aziende,
con particolare riferimento alla voce «Durc interno
(regolarità contributiva)», deve essere tempestiva, in
particolare per tutti quei casi in cui la comunicazione
pervenuta dall'azienda/intermediario non fosse esaustiva per
la definizione dell'irregolarità, completa nel contenuto e
prodotta entro la scadenza dei termini utili per la
regolarizzazione.
Pertanto, l'ufficio centrale raccomanda di adottare ogni
soluzione organizzativa e metodologica idonea a favorire la
predisposizione dei puntuali riscontri alle segnalazioni
afferenti al Durc interno pervenute, attraverso il cassetto
previdenziale entro i termini di regolarizzazione fissati
nelle citate Pec (45 gg. dalla ricezione della Pec).
Durc online.
Dal 1° luglio sarà operativo il Durc online che consentirà
di ottenere, in tempo reale, il documento unico di
regolarità contributiva che, peraltro, avrà validità di 120
giorni per tutte le finalità (compresi i lavori privati
dell'edilizia, per i quali la validità oggi è di 90 giorni),
come stabilito dal decreto ministeriale pubblicato sulla
G.U. del 1° giugno
(articolo ItaliaOggi del
24.06.2015). |
VARI:
Part-time, extra orario senza Ccnl. Rifiuto
opponibile per ragioni familiari, di salute o per altra
occupazione.
Jobs act. Il lavoro supplementare, per singole giornate o
periodi più lunghi, può essere richiesto a prescindere
dall’assenso del lavoratore.
Il codice dei
contratti, nella versione disponibile a oggi, apporta poche
ma significative modifiche alla disciplina del part-time.
Dal giorno successivo alla pubblicazione -probabilmente
oggi- del decreto sulla «Gazzetta Ufficiale», cambiano
alcune regole per il lavoro supplementare, cioè il periodo
svolto in aggiunta rispetto all’orario ridotto eventualmente
concordato tra le parti.
La riforma conferma la regola generale secondo cui il lavoro
supplementare può essere richiesto dal datore di lavoro, nel
rispetto dei limiti e delle condizioni fissate dai contratti
collettivi (di qualsiasi livello), anche senza il consenso
del lavoratore.
Questa regola viene tuttavia innovata in più parti. In primo
luogo, si precisa che la richiesta può riguardare non solo
singole giornate, ma anche settimane o mesi. Inoltre viene
regolamenta l’ipotesi di assenza di una disciplina
collettiva. In queste situazioni, il datore di lavoro può
comunque chiedere al dipendente di svolgere una prestazione
aggiuntiva rispetto all’orario ridotto, in misura variabile
fino al 25% delle ore di lavoro settimanale concordate
(nella normativa precedente, in assenza di disciplina
collettiva il ricorso al lavoro supplementare era ammesso
solo previo consenso del lavoratore).
Pur non essendo richiesto il consenso individuale, il
lavoratore può comunque rifiutare di svolgere il lavoro
supplementare in alcune situazioni specifiche: se dimostra
l’esistenza di comprovate esigenze lavorative (per esempio
un’altra occupazione), di salute, familiari oppure di
formazione professionale.
Le ore di lavoro supplementare devono essere compensate con
una una maggiorazione retributiva, pari al 15% della
retribuzione globale di fatto normalmente spettante al
lavoratore su base oraria (nella base di computo rientrano
anche gli istituti retributivi indiretti e differiti).
La legge conferma, inoltre, che nel part-time è consentito
lo svolgimento di lavoro straordinario e rientrano in questa
nozione le ore svolte oltre l’orario normale pieno
applicabile al rapporto di lavoro.
Un’altra innovazione importante riguarda la disciplina delle
clausole elastiche. Si tratta di quegli accordi,
sottoscritti dal lavoratore, che consentono al datore di
lavoro di cambiare l’orario del dipendente, allungando la
sua durata oppure spostando la collocazione della
prestazione.
Una prima innovazione è di carattere lessicale: la
precedente disciplina distingueva tra clausole “elastiche”
e “flessibili”, quella attuale accorpa tutte le
fattispecie nella definizione di clausole “elastiche”.
Tali clausole sono sempre negoziate a livello individuale,
devono essere stipulate in forma scritta e devono rispettare
gli eventuali limiti previsti dai contratti collettivi di
qualsiasi livello applicabili al rapporto.
La vecchia disciplina non consentiva la firma delle clausole
in assenza di regole collettive; la nuova, invece, consente
di stipulare le clausole elastiche anche nei casi in cui non
esiste un contratto collettivo. In questo caso le clausole
possono essere sottoscritte (nel rispetto di alcuni limiti
fissati dalla legge) dalle parti presso le commissioni di
certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi
assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale
cui aderisce (oppure un avvocato o da un consulente del
lavoro).
Una volta sottoscritta la clausola elastica, il datore di
lavoro non deve chiedere ogni volta il consenso del
dipendente per allungare o spostare la prestazione, ma deve
rispettare un termine di preavviso minimo di due giorni
lavorativi e deve riconoscere specifiche compensazioni
(maggiorazioni economiche o riposi), nella misura ovvero
nelle forme determinate eventualmente dai contratti
collettivi.
Il datore di lavoro che utilizza le clausole elastiche, come
per il lavoro supplementare, deve compensare il lavoro
aggiuntivo svolto con una maggiorazione del 15%, calcolata
con i criteri già visti per il lavoro supplementare.
Innovazioni importanti riguardano anche il diritto alla
priorità per la trasformazione in part-time per i parenti di
persone affette da patologie oncologiche e la possibilità di
convertire il congedo parentale in part-time per un periodo
corrispondente (articolo Il Sole 24 Ore del
24.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili, da ottobre in vigore il nuovo Ape.
Ok della Conferenza unificata al dm dello
Sviluppo economico. L'attestato vale 10 anni. Controlli sul
2%.
Dal 1° ottobre entrerà in vigore il nuovo attestato unico di
prestazione energetica degli edifici. L'Ape avrà una durata
temporale massima di dieci anni a partire dal suo rilascio e
sarà aggiornato a ogni intervento di ristrutturazione o
riqualificazione che riguardi elementi edilizi o termici
tali da modificare la classe energetica dell'edificio.
L'Ape dovrà essere redatta da un soggetto abilitato che
dovrà effettuare almeno un sopralluogo presso l'edificio o
l'unità immobiliare, oggetto di attestazione, al fine di
reperire e verificare i dati necessari alla sua
predisposizione. Le regioni e le province autonome al fine
di effettuare i controlli della qualità degli attestati di
prestazione energetica redatti dai certificatori energetici
dovranno definire piani e procedure di controllo che
consentiranno di analizzare almeno il 2% degli attestati
depositati territorialmente ogni anno solare.
Queste le novità contenute nel testo definitivo del
ministero dello Sviluppo economico recante «Linee guida
nazionali per la certificazione energetica degli edifici»
che ha ottenuto il via libera definitivo della conferenza
unificata lo scorso 18 giugno.
Contenuti Ape.
Il nuovo attestato di prestazione energetica dovrà riportare
obbligatoriamente la prestazione energetica globale
dell'edificio sia in termini di energia primaria totale che
di energia primaria non rinnovabile, attraverso i rispettivi
indici. Inoltre dovrà essere indicata la classe energetica,
determinata attraverso l'indice di prestazione energetica
globale dell'edificio (espresso in energia primaria non
rinnovabile), la qualità energetica del fabbricato, ossia la
capacità di contenere i consumi energetici per il
riscaldamento e il raffrescamento (attraverso gli indici di
prestazione termica utile per la climatizzazione invernale
ed estiva dell'edificio) e i valori di riferimento (come i
requisiti minimi di efficienza energetica vigenti). L'Ape
dovrà contenere i consumi energetici non solo per il
riscaldamento invernale ma anche per le attività di
rinfrescamento estivo e dovrà riportare l'emissione di
anidride carbonica e l'energia esportata.
Locazione e vendita.
Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di
locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità
energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo
dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli
indici di prestazione energetica parziali, come quello
riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe
energetica corrispondente. Inoltre verranno inseriti simboli
grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione
ai non tecnici.
Classe energetica.
Le classi energetiche passano da sette a dieci, dalla A4 (la
migliore) alla G (la peggiore). È confermata la validità di
10 anni dell'Ape .
Sanzioni per il certificatore energetico.
Il decreto richiama esplicitamente l'articolo 15 del dlgs
192/2005, relativo alle sanzioni a carico del certificatore
(multa da 700 a 4.200 euro per un ape non corretto), del
direttore dei lavori (multa da 1.000 a 6.000 per la mancata
presentazione dell'ape al comune), del
costruttore/proprietario (multa da 3.000 a 18.000 euro in
caso di mancata redazione dell'ape per edifici nuovi,
ristrutturati, messi in vendita o in affitto).
Sistema informativo sugli attestati di
prestazione energetica.
L'Enea, sentite le regioni, entro 90 giorni dall'entrata in
vigore del decreto, cioè dal gennaio 2016, dovrà realizzare
la banca dati nazionale degli attestati contenente i dati
relativi agli attestati. L'alimentazione del Siape avverrà
annualmente, entro il 31 marzo
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comuni, premi replicabili con verifica. Enti
locali. Le nuove istruzioni Aran sull’utilizzo dei fondi per
la contrattazione decentrata.
I fondi integrativi
per “premiare” la produttività dei dipendenti di Comuni e
Province devono essere legati a progetti che richiedono il
«concreto, diretto e prevalente apporto del personale
dell’ente», possono essere riconosciuti solo a consuntivo,
dopo aver misurato «l’effettivo conseguimento degli
obiettivi ai quali l’aumento è stato correlato» e non
possono essere confermati automaticamente per gli anni
successivi.
Con la
nota 18.06.2015 n. 19932 di prot. firmata dal suo presidente Sergio Gasparrini
l’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta le
amministrazioni nella contrattazione nazionale (congelata
dal 2010 dal blocco che giusto oggi torna sotto l’esame dei
giudici costituzionali), affronta il tema caldissimo dei
fondi per i contratti decentrati, e in particolare dei premi
previsti dall’articolo 15, comma 5, del contratto del 01.04.1999 che regola gli incentivi al personale per
«l’attivazione di nuovi servizi» o «l’incremento di quelli
esistenti».
L’argomento è tornato al centro del dibattito perché
rappresenta uno dei tanti capitoli del caso-Roma, aperto
dopo che lo scorso anno la Ragioneria ha giudicato
illegittimi i premi riconosciuti al personale nel 2008-2013.
Il problema, però, è più generale, come dimostra il
tentativo di “sanatoria” degli integrativi illegittimi
scritto sempre l’anno scorso in un decreto (articolo 4 del
Dl 16/2014) chiamato «salva-Roma ter» ma in realtà
indirizzato a tante amministrazioni come Vicenza, Firenze,
Siena, Reggio Calabria e altri Comuni colpiti dalla
bocciatura degli integrativi da parte degli ispettori della
Ragioneria generale.
Le istruzioni dell’Aran provano insomma a rimettere ordine
in una materia evidentemente sfuggita di mano al sistema dei
controlli. Rispetto alle prime indicazioni, vecchie ormai di
oltre dieci anni, il nuovo documento introduce anche
importanti elementi di flessibilità, in particolare sulla
possibilità di replicare gli incentivi negli anni successivi
alla loro introduzione.
Il problema è spinoso, e deriva dal fatto che il servizio è
«innovativo» solo quando nasce, per cui sulla base di
un’interpretazione rigida delle regole non potrebbe produrre
la replica dei premi quando viene confermato. L’Aran
ribadisce che le risorse integrative non possono essere
«automaticamente stabilizzate», ma possono essere replicate
di anno in anno dopo aver verificato l’effettivo svolgimento
del servizio e del «concreto e prevalente impegno» del
personale che questo comporta. Per esempio, l’ampliamento
della fascia oraria di apertura di un servizio è
«immediatamente verificabile» misurando la presenza di
utenti negli orari ampliati, e quindi l’impegno del
personale.
In ogni caso queste risorse aggiuntive rimangono
variabili, quindi non possono finanziare istituti stabili
come la progressione economica o gli incarichi di posizione
organizzativa. A differenza del passato, però, si permette
di pagare per questa via anche voci diverse dalla
produttività come i turni, quando questi siano collegati
all’aumento del servizio.
L’esperienza recente mostra comunque che il nodo è
rappresentato dai controlli, da attivare prima che arrivino
gli ispettori della Ragioneria a certificare che le regole
sono state sforate. Proprio da qui è nato il problema
sfociato nel «salva-contratti», che ha provato a bloccare i
recuperi individuali (cioè sulle buste paga dei diretti
interessati) negli enti in linea con il Patto di stabilità e
i vincoli complessivi di spesa di personale.
Questa norma,
con la sua zoppicante formulazione, è però già stata
“superata” dai giudici di merito, che in più di un’occasione
hanno deciso il taglio compensativo direttamente sugli
stipendi anziché sui fondi dell’ente: e le circolari
promesse dal Governo per chiarire il ginepraio non sono mai
arrivate.
---------------
le novità
01 REPLICA
I fondi per la produttività non possono essere consolidati
automaticamente, ma possono essere confermati di anno in
anno previa verifica dell’effettivo svolgimento del servizio
02 TURNI
I fondi integrativi possono essere usati anche per voci
diverse dalla produttività, per esempio per i turni, se
questi sono collegati direttamente all’incremento del
servizio. Non possono però finanziare istituti stabili
03 PROGRAMMAZIONE
L’utilizzo dei fondi va disciplinato negli ordinari
strumenti di programmazione
(articolo Il Sole 24 Ore del
23.06.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Parcheggi e strisce blu, via libera alle multe
per i «ritardatari». Codice della strada. Nuove indicazioni
del ministero.
La sosta sulle strisce blu è
«regolamentata» quando il pagamento è previsto solo in
determinate fasce orarie, per alcuni giorni della settimana
(per esempio quelli feriali) o per determinate categorie di
veicoli.
Quando ci sono questi parametri, scritti appunto in un
regolamento comunale, si può affibbiare la multa da 25 euro
agli automobilisti che lasciano la macchina anche oltre il
tempo dal pagamento.
Le nuove indicazioni
arrivano dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
che nella nota 06.05.2015 n. 2074 di prot. modifica
le istruzioni sulla sosta a pagamento e le sanzioni per chi
sfora, tema al centro da anni di uno sterminato dibattito
interpretativo che rappresenta un esempio di scuola del
caotico mondo delle regole italiane.
Tutto nasce dal fatto che le multe per chi tiene l’auto per
troppo tempo (rispetto a quanto ha pagato) sulle strisce blu
sono previste dal Codice della strada «se si tratta di sosta
limitata o regolamentata» (articolo 7, comma 15 del Dlgs
285/1992). Di qui la domanda capitale: quando la sosta è
«regolamentata»?
Un parere del 2010, elaborato dallo stesso ministero, aveva
negato che tale fosse quella sulle strisce blu comunali, e
di conseguenza aveva bloccato la possibilità di sanzionare i
ritardi sulla base del Codice della Strada.
In senso contrario si era espresso, sette anni prima, il
ministero dell’Interno, ma poi gli orientamenti erano stati
coordinati convergendo sulla tesi dei Trasporti. Sul punto è
nato, come spesso capita, un florido contenzioso, che oltre
a un’ampia squadra di giudici di pace aveva impegnato tutti
i livelli di giudizio, su su fino alla Cassazione. In questo
quadro, il comportamento di chi paga un’ora di sosta e poi
lascia l’auto parcheggiata per più tempo si configura come
un’inadempienza contrattuale, che il Comune non può
iscrivere a ruolo secondo le vie ordinarie.
Il problema aveva ovviamente scatenato le proteste dei
sindaci, che dopo un incontro con il Governo nel marzo 2014
erano riusciti a strappare un orientamento diverso contenuto
in una nuova “fonte” normativa: un comunicato. Naturalmente
questo strumento, figlio di un compromesso fra le richieste
degli amministratori e la resistenza ministeriale, non è
bastato a orientare in senso univoco le Prefetture.
Il
Comune di Lecce, allora, è tornato alla carica, ed è
riuscito a ottenere la nuova nota ministeriale che delinea
il concetto di «sosta regolamentata» e la conseguente
applicazione della multa da 25 euro (per chi parcheggia
senza pagare nulla la sanzione parte invece da 41 euro, come
prevede l’articolo 157, comma 8).
La battaglia interpretativa si chiude qui? Difficile, come
riconosce lo stesso sindaco di Lecce, il vicepresidente Anci
Paolo Perrone: «Trattare questi casi come inadempienza
contrattuale significa di fatto rendere impossibile la
riscossione delle somme -sostiene-; la nota ministeriale è
importante, ma serve un chiarimento normativo e speriamo nel
ministro Delrio». Quasi scontata è, sull’altro fronte, una
nuova ondata di battaglie legali (articolo Il Sole 24 Ore del
23.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, è stretta sui controlli. Obbligo di
iscrizione per i trasportatori in conto proprio.
Le indicazioni arrivano dal Comitato
nazionale dell'Albo. Verifiche sulle autodichiarazioni.
Obbligo di iscrizione all'Albo gestori ambientali per tutti
i trasportatori «in conto proprio» (in genere, piccole
imprese che producono miniquantità di rifiuti che
trasportano da soli, senza ricorrere a terzi professionisti)
di rifiuti speciali, anche se assimilati agli urbani, e
avvio di controlli sistematici sulle autodichiarazioni rese
da tutte le categorie di operatori tenuti all'adesione al
registro.
I chiarimenti, insieme all'inaugurazione di una nuova
generale campagna di controlli, arrivano direttamente dal
Comitato nazionale dell'Albo, che con due differenti atti
(circolare e delibera) prosegue nell'attuazione del nuovo
regolamento dell'Albo previsto dal dm Ambiente 03.06.2014
n. 120 (che sostituisce lo storico dm n. 406/1998).
Trasporto in conto proprio.
Con la
nota
29.05.2015 n. 437 di prot. il Comitato nazionale
ha chiarito come tutti i trasportatori dei propri rifiuti
speciali debbano iscriversi all'Albo, anche nel caso in cui
detti residui siano stati assimilati agli urbani.
A
fondamento della precisazione il Comitato nazionale richiama
l'articolo 212, comma 8, del Dlgs 152/2006, a mente del quale
«I produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che
effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri
rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi
che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri
rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta
chilogrammi o trenta litri al giorno ( ) sono iscritti in
un'apposita sezione dell'Albo in base alla presentazione di
una comunicazione».
E sul punto la nuova circolare 437/2015
sottolinea come la citata disposizione del Codice ambientale
non faccia nessuna distinzione tra rifiuti speciali e
rifiuti speciali assimilati agli urbani, non prevedendo di
conseguenza nessuna deroga per questi ultimi. Di
conseguenza, precisa la circolare, detti soggetti devono
iscriversi all'Albo nella relativa ed apposita categoria,
coincidente con la «2-bis» prevista dal dm Ambiente 03.06.2014 n. 120.
A titolo di completezza, si ricorda invece che i
«trasportatori in conto proprio» di differenti quantitativi
di rifiuti speciali pericolosi devono invece iscriversi
all'Albo gestori nella diversa categoria «5». Sempre in
relazione ai rifiuti speciali pericolosi, si ricorda altresì
come non tutti i trasportatori in conto proprio soggiacciono
però all'obbligo di aderire anche al nuovo sistema di
tracciamento telematico dei residui.
Dall'obbligo appaiono
infatti esonerati i citati trasportatori di piccoli
quantitativi, laddove nelle istruzioni pubblicate sul
portale internet ufficiale del Sistri (www.sistri.it), nella
pagina «soggetti obbligati», sotto la voce «Trasportatori in
conto proprio di rifiuti pericolosi» sono indicati
esclusivamente «le imprese che trasportano rifiuti
pericolosi da loro stessi prodotti iscritte all'Albo
nazionale gestori ambientali in categoria 5», dunque, non
quelle identificate nella citata categoria 2-bis.
Controlli su autocertificazioni.
Con la
deliberazione 22.04.2015 n. 1 di prot. (diramata nei primi
giorni di giugno) il Comitato nazionale ha dettato le
istruzioni che le Sezioni locali dovranno seguire per
effettuare controlli a campione sulle autocertificazioni
rese da tutti gli operatori ai sensi degli articoli 46
(dichiarazioni sostitutive di certificazioni) e 47
(dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà) del Dpr
445/2000 al fine dell'iscrizione all'Albo gestori.
Detti
controlli dovranno essere effettuati dagli Uffici dell'Albo
(anche mediante confronto tra i dati dichiarati e quelli in
possesso delle Amministrazioni certificanti) con cadenza
almeno trimestrale su ognuna delle dieci categorie
d'iscrizione previste dal dm 120/2014. Per ogni categoria i
controlli sulle dichiarazioni sostitutive interesseranno
almeno il 10% delle domande di iscrizione e variazioni ed il
30% delle istanze di rinnovo.
Errori sanabili ed imprecisioni non costituenti falsità
saranno riparabili mediante dichiarazioni integrative, gli
altri perseguibili ai sensi del citato dpr 445/2000. Obbligati
all'iscrizione all'Albo sono i soggetti che svolgono
attività di raccolta, trasporto, commercio ed
intermediazione di rifiuti, nonché bonifica dei siti e dei
beni contenenti amianto.
Per la stretta rilevanza che potranno avere sia in sede di
controlli che, dal punto di vista più generale, in relazione
alla legittimità delle attività gestorie, si ritiene utile
ad avviso dello scrivente segnalare agli operatori la
necessità di verificare i propri titoli abilitativi alla
luce delle nuove regole sulla classificazione dei rifiuti in
vigore dallo scorso 01.06.2015.
Da tale data, infatti,
la corretta identificazione dei rifiuti (soprattutto in
relazione alla sussistenza o meno delle loro pericolosità)
deve essere condotta in base alle norme previste dalla
decisione 2014/995/Ue e dal regolamento Ue n. 1357/2014,
recanti rispettivamente il neo Elenco Ue dei rifiuti e i
rinnovati criteri di attribuzione delle caratteristiche di
pericolo ai residui.
Detti provvedimenti, in quanto self executing, sono direttamente applicabili sul territorio
degli stati membri e prevalgono sulle attuali e analoghe
regole nazionali previste rispettivamente dagli allegati D e
I al Titolo I della Parte IV del dlgs 152/2006, regole ancora
in attesa di essere allineate a quelle comunitarie mediante
un decreto ricognitivo allo studio del minambiente
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.06.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Climatizzatori domestici liberalizzati fino a 12
kW. Ma sono possibili restrizioni locali e serve comunque il
libretto impianto.
Impianti. Il decreto Sblocca Italia qualifica come «edilizia
libera» le installazioni minori.
Nessuna
autorizzazione, di base. Per sistemare in casa un
condizionatore fisso, nella stragrande maggioranza dei casi,
non serve alcun particolare via libera amministrativo.
Soprattutto dopo le precisazioni introdotte dal decreto
Sblocca Italia (Dl 133/2014 convertito dalla legge 164/2014),
che ha esteso il raggio d’azione dell’edilizia libera e
semplificato così l’installazione degli apparecchi per il raffrescamento.
Possono essere infatti eseguiti senza alcun titolo
abilitativo gli interventi di manutenzione ordinaria, tra i
quali è espressamente inclusa l’installazione «delle pompe
di calore aria-aria di potenza termica utile nominale
inferiore a 12 kW» (articolo 6, comma 1, lett. a), Dpr
380/2001, il Testo unico dell’edilizia). Di fatto, un’ampia
fascia in cui ricade la quasi totalità dei climatizzatori
residenziali: entro una tale potenza –spiegano gli
operatori– sono infatti ricompresi multisplit fino a
cinque attacchi.
La legge fa comunque salve le prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali, e il rispetto «delle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie,
di quelle relative all’efficienza energetica, nonché delle
disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del
paesaggio».
«Nel proprio regolamento edilizio, il Comune potrebbe ad
esempio prevedere norme specifiche sulle facciate,
richiedendo una comunicazione preventiva e una successiva
all’intervento, che comporta la sistemazione di una unità
esterna», spiega Alberto Bonino, direttore del laboratorio
Agefis. «Una prescrizione tanto più probabile per gli
edifici all’interno del centro storico, dove può esser
necessaria una comunicazione di inizio lavori asseverata da
un tecnico (Cila)».
Occorre perciò sempre verificare, presso lo Sportello unico
edilizia o l’ufficio tecnico della città, i regolamenti
comunali e gli altri provvedimenti emanati dagli enti
locali.
Se l’intervento viene eseguito in una zona sottoposta a
vincolo paesaggistico-ambientale o con un particolare valore
storico-artistico, in particolare, c’è bisogno
dell’autorizzazione paesaggistica o della Soprintendenza.
«Fuori dai casi particolari e dall’edilizia libera,
l’installazione di un condizionatore, in quanto integrazione
di impianti tecnologici e quindi opera di innovazione,
ricadrebbe nella manutenzione straordinaria, per la quale è
richiesta la Cila», aggiunge Bonino.
Il condominio
Il regolamento condominiale di tipo contrattuale può
disciplinare o vietare qualsiasi modifica dell’estetica
dell’edificio, anche sulle parti di proprietà esclusiva. Una
volta verificata l’assenza di questi paletti o divieti,
l’installazione non deve in ogni caso pregiudicare il decoro
architettonico o la sicurezza dell’edificio, né impedire
l’uso della cosa comune da parte degli altri condomini
(articoli 1102, 1122 del Codice civile).
Entro i limiti di legge, è dunque legittimo installare il
corpo esterno sul piano di calpestio del balcone o sulla
facciata dello stabile: meglio se un apparecchio di piccole
dimensioni, che non stravolga l’armonia della facciata
stessa e magari si inserisca in essa, per colore e
posizione, quasi a scomparire (Cassazione, sentenza
12343/2003).
Prima di installare il climatizzatore, se ne deve dare
notizia all’amministratore (in base al nuovo articolo 1122
del Codice civile). Quest’ultimo riferisce in assemblea. In
ogni caso l’assemblea non può vietare le installazioni che
sono già consentite da leggi e regolamenti.
L’installazione
Quando l’intervento è libero da titoli abilitativi, e si
vuol fruire del bonus fiscale del 50% sulle ristrutturazioni
(pompa di calore utilizzabile anche ai fini del
riscaldamento, a integrazione dell’impianto già esistente),
è importante conservare la dichiarazione sostitutiva in cui
si indica la data di inizio lavori e si attesta che gli
interventi realizzati rientrano tra quelli agevolabili(si
veda anche l’articolo accanto).
L’installazione dev’essere realizzata da un tecnico
qualificato, munito del “patentino frigoristi” (la
certificazione può essere verificata sul sito www.fgas.it),
a cui spetta compilare anche il libretto d’impianto: sorta
di carta d’identità che dal 15 ottobre scorso (Dm 10.02. 2014) è obbligatoria anche per i climatizzatori
fissi.
Al di sotto dei 12 kW la legge non prescrive però la
verifica dell’impianto (da effettuare, fino a 100 kW, ogni
quattro anni) e la relativa compilazione del rapporto di
controllo sull’efficienza energetica (a cura del
manutentore). Le sanzioni per chi non rispetta gli obblighi
vanno comunque da 500 a 3mila euro (Dlgs 192/2005).
Ma resta
sempre opportuno verificare la normativa regionale: in
Lombardia, ad esempio, per gli impianti sotto i 12 kW non
serve avere un libretto, mentre Veneto o Emilia Romagna
hanno predisposto proprie modalità di compilazione
specifiche (articolo Il Sole 24 Ore del
22.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI:
Enti locali, pagano i precari. Niente assunzioni nei comuni
in ritardo nei pagamenti.
Il dl (n. 78) arriva in G.U. Salta il rinnovo dei contratti
a termine nelle città metropolitane.
Dead-line al 15 giugno per il riaccertamento straordinario
dei residui.
È questa la data indicata dal testo ufficiale del decreto
«enti locali» (D.L.
19.06.2015 n. 78) finalmente atterrato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 140 di ieri. Non c'è stata, quindi,
l'ulteriore mini-proroga per tenere conto del ritardo nella
pubblicazione del provvedimento.
Nella versione «bollinata»
del provvedimento, inoltre, è saltato il via libera alle
assunzioni a tempo determinato nei comuni che nel 2014 hanno
sforato i tempi di pagamento dei fornitori e negli enti di
area vasta che lo scorso anno hanno non hanno rispettato il
Patto di stabilità interno.
Sul riaccertamento straordinario, dunque, è ora legge
l'attesa proroga del termine scaduto lo scorso 30 aprile dal
dlgs 118/2011 per la ripulitura dei dati contabili
propedeutica all'avvio della nuova contabilità. Non c'è
stato, però, l'aggiornamento della nuova scadenza, che
rimane quella «già scaduta» al 15 giugno indicata nelle
bozze circolate nelle scorse settimane. Non c'è stata,
quindi, l'ulteriore mini-proroga al 30 giugno da taluno
ventilata negli ultimi giorni per tenere conto del ritardo
nella pubblicazione del dl.
La norma si premura anche di
sterilizzare la procedure di commissariamento già avviate
dalle Prefetture nei confronti degli enti ritardatari, ma
precisa che, fino a quando l'operazione di verifica dei
crediti e dei debiti pregressi non sarà completata, le quote
libere e destinate del risultato di amministrazione non
potranno essere utilizzate.
Nella versione finale del testo sono saltate anche le
deroghe al blocco delle assunzioni per consentire le
assunzioni stagionali negli enti che hanno impiegato in
media più di 90 giorni per pagare le fatture (in alcune
bozze il blocco si applicava al 50%), nonché il rinnovo dei
contratti a termine nelle province e nelle città
metropolitane non in regola con i vincoli di finanza
pubblica. Per gli enti di area vasta, inoltre, il limite
alle sanzioni per lo sforamento del Patto 2014 sale dal 2 al
3% delle entrate correnti registrate nell'ultimo consuntivo.
I tempi lunghi della pubblicazione hanno portato anche allo
stralcio della norma che disponeva il rinvio a dicembre
della scadenza per il versamento dell'acconto Imu per i
proprietari dei terreni agricoli colpiti dalla Xylella in
Puglia.
Confermate, invece, le zone franche per le piccole imprese
dell'Emilia-Romagna localizzate nelle aree colpite dal
terremoto del 2012 e dall'alluvione del 2014, anche se
rimane il dubbio sulla portata dell'esenzione per i tributi
locali, che con infelice formulazione viene riferita alle
imposte municipali proprie, per cui bisognerà capire se
comprende anche la Tasi, oltre che l'Imu.
Infine, per definire il riparto del fondo Tasi (si veda
l'altro pezzo in pagina), è stato imposto un passaggio
preliminare in Conferenza stato-città e autonomie locali
(articolo ItaliaOggi del 20.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it) |
APPALTI:
Doppio tetto per ridurre le stazioni appaltanti. Più poteri
all'Anac.
Doppio tetto per le stazioni appaltanti. Con l'obiettivo di
ridurle dalle attuali 36 mila a circa 200. Per gli
affidamenti di importo superiore alle soglie di rilevanza
comunitaria (5,2 milioni per i lavori e 200 mila euro per
gli appalti di servizi e forniture) sarà comunque richiesto
un livello di aggregazione almeno regionale (o di provincia
autonoma).
Mentre, per gli affidamenti di importo superiore a 100 mila
euro ma inferiore alle medesime soglie di rilevanza
comunitaria, i comuni non capoluogo di provincia saranno
obbligati a mettersi insieme dando vita a modelli di
aggregazione subprovinciali «definendo a tal fine ambiti
ottimali territorialmente omogenei e garantendo la tutela
dei diritti delle minoranze linguistiche».
Così prevede
l'emendamento del M5S al ddl delega sulla riforma degli
appalti che ha ricevuto ieri l'ok in prima lettura dal
senato. La modifica è stata introdotta dall'aula di palazzo
Madama, che ha arricchito in modo significativo l'impianto
originario del provvedimento, aggiungendovi ulteriori
criteri di delega.
Tra questi si segnalano il rafforzamento dei poteri
dell'Autorità nazionale anticorruzione, presieduta da
Raffaele Cantone, che potrà arrivare a bloccare le gare in
corso (si veda ItaliaOggi del 18 giugno). Senza dimenticare
l'istituzione dell'Albo dei commissari di gara presso l'Anac,
obbligatorio per tutte le stazioni appaltanti con scelta dei
commissari a sorteggio.
Positive le valutazioni delle categorie professionali
interessate dal provvedimento. A cominciare da Inarcassa, la
cassa di previdenza degli ingegneri e degli architetti. «La
riforma accoglie molte delle osservazioni che la Fondazione
ha indicato come priorità nel corso dell'audizione in
Commissione Lavori Pubblici, tra cui il miglioramento delle
condizioni di accesso al mercato dei servizi di architettura
e di ingegneria ai giovani professionisti, la radicale
limitazione all'appalto integrato, il riferimento alla
promozione della qualità architettonica e a quella tecnica»,
ha commentato Andrea Tomasi, presidente della Fondazione.
«Il nostro plauso», ha proseguito, «va in particolare alle
nuove regole in materia di progettazione che, promuovendo la
qualità architettonica e tecnico-funzionale, restituiscono
centralità alla fase progettuale e decretano lo stop
all'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e
di tutti i servizi di natura tecnica con il criterio del
prezzo più basso o massimo ribasso d'asta». Per il passaggio
alla camera, Tomasi ha auspicato un intervento netto sui
compiti dei dipendenti pubblici, dei liberi professionisti e
delle società di ingegneria, un tema questo «cruciale», ma
purtroppo ancora irrisolto.
Per Armando Zambrano, coordinatore della Rete delle
Professioni Tecniche (Rpt), nonché presidente del Consiglio
Nazionale degli Ingegneri (Cni), la riforma avrebbe potuto
affrontare in modo più significativo il tema
dell'accorpamento delle stazioni appaltanti. Ma soprattutto
avrebbe potuto prendere in considerazione un tema di grande
rilievo per la p.a. ma troppo spesso trascurato quale quello
della progettazione interna alle p.a..
Proprio quella, che,
secondo la stessa ricerca del Centro Studi Cni, determina,
«attraverso un numero spropositato di varianti, il maggior
incremento dei costi rispetto a quelli definiti in fase di
aggiudicazione»
(articolo ItaliaOggi del 20.06.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc online, accesso limitato. Solo i consulenti sono da
subito abilitati alle verifiche.
In una nota della Cnce le regole operative del nuovo sistema
in partenza il 1° luglio.
Conto alla rovescia per il Durc online. Dal 1° luglio il
documento di regolarità contributiva sarà consultabile e
stampabile da internet, accedendo all'apposito sistema
raggiungibile dai portali di Inps e Inail, inserendo il
codice fiscale dell'impresa che si intende verificare. I
consulenti del lavoro, nonostante siano dei soggetti
delegati, sono immediatamente abilitati all'effettuazione
delle verifiche. Per gli altri casi, invece, il sistema di
gestione con delega resta per il momento sospeso.
Lo precisa, tra l'altro, la commissione nazionale paritetica
per le casse edili (Cnce) nella
nota 19.06.2015 in cui anticipa le regole
operative che saranno a breve approvate dal comitato per la
bilateralità.
Il Durc online.
Dal 1° luglio, dunque, si potrà verificare in tempo reale se
un'impresa o lavoratore autonomo è in regola coi contributi
e adempimenti nei confronti di Inps, Inail e cassa edili,
quest'ultima soltanto per le aziende dell'edilizia ossia
quelle che hanno il codice statistico contributivo, Csc,
dell'edilizia.
Consulenti in campo.
La nota della Cnce spiega che i soggetti abilitati alla
verifica, dal 1° luglio, potranno accedere al sistema Durc
online attraverso i portali Inps e Inail inserendo il codice
fiscale dell'impresa interessata. I soggetti abilitati alla
verifica, precisa la Cnce, sono i «soggetti delegati», ossia
chiunque abbia interesse alla verifica, oltre a banche e
intermediari finanziari previa delega.
Quest'ultima, in
particolare, deve essere comunicata agli istituti (Inps o
Inail) dal soggetto delegante e conservata dal soggetto
delegato. Per il momento, tuttavia, il sistema di delega è
sospeso sino a nuove implementazioni informatiche, salvo che
in relazione ai soggetti delegati di cui alla legge n.
12/1979 (primi fra tutti i consulenti del lavoro) i quali,
invece, sono immediatamente abilitati all'effettuazione
delle verifiche.
La richiesta del Durc online.
Il nuovo sistema consente, dai portali Inps e Inail
(funzione «Consulta regolarità»), la verifica dell'esistenza
di un Durc positivo e in corso di validità (120 giorni dalla
prima richiesta), nonché la visualizzazione e acquisizione
in formato Pdf (funzione «Visualizza il documento»).
Se
risulta una precedente richiesta per la quale è in corso
un'istruttoria da parte degli istituti e delle casse edili,
il sistema comunicherà tale informazione e, pertanto, per
ottenere il Durc bisognerà attendere l'esito di tale
istruttoria. Se, invece, non c'è già un Durc in corso di
validità né un'istruttoria in corso, il portale procede a
interrogare le Banche dati nazionali di Inps, Inail e, se
coinvolte, delle casse edili per l'emissione dell'esito
della verifica e, quindi, del Durc.
Imprese edili.
Nel caso la verifica riguardi un'azienda edile, il sistema
interroga la banca dati nazionale delle imprese irregolari (Bni),
gestita dalla Cnce, la quale risponderà in due modi:
a) impresa regolare: quando l'impresa risulta iscritta
nell'anagrafica presente in Bni senza avere in carico
segnalazione di irregolarità da parte delle casse edili; in
tal caso, la pratica è chiusa e la risposta della Bni è di
via libera all'emissione del Durc, cosa che avverrà se
l'impresa risulterà regolare anche per Inps e Inail;
b) pratica in istruttoria: quando l'impresa non risulterà
iscritta nell'anagrafica Bni o saranno state segnalate
irregolarità da parte di una o più casse edili. In tal caso,
la cassa edile coinvolta invierà via Pec al soggetto in
verifica l'invito alla regolarizzazione da effettuare entro
i successivi 15 giorni. Se dopo 28 giorni dalla richiesta
del Durc la fase istruttoria ancora non risulta chiusa, la
Bni procederà alla chiusura «d'ufficio» segnalando l'impresa
come «irregolare» con debito pari a zero
(articolo ItaliaOggi del 20.06.2015). |
APPALTI:
Riforma degli appalti, sì del Senato.
Più poteri all’Anac, alt a deroghe e varianti,
semplificazione - Delrio: primo passo di una vera svolta.
Primo semaforo verde
per la riforma appalti. Il Senato ieri mattina ha approvato
in prima lettura, con 184 sì, due no e 42 astensioni, il
disegno di legge delega
(Atto
Senato n. 1678)
che recepisce le
direttive europee in materia di contratti pubblici.
Si
completa, così, con un voto a larga maggioranza, un lavoro
durato sei mesi, cui hanno partecipato da vicino anche le
opposizioni. Il testo è stato incardinato lo scorso gennaio
presso la commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama. E,
adesso, deve ancora compiere due passaggi importanti: il
vaglio della Camera per la seconda lettura e l’attuazione
attraverso il decreto delegato, al quale stanno già
lavorando i tecnici del Governo. Per il ministero delle
Infrastrutture Delrio «è il primo passo di una svolta vera
per i lavori pubblici». Mentre per il viceministro Riccardo Nencini che ha seguito più da vicino il disegno di legge si
tratta «di una legge che potenzia trasparenza e vigilanza».
Il testo esce radicalmente rivisitato rispetto al Ddl
presentato dall’esecutivo. È entrato con 14 criteri di
delega ed è uscito arrivando a quota 53. Un lavoro di
aggiunte e limature condotto dal relatore Stefano Esposito
(Pd), che è andato avanti fino a ieri, quando sono state
portate le ultime correzioni pesanti. «Consegniamo alla
Camera una legge che unisce legalità e sviluppo del
mercato», ha sottolineato.
Tra le correzioni di ieri spicca il taglio delle stazioni
appaltanti che oggi, secondo le stime più accreditate, sono
almeno 36mila. Vengono introdotti due tetti: sopra i 100mila
euro i Comuni non capoluogo dovranno aggregarsi per fare le
gare, mentre sopra le soglie comunitarie (5,2 milioni per i
lavori e 200mila euro per servizi e forniture) dovranno
passare da centrali di committenza unificate a livello
regionale o di provincia autonoma.
La seconda novità di giornata riguarda il passaggio che
impone alle concessionarie (autostradali e non) di mandare
in gara tutti i lavori, i servizi e le forniture relativi
alla loro gestione. Adesso sono obbligati a mettere sul
mercato una quota del 60%. L’emendamento votato dall’Aula
prevede alcune eccezioni: le nuove regole non valgono sotto
i 150mila euro, nei casi di project financing e per «le
concessioni in essere affidate con procedure di gara ad
evidenza pubblica secondo il diritto dell’Ue».
La terza
novità è relativa alle autostrade. La regola generale è che
non ci saranno proroghe d’ufficio per le concessioni in
essere, con una eccezione: sono escluse le società nelle
quali il controllo sia appannaggio di soggetti pubblici. Una
formulazione che consentirà un prolungamento senza gara per Autovie venete e Autobrennero. Arriva anche una forte
stretta sull’in house. Viene istituito, presso l’Anac, un
elenco di enti controllati da pubbliche amministrazioni ai
quali sarà possibile affidare i contratti senza gara.
Guardando alle novità approvate nelle scorse settimane, il
cuore della riforma è l’estensione e il rafforzamento dei
poteri affidati all’Anac guidata da Raffaele Cantone. Un
passaggio in cui non è difficile intravedere il riflesso
delle tante inchieste sulla corruzione che hanno
attraversato il mondo degli appalti negli ultimi mesi: dal
sistema Incalza-Perotti scoperchiato dalla procura di
Firenze allo scandalo Mafia Capitale.
Con la riforma,
Cantone sarà dotato di poteri di intervento cautelari
(possibilità di bloccare in corsa gare irregolari) e potrà
chiedere alle stazioni appaltanti di annullare le gare in
odore di corruzione prima di attivare i commissariamenti,
mentre il rispetto degli atti di indirizzo al mercato
(bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà vincolante per
amministrazioni e imprese.
In questa chiave va anche letta
la nascita di un albo nazionale dei commissari di gara e il
divieto espresso di prevedere scorciatoie normative,
bypassando o semplificando le gare, per la realizzazione di
grandi eventi. Le deroghe potranno essere ammesse soltanto
in risposta a fenomeni di calamità naturale. Dunque, niente
nuovi casi Expo (con circa 90 deroghe).
Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva
la stretta sulle varianti da cui passa l’aumento dei costi
in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di
rescindere il contratto oltre certe soglie di importo. Anche
le infrastrutture dovranno adeguarsi a costi standard. Con
progetti definiti prima di arrivare al cantiere. La delega
investe sulla valorizzazione della fase progettuale,
vietando le aggiudicazioni al massimo ribasso e limitando la
possibilità di affidare insieme progetto e lavori solo a
casi di particolare rilievo tecnologico.
Inoltre le grandi
opere dovranno essere capaci di guadagnarsi il consenso sul
campo («débat public»). Mentre le imprese saranno
valutate anche sulla base della reputazione guadagnata in
cantiere (rispetto dei tempi e bassa vocazione al
contenzioso) legata al rating di legalità (articolo Il Sole 24 Ore del
19.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attestati energetici, obbligo dal 1° ottobre.
Immobili. Il rinvio nelle linee guida approvate dalla
Conferenza unificata.
L’obbligo di
compilare l’attestato di prestazione energetica degli
edifici in base alle nuove linee guida scatterà il 1°
ottobre prossimo.
Lo ha deciso ieri la Conferenza unificata, che dopo un lungo
lavoro di confronto e limatura ha dato il via libera
definitivo allo schema di decreto sulle modalità per la
certificazione in edilizia, in attuazione della direttiva
2010/31/Ue e degli schemi di relazione tecnica di progetto.
L’ultima data proposta dal ministero dello Sviluppo
economico era il 1° agosto: alla fine, però, si è preferito
accogliere almeno in parte la richiesta avanzata dalle
Regioni, con la motivazione di consentire ai tecnici
abilitati al rilascio dell’Ape di prendere confidenza con i
nuovi software. Il decreto, comunque, dovrà essere
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale entro il 28 giugno, pena
la mancata chiusura della procedura di infrazione aperta
dall’Ue a carico dell’Italia e l’impossibilità per il nostro
Paese di utilizzare i fondi strutturali della programmazione
2014-2020.
Stessa situazione vale anche per il parallelo decreto sui
requisiti minimi di efficienza energetica per gli immobili,
che ha avuto il «via libera» della Conferenza il 25 marzo,
ma che non è ancora stato pubblicato. Anche per questo,
l’entrata in vigore (fissata al 1° luglio) potrebbe slittare
a inizio ottobre.
Sotto l’aspetto pratico, la grande novità in arrivo con le
linee guida varate ieri, è che da ottobre tutte le Regioni
(con l’eccezione delle Province autonome) utilizzeranno uno
stesso sistema per classificare la performance energetica
dell’edificio. E questo nonostante, sulla carta, la clausola
di cedevolezza lasci comunque liberi i territori di agire
con propri sistemi locali a patto di aver recepito con atti
propri la direttiva comunitaria.
«Alla fine ha prevalso una
scelta di omogeneità –commentano dallo Sviluppo economico–
che va nella direzione di offrire ai proprietari di casa e
agli acquirenti un’unica scala di confronto, comparabile, in
tutta Italia» (articolo Il Sole 24 Ore del
19.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Efficienza energetica doc. Progettisti obbligati
alla relazione tecnica. IMMOBILI/ Le
regole del MiSe entrano in vigore dal primo agosto.
Il progettista o i progettisti, nell'ambito delle rispettive
competenze edili, impiantistiche termotecniche, elettriche e
illuminotecniche, dovranno inserire i calcoli nella
relazione tecnica di progetto attestante la rispondenza alle
prescrizioni per il contenimento del consumo di energia
degli edifici, che il proprietario dell'edificio, o chi ne
ha titolo, deve depositare presso le amministrazioni
competenti, in doppia copia, contestualmente alla
dichiarazione di inizio dei lavori complessivi o degli
specifici interventi proposti, o alla domanda di concessione
edilizia.
Queste le istruzioni contenute nel nuovo decreto MiSe in
materia di efficienza energetica degli edifici che ha
ottenuto ieri il via libera della conferenza unificata.
Il
provvedimento fornisce al progettista le indicazioni per
compilare la relazione tecnica di progetto attestante la
rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del
consumo di energia degli edifici e dei relativi impianti
termici. L'entrata in vigore di questo decreto è stata
fissata al 01.08.2015.
Nello specifico il decreto
tecnico fornisce ai progettisti una bussola sui dati (e
come) da inserire relativamente a elementi edili, termotecnici, illuminotecnici; e come poi debbano eseguire i
calcoli e le verifiche. In modo da redigere poi la relazione
tecnica di progetto che attesta l'effettiva rispondenza alle
prescrizioni per il contenimento del consumo di energia
degli edifici e dei relativi impianti termici.
Il decreto
sulla relazione tecnica è un adempimento previsto dal dlgs
19.08.2005 (articolo 8 comma 1), cioè sul decreto che
recepisce la direttiva 2010/31/Ue sulle prestazioni
energetiche degli edifici. La relazione del progettista, non
è dovuta in caso di sostituzione di generatori di calore
dell'impianto di climatizzazione avente potenza limitata,
inferiore alla soglia prevista dall'articolo 5, comma 2,
lettera g), del dm n. 37/2008.
Inoltre, in caso di edifici
di nuova costruzione o soggetti a ristrutturazione
importante, nell'ambito della relazione dovrà essere
effettuata una valutazione della fattibilità tecnica,
ambientale ed economica per l'inserimento di sistemi
alternativi ad alta efficienza, tra i quali sistemi di
fornitura di energia rinnovabile, cogenerazione,
teleriscaldamento e teleraffrescamento
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2015). |
APPALTI: Nuove
regole per gli appalti. In house precluso ai concessionari.
No al massimo ribasso. Il senato ha
dato il primo ok al ddl di riforma. Fondo per la
progettazione negli enti.
Vietati gli affidamenti in house nel settore delle
concessioni autostradali, divieto per il contraente generale
di svolgere la direzione dei lavori. Fondo per la
progettazione degli enti locali. Albo dei commissari di gara
scelti dall'Autorità nazionale anticorruzione. Eliminazione
del prezzo più basso nella scelta dei progettisti,
affidamento dei lavori sulla base del progetto esecutivo,
riduzione del numero delle stazioni appaltanti, revisione
del sistema di qualificazione delle imprese e introduzione
dei criteri reputazionali.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo del disegno
di legge delega (Atto
Senato n. 1678) approvato ieri dall'aula del senato con 184
voti favorevoli, due contrari e 42 astensioni. Adesso il
testo passa all'esame della camera, che dovrebbe vararlo
entro breve in modo da uscire con la pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale entro la pausa estiva.
Uno dei nodi di maggiore rilievo politico definito ieri
dall'aula riguarda la disciplina degli appalti dei
concessionari. La norma varata ieri prevede che per tutti i
concessionari che non sono stati scelti con gara europea
scatta l'obbligo di affidare a terzi lavori, forniture e
servizi, senza più la possibilità di ricorrere a società in
house. soltanto per le nuove concessionarie scelte con gara
sarà possibile utilizzare società in house partecipate al
100%.
Il provvedimento chiarisce anche che la scelta dei
commissari di gara spetterà all'Anac che dovrà fornire
direttamente i nominativi alle stazioni appaltanti che non
potranno scegliere neanche a sorteggio. È stato poi
introdotto un fondo rotativo per finanziare le progettazioni
degli enti locali così da superare i vincoli di natura
contabile che speso non consentono di finanziare un progetto
senza la completa copertura dell'opera.
Confermate le norme che vietano il massimo ribasso come
criterio di aggiudicazione dei servizi di ingegneria e
architettura e le limitazione all'utilizzo dell'appalto
integrato, che sarà ammesso soltanto in presenza del 70% di
lavori complessi.
I contenuti del provvedimento sono stati commentati a caldo
nel convegno organizzato dall'Oice, l'associazione delle
società di ingegneria, sulla riforma degli appalti pubblici
tenutosi all'Ara Pacis di Roma. Riccardo Nencini,
viceministro alle infrastrutture, ha affermato: «Non ricordo
una legge delega così dettagliata che sia stata approvata
sostanzialmente all'unanimità, a parte l'astensione del
Movimento cinque stelle. Se avessimo avuto queste norme
approvate, oggi la scalata a Mafia capitale sarebbe stata
molto più difficile. La scrittura dei decreti è quasi
obbligata e non consentirà elusioni da parte del governo e
genericità sulle norme attuative.» Molto soddisfatto anche
il ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, secondo
cui «si tratta di una svolta vera nel nostro sistema dei
lavori pubblici, che porta semplificazione, legalità e
certezza nella esecuzione».
Esulta anche il relatore del provvedimento Stefano Esposito:
«È per me motivo di rallegramento che su un tema così
diviso non ci sia stato un voto contrario in aula. È un
fatto positivo e politicamente rilevante, così come la
sintonia con il governo. Adesso la responsabilità più
importante spetta al governo affinché non ci siano
interpretazioni che tendano a dare rilievo ai micro
interessi. Si andrà alla riduzione a 200 stazioni
appaltanti, si imporranno le gare ai concessionari non
scelti in gara mettendo la parola fine all'in house e
liberando almeno 800 milioni di lavori ogni anno, si
valorizza molto la centralità del progetto con il divieto di
massimo ribasso nelle gare di progettazione»
Per Michele Corradino, consigliere Anac, «è essenziale
andare verso un'accurata programmazione e progettazione per
evitare varianti e riserve; per parte nostra ci impegneremo
a svolgere l'importante ruolo che la legge ci assegna».
L'avvocato Antonella Manzione, capo ufficio legislativo
della presidenza del consiglio ha evidenziato come si tratti
di «una delega molto dettagliata e che nella sua attuazione
occorrerà rispettare il divieto di goldplating (ossia
l'introduzione, in sede di recepimento di direttive europee,
di adempimenti ed oneri ulteriori rispetto a quelli definiti
dal regolatore comunitario) andando verso un codice snello e
semplificato rispetto ad oggi»
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Poliziotti provinciali in stallo. Tempi lunghi
per il trasferimento presso i vigili urbani. Il
decreto enti locali (oggi in G.U.) non prevede soluzioni
sulla gestione del personale.
Tempi lunghi per il trasferimento degli appartenenti alla
polizia provinciale presso i corpi di polizia municipale e
finanziamenti troppo esigui per il subentro delle regioni
nella gestione dei servizi per il lavoro.
Le bozze del «decreto enti locali», atteso oggi in Gazzetta
Ufficiale (sarà il
D.L. 19.06.2015 n. 78), non lasciano intravedere
nessuna soluzione realmente efficace e, comunque, rapida
alla situazione delicatissima della gestione del personale
delle province.
Polizia provinciale. Le indicazioni del decreto enti locali
sulla polizia provinciale nella sostanza aggiungono ben poco
al regime vigente. Si prevede che il personale dei corpi di
polizia provinciale transiti «nei ruoli degli enti locali
per lo svolgimento delle funzioni di polizia municipale».
L'unico elemento di «novità» della disposizione
consisterebbe, tuttavia, nella specificazione normativa che
i dipendenti dei corpi di polizia provinciale non sono
«bloccati» nel prestare servizio presso le province, in
attesa dell'impalpabile riforma delle forze di polizia. Il
decreto, dunque, in questo modo corregge l'interpretazione
fornita dalla circolare 1/2015, secondo la quale, invece, i
circa 3 mila dipendenti delle polizie provinciali non
avrebbero potuto partecipare alle procedure di mobilità.
Tuttavia, il testo delle bozze di decreto enti locali lascia
fermo quanto previsto dall'articolo 1, comma 89, della legge
190/2014. Dunque, il trasferimento dei componenti della
polizia provinciale dovrebbe essere comunque subordinato
alle leggi con cui le regioni riordineranno le funzioni.
Sicché, i tempi per giungere ai trasferimenti si rivelano
estremamente lunghi, considerando l'inerzia delle regioni,
che si trascina da mesi.
La bozza di decreto, ancora, stabilisce che finché i comuni
non abbiano integralmente assorbito i dipendenti dei corpi
di polizia provinciale, non potranno assumere, a pena di
nullità «personale con qualsivoglia tipologia contrattuale
per lo svolgimento di funzioni di polizia locale, fatta
eccezione per le esigenze di carattere stagionale come
disciplinate dalle vigenti disposizioni». Ma, l'articolo 1,
comma 424, della legge 190 era già chiaro nel disciplinare
ciò.
Poco innovativa anche la previsione, che nei testi circolati
appare e scompare, secondo la quale il transito del
personale dei corpi di polizia provinciale potrebbe avvenire
sì nei limiti della dotazione organica e della
programmazione triennale dei fabbisogni, ma «in deroga alle
vigenti disposizioni in materia di limitazioni alle spese ed
alle assunzioni di personale, garantendo comunque il
rispetto del patto di stabilità interno nell'esercizio di
riferimento e la sostenibilità di bilancio».
Di fatto, si estende la deroga ai tetti di spesa, già
comunque normata dal comma 424 della legge 190/2014.
Servizi per il lavoro. Le bozze di decreto cercano di
superare le censure che la Ue muoverebbe all'attuazione del
comma 429 della legge 190/2014. Esso prevede l'utilizzo
dell'anticipazione di 60 milioni del fondo di rotazione per
la formazione professionale gestito dal ministero del lavoro
a valere sul Fondo sociale europeo, giustificata solo per il
pagamento degli stipendi del personale provinciale addetto
ai centri per l'impiego. Non è un caso che nessuna regione
abbia fatto richiesta di utilizzare tali fondi.
La soluzione di ripiego è allora giustificare l'impiego dei
fondi europei allo scopo di garantire il livello essenziale
delle prestazioni in materia di servizi e politiche del
lavoro. A tale scopo, le regioni dovrebbero stipulare con lo
stato una convenzione, per effetto della quale il ministero
del lavoro metterebbe a disposizione 70 milioni in misura
proporzionale al numero dei lavoratori direttamente
impiegati nei servizi per il lavori, come anticipazione del
fondo di rotazione per la formazione professionale.
Tuttavia, c'è da osservare che i 140 milioni in due anni non
coprono il fabbisogno complessivo della spesa del personale
provinciale addetto ai servizi per il lavoro, per il quale
la spesa è di circa 250 milioni, cui sono da aggiungere
altri 570 milioni circa per il funzionamento dei servizi. Le
regioni, dunque, dovrebbero addossarsi una spesa di circa
630 milioni complessivi annui.
Come, poi, 70 milioni, non aggiuntivi alla spesa complessiva
possano assicurare il rispetto dei livelli essenziali delle
prestazioni che nemmeno la spesa attuale complessiva dei
servizi per il lavoro, una delle più basse d'Europa, è tutto
da dimostrare
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2015). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI - VARI:
Stop alle multe da autovelox: le verifiche per cittadini e
polizia. Dopo la
Consulta. Cosa cercare sul verbale, la segnaletica e i
termini.
Che ne sarà delle multe da autovelox? E che possono fare
le decine di migliaia di cittadini con un pagamento o un
ricorso pendente?
Dopo la
sentenza
18.06.2015 n. 113 della Corte costituzionale (si vedano i servizi
pubblicati sul Sole 24 Ore di ieri) che ha dato uno stop
agli apparecchi non sottoposti a controlli periodici -di
norma quelli in uso alle pattuglie- che ne garantiscano
l’esatto funzionamento occorre qualche “istruzione per
l’uso”.
Prima di tutto per i cittadini destinatari delle sanzioni
per violazione dei limiti di velocità. E in secondo luogo
anche per le forze dell’ordine che utilizzano le
“macchinette” incriminate.
Per i multati la prima mossa è quella di verificare la
legittimità di rilevazione dell’infrazione: va fatto,
quindi, un controllo di natura formale. Il verbale, in
assenza di contestazione immediata, deve essere notificato
entro 90 giorni, pena l’estinzione della violazione.
Inoltre, secondo una sentenza del Tribunale di Piacenza
datata 8 giugno 2013, i verbali per eccesso di velocità
dovrebbero contenere espressa menzione della presenza a
distanza regolamentare della segnaletica di preavviso. La
segnalazione preventiva del controllo, sia esso mobile (con
tele laser) o con apparecchiature fisse automatiche, è
sempre verificabile dal presunto trasgressore perché deve
essere ben visibile e avvistabile dal conducente.
È poi chiaro che il problema della “taratura” (cioè il
controllo) dei misuratori è destinato a riverberarsi sui
ricorsi: in assenza di taratura periodica, il verbale dovrà
essere archiviato. Abbiamo già rilevato ieri che -di norma- gli autovelox automatici sono controllati (quindi niente
ricorso) mentre latitano le verifiche per quelli mobili
utilizzati dalle forze dell’ordine o delle polizie locali.
Quindi, per vedere se l’apparecchio utilizzato è stato
sottoposto a verifica occorre cercare sul verbale se era o
no presente una pattuglia. Se c’era, in qualche caso il
verbale scioglie comunque i dubbi perché attesta il
controllo dello strumento. Altre volte occorre invece
chiedere al corpo di polizia.
Passando agli obblighi delle forze dell’ordine che si
trovano a rilevare e sanzionare gli eccessi di velocità, il
primo è quello di predisporre e controllare sia la
segnaletica relativa al limite di velocità, sia quella di
preavviso della postazione di controllo (posizionata in
maniera ben visibile) e rispettare le previste distanze, in
modo che il conducente possa adeguare la velocità del
veicolo; la preventiva informazione mediante segnaletica
costituisce un requisito di legittimità della contestazione
(Cassazione civile n. 14514/2009).
A seguito della sentenza della Consulta n. 113, in assenza di
una normativa generale, gli organi di polizia che utilizzano
le apparecchiature devono procedere a una verifica degli
autovelox almeno annuale sulla base di quanto stabilito dai
diversi decreti di omologazione, che rimandano al manuale di
istruzioni fornito dalle aziende produttrici.
Sarà di conseguenza opportuno tenere un registro dei
controlli effettuati periodicamente sull’apparecchiatura,
con particolare cura in riferimento alla manutenzione e
taratura; riportare sul verbale di violazione la data di
taratura sarebbe il massimo della trasparenza dell’azione
amministrativa, oltre a evitare una nutrita serie di
richieste di informazioni sull’efficienza dei misuratori e
ricorsi contro i verbali.
Ma l’intervento della Corte costituzionale, può avere anche
risvolti di maggior portata. Infatti, scorrendo la
motivazione della sentenza, emerge con chiarezza che
un’interpretazione costituzionalmente corretta dell’articolo
45 del Codice della strada postula una normativa, seppure di
secondo grado, uniforme per tutte le apparecchiature
finalizzate al delicato compito di verificare la velocità di
percorrenza dei veicoli.
Affidarsi ai manuali di istruzione,
modellati evidentemente su esigenze di produzione, sembra
abbastanza riduttivo. Per fugare ogni dubbio, sarebbe
auspicabile un intervento normativo (articolo Il Sole 24 Ore del
20.06.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Tutti gli autovelox vanno tarati. Anche se
utilizzati alla presenza di una pattuglia.
La Corte costituzionale ha bocciato parte
dell'art. 45 del codice della strada.
Tutti i misuratori elettronici della velocità dei veicoli
devono essere sottoposti a verifica di funzionalità o
taratura periodica. Anche se gli strumenti vengono
utilizzati con la presenza della pattuglia.
Lo ha chiarito definitivamente la Corte costituzionale con
la
sentenza
18.06.2015 n. 113 che dichiara la parziale
illegittimità dell'art. 45 del codice stradale.
Un automobilista incorso nei rigori dell'autovelox, convinto
sostenitore della necessità della taratura e delle verifiche
periodiche degli strumenti di controllo del traffico, ha
incassato una serie di sconfitte arrivando con le doglianze
fino ai giudici del Palazzaccio che hanno finalmente accolto
le sue indicazioni.
Secondo i giudici di merito nessuna normativa richiede
espressamente l'obbligatorietà della taratura periodica
degli strumenti autovelox.
In pratica ai vigili elettronici non si applica la legge
273/1991 poiché tale normativa riguarda soltanto i controlli
metrologici effettuati su apparecchi di misura di tempo,
distanza e massa. In sostanza la materia dei misuratori di
velocità trova già una propria disciplina oltre che
nell'art. 45 del codice stradale anche nel dm 29.10.1997 il quale dispone che gli organi di polizia stradale
interessati all'uso delle apparecchiature per l'accertamento
dell'osservanza dei limiti di velocità sono tenuti a
rispettare le modalità di installazione e di impiego
previste nei manuali d'uso, escludendosi, perciò, la
necessità di un controllo periodico finalizzato alla
taratura dello strumento di misura se ciò non è
espressamente richiesto dal costruttore nel manuale d'uso
ovvero nel decreto di approvazione.
A parere degli Ermellini questa interpretazione è di dubbia
legittimità costituzionale perché finisce per avallare un
risultato incredibile. «Quello per cui una bilancia di un
mercato rionale è soggetta a verifica periodica della
taratura, nel mentre non lo è una complessa apparecchiatura,
come quella per la verifica della velocità, che svolge un
accertamento irripetibile e fonte di gravi conseguenze per
il cittadino».
La Corte costituzionale ha accolto questa interpretazione.
Non è ragionevole pensare che uno strumento elettronico per
il controllo della velocità possa essere utilizzato a
distanza di anni senza alcun controllo tecnico di
conformità, specifica la sentenza. A prescindere dall'uso in
modalità automatica o con la presenza della pattuglia.
Qualsiasi strumento di misura, prosegue il collegio, è
soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e quindi a
variazioni dei valori misurati per naturale invecchiamento e
usura dei componenti elettronici e meccanici.
In buona sostanza il controllo di conformità degli strumenti
autovelox deve essere costante durante tutto l'arco
temporale di impiego dei misuratori. L'omologazione e la
taratura periodica dei misuratori di velocità sono pertanto
fondamentali per la certezza degli accertamenti e dei
rapporti giuridici conseguenti
(articolo ItaliaOggi del 19.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non
occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi
dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo
presente che ciò che appare necessario è che al privato sia
data la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l'adozione dell'ordine in parola.
---------------
La sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio
comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e
della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7,
terzo comma, L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero
organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso
in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso.
Pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si
verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione
delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate
dall'abuso.
9. L’appello principale è fondato nella misura in cui
evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha
rilevato una lesione del diritto di partecipazione
procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato
che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo
Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez.
II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049)
secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di
opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n.
241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che
appare necessario è che al privato sia data la possibilità
di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che
preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in
parola”.
---------------
10. L’appello incidentale proposto degli originari
ricorrenti è in parte inammissibile ed in parte fondato.
Sotto il primo profilo deve rilevarsi che il generico
richiamo ivi contenuto ai motivi non esaminati dal primo
giudice non è sufficiente a devolverne la cognizione al
giudice d’appello, essendo invece necessaria una loro
puntuale rappresentazione, sicché in questa parte l’appello
incidentale è inammissibile.
L’unica doglianza non esaminata dal TAR, che può essere
conosciuta dall’odierno giudicante è, quindi, quella
relativa alla denunciata illegittimità del provvedimento
impugnato nella parte in cui dispone di acquisire al
patrimonio del comune l’intero immobile e l’area di sedime.
La censura in questione deve ritenersi fondata: infatti, la
sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale
della struttura edilizia abusivamente realizzata e della
relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7 terzo comma
L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo
edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui
l'abuso riguardi solo una parte dello stesso; pertanto, in
detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei
limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti
dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 16, comma 1, del T.U. n. 380 del 2001, “il
rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione”.
Questo significa che il pagamento degli oneri contributivi
rappresenta il contenuto di un’obbligazione accessoria,
posta a carico di chi abbia (già) ottenuto un titolo
edilizio. Una volta adempiuto al pagamento, al privato
istante non resta quindi che procedere al ritiro materiale
della medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.2014 n.
2434, secondo cui l’obbligazione sorge con il rilascio del
titolo ampliativo ed è a tale momento che occorre avere
riguardo per la determinazione dell’entità del contributo).
---------------
A ciò si aggiunga che, com’è noto, a seguito delle
innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3,
del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in legge 12.07.2011 n.
106, in omaggio alla regola generale di semplificazione
amministrativa codificata nell’art. 20 della legge
07.08.1990 n. 241, è stato espressamente esteso al
procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime
del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in
ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la
definizione del procedimento di rilascio del titolo
edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso
di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza
che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali
sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni
dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di
permesso di costruire deve intendersi formato il titolo
abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U.
06.06.2001 n. 380.
Ed allora, anche a non volersi attribuire alla nota
18.03.2013 n. 12556 (con cui il ricorrente è stato invitato
a pagare gli oneri concessori) valore e significato di
provvedimento di rilascio del titolo in conformità alla
domanda avanzata, è evidente che al 19.11.2014 –data di
adozione del provvedimento di rigetto– era ampiamente
decorso il termine di formazione del silenzio-assenso,
decorrente dal 06.06.2014 –data di presentazione delle
integrazioni progettuali–, non risultando in atti né
l’esistenza di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali
sull’area, né l’adozione di una “motivata risoluzione del
responsabile del procedimento” di particolare complessità
dell’affare, ai fini del raddoppio dei termini ex comma 7.
Va pertanto dichiarato illegittimo l’atto con cui il comune
ha negato il rilascio del titolo edilizio dopo la sua
formazione tacita, potendo, in tale ipotesi, essere adottato
soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove
sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di
atti di secondo grado, da accertarsi con le stesse forme e
con le stesse modalità procedimentali previste per
l’adozione dell’atto da annullare.
... per l'annullamento:
- della nota 16.05.2014 n. 23161, con cui il comune di
Corigliano Calabro ha disposto la sospensione interlocutoria
del procedimento amministrativo volto all’ottenimento di un
permesso di costruire per la realizzazione di un edificio a
destinazione mista, residenziale e commerciale, in contrada
San Francesco
- del provvedimento 19.11.2014 n. 54974, recante il rigetto
della domanda di permesso di costruire;
...
Col ricorso introduttivo del giudizio, la ditta istante
impugna, per violazione di legge ed eccesso di potere, la
nota 16.05.2014 n. 23161, con cui il comune di Corigliano
Calabro, in seguito ad una diffida inoltrata dal
proprietario di una porzione di terreno limitrofa che
lamentava una questione di confini, ha disposto la
sospensione interlocutoria del procedimento amministrativo
volto all’ottenimento di un permesso di costruire per la
realizzazione di un edificio a destinazione mista,
residenziale e commerciale, in contrada San Francesco.
Il comune intimato si è costituito per resistere.
...
Sulla base di tale premesse, parte ricorrente sostiene per
un verso che, al momento del provvedimento di diniego, il
procedimento edilizio si era oramai positivamente concluso
con la comunicazione ed il pagamento degli importi dovuti
per oneri concessori e, per altro verso, che non sussiste
dubbio circa la natura di lotto intercluso del proprio
fondo, avendo ciò costituito oggetto di un parere favorevole
della regione Calabria, reso su precisa richiesta del
comune.
Tanto esposto, occorre precisare che, ai sensi dell’art. 16,
comma 1, del T.U. n. 380 del 2001, “il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Questo significa che il pagamento degli oneri contributivi
rappresenta il contenuto di un’obbligazione accessoria,
posta a carico di chi abbia (già) ottenuto un titolo
edilizio. Una volta adempiuto al pagamento, al privato
istante non resta quindi che procedere al ritiro materiale
della medesima (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.05.2014 n.
2434, secondo cui l’obbligazione sorge con il rilascio del
titolo ampliativo ed è a tale momento che occorre avere
riguardo per la determinazione dell’entità del contributo).
A ciò si aggiunga che, com’è noto, a seguito delle
innovazioni apportate dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 3,
del d.l. 13.05.2011 n. 70, convertito in legge 12.07.2011 n.
106, in omaggio alla regola generale di semplificazione
amministrativa codificata nell’art. 20 della legge
07.08.1990 n. 241, è stato espressamente esteso al
procedimento di rilascio del permesso di costruire il regime
del silenzio-assenso, fatte salve le deroghe previste in
ipotesi di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Sicché, una volta inutilmente decorso il termine per la
definizione del procedimento di rilascio del titolo
edilizio, pari a 90 o 100 giorni (ossia 60 giorni per la
conclusione dell’istruttoria più 30 o, in caso di preavviso
di rigetto, 40 giorni per la determinazione finale), senza
che sia stato opposto motivato diniego, salvo eventuali
sospensioni dovute a modifiche progettuali od interruzioni
dovute ad integrazioni documentali, sulla domanda di
permesso di costruire deve intendersi formato il titolo
abilitativo tacito, ai sensi dell’art. 20, comma 8, T.U.
06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
29.05.2014 n. 2972).
Ed allora, anche a non volersi attribuire alla nota
18.03.2013 n. 12556 (con cui il ricorrente è stato invitato
a pagare gli oneri concessori) valore e significato di
provvedimento di rilascio del titolo in conformità alla
domanda avanzata, è evidente che al 19.11.2014 –data di
adozione del provvedimento di rigetto– era ampiamente
decorso il termine di formazione del silenzio-assenso,
decorrente dal 06.06.2014 –data di presentazione delle
integrazioni progettuali–, non risultando in atti né
l’esistenza di vincoli ambientali, paesaggistici e culturali
sull’area, né l’adozione di una “motivata risoluzione del
responsabile del procedimento” di particolare
complessità dell’affare, ai fini del raddoppio dei termini
ex comma 7.
Va pertanto dichiarato illegittimo l’atto con cui il comune
ha negato il rilascio del titolo edilizio dopo la sua
formazione tacita, potendo, in tale ipotesi, essere adottato
soltanto un provvedimento di ritiro in autotutela, ove
sussistano gli altri presupposti richiesti per l’adozione di
atti di secondo grado (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
29.05.2014 n. 2972; TAR Sicilia, Catania, 07.04.2005 n.
572), da accertarsi con le stesse forme e con le stesse
modalità procedimentali previste per l’adozione dell’atto da
annullare (cfr. TAR Calabria, Reggio Calabria, 06.04.2000 n.
304)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 17.06.2015 n. 1095 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, niente tempi minimi sulle certificazioni di
qualità. Consiglio di Stato. Contrario al Codice appalti
richiedere il possesso «lungo» dei requisiti.
In tema di requisiti di
partecipazione alle gare, è illegittima la lex specialis
che, a garanzia del servizio, chieda alle imprese
concorrenti un tempo minimo nel possesso delle
certificazioni di qualità poiché tale clausola non è
prevista nelle cause di esclusione fissate dal Codice degli
appalti pubblici (Dlgs n. 163/2006).
L’ha chiarito il
Consiglio di Stato nella
sentenza 15.06.2015 n. 2957, depositata dalla V
Sez..
I giudici hanno accolto il ricorso di una società contro la
revoca di un appalto comunale per il servizio di raccolta
integrata dei rifiuti. L’impresa, già aggiudicataria in via
definitiva, aveva perso la gara -prima aperta solo a due
aziende e poi annullata dal Comune per un futuro confronto
concorrenziale- per non aver dimostrato il possesso da oltre
un triennio della certificazione di qualità riguardo agli
standard del «sistema di gestione ambientale» (Uni En
Iso 14001:2004) come richiesto dal bando.
Per la ricorrente, la revoca è nulla poiché la clausola su
tali atti non rientra nei dettami sulla «tassatività delle
cause di esclusione» fissati dal Codice appalti (comma
1-bis, articolo 46) per cui, in particolare, si è esclusi
«in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste
dal presente Codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l’offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte».
Accogliendo il ricorso, il collegio ha spiegato che «attraverso
questa previsione è stato introdotto un requisito speciale
e, conseguentemente, una causa di esclusione dalla gara in
caso di sua mancanza, non conforme al principio di
tassatività sancito dall’articolo 46, comma 1-bis, del
Codice dei contratti pubblici».
Si è poi rilevato come tale clausola sia stata ammessa per
«individuare concorrenti che abbiano dato prova di aver
operato da tempo come soggetti pienamente idonei e ben
organizzati» (Consiglio di Stato, sentenza n. 4759/2008) ma
solo perché non era ancora in vigore il principio di “tassatività”
introdotto nel Codice appalti nel 2011 dal cosiddetto “decreto
sviluppo” (comma 2, lettera d, articolo 4, Dl n.
70/2011, convertito in legge n. 106/2011).
Nella sentenza si è quindi affermato che ormai «la
previsione di un periodo temporale non risponde ad effettive
esigenze dell’amministrazione di garanzia di qualità del
servizio, poiché le stesse sono comunque assicurate dal
possesso della certificazione in sé».
Nel caso di specie, all’azienda è stato riconosciuto il
danno da mancato utile poiché «immediatamente e
direttamente conseguente ex articolo 1223 Codice civile
all’ingiusta perdita del contratto a sua volta derivato
dall’illegittimo annullamento dell’aggiudicazione». Per
la liquidazione, in assenza di «puntuali indicazioni»
sull’utile netto non conseguito, si sono definiti i criteri
in base ai quali la Pa debitrice dovrà proporla entro un
termine (comma 4, articolo 34, Dlgs n. 104/2010, Codice
processo amministrativo, «condanna sui criteri»)
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.06.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
21-septies della legge 241/1990 prevede che “è nullo il
provvedimento che manca degli elementi essenziali”.
In assenza di una esplicita indicazione legislativa degli
elementi essenziali del provvedimento può aderirsi a quella
giurisprudenza secondo cui “L'atto amministrativo nullo è
quello addirittura privo degli elementi di identificazione
strutturale. Gli elementi essenziali cui fa riferimento
l'art. 21-septies sopra citato sono la forma, il
destinatario, la volontà, l'oggetto”.
La mancata indicazione della data costituisce, pertanto, al
più un’irregolarità, mentre il luogo di emissione dell’atto
coincide con la sede dell’ufficio che l’ha emanato e
risulta, pertanto, ex tabulas.
Il ricorso è fondato per le ragioni appresso enunciate.
Non sussiste alcun profilo di nullità dell’atto.
L’invocato art. 21-septies della legge generale sul
procedimento prevede che “è nullo il provvedimento che
manca degli elementi essenziali”.
In assenza di una
esplicita indicazione legislativa degli elementi essenziali
del provvedimento può aderirsi a quella giurisprudenza
secondo cui “L'atto amministrativo nullo è quello
addirittura privo degli elementi di identificazione
strutturale. Gli elementi essenziali cui fa riferimento
l'art. 21-septies sopra citato sono la forma, il
destinatario, la volontà, l'oggetto” (così, Tar Lazio –
Sez. II, 05.01.2011 n. 40, richiamato, da ultimo, da TAR
Campania, Napoli, sez. 3, sent. 08/01/2015 n. 1205).
La
mancata indicazione della data costituisce, pertanto, al più
un’irregolarità, mentre il luogo di emissione dell’atto
coincide con la sede dell’ufficio che l’ha emanato e
risulta, pertanto, ex tabulas
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 15.06.2015 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
COMPENSI AVVOCATI/ Onorario: è credito di valuta,
non valore. Lo dice un'ordinanza.
Nel caso in cui si crei una controversia tra l'avvocato ed
il cliente per il compenso dovuto al primo, il cliente sarà
ritenuto in mora dopo la liquidazione del debito in seguito
all'ordinanza di conclusione del procedimento ex art. 28,
legge 13.06.1942 n. 794.
Gli interessi decorreranno, nei limiti della somma liquidata
dal giudice, da quella data.
Lo hanno affermato i giudici della VI Sez. civile
della Corte di Cassazione con l'ordinanza
04.06.2015 n. 11587.
In caso di onorari professionali, quello dell'avvocato è un
credito di valuta e non di valore, poiché ha ad oggetto una
somma di denaro.
Pertanto, è stato osservato dagli Ermellini, la sopravvenuta
svalutazione monetaria non consente una rivalutazione
d'ufficio di esso, occorrendo una domanda del creditore di
riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti
dall'art. 1224, secondo comma, cod. civ. e il
soddisfacimento del relativo onere probatorio, ed essendo
applicabile l'art. 429 cod. proc. civ., come modificato
dalla legge n. 533/1973, solo quando l'opera dell'avvocato
si configuri come attività continuativa e coordinata tipica
dei cosiddetti rapporti di «parasubordinazione».
I giudici di piazza Cavour hanno osservato, inoltre, come
secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale in
tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e
procuratore a carico del cliente, la disposizione comune
alle tre tariffe forensi (civile, penale e stragiudiziale
contenuta nel dm 14.02.1992, n. 238) prevede che gli
interessi di mora decorrano dal terzo mese successivo
all'invio della parcella, tuttavia quando insorge
controversia tra l'avvocato ed il cliente circa il compenso
per prestazioni professionali, il debitore non può essere
ritenuto in mora prima della liquidazione del debito, che
avviene con l'ordinanza che conclude il procedimento della
L. 13.06.1942, n. 794, ex art. 28, sicché è da quella data -
e nei limiti di quanto liquidato dal giudice, e non da
prima, che va riportata la decorrenza degli interessi (si
vedano: Cass. n. 2431 del 2011; I1777del 2005, 5240 del
1999, 13586/1991, 5004 del 1993 3995 del 1988)
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
COMPENSI AVVOCATI/ Corte di cassazione. Gli
importi liquidati a misura di decreto.
Per la liquidazione dell'onorario dell'avvocato, il valore
della controversia che ha per oggetto l'opposizione a
decreto ingiuntivo, deve essere determinato con riferimento
all'importo del decreto opposto.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
03.06.2015 n. 11454.
È stato, poi, evidenziato che la somma risultante dal
decreto non dovrà sommarsi a quella chiesta dagli opponenti
in restituzione di quanto versato per la provvisoria
esecutività del decreto ingiuntivo, né, tantomeno, a quella
precedentemente versata sempre in esecuzione del medesimo
decreto.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad
esprimersi su un caso che vedeva una controversia relativa
al pagamento degli onorari richiesti da un avvocato per
l'attività svolta. Il cliente si opponeva avverso il decreto
ingiuntivo emesso nei suoi confronti, munito di provvisoria
esecuzione, ed otteneva l'accoglimento della domanda e la
restituzione delle somme versate.
I giudici di merito hanno infatti ritenuto che, in base al
tenore letterale della quietanza emessa dall'avvocato,
risultava che egli avesse già ricevuto il pagamento della
prestazione eseguita solo parzialmente. L'avvocato impugnava
la pronuncia con ricorso in Cassazione, denunciando, oltre
ad infondati vizi procedurali, l'omessa o contraddittoria
motivazione in ordine all'estensione della quietanza di
pagamento a tutte le prestazioni effettuate e la violazione
dei criteri ermeneutici a tal fine applicati dai giudici di
merito.
Secondo gli Ermellini il primo profilo di doglianza
risultava inammissibile per la mancata formulazione del
momento di sintesi con indicazione del fatto controverso e
del quesito di diritto, mentre in merito all'interpretazione
delle convenzioni intervenute tra le parti, la Corte di
legittimità affermava che la sentenza impugnata aveva
opportunamente considerato le espressioni letterali usate,
traendone l'univocità della dichiarazione del creditore ed
escludendo qualsiasi dubbio in ordine al fatto che la somma
indicata fosse stata corrisposta e riscossa a titolo di
saldo finale delle prestazioni effettivamente realizzate
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
proroga del rapporto concessorio di impianto pubblicitario.
Il Collegio ritiene che nel caso di
specie vi sia stata una proroga consensuale di fatto del
rapporto concessorio, attraverso:
- il pagamento annuale dell’imposta di pubblicità,
- la prescritta dichiarazione di cui all’articolo 8 del
d.lgs. n. 507 del 1993 e
- il correlativo comportamento tacito da parte del Comune
(cfr. l’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993: “La
dichiarazione della pubblicità annuale ha effetto anche per
gli anni successivi, purché non si verifichino modificazioni
degli elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare
dell'imposta dovuta; tale pubblicità si intende prorogata
con il pagamento della relativa imposta effettuato entro il
31 gennaio dell'anno di riferimento, sempre che non venga
presentata denuncia di cessazione entro il medesimo
termine”).
...
per l'annullamento
della nota prot. n. 35653 del 24.07.2014, con la quale
il Dirigente del Settore 4° Programmazione Urbanistica del
Comune di Lanciano ha comunicato alla società ricorrente il
non accoglimento dell'istanza volta ad ottenere la voltura
delle concessioni per gli impianti pubblicitari acquistate
dalla soc. Vinciguerra Pubblicità ed il nulla osta per la
sostituzione di tali impianti.
...
1.- Con il ricorso in epigrafe, la società ricorrente ha
impugnato il provvedimento con il quale il Comune di
Lanciano (Ch) ha rigettato l’istanza di voltura di alcune
concessioni all’istallazione e mantenimento di impianti
pubblicitari, presentata e acquisita agli atti in data 31.05.2014.
Secondo la motivazione del provvedimento impugnato, le
concessioni non potevano essere volturate in favore
dell’avente causa in quanto erano decadute per mancato
rinnovo alla scadenza (che sarebbe fissata in 3 anni ai
sensi dell’articolo 53, comma 6, del d.p.r. n. 595 del 1992, e
la richiesta di rinnovo deve essere presentata 60 giorni
prima ex articolo 7.7 del piano generale comunale degli
impianti pubblicitari).
Il ricorrente evidenzia che, dopo aver acquisito il relativo
ramo d’azienda dal precedente concessionario in data 23.07.2008, ha provveduto regolarmente al pagamento
dell’imposta di pubblicità, alle dichiarazioni annuali e
alle manutenzioni, senza che l’Amministrazione abbia mai
eccepito la sopravvenuta estinzione del titolo concessorio.
Il Comune resistente, nel costituirsi, ha ribadito che il
ricorrente non potrebbe aspirare alla voltura, essendo
scaduto il termine di durata massima, ma potrebbe semmai
richiedere nuove concessioni, al ricorrere dei presupposti.
2.- All’udienza del 14.05.2015 la causa è passata in
decisione.
Il ricorso è fondato.
Conformemente a quanto già deciso con la sentenza n. 88 del
2015 di questo Tribunale in una controversia analoga tra la
ricorrente ed il Comune di Vasto, il Collegio ritiene che
nel caso di specie vi sia stata una proroga consensuale di
fatto del rapporto concessorio, attraverso il pagamento
annuale dell’imposta di pubblicità, la prescritta
dichiarazione di cui all’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del
1993 e il correlativo comportamento tacito da parte del
Comune (cfr. l’articolo 8 del d.lgs. n. 507 del 1993: “La
dichiarazione della pubblicità annuale ha effetto anche per
gli anni successivi, purché non si verifichino modificazioni
degli elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare
dell'imposta dovuta; tale pubblicità si intende prorogata
con il pagamento della relativa imposta effettuato entro il
31 gennaio dell'anno di riferimento, sempre che non venga
presentata denuncia di cessazione entro il medesimo
termine”).
Né il diniego di accoglimento della proroga ha i requisiti
di sostanza e di forma di una motivata revoca espressa (cfr.
Tar Pescara, sentenza n. 88 del 2015)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.05.2015 n. 232 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
nuova direttiva 2014/24/UE sull'in house non può ritenersi
self-executing.
La sesta sezione del Consiglio di Stato stabilisce, nella
sentenza in commento, che il criterio da
utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente
pubblico non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda
dell'istituto o del regime normativo che deve essere
applicato e della ratio ad esso sottesa.
Su questo tema, pertanto, giudici di Palazzo Spada
chiariscono che sulla nozione di ente pubblico ai fini della
verifica del requisito del controllo analogo nell'ambito
dell'istituto dell'in house.
La nuova direttiva 2014/24/UE, nonostante
il suo contenuto in alcune parti dettagliato, non può
ritenersi self-executing in quanto è ancora in corso
il termine previsto per la sua attuazione da parte dello
Stato.
----------------
Il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del
concetto di ente pubblico non è sempre uguale a sé stesso,
ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che
deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa.
Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi
quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la
ratio di un determinato regime "amministrativo"
previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto
delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui
natura si controverte, se quella funzione o quella ratio
richiedono l'inclusione di quell'ente nel campo di
applicazione della disciplina pubblicistica.
Ne consegue è che è del tutto normale, per così dire "fisiologico",
che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa
non esserlo ad altri fini, rispetto all'applicazione di
altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o
sostanziali. Emblematica, in tal senso, è la figura
dell'organismo di diritto pubblico, che è equiparato sì
all'ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è
sottoposto alla disciplina amministrativa dell'evidenza
pubblica), rimanendo, però, di regola, nello svolgimento di
altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera
secondo il diritto privato.
Pertanto, nel caso di specie, appurato che la nozione di
ente pubblico cui si deve fare riferimento è funzionale e
cangiante, allora, la circostanza che talvolta le Università
private siano state ritenute enti pubblici dalla
giurisprudenza (e trattate come tali ai fini della
giurisdizione sulle controversie in materia di impiego o
della giurisdizione della Corte dei conti) non è di per sé
sufficiente per ritenere che lo siano sempre.
Non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano, per
quanto più interessa in questa sede, anche quando si tratta
di verificare la condizione, rilevante per configurare un
rapporto in house, della partecipazione pubblica
totalitaria. La nozione di ente pubblico che viene in
rilievo ai fini della verifica del requisito del controllo
analogo nell'ambito dell'istituto dell'in house è
particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere
la possibilità di equiparare all'ente pubblico qualsiasi
soggetto che, a prescindere dai poteri, dai fini e dalla
struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati. E
questo è certamente il caso delle Università private.
L'art. 12, lett. c), della nuova direttiva 2014/24/UE
ammette l'in house nonostante l'assenza della
partecipazione pubblica totalitaria ritenendo l'istituto
compatibile con "forme di partecipazione di capitali
privati, che non comportano controllo o potere di veto,
prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in
conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza
determinante sulla persona giuridica controllata".
L'in house aperto ai privati previsto dal cit. articolo
della nuova direttiva 2014/24/UE rappresenta non un obbligo,
ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe
legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo
di attuare un livello di tutela della concorrenza ancor più
elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario.
Peraltro, in forza dell'art. 12 della nuova direttiva
appalti, le "forme di partecipazione di capitali privati"
devono essere "prescritte dalle disposizioni legislative
nazionali, in conformità dei trattati". Le previsioni
contenute nella direttiva 2014/24/UE, comunque, non assumano
rilievo nel presente giudizio. Deve escludersi che la nuova
direttiva, nonostante il suo contenuto in alcune parti
dettagliato, possa ritenersi self-executing per la
dirimente considerazione che è ancora in corso il termine
previsto per la sua attuazione da parte dello Stato.
Non si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della
direttiva determini, prima che sia scaduto il termine per il
suo recepimento, il superamento automatico e immediato di
una disciplina preesistente di derivazione comunitaria
(commento tratto
da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 26.05.2015 n. 2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Più costi d'impresa per tenersi l'appalto.
L'azienda può ridursi l'utile se l'offerta è anomala.
L'azienda ben può ridursi l'utile «in corsa» pur di non
perdere l'appalto. In caso di offerta anomala, infatti,
l'impresa che ha partecipato alla gara ben può introdurre un
costo a suo carico nella proposta economica avanzata alla
stazione appaltante: l'importante è che resti invariato il
prezzo finale dell'opera o dei servizi.
È quanto emerge dalla
sentenza 13.05.2015 n. 755, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Sardegna.
Totale fisso
Niente da fare per la società concorrente: non riesce a fare
revocare l'aggiudicazione dell'appalto alla rivale: la gara
è stata bandita dall'agenzia regionale per la protezione
ambientale per il servizio di monitoraggio delle acque di
transizione e doveva essere attribuita con il criterio del
prezzo più basso. Non c'è violazione della par condicio né
distorsione della concorrenza. Tanto meno eccesso di potere
da parte dell'amministrazione.
E ciò perché non è affatto detto che nel procedimento di
verifica dell'offerta anomala il concorrente non possa
modificare la sua proposta economica: può invece senz'altro
modificare la voci di costo; esattamente come accade nel
nostro caso: nella gara la società introduce nella proposta
altre analisi di laboratorio a suo carico, che evidentemente
non aveva considerato, il tutto a danno del suo ritorno
economico, perché il totale dell'offerta non cambia.
Né si può ritenere che via sia stato uno stravolgimento
totale delle voci di costo.
Questione di qualificazione
Bocciata anche l'ulteriore censura del competitor
sull'esternalizzazione delle attività: l'esclusione dalla
gara, infatti, scatta soltanto quando il concorrente
interessato risulta privo in proprio della qualificazione
per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare,
mentre negli altri casi scaturiscono soltanto conseguenze
nella fase esecutiva, con l'impossibilità di ricorrere
concretamente al subappalto.
Insomma: ha fatto bene la stazione appaltante a chiudere con
un giudizio di congruità il procedimento di verifica della
congruità dell'offerta da parte dell'azienda che si è
aggiudicata la gara. All'impresa perdente non resta che
pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del
25.06.2015 -
tratto da www.centrostudicni.it) |
TRIBUTI:
P.a. causa di forza maggiore. Se ritarda i
pagamenti, niente sanzioni ai creditori.
Una sentenza della Ctr Torino sugli effetti dei
comportamenti degli uffici pubblici.
Il contribuente non può essere sanzionato per il versamento
tardivo di imposte e tasse se riesce a provare che la
violazione è stata commessa per il ritardato pagamento dei
suoi crediti da parte della pubblica amministrazione. Il
deprecabile comportamento dell'amministrazione pubblica lo
esonera dal pagamento delle sanzioni fiscali, poiché ciò può
determinare un'assenza temporanea di liquidità che dà luogo
alla violazione per causa di forza maggiore.
L'importante principio è stato affermato dalla commissione
tributaria regionale di Torino, Sez. XXXIV, con la
sentenza 13.05.2015 n. 526.
Per i giudici d'appello, purtroppo, «i ritardi nei pagamenti
da parte della p.a. costituiscono una deprecabile ed
incontestabile realtà a livello generale». Pertanto,
considerato che la morosità della p.a. è stata documentata e
provata dalla società contribuente, il ritardo nel pagamento
delle imposte è giustificato dall'assenza temporanea di
liquidità dipendente da «causa di forza maggiore», che porta
a escludere l'irrogazione della sanzioni.
Si fa sempre più strada nella giurisprudenza la tesi che i
contribuenti non devono essere sanzionati se si è in
presenza di determinate situazioni che ostacolano il
corretto adempimento degli obblighi tributari. Per esempio,
la Commissione tributaria provinciale di Milano (sentenza
313/2008) ha stabilito che la malattia può dar luogo a una
causa di forza maggiore, poiché impedisce il regolare
svolgimento di un'attività lavorativa e può determinare
difficoltà economiche e di liquidità.
E l'interessato non è sanzionabile se riesce a provare che
non ha presentato la dichiarazione dei redditi e non ha
pagato nei termini. Del resto l'articolo 6 del decreto
legislativo 472/1997, che disciplina le cause di non
punibilità, esonera dal pagamento delle sanzioni se la
violazione viene commessa per «forza maggiore».
La norma però non chiarisce quando ricorre questa
circostanza. Secondo la giurisprudenza costituiscono cause
di esclusione delle sanzioni le difficoltà economiche
momentanee, che possono dipendere da vari fattori: ritardi
nei pagamenti dei crediti delle imprese da parte
dell'amministrazione pubblica, mancanza momentanea di
liquidità dovuta alla crisi economica, stato di malattia che
impedisce il normale svolgimento dell'attività professionale
o imprenditoriale.
Anche la commissione tributaria provinciale di Lodi, seconda
sezione, con la sentenza n. 145/2014, ha stabilito che le
sanzioni irrogate al contribuente vanno annullate «per
difetto di colpa» dipendente dalle condizioni di salute
di un familiare, che creano «un comprensibile
disinteresse verso obblighi fiscali e tributari»
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA -
VARI:
Bonifico in ritardo, paga la banca. Se la
richiesta è chiara, non è imputabile al cliente il mancato
uso di termini tecnici.
Credito. Il caso della società che aveva disposto un
pagamento rilevante con la data di valuta nello stesso
giorno di esecuzione.
Il ritardo nell’esecuzione di un
bonifico chiesto con valuta coincidente per il disponente e
per il beneficiario è addebitabile alla banca che riceve
l’ordine, se l’istituto omette l’inserimento dei codici
previsti dalle specifiche tecniche contenute nella guida
pubblicata dalla Banca d’Italia. In particolare, non è
attribuibile al cliente la mancata indicazione della
locuzione «valuta compensata», siccome costituisce
linguaggio bancario che non può pretendersi conosciuto dallo
stesso.
Sono le conclusioni cui perviene con l'articolata
sentenza 08.04.2015 n. 4351 il TRIBUNALE di Milano.
La controversia vedeva contrapposte una società e due banche
per i danni derivanti dal ritardo di un giorno di valuta
nell’esecuzione di un bonifico dell’importo di oltre 3
milioni di euro.
La richiesta del cliente
Nel caso sottoposto alla decisione del tribunale meneghino,
come emerge dalla documentazione istruttoria, la società
attrice aveva preannunciato con una comunicazione del 13.03.2013 l’esecuzione di una serie di Bir (bonifico di
importo rilevante). Dopodiché, il 17 giugno aveva disposto
il bonifico in questione indicando chiaramente la medesima
data sia quale valuta per l’ordinante sia quale valuta per
il beneficiario.
Ciò nonostante il bonifico era stato eseguito presso la
banca beneficiaria (quale tesoriera di un ente pubblico
locale) con valuta del 18.03.2013 e cioè del giorno
successivo all’ordine impartito.
La banca principale -cioè quella da cui era “partito” il
bonifico- imperniava la propria difesa sulla circostanza
della corretta richiesta alla banca beneficiaria di pari
valuta, come indicato nell’ordine di bonifico. Chiamava
quindi in causa la banca beneficiaria, domandando in via
subordinata un concorso di colpa con la società ordinante,
“colpevole” di non aver evidenziato la perentorietà del
termine di scadenza e di aver atteso imprudentemente
l’ultimo giorno utile per effettuare il versamento.
La banca beneficiaria ha eccepito invece l’esclusiva
responsabilità della banca principale che non aveva
osservato le specifiche tecniche della Banca d’Italia del
dicembre 2006 con riguardo agli ordini di bonifico con
«valuta compensata», ossia quei bonifici nei quali si
attribuisce all’addebitamento e all’accreditamento la valuta
del giorno in cui si dà corso all’operazione.
Dall’esame istruttorio, il giudice rileva che nella
transazione la banca ordinante aveva omesso di indicare
proprio i codici necessari a ottenere la «valuta
compensata», diversamente dalla procedura consueta di valuta
al beneficiario riportata al giorno lavorativo successivo.
Peraltro, la stessa banca disponente si era mostrata edotta
del fatto che, all’epoca di causa, la prassi bancaria era
nel senso che «la banca accreditata era obbligata a
riconoscere la stessa valuta del giorno dell’esecuzione alla
banca di addebito, ma non era vincolata ad accreditare il
proprio cliente con la medesima valuta», prassi venuta meno
soltanto in seguito alle successive direttive europee sui
servizi di pagamento.
L’indicazione nell’«ordine»
Ad avviso del tribunale, era onere della banca principale
adottare quelle modalità che, nel rispetto dei codici
interni al sistema bancario, avrebbero consentito di
garantire identità di data valuta tra ordinante e
beneficiario. E questo perché:
-
la banca era a conoscenza della necessità di “bonificare”
l’importo con valuta fissa;
-
una volta appurato che il cliente ha dato indicato
indicazioni chiare circa la data di valuta al beneficiario,
non gli si può imputare di avere omesso indicazioni
tecniche, quali la dizione «valuta compensata»: si tratta,
infatti, di un’espressione che non può pretendersi fosse
linguaggio conosciuto dal cliente.
Il che, tra l’altro, esclude ogni responsabilità della banca
terza chiamata in causa (articolo Il Sole 24 Ore del
22.06.2015). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Sindaci con i condomini scippati del parcheggio.
Il Comune non può far finta di niente se i condomini si
sentono «scippati» del loro parcheggio. L'ente locale deve
emettere un provvedimento ad hoc in cui spiega se è
compatibile o meno con le norme urbanistiche il progetto di
trasformare in posteggio pubblico l'area dove i condomini
lasciano da sempre le loro auto in sosta in virtù di un
diritto d'uso. E ciò grazie alla legge Severino, che ha
rafforzato gli obblighi di trasparenza dell'amministrazione
escludendo che gli uffici possano serbare il silenzio in
materia.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.02.2015 n. 852, pubblicata dalla Sez.
III del TAR Campania-Napoli.
L'imprenditore che vuole aprire il parcheggio garantisce che
rispetterà il diritto dei condomini a posteggiare nell'area.
Ma non è questo il punto. L'amministrazione rilascia titoli
abilitativi per il compimento di una determinata attività o
per la realizzazione di una determinata con salvezza dei
diritti dei terzi.
E dunque il provvedimento dell'amministrazione non può
entrare nel merito di questioni civilistiche come la
sussistenza della servitù in favore dei condomini. Nella
Scia, però, nulla si dice sulla destinazione dell'area,
mentre in passato il Comune ha bocciato un analogo progetto
nella stessa area per incompatibilità della destinazione con
le norme urbanistiche.
Ecco allora che i proprietari degli appartamenti diffidano
lo sportello unico delle attività produttive a spiegare,
stavolta in modo esplicito grazie alla legge 190/2012,
perché adesso l'area può essere trasformata in posteggio
pubblico. L'amministrazione paga le spese
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.06.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per
quanto di ragione.
Gli istanti agiscono per far dichiarare l’illegittimità
dell’inerzia del Comune di Torre Annunziata nell’esercizio
di verifica e controllo sulla s.c.i.a. presentata dal signor
G.B.G. in data 29.03.2011 avente ad oggetto l’attività di
parcheggio pubblico a pagamento, nonché l’illegittimità del
silenzio serbato sull’atto di diffida notificata allo stesso
Comune in data 20.03.2014, al fine di sollecitare
l’esercizio del detto potere di verifica e controllo,
ritenendo lo svolgimento della cennata attività
incompatibile con la servitù di passaggio nella loro
titolarità, in quanto condomini del Parco Fusco sito al
Corso Umberto I, n. 47/E (ex n. 61), per essere tale servitù
attiva loro riconosciuta dai titoli d’acquisto dei singoli
cespiti (cfr. copia dei rogiti notarili in atti).
Il Collegio osserva preliminarmente che, a
seguito della novella dell’art. 19 l.241/1990, avvenuta
mediante l’aggiunta, ad opera del d.l. 138/2011, del comma
6-ter, il rimedio offerto dall’ordinamento a tutela delle
ragioni del terzo rispetto ad una s.c.i.a., dalla quale
detto terzo assuma di essere stato leso e che, però, si è
consolidata per il mancato esercizio del potere inibitorio
nel termine di legge (pari a 60 giorni dalla presentazione
della segnalazione ai sensi del comma 3 dell’art. 19 l. n.
241/1990), è rappresentato dallo speciale procedimento di
cui all’art. 31 c.p.a.
(TAR Venezia, sez. II, 15.02.2013, n.230, Id., 12.04.2012 n.
519), con il quale il terzo, dopo aver
sollecitato (come
è avvenuto, nella vicenda in esame, con la diffida del
20.03.2014) l’esercizio del generale potere
di vigilanza e di repressione degli illeciti ed
eventualmente, nei limiti di cui all’art. 21-quinquies e
all’art. 21-nonies della l.241/1990, del potere di
autotutela, può richiedere che il giudice amministrativo
sanzioni l’illegittimità dell’inerzia dell’Amministrazione.
Ciò comporta,
ad avviso del Tribunale, l’affermazione,
nella delineata fattispecie, del dovere
dell’Amministrazione di dar corso al procedimento in
presenza di una diffida del tenore di quella presentata
dagli odierni ricorrenti, i quali hanno prospettato
all’Autorità la lesione della loro sfera giuridica in
relazione alla s.c.i.a. presentata dal B.G. 2011, e del
correlativo dovere di concludere detto procedimento con un
provvedimento espresso (dovere, quest’ultimo, divenuto
particolarmente cogente in ragione della novella del 1°
comma dell’art. 2 della l. 241/1990 ad opera della l.
190/2012).
Mette conto di precisare, tuttavia, i
contenuti ai quali può avere riguardo il potere di vigilanza
in parola o rectius di individuare il perimetro in
cui esso può svolgersi, dal momento che l’estensione della
servitù di passaggio e dell’asserito diritto d’uso, nonché
le concrete modalità di godimento degli stessi, da parte dei
predetti condomini, sull’area in proprietà degli eredi F. e
condotta in locazione dal signor B.G., costituiscono aspetti
di esclusivo rilievo civilistico e non possono costituire
oggetto di accertamento e di intervento da parte
dell’Amministrazione.
Quest’ultima, infatti, procede al rilascio dei titoli
abilitativi per il compimento di una determinata attività o
per la realizzazione di una determinata con salvezza dei
diritti dei terzi
(peraltro, nel caso di specie, il signor B.G. ha dichiarato,
all’atto della presentazione della s.c.i.a., di
salvaguardare il “diritto di passaggio e di sosta a
favore dei condomini del fabbricato sito al Corso Umberto I
n. 47/6, già n. 61”; cfr. copia nella produzione dei
ricorrenti, pag. 1).
In definitiva, l’esercizio del potere di
vigilanza (ed eventualmente del potere repressivo) da parte
del Comune di
Torre Annunziata, il cui esercizio è
invocato dagli istanti, non può che riguardare, pertanto, il
solo eventuale contrasto –questo, sì, rilevante sotto il
profilo amministrativo– tra l’adibizione dell’area in
questione all’attività di parcheggio e la destinazione
urbanistico-edilizia dell’area, anche con riguardo a
precedenti titoli rilasciati dall’Amministrazione involgenti
il godimento di detta area
(nel caso di specie, la licenza edilizia del 1973) e
in considerazione del fatto che la medesima attività in
relazione alla medesima area non era stata assentita nel
2006 (cfr. copia
della determinazione n. 56 del 04.08.2006 di diniego della
d.i.a. per attività di rimessa di veicoli nell’area a cielo
aperto).
Alla luce dei rilievi esposti, il ricorso
va, pertanto, accolto limitatamente alla declaratoria
dell’obbligo del Comune di Torre Annunziata di avviare il
procedimento volto a verificare, mediante il compimento
delle opportune attività istruttoria, la legittimità della
situazione determinatasi a seguito della presentazione della
s.c.i.a. da parte del B.G. per lo svolgimento dell’attività
di parcheggio pubblico all’aperto sull’area, rispetto alla
quale i ricorrenti godono di un diritto d’uso e di passaggio
in virtù dei titoli di acquisto dei diversi cespiti
immobiliari, nonché l’obbligo di concludere detto
procedimento mediante l’adozione di un atto espresso, il
quale –qualora assuma contenuto negativo rispetto alle
aspettative dei ricorrenti– dovrà illustrare specificamente
le ragioni della diversità della determinazione assunta,
seppure in forma tacita
(in ragione del mancato esercizio del potere inibitorio
nella vicenda attualmente sottoposta all’esame del
Collegio), sulla s.c.i.a. presentata dal
sig. B.G. in data 29.03.2011 rispetto a quanto avvenuto con
riguardo all’analoga s.c.i.a. presentata da altro soggetto,
M.G., nel 2006
(cfr. i riferimenti contenuti nella citata determinazione n.
56/2006). |
AGGIORNAMENTO AL 19.06.2015 (ore 17,20) |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
E'
illegittima la commistione dell’attività a tutela
del paesaggio e quella della trattazione delle
pratiche edilizie.
Il Comune ha provveduto
all’istituzione del Servizio Autorizzazioni
Paesaggistiche nell’ambito del Coordinamento
Edilizia Privata: il che però non è sufficiente,
perché è necessaria una distinzione formale tra
uffici, non basta una distinzione di attività.
Infatti ai sensi dell’art. 146, comma 6, del Codice
dei beni culturali e del paesaggio gli enti
delegatari (come il Comune) del potere di
autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di
strutture in grado di assicurare un adeguato livello
di competenze tecnico-scientifiche nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni
amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Non è sufficiente dunque rilevare che stando agli
ordini di servizio (n. 47/2011 del 01.06.2011) e
dalla nota interna (07.06.2011) nessuno degli
istruttori paesaggisti svolge, né ha svolto prima,
attività istruttorie urbanistico-edilizie.
La doverosa distinzione organizzativa, infatti,
riflette la distinzione sostanziale tra la funzione
di tutela del paesaggio e quella di governo del
territorio o urbanistica: è una distinzione che ha
base nell’art. 9 Cost. [e oggi è confermata
dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.] e che
è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie
costituzionale (a muovere da Corte cost.,
24.07.1972, n. 141 e, ad es., a Corte cost.,
23.11.2011, n. 309): la separazione organizzativa a
livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata
prevenzione della possibile commistione in capo al
Comune delle due competenze e a evitare che la
valutazione urbanistica possa incidere
sull’autonomia di quella, superiore e delegata,
paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4,
prevede che “l'autorizzazione paesaggistica
costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al
permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”;
cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4,
lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi
3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma
2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve
essere organizzativamente posta, nel Comune, in
condizione di non subire incidenze gerarchiche o
condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art.
146, comma 6, d.lgs. n. 42 del 2004, va assicurata
sia la sussistenza di un adeguato livello
tecnico-scientifico sia la separazione organizzativa
suddetta.
6. Va però precisata la fondatezza anche della censura
d’appello che lamenta l’illegittimità della commistione
dell’attività a tutela del paesaggio e quella della
trattazione delle pratiche edilizie: il Comune di Verona ha
provveduto all’istituzione del Servizio Autorizzazioni
Paesaggistiche nell’ambito del Coordinamento Edilizia
Privata: il che però non è sufficiente, perché è necessaria
una distinzione formale tra uffici, non basta una
distinzione di attività.
Infatti ai sensi dell’art. 146,
comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio gli
enti delegatari (come il Comune) del potere di
autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di strutture
in grado di assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione
tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di
funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Non è sufficiente dunque rilevare che stando agli ordini di
servizio (n. 47/2011 del 01.06.2011) e dalla nota interna
(07.06.2011) nessuno degli istruttori paesaggisti svolge,
né ha svolto prima, attività istruttorie urbanistico-edilizie. La doverosa distinzione organizzativa,
infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione
di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o
urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost.
[e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s),
Cost.] e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza
specie costituzionale (a muovere da Corte cost., 24.07.1972,
n. 141 e, ad es., a Corte cost., 23.11.2011, n. 309): la
separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla
legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in
capo al Comune delle due competenze e a evitare che la
valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di
quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso
l’art. 146, comma 4, prevede che “l'autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”; cfr. anche
art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e
comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e
6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale
ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in
condizione di non subire incidenze gerarchiche o
condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146,
comma 6, d.lgs. n. 42 del 2004, va assicurata sia la
sussistenza di un adeguato livello tecnico-scientifico sia
la separazione organizzativa suddetta (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.06.2015 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa è orientata a ritenere
che la tutela del paesaggio è principio fondamentale
della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di
preminenza rispetto agli altri beni giuridici che
vengono in rilievo nella difesa del territorio, di
tal che anche le previsioni degli strumenti
urbanistici devono necessariamente coordinarsi con
quelle sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all’attività edilizia. Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l’autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell’art. 146 del d.lgs. 42 del 2004 (che
come è noto attribuisce oggi al Ministero dei beni e
delle attività culturali, per il tramite delle
locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva
del vincolo paesaggistico, con la titolarità di
penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
---------------
Con l’entrata in vigore, a regime (dal 01.01.2010),
dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria
prevista dal Codice dei beni culturali e del
paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la
Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare, non più
un sindacato di mera legittimità (come previsto
dall’art. 159 d.lgs. n. 42/2004 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o
dall’ente subdelegato, con il correlativo potere di
annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma una
valutazione di “merito amministrativo”, espressione
dei nuovi poteri di cogestione del vincolo
paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell’intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell’esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l’iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all’onere motivazionale sancito dall’art. 3
l. n. 241/1990.
---------------
L’autorità preposta alla tutela del vincolo, oltre
ad una puntuale individuazione del disvalore
dell’opera con il contesto paesistico, è tenuta, in
un’ottica di leale collaborazione a precisare “quale
tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di
modifica progettuale” potrebbe far conseguire
all’interessata l’autorizzazione paesaggistica,
tenuto conto che l’area non è sottoposta a vincolo
di inedificabilità, che l’intervento ha il pregio di
proporre il recupero di un immobile ammalorato dal
tempo e che “la tutela del preminente valore del
paesaggio non deve necessariamente coincidere con la
sua statica salvaguardia, ma richiede al contrario
interventi improntati a fattiva collaborazione delle
autorità preposte alla tutela paesaggistica,
funzionali a conformare le iniziative edilizie al
rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti
nel bene paesaggio”.
5.- Il ricorso è fondato nei sensi e nei limiti di
cui in motivazione.
5.a.- E’ controversa nel presente giudizio la
legittimità della prescrizione apposta
dall’Amministrazione comunale nel provvedimento di
autorizzazione paesaggistica, relativa all’istanza
di condono edilizio prot. 4375 del 30.06.1986,
afferente all’immobile sito in Palinuro, Via
Indipendenza n. 60.
Più specificamente, l’Amministrazione comunale ha
rilasciato l’autorizzazione paesaggistica ex art.
146 d.lgs. 22.01.2004 n. 42 ordinando al
richiedente, in conformità al parere espresso dalla
Soprintendenza per i BAP di Salerno ed Avellino, “di
demolire l’ultimo livello mansardato che, sia per
pendenza della falda che per altezza totale si pone
come elemento dissonante nel contesto, di cui altera
significativamente l’immagine”.
5.b.- Parte ricorrente ha impugnato sia il
provvedimento del Comune di Centola chiedendone
l’annullamento, nella parte in cui si limita a
recepire acriticamente il parere negativo della
Soprintendenza, sia quest’ultimo provvedimento,
chiedendone l’annullamento per difetto di
istruttoria e carenza di motivazione che, ad avviso
del Collegio, colgono nel segno.
6.- Gioverà ricordare che la giurisprudenza
amministrativa è orientata a ritenere che la tutela
del paesaggio è principio fondamentale della
Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza
rispetto agli altri beni giuridici che vengono in
rilievo nella difesa del territorio, di tal che
anche le previsioni degli strumenti urbanistici
devono necessariamente coordinarsi con quelle
sottese alla difesa paesaggistica.
La difesa del paesaggio si attua eminentemente a
mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che
la miglior tutela di un territorio qualificato sul
piano paesaggistico è quella che garantisce la
conservazione dei suoi tratti naturalistici,
impedendo o riducendo al massimo quelle
trasformazioni pressoché irreversibili del
territorio propedeutiche all’attività edilizia. Tali
esigenze di tipo conservativo devono naturalmente
contemperarsi, senza tuttavia mai recedere
completamente, con quelle connesse allo sviluppo
edilizio del territorio che sia consentito dalla
disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei
proprietari dei terreni che mirano legittimamente a
sfruttarne le potenzialità edificatorie.
E’ proprio in relazione al difficile equilibrio tra
tali contrapposti interessi che l’autorità preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico deve trovare,
nei casi in cui la disciplina urbanistica consenta
l’esercizio dello ius aedificandi, il giusto
contemperamento nel rilasciare o denegare il
necessario assenso al formarsi del titolo
autorizzatorio secondo il modello procedimentale
delineato nell’art. 146 del d.lgs. 42 del 2004 (che
come è noto attribuisce oggi al Ministero dei beni e
delle attività culturali, per il tramite delle
locali Soprintendenze, un ruolo di cogestione attiva
del vincolo paesaggistico, con la titolarità di
penetranti poteri valutativi di merito).
Si tratta di valutazioni spesso connotate da
elementi tecnico-discrezionali non sindacabili in
sede giurisdizionale, se non per illogicità
manifesta, per palese incongruità o inadeguatezza
del provvedimento in rapporto alle sue finalità di
protezione del territorio vincolato, ad evitare
inammissibili sovrapposizioni del giudicante in
ambiti che la legge ha voluto riservare alla
amministrazione titolare del potere.
6.a.- Gioverà ancora ricordare che, con l’entrata in
vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146
sulla disciplina autorizzatoria prevista dal Codice
dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs.
22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata
ad esercitare, non più un sindacato di mera
legittimità (come previsto dall’art. 159 d.lgs. n.
42/2004 nel regime transitorio vigente fino al
31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base
adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato, con
il correlativo potere di annullamento ad estrema
difesa del vincolo (su cui Cons. Stato, Ad. plen.,
14.12.2001, n. 9), ma una valutazione di “merito
amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di
cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146
d.lgs. 42/2004).
Pertanto, nel nuovo quadro normativo si giustifica
una diversa e più penetrante valutazione, da parte
della Soprintendenza, della compatibilità
dell’intervento edilizio progettato con i valori
paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica.
6.b.- Come è stato adeguatamente osservato dalla
giurisprudenza di merito, il parere in questione si
caratterizza per l’esercizio di elevati margini di
discrezionalità, volti ad esprimere un giudizio di
valore su elementi per lo più estetici (ovvero la
bellezza di un determinato contesto paesaggistico)
che, inevitabilmente, subiscono la soggettività e la
sensibilità del valutatore.
Di conseguenza, per evitare che il giudizio di
compatibilità paesaggistica si trasformi
nell’esercizio di un insindacabile arbitrio, risulta
necessario fornire la più ampia e circostanziata
motivazione, enunciando sia le premesse, che l’iter
logico seguito nel percorso valutativo che si
conclude con il giudizio finale.
In sostanza, neppure il parere della Soprintendenza
sfugge all’onere motivazionale sancito dall’art. 3
l. n. 241/1990.
6.c.- Trasponendo le menzionate acquisizioni
giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi
che non appare agevolmente perspicuo il riferimento
–contenuto nel sottostante parere della
Soprintendenza ed acriticamente recepito dal Comune-
alla asserita alterazione dell’immagine del contesto
edificato da parte del piano mansardato
dell’immobile, asseritamente rimasto immodificato
rispetto all’originario impianto architettonico ed
alla relativa altezza.
Nell’immobile in esame, le difformità oggetto di
condono afferiscono, quanto al piano mansardato, al
cambio di destinazione d’uso del piano sottotetto da
deposito a sottotetto abitabile
L’immobile esistente su via Indipendenza è stato
assentito nel passato verosimilmente in conformità
alla vigente disciplina urbanistica e gli abusi
realizzati ed oggetto di condono, non hanno alterato
l’impianto plano altimetrico.
Quanto all’asserita dissonanza del piano mansardato
“per altezza totale”, rispetto al contesto
edificato, non appaiono peregrine le osservazioni di
parte ricorrente che si duole della mancata
considerazione (e della contestuale assenza di
motivazione) rispetto agli edifici viciniori, dal
momento che lo stesso sarebbe superato in altezza
sia dall’hotel “La Conchiglia”, sia
dall’Albergo “Santa Caterina”.
6.d.- Parimenti carente di motivazione deve stimarsi
l’atto della Soprintendenza nella parte in cui
l’interessato lamenta la mancanza di un
apprezzamento concreto relativo alla compatibilità
dell’immobile in questione con il vincolo
paesaggistico.
Ed infatti, anche a voler prescindere dalla
percezione estetica che dello stesso possa trarsi
nell’attualità, in relazione alle condizioni di
degrado in cui versa l’immobile, non appaiono
infondate le censure con le quali l’interessato
evidenzia che il contrasto, rilevato dalla
Soprintendenza, dell’immobile con le bellezze
paesaggistiche dei luoghi, genericamente individuate
“in un quadro naturale di incomparabile bellezza
godibile dalla costruenda strada per Marina di
Camerota e in parte, verso il confine con il Comune
di Pisciotta, dalla nuova strada Pisciotta Palinuro”,
neppure persuade il Collegio in considerazione del
fatto che –come riferito dall’interessato e non
adeguatamente contestato- l’immobile trovasi nel
centro abitato di Palinuro, fuori del percorso
stradale richiamato.
6.e.- Fermo quanto sopra evidenziato, occorre
aggiungere che, l’autorità preposta alla tutela del
vincolo, oltre ad una puntuale individuazione del
disvalore dell’opera con il contesto paesistico, è
tenuta, in un’ottica di leale collaborazione a
precisare “quale tipo di accorgimento tecnico o,
al limite, di modifica progettuale” potrebbe far
conseguire all’interessata l’autorizzazione
paesaggistica, tenuto conto che l’area non è
sottoposta a vincolo di inedificabilità, che
l’intervento ha il pregio di proporre il recupero di
un immobile ammalorato dal tempo e che “la tutela
del preminente valore del paesaggio non deve
necessariamente coincidere con la sua statica
salvaguardia, ma richiede al contrario interventi
improntati a fattiva collaborazione delle autorità
preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei
valori estetici e naturalistici insiti nel bene
paesaggio” (Cons. St. Sez. V n. 1418/2014).
In conclusione il rilevato vizio motivazionale
sussiste e ridonda a vizio di legittimità del
provvedimento comunale, per cui il ricorso è fondato
e va accolto, nei limiti dell’interesse del
ricorrente
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 1261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Spetta
al RUP stilare la relazione di valutazione
dell’anomalia dell’offerta da trasmettere alla
commissione di gara, la quale provvederà
all’aggiudicazione provvisoria dei lavori.
---------------
In base all’Adunanza Plenaria n. 36 del 29.11.2012,
anche nel regime anteriore all'entrata in vigore
dell'art. 121 d.P.R. 05.10.2010 n. 207, è attribuita
al responsabile del procedimento facoltà di
scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di
approfondimento richieste dalla verifica, se
procedere personalmente ovvero affidare le relative
valutazioni alla commissione aggiudicatrice.
Con la conseguenza che è legittima la verifica di
anomalia dell'offerta eseguita, anziché dalla
commissione aggiudicatrice, direttamente dal
responsabile unico del procedimento avvalendosi
degli uffici e organismi tecnici della stazione
appaltante.
---------------
La scelta di far espletare la verifica dell’anomalia
alla commissione di gara o ad apposita commissione
ex articolo 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del
2006 è rimessa alla piena discrezionalità del RUP al
quale è affidata ai sensi dell’articolo 10 del
d.lgs. n. 163 del 2006 “la gestione integrale della
procedura di gara, svolgendo il ruolo di fornire
alla stazione appaltante ogni elemento informativo
idoneo a una corretta e consapevole formazione della
volontà contrattuale dell’amministrazione
committente”.
8.- E’ infondata e va respinta la censura di
incompetenza del RUP ad effettuare la verifica
dell’anomalia.
Come rilevato nella sentenza impugnata, il ruolo del
RUP nella verifica dell’anomalia dell’offerta deriva
dalla delibera del consiglio di amministrazione del
CREAF del 04.11.2010 -tardivamente impugnata con i
motivi aggiunti– che stabilisce testualmente <il
RUP si attiva per richiedere all’impresa le
giustificazioni dei prezzi offerti…il RUP
verificherà la congruità dell’offerta alla luce
della documentazione pervenuta..>, espressioni
queste che lasciano poco spazio a dubbi sul ruolo
assegnato al RUP nella suddetta procedura.
Sempre al RUP spetta, poi, stilare la relazione di
valutazione dell’anomalia dell’offerta da
trasmettere alla commissione di gara, la quale
provvederà all’aggiudicazione provvisoria dei
lavori.
Le operazioni di gara si sono svolte in aderenza a
tali prescrizioni e della complessa attività
istruttoria si dà conto nel verbale della
commissione n. 94 del 21.03.2011.
Ne consegue l’infondatezza della censura.
8.1- Ugualmente infondata la censura di violazione
dell’articolo 121 del d.p.r. n. 207 del 2010, atteso
che, come correttamente evidenziato nella sentenza
impugnata, tale regolamento non era applicabile
ratione temporis.
Infatti, il d.p.r. n. 207 del 2010 è entrato in
vigore il 10.12.2011, dopo 180 giorni dalla
pubblicazione sulla G.U. avvenuta il 09.06.2011,
sicché in base al combinato disposto dei commi 2 e 3
dell’articolo 253 del d.lgs. n. 163 del 2006, la
fattispecie ricadeva nella disciplina del d.p.r. n.
554 del 1999 (il Regolamento in materia di lavori
pubblici) il cui articolo 89, comma 4, con
riferimento a lavori di importo inferiore al
controvalore in euro di 5.000.000 di DSP, nei quali
rientra l’appalto in questione del valore di euro
2.548.000.000, attribuiva la verifica della
congruità delle offerte che presentassero carattere
anormalmente basso, al responsabile del
procedimento.
8.2- D’altro canto, in base all’Adunanza Plenaria n.
36 del 29.11.2012, anche nel regime anteriore
all'entrata in vigore dell'art. 121 d.P.R.
05.10.2010 n. 207, è attribuita al responsabile del
procedimento facoltà di scegliere, a seconda delle
specifiche esigenze di approfondimento richieste
dalla verifica, se procedere personalmente ovvero
affidare le relative valutazioni alla commissione
aggiudicatrice. Con la conseguenza che è legittima
la verifica di anomalia dell'offerta eseguita,
anziché dalla commissione aggiudicatrice,
direttamente dal responsabile unico del procedimento
avvalendosi degli uffici e organismi tecnici della
stazione appaltante.
In conclusione, la scelta di far espletare la
verifica dell’anomalia alla commissione di gara o ad
apposita commissione ex articolo 88, comma 1-bis,
del d.lgs. n. 163 del 2006 è rimessa alla piena
discrezionalità del RUP al quale è affidata ai sensi
dell’articolo 10 del d.lgs. n. 163 del 2006 “la
gestione integrale della procedura di gara,
svolgendo il ruolo di fornire alla stazione
appaltante ogni elemento informativo idoneo a una
corretta e consapevole formazione della volontà
contrattuale dell’amministrazione committente”.
8.2- Per le stesse ragioni su evidenziate è
infondata è anche la censurata incompatibilità del
RUP per potenziale conflitto di interessi.
Poiché è la legge ad attribuire al RUP il ruolo
centrale nella verifica dell’anomalia dell’offerta,
un potenziale conflitto di interessi è escluso a
monte, non avendo il legislatore ravvisato
l’incompatibilità del RUP -soggetto interno
all’amministrazione– rispetto alla verifica
dell’anomalia dell’offerta.
D’altra parte la verifica della congruità
dell’offerta anomala e della sostenibilità della
commessa è finalizzata alla tutela
dell’amministrazione appaltante e, quindi,
coerentemente è affidata al responsabile del
procedimento, salve difficoltà tecniche di
valutazione che ne consiglino l’affidamento ad una
commissione appositamente costituita.
Situazione che, come detto, non ricorre nel caso in
esame.
8.3- Infondate sono anche le censure dedotte avverso
il giudizio di inaffidabilità dell’offerta espresso
dal RUP.
Il procedimento di verifica dell’anomalia risulta,
infatti, corretto sia formalmente che nella
sostanza.
Esso è stato caratterizzato da una approfondita
indagine voce per voce, con richieste di
giustificazioni e audizioni dell’interessata e
risulta adeguatamente motivato e supportato da
specifici riferimenti ad elementi di dubbia
congruità evidenziati anche nella sentenza
impugnata.
D’altra parte essendo la valutazione di congruità
dell’offerta un apprezzamento tecnico–discrezionale,
essa è sindacabile solamente per manifesta
irragionevolezza o travisamento dei fatti, che nella
specie non risultano provati ma contestati con mere
affermazioni inidonee a costituire elemento
probatorio adeguato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.06.2015 n. 2727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A tenore dell’art. 30, comma 3, del d.l. n.
69/2013, “salva diversa disciplina regionale, previa
comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di
due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di
cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della
Repubblica del 06.06.2001, n. 380, come indicati nei titoli
abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente
all'entrata in vigore del presente decreto purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non
risultino in contrasto, al momento della comunicazione
dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati
o adottati”.
La disposizione sopra richiamata contempla una proroga dei
termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti ed
assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o comunque
formatisi prima della sua entrata in vigore (in data
22.06.2013).
Si tratta di una proroga ‘speciale’, legata alla peculiare
fase congiunturale di crisi del settore edilizio, ai fini
della quale, a differenza di quella ‘ordinaria’ ex art. 15
del d.p.r. n. 380/2001, l’interessato non deve presentare
alcuna apposita istanza né fornire alcuna giustificazione né
attendere un provvedimento di concessione.
Per ottenere il differimento in parola, è, infatti,
sufficiente presentare una comunicazione, purché, al momento
della stessa, i termini di inizio e di ultimazione dei
lavori non siano ancora decorsi e i titoli abilitativi
emessi non siano in contrasto con nuovi strumenti
urbanistici approvati o adottati.
E’ evidente, dunque, che –come plausibilmente sostenuto da
parte ricorrente– il citato art. 30, comma 3, del d.l. n.
69/2013, con riguardo ai termini di inizio e di ultimazione
dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi
edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata
in vigore, ha introdotto una proroga operante in via
automatica, in conseguenza della mera comunicazione all’uopo
presentata dall’interessato, senza subordinarla al
verificarsi di particolari circostanze (quali factum
principis o vis maior) e senza statuire distinzioni tra
lavori anteriormente non differiti e lavori anteriormente
già differiti ai sensi dell’art. 15 del d.p.r. n. 380/2001.
E ciò, sia alla luce del tenore letterale della norma (“sono
prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione
dei lavori”), laddove non figura espressamente e non è,
quindi, inferibile alcuna limitazione simile (‘ubi lex non
distinguit, nec nos distinguere debemus’), sia alla luce
della ratio ad essa sottesa, che è quella di agevolare il
completamento delle attività di cantiere avviate e, più in
generale, di favorire il rilancio economico del settore
edilizio.
7. Venendo ora a
scrutinare il ricorso nel merito, esso si rivela fondato per
le ragioni illustrate in appresso.
8. Innanzitutto, giova rammentare che, a tenore dell’art.
30, comma 3, del d.l. n. 69/2013, “salva diversa
disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto
interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio
e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del
decreto del Presidente della Repubblica del 06.06.2001, n.
380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o
comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore
del presente decreto purché i suddetti termini non siano già
decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e
sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto,
al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati”.
9. La disposizione sopra richiamata contempla una proroga
dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori correnti
ed assentiti con titoli abilitativi edilizi emessi o
comunque formatisi prima della sua entrata in vigore (in
data 22.06.2013).
Si tratta di una proroga ‘speciale’, legata alla
peculiare fase congiunturale di crisi del settore edilizio,
ai fini della quale, a differenza di quella ‘ordinaria’
ex art. 15 del d.p.r. n. 380/2001, l’interessato non deve
presentare alcuna apposita istanza né fornire alcuna
giustificazione né attendere un provvedimento di
concessione.
Per ottenere il differimento in parola, è, infatti,
sufficiente presentare una comunicazione, purché, al momento
della stessa, i termini di inizio e di ultimazione dei
lavori non siano ancora decorsi e i titoli abilitativi
emessi non siano in contrasto con nuovi strumenti
urbanistici approvati o adottati.
E’ evidente, dunque, che –come plausibilmente sostenuto da
parte ricorrente– il citato art. 30, comma 3, del d.l. n.
69/2013, con riguardo ai termini di inizio e di ultimazione
dei lavori correnti ed assentiti con titoli abilitativi
edilizi emessi o comunque formatisi prima della sua entrata
in vigore, ha introdotto una proroga operante in via
automatica, in conseguenza della mera comunicazione all’uopo
presentata dall’interessato, senza subordinarla al
verificarsi di particolari circostanze (quali factum
principis o vis maior) e senza statuire
distinzioni tra lavori anteriormente non differiti e lavori
anteriormente già differiti ai sensi dell’art. 15 del d.p.r.
n. 380/2001.
E ciò, sia alla luce del tenore letterale della norma (“sono
prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione
dei lavori”), laddove non figura espressamente e non è,
quindi, inferibile alcuna limitazione simile (‘ubi lex
non distinguit, nec nos distinguere debemus’), sia alla
luce della ratio ad essa sottesa, che è quella di
agevolare il completamento delle attività di cantiere
avviate e, più in generale, di favorire il rilancio
economico del settore edilizio.
10. Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi
che il Comune di Benevento, sull’erroneo presupposto della
improrogabilità del termine di ultimazione dei lavori (già
differito al 06.11.2013) ai sensi dell’art. 30, comma 3, del
d.l. n. 69/2013, illegittimamente abbia dichiarato la
decadenza dall’assegnazione del lotto n. 7 del comparto D
del del p.i.p. Olivola e irrogato la sanzione pecuniaria di
€ 52.670,00.
Pertanto, il ricorso in epigrafe va accolto, con conseguente
annullamento dell’impugnata determinazione dirigenziale n. 6
del 27.03.2014
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2788
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Mori,
Distanze per costruzioni, alberi, luci, vedute
(2005 - tratto da www.mori.bz.it). |
SINDACATI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL. - La ricostruzione del fondo del salario
accessorio e le economie di gestione ex art. 5 DPR 333/1990
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 15.06.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
OGGETTO: forestazione; competenze professionali degli
Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati. Legge 11.08.2014
n. 116, art. 1-bis comma 16 (COLLEGIO INTERPROVINCIALE
DEGLI AGROTECNICI E DEGLI AGROTECNICI LAUREATI di Brescia,
Bergamo, Como, Sondrio, Lecco,
nota 26.05.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 19.06.2015 n. 140, suppl. ord. n. 32/L, "Disposizioni
urgenti in materia di enti territoriali" (D.L.
19.06.2015 n. 78). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 16.06.2015,
"Commissari ad acta per il completamento della procedura
di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3,
della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del
territorio» - Estensione dei termini assegnati con d.g.r.
26.02.2015 n. X/3195" (deliberazione
G.R. 12.06.2015 n. 3714). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 15.06.2015, "Approvazione
della manifestazione di interesse per gli interventi di
recupero e riqualificazione del patrimonio di edilizia
residenziale pubblica, in attuazione dell’art. 4 della legge
n. 80/2014, ai sensi della d.g.r. 14.05.2015, n. 3577"
(decreto
D.U.O. 11.06.2015 n. 4832). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 15.06.2015, "Approvazione
dei modelli dei documenti per la predisposizione della gara
e di una convenzione tipo per l’attivazione di servizi di
rimozione e smaltimento dell’amianto in matrice compatta
proveniente da utenze domestiche nel territorio dei comuni
della Lombardia ai sensi dell’art. 30 della l.r. 08.07.2014
n.19 ad integrazione della d.g.r. X 73494 del 30.04.2015" (decreto
D.U.O. 03.06.2015 n. 4253). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L.
Ramacci,
Ambiente in genere. Prime osservazioni sull'introduzione dei
delitti contro l'ambiente nel codice penale e le altre
disposizioni della legge 22.05.2015 n. 68 (06.06.2015
- link a www.lexambiente.it). |
APPALTI: L.
Dell'Osta,
La pubblicità degli avvisi d’asta sui quotidiani e la
discrezionalità del giudice dell’esecuzione (art. 490 c.p.c.)
- NOTA A TAR EMILIA ROMAGNA, SEZ. I, SENTENZA 26.02.2015 N.
175
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il caso - 2. Le
questioni di diritto all’esame del Tar - 3. La decisione.
3.1. L’esclusione della giurisdizione del giudice
amministrativo - 3.2. L’interesse ad agire - 3.3. La
giurisdizione del giudice ordinario - 4. Conclusioni - 5. La
sentenza. |
CORTE DEI CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Ai fini del legittimo
conferimento degli incarichi esterni il ricorso a procedure
comparative adeguatamente pubblicizzate non può essere
derogato con affidamento diretto per incarichi al di sotto
di una determinata soglia monetaria di spesa. L’eventuale
difforme previsione regolamentare dell’ente deve essere
oggetto di disapplicazione.
Con l’atto di conferimento di
incarico esterno il funzionario che impegna la spesa deve
accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le
regole di finanza pubblica.
---------------
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”.
---------------
I presupposti di legittimità
per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono
specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001,
n. 165.
I citati presupposti costituiscono la
codificazione di quanto ampiamente affermato dalla
giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti
riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo
da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per
relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare, la disciplina vigente
prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve
corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le
esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è
stato in proposito chiarito che: “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge”;
b) l'amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di
norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di
proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal
principio costituzionale di buon andamento della pubblica
amministrazione e il conferimento degli incarichi di
consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come
eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un
decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del
ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza
di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura
temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare
esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il
rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare
il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore,
ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di
affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente
determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le
amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale,
occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a
esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione di natura occasionale o coordinata e
continuativa per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che
operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto
dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di
orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione
dei contratti di lavoro di cui al d.lgs. 10.09.2003, n. 276,
purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore;
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio
o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di
spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito
con legge. n. 122/2010 e s.m.i.
(salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa
mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da
altri soggetti pubblici o privati); inoltre in sede di
assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi
dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009
convertito dalla legge n. 102/2009, ha l'obbligo di
accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le
regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di
inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare
ed amministrativa.
---------------
L’obbligo di seguire procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di collaborazione è
puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla
giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per
la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in
proposito è stato affermato che “il conferimento di
incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve
avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e
non già in base alla sola valutazione di idoneità del
prescelto”.
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato,
in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità
e massima partecipazione:
la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “l'affidamento
di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da
conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione
non può prescindere dal preventivo svolgimento di una
selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata”
ed ancora: “qualsivoglia
pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un
professionista esterno un incarico di collaborazione, di
consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante
qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche
occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una
procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e
adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di
omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione
del servizio".
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto
modo di statuire che: “il comma 6-bis
dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per
le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento di incarichi di
collaborazione, ha in concreto posto la necessità
dell’espletamento della procedura concorsuale, nella
considerazione che un simile modus operandi, implicando il
rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli
operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione
conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità
e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97”.
Pertanto, il ricorso a procedure
comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato
con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla
giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della consulenza in relazione ad un termine
prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare
urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione
dell’attività discendente dall’incarico”.
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente
chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di
incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una
soglia individuata in valore monetario (o di un numero
massimo di ore della prestazione richiesta al
collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto
non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”,
in particolare agli affidamenti in economia.
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa
Sezione ha già avuto modo
di affermare, esaminando un regolamento comunale che
prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa
pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per
incarichi eccedenti una determinata soglia monetaria, che
una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto
prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come
introdotto dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di
conversione, a mente del quale “Le
amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche,
secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza
lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di
sotto delle quali le procedure comparative non sono
necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “Va
aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti
sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza
ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo
riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti
pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui,
quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va
quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve
essere generalizzato, salve circostanze del tutto
particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura
concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione
sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.)”.
In proposito occorre evidenziare quindi che
non risulta compatibile con il vigente quadro
normativo la disciplina prevista dal regolamento dell’ente
camerale del 11.07.2008 (art. 7, lett. b),
peraltro non oggetto di approvazione con deliberazione
collegiale di questa Sezione, secondo cui
sarebbe possibile procedere ad affidamenti senza procedura
di comparazione per incarico di ammontare sino ad €
5.000,00, oltre IVA ed eventuali oneri obbligatori.
Conseguentemente l’ente camerale avrebbe dovuto
correttamente, previa disapplicazione della citata
previsione regolamentare, provvedere ad individuare
l’incaricato a seguito di procedura comparativa pubblica, in
conformità con l’art. 7, comma 6-bis, d.lgs. n. 165/2001.
---------------
I.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo complessivo superiore a cinquemila
euro devono essere trasmessi alla competente sezione della
Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo
sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è riconducibile
all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della
Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in
essere dagli enti controllati a raggiungere determinati
risultati, attraverso una verifica della sua efficacia,
efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere
da un riscontro della conformità della stessa a norme
giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”
(Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge
dell’incarico conferito dalla Camera di Commercio occorre
rammentare che i presupposti di legittimità
per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono
specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001,
n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la
codificazione di quanto ampiamente affermato dalla
giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti
riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo
da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per
relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in
tal senso, si richiama il
parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione.
In particolare, la disciplina vigente
prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve
corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le
esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è
stato in proposito chiarito che: “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge”
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg.
Lombardia, n. 244/2008);
b) l'amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di
norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di
proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal
principio costituzionale di buon andamento della pubblica
amministrazione e il conferimento degli incarichi di
consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come
eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un
decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del
ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza
di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura
temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare
esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il
rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare
il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore,
ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di
affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente
determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le
amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale,
occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a
esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione di natura occasionale o coordinata e
continuativa per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che
operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto
dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di
orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione
dei contratti di lavoro di cui al d.lgs. 10.09.2003, n. 276,
purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore;
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio
o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di
spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito
con legge. n. 122/2010 e s.m.i.
(salve particolari ipotesi: es. la copertura della spesa
mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da
altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte
parere 25.10.2013 n. 362); inoltre in sede di
assunzione dell’impegno di spesa il funzionario, ai sensi
dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009
convertito dalla legge n. 102/2009, ha l'obbligo di
accertare preventivamente che il programma dei pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le
regole di finanza pubblica, salvo incorrere, in caso di
inosservanza di tale obbligo, in responsabilità disciplinare
ed amministrativa.
II.
Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di
legittimità per il conferimento dell’incarico occorre
evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti con la
nota pervenuta il 24.04.2015, solo con riferimento ad alcuni
aspetti oggetto di rilievo risultano essere state fornite
indicazioni o chiarimenti atti a giustificare sotto un
profilo di regolarità e legittimità l’operato
dell’amministrazione.
In particolare è stata fornita puntuale indicazione circa
l’avvenuta pubblicazione dell’incarico conferito sul sito
web dell’amministrazione e circa il rispetto dei limiti di
spesa fissati dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010. Non adeguate
risultano invece le giustificazioni inerenti l’affidamento
dell’incarico in via diretta e l’accertamento preventivo
della compatibilità con i vincoli finanziari del programma
di spesa.
1. In primo luogo va rilevato che
l’obbligo di seguire procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di collaborazione è
puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7
D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla
giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per
la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in
proposito è stato affermato che “il conferimento di
incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve
avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e
non già in base alla sola valutazione di idoneità del
prescelto”
(TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato,
in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità
e massima partecipazione:
la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “l'affidamento
di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da
conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione
non può prescindere dal preventivo svolgimento di una
selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata”
(Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed ancora: “qualsivoglia
pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un
professionista esterno un incarico di collaborazione, di
consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante
qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche
occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una
procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e
adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di
omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione
del servizio”
(TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte Conti sez.
reg. contr. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37;
parere 27.11.2012 n. 509 che ribadiscono i principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto
modo di statuire che: “il comma 6-bis
dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per
le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento di incarichi di
collaborazione, ha in concreto posto la necessità
dell’espletamento della procedura concorsuale, nella
considerazione che un simile modus operandi, implicando il
rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli
operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione
conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità
e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97”
(Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità
Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione
delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto, il ricorso a procedure
comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato
con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla
giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della consulenza in relazione ad un termine
prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare
urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione
dell’attività discendente dall’incarico”
(ex plurimis,
parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente
chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di
incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una
soglia individuata in valore monetario (o di un numero
massimo di ore della prestazione richiesta al
collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto
non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”,
in particolare agli affidamenti in economia
(Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37; Sez.
contr. Prov. Trento, n. 2/2010 e n. 8/2010; cfr le recenti Sez.
contr. reg. Piemonte
parere 25.10.2013 n. 362;
parere 19.12.2013 n. 421).
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa
Sezione (parere
20.12.2012 n. 5) ha già avuto modo
di affermare, esaminando un regolamento comunale che
prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa
pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per
incarichi eccedenti una determinata soglia monetaria, che
una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto
prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come
introdotto dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di
conversione, a mente del quale “Le
amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche,
secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza
lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di
sotto delle quali le procedure comparative non sono
necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “Va
aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti
sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza
ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo
riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti
pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui,
quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va
quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve
essere generalizzato, salve circostanze del tutto
particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura
concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione
sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.)
(cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)”
(cfr. di recente sez. controllo Piemonte,
parere 11.04.2014 n. 11).
In proposito occorre evidenziare quindi che
non risulta compatibile con il vigente quadro
normativo la disciplina prevista dal regolamento dell’ente
camerale del 11.07.2008 (art. 7, lett. b),
peraltro non oggetto di approvazione con deliberazione
collegiale di questa Sezione, secondo cui
sarebbe possibile procedere ad affidamenti senza procedura
di comparazione per incarico di ammontare sino ad €
5.000,00, oltre IVA ed eventuali oneri obbligatori.
Conseguentemente l’ente camerale avrebbe dovuto
correttamente, previa disapplicazione della citata
previsione regolamentare, provvedere ad individuare
l’incaricato a seguito di procedura comparativa pubblica, in
conformità con l’art. 7, comma 6-bis, d.lgs. n. 165/2001.
In coerenza con quanto detto l’ente camerale nel conformarsi
alla presente pronuncia dovrà, tra l’altro, procedere per il
futuro alla immediata disapplicazione della citata
disposizione regolamentare, fermo restando la doverosità di
una modifica al testo regolamentare nella parte oggetto del
segnalato contrasto con la disciplina legislativa come
puntualmente interpretata dalla giurisprudenza contabile
(cfr. Corte conti, sez. reg. contr., 11.04.2014, n. 76).
III.
In secondo luogo l’atto di affidamento
dell’incarico di consulenza è altresì in contrasto con il
dettato normativo anche sotto il profilo della mancata
verifica che il pagamento sia compatibile con i vincoli
finanziari.
Al riguardo va richiamata la previsione di
cui all’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 78/2009
convertito dalla l. n. 102/2009, che pone in capo al
funzionario che impegna una spesa l'obbligo di accertare
preventivamente che il programma dei pagamenti sia
compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le
regole di finanza pubblica.
Si tratta di obbligo preventivo posto
direttamente in capo al funzionario o dirigente che effettua
l’impegno, di qualunque servizio o settore esso sia e che va
fatto a prescindere dalle modalità di finanziamento della
spesa, essendo funzionale innanzitutto ad una verifica di
cassa circa l’effettiva sostenibilità del pagamento nei
termini contrattualmente previsti e alla conformità dello
stesso con il complesso dei vincoli vigenti.
Conseguentemente sotto tale profilo non è adeguata la
risposta della Camera di Commercio che sul punto si è
limitata ad affermare che in sede di bilancio di previsione
sarebbero state stanziate risorse sufficienti risultando una
somma di € 20.000,00, risultando assicurata unicamente la
capienza del capitolo di bilancio.
La suddetta verifica preventiva è infatti essenzialmente un
controllo inerente la cassa finalizzato ad assicurare
l’effettività del pagamento nei tempi stabiliti, da
effettuarsi operativamente mediante una programmazione dei
flussi di cassa ed un successivo monitoraggio nel corso
dell’anno delle disponibilità liquide, onde scongiurare
ritardi anche con riferimento alle previsioni contenute nel
d.lgs. n. 231/2002, modificato dal d.lgs. n. 192/2012, in
tema di lotta al ritardo nei pagamenti delle transazioni
commerciali.
Va infine rammentato che secondo l’espressa previsione di
legge in caso di inosservanza di tale
obbligo, quale misura organizzativa per garantire il
tempestivo pagamento delle somme dovute, il soggetto
inadempiente può incorrere in responsabilità disciplinare ed
amministrativa. L’atto di incarico dunque non risulta
conforme al dettato normativo anche sotto tale profilo.
Alle rilevate irregolarità consegue l’obbligo della Camera
di Commercio di conformare la propria azione amministrativa
in materia di affidamento di incarichi alla legge e di dare
tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 08.06.2015 n. 98). |
SEGRETARI COMUNALI: Nel
caso di convenzione di segreteria fra comuni tutti privi di
personale con qualifica dirigenziale, è possibile attribuire
al segretario comunale, ai sensi del citato art. 10, comma
2-bis, del d.l. n. 90/2014, quota dei diritti di rogito, a
prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato,
in concreto, il segretario preposto.
La norma,
infatti, prevede e distingue due
ipotesi legittimanti l’erogazione di quota dei proventi.
La prima, quella dei segretari preposti a comuni
privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie
in cui non ritiene rilevante la fascia professionale in cui
è inquadrato il segretario preposto. La seconda,
quella dei segretari che non hanno qualifica dirigenziale,
in cui àncora l’attribuzione di quota dei diritti di rogito
allo status professionale del segretario preposto,
prescindendo dalla classe demografica del comune di
assegnazione.
---------------
Il Sindaco del comune di Canneto Pavese, con nota del
03.03.2015, ha formulato una richiesta di parere avente ad
oggetto l’attribuzione dei diritti di rogito al segretario
comunale.
L’istanza precisa che presso il Comune presta servizio un
segretario comunale, di fascia C, in convezione con i comuni
di Castana e Montescano. Al medesimo è stato attribuito il
c.d. galleggiamento al fine di equiparare la retribuzione di
posizione a quella del personale incaricato della più
elevata posizione organizzativa, trattandosi di ente privo
di dirigenti.
Il Comune istante chiede se, alla luce delle recenti
normative, possano essere riconosciuti al segretario i
diritti di rogito, rispettando il limite del quinto dello
stipendio in godimento.
...
L’art. 10 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n.
114/2014, ha riformato la materia della corresponsione di
diritti di rogito ai segretari comunali.
Il primo comma della disposizione abroga l’art. 41, comma 4,
della legge n. 312/1908, che attribuiva ai segretari
comunali e provinciali, che rogavano predeterminati atti
(indicati ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata
alla legge n. 604/1962), per conto dell’ente presso cui
prestavano servizio, una quota del provento, spettante al
comune o alla provincia, ai sensi dell'art. 30, comma 2,
della legge n. 734/1973 (in misura pari al 75 per cento e
fino ad un massimo di un terzo dello stipendio in
godimento).
Il secondo comma dell’art. 10 del ridetto d.l. n. 90/2014
riformula il citato art. 30, secondo comma, della legge n.
734/1973, statuendo che “il provento annuale dei diritti
di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla
provincia”.
Il comma 2-bis, oggetto dei dubbi posti dal comune istante,
precisa, tuttavia, che “negli enti locali privi di
dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i
segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una
quota del provento annuale spettante al comune ai sensi
dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n.
734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per
gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D
allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive
modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante,
in misura non superiore a un quinto dello stipendio in
godimento”.
Il comma 2-ter, infine, risolve problemi di diritto
intertemporale, precisando che “le norme di cui al
presente articolo non si applicano per le quote già maturate
alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
La norma si inserisce in un contesto di razionalizzazione
dei compensi accessori attribuiti al personale che presta
servizio presso le pubbliche amministrazioni, sia in regime
di diritto privato che di diritto pubblico, che permea parte
del decreto legge n. 90/2014, convertito con legge n.
114/2014.
Circa la materia dei diritti di rogito ai
segretari comunali e provinciali, la legge,
dopo averne sancito la confluenza nel bilancio dell’ente di
riferimento (commi 1 e 2), permette
l’attribuzione di una quota del provento annuale previsto
dall’art. 30, comma 2, della legge n. 734/1973, come
modificato dallo stesso decreto legge n. 90/2014, in misura
non superiore al quinto dello stipendio in godimento e per i
soli segretari che prestano servizio in “enti locali
privi di dipendenti con qualifica dirigenziale”, e
comunque per quelli che “non hanno qualifica dirigenziale”.
Rinviando, per gli aspetti generali di analisi della nuova
disciplina, alla deliberazione della Sezione n.
297/2014/PAR, si evidenzia come, nel
parere 29.10.2014 n. 275,
la Sezione ha già messo in luce che, alla
luce della formulazione letterale della norma, nel caso di
convenzione di segreteria fra comuni tutti privi di
personale con qualifica dirigenziale, è possibile
attribuire, ai sensi del citato art. 10, comma 2-bis, del
d.l. n. 90/2014, quota dei diritti di rogito, a prescindere
dalla fascia professionale in cui è inquadrato, in concreto,
il segretario preposto.
La norma,
infatti, prevede e distingue due ipotesi
legittimanti l’erogazione di quota dei proventi. La prima,
quella dei segretari preposti a comuni privi di personale
con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non ritiene
rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il
segretario preposto. La seconda, quella dei segretari
che non hanno qualifica dirigenziale, in cui àncora
l’attribuzione di quota dei diritti di rogito allo status
professionale del segretario preposto, prescindendo dalla
classe demografica del comune di assegnazione.
Nella fattispecie sottoposta all’odierno esame della Sezione
(segretario di fascia professionale non equiparata a quella
dirigenziale, che presta servizio, a mezzo convenzione, in
comuni privi di dirigenti) non rileva l’istituto del “galleggiamento”
previsto dall’art. 41, comma 5, del CCNL di comparto,
stipulato il 16.05.2001, in base al quale l’indennità di
posizione del segretario non deve essere “inferiore a
quella stabilita per la posizione dirigenziale più elevata
nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della
dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale
incaricato della più elevata posizione organizzativa”.
Nel caso in esame, infatti, il segretario comunale
usufruisce di un’indennità parametrata a quella del
funzionario incaricato della più elevata posizione
organizzativa, non a quella dirigenziale, trattandosi di
enti privi di dirigenti.
Appare pertanto ammissibile l’attribuzione,
nei limiti previsti dalla legge, di quota parte dei diritti
di rogito.
Analogo orientamento, in fattispecie similare, è stato
assunto dalle Sezioni regionali per la Sicilia
(deliberazione n. 194/2014/PAR) e per il Lazio
(deliberazione n. 21/2015/PAR). Non rileva,
nel caso sottoposto all’odierno esame, la
differente situazione del segretario collocato in fascia non
equiparata a quella dirigenziale, che, prestando la sua
opera in comuni aventi dirigenti in servizio, fruisce di
un’indennità di posizione equiparata a quella del dirigente
avente il trattamento economico più elevato in base al
contratto collettivo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.05.2015 n. 189). |
APPALTI SERVIZI: Il
Collegio ritiene che la misura di cui all'art. 8, comma 8,
lett. a), del d.l. 66/2014 (ndr: riduzione unilaterale del
corrispettivo contrattuale del 5%) non sia applicabile ai
contratti aventi ad oggetto il servizio di igiene urbana
finanziati a tariffa.
Vale precisare che per eventuali altre
prestazioni, eventualmente acquistate in concreto con il
medesimo contratto e remunerate mediante l'erogazione di un
corrispettivo diversamente convenuto fra le parti,
l'esercizio di tale facoltà rimane impregiudicato e rimesso
a quelle valutazioni discrezionali dell'amministrazione, che
ordinariamente devono precedere la scelta di applicare la
riduzione unilaterale autorizzata dalla norma esaminata.
Al riguardo, è bene richiamare l'attenzione
sull'impatto che la misura può avere in termini di riduzione
della controprestazione acquistata e di eventuale recesso
anticipato dell'altro contraente, conseguenze che richiedono
l'accurata ponderazione caso per caso, in base ai contenuti
dei singoli atti negoziali di acquisto di beni e servizi,
della possibilità effettiva di rinegoziare un nuovo
equilibrio sinallagmatico secondo canoni di convenienza
economica e senza pregiudicare l'interesse pubblico da
soddisfare.
Rientra, in altre parole, nella
discrezionalità e responsabilità dell'amministrazione
valutare “ex ante” la sostenibilità giuridica e la
praticabilità concreta dell'operazione, onde neutralizzare i
rischi di effetti indesiderati e sul piano finanziario
contrastanti con gli stessi obiettivi cui la misura è
finalizzata.
---------------
Con la nota citata in epigrafe, prodotta espressamente ai
sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131,
il Sindaco del Comune di Sant’Oreste, per il tramite
del Consiglio delle Autonomie locali del Lazio (CAL -
Lazio), ha chiesto di conoscere il parere della Sezione
in ordine all’applicabilità dell’art. 8, comma 8, lett. a),
del d.l. 24.04.2014, n. 66, convertito con modificazioni
dalla legge 23.06.2014, n. 89, ai contratti concernenti il “settore
dell’igiene urbana ed ambientale”.
La riduzione unilaterale del 5% del corrispettivo pattuito,
con facoltà di rinegoziare il contenuto contrattuale,
contemplata dalla predetta norma quale misura specifica di
concorso al perseguimento degli obiettivi programmati di
riduzione della spesa di beni e servizi di cui ai commi 4-7,
riguarderebbe -secondo quanto esplicitato in atti– il
contratto in fase di stipula per l’affidamento, previa
aggiudicazione definitiva perfezionatasi in data 03.06.2014,
del “servizio di igiene urbana, servizi accessori e
fornitura di attrezzature e materiali d’uso per la raccolta
differenziata” in territorio comunale.
L’istante espone, a sostegno dei dubbi espressi, talune
argomentazioni avanzate in dottrina e tendenti ad escludere
i detti contratti dall’ambito applicativo della norma in
argomento.
...
Nel merito, il Collegio ritiene che per risolvere la
prospettata questione, in punto di diritto ed impregiudicata
ogni valutazione rientrante nella discrezionalità
dell’Amministrazione richiedente, non si possa prescindere
dal rilevare come la riduzione del
corrispettivo contrattuale prevista dall’art. 8, comma 8
lett. a), del d.l. 66/2014 costituisca misura discrezionale,
per tabulas finalizzata al conseguimento di obiettivi
macroeconomici di abbattimento della spesa corrente e,
specificamente, della componente individuata dalla stessa
norma al comma 4 come destinata agli acquisti di beni e
servizi, con conseguente recupero di maggiori margini di
manovra finanziaria pubblica.
Si tratta di obiettivi cogenti anche per gli Enti Locali che
sono chiamati a concorrervi pro-quota nella misura e con
modalità all'uopo legislativamente fissate.
Ed in effetti, il successivo art. 47 configura un meccanismo
preciso di riduzione delle risorse pubbliche destinabili
alla copertura della spesa corrente dei detti Enti, che
opera in modo differenziato in relazione alle peculiarità
dei rispettivi rapporti finanziari con lo Stato e che per i
Comuni si sostanzia in minori erogazioni a carico del fondo
di solidarietà comunale.
In tale ambito, si inquadrano i tagli inerenti agli
interventi sulla spesa corrente comunale per acquisti di
beni e servizi, qualificati come risparmi di spesa non già
per il bilancio del singolo ente interessato, bensì in una
più ampia prospettiva di sostenibilità dei conti pubblici
consolidati e quantificati in misura proporzionale alla
spesa media sostenuta nell’ultimo triennio relativamente a
voci classificate secondo i codici SIOPE elencati in
apposita Tabella A, annessa al decreto legge ed ivi
espressamente richiamata. Con le stesse modalità è
specularmente individuata, ex art. 47, comma 9, la riduzione
delle erogazioni spettanti a carico del fondo di solidarietà
comunale.
L' elencazione delle voci di cui alla citata Tabella A è da
ritenersi tassativa proprio perché finalizzata a
concretizzare gli obblighi di compartecipazione dei singoli
Comuni al conseguimento degli indicati obiettivi generali di
finanza pubblica (in senso parzialmente contrario, cfr. Sez.
regionale di controllo Lombardia deliberazione 24/2015/PAR).
Si tratta, infatti, di un parametro normativo di calcolo
che, ad avviso del Collegio, risponde a quelle esigenze di
certezza alle quali vanno fisiologicamente improntati i
rapporti finanziari fra Stato ed Enti Locali nel sistema di
finanza pubblica allargata, anche per garantire la
regolarità della pianificazione di bilancio rimessa
all’autonomia comunale, esigenze che rimarrebbero frustrate
ove il parametro stesso fosse considerato meramente
indicativo.
In proposito, peraltro, non si può omettere
di osservare come, dagli ambiti di spesa in relazione ai
quali individuare gli obiettivi obbligatori di risparmio
ricadenti sui singoli Comuni sia stato espunto, per scelta
legislativa operata in sede di conversione del d.l. 66/2014,
proprio quello concernente i contratti di servizio per
smaltimento rifiuti, contrassegnato dal codice SIOPE S1303,
e come, perciò, tale voce di spesa non possa concorrere in
alcun modo a determinare la base di calcolo delle riduzioni
proporzionali di cui trattasi.
Ciò posto, occorre chiedersi se tali ambiti di spesa segnino
con la stessa tassatività anche il perimetro dell'azione di
contenimento contemplata dall'art. 8, comma 4, e così pure
il limite dell'autorizzazione, strumentalmente ad essa
correlata in modo espresso, ad esercitare la facoltà
unilaterale di riduzione dell’importo contrattuale di cui al
comma 8, lett. a), riconosciuta al contraente pubblico in
deroga ai principi civilistici in tema di accordo, per
finalità di salvaguardia degli equilibri di finanza
pubblica.
Sul punto, il Collegio ritiene sussistenti argomentazioni di
ordine letterale e sistematico che portano ad escludere tale
ulteriore valenza dell’elencazione delle spese sopra
richiamata.
Depone in questa direzione innanzitutto la lettera del comma
4, per la quale la riduzione della spesa di beni e servizi è
testualmente riferibile ad “ogni settore”.
Sembrerebbe, poi, di difficile riconduzione a logica
coerenza -in un contesto caratterizzato dal riconoscimento
espresso di autonomia degli Enti interessati nella scelta di
misure alternative di riduzione della spesa corrente (art.
47, comma 12)- ipotizzare preclusioni, a monte ed in
astratto, proprio delle iniziative di risparmio autorizzate
per indirizzare l’azione di contenimento nell'ambito degli
acquisti di beni e servizi, cui il legislatore ha inteso
riservare prioritaria attenzione per riqualificare la spesa
corrente.
Per quanto sopra detto, si ritiene non
sostenibile la tesi per la quale l'esclusione dei contratti
di appalto del servizio di igiene urbana dal novero di
quelli per i quali è esercitabile la facoltà unilaterale di
abbattimento dell’importo contrattuale deriverebbe
indirettamente dalla sola mancata menzione dei medesimi
nella tabella A di cui all’art. 47, comma 9, lett. a), primo
alinea.
A tale conclusione si può, peraltro, pervenire per
considerazioni diverse che attengono alla configurazione
astratta della misura in termini di idoneità al
conseguimento degli obiettivi di risparmio, come delineati
dalle norme in esame.
Così concepita, infatti, la misura per sua
natura si attaglia ai contratti di tipo sinallagmatico
caratterizzati dallo scambio tra la prestazione richiesta al
contraente privato ed il pagamento, da parte del contraente
pubblico, di un prezzo la cui riduzione sottende un minore
esborso a carico del bilancio.
Solo con riguardo a questi contratti, tra
l'altro, è possibile ipotizzare la rinegoziazione “iure
privatorum” del contenuto contrattuale, con contrazione
della controprestazione, contemplata espressamente dalla
norma all’esame a fronte dell’esercizio della facoltà di
riduzione del prezzo originariamente pattuito, anche con
riferimento a contratti già in corso di esecuzione e
limitatamente alla loro durata residua.
Esula da questo schema, viceversa, il
servizio di igiene urbana che, secondo la pertinente
normativa di settore, è obbligatoriamente finanziato con
apposite entrate tariffarie, strutturalmente determinate
sulla base della pianificazione analitica dei costi del
servizio dedotta nel contratto di affidamento e di
regolazione dei rapporti con il soggetto gerente.
L’abbattimento dell’importo contrattuale in
queste fattispecie, pertanto, si rivelerebbe
finanziariamente neutro per i conti pubblici in quanto
dovrebbe essere compensato da una riduzione di
corrispondente valore della tariffa gravante sui cittadini
destinatari del servizio, effetto diverso dal risparmio di
spesa di cui trattasi.
Esso, poi, non sarebbe non altrimenti conseguibile se non
mediante la previa rideterminazione del piano
economico-finanziario del servizio, alla quale la
ridefinizione del regime tariffario, varata dall’ente
interessato nell’esercizio di poteri pubblicistici, è
strettamente correlata.
E ciò ne evidenzia la difficile compatibilità sul piano
giuridico con la salvaguardia dell’originario affidamento,
mantenendo l'erogazione di un servizio con caratteristiche
corrispondenti a quelle convenute e senza esiti contenziosi.
Per le esposte ragioni, il Collegio ritiene
che la misura di cui all'art. 8, comma 8, lett. a), non sia
applicabile ai contratti aventi ad oggetto il servizio di
igiene urbana finanziati a tariffa,
ferme comunque le esigenze di razionalizzazione dei costi a
beneficio dell'utenza di cui l'ente locale è
responsabilmente tenuto a farsi carico.
Vale precisare che per eventuali altre
prestazioni, eventualmente acquistate in concreto con il
medesimo contratto e remunerate mediante l'erogazione di un
corrispettivo diversamente convenuto fra le parti,
l'esercizio di tale facoltà rimane impregiudicato e rimesso
a quelle valutazioni discrezionali dell'amministrazione, che
ordinariamente devono precedere la scelta di applicare la
riduzione unilaterale autorizzata dalla norma esaminata.
Al riguardo, è bene richiamare l'attenzione
sull'impatto che la misura può avere in termini di riduzione
della controprestazione acquistata e di eventuale recesso
anticipato dell'altro contraente, conseguenze che richiedono
l'accurata ponderazione caso per caso, in base ai contenuti
dei singoli atti negoziali di acquisto di beni e servizi,
della possibilità effettiva di rinegoziare un nuovo
equilibrio sinallagmatico secondo canoni di convenienza
economica e senza pregiudicare l'interesse pubblico da
soddisfare.
Rientra, in altre parole, nella
discrezionalità e responsabilità dell'amministrazione
valutare “ex ante” la sostenibilità giuridica e la
praticabilità concreta dell'operazione, onde neutralizzare i
rischi di effetti indesiderati e sul piano finanziario
contrastanti con gli stessi obiettivi cui la misura è
finalizzata (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 14.04.2015 n. 48). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Con
parere
11.02.2009 n. 37
la Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame
dei regolamenti trasmessi dai Comuni in materia di
affidamento degli incarichi di collaborazione e delle
consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti pareri ed ha
individuato i seguenti principi:
1) la disciplina dettata dall’art. 3, commi
da 54 a 57, della legge n. 244 del 2007 stabilisce l’obbligo
di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di
affidamento degli incarichi di collaborazione,
studio e ricerca, nonché di consulenza, a
soggetti estranei all’amministrazione; la competenza ad
adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene
alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal
Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma,
lett. a, del T.U.E.L.);
2) l’art. 46 del decreto legge n.
112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, ha
unificato gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto
professionale e gli incarichi di studio e
consulenza (riconducendoli all’interno della tipologia
generale di collaborazione autonoma), tutti caratterizzati
dal grado di specifica professionalità richiesta (in
particolare, questi presupposti distinguono dette ipotesi
dalle collaborazioni “normali”, il cui uso è vietato per lo
svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente);
3) quanto alla locuzione
“particolare e comprovata specializzazione universitaria”,
questa Sezione ha già chiarito che con essa si intende il
possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello
che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo
universitario, basato su conoscenze specifiche inerenti il
tipo di attività professionale oggetto dell’incarico; la
specializzazione richiesta, per essere “comprovata”, deve
essere poi fatta oggetto di specifico accertamento in
concreto condotto sull’esame di documentati curricula; e ciò
perché il mero possesso formale di titoli non sempre è
sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste
capacità professionali
(ma v. ora anche l’art. 11, commi 1, 2 e 4, del decreto
legge n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 114 del 2014);
4) il nuovo testo dell’art. 7 del decreto
legislativo n. 165 del 2001
(testo unico del pubblico impiego, da ora innanzi TUPI)
richiede, come presupposti di legittimità, tutti i
requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile
necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione
o di studio; in particolare, quello della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che
si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge, oltre che previste dal programma approvato dal
Consiglio ai sensi dell’art. 42 del decreto legislativo n.
267 del 2000;
5) il comma 3 dell’art. 46 del decreto
legge n. 112 del 2008 ha eliminato l’obbligo di individuare
nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile,
prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale
nel bilancio preventivo; è pertanto necessario accertare, in
sede di conferimento, l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6) quanto all’oggetto delle collaborazioni
autonome, si richiamano inoltre le considerazioni contenute
nel punto 6 del
parere
11.03.2008 n. 37
di questa Sezione sull’inapplicabilità della disciplina a
materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione
tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7) il conferimento dell’incarico deve
essere preceduto da procedure selettive di natura
concorsuale, adeguatamente pubblicizzate; in proposito si è
posto il problema della possibilità ed eventualmente dei
limiti sussistenti all’affidamento diretto dell’incarico; in
taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti
previsti nel Codice dei contratti pubblici (decreto
legislativo n. 163 del 2006), tuttavia, la materia è
estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi
e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri: deve
invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali
deve essere generalizzato e che può prescindersi da esso
solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio:
a) procedura concorsuale andata deserta, b) unicità della
prestazione sotto il profilo soggettivo, c) assoluta urgenza
determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza
in relazione ad un termine prefissato o ad un evento
eccezionale;
8) l’atto di incarico deve contenere tutti
gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i
contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare:
l’oggetto della prestazione, la durata, la modalità di
determinazione del corrispettivo, i termini di pagamento, le
verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile
in ipotesi di proroga o rinnovo);
9) in ogni caso, tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di
incarico;
10) nel regolamento deve essere
espressamente precisato che le società partecipate debbono
osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per
gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo
dell’ente locale sulla relativa osservanza.
---------------
1.- L’art. 3 della legge 24.12.2007, n. 244, come modificato
dall’art. 46, comma 3, decreto legge 25.06.2008, n. 112, e
dalla relativa legge di conversione –nel dettare le regole
alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il
conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di
ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei
all’amministrazione– al comma 56 stabilisce quanto segue: “con
il regolamento di cui all'articolo 89 del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, sono fissati, in conformità
a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i
criteri e le modalità per l'affidamento di incarichi di
collaborazione autonoma, che si applicano a tutte le
tipologie di prestazioni. La violazione delle disposizioni
regolamentari richiamate costituisce illecito disciplinare e
determina responsabilità erariale. Il limite massimo della
spesa annua per incarichi di collaborazione è fissato nel
bilancio preventivo degli enti territoriali”.
Il successivo comma 57, poi, sancisce che “le
disposizioni regolamentari di cui al comma 56 sono
trasmesse, per estratto, alla sezione regionale di controllo
della Corte dei conti entro trenta giorni dalla loro
adozione”.
Questa Sezione ha individuato, con il
parere
11.03.2008 n. 37
e
parere
06.11.2008 n. 224,
i criteri interpretativi della normativa al fine di
stabilire, nell’esame dei regolamenti pervenuti, parametri
di verifica uniformi, nonché l’alveo giuridico in cui si
colloca la funzione di controllo.
2.- Al riguardo, necessario punto di partenza è la
considerazione di quella funzione delle Sezioni regionali
della Corte dei conti rispetto agli enti locali che si
sostanzia nell’esercizio di un controllo di natura “collaborativa”,
nell'ambito del quale il legislatore, come ha riconosciuto
la Corte costituzionale, è libero di assegnare qualsiasi
competenza, purché vi sia un fondamento costituzionale
rinvenibile in una lettura adeguatrice delle norme
originariamente dettate per lo Stato, quali gli artt. 100,
81, 97 primo comma e 28 della Costituzione (cfr. le sentenze
della Corte costituzionale nn. 179 del 2007 e 60 del 2013).
In questo quadro, l’obbligo di trasmissione alla Corte dei
conti di atti e documenti, da parte degli enti locali, non
può essere fine a se stesso, ma deve essere finalizzato allo
svolgimento di specifiche funzioni, come messo in luce dalla
Sezione in più occasioni (per tutte, la deliberazione n. 11
del 26.10.2006).
La trasmissione dei regolamenti deve ritenersi pertanto
strumentale al loro esame e ad un’eventuale pronuncia della
Sezione regionale. Questa forma di controllo, in
particolare, è ascrivibile alla categoria del riesame di
legalità e regolarità, dovendosi assumere a parametro delle
disposizioni regolamentari lo statuto dell’ente, i limiti
normativi di settore (in particolare l’art. 7 del decreto
legislativo n. 165 del 2001 e l’art. 110 del decreto
legislativo n. 267 del 2000), oltre ad ogni altra
disposizione legislativa che contenga indicazioni, anche di
natura finanziaria, riferite a questa materia (v. ancora la
sentenza, prima richiamata, n. 60 del 2013).
Fissati i parametri di raffronto, occorre verificare quali
siano gli effetti del controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale,
ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di
controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti
locali, ha ritenuto ascrivibili al riesame di legalità e
regolarità le verifiche previste dall’art. 1, commi 166 e
seguenti, della legge n. 166 del 2005; alla stessa maniera,
come s’è prima visto, deve esser qualificato anche il
controllo ex art. 3, comma 57, della legge n. 244 del 2007,
che ha la caratteristica –in una prospettiva non più statica
(come era il tradizionale controllo di legalità), ma
dinamica– di finalizzare il confronto tra fattispecie e
parametro normativo all’adozione di misure correttive (cfr.
ancora la sentenza n. 60 del 2013).
Lo strumento per raggiungere siffatto risultato può essere
individuato nell’applicazione dell’iter procedurale dettato
dall’art. 1, comma 168, della legge n. 266 del 2005 (ora
abrogato dall’art. 3 comma, 1-bis, del decreto legge n. 174
del 2012, convertito con legge n. 213 del 2013 e sostituito
dal nuovo art. 148-bis del TUEL, introdotto dall’art. 3 del
citato decreto legge n. 174 del 2012), norma che prevede
specifiche pronunce da indirizzare all’ente controllato (cui
spetta l’adozione delle necessarie misure correttive),
nonché la vigilanza sull’effettiva adozione delle misure
stesse (in tal senso, per tutte, v. la deliberazione di
questa Sezione n. 294/2013/REG).
Con
parere
11.02.2009 n. 37
la Sezione ha stabilito alcuni criteri omogenei per l’esame
dei regolamenti trasmessi dai Comuni in materia di
affidamento degli incarichi di collaborazione e delle
consulenze.
Nell’autodeterminare le linee guida per la propria attività,
la Sezione ha richiamato i propri precedenti parere
11.03.2008 n. 37
e
parere
06.11.2008 n. 224
ed ha individuato i seguenti principi:
1) la disciplina dettata dall’art. 3, commi
da 54 a 57, della legge n. 244 del 2007 stabilisce l’obbligo
di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di
affidamento degli incarichi di collaborazione,
studio e ricerca, nonché di consulenza, a
soggetti estranei all’amministrazione; la competenza ad
adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene
alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal
Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma,
lett. a, del T.U.E.L.);
2) l’art. 46 del decreto legge n. 112 del
2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008, ha unificato
gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto
professionale e gli incarichi di studio e
consulenza (riconducendoli all’interno della tipologia
generale di collaborazione autonoma), tutti caratterizzati
dal grado di specifica professionalità richiesta (in
particolare, questi presupposti distinguono dette ipotesi
dalle collaborazioni “normali”, il cui uso è vietato
per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente);
3) quanto alla locuzione “particolare e
comprovata specializzazione universitaria”, questa
Sezione ha già chiarito,
con il
parere
12.05.2008 n. 28
e
parere
12.05.2008 n. 29,
che con essa si intende il possesso di conoscenze
specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con
un percorso formativo di tipo universitario, basato su
conoscenze specifiche inerenti il tipo di attività
professionale oggetto dell’incarico; la specializzazione
richiesta, per essere “comprovata”, deve essere poi
fatta oggetto di specifico accertamento in concreto condotto
sull’esame di documentati curricula; e ciò perché il
mero possesso formale di titoli non sempre è sufficiente a
comprovare l’acquisizione delle richieste capacità
professionali (ma
v. ora anche l’art. 11, commi 1, 2 e 4, del decreto legge n.
90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
114 del 2014);
4) il nuovo testo dell’art. 7 del decreto
legislativo n. 165 del 2001
(testo unico del pubblico impiego, da ora innanzi TUPI)
richiede, come presupposti di legittimità, tutti i
requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile
necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione
o di studio; in particolare, quello della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che
si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge, oltre che previste dal programma approvato dal
Consiglio ai sensi dell’art. 42 del decreto legislativo n.
267 del 2000;
5) il comma 3 dell’art. 46 del decreto
legge n. 112 del 2008 ha eliminato l’obbligo di individuare
nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile,
prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale
nel bilancio preventivo; è pertanto necessario accertare, in
sede di conferimento, l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6) quanto all’oggetto delle collaborazioni
autonome, si richiamano inoltre le considerazioni contenute
nel punto 6 del
parere
11.03.2008 n. 37
di questa Sezione sull’inapplicabilità della disciplina a
materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione
tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7) il conferimento dell’incarico deve
essere preceduto da procedure selettive di natura
concorsuale, adeguatamente pubblicizzate; in proposito si è
posto il problema della possibilità ed eventualmente dei
limiti sussistenti all’affidamento diretto dell’incarico; in
taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti
previsti nel Codice dei contratti pubblici (decreto
legislativo n. 163 del 2006), tuttavia, la materia è
estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi
e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri: deve
invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali
deve essere generalizzato e che può prescindersi da esso
solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio:
a) procedura concorsuale andata deserta, b) unicità della
prestazione sotto il profilo soggettivo, c) assoluta urgenza
determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza
in relazione ad un termine prefissato o ad un evento
eccezionale;
8) l’atto di incarico deve contenere tutti
gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i
contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare:
l’oggetto della prestazione, la durata, la modalità di
determinazione del corrispettivo, i termini di pagamento, le
verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile
in ipotesi di proroga o rinnovo);
9) in ogni caso, tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di
incarico;
10) nel regolamento deve essere
espressamente precisato che le società partecipate debbono
osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per
gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo
dell’ente locale sulla relativa osservanza.
3.- Con specifico riferimento alla previsione regolamentare
esaminata nella presente deliberazione –il cui oggetto è
definito dal deferimento disposto, di modo che resta
impregiudicata ogni valutazione su altre disposizioni del
medesimo regolamento ovvero su modifiche dello stesso medio
tempore o successivamente intervenute– si deve rilevare che
detta previsione si pone in contrasto con disposizioni sia
costituzionali sia legislative.
3.1.- In primo luogo, al riguardo, la Sezione ricorda
che l’art. 36, primo comma, della Costituzione stabilisce,
con norma ritenuta direttamente precettiva ed imperativa nei
rapporti fra le parti, che “il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del
suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e
alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (v., fra
le molte, Corte di Cassazione, sezione lavoro, 17.01.2011,
n. 896; 04.12.2013, n. 27138).
Nell’ambito dei rapporti di impiego, è dunque la prestazione
dell’attività lavorativa, di per sé considerata, a fondare
il diritto alla retribuzione, tanto che questa è dovuta
anche laddove difetti una valida fattispecie contrattuale
regolatrice dell’attività prestata, come espressamente
previsto dall’art. 2126 del codice civile (secondo cui “la
nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce
effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità
dell'oggetto o della causa”).
Al di fuori delle speciali normative legislative dettate per
il c.d. “terzo settore” (v. in generale l’art. 2,
commi 1 e 2, della legge n. 266 del 1991, che s’informa però
ad un precipuo fine solidaristico non applicabile di per sé
alla sfera dell’organizzazione amministrativa), dunque, la
mera prestazione dell’attività legislativa impone, in ogni
caso, l’erogazione del relativo compenso.
A ciò il regolamento dell’ente –quale fonte di
autoorganizzazione, nell’ambito dell’autonomia, anche
costituzionale, garantita all’ente– non può dunque derogare
(esponendo peraltro l’ente, così facendo, al rischio d’esser
convenuto ex post in giudizio dal prestatore di
lavoro che chieda la dovuta retribuzione, in virtù del
richiamato quadro normativo).
3.2.- In secondo luogo, un analogo contrasto con la
disciplina legislativa vigente emerge con riferimento a quel
carattere fiduciario, che, secondo l’ente, permetterebbe il
conferimento diretto dell’incarico senza l'esperimento di
procedure di selezione (art. 9, comma 2).
Atteso che l’art. 7, comma 6-bis, del T.U.P.I. è espressione
dei principi costituzionali di buon andamento e di
imparzialità delle amministrazioni pubbliche –attraverso,
appunto, la previsione della procedura concorsuale o
comunque comparativa per l’affidamento di tali incarichi– se
ne deve dedurre che, ferma restando la sua applicazione da
parte di ogni soggetto pubblico destinatario della norma,
vengano rimessi ai relativi ordinamenti le sole modalità
delle procedure comparative medesime: la doverosa osservanza
della norma primaria non consente, quindi, alcuna deroga, in
riferimento al carattere fiduciario della prestazione, da
parte degli ordinamenti delle singole amministrazioni tenute
all’osservanza della disciplina dell’art. 7 T.U.P.I. (salvo,
in generale, i casi prima visti).
Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti
pubblici in questione di stabilire ad libitum,
attraverso i propri statuti e regolamenti, categorie che,
per quantità o qualità dell’incarico, sono sottratte alle
procedure concorsuali, così svuotando di contenuto, tra
l’altro, la stessa norma sul controllo (v. la deliberazione
n. 294/2013/REG di questa Sezione)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.03.2015 n. 150). |
PATRIMONIO:
L’obbligo gravante sulle amministrazioni statali
di avvalersi, per le proprie esigenze istituzionali,
prioritariamente, di immobili di proprietà pubblica;
l’assenza di oneri a carico del Comune (che rimane
proprietario dell’immobile) e la presenza di un interesse
pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul
territorio di una caserma della Guardia di Finanza, induce
la Sezione a ritenere legittima la stipulazione di un
contratto di comodato gratuito (articoli 1803 e seguenti del
Codice civile), a tempo determinato, per l’allocazione di
una caserma della Guardia di Finanza in un immobile
appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per
l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al
quale competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117,
co. 2, lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di
ordine pubblico e sicurezza.
---------------
Con la nota indicata, il Sindaco del Comune di Bitonto
chiede di conoscere il parere di questa Sezione sulla
possibilità di concedere a titolo gratuito alla Guardia di
Finanza, con contratto di comodato e per un periodo di tempo
determinato, una porzione di immobile appartenente al
patrimonio del Comune per l’allocazione della relativa
caserma.
L’ente ha specificato che tale porzione di immobile (il
resto dell’immobile è adibito a sede del Corpo di Polizia
municipale e ad Archivio comunale) è attualmente utilizzata
dalla Guardia di Finanza in virtù di un contratto di
locazione, stipulato nel 2003 per anni 6, tacitamente
rinnovato ai sensi dell’art. 28 della legge n. 392/1978 (la
scadenza è quindi prevista nel 2015), con canone annuo pari
ad euro 13.999,92.
Il Comune ha evidenziato nella richiesta di parere che
l’Amministrazione finanziaria ha posto come condizione per
il mantenimento del suddetto presidio la stipulazione di un
contratto di comodato, con eliminazione di ogni costo a
titolo di canone locativo e che il mantenimento della
caserma nel territorio comunale è di fondamentale importanza
in relazione ai fenomeni di criminalità esistenti nel
territorio stesso.
...
La questione posta dal Comune di Bitonto, in estrema
sintesi, riguarda la possibilità di concedere gratuitamente
alla Guardia di Finanza, a tempo determinato, previa
stipulazione di un contratto di comodato gratuito, una parte
di un immobile appartenente al patrimonio dell’ente per la
allocazione della relativa caserma. Come già indicato in
occasione della verifica della ammissibilità oggettiva del
quesito proposto, considerato che la Corte dei conti non può
esprimersi, neanche in via preventiva, su specifiche
fattispecie, la questione sottoposta sarà affrontata solo in
termini generali.
Questa Sezione esprimerà, quindi, il proprio avviso in
merito al quesito proposto limitatamente ai principi e alle
regole che l’ente potrà considerare, nell’esercizio della
propria discrezionalità, per assumere le determinazioni di
competenza.
Ciò premesso, occorre delineare, almeno brevemente, la
disciplina vigente in materia di gestione del patrimonio
immobiliare del Comune, con particolare riferimento alle
modalità di utilizzazione del patrimonio e alla possibilità
e alle modalità di utilizzazione dello stesso patrimonio per
l’allocazione di presidi territoriali delle forze
dell’ordine (es. Guardia di Finanza, Carabinieri, ecc.).
La gestione del patrimonio immobiliare pubblico è stata
oggetto negli ultimi anni di numerosi interventi
legislativi. Tali interventi sono stati tutti finalizzati a
promuovere procedimenti di dismissione o valorizzazione.
Analoga attenzione è stata riservata dal legislatore, sempre
negli ultimi anni, al diverso tema della riduzione dei
contratti di locazione passiva o almeno dei relativi canoni
a carico di amministrazioni pubbliche.
In proposito, si evidenzia che, recentemente (Sez. contr.
Lombardia
parere 12.11.2014 n. 285),
è stato chiarito che la riduzione dei canoni,
corrisposti dalle amministrazioni pubbliche per la locazione
di immobili ad uso istituzionale, imposta dall’art. 3, co.
4, del D.L. n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di
contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti
stipulati con enti territoriali (es. Comuni) proprietari.
Sul tema della gestione del patrimonio immobiliare e dei
contratti di locazione attiva e passiva stipulati da
amministrazioni pubbliche, la Corte dei conti, in numerose
occasioni, tra l’altro, ha specificato che
la deroga al principio generale di redditività del bene
pubblico può essere giustificata dalla assenza di scopo di
lucro della attività svolta dal soggetto destinatario di
tali beni (Sez.
contr. Veneto
parere 05.10.2012 n. 716;
Sez. contr. Lombardia
parere 13.06.2011 n. 349
e
parere 06.05.2014 n. 172).
Questa Sezione in passato (parere
25.07.2008 n. 23), proprio al Comune odierno
richiedente, ha avuto modo di specificare che
la concessione in comodato di beni appartenenti al
patrimonio disponibile del Comune ad altra amministrazione
pubblica, per l’allocazione di uffici destinati alla
erogazione diretta di servizi a favore della comunità
insediata nel territorio, non è pregiudizievole per le
finanze dell’ente, sia perché la proprietà del bene rimane
all’ente, sia perché l’operazione è finalizzata alla tutela
dell’interesse pubblico della comunità locale alla fruizione
di un servizio, avvantaggiata dal mantenimento sul
territorio degli uffici relativi.
Ancora prima, in relazione alla questione
della legittimità di costituire, a titolo gratuito, un
diritto di superficie su un terreno comunale per la
realizzazione di una caserma della Guardia di Finanza,
questa Sezione (parere
11.10.2006 n. 3) aveva espresso
un orientamento favorevole, sia per l’assenza di
depauperamento del patrimonio comunale (anche dopo la
costituzione di un diritto di superficie, il suolo rimane di
proprietà comunale), sia per il preminente interesse
pubblico ravvisabile nella sicurezza dei cittadini.
Non costituisce ostacolo ad analoga conclusione nel caso di
specie l’orientamento espresso, ai sensi dell’art. 6, co. 4,
del D.L. 174/2012, dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 09.06.2014 n. 16.
La Sezione delle Autonomie, con tale deliberazione, con
riferimento alla diversa ipotesi di un contributo, a carico
del bilancio comunale, per il pagamento ad un privato del
canone di locazione della sede della stazione dell’Arma dei
Carabinieri, pur considerando quanto disposto dall’art. 39
della legge n. 3/2003 e dall’art. 1, co. 439, della legge n.
296/2006, ha espresso l’avviso che tale
pagamento non è legittimo in quanto la materia dell’ordine
pubblico e della sicurezza risulta intestata (art. 117, co.
2, lett. h), Cost.), in via esclusiva, allo Stato al quale
spettano i relativi oneri finanziari.
Tra le motivazioni che hanno indotto la Sezione delle
Autonomie a pervenire a tale conclusione vi
è l’obbligo per le amministrazioni statali,
in base al combinato disposto di cui all’art. 2, co. 222,
della legge 296/2006 e ai decreti legge n. 98/2011 e n.
201/2011, prima di reperire sul mercato
immobili di proprietà privata, di accertare mediante
l’Agenzia del Demanio l’esistenza di immobili di proprietà
dello Stato (ma anche degli enti locali), idonei
all’utilizzo richiesto.
Tutto ciò premesso, l’obbligo gravante
sulle amministrazioni statali di avvalersi, per le proprie
esigenze istituzionali, prioritariamente, di immobili di
proprietà pubblica; l’assenza di oneri a carico del Comune
(che rimane proprietario dell’immobile) e la presenza di un
interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al
mantenimento sul territorio di una caserma della Guardia di
Finanza, induce la Sezione a ritenere legittima la
stipulazione di un contratto di comodato gratuito (articoli
1803 e seguenti del Codice civile), a tempo determinato, per
l’allocazione di una caserma della Guardia di Finanza in un
immobile appartenente al patrimonio di un Comune.
In conformità all’art. 1808 del Codice civile, le spese per
l’uso dell’immobile dovranno essere a carico dello Stato al
quale, come evidenziato dalla Sezione delle Autonomie nella
citata
deliberazione 09.06.2014 n. 16,
competono, in via esclusiva, ai sensi dell’art. 117, co. 2,
lett. h), Cost., gli oneri finanziari in materia di ordine
pubblico e sicurezza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 15.12.2014 n. 216). |
PATRIMONIO: Allo
stato attuale, la riduzione dei canoni corrisposti dalle
amministrazioni pubbliche per la locazione di immobili a uso
istituzionale, imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto
legge n. 95/2012, trova applicazione, in assenza di una
contraria disposizione di legge, anche rispetto a contratti
stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali
rimane salvo il diritto di recesso.
---------------
Con la note sopra citate, il sindaco del comune di Broni
(PV), richiede un parere sulla corretta interpretazione
dell’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2005, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2005, n. 35 concernente la
riduzione del canone dei contratti di locazione di immobili
a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali.
Si premette, a tal fine, che la Prefettura di Pavia,
con distinte comunicazioni del 6 e del 27.08.2014 ha
informato il comune di Broni che i canoni dei contratti di
locazione delle caserme dei Vigili e del fuoco e dei
Carabinieri, immobili di proprietà comunale, devono essere
ridotti nella misura del 15 per cento di quanto attualmente
corrisposto in applicazione della disposizione di legge
sopra richiamata.
Si riferisce al riguardo che la riduzione del canone di
locazione comporterebbe una conseguente diminuzione delle
entrate previste dal bilancio comunale, contraddicendo la
ratio della cosiddetta spending review, che non
sembrerebbe contemplare la riduzione della spesa pubblica a
danno di un'altra articolazione della pubblica
amministrazione.
Cita, in tal senso, il Comunicato stampa del Consiglio dei
Ministri del 05.07.2012, ad oggetto: "Disposizioni
urgenti per la riduzione della spesa pubblica", che, al
punto D, in materia di razionalizzazione del patrimonio
pubblico e riduzione dei costi per le locazioni passive,
opera una netta distinzione fra gli immobili di proprietà di
enti locali (per i quali, peraltro, deve esistere una
condizione di reciprocità) e gli immobili, invece di
proprietà di terzi, per i quali, e solo in quest'ultima
ipotesi, sembrerebbe trovare applicazione la riduzione del
canone in misura pari al 15 per cento.
...
L’art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95,
convertito dalla legge 07.08.2012, n. 35 dispone che “ai
fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento
ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili
a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni
centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge
31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi
inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa
(Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal
01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto
attualmente corrisposto”.
La decorrenza del termine per la riduzione
della misura del canone, originariamente fissata al
01.01.2015, è stata anticipata al 01.07.2014 per effetto
delle modifica apportata dall’art. 24 del decreto legge
26.04.2014, n. 66, convertito dalla legge 23.06.2014, n. 89.
Lo stesso art. 3, comma 4, stabilisce quindi che “la
riduzione del canone di locazione si inserisce
automaticamente nei contratti in corso ai sensi
dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di
recesso del locatore”.
Ne risulta sancita una riduzione ex lege
degli importi dovuti dalle amministrazioni pubbliche
centrali per canoni di locazione di immobili adibiti ad uso
istituzionale, che si inserisce nel più ampio contesto di
una serie di misure dirette al contenimento dei costi per
locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, previste
dall’art. 3 del decreto legge n. 95/2012 ai successivi commi
5 e 6.
Il comma 7, nel testo riscritto dal citato decreto legge n.
66/2014, stabilisce poi che “le
previsioni cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle
altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto
compatibili”
con una conseguente estensione dell’ambito di applicazione
soggettiva delle predette misure.
L’interpretazione letterale della
disposizione sopra richiamata che impone la riduzione dei
canoni, riferendosi genericamente ai contratti di locazione
passiva stipulati dalle amministrazioni centrali, senza
fornire ulteriori precisazioni, porta ad affermare che la
riduzione in parola debba essere disposta anche nell’ipotesi
di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato.
Si deve ritenere, infatti, che se la legge avesse voluto
escludere queste ultime dall’applicazione della disposizione
in esame lo avrebbe fatto in modo espresso, non diversamente
da quanto stabilito dall’art. 1, comma 478, della legge
23.12.2005, n. 266 che, dettato dalle medesime esigenze di
contenimento della spesa pubblica per locazioni passive,
circoscriveva la riduzione del canone ai soli “contratti
di locazione stipulati dalle amministrazioni dello Stato per
proprie esigenze allocative con proprietari privati” .
Né tale supposta esclusione a favore del locatore pubblico
risulta ricavabile in via interpretativa dai principi
generali che regolano l’attività delle amministrazioni
pubbliche.
Com’è noto le amministrazione pubbliche possono agire anche
nelle forme del diritto privato e concludere contratti che,
per quanto non diversamente disposto dalla legge, sono
soggetti alla disciplina dettata dal codice civile e della
legislazione privatistica.
La legge statale, come si è fatto cenno, è più volte
intervenuta a regolare la materia delle locazioni della
P.A., introducendo a favore del conduttore pubblico, come
nel caso in esame, una serie di eccezioni alla disciplina
codicistica, giustificate essenzialmente dall’esigenza di
contenimento della spesa pubblica.
Analoghe eccezioni non sono viceversa ravvisabili a favore
del locatore pubblico, per il quale, in particolare, non è
dato rintracciare, nel vigente quadro normativo, una
disposizione che lo escluda dalla riduzione richiesta
dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012.
Ne consegue, pertanto, che quest’ultimo disposto,
a prescindere da ogni giudizio di legittimità costituzionale
che non compete a questa Sezione in sede consultiva,
debba trovare applicazione generalizzata nei
confronti di tutti i locatori, quale che sia la natura
pubblica o privata di questi.
Per la medesima ragione, il locatore
pubblico, che subisce la riduzione del canone, può
esercitare il diritto di recesso dal contratto come
espressamente consentito dalla stessa disposizione di legge.
Alla luce delle predette considerazioni si deve quindi
concludere che, allo stato attuale, la
riduzione dei canoni corrisposti dalle amministrazioni
pubbliche per la locazione di immobili a uso istituzionale,
imposta dall’art. 3, comma 4, del decreto legge n. 95/2012,
trova applicazione, in assenza di una contraria disposizione
di legge, anche rispetto a contratti stipulati con enti
territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il
diritto di recesso
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.11.2014 n. 285). |
QUESITI & PARERI |
LAVORI PUBBLICI:
L'armonizzazione contabile e il leasing finanziario.
DOMANDA:
Nel 2012 il Comune ha stipulato locazione finanziaria a
seguito di procedura ad evidenza pubblica per la
realizzazione di un nuovo polo scolastico, impegnandosi con
l'intermediario finanziario al pagamento di un canone
periodico a fronte del godimento del bene del quale
acquisirà la proprietà al termine del periodo contrattuale.
Alla consegna dell'opera la società di leasing comincerà ad
incassare i canoni.
L'opera che doveva concludersi entro il 2014, per diverse
problematiche non si concluderà prima di agosto 2015.
L'operazione era stata impostata in base al c.d. metodo
patrimoniale che, dando priorità agli aspetti
giuridico-formali attinenti alla titolarità del bene in capo
al soggetto finanziatore, determinava l'iscrizione delle
spese per i canoni comprensive di quota capitale e quota
interessi tra le spese correnti e l'iscrizione del bene nel
conto del patrimonio dell'ente al momento dell'esercizio
dell'opzione di riscatto.
In questo caso l'operazione non produceva effetti sui limiti
di indebitamento ed incideva ai fini del patto di stabilità
sul saldo di parte corrente per la quota impegnata
annualmente per i canoni. Nel nuovo sistema di contabilità
armonizzata, invece, il principio di competenza finanziaria
potenziata impone la prevalenza della sostanza sulla forma e
la considerazione del leasing finanziario come operazione di
indebitamento per cui il debito va rilavato in bilancio per
l'intero importo del finanziamento da iscrivere tra le
accensioni di prestito con inevitabili conseguenze sul patto
di stabilità.
Secondo il principio contabile 3.25 dell'allegato 4/2 al
D.Lgs. 118/2011 il leasing finanziario ....è registrato
secondo il metodo finanziario al fine di rilevare
sostanzialmente che l'Ente si sta indebitando per acquisire
un bene. Al momento della consegna del bene oggetto del
contratto, si rileva il debito pari all'importo oggetto di
finanziamento, da iscrivere tra le accensioni di prestiti, e
si registra l'acquisizione del bene tra le spese di
investimento.
Da ciò si evince l'incidenza oltre che sul limite di
indebitamento, anche sul patto di stabilità per l'intero
importo del debito. E' corretta questa interpretazione?
L'ultima parte del principio contabile 3.25 di cui sopra,
recita ......I principi di cui al presente paragrafo si
applicano a decorrere dal 01.01.2015, alle nuove operazioni
di leasing.
In merito a quest'ultimo punto, poiché il Comune ha
stipulato il contratto di leasing e il contratto di appalto
nel 2012, può escludersi che venga considerata come nuova
operazione di leasing, con la possibilità che, pur imputando
in bilancio il valore dell'immobile acquisito in leasing
finanziario per l'intero valore del bene, incida ai fini del
patto di stabilità solo per la quota di canone annuo, ferma
restando l'incidenza sulla capacità di indebitamento?
RISPOSTA:
Il quesito ha correttamente impostato la problematica del
leasing finanziario secondo i nuovi principi rivenienti
dall’ armonizzazione contabile. In sostanza e sinteticamente
il leasing finanziario è registrato con le stesse scritture
utilizzate per gli investimenti finanziati da indebitamento,
con l’importo del finanziamento pari al valore attuale dei
pagamenti dovuti per il leasing.
Pertanto i canoni periodici sono registrati distinguendo la
parte interessi, da imputare tra le spese correnti, dalla
parte capitale da imputare ai rimborsi prestiti.
Poiché nella parte conclusiva del Principio 3.25 viene
stabilito che l’applicazione dello stesso, come sopra
riportato, è riferita alle operazioni di leasing stipulate
dopo l’01/01/2015 appare corretta l’interpretazione fornita
nell’ ultima parte del quesito (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'ordinanza sindacale di ripristino ambientale.
DOMANDA:
Dovendo questo Comune eseguire in danno di un privato
un'ordinanza sindacale di ripristino ambientale ai sensi del
D.Lgs. n. 152/2006 avente ad oggetto lavori finalizzati alla
rimozione dei rifiuti e all'esecuzione delle opere connesse,
nel rispetto delle previsioni dell'art. 192, comma 3, di
importo quantificabile in circa 600.000 euro, si prospetta
la seguente soluzione interpretativa.
I lavori non sono qualificabili come lavori pubblici in
quanto non si tratta di un'opera pubblica ai sensi del
D.Lgs. n. 267/2000 e 163/2006 e dunque afferenti la spesa in
conto capitale, ma come opere da inserire nella parte
corrente della spesa, seppure essendo lavori, in quanto
spese necessarie per l'esecuzione di un provvedimento
vincolato ex lege ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006 e
privi della caratteristica di "lavoro pubblico"
atteso che il D.Lgs. 152/2006 art. 192, comma 3, pone
l'obbligo ripristinatorio a carico del comune solo nel caso
di mancato adempimento del privato (come nel caso di
specie).
Se è vera questa tesi, a quali obblighi di segnalazione il
Comune è sottoposto, esempio comunicazioni ANAC,
Osservatorio Regionale, ecc.?
RISPOSTA:
Laddove viene constatato un abbandono di rifiuti, l’art.
192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 Testo unico ambientale,
prevede che, fatte salve le sanzioni comminabili dagli artt.
255 e 256 dello stesso testo, il responsabile
dell’abbandono, se individuato, in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali di godimento
dell’area su cui è avvenuto l’abbandono, ai quali sia
imputabile la violazione sia a titolo di dolo che di colpa,
debbano provvedere alla rimozione dei rifiuti inviandoli
allo smaltimento o al recupero, nonché al ripristino dello
stato dei luoghi.
Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale l’ente locale procederà all’esecuzione in danno ai
soggetti obbligati, con il recupero delle somme anticipate
per le operazioni.
Prima di procedere all’emissione dell’ordinanza ai sensi
dell’art. 192 del T.U.A., è necessario inviare formale
comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti
destinatari del provvedimento, quindi al proprietario
dell’area (o titolare di diritti reali o personali di
godimento), dovendosi ritenere obbligatorie, nella materia
specifica, le regole degli artt. 7 e 21-octies della Legge
241/1990 (TAR Lombardia Milano sez. IV 02.09.2009 n. 4598).
Se non si è individuato l’autore materiale della violazione,
per gli altri soggetti (proprietario ecc.) indicati
dall’art. 192 T.U.A. l’obbligo di provvedere nasce solo se a
questi ultimi la violazione possa essere imputata a titolo
di dolo o colpa. Sarà quindi necessario, sulla base di
accertamenti esperibili dagli organi di controllo, capire se
il proprietario, che non abbia abbandonato egli stesso il
rifiuto, abbia almeno concorso materialmente o moralmente
con l’autore della violazione (Cass. Pen. Sez. III
14.05.2007 n.16957).
La norma prefigura un'ordinanza di sgombero a carattere
sanzionatorio, di cui è riprova il fatto che per la sua
applicazione a carico dei soggetti obbligati in solido, è
necessaria l'imputazione agli stessi a titolo di dolo o
colpa del comportamento tenuto in violazione dei divieti di
legge. In caso di inottemperanza, le opere di recupero
ambientale sono eseguite dalla p.a. previa imputazione nella
spesa corrente, potendo poi rivalersi sul soggetto
responsabile, con recupero delle spese anticipate, anche
mediante ingiunzione amministrativa, ex R.D. 14.04.1910, n.
639, oppure mediante il sistema di riscossione mediante
concessionario (se ancora vigente nel Comune) o Equitalia
s.p.a..
Chiunque non ottempera all'ordinanza del Sindaco, di cui
all'articolo 192, comma 3, è punito (oltre che con sanzione
pecuniaria) con la pena dell'arresto fino ad un anno,
pertanto l’Ente Municipale deve procedere alla segnalazione
di notizia di reato. I lavori di rimozione dei rifiuti e di
ripristino dello stato dei luoghi non sono qualificabili
come lavori pubblici.
I lavori pubblici sono infatti l’attività finalizzata alla
realizzazione dell’opera pubblica, che è caratterizzata da
tre elementi: - natura pubblica del soggetto che realizza
l’opera (elemento soggettivo); - natura immobiliare
dell’opera da realizzare (elemento oggettivo); - finalità
perseguita dall’amministrazione, ossia destinazione ad una
pubblica funzione o ad un pubblico servizio o, più in
generale, ad un pubblico fine (elemento teleologico).
Nel caso di cui all'art. 192 TUA, l'ente non realizza una
nuova opera, da destinare ad una pubblica funzione o ad un
pubblico servizio, ma si limita a ripristinare lo status quo
ante di luoghi che potrebbe anche essere di proprietà
privata (per cui il pubblico fine è solo indiretto).
Inoltre lo fa soltanto in qualità di sostituto del soggetto
che sarebbe giuridicamente tenuto, e nei cui confronti agirà
per il recupero delle somme anticipate. Pertanto non si
ritiene che abbia particolari obblighi di segnalazione (link
a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Azienda pubblica di servizi alla persona. Nomina componenti
Consiglio di Amministrazione.
Per quanto concerne la nomina dei
componenti del Consiglio di Amministrazione di un'Azienda
pubblica di servizi alla persona, si ritiene che le ipotesi
di inconferibilità e incompatibilità di cui agli articoli 7
e 11 del d.lgs. 39/2013 siano riferibili ai soli componenti
nominati dal Sindaco, nei casi in cui le norme prevedono
espressamente che l'incarico sia conferito da
un'amministrazione locale.
Qualora le norme rivestano carattere generale, quale la
previsione di cui all'articolo 11, comma 3, lett. c), si
ritiene trovino applicazione con riferimento a tutti i
soggetti interessati, destinatari dell'incarico/carica,
ponendo in risalto le singole soggettive condizioni, a
prescindere dal fatto che esista, o meno, un soggetto
deputato alla nomina.
L'Ente ha sottoposto allo scrivente Servizio alcune
problematiche concernenti la nomina dei componenti il
consiglio di amministrazione nell'ambito di due Aziende
pubbliche di servizi alla persona.
In particolare, premesso che in entrambe le Aziende i
componenti del consiglio di amministrazione sono nominati
dal sindaco e da altri soggetti privati quali la parrocchia
e i successori in linea diretta del fondatore, si è chiesto
di conoscere se le norme vigenti in materia di
incompatibilità e inconferibilità (l. 190/2012 e decreto
attuativo 39/2013) si applichino solo alle nomine di
competenza del sindaco o anche alle altre fattispecie.
Analogo quesito è rivolto anche con riferimento alle cause
di incompatibilità contemplate all'art. 7 della l.r.
19/2003.
Inoltre si è posta la questione, in considerazione della
gratuità della carica in argomento, relativa alla
legittimità della nomina di persona collocata in quiescenza,
qualora effettuata per un solo anno, e del soggetto
competente a rilevare la necessità di porre tale limite
temporale (Sindaco che procede alla nomina o la stessa
Azienda).
In via preliminare, si rappresenta che le osservazioni che
seguono sono formulate in via collaborativa, non competendo
allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine ai contenuti di
norme statali, l'interpretazione delle quali resta
attribuita agli uffici ministeriali a ciò deputati e, come
nel caso delle norme di cui al d.lgs. 39/2013, all'Autorità
nazionale anticorruzione (ANAC) la quale, in base a quanto
stabilito nel provvedimento del 14 gennaio 2015, «svolge
un'attività consultiva in ordine ai problemi interpretativi
e applicativi posti dalla legge n. 190/2012 e dai relativi
decreti di attuazione», mediante la predisposizione di
pareri od orientamenti sulle istanze presentate «da
pubbliche amministrazioni ed enti di diritto privato in
controllo pubblico».
Si osserva, a tal proposito, che l'ANAC [1]
ha precisato che le aziende pubbliche di servizi, dotate di
personalità giuridica di diritto pubblico ai sensi dell'art.
6 del d.lgs. n. 207 del 2001, sono da considerarsi a tutti
gli effetti ricomprese nell'ambito di applicazione della
legge n. 190 del 2012.
Premesso un tanto, si evidenzia che la disciplina vigente,
nello specifico il d.lgs. 39/2013, attuativo della legge
190/2012, enuclea ipotesi tassative e inderogabili che
determinano la preclusione, permanente o temporanea, a
conferire, nelle amministrazioni pubbliche, gli incarichi o
le cariche contemplati nel medesimo decreto, a soggetti che
versino in determinate condizioni (inconferibilità).
Parimenti il d.lgs. 39/2013 impone l'obbligo, per il
soggetto cui viene conferito l'incarico/carica di scegliere,
a pena di decadenza, tra la permanenza nell'incarico/carica
medesimo e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e
cariche contemplati dal decreto medesimo (incompatibilità),
al verificarsi delle indicate fattispecie.
Nella fattispecie in esame, si ritiene che le ipotesi di
inconferibilità e incompatibilità di cui agli artt. 7 e 11
del d.lgs. 39/2013 siano riferibili ai soli componenti
nominati dal Sindaco, nei casi in cui le norme prevedono
espressamente che l'incarico sia conferito da
un'amministrazione locale. Qualora le norme rivestano
carattere generale, quale la previsione di cui all'articolo
11, comma 3, lettera c), si ritiene trovino applicazione con
riferimento a tutti i soggetti interessati, destinatari
dell'incarico/carica, ponendo in risalto le singole
soggettive condizioni, a prescindere dal fatto che esista, o
meno, un soggetto deputato alla nomina.
Le ipotesi di incompatibilità previste dall'art. 7 della
l.r. 19/2003 [2]
hanno carattere generale e operano indipendentemente dal
soggetto dal quale proviene la nomina, quindi, nei casi
prospettati, si applicano anche nei confronti dei componenti
del consiglio di amministrazione che, in attuazione delle
norme statutarie delle rispettive aziende, sono nominati
dalla parrocchia o dai successori del fondatore.
Per quanto concerne altresì la nomina, nel Consiglio di
amministrazione dell'Azienda, di soggetto collocato in
quiescenza, si rappresenta quanto segue.
L'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012,
come modificato dall'articolo 6 del decreto-legge
24.06.2014, n. 90, introduce il divieto, per le pubbliche
amministrazioni, di conferire alcune tipologie di incarico
(o attribuire determinate cariche) a dipendenti collocati in
quiescenza.
La circolare n. 6/2014 del Ministro per la semplificazione e
la pubblica amministrazione ha sottolineato che la
richiamata disciplina ha lo scopo di vietare, oltre al
conferimento di alcune fattispecie di incarichi, anche
l'assunzione di cariche di governo, che consentono di
svolgere ruoli rilevanti al vertice delle amministrazioni
pubbliche.
Tra tali cariche -si è precisato- sono da annoverare quelle
che comportano effettivamente poteri di governo, quali
quelle di presidente, amministratore o componente del
consiglio di amministrazione ed il divieto opera anche nel
caso in cui la nomina sia preceduta dalla designazione da
parte di un soggetto diverso dall'amministrazione nominante.
Dopo aver puntualmente definito l'ambito di applicazione
oggettivo della nuova disciplina, il Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione ha comunque
rimarcato che la stessa contempla un'eccezione ai divieti
imposti, prevedendo che incarichi e collaborazioni sono ad
ogni buon conto consentiti a titolo gratuito
[3], con
rimborso delle spese documentate, per una durata non
superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile.
Si ritiene pertanto che l'articolo 5, comma 9, del
decreto-legge citato, ponendo il divieto di cui trattasi con
riferimento alle pubbliche amministrazioni, sia applicabile
alla fattispecie delle nomine effettuate dal Sindaco e non
nel caso dei rappresentanti nominati dalla parrocchia e dai
successori del fondatore.
---------------
[1] Cfr. FAQ in materia di Anticorruzione, consultabile
sul sito: www.anticorruzione.it.
[2] L'art. 22, comma 1, del d.lgs. 39/2013 stabilisce
peraltro che le disposizioni del medesimo decreto recano
norme di attuazione degli articoli 54 e 97 della
Costituzione e prevalgono sulle diverse disposizioni di
legge regionale, in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni, gli enti pubblici e presso gli enti privati
in controllo pubblico.
[3] Cfr. art. 6, comma 1, del d.l. 90/2014
(16.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Assessori, tetto a cinque.
Necessario adeguarsi al parametro di legge. Nomina del sesto componente in un ente con oltre 11.600
abitanti.
Quesito
In un comune con popolazione superiore a 11.600 abitanti, è
possibile nominare un sesto assessore –esterno e senza
indennità– in forza della persistenza dell'articolo 47 del Tuoel n. 267/00?
Risposta
Nel caso di specie il Comune ha rinnovato i propri organi
alle elezioni del 2014 ed ha proceduto all'elezione di 16
consiglieri come previsto dall'articolo 2, comma 184, della
legge n. 191/2009 (legge finanziaria 2010) che ha ridotto del
20% la consistenza di tutti i consigli comunali.
Il citato art. 2, al comma 185, ha ridotto, per tutti i
comuni, il numero massimo degli assessori ad un quarto dei
consiglieri; inoltre, l'art. 11, comma 7, della legge n.
265/1999, confluito nell'art. 47 del Tuoel n. 267/2000, aveva
modificato la disciplina dettata dalla legge n. 142/1990 in
tema di composizione delle giunte, demandando allo statuto
la determinazione del numero degli assessori sulla base di
un nuovo sistema di calcolo ancorato all'entità numerica dei
consiglieri, piuttosto che alla fascia demografica di
appartenenza dell'ente locale, come previsto in precedenza.
Tali disposizioni sono state inoltre integrate dalla
disciplina «transitoria» prevista dal comma 8, di immediata
applicazione fino all'adozione di una specifica norma
statutaria; inoltre, i nuovi parametri indicati dal comma 5
del richiamato art. 47, si sostituivano automaticamente alle
disposizioni statutarie esistenti.
Nella fattispecie in esame, l'ente locale giustifica il
mancato adeguamento statutario alla vigente normativa in
materia di composizione della Giunta, adducendo che la norma
finanziaria di riduzione del numero di assessori e
l'articolo 47 del Tuoel opererebbero su piani diversi non
incompatibili. In particolare, sostiene l'applicabilità del
citato art. 47 in quanto la norma ivi contenuta non sarebbe
stata espressamente abrogata nei termini previsti dall'art.
1, comma 4, del medesimo decreto legislativo. Il mancato
adeguamento alle riduzioni disposte «dalla legge
finanziaria» sarebbe, infatti, giustificato dalla lettera
dell'articolo 4, comma 1, del Tuoel il quale dispone che le
deroghe al citato decreto legislativo n. 267/2000 possono
essere introdotte, ai sensi dell'art. 128 della
Costituzione, solo mediante espressa modificazione delle sue
disposizioni.
Tuttavia, le successive modificazioni, in particolare quelle
di cui all'articolo 2, comma 185, della legge n. 191/2009, sono
immediatamente precettive sia nell'accertata carenza della
modifica espressa del Tuoel che in assenza dell'adeguamento
statutario da parte dell'ente interessato.
In merito, con la circolare ministeriale n. 2379 del
16/02/2012, è stato chiarito che la determinazione numerica
degli assessori rientra nella materia «organi di governo»
dei comuni, rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett.
p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato; pertanto le disposizioni statutarie, allorché
incompatibili con intervenute modifiche normative, non
trovano applicazione anche in relazione a quanto disposto
dall'art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000, per
il quale «l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano
espressamente i principi che costituiscono limite
inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle
province abroga le norme statutarie con essi incompatibili.
I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle
leggi suddette».
Pertanto, considerato che il dl 25/01/2010, n. 2, convertito
con modificazioni nella legge 26/03/2010, n. 42 ha previsto
che «le disposizioni di cui all'articolo 2, comma 185, della
citata legge n. 191 del 2009, come modificato dal presente
articolo, si applicano a decorrere dal 2010, e per tutti gli
anni a seguire, ai singoli enti per i quali ha luogo il
primo rinnovo del rispettivo consiglio, con efficacia dalla
data del medesimo rinnovo», la norma statutaria del Comune
in questione, che prevede un numero massimo di sei
assessori, non può essere applicata, rendendosi necessario
l'adeguamento al parametro di legge
(articolo ItaliaOggi del 12.06.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Composizione dei gruppi consiliari.
La materia dei gruppi consiliari, ai
sensi dell'art. 38, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, è
disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto'.
Le problematiche relative alla costituzione e funzionamento
dei gruppi consiliari devono, pertanto, essere valutate alla
stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di
cui l'ente si è dotato.
Se l'atto statutario o regolamentare comunale ha previsto un
numero minimo di componenti un gruppo consiliare, il
consigliere non potrà costituire un gruppo formato da un
solo componente a meno che non si tratti del gruppo misto
che può essere costituito anche da un solo amministratore.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
composizione dei gruppi consiliari. In particolare,
riferisce che un consigliere, unico componente eletto di una
lista che -unitamente ad altre due- appoggiava il candidato
sindaco non eletto, vorrebbe costituire un gruppo consiliare
a sé, formato da un solo componente e desidera sapere se ciò
sia possibile.
La materia dei gruppi consiliari, ai sensi dell'articolo 38,
comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è
disciplinata dal regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale 'nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto',
essendo riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale
e organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla
costituzione e funzionamento dei gruppi consiliari devono
essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
In relazione alla questione posta, rileva il contenuto
dell'articolo 27, comma 1, dello statuto comunale il quale
recita: 'I consiglieri si costituiscono in gruppi
composti, a norma di regolamento, da almeno due componenti
-tranne che nei casi di un candidato alla carica di sindaco
risultato eletto come consigliere, collegato ad una lista di
candidati che non esprime alcun altro consigliere- e ne
danno relativa comunicazione al Presidente del Consiglio
comunale in forma scritta nel corso della prima adunanza del
nuovo Consiglio comunale'.
Alla luce della norma statutaria si ritiene di dover fornire
risposta negativa al quesito posto: infatti, la previsione
dell'esistenza di un gruppo formato da un solo componente
sussiste nel solo caso di candidato alla carica di sindaco,
eletto come consigliere, collegato ad una lista che non
abbia espresso alcun altro consigliere. Diversa è la
situazione in cui versa il soggetto in esame, per la quale
la norma statutaria pone il numero minimo di due consiglieri
al fine della costituzione di un gruppo consiliare.
Resta, tuttavia, ferma la possibilità, per il consigliere in
oggetto, di entrare a far parte del gruppo misto o di
costituirlo, se non esistente, atteso che per lo stesso non
è ammessa la fissazione di un limite numerico minimo.
Si osserva, al riguardo, che mentre la possibilità per
l'ente locale di prevedere un numero minimo di componenti un
gruppo consiliare rientra nell'autonomia allo stesso
riconosciuta dall'articolo 38, comma 2, TUEL, a diversa
logica soggiace invece il gruppo misto: si tratta, infatti,
di un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale
confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento,
che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che
non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle
condizioni previste dallo statuto o dal regolamento per il
funzionamento del consiglio, e la cui costituzione non può
essere subordinata alla presenza di un numero minimo di
componenti
(12.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Pareri negativi di regolarità tecnica e contabile.
Conseguenze.
Se la Giunta o il Consiglio deliberano
pur in presenza di un parere di regolarità tecnica e
contabile con esito negativo, devono indicare nella
deliberazione i motivi della scelta della quale assumono
tutta la responsabilità.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito a quali
conseguenze si verificano, in capo ai responsabili dei
servizi, in caso di emissione, da parte loro, di pareri di
regolarità tecnica e contabile sfavorevoli.
Più in particolare, riferisce che il consiglio comunale ha
approvato lo schema di convenzione tra il Comune e una
Jus-Comunella 'volta alla gestione di beni immobili
contesi finalizzata alla messa in sicurezza ed
all'attuazione di interventi di manutenzione straordinaria
ed ordinaria'; la relativa deliberazione reca i pareri
sfavorevoli di regolarità tecnica e contabile.
Atteso che alla convenzione già stipulata, consistente in
una sorta di 'convenzione quadro', devono fare
seguito ulteriori convenzioni attuative della stessa, in
relazione ai singoli immobili, l'Ente desidera sapere se sui
pareri di regolarità tecnica e contabile, che devono essere
rilasciati in relazione alle proposte di deliberazione di
approvazione degli schemi di convenzione attuativa, si
rifletta il contenuto negativo dei pareri precedentemente
espressi, anche in relazione all'eventuale responsabilità
che verrebbe a gravare sui responsabili dei servizi deputati
al loro rilascio.
In subordine, con riferimento alla questione concernente il
riparto di competenze tra gli organi comunali, l'Ente chiede
se le deliberazioni con cui si devono approvare gli schemi
di convenzione attuativa siano di competenza del consiglio
comunale o della giunta.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
L'articolo 49 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL),
al comma 1, prevede che: 'Su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non
sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere,
in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del
servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in
ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti
nella deliberazione'.
Il comma 4 del medesimo articolo dispone, poi, che: 'Ove
la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri
di cui al presente articolo, devono darne adeguata
motivazione nel testo della deliberazione'.
[1]
Infine, si consideri il disposto di cui al comma 3
dell'articolo 49 TUEL, ai sensi del quale il responsabile
del servizio interessato e/o quello di ragioneria 'rispondono
in via amministrativa e contabile dei pareri espressi'.
La norma, ponendo delle specifiche responsabilità in capo ai
responsabili dei servizi interessati per l'attività svolta,
presuppone che la stessa sia ad essi imputabile, nel senso
che il contenuto dei pareri, favorevole o contrario che esso
sia, deve basarsi su motivazioni tecnico/contabili a
prescindere dalle valutazioni politiche.
Con riferimento specifico al parere di regolarità contabile,
l'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti
locali, istituito presso il Ministero dell'Interno,
nell'adottare i principi contabili degli enti locali,
[2] ha
stabilito che 'Il parere di regolarità contabile è
obbligatorio e può essere favorevole o non favorevole; in
quest'ultimo caso deve essere indicata una idonea
motivazione. Se la Giunta o il Consiglio deliberano pur in
presenza di un parere di regolarità contabile con esito
negativo, devono indicare nella deliberazione i motivi della
scelta della quale assumono tutta la responsabilità'.
[3] [4]
Con riferimento al caso di specie, in relazione alle
proposte di deliberazione di approvazione degli schemi di
convenzione attuativa, si ritiene che i responsabili degli
uffici dovranno esprimere il proprio parere di regolarità,
il contenuto del quale pare non debba essere in ogni caso
condizionato da quello espresso in precedenza. Non può
escludersi, infatti, l'ipotesi che il contenuto di una
singola convenzione attuativa sia tale da far ritenere
superate le ragioni che avevano portato all'espressione di
pareri sfavorevoli in relazione alla cd 'convenzione
madre'.
Tuttavia, si ritiene che, nell'invarianza delle condizioni
che avevano condotto all'emanazione di un parere
sfavorevole, quest'ultimo dovrà essere ripetuto anche in
occasione delle successive proposte di deliberazione.
Quanto alla responsabilità eventualmente gravante sui
responsabili degli uffici tenuti ad esprimere i pareri, si
ribadisce quanto sopra già affermato secondo cui se l'organo
politico delibera in presenza di un parere sfavorevole, sarà
lo stesso ad assumersene tutte le responsabilità.
[5]
Passando a trattare della seconda questione posta, inerente
l'individuazione dell'organo competente all'approvazione
dello schema delle convenzioni attuative, si osserva che
l'articolo 48, comma 2, del D.Lgs. 267/2000 stabilisce che 'la
giunta compie tutti gli atti rientranti ai sensi
dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi
di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio
[...]'.
Trattandosi di convenzioni attuative di decisioni
precedentemente assunte dall'organo consiliare, quale organo
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, si
ritiene che, in via generale, le stesse possano essere
adottate dall'organo giuntale. Tuttavia non può escludersi,
atteso il variegato contenuto delle stesse, che si debbano
assumere deliberazioni afferenti l'approvazione di
convenzioni attuative i cui contenuti potrebbero rientrare
in determinate voci di cui all'articolo 42 TUEL, con
conseguente competenza del consiglio comunale alla loro
assunzione.
---------------
[1] Si segnala che l'articolo citato è stato così
sostituito dall'articolo 3, comma 1, lett. b), del D.L.
10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.12.2012, n. 213. In particolare, per ciò che rileva
in questa sede, si osserva che la novella ha inserito il
comma 4, non presente nella versione originaria
dell'articolo 49 TUEL.
[2] 'Finalità e postulati dei principi contabili degli enti
locali', Testo approvato dall'Osservatorio il 12.03.2008.
[3] Si tratta del punto 73 del Principio contabile n 2.
[4] Al riguardo si riportano le considerazioni di certa
dottrina (L. Oliveri, 'I pareri contrari non si riverberano
solo sugli organi di governo politico - Delibere,
responsabilità a 360 gradi', in Italia Oggi, del 22.03.2013,
pag. 34) la quale ha rilevato come: 'L'articolo 49 citato
non lo afferma espressamente, ma dovrebbe risultare chiaro
che le controdeduzioni di giunta e consiglio dovrebbero
essere simmetriche a quelle dei pareri e, dunque, riguardare
gli aspetti tecnici e contabili. È facile, tuttavia,
immaginare che organi politico-amministrativi cadano nella
tentazione di esprimere il loro diverso avviso rispetto ai
pareri, basandosi su ragioni non tecniche ma «politiche» di
opportunità'.
[5] In questo senso si veda il parere dell'Osservatorio per
la finanza e la contabilità degli enti locali, del
05-06.06.2003, il quale, benché risalente a data antecedente
la nuova formulazione dell'articolo 49 TUEL, afferma che 'il
parere è obbligatorio e può essere favorevole o non
favorevole; in quest'ultimo caso deve essere indicata anche
una idonea motivazione. Tuttavia, pur essendo un atto
procedimentale obbligatorio che va inserito nella
deliberazione, il parere di regolarità contabile non è
vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la
Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere
sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità. Così si
è espresso anche il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, con
sentenza n. 680 del 25.05.1998'
(09.06.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Opere
protettive in corrispondenza dei cavalcavia autostradali:
spettanza degli oneri manutentivi (parere
09.04.2015 n. 172688/89 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
PATRIMONIO: Sulla
gestione del demanio marittimo (parere
27.02.2015 n. 100167/196 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
URBANISTICA: Applicabilità
di misure di salvaguardia di assetto idrogeologico in
mancanza di approvazione di una generale attività di
pianificazione (parere
24.02.2015 n. 93026 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali da parte
dei componenti degli organi di indirizzo politico delle p.A.
(parere
20.02.2015 n. 86746 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Onere
di pagamento del contributo unificato in caso di soccombenza
reciproca nel giudizio (parere
12.02.2015 n. 70211 di prot. -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2015). |
APPALTI FORNITURE:
DL 95/2012 e acquisto di carburanti.
Per l'approvvigionamento dei beni
appartenenti alle categorie contemplate dall'articolo 1,
comma 7 del DL 95/2012, in alternativa all'utilizzo delle
convenzioni Consip gli enti locali possono:
- svolgere proprie autonome procedure, nel rispetto della
normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di
negoziazione resi disponibili da Consip o da centrali di
committenza regionali (attualmente non presenti in Regione);
- esperire autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i
corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle
convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo
tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla
legge.
Il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di aderire ad una
convenzione Consip per l'acquisto di carburanti sussista
anche qualora sia documentabile l'antieconomicità
dell'utilizzo di detto strumento, atteso che il distributore
più vicino, del gestore convenzionato, risulta ubicato a
parecchi chilometri dalla sede comunale e, conseguentemente,
il rifornimento comporterebbe spese di carburante e per il
personale conducente tali da rendere maggiormente
competitivo un qualsiasi distributore posto in prossimità
della sede dell'ente instante.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di
questa Direzione centrale e premesso che lo scrivente
Ufficio si esprime unicamente in termini generali
relativamente all'applicazione di norme, si formulano le
seguenti osservazioni.
Come già esplicitato dallo scrivente Ufficio nel parere prot.
1077, dd. 14.01.2013, cui si rimanda, l'art. 1, comma 7, del
D.L. 95/2012, convertito in legge, con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, n. 135, stabilisce una disciplina speciale
per l'approvvigionamento per le pubbliche amministrazioni di
beni, quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili
per riscaldamento e telefonia.
Tale comma 7 [1],
infatti, prevede che la fornitura dei predetti beni avvenga
utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a
disposizione da Consip o da centrali di committenza
regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti
sopra indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad
affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre
centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i
cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi)
rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro
messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di
committenza. In tale caso, i contratti devono essere
sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di
adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui
intervengano convenzioni Consip o delle centrali regionali
di committenza che prevedano condizioni economiche di
maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, del D.L. 95/2012 stabilisce che sono
nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa i contratti stipulati in
violazione di quanto previsto dal comma 7.
In conclusione, per l'approvvigionamento dei beni
appartenenti alle categorie contemplate dalla norma, in
alternativa all'utilizzo delle convenzioni Consip gli enti
possono:
- svolgere proprie autonome procedure, nel rispetto della
normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di
negoziazione resi disponibili da Consip o da centrali di
committenza regionali (attualmente non presenti in Regione);
- esperire autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i
corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle
convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo
tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla
legge.
---------------
[1] Come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 151,
della l. 228/2012 (Legge di stabilità)
(28.01.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE:
Acquisti in economia di energia elettrica e gas.
Per l'approvvigionamento delle categorie
di beni contemplate dall'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012
(energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per
riscaldamento e telefonia), gli enti possono esperire
autonome procedure ad evidenza pubblica in cui i
corrispettivi siano inferiori a quelli previsti dalle
convenzioni Consip attualmente disponibili, sottoponendo
tali contratti alla condizione risolutiva prescritta dalla
legge.
Non pare, però, possibile utilizzare in tali circostanze le
procedure in economia in quanto, ai sensi dell'art. 125 del
D.Lgs. 163/2006, le stesse, individuate nell'amministrazione
diretta e nel cottimo fiduciario, prevedono modalità
semplificate di affidamento rispetto alle procedure ad
evidenza pubblica richieste dalla legge.
L'Ente afferma di avere recentemente affidato ad una ditta
la fornitura di gas naturale e di energia elettrica per un
anno, per un importo inferiore a 40.000 euro, in base al
proprio regolamento per gli acquisti in economia e dopo
avere constatato che la ditta aveva applicato un 'ribasso
unico maggiore rispetto ai prezzi fissati dalla Convenzione
Consip'.
Con riferimento a quanto previsto dall'art. 1, commi 7 e 8,
del decreto legge 06.07.2012, n. 95 [1],
l'Ente chiede di sapere se la procedura utilizzata possa
ritenersi corretta.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di
questa Direzione centrale e premesso che questo Ufficio può
solo esprimere considerazioni di ordine generale in merito
all'applicazione delle norme, si formulano le seguenti
osservazioni.
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 stabilisce una
disciplina speciale per l'approvvigionamento per le
pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica,
gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia.
Ivi si richiede che la fornitura di tali beni avvenga
utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro messi a
disposizione da Consip o da centrali di committenza
regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti
sopra indicati.
La legge di conversione ha introdotto, come alternativa, la
possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad
approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a
procedure ad evidenza pubblica i cui corrispettivi siano
inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle
convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da
Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale
caso, i contratti dovranno essere sottoposti a condizione
risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del
contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni
Consip o delle centrali regionali di committenza che
prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, del D.L. 95/2012 stabilisce che sono
nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa i contratti stipulati in
violazione di quanto previsto dal comma 7.
Per l'approvvigionamento delle categorie di beni contemplate
dalla norma, gli enti possono, perciò, esperire autonome
procedure ad evidenza pubblica [2]
in cui i corrispettivi siano inferiori a quelli previsti
dalle convenzioni Consip attualmente disponibili,
sottoponendo tali contratti alla condizione risolutiva
prescritta dalla legge.
Per quanto riguarda la possibilità di utilizzare le
procedure in economia per gli acquisti di tali categorie di
beni, anche se con il beneficio di condizioni migliorative
rispetto a quelle offerte dalle convenzioni di cui all'art.
1, comma 7, del D.L. 95/2012, si osserva che, ai sensi
dell'art. 125 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163
(Codice dei contratti pubblici), tali procedure, individuate
nell'amministrazione diretta e nel cottimo fiduciario
[3],
prevedono modalità semplificate di affidamento rispetto alle
procedure ad evidenza pubblica.
Infatti, il cottimo fiduciario di cui al citato art. 125, 'procedura
negoziata in cui le acquisizioni avvengono mediante
affidamenti a terzi' (comma 4), nel caso di forniture o
servizi di importo pari o superiore a quarantamila euro,
deve avvenire nel 'rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di
almeno cinque operatori economici' (comma 11, primo
periodo).
Come rilevato dalla giurisprudenza, «Siamo quindi in
presenza di una procedura negoziata la quale, pur
procedimentalizzata, non richiede tuttavia il necessario
rispetto dello specifico assetto disciplinare predisposto
dal Codice dei contratti pubblici per le procedure aperte e
ristrette, com'è peraltro reso evidente dal richiamo al
rispetto dei 'principi', cioè dei contenuti valoristici
sostanziali della trasparenza, parità di trattamento ecc.
senza tuttavia il necessario ossequio di tutti i passaggi
procedurali in cui tali principi si inverano nelle procedure
concorsuali ordinarie.» [4].
Si ritiene che tali considerazioni valgano tanto più
nell'ipotesi di cottimo fiduciario diretto, prevista
dall'ultimo periodo del comma 11 dell'art. 125 del Codice
dei contratti, secondo cui 'Per servizi o forniture
inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento
diretto da parte del responsabile del procedimento'.
Atteso che, allo stato, si sono rinvenute solamente pronunce
che sottolineano la diversità delle regole alla base delle
procedure in economia rispetto a quelle ad evidenza pubblica
e, quindi, la non assimilabilità tra le stesse
[5], si
ritiene che l'applicabilità delle norme sugli acquisti in
economia in relazione alle categorie merceologiche in esame
potrebbe essere sostenuta soltanto nel caso in cui fosse
fatta propria dal legislatore o dalla giurisprudenza una
interpretazione estensiva del concetto di 'procedure ad
evidenza pubblica', di cui all'art. 1, comma 7, del D.L.
95/2011.
---------------
[1] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135.
[2] L'evidenza pubblica è un procedimento caratterizzato da
una sequenza di fasi volte, da una parte, a garantire la
legittima e corretta formazione della volontà contrattuale
pubblica e, dall'altra, attraverso la trasparenza delle fasi
(e in particolare di quella relativa alla scelta del
contraente) ad assicurare la concorrenzialità della
procedura.
Secondo la ripartizione classica, le procedure ad evidenza
pubblica si compongono di cinque fasi: determinazione a
contrarre, scelta del contraente, aggiudicazione,
stipulazione ed approvazione del contratto (v. 'Manuale di
diritto amministrativo', Elio Casetta, 2001, Giuffrè, pagg.
517 e ss. e 'Manuale di diritto amministrativo', Francesco
Caringella, 2011, Dike, pagg. 1385-1386).
La procedura dell'evidenza pubblica prevede particolari
modalità di scelta del contraente, funzionalizzate al
perseguimento dell'obiettivo della trasparenza,
l'individuazione della modalità selettiva è effettuata con
il bando che costituisce la lex specialis della procedura:
le più rilevanti forme selettive contemplate dal codice dei
contratti pubblici sono le procedure aperte, le procedure
ristrette (entrambe utilizzabili in via generale) e le
procedure negoziate (che possono avere luogo in ipotesi
eccezionali e residuali).
[3] Il cottimo fiduciario, la procedura che nel caso in
esame riveste maggiore interesse, si sostanzia nel fatto che
l'ufficio competente stabilisce direttamente, sotto la sua
responsabilità, accordi con ditte di fiducia, senza che
necessiti esperire una gara per la scelta del cottimista e
senza che occorra per il perfezionamento del contratto la
sua approvazione (v. 'servizi e forniture in economia nel
codice dei contatti', Dauno F.G. Trebastoni, relazione
presentata al convegno su 'La gestione delle forniture alla
luce del nuovo codice degli appalti', organizzato a S.
Alessio Siculo (Me) il 27.10.2006, dall'Associazione
Regionale Economi Provveditorati Siciliani).
[4] Così, TAR Toscana, Firenze, sez. I, 11.09.2008, n. 1989
e 04.05.2012, n. 868.
[5] V. Tar Bari Puglia, 05.10.2009, n. 2348; Tar Toscana
Firenze, sez. I, 22.12.2009, n. 3988, ove si afferma che:
'Non sono applicabili alle procedure in economia e, in
particolare, al cottimo fiduciario, le norme del Codice dei
contratti pubblici. Il cottimo fiduciario è una procedura
negoziata la quale, ancorché procedimentalizzata, non esige
l'osservanza di tutte le regole tipiche dell'evidenza
pubblica'.
Sussistono opinioni dottrinali che sembrano, invece,
ammettere l'inclusione all'interno degli affidamenti ad
evidenza pubblica anche delle procedure negoziate, come
quella del cottimo fiduciario, se attuate nel rispetto
concreto dei principi di trasparenza e pubblicità.
L'Anci, nel parere dd. 13.12.2012, ha ritenuto che anche una
procedura negoziata, quale quella del cottimo fiduciario,
possa essere considerata ad evidenza pubblica, purché per
essa sia prevista la pubblicazione del bando di gara, con
esclusione pertanto dei casi di affidamento diretto.
Secondo alcuni autori, inoltre, il 'cottimo fiduciario' fa
parte del sistema in economia solo nominalmente: per
sostanza giuridica esso sarebbe integralmente un pubblico
appalto (nel senso comunitario del termine), di valore
inferiore alla soglia comunitaria, come tale affidabile in
modalità semplificata, purché nel rispetto dei principio di
trasparenza (cfr. 'Le procedure in economia', Alessandro
Massari, 2012, Maggioli Editore, pag. 25)
(14.01.2013 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI:
Appalti, ok dal Senato alla legge delega. Tutte le novità.
Pagamento diretto dei subappaltatori, divieto di attribuire
compiti di responsabilità dei lavori al contraente generale,
dibattito pubblico sulle grandi opere di impatto ambientale.
Con 184 sì, due no e 42 astensioni, l'Aula del Senato ha
approvato il disegno di legge per la riforma degli appalti,
recante delega al Governo per l'attuazione della direttiva
2014/23/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione,
della direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici e che
abroga la direttiva 2004/18/CE e della direttiva 2014/25/UE
sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE.
Il ddl
(Atto
Senato n. 1678),
che ora passa all'esame della Camera, era stato licenziato
il 3 giugno scorso dalla commissione Lavori pubblici di
Palazzo Madama, con parecchie modifiche rispetto al testo
iniziale. (continua ...) (18.06.2015 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Appalti pubblici senza deroghe. Non si
ripeteranno più casi come quelli di Expo e del G8.
Atteso per oggi l'ok in prima lettura del ddl
delega che recepisce le direttive europee.
Mai più deroghe per appalti pubblici. Rafforzati
ulteriormente i poteri di Anac che potrà anche bloccare gare
in corso. Divieto di affidamento della direzione lavori al
contraente generale. Limiti all'appalto integrato.
Commissari di gara scelti da un albo gestito dall'Anac.
Qualificazione sui criteri reputazionali delle imprese.
Sono questi alcuni dei contenuti del testo del disegno di
legge delega
(Atto
Senato n. 1678)
per il recepimento delle nuove direttive appalti pubblici e
per la riforma del codice dei contratti pubblici che il
senato sta discutendo con l'obiettivo di arrivare oggi
all'ok in prima lettura.
Il provvedimento, che è molto diverso da quello approvato
dal governo a fine agosto 2014, contiene più di sessanta
criteri di delega, messi a punto in commissione lavori
pubblici, che guideranno entro binari molto stretti il
lavoro del legislatore delegato. La principale novità del
testo del senato, di cui sono relatori Stefano Esposito e
Lionello Pagnoncelli, è l'espresso divieto di deroghe alle
procedure che verranno inserite nel nuovo codice appalti.
In sostanza esperienze come il G8, l'Expo 2015 e i Grandi
eventi di qualche anno fa non potranno più ripetersi. In
particolare, il senato ha chiarito che le uniche possibilità
di eccezione (e quindi di affidamenti in deroga) saranno
contemplate soltanto in ragione di urgenze determinate da
calamità naturali, ma sempre con una adeguata pubblicità
degli affidamenti disposti in regime di emergenza.
Un altro elemento portante del disegno di legge delega è
costituito dal rafforzamento dei poteri dell'Autorità
nazionale anticorruzione che potrà emanare provvedimenti
vincolanti, procedere all'annullamento della gara in caso di
problemi legati a reati contro la pubblica amministrazione,
predisporre linee guida e contratti tipo utilizzabili dalle
stazioni appaltanti.
Altre rilevanti novità sono quelle legate all'istituzione di
un albo dei commissari di gara presso l'Anac, obbligatorio
per tutte le stazioni appaltanti con scelta dei commissari a
sorteggio e la qualificazione degli operatori economici
anche attraverso l'introduzione di criteri reputazionali
che, al di là dei diversi parametri di capacità tecnica e
economica, andranno a vedere anche come si è comportato
l'operatore economico nel recente passato.
Altro punto molto «caldo» anche alla luce degli
scandali degli ultimi mesi e dell'insuccesso della legge
Obiettivo è il tema degli affidamenti a contraente generale
con la previsione del divieto di affidamento della direzione
lavori al contraente generale e la creazione di un albo
nazionale dei responsabili dei lavori, dei direttori dei
lavori e dei collaudatori dei lavori affidati al contraente
generale, gestito dal ministero delle infrastrutture che
segnalerà alle amministrazioni una rosa di candidati (almeno
il triplo) da scegliere poi con sorteggio pubblico.
Dal testo emerge poi una particolare attenzione alla fase
progettuale, con una sostanziale limitazione dell'appalto
integrato che sarà utilizzabile per opere in cui vi sia una
presenza di lavori o componenti caratterizzati da notevole
contenuto innovativo o tecnologico, superiore al 70% del
valore dell'appalto; inoltre la delega prevede che in via
generale si appalti con a base di gara il progetto
esecutivo.
Una particolare attenzione viene poi riservata alla
necessità di scegliere l'affidatario sulla base della
qualità dell'offerta: gli appalti dovranno infatti essere
aggiudicati con il criterio dell'Oepv (offerta
economicamente più vantaggiosa), che rappresenterà la regola
generale e il legislatore delegato dovrà definire in quali
residuali casi si potrà utilizzare il prezzo più basso.
Per le concessioni di servizi pubblici e di lavori pubblici
(comprese quelle autostradali) non affidate con gara
dovrebbe essere previsto l'obbligo di gara per gli
affidamenti a terzi di lavori, forniture e servizi connessi
alla concessione.
Si danno indicazioni anche in relazione all'accesso alle
gare da parte delle piccole e medie imprese (ribadito il
divieto di mega lotti) e miglioramento delle condizioni di
accesso al mercato dei servizi di architettura e ingegneria
e degli altri servizi professionali dell'area tecnica, per i
piccoli e medi operatori economici e per i giovani
professionisti, anche tramite divieto di aggregazione
artificiosa degli appalti
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Paternità, congedi sdoppiati.
Genitori più tutelati negli studi professionali. Il rinnovo
del Ccnl, infatti, introduce la facoltà ai lavoratori
dipendenti di fruire il congedo parentale a ore per
l'assistenza dei propri figli e disciplina i due nuovi
congedi di «paternità» a favore, cioè, soltanto dei papà:
uno obbligatorio, l'altro facoltativo.
Tutela della maternità e della paternità.
Il nuovo Ccnl modifica in parte la vigente disciplina in
materia di tutela della maternità. In via di principio, la
lavoratrice è tenuta a presentare al datore di lavoro il
certificato di gravidanza, rilasciato in tre copie, due
delle quali vanno appunto prodotte (dalla lavoratrice) la
prima al datore di lavoro e la seconda all'istituto
assicuratore (Inps). Nel certificato sono riportate le
seguenti informazioni:
a) le generalità della lavoratrice (sulla base delle
dichiarazioni della lavoratrice, che ne risponde della
veridicità);
b) l'indicazione del datore di lavoro e della sede dove
l'interessata presta il proprio lavoro, delle mansioni alle
quali è addetta (sulla base delle dichiarazioni della
lavoratrice, che ne risponde della veridicità);
c) il mese di gestazione alla data della visita;
d) la data presunta del parto.
Al rilascio del certificato medico sono abilitati gli
ufficiali sanitari, i medici condotti, i medici Inps e
quelli del servizio sanitario nazionale; tuttavia, qualora i
certificati siano redatti da altri medici, diversi da quelli
menzionati, datore di lavoro o Inps (che ne ricevono copia),
possono accettarli ugualmente o richiedere la
regolarizzazione alla lavoratrice. Il datore di lavoro è
tenuto a rilasciare alla lavoratrice la ricevuta dei
certificati e di ogni altra documentazione prodotta dalla
lavoratrice stessa. Il datore di lavoro è altresì tenuto a
conservare le predette certificazioni a disposizione della
direzione territoriali del lavoro e dell'Inps per tutto il
periodo in cui la lavoratrice è soggetta alla tutela della
legge.
Una volta partorito, la lavoratrice è tenuta a presentare
entro 30 (trenta) giorni il relativo certificato attestante
la data del parto.
I nuovi congedi per i papà. Due le nuove opportunità di
congedo per i neo-papà, una obbligatoria e l'altra
facoltativa (si veda tabella). In primo luogo, il padre
lavoratore dipendente, entro i 5 (cinque) mesi dalla nascita
del figlio, ha l'obbligo di astenersi dal lavoro per un
periodo di 1 (un) giorno. Tale congedo obbligatorio di 1 (un
giorno) è fruibile dal padre anche durante il congedo di
maternità della madre lavoratrice, in aggiunta a esso. Il
giorno di congedo obbligatorio è riconosciuto anche al padre
che fruisce del congedo di paternità (ai sensi dell'art. 28
del dlgs n. 151/2001), ossia in caso di morte o di grave
infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di
affidamento esclusivo al padre.
In secondo luogo, il padre
lavoratore dipendente, entro i 5 (cinque) mesi dalla nascita
del figlio, può astenersi per un ulteriore periodo di 1
(uno) o 2 (due) giorni, anche continuativi, previo accordo
con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo
di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. In
relazione a entrambi i predetti congedi il padre comunica in
forma scritta al datore di lavoro i giorni in cui intende
fruirne, con un anticipo non minore di quindici giorni, ove
possibile in relazione all'evento nascita, sulla base della
data presunta del parto.
La forma scritta della
comunicazione può essere sostituita dall'utilizzo, ove
presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta
e la gestione delle assenze. Il datore di lavoro comunica
all'Inps le giornate di congedo fruite, attraverso i canali
telematici messi a disposizione dall'Istituto medesimo. Nel
caso di congedo facoltativo, il padre lavoratore allega alla
richiesta una dichiarazione della madre di non fruizione del
congedo di maternità a lei spettante per un numero di giorni
equivalente a quello fruito dal padre, con conseguente
riduzione del congedo medesimo. La predetta documentazione
dovrà essere trasmessa anche al datore di lavoro della
madre. Attenzione; i due nuovi congedi non possono essere
frazionati a ore.
---------------
Occhio di riguardo per i genitori.
Il rinnovo del Ccnl disciplina la possibilità per i
lavoratori di fruire del congedo parentale a ore. In
particolare, ai fini di conciliare i tempi di lavoro e
quelli familiari, dà attuazione alla disposizione di cui al
dlgs n. 151/2001 (Tu maternità) per la definizione delle
modalità di fruizione del congedo parentale in modalità a
ore, indistintamente per i lavoratori a tempo pieno o
parziale, osservando la seguente procedura:
• la volontà (del lavoratore) di avvalersi del congedo in
ossequio alla predetta articolazione oraria dovrà essere
comunicata al datore di lavoro con almeno 15 giorni di
preavviso, indicando il numero di mesi congedo parentale
(spettante ai sensi del citato dlgs n. 151/2001) che intende
usufruire, nonché l'arco temporale entro il quale le ore di
congedo saranno fruite (inizio e fine), le programmazione
mensile delle ore di congedo che andrà concordata con il
datore di lavoro, compatibilmente con le esigenze
organizzative;
• non sono comunque ammissibili richieste che prevedano
l'effettuazione di prestazioni lavorative inferiori a 4 ore
giornaliere;
• il calcolo dell'indennità economica prevista dalla legge e
da erogare per ogni ora di congedo viene effettuato
prendendo come base di computo il divisore mensile
contrattuale di 170 ore;
• la possibilità di convertire uno o più mesi di congedo
parentale a ore è ammessa anche a più riprese, fino a
esaurimento del periodo massimo riconosciuto dalla legge;
• il congedo a ore è cumulabile, anche nell'ambito della
stessa giornata, con altri riposi e permessi previsti dalla
legge o dal Ccnl;
• sono fatti salvi gli obblighi di legge a carico del
lavoratore con riferimento all'apposita istanza di congedo
parentale che lo stesso deve presentare all'Inps.
- Permessi e congedi retribuiti. A tutti i dipendenti sono
concessi permessi e/o congedi familiari retribuiti nelle
misure e per le motivazioni di seguito indicate:
a) giorni 15 (quindici) di calendario per contrarre
matrimonio, con decorrenza dal terzo giorno antecedente la
celebrazione del matrimonio stesso;
b) giorni 3 (tre) lavorativi per natalità e lutti familiari
fino al terzo grado di parentela. In tali casi il godimento
dovrà avvenire entro 7 (sette) giorni dell'evento.
Ai fini del riconoscimento dei diritti su esposti il
lavoratore ha l'obbligo di esibire al datore di lavoro
regolare documentazione. Durante tali periodi il lavoratore
è considerato a ogni effetto in attività di servizio,
conservando il diritto alla retribuzione normalmente
percepita.
- Congedi per eventi e cause familiari retribuiti.
La lavoratrice e il lavoratore, nel caso di grave infermità
documentata del coniuge o di un parente entro il secondo
grado o del convivente, purché la convivenza risulti da
certificazione anagrafica, potranno usufruire di 3 (tre)
giorni di permesso lavorativi all'anno.
In alternativa ai 3 (tre) giorni, potranno concordare con il
datore di lavoro modalità di orario di prestazione
lavorativa diverse, anche per periodi superiori ai tre
giorni. Lo svolgimento della prestazione dovrà comunque
comportare una riduzione di orario complessivamente non
inferiore ai giorni di permesso che vengono sostituiti.
La richiesta dovrà essere fatta con lettera scritta
indicando: l'evento che dà titolo al congedo e i giorni in
cui si intende usufruirne, fermo restando che il godimento
dovrà avvenire entro 7 (sette) giorni dalla data dell'evento
o dell'accertamento dell'insorgenza della grave infermità o
necessità
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti vegetali, riutilizzo ampio.
Sufficiente il rispetto delle norme per i sottoprodotti.
Dal Minambiente le indicazioni per gestire sfalci e potature
fuori dal regime dei rifiuti.
È la disciplina sui sottoprodotti prevista dal Codice
ambientale la chiave universale per poter gestire fuori dal
regime dei rifiuti i residui di potatura derivanti da
attività di manutenzione del verde.
Con la
nota 27.05.2015 n. 6038 di prot. il Minambiente chiarisce come l'istituto
previsto dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006, di portata
generale, possa essere invocato (dimostrandone il ricorre
dei presupposti) sia per la gestione dei residui vegetali
provenienti da attività agricola e forestale sia per quella
degli scarti derivanti dalle altre aree verdi che non
rientrano tra le deroghe specifiche al regime dei rifiuti
riservate dall'articolo 185 dello stesso decreto legislativo
ai primi.
La disciplina generale sui sottoprodotti. In base
all'articolo 184-bis, comma 1, del Codice ambientale è
infatti un sottoprodotto, e non rifiuto, qualsiasi sostanza
od oggetto che soddisfi contemporaneamente tutte le seguenti
condizioni: è originato da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è
la sua produzione; è certo il suo riutilizzo, nel corso
dello stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; il
residuo può essere utilizzato direttamente senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica
industriale; l'ulteriore utilizzo è legale, ossia ha ad
oggetto beni che soddisfano i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e non comporta impatti complessivi negativi
sull'ambiente o la salute umana.
Con la nota 6038/2015 il Minambiente sottolinea innanzitutto
come tale disciplina possa essere dunque applicata a tutti i
materiali vegetali, compresi i residui derivanti dalla
manutenzione del verde.
Nello specifico il dicastero chiarisce altresì come la
condizione della provenienza del residuo da un processo
produttivo richiesta dal citato articolo 184-bis sia da
considerarsi in una accezione ampia, richiamando in tale
contesto la sentenza del Consiglio di stato 06.08.2013 n.
4151 che non ne relega (infatti) il significato allo stretto
processo di fabbricazione.
L'Ufficio richiama però l'attenzione sulla necessità di
rispettare comunque le specifiche norme di settore previste
per il riutilizzo dei residui (come quelle in materia di
combustibili, in caso di destinazione degli scarti alla
valorizzazione energetica).
Le deroghe del dlgs 152/2006 per i residui agricoli. In base
all'articolo 185, comma 1, lettera f), del Codice ambientale
non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui
rifiuti da esso prevista «paglia, sfalci e potature, nonché
altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso
utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la
produzione di energia da tale biomassa mediante processi o
metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo
la salute umana».
Con la nota 6038/2015 il ministero dell'ambiente conferma la
propria interpretazione espressa con il precedente e omonimo
atto 8890/2011, ricordando come i residui oggetto di tale
specifica deroga siano esclusivamente quelli identificabili
per provenienza dalle suddette attività agricole o
forestali. Per invocare tale deroga, sottolinea il
Dicastero, è dunque sempre necessario dimostrare (tra le
altre condizioni previste dal citato articolo 185, comma 1,
lettera f), del dlgs 152/2006) la sussistenza di tale
particolare origine dei residui verdi.
Diversamente, avvisa l'Ufficio, per gestire gli stessi
scarti vegetali fuori dal regime dei rifiuti si dovrà
(sempre sussistendone le condizioni) ricorrere al più
generale istituto dei sottoprodotti previsto dall'articolo
184-bis del Codice ambientale.
Il regime dei rifiuti. A chiusura della nuova nota 6038/2015
il ministero dell'ambiente ricorda infine come la mancanza
della prova delle condizioni che permettano di ricorrere ai
due illustrati istituti ex articolo 184-bis e 185 del dlgs
152/2006 comporta la necessità di qualificare e di
conseguenza gestire i residui vegetali come rifiuti,
classificandoli (in base alla provenienza) come urbani o
speciali.
In base all'articolo 184, comma 2, lettera e), del Codice
ambientale, sono infatti urbani «i rifiuti vegetali
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree
cimiteriali», laddove in base al comma 3, lettera a)
dello stesso articolo sono invece speciali «i rifiuti da
attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli
effetti dell'articolo 2135 C.c.»
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ecoreati al test del Codice ambiente.
Con le nuove disposizioni detenzione fino a sei anni se si
contamina il terreno.
La legge 68/2015. Le pene vanno coordinate con le infrazioni
già previste dal decreto a tutela del paesaggio.
Quattro nuovi
reati contro l’ambiente sono scattati dal 29 maggio scorso,
data di entrata in vigore della legge 68/2015 che dà un giro
di vite agli inquinatori, per i quali sono previste pene più
severe. In particolare, il legislatore ha introdotto diverse
nuove fattispecie di reato.
Tra queste le principali sono:
l’inquinamento ambientale, il disastro ambientale, il
traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività e
l’impedimento al controllo ed ha rivisto alcuni reati già
disciplinati dal Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) quali,
ad esempio, l’omessa bonifica.
Il nuovo titolo del Codice penale relativo ai delitti contro
l’ambiente, dunque, da un lato, integra la disciplina
penale, dall’altro, integra altresì il diritto ambientale
sostanziale.
I termini e i casi considerati dalla legge 68 devono allora
essere coordinati con quelli considerati dalla norma
ambientale sostanziale.
Si pensi, ad esempio, ai delitti di inquinamento ambientale
e di disastro ambientale (articoli 452-bis e 452-quater del
codice penale). Il Codice dell’ambiente contiene già una
definizione di «inquinamento» introdotta dalla disciplina
sull’Aia e sulla tutela delle acque, mentre per le bonifiche
(Parte IV, Titolo V) il medesimo decreto fornisce una
diversa definizione di «contaminazione». Con il che sorge
spontaneo domandarsi se il reato di inquinamento ambientale
debba essere letto esclusivamente con riferimento alle
definizioni ambientali ovvero possa avere una portata più
ampia e generale.
Invero, l’articolo 452-bis riconduce il concetto di
inquinamento ad una compromissione o un deterioramento
significativo e misurabile di acqua, aria, suolo,
sottosuolo, ecosistema, biodiversità, flora o fauna, che
sembrerebbero trarre ispirazione più dalla disciplina sul
danno ambientale di cui alla Parte VI del Dlgs 152, che
dalle specifiche definizioni normative contenute nel
medesimo decreto.
Le differenze
Viene naturale domandarsi se ogni ipotesi di danno
ambientale costituisca anche una ipotesi penalmente
rilevante di inquinamento ambientale, ovvero se tra le due
fattispecie -danno e inquinamento- esistano differenze. La
norma ambientale richiede che l’inquinamento sia causato
abusivamente, ma invero anche il danno ambientale presuppone
un comportamento illegittimo.
Discorso analogo vale anche per il concetto di disastro
ambientale, ossia l’alterazione irreversibile di un
ecosistema ovvero l’alterazione il cui ripristino sarebbe
eccessivamente oneroso ovvero causa di pericolo e offesa
alla pubblica incolumità. Anche in questo caso, il concetto
di disastro ambientale non trova una propria definizione nel
Codice dell’ambiente, ma è la norma penale ad inquadrare la
fattispecie sostanziale.
Il disastro ambientale, dunque, dovrebbe rappresentare un
qualcosa di più del semplice inquinamento. Mentre
l’inquinamento, infatti, per quanto abusivo potrebbe anche
essere ripristinato e corretto, il disastro parrebbe
rappresentare una compromissione definitiva e
particolarmente grave dell’ambiente.
È bene osservare che entrambe le fattispecie criminali
possono essere imputate sia a titolo di dolo (ossia azioni
volontarie poste in essere dagli inquinatori), sia a titolo
di colpa (articolo 452-quinquies).
Una menzione merita anche il nuovo delitto di traffico e
abbandono di materiale ad alta radioattività di cui
all’articolo 452-sexies. Il legislatore ha basato la
fattispecie penale sui materiali ad alta radioattività e non
-si badi bene- sui rifiuti (espressamente definiti ed
inquadrati dal Codice dell’ambiente) ampliando così la
casistica del traffico e abbandono.
Non a caso, la norma penale sanziona anche coloro che
illegittimamente cedono, acquistano, importano o esportano i
materiali radioattivi, configurandosi così un reato di
pericolo. Una ulteriore fattispecie di reato introdotta
dalla legge 68/2015 è l’impedimento del controllo ambientale
(ma anche sui luoghi di lavoro) da parte delle autorità.
Questa fattispecie è idonea ad includere i possibili
artifici che ostacolino o impediscano le verifiche
ambientali.
Aggravanti e attenuanti
Le nuove disposizioni ambientali, inoltre, introducono anche
ipotesi di aggravanti dei delitti ovvero di riduzioni della
pena in caso di ravvedimento operoso, laddove sia evitato un
ulteriore aggravamento della situazione ambientale ovvero
nel caso in cui si provveda alla bonifica o ripristino dello
stato dei luoghi.
Infine, per i delitti sopra indicati, la legge 68 introduce
anche la confisca dei proventi del reato ovvero dei beni
utilizzati per commettere il reato. Unica eccezione, il caso
in cui i beni siano di soggetti terzi estranei. Si pensi, ad
esempio, ad aree o siti di terzi in cui sono abusivamente
sversate sostanze inquinanti.
L’introduzione di nuovi reati ambientali e di pene più
severe, porta necessariamente gli operatori a dover agire
con maggiori cautele e attenzioni verso l’ambiente
---------------
L’omessa bonifica amplia il perimetro.
I soggetti. Rischi nei casi di accollo.
I reati
ambientali introdotti dalla legge 68/2015 sono destinati ad
impattare anche sulla gestione dei siti contaminati.
Estendendo le responsabilità penali ai privati terzi che
hanno sottoscritto accordi per la bonifica dei suoli.
Infatti, il legislatore ha introdotto uno specifico reato
per omessa bonifica (articolo 452-terdecies del Codice
penale) che si affianca e integra il reato disciplinato
dall’articolo 257 del Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006)
relativo ai siti contaminati (ossia rivolto a colui che
inquina e non bonifica). In più, entrambe le fattispecie
fanno salve le ipotesi di reati più gravi, che -proprio in
considerazione dell’ampiezza dei termini ambientali
utilizzati dalla nuova legge- potrebbero trovare
applicazione anche rispetto ai casi di contaminazione di
suoli e acque di falda.
Il reato di omessa bonifica scatta per colui che è obbligato
per legge oppure perché ha ricevuto un ordine dal giudice o
dalla pubblica amministrazione a bonificare e che non
adempie.
A voler ben vedere, questa ipotesi di reato coincide
sostanzialmente con quella prevista dal Codice dell’ambiente
che all’articolo 257, punisce colui che, avendo causato una
contaminazione (superamento delle Concentrazioni soglia di
rischio - Csr), non provvede alla bonifica.
Chi causa la contaminazione, infatti, è anche colui che è
obbligato per legge a bonificare (Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria n. 21/2013 e Corte di Giustizia europea
C-534/13 del 05.03.2015).
Proprio in considerazione di ciò, secondo la giurisprudenza
consolidata, la pubblica amministrazione può legittimamente
ordinare la bonifica solo al soggetto responsabile che è -ancora una volta- il soggetto obbligato per legge.
Ciò porterebbe a ritenere che entrambe le ipotesi di reato
contemplino nella sostanza la stessa fattispecie, con
conseguente dubbio applicativo.
Da una prima lettura, resterebbe -come possibile differenza
tra i due reati- solo il caso di ordine dell’autorità
giudiziaria emesso nei confronti di un soggetto privato, che
pur non responsabile della contaminazione, abbia
contrattualmente assunto l’obbligo a bonificare un sito
contaminato, ripartendo così gli oneri di bonifica tra i
privati diversamente rispetto alle responsabilità stabilite
dalla legge. Per questo motivo una particolare attenzione,
dunque, dovrà essere posta agli accordi privati che regolano
gli adempimenti di bonifica.
In particolare, qualora un soggetto non responsabile assuma
contrattualmente l’impegno a bonificare in sostituzione
dell’inquinatore, ricorrendo l’ipotesi di inadempimento a
questo obbligo e di condanna ad adempiere da parte del
giudice civile, egli potrebbe anche ricadere nell’ipotesi di
reato di omessa bonifica previsto dalla nuova legge se non
ottempera alla sentenza civile eventualmente intervenuta
rispetto all’inadempimento contrattuale.
La nuova formulazione dell’articolo 257 del Codice
ambiente prevede come causa di non punibilità l’osservanza
dei progetti di bonifica approvati dagli enti. Questa norma
di favore, tuttavia, si applica solo rispetto alle
contravvenzioni, cioè al reato di cui allo stesso articolo
257, ma non anche al nuovo reato introdotto dall’articolo
452-bis, con un difetto di coordinamento tra i due testi (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Canale «blindato» per gli ex provinciali. Personale. La spinta alle ricollocazioni.
Consentire ai
Comuni di assumere il personale collocato in mobilità
obbligatoria dalle Province, anche se non hanno rispettato
il Patto di stabilità e i tempi medi dei pagamenti;
permettere il recupero, per finanziare nuove assunzioni, dei
risparmi derivanti dalle cessazioni non sostituite
dell’ultimo triennio; escludere dal rispetto dei tempi medi
dei pagamenti quelli effettuati utilizzando le risorse
trasferite allo scopo dalla normativa, ivi comprese le
risorse aggiuntive stanziate a questo fine dallo stesso
decreto; trasferire il personale delle polizie provinciali
negli organici delle polizie municipali.
Sembrano essere queste le principali novità per il personale
degli enti locali contenute nel Dl approvato giovedì dal
Governo.
La logica ispiratrice è, con tutta evidenza, quella di
rendere meno rigidi alcuni vincoli dettati alle assunzioni
di personale, soprattutto per rendere più facile
l’assorbimento dei dipendenti collocati in mobilità
obbligatoria dalle Province. Anche se si deve subito
precisare che non vi è alcuno stravolgimento delle
disposizioni dettate dalla legge di stabilità.
Niente sanzioni
Nella direzione di rendere più facile l’assunzione dei
dipendenti in mobilità obbligatoria delle Province vanno
molte delle misure contenute nel provvedimento. In primo
luogo, quella che consente di derogare al divieto di
effettuare assunzioni di personale agli enti che non hanno
rispettato nell’anno precedente il Patto di stabilità e/o
non hanno effettuato entro i termini la relativa
certificazione.
Ed ancora la stessa deroga è prevista per le
amministrazioni che hanno superato i tempi medi di pagamento
previsti dal Dl 66/2014. Da sottolineare che questa deroga
non si estende alle amministrazioni che hanno superato il
tetto di spesa del personale.
Sostanzialmente si muove nella stessa direzione anche la
correzione che viene operata delle indicazioni dettate dalla
sezione autonomie della Corte dei Conti nel parere n.
27/2014. Interpretando in senso restrittivo le previsioni
del Dl 90/2014 questa pronuncia aveva stabilito che i
risparmi derivanti da cessazioni di personale non sostituito
negli anni precedenti possono essere destinati a finanziare
nuove assunzioni a tempo indeterminato solamente a decorrere
dal 2014.
L’intervento legislativo consente invece questo
recupero per il triennio precedente senza fissare un anno a
partire dal quale esso può essere disposto. Per questa
ragione l’effetto è che i risparmi derivanti dalle
cessazioni del 2012, se non sono stati già utilizzati per
finanziare nuove assunzioni, possono essere destinati a tale
scopo nel 2015; si deve ritenere entro il tetto vigente
nello stesso anno, cioè il 40%.
Comandi e distacchi
I dipendenti degli enti di area vasta, se in comando o in
distacco presso un’altra Pa allo scorso 31 dicembre, sono -con il loro consenso ed entro i tetti di spesa per le nuove
assunzioni- trasferiti tout court alle dipendenze delle
amministrazioni che li utilizzano. Di grande rilievo il
trasferimento dei vigili provinciali alle dipendenze dei
Comuni, anche in deroga ai vincoli di spesa del personale e
delle assunzioni, nonché del rispetto dei tempi di
pagamento. Questi passaggi sono soggetti al rispetto del
patto di stabilità nell’esercizio in cui essi avvengono e
alla sostenibilità di bilancio.
Sono esclusi dal calcolo dei tempi di pagamento, ai fini
dell’applicazione della sanzione del divieto di effettuare
assunzioni per le amministrazioni inadempienti, quelli che
sono stati effettuati attingendo alle risorse all’uopo
trasferite dallo Stato. Si deve infine sottolineare che con
questo provvedimento vengono messi 2 miliardi a disposizione
delle regioni e 650 milioni dei Comuni per dare corso ai
pagamenti di fatture ai privati (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2015
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: DECRETO ENTI LOCALI/ Alle regioni i dipendenti provinciali
dei servizi per il lavoro.
Ora si ricomincia ad assumere.
Concorsi per le scuole. Contratti a tempo prolungati.
Negli enti locali si ricomincia ad assumere. I comuni
potranno effettuare concorsi per il personale della scuola,
mentre province e città metropolitane potranno prorogare i
tempi determinati anche se hanno sforato il patto di
Stabilità. I dipendenti provinciali in comando o distacco
presso altre p.a. vi si potranno trasferire definitivamente.
I dipendenti delle province addetti ai servizi per il lavoro
saranno invece trasferiti alle regioni e non alla nascente
Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal).
È l'effetto dell'incrocio di norme tra il decreto enti
locali e lo schema di dlgs sulle politiche del lavoro
approvati giovedì scorso dal consiglio dei ministri (si veda
ItaliaOggi di ieri).
Assunzioni negli enti locali. Il dl enti locali permette
alle province e alle città metropolitane di prorogare i
contratti di lavoro a tempo determinato, anche se abbiano
violato il patto di stabilità. La proroga dei direttori
generali sarà consentita alle sole città metropolitane. Allo
scopo, poi, di favore i processi di mobilità del personale
provinciale in sovrannumero, il decreto consentirà ai comuni
di assumere tale personale anche nel caso di mancato
rispetto dei tempi di pagamento e violazione dei termini per
l'invio della connessa certificazione. Inoltre, si dà modo
ai dipendenti provinciali in comando o distacco presso altre
pubbliche amministrazioni di trasferirsi definitivamente
presso di esse, se lo consentano i limiti di spesa e di
dotazioni organiche.
Fondamentale è la modifica all'articolo 3, comma 5, del dl
90/2014, convertito in legge 114/2014, che chiarisce come il
cumulo triennale delle risorse non spese per le assunzioni
sia da considerare riferito al triennio precedente l'anno in
corso e non a quello futuro, smentendo le opinabili
interpretazioni contrarie fornite dalla Corte dei conti.
Ancora, il decreto consente ai comuni di effettuare concorsi
per assunzioni a tempo indeterminato, nonostante il blocco
imposto dal comma 424 della legge 190/2014, per acquisire
personale dotato di particolari abilitazioni o titoli di
studio abilitanti riguardanti l'organizzazione dei servizi
educativi e scolastici, nel caso le graduatorie vigenti
siano esaurite e si accerti che tra il personale
soprannumerario delle province manchino tali figure. Il
decreto esplicita ciò che era, comunque, già chiaro: i
comuni potranno effettuare assunzioni a tempo determinato di
agenti di polizia municipale per esigenze stagionali.
Servizi per il lavoro. A sorpresa, il Governo nell'approvare
lo schema di uno dei decreti legislativi attuativi della
legge 183/2014 (Jobs act), quello dedicato alle politiche
del lavoro, smentisce tutte le ipotesi da mesi concernenti
il destino dei 7.500 dipendenti provinciali operanti nei
centri per l'impiego. Sin qui, si dava per scontato che
detti lavoratori provinciali sarebbero transitati nei ranghi
dell'agenzia. Tanto è vero che la circolare
interministeriale di Funzione pubblica e Ministero degli
affari regionali 1/2015 aveva ipotizzato di sottrarre i
dipendenti provinciali dei servizi per il lavoro alle
procedure di mobilità generali, per destinarli ad un
trasferimento «dedicato» verso l'agenzia.
Niente di tutto
ciò, almeno stando allo schema del decreto approvato giovedì
dal Governo, che ora deve affrontare l'iter parlamentare. L'Anapal
nascerà con appena 400 dipendenti, che transiteranno dai
ruoli del Ministero del lavoro e di Italia lavoro e non
svolgerà le funzioni di erogazione diretta dei servizi ai
disoccupati, attraverso sportelli territoriali. Lo schema di
decreto, infatti, prevede all'articolo 11 che a questo
penseranno direttamente le regioni e le province autonome,
attraverso loro uffici, da denominare centri per l'impiego,
come quelli oggi operanti presso le province.
I rapporti tra
Ministero del lavoro e regioni, per garantire i livelli
essenziali delle prestazioni ai disoccupati saranno regolati
da convenzioni. L'effetto finale, dunque, è passare il
blocco dei servizi per il lavoro dalle province alle
regioni. Il problema è che il tutto viene stabilito senza
applicare le regole della legge Delrio, ai sensi della quale
il trasferimento di funzioni e personale delle province
verso altri enti avrebbe dovuto essere effettuato traslando
le relative risorse e finanziamenti.
Lo schema di decreto legislativo, invece, si limita a
confermare quanto già stabilito nel «decreto enti locali»: a
seguito delle convenzioni tra regioni e Ministero del
lavoro, lo Stato coprirà i costi del personale dei servizi
per il lavoro per soli 70 milioni l'anno nel 2015 e nel
2016.
Si tratta di un decimo del costo complessivo dei
servizi, pari a circa 700 milioni, che, di conseguenza,
dovrebbe essere coperto dalle regioni. Il che rischia di
impantanare la riforma, visto che le regioni non hanno
intenzione di assumersi questa spesa. Sicché, l'occupazione
dei 7.500 lavoratori delle province interessati viene ad
essere messa seriamente a rischio
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2015). |
APPALTI: Un limite all'in house per lavori e servizi pubblici.
Gli emendamenti dei relatori al disegno di legge sugli
appalti. Sarà da martedì in aula al senato.
Limitazione dell'obbligo per i concessionari di affidare a
terzi lavori, forniture e servizi con conseguente
limitazione dell'in house per le concessioni di lavori e
servizi pubblici.
È questo il punto di maggiore rilievo da
cui ripartirà, martedì prossimo in Aula al Senato, l'esame
del disegno di legge delega sugli appalti pubblici approvato
la scorsa settimana dalla commissione lavori pubblici (Atto
Senato n. 1678).
In
Aula sono stati presentati circa 200 emendamenti ma saranno
quelli dei relatori ad avere le maggiori chance di passare,
tant'è che con tutta probabilità mercoledì prossimo il
Senato potrebbe varare il testo in via definitiva e
trasmetterlo alla Camera.
Sulla materia dei concessionari di
lavori pubblici e di servizi pubblici e in particolare sulla
norma introdotta nel testo varato dalla Commissione di
merito che obbliga i nuovi concessionari e quelli attuali
(con una moratoria di 12 mesi) a affidare servizi, forniture
e lavori a terzi, si sta focalizzando l'attenzione anche in
ragione delle evidenti ricadute sull'apertura del mercato.
Infatti i relatori hanno proposto di escludere dall'obbligo
le concessioni affidate con la formula della finanza di
progetto (il cosiddetto PPP, partenariato pubblico-privato).
Su questo emendamento la Commissione bilancio si è però
espressa in forma di contrarietà esprimendo perplessità
sull'impatto della norma (sulla quale peraltro sono stati
presentati subemendamenti tesi a rendere applicabile
l'obbligo soltanto alle vecchie concessioni non affidate con
gara europea).
Altro punto sul quale la Commissione bilancio
si è espressa con un parere di semplice contrarietà attiene
alle proposte di limitazione dell'attività della Consip; si
osserva infatti che esse pur nell'impossibilità di una
quantificazione puntuale dei minori risparmi, potrebbero
comportare effetti finanziari se approvati in assenza di
idonea clausola di invarianza.
I relatori hanno anche
proposto un emendamento sulla disciplina del contraente
generale nel senso di rendere effettivo il divieto di
svolgimento della direzione lavori da parte del general
contractor anche per le «procedure di appalto già bandite
alla data di entrata in vigore della legge, incluse quelle
già espletate per le quali la stazione appaltante non abbia
ancora proceduto alla stipulazione del contratto con il
soggetto aggiudicatario».
Un altro emendamento, sempre sulla
materia delle concessioni, è finalizzato a circoscrivere
l'applicazione della norma ai contratti di importo superiore
a 150 mila euro. Altro punto oggetto di proposte dei
relatori è la materia dei poteri affidati all'Anac e su
questo colpisce l'attribuzione al Presidente dell'Authority
Infine un importante intervento dei relatori, come modifica
alla disposizione sulla cosiddetta «valorizzazione della
fase progettuale» riguarda gli affidamenti di servizi di
ingegneria e architettura, per i quali si afferma che deve
ritenersi escluso il ricorso al solo criterio di
aggiudicazione del prezzo.
Attualmente la normativa regolamentare contenuta nel dpr
207/2010 già prescrive l'obbligo di utilizzare il solo
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ma la
norma viene spesso disattesa
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: È allarme sui dirigenti apicali.
Dalla sostituzione dei segretari aumento della spesa.
Il presidente della Corte dei conti, Squitieri, nella sua
audizione sulla riforma p.a..
Allarme della Corte dei conti sugli effetti della riforma
della dirigenza pubblica nei riguardi degli enti locali.
Nel
corso dell'audizione alla camera tenuta il 3 giugno dal
presidente della Corte, Pasquale Squitieri, la magistratura
contabile ha espresso preoccupazione per l'eventuale aumento
della spesa derivanti dall'obbligo, previsto dall'attuale
articolo 9, lettera b), numero 4), del disegno di legge di
riforma della p.a., di tutti i comuni di dotarsi di un
dirigente «apicale» a cui affidare, anche in forma
associata, le funzioni sostanzialmente oggi attribuite ai
segretari comunali.
È uno degli aspetti maggiormente delicati della riforma.
Si intende abolire, senza in effetti aver mai spiegato
esattamente a quale scopo, i segretari comunali e far
confluire tale figura nel ruolo unico della dirigenza
locale. Ma, al contempo, la riforma, senza dare
all'ordinamento locale l'occhio di specifica attenzione che
merita, apre il problema della direzione amministrativa in
particolare dei piccoli comuni.
La Corte dei conti osserva che l'attuale testo del disegno
di legge delega all'attenzione della Camera «ha trasformato
in obbligo la facoltà per i comuni di minori dimensioni di
nominare un dirigente apicale, imponendo, peraltro, al fine
di evitare maggior oneri finanziari, l'esercizio in via
associata di tale funzione». Tutti i comuni, dunque,
dovranno dotarsi del dirigente generale. Ma, aggiunge la
magistratura contabile «andrebbe considerato che –come
evidenziano i dati del conto annuale 2013– oltre il 57% dei
comuni (4.597 su un totale di 8.015) è privo sia di
dirigenti, che di segretario comunale, trattandosi di enti
che, se con popolazione inferiore ai 500 abitanti, hanno una
media di soli tre dipendenti».
Insomma, per la maggioranza dei comuni italiani, la
previsione di una figura dirigenziale al vertice
dell'amministrazione rischia di incrementare la spesa.
Occorre ricordare che nell'attuale regime, nella gran parte
degli enti di piccole dimensioni di cui parla la Corte dei
conti i segretari comunali in servizio appartengono alla
classe C: non sono, cioè, inquadrati come dirigenti. Ed
hanno, di conseguenza, un trattamento economico mediamente
meno alto di quello previsto per le qualifiche dirigenziali.
Per questa ragione, secondo la Corte dei conti «appare
difficile ipotizzare la neutralità finanziaria della nuova
previsione, tenuto anche conto delle difficoltà di una
gestione associata della predetta funzione in enti non
necessariamente contigui». La presenza del dirigente apicale
comporta il forte rischio di incrementi di spesa, anche
perché tale funzione, secondo la Corte, «e anche l'eventuale
incarico congiunto comportano l'attribuzione di trattamenti
economici superiori, pur se si intenda conferire i nuovi
compiti a dirigenti già in servizio».
C'è, poi, un ulteriore aspetto che la Corte dei conti non ha
considerato, di natura organizzativa. Negli enti locali
privi di dirigenza, le funzioni dirigenziali possono essere
distribuite tra i funzionari di più elevato livello, ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000. Ma, se
è presente un dirigente, le funzioni dirigenziali non
possono essere assegnate ai funzionari e vanno concentrate
tutte in quell'unica figura. Il che comporta ovvi scompensi
nella gestione, dovuta all'effetto «collo di bottiglia»
determinato dalla concentrazione di tutte le responsabilità
operative e decisionali di natura amministrativa su un'unica
figura
(articolo ItaliaOggi del 12.06.2015). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
legittima l'ordinanza comunale adottata nei confronti
dell'ANAS in ordine alla rimozione dei rifiuti abbandonati a
latere della S.S..
L'ordinanza qui gravata trova adeguato
fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada -richiamato
nelle premesse del provvedimento, il quale reca la firma
oltre che del Commissario prefettizio anche del Responsabile
del Settore Ambiente e manutenzione- in quanto i rifiuti
urbani, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano
collocati lungo il percorso extraurbano della Strada Statale
n. 19;
Si tenga presente che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada,
intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle
strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti
proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e pulizia
delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle
attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di
efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una
diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri,
perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al
Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su
strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo,
poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione
della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il
trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori
ecologici per le altre attività proprie della raccolta
rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque
interferenti, con il normale flusso della circolazione
stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o gestore
della strada che […] può razionalmente ed efficacemente
programmare ed attuare in sicurezza la pulizia della strada
e delle sue pertinenze, poiché solo essi possono programmare
e gestire tutte le misure e le cautele idonee a garantire la
sicurezza della circolazione e degli operatori addetti alle
pulizie”;
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene
l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di
settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se
non da altra norma speciale che espressamente la privi della
sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi
individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene
previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la circostanza
che "i rifiuti, trovandosi lungo il percorso stradale,
possano costituire pericolo alla sicurezza e fluidità della
circolazione”.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 28/2015 relativa
alla rimozione e allo smaltimento dei rifiuti lungo il
percorso extraurbano della strada statale 19;
...
Considerato che l’ordinanza qui gravata trova adeguato
fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada -richiamato
nelle premesse del provvedimento, il quale reca la firma
oltre che del Commissario prefettizio anche del Responsabile
del Settore Ambiente e manutenzione- in quanto i rifiuti
urbani, di cui si ordina la rimozione all’ANAS, risultano
collocati lungo il percorso extraurbano della Strada Statale
n. 19;
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada,
intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle
strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti
proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di
efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una
diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri,
perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al
Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su
strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo,
poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione
della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il
trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori
ecologici per le altre attività proprie della raccolta
rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque
interferenti, con il normale flusso della circolazione
stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o
gestore della strada che […] può razionalmente ed
efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia
della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi
possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele
idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli
operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV,
sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n.
7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata
n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene
l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di
settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se
non da altra norma speciale che espressamente la privi della
sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi
individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene
previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la
circostanza che "i rifiuti, trovandosi lungo il percorso
stradale, possano costituire pericolo alla sicurezza e
fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n.
330/2013);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il
ricorso è infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 17.06.2015 n. 1373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di lavori abusivi tali da comportare
utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume
inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e,
dunque, da imprimere a tutta la superficie utile una
destinazione urbanistica differente da quella assentita,
giustifica il procedimento di calcolo della sanzione
pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta
superficie.
In tal senso, invero, a norma dell’art. 34, comma 2, D.P.R.
n. 380 del 2001, la sanzione va calcolata sulla parte
dell’opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire e quindi, nella descritta ipotesi, su tutta la
superficie (nella specie costituita da un sottotetto).
... per la riforma della sentenza del TAR Veneto, Sezione II,
n. 1355/2009, resa tra le parti, concernente irrogazione
sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
...
Conformemente a quanto eccepito dal comune resistente, il
primo motivo di gravame va dichiarato inammissibile, stante
il divieto di “nova” in appello, sancito dall’art.
104 del codice del processo amministrativo.
Ed invero, in primo grado, la ricorrente aveva lamentato,
per quanto qui rileva (secondo motivo, lett. c), che “All’interno
(del sottotetto) le altezze vanno da un minimo di 1,40/1,70
mt. a livello d’imposta della falda del tetto ad un massimo
nella parte centrale di mt. 3,30 (all. sez. dimostrativa).
La sua utilizzazione rimane come precedentemente quale
accessorio (ripostigli, lavanderia e stenditoio) del resto
in conformità ai progetti approvati.
L’ufficio invece e in modo contradditorio, ritenendo la
superficie del sottotetto utilizzabile sia pur come
accessorio in forza della variante urbanistica di cui alla
DOC n. 21/2006 assoggettava il sottotetto integralmente alla
sanzione degli abusi non sanabili. Ma se anche l’aumento
volumetrico derivato dalla sopraelevazione ha permesso
l’utilizzazione del sottotetto, l’ordinanza tuttavia
sanzionava l’intero volume, come se si fosse trattato di un
abuso non sanabile. Il tutto in violazione della variante
urbanistica di cui alla Doc. 21/2006 che invece riconosceva
in via di sanatoria quel volume.
La variante riconosceva dunque il volume non computato
urbanisticamente in sede di rilascio del permesso di
costruire, e ne consentiva perciò la sua utilizzazione.
Residuava il sopralzo tecnico di 0,77 cm secondo
l’ordinanza, di cm 0,55 per la ricorrente, salva l’ulteriore
riduzione ex L.R. 21/1996, soggetta alla sanzione
alternativa. Solo questa porzione al massimo è
assoggettabile a sanzione, contrariamente a quanto sancito
dall’ordinanza impugnata che va dunque annullata e intanto
sospesa”.
In appello è stato, invece, dedotto che la sanzione
pecuniaria avrebbe dovuto essere commisurata alla superficie
realizzata in esubero rispetto a quella assentita. E poiché
nel caso di specie l’abuso non ha comportato alcun
incremento di superficie, essendosi sostanziato unicamente
in una maggiore altezza, non avrebbe potuto essere applicata
alcuna sanzione.
E’ evidente, quindi, la diversità di causa petendi.
Il secondo motivo non merita accoglimento.
Ed invero, indipendentemente dalla circostanza che i titoli
edilizi rilasciati consentissero l’esecuzione di un
sottotetto con un’altezza, dalla quota del pavimento
all’imposta di falda, superiore a 60 cm., come sostiene
l’appellante, ciò che ai fini di causa ha carattere
assorbente, è che i detti titoli non consentivano l’accesso
al sottotetto dai piani sottostanti, come emerge
incontrovertibilmente dal fatto che l’istanza di sanatoria
della L., datata 20/07/2006, aveva ad oggetto anche “la
realizzazione di vani accessori ai sottostanti appartamenti,
mediante utilizzo del sottotetto”.
I lavori abusivamente realizzati hanno, dunque comportato,
l’utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume
inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati. In altre
parole, attraverso i lavori abusivamente eseguiti si è
impressa a tutto il sottotetto una destinazione urbanistica
differente da quella assentita.
Il che giustifica il procedimento di calcolo della sanzione
pecuniaria basato sull’integrale volume del sottotetto,
atteso che, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del D.P.R.
06/06/2001, n. 380, la sanzione va calcolata sulla “parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire” e quindi, nella specie, giusta quanto
poc’anzi rilevato, su tutto il sottotetto.
L’appello va, in definitiva, respinto (massima
tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 16.06.2015 n. 2980 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giova ricordare l’art. 36
del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi del quale “in caso di
interventi realizzati in assenza di permesso di costruire,
(…)il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario
dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i presupposti
soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il beneficio
della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati, oltre al
proprietario dell’immobile abusivo, anche il responsabile
dell’abuso, ossia colui il quale è legato da una relazione
di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che
la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a
chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus,
essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti
coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla
sanatoria.
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere
regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio
per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa,
suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36,
comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento
del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi
all'adeguamento dell'assetto urbano.
---------------
Deve ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di
proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non
rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della
sanatoria, atteso che la posizione di responsabili
dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza
del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R.
06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e sufficiente a
legittimare la presentazione del richiesto titolo edilizio
in sanatoria.
... per l'annullamento della nota prot. n. 3952 notificata
il 20.10.2014, con la quale il Comune di Longobardi ha
comunicato il diniego del permesso di costruire ed ha,
altresì, adottato tutti i provvedimenti di competenza
successivi previsti per la repressione dell’abuso, nonché
della relazione istruttoria n. prot. 2834 del 09.07.2014 del
Responsabile del procedimento, nonché di ogni atto comunque
connesso, presupposto e consequenziale al provvedimento
impugnato.
...
5. - La soluzione del caso in esame non può prescindere dal
richiamo all’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ai sensi
del quale “in caso di interventi realizzati in assenza di
permesso di costruire, (…)il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
La disposizione de qua dunque, nel dettare i
presupposti soggettivi e oggettivi necessari per ottenere il
beneficio della sanatoria, evoca tra i soggetti legittimati,
oltre al proprietario dell’immobile abusivo, anche il
responsabile dell’abuso, ossia colui il quale è legato da
una relazione di fatto, e non di diritto, all'immobile.
La giurisprudenza, intervenendo sul punto, ha chiarito che
la platea degli aventi diritto non è affatto circoscritta a
chi vanti una situazione giuridica d'appartenenza sull'opus,
essendo estesa, oltre al responsabile dell'abuso, a tutti
coloro i quali abbiano un interesse qualificato alla
sanatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013, n. 3220;
Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
E questo interesse coincide con quello pubblico alla celere
regolarizzazione degli immobili insistenti sul territorio
per mettere fine a situazioni di illiceità amministrativa,
suscettibili di essere riparate, ai sensi dell'art. 36,
comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, mediante il pagamento
del contributo di costruzione in misura doppia da destinarsi
all'adeguamento dell'assetto urbano (TAR Liguria, Sez. I,
28.05.2014, n. 800).
Ciò ricordato, va evidenziato che il Comune di Longobardi ha
adottato il provvedimento di diniego del permesso di
costruire in sanatoria sull’assunto della mancata
dimostrazione, da parte dei ricorrenti, del diritto di
proprietà di una porzione di fondo sul quale insiste la
res abusiva.
Nondimeno, sulla base di quanto sinora illustrato, deve
ritenersi che la mancata dimostrazione del diritto di
proprietà su tutte le particelle su cui l’opera grava non
rappresenta una valida causa ostativa al rilascio della
sanatoria, atteso che la posizione di responsabili
dell'abuso rivestita dai ricorrenti costituisce, in forza
del chiaro disposto normativo di cui all’art. 36 d.P.R.
06.06.2001, n. 380, titolo ex se necessario e
sufficiente a legittimare la presentazione del richiesto
titolo edilizio in sanatoria.
Il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento
dei provvedimenti impugnati
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 16.06.2015 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Costruzioni senza confini. Illegittimo imporre la
sede in Italia alle Soa. La Corte Ue ha bocciato la
normativa sulle società di attestazione.
È illegittimo dal punto di vista comunitario imporre di
avere la sede legale in Italia per svolgere l'attività di
attestazione delle imprese di costruzione.
È quanto
afferma la Corte di giustizia europea con la
sentenza 16.06.2015 (causa C-593/13) rispetto ad
una vicenda che ha avuto ad oggetto la disciplina italiana
sull'accreditamento delle società organismo di attestazione
(Soa) che svolgono da 15 anni la funzione, pubblica, di
qualificazione delle imprese di costruzioni rilasciando gli
appositi attestati.
Era accaduto che tre società del Gruppo Rina avevano
contestato in Consiglio di stato (e quest'ultimo aveva
rimesso la questione pregiudiziale agli organi comunitari)
la legittimità della normativa italiana in forza della quale
la sede legale di una società organismo di attestazione (Soa)
deve essere ubicata nel territorio italiano.
Il governo italiano aveva invece confermato la legittimità
comunitaria della norma italiana sostenendo che l'attività
svolta dalle Soa, traducendosi in esercizio di un potere
pubblico, doveva ritenersi estranea all'ambito di
applicazione della direttiva e del Trattato.
La Corte di giustizia con la sentenza resa nota ieri, boccia
la normativa italiana partendo dal fatto che i servizi di
attestazione rientrano nell'ambito di applicazione della «direttiva
servizi» e che le Soa sono imprese a scopo di lucro che
esercitano le loro attività in condizioni di concorrenza e
che non dispongono di alcun potere decisionale connesso
all'esercizio di poteri pubblici.
In antitesi con quanto da sempre si afferma nel nostro
ordinamento, la Corte sostiene che le attività di
attestazione delle Soa non configurano una partecipazione
diretta e specifica all'esercizio di poteri pubblici.
Pertanto imporre che la sede legale del prestatore di
servizi sia ubicata nel territorio nazionale limita la
libertà di quest'ultimo e lo obbliga ad avere il suo
stabilimento principale nel territorio nazionale.
In materia di libertà di stabilimento, la direttiva elenca
infatti una serie di requisiti vietati tra cui figurano
quelli riguardanti l'ubicazione della sede legale), i quali
non possono essere giustificati. Infatti, la direttiva non
consente agli Stati membri di giustificare il mantenimento
di tali requisiti nelle loro normative nazionali.
D'altro canto se si ammettesse, dice la Corte, un
comportamento vietato dalla direttiva ciò priverebbe
quest'ultima di ogni effetto utile e pregiudicherebbe, in
definitiva, l'armonizzazione da essa operata
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2015). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Regioni fuori dalle competenze. Accolto dal Cds i
ricorso degli agrotecnici.
Le regioni non possono intervenire in materia di competenze
professionali degli iscritti all'albo.
A stabilirlo, la
sentenza 15.06.2015 n. 2944 del Consiglio di
Stato - Sez. III, che i ricorrenti, agrotecnici e medici
veterinari, definiscono storica perché impone agli organismi
territoriali di non intervenire in materia di competenze
professionali. La vicenda prende origine dall'applicazione
della Misura 114 «Consulenza aziendale» del Psr
2007-2013 in tutte le regioni italiane, e in particolare da
una delibera dell'Emilia Romagna che obbligava i liberi
professionisti che volessero operare nell'ambito della
Consulenza aziendale a dimostrare requisiti ulteriori
all'iscrizione nell'albo professionale (pregressa esperienza
nel settore, aggiornamento specifico,) al pari di qualsiasi
altro soggetto che avesse due anni di esperienza
professionale.
Contro la delibera erano intervenuti i due ordini
professionali facendo ricorso ai giudici amministrativi che
già in primo grado avevano giudicato illegittima la
delibera. A quella decisione aveva fatto ricorso la regione
davanti al consiglio di stato che ha respinto l'appello
specificando che è la stessa istituzione degli albi, e
quindi la relativa iscrizione, a garantire «il grado di
professionalità e di competenza. Tantomeno la regione può,
con proprie valutazioni di merito volte a dequotare i
criteri e le modalità di iscrizione all'albo professionale,
sostituirsi al valore abilitante dell'iscrizione stessa agli
effetti del titolo allo svolgimento delle attività riservate
ai soli soggetti inseriti nell'albo professionale».
Questa sentenza hanno commentato i ricorrenti sarà dunque «utilissima
nell'orientare le regioni nella definizione delle regole
sulla nuova Consulenza aziendale del Psr 2014-2020 ed in
tutti quei contenziosi che vedono le regioni imporre ai
liberi professionisti iscritti negli albi, per svolgere
determinate attività previste negli ordinamenti
professionali, l'illegittimo possesso di ulteriori requisiti»
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: È
principio costantemente ribadito, tanto dalla legislazione
in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e D.M.
23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da ultimo,
D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla giurisprudenza
amministrativa, che gli allevamenti degli animali, qualunque
sia la loro consistenza numerica, sono inclusi tra le
lavorazioni insalubri di prima classe in considerazione dei
cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o solidi che essi
comportano.
Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da
questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo
Consiglio ha di recente stabilito, che, disattendendo la
tesi dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali
–si trattava, nel caso di specie, proprio di stalla
ospitante meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di
catalogazione come industria insalubre solo ove abbia
caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei
capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono
sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di
animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria
insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque
isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”, al
quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che,
nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso,
il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla sua
radice etimologica latina, significasse semplicemente
“attività”, non necessariamente contraddistinta, come invece
vorrebbe l’appellante, da modalità intensive od
organizzative di sfruttamento tali da integrarne il
carattere industriale.
La premessa maggiore dalla quale muovono sia i provvedimenti
comunali che la sentenza del TAR –la qualificazione
dell’attività in parola come industria insalubre di prima
classe– è dunque corretta e, anzi, necessaria alla luce del
dato normativo.
Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
La prima è che il provvedimento comunale nessuna
dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe
l’appellante, delle esalazioni nocive o delle conseguenze
pregiudizievoli per la salute pubblica, posto che la
qualificazione come industria insalubre di prima classe era
in re ipsa, nella stessa attività di allevamento esercitata
dal ricorrente.
La seconda è che nessun affidamento il ricorrente
poteva riporre nell’esercizio di simile industria, così
predefinita dalla legge e per il principio ignorantia legis
non excusat, all’interno di un centro abitato, quale la
frazione di Mergnano San Savino e, comunque e anche se non
in origine o ab immemorabili, è divenuta incontestabilmente
nel tempo.
È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante
giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più
volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco,
titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno
delle industrie insalubri, può esercitarla «in qualsivoglia
tempo e, quindi, anche in epoca successiva all’attivazione
dell’impianto industriale».
E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si accerti che
una stalla sia mancante della concimaia e dell’allaccio con
una fogna pubblica, legittimamente l’amministrazione
comunale ordina l’eliminazione della stalla e lo sgombero
degli animali ivi tenuti.
... per la riforma della sentenza del TAR MARCHE-ANCONA:
SEZIONE I n. 626/2014, resa tra le parti, concernente la
dismissione della stalla per l’allevamento dei bovini –
classificazione di industria insalubre
...
1. L’odierno appellante, A.R., è titolare di una impresa
agricola che esercita l’attività di allevamento di animali,
tra i quali bovini e bufale da latte, oltre all’attività di
coltivazione di cereali, girasoli, foraggi e altri
seminativi, nella frazione di Megnano San Savino del Comune
di Camerino.
2. Egli ha impugnato avanti al TAR Marche, chiedendone,
previa sospensione, l’annullamento, la deliberazione della
Giunta Comunale di Camerino n. 111 del 06.06.2013, avente ad
oggetto “Classificazione industria insalubre ai sensi
dell’art. 216 del T.U.LL.SS. e del D.M. 05/09/1994 – Azienda
Agricola R. Loc. Mergnano San Savino – Stalla per
allevamento bovini”, la quale ha dato atto che:
a) l’attività di stalla esercitata dal ricorrente dovesse
qualificarsi come insalubre di prima classe, ai sensi delle
citate disposizioni;
b) il parere dell’ASUR, favorevole al mantenimento della
stalla ma con talune prescrizioni, non era stato rispettato;
c) era quanto meno dubbia la sussistenza dei requisiti
igienico-sanitari affinché la stalla permanesse, nello stato
in cui si trova, all’interno dell’abitato della località
Mergnano San Savino;
d) il Sindaco, in virtù dell’art. 217 del r.d. 1265/1934,
quale massima autorità responsabile della salvaguardia della
sanità e dell’igiene pubblica locale, avrebbe provveduto ad
emanare gli atti necessari ad eliminare, ove ne ricorressero
i requisiti, la situazione di rischio per l’igiene e per la
salute pubblica.
...
15. L’analisi della sentenza e delle sue presunte lacune,
invece, è contenuta nel secondo motivo di appello (p. 10 e
ss. del ricorso), motivo però, per le ragioni, anche esse in
sintesi esposte, che si diranno, del tutto infondato.
15.1. L’appellante, con tale secondo motivo, sottopone a
serrata critica i diversi –e stringati– passaggi
motivazionali della sentenza, con dovizia di pregevoli
argomentazioni e con corredo di precedenti giurisprudenziali
che, tuttavia, non sembrano al Collegio convincentemente
suffragare il suo assunto.
15.2. Un primo decisivo punto, entrando nel merito delle
censure e nel vivo della materia, è quello inerente alla
classificazione dell’attività, svolta dall’appellante, quale
industria insalubre di prima classe ai sensi dell’art. 216
del r.d. 1265/1934 e del D.M. 05.09.1994, classificazione
che costituisce il presupposto delle due ordinanze sindacali
e dei connessi provvedimenti contestati in primo grado.
15.3. Il sig. R. contesta fermamente tale presupposto che
sarebbe stato, a suo avviso, affermato dal Comune senza una
verifica in concreto della sua attività, in fondo modesta
perché relativa all’allevamento di sedici bovini (pp. 14-15
del ricorso), e delle sue eventuali conseguenze nocive per
la popolazione in termini di vapori, gas o altre esalazioni
insalubri o di scoli, rifiuti solidi o liquidi (pp. 16-17
del ricorso).
16. Ma l’assunto dell’appellante è destituito di fondamento.
16.1. È principio costantemente ribadito, tanto dalla
legislazione in materia (v. D.M. 12.02.1971, voce n. 35, e
D.M. 23.12.1976, voce n. 31, nonché, soprattutto e da
ultimo, D.M. 05.09.1994, lett. C), n. 1) quanto dalla
giurisprudenza amministrativa, che gli allevamenti degli
animali, qualunque sia la loro consistenza numerica, sono
inclusi tra le lavorazioni insalubri di prima classe in
considerazione dei cattivi odori, rumori, rifiuti liquidi o
solidi che essi comportano.
16.2. Inequivocabile è, sul punto, il principio affermato da
questo Consiglio, sez. V, 04.09.2013, n. 4409.
16.3. Ma valga anche al riguardo richiamare quanto questo
Consiglio ha di recente stabilito nella sentenza della
Sezione V, 27.12.2013, n. 6264, che, disattendendo la tesi
dell’appellante secondo cui l’allevamento di animali –si
trattava, nel caso di specie, proprio di stalla ospitante
meno di venti bovini– potrebbe essere oggetto di
catalogazione come industria insalubre solo ove abbia
caratteristiche, appunto, industriali per la quantità dei
capi e per il ciclo produttivo al quale essi sono
sottoposti, ha chiarito che, in generale, l’allevamento di
animali è considerato dal T.U.LL.SS. come industria
insalubre di prima classe e, quindi, deve essere comunque
isolato nelle campagne e tenuto lontano da abitazioni.
16.4. Né deve trarre in inganno l’espressione “industria”,
al quale fa riferimento il T.U.LL.SS., essendo ben noto che,
nel linguaggio legislativo degli anni ’30 del secolo scorso,
il termine “industrie”, in aderenza, del resto, alla
sua radice etimologica latina, significasse semplicemente “attività”,
non necessariamente contraddistinta, come invece vorrebbe
l’appellante (p. 15 del ricorso), da modalità intensive od
organizzative di sfruttamento tali da integrarne il
carattere industriale.
16.5. La premessa maggiore dalla quale muovono sia i
provvedimenti comunali che la sentenza del TAR –la
qualificazione dell’attività in parola come industria
insalubre di prima classe– è dunque corretta e, anzi,
necessaria alla luce del dato normativo.
17. Ne discendono, pertanto, due rilevanti conseguenze.
17.1. La prima è che il provvedimento comunale
nessuna dimostrazione doveva dare, come invece vorrebbe
l’appellante (pp. 16-17 del ricorso), delle esalazioni
nocive o delle conseguenze pregiudizievoli per la salute
pubblica, posto che la qualificazione come industria
insalubre di prima classe era in re ipsa, nella
stessa attività di allevamento esercitata dal ricorrente.
17.2. La seconda è che nessun affidamento il
ricorrente poteva riporre nell’esercizio di simile
industria, così predefinita dalla legge e per il principio
ignorantia legis non excusat, all’interno di un
centro abitato, quale la frazione di Mergnano San Savino e,
comunque e anche se non in origine o ab immemorabili,
è divenuta incontestabilmente nel tempo.
17.3. È anzi fuori discussione, come ha chiarito la costante
giurisprudenza di questo Consiglio, che ai sensi del più
volte richiamato art. 216 del r.d. 1265/1934 il sindaco,
titolare di una ampia potestà sulla tollerabilità o meno
delle industrie insalubri, può esercitarla «in
qualsivoglia tempo e, quindi, anche in epoca successiva
all’attivazione dell’impianto industriale» (Cons. St.,
sez. V, 15.02.2001, n. 766).
17.4. E così, si è anche chiarito, nel caso in cui si
accerti che una stalla sia mancante della concimaia e
dell’allaccio con una fogna pubblica, legittimamente
l’amministrazione comunale ordina l’eliminazione della
stalla e lo sgombero degli animali ivi tenuti (Cons. Giust.
Amm. Sic., 05.12.1984, n. 170)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.06.2015 n. 2900 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denuncia di inizio attività non è un
provvedimento amministrativo tacito, bensì un atto privato
dell'avvio di un'attività che trova la sua legittimità
direttamente nella legge.
Dunque, non è corretto affermare che, decorsi trenta giorni
dalla segnalazione certificata di inizio attività, si sia
formato un provvedimento tacito di assenso all’attività
edilizia programmata.
Piuttosto, presentata la segnalazione certificata di inizio
attività, l’amministrazione ha trenta giorni di tempo per
intervenire al fine di inibire l’intervento edilizio per il
quale manchi una delle condizioni previste dalla legge.
Il termine in questione deve ritenersi riferito all’adozione
del provvedimento inibitorio, e non alla sua notificazione.
7. - Il motivo, nel suo complesso, è infondato.
7.1. - Innanzitutto, va ricordato che la denuncia di inizio
attività non è un provvedimento amministrativo tacito, bensì
un atto privato dell'avvio di un'attività che trova la sua
legittimità direttamente nella legge (Cons. Stato, Ad. Plen.,
29.07.2011, n. 15).
Dunque, non è corretto affermare che, decorsi trenta giorni
dalla segnalazione certificata di inizio attività, si sia
formato un provvedimento tacito di assenso all’attività
edilizia programmata.
Piuttosto, presentata la segnalazione certificata di inizio
attività, l’amministrazione ha trenta giorni di tempo per
intervenire al fine di inibire l’intervento edilizio per il
quale manchi una delle condizioni previste dalla legge.
Il termine in questione deve ritenersi riferito all’adozione
del provvedimento inibitorio, e non alla sua notificazione
(TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 04.04.2012, n. 990; TAR
Puglia–Lecce, Sez. I, 15.01.2009, n. 54).
Nel caso di specie, il provvedimento, adottato il
19.03.2015, è tempestivo in considerazione della data di
presentazione della segnalazione certificata di inizio
attività, e cioè il 18.02.2015 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez.
II,
sentenza 11.06.2015 n. 1066 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
piscina non può essere intesa, sotto il profilo urbanistico
ed edilizio, quale pertinenza.
La nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue
proprie, che la differenziano da quella civilistica, di cui
all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere
non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il cd. carico urbanistico,
sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello
principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto
edilizio preesistente determinando un aumento del carico
urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di
costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza
previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c., dal
più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire (TAR Puglia–Bari, Sez. III,
26.01.2012, n. 245, che ha appunto escluso che l'intervento
di realizzazione di una piscina potesse essere coessenziale
ad un bene principale e quindi potesse essere considerata
pertinenza ai fini urbanistici).
In ogni caso, per quanto concerne la realizzazione di una
piscina, è decisiva l'osservazione in forza della quale la
piscina comporta, in ogni caso, una durevole trasformazione
del territorio.
L’intervento edilizio in questione -tenendo peraltro conto
che la piscina oggetto della segnalazione di inizio
attività, pur composta da pennelli prefabbricati, ha la
rilevante dimensione di quasi mq. 150– necessitava, quindi,
del permesso di costruire.
7.2. - L’Accordo sancito in data 16.01.2003 dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano, recepito dalla
Regione Calabria con Deliberazione della Giunta regionale
del 12.12.2007, n. 770, non pone norme urbanistiche ed
edilizie relative all’edificazione delle piscine, bensì
disciplina gli aspetti igienico-sanitari per la costruzione,
la manutenzione e la vigilanza delle piscine ad uso
natatorio.
Tale atto, dunque, non riveste alcun rilievo nel caso in
esame, sicché l’eventuale errore dell’amministrazione
comunale nella catalogazione della piscina progettata dalla
ricorrente in una delle categorie da esso previste appare
privo di rilievo.
7.3. - Correttamente il Comune di Rossano ha ritenuto che
l’intervento edilizio di cui si controverte non potesse
essere realizzato in forza della sola segnalazione
certificata di inizio attività, giacché la realizzanda
piscina non può essere intesa, sotto il profilo urbanistico
ed edilizio, quale pertinenza.
Occorre ricordare, innanzitutto, che la nozione di
pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la
differenziano da quella civilistica, di cui all'art. 817
c.c., dal momento che il manufatto deve essere non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il cd. carico urbanistico,
sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello
principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto
edilizio preesistente determinando un aumento del carico
urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di
costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza
previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c., dal
più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire (TAR Puglia–Bari, Sez. III,
26.01.2012, n. 245, che ha appunto escluso che l'intervento
di realizzazione di una piscina potesse essere coessenziale
ad un bene principale e quindi potesse essere considerata
pertinenza ai fini urbanistici).
In ogni caso, per quanto concerne la realizzazione di una
piscina, è decisiva l'osservazione in forza della quale la
piscina comporta, in ogni caso, una durevole trasformazione
del territorio (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 21.04.2009,
n. 2088; cfr. anche TAR Campana, Sez. VI, 07.01.2014, n. 1).
L’intervento edilizio in questione -tenendo peraltro conto
che la piscina oggetto della segnalazione di inizio
attività, pur composta da pennelli prefabbricati, ha la
rilevante dimensione di quasi mq. 150– necessitava, quindi,
del permesso di costruire (cfr. anche Cass. Pen., sez. III
19.03.2014 n. 19444) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.06.2015 n. 1066 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto alla “sanatoria giurisprudenziale”, si
tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente
utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una
normale via di ordinaria gestione degli interventi sul
territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio
particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente
legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di
quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più
ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga
alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art.
36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito
ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla
tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la
demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è
senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina
urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su
regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile
dissipazione di mezzi e risorse.
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di
negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua
regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento
previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti
realizzati senza previo titolo.
Va a questo
punto considerato quanto alla, evocata
dall’amministrazione, “sanatoria giurisprudenziale”, che si
tratta non di un autonomo istituto giuridico liberamente
utilizzabile dall’amministrazione comunale quasi fosse una
normale via di ordinaria gestione degli interventi sul
territorio (una sorta di pagamento di un onere concessorio
particolarmente rilevante, ma pur comunque ordinariamente
legittimante) ma di un mero effetto eccezionale a fronte di
quello che comunque è e resta un abuso edilizio, per di più
ammesso solo da una parte della giurisprudenza: che deroga
alla tassatività dell’accertamento di conformità dell’art.
36 d.P.R. n. 380 del 2001 e la cui ragione viene di solito
ricercata nell’eccessività, rispetto all’interesse alla
tutela dell’ordine urbanistico sostanziale, dell’imporre la
demolizione (o l’acquisizione gratuita) di un’opera che è
senza titolo ma che è al contempo conforme alla disciplina
urbanistica e dunque avrebbe potuto essere autorizzata su
regolare istanza: la finalità è di evitare un’inutile
dissipazione di mezzi e risorse (tra varie, Cons. Stato, V,
06.07.2012, n. 3961).
L’effetto però non è affatto pacifico, perché rischia di
negare il non casuale rigore dell’art. 36, che –con la sua
regola della doppia conformità urbanistica– è lo strumento
previsto dalla legge per la titolazione postuma di manufatti
realizzati senza previo titolo (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.06.2015 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In
materia urbanistica costituiscono vincoli soggetti a
decadenza solo quelli preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificazione, e che dunque svuotino il
contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio.
Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano
regolatore che destinano un’area a verde pubblico
attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della
proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione
dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che
incidono su una generalità di beni, in funzione della
destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono.
---------------
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto
favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far
coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con
quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali.
Nell’occasione, la richiamata coesistenza è stata ammessa
stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio
del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue
finalità di interesse pubblico.
Ma è altresì evidente che –per le medesime ragioni– la
richiamata compatibilità resti ammessa solo a condizione che
la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in
tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul
soprasuolo, a verde attrezzato.
Si tratta esattamente della situazione che si riscontra nel
caso in esame, in cui la realizzazione delle rampe d’accesso
nel soprasuolo è idonea a sottrarre porzioni apprezzabili di
superficie alla destinazione tipica di Piano (anche in
considerazione dell’estensione non rilevante dell’area).
In siffatte ipotesi, la coesistenza fra il vincolo
conformativo e la realizzazione dei parcheggi interrati può
infatti essere ammessa, ma solo a condizione che la
realizzazione dei secondi non alteri la piena estensione del
primo, neppure in modo parziale e neppure per la
realizzazione degli interventi accessori e strumentali i
quali dovranno in via di principio trovare collocazione
esternamente all’area.
7. Deve essere ora
esaminato il quarto motivo di ricorso con cui si è chiesta
la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i
primi Giudici hanno respinto il motivo di ricorso relativo
all’illegittimità della D.I.A. del 2008 in quanto –inter
alia- ammetteva la realizzazione di una rampa di accesso
all’immobile andando ad incidere su un’area destinata a
verde attrezzato sulla base di un vincolo non decaduto.
7.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
7.1.1. Ora, va premesso che la sentenza in epigrafe è
certamente meritevole di conferma per la parte in cui
afferma che la destinazione a ‘Verde attrezzato’
impressa all’area per cui è causa dalla pertinente
disciplina di piano, atteso il suo carattere conformativo,
non è soggetta a decadenza.
Al riguardo ci si limita a richiamare il consolidato –e qui
condiviso– indirizzo secondo cui in materia urbanistica
costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli
preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificazione,
e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà
incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di
scambio. Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un
piano regolatore che destinano un’area a verde pubblico
attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della
proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione
dell'intero territorio comunale o di parte di esso, che
incidono su una generalità di beni, in funzione della
destinazione dell'intera zona in cui questi ricadono (in tal
senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 06.05.2013, n.
2432; id., IV, 23.04.2013, n. 2254; id., IV, 29.11.2012, n.
6094).
7.1.2. Neppure può essere condivisa la tesi dell’appellante
secondo cui, anche ad ammettere la persistenza del
richiamato vincolo conformativo, sarebbe comunque consentita
la realizzazione, nell’ambito di aree destinate a ‘verde
attrezzato’, di rampe destinate all’accesso a parcheggi
interrati.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha già risolto
favorevolmente la questione relativa alla possibilità di far
coesistere la destinazione a verde pubblico di un’area con
quella di realizzarvi nel sottosuolo parcheggi pertinenziali
(in tal senso, Cons. Stato, VI, 19.10.2006, n. 6256).
Nell’occasione, la richiamata coesistenza è stata ammessa
stante l’evidente inidoneità della destinazione a parcheggio
del sottosuolo a sottrarre l’area sovrastante alle sue
finalità di interesse pubblico.
Ma è altresì evidente che –per le medesime ragioni– la
richiamata compatibilità resti ammessa solo a condizione che
la realizzazione dei parcheggi interrati non sottragga né in
tutto, né in parte aree tipicamente destinate, sul
soprasuolo, a verde attrezzato.
Si tratta esattamente della situazione che si riscontra nel
caso in esame, in cui la realizzazione delle rampe d’accesso
nel soprasuolo è idonea a sottrarre porzioni apprezzabili di
superficie alla destinazione tipica di Piano (anche in
considerazione dell’estensione non rilevante dell’area).
In siffatte ipotesi, la coesistenza fra il vincolo
conformativo e la realizzazione dei parcheggi interrati può
infatti essere ammessa, ma solo a condizione che la
realizzazione dei secondi non alteri la piena estensione del
primo, neppure in modo parziale e neppure per la
realizzazione degli interventi accessori e strumentali i
quali dovranno in via di principio trovare collocazione
esternamente all’area.
Né a conclusioni diverse da quelle appena delineate può
giungersi in relazione al contenuto della delibera
consiliare n. 32 del 2005, pure richiamata dagli appellanti
a sostegno delle proprie tesi.
A tacere d’altro, si osserva che la delibera in questione ha
sancito la richiamata compatibilità/coesistenza (e ha
dettato prescrizioni per la realizzazione delle rampe
d’accesso), ma non sembra aver affermato il principio
secondo cui la superficie destinata alle rampe possa essere
sottratta a quella destinata alla fruizione del verde
pubblico attrezzato
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 05.06.2015 n. 2769 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’argomento introdotto dalla ricorrente nella
memoria conclusiva per cui il regolamento edilizio del 1924
del Comune sarebbe da ritenersi abrogato, ovvero invalido e
non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n.
1150/1942 (che, all’art. 31, limitava la necessità della
licenza edilizia all’attività edificatoria svolta
all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione
previste dai piani), è da ritenersi infondato.
La previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non
impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza.
Si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a
conferma della possibilità, anche prima della l. n.
765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di
regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo
per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei
centri abitati.
Con il presente gravame la ricorrente impugna il
provvedimento indicato in epigrafe, di diniego del rilascio
del permesso di costruire in sanatoria, relativo alla
ristrutturazione e all’ampliamento di una concimaia mediante
innalzamento delle pareti laterali e realizzazione della
copertura.
A fondamento del diniego il Comune di Verona ha opposto,
principalmente, che l’intervento non può essere qualificato
come “manutenzione straordinaria” bensì, deve essere
considerato come “nuova costruzione”, avendo ad
oggetto un manufatto privo di titolo edilizio.
Infatti, sostiene il Comune, l’indicazione di manufatto
esistente nella cartografia EIRA del 1961 non sarebbe
sufficiente a legittimare la costruzione, in quanto, nel
Comune di Verona il nulla osta per la realizzazione di nuove
costruzioni era richiesto già dal Regolamento Edilizio del
02.10.1924; inoltre, il manufatto ricade in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico, con conseguente impossibilità di
sanare nuovi volumi.
A sostegno del gravame la ricorrente ha dedotto che il
manufatto esisteva sin dal 1961 e pertanto, per la sua
realizzazione non era richiesto alcun titolo edilizio;
mentre, il Regolamento Edilizio del Comune di Verona non
poteva essere applicato alla fattispecie, in quanto il
mappale interessato dalla costruzione alla data del
02.10.1924 non faceva parte del Comune di Verona, bensì del
Comune di Avesa, aggregato al Comune di Verona nel 1927.
Quindi, la ricorrente ha dedotto che l’intervento non poteva
essere qualificato come di nuova costruzione bensì di
manutenzione straordinaria di un manufatto preesistente.
Si è costituito il Comune di Verona per resistere al
gravame.
In vista dell’udienza di discussione le parti hanno
depositato memorie conclusive e di replica.
All’udienza del 21.05.2015 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
Il ricorso è infondato.
E’ pacifico che la concimaia in questione sia stata
realizzata nella prima metà degli anni “60, dunque in epoca
anteriore al 1967, al di fuori del centro abitato, sotto il
vigore della legge n. 1150/1942 che, nella sua formulazione
originaria, prescriveva l'obbligo della licenza edilizia
solo nell'ambito dei centri abitati e ove esistesse il piano
regolatore comunale.
Tuttavia, come rilevato dall’amministrazione nella
motivazione del provvedimento impugnato, in quell’epoca era
in vigore il Regolamento Edilizio del Comune di Verona del
1924 che, già da allora, prescriveva la preventiva
autorizzazione del Sindaco per la realizzazione di qualsiasi
opera edilizia nel territorio comunale (e dunque non solo
all’interno del centro abitato).
Risulta poi totalmente irrilevante che il Comune di Avesa
sia stato aggregato al Comune di Verona nel 1927, non
essendo né dedotto né dimostrato che il manufatto sia stato
realizzato tra il 1924 e il 1927.
Infine l’argomento introdotto dalla ricorrente nella memoria
conclusiva per cui il regolamento edilizio del Comune di
Verona sarebbe da ritenersi abrogato, ovvero invalido e non
più applicabile una volta entrata in vigore la L. n.
1150/1942 (che, all’art. 31, limitava la necessità della
licenza edilizia all’attività edificatoria svolta
all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione
previste dai piani), è da ritenersi inammissibile in quanto
non proposto nella forma dei motivi aggiunti di cui all’art.
43 del c.p.a., come eccepito dalla difesa del Comune di
Verona nella memoria di replica.
In ogni caso, tale argomento è infondato.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un
controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente
non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza.
Si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a
conferma della possibilità, anche prima della l. n.
765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di
regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non
solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei
centri abitati (cfr. TAR Veneto, II sez., 30.01.2014 n. 121;
Cons. St. VI, 05.01.2015, n. 13).
E’ pertanto evidente che l’intervento di manutenzione
straordinaria in questione non poteva essere assentito
avendo ad oggetto un manufatto privo di titolo edilizio.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.06.2015 n. 642 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sui
requisiti soggetti dei membri della commissione di gara.
L'art. 84 del d.lgs. 163/2006, laddove
ha previsto che i commissari siano selezionati tra gli
esperti "nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto
del contratto", deve essere inteso nel senso che è “la
commissione nel suo complesso a dover garantire il possesso
delle conoscenze tecniche globalmente occorrenti nella
singola fattispecie”.
Correlativamente, è stato reputato che la costituzione di
una commissione di cinque membri a presenza maggioritaria di
tecnici esperti sia invece coerente con le regole di
carattere generale in tema di commissioni giudicatrici di
procedure concorsuali che sono state messe a fuoco dalla
giurisprudenza a salvaguardia delle superiori esigenze di
buon andamento, imparzialità e trasparenza.
E si è pertanto respinta la tesi secondo cui, anche in caso
di maggioranza della commissione pacificamente composta da
tecnici, vi sarebbe illegittimità della costituzione per il
mero fatto il relativo collegio non è composto in via
"esclusiva" da esperti "nello specifico settore cui si
riferisce l’oggetto del contratto”, sul presupposto che così
andrebbe interpretato l’art. 84 del Codice dei contratti
pubblici: una interpretazione tanto radicale del precetto
non risponde, peraltro, all’elaborazione giurisprudenziale
cui la norma si riallaccia né al più ampio principio di cui
la stessa è espressione, che portano a ritenere
indispensabile, sì, ma di regola anche sufficiente, che i
tecnici dello specifico settore rappresentino la maggioranza
(e non addirittura la totalità) dei componenti della
commissione.
Superate le eccezioni di carattere preliminare, si può
entrare nel merito del ricorso, partendo dai motivi di
impugnazione concernenti la composizione della commissione
giudicatrice in quanto articolati in via principale dalla
ricorrente.
Sul punto la P.C. spa ha formulato le seguenti doglianze:
violazione dell’art. 84 comma 2 del d.lgs. n. 163 del 2006
per non essere stata la commissione composta da “esperti
nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto
dell’appalto”; violazione dell’art. 84, comma 8, del
d.lgs. n. 163 del 2006 per essere stati nominati quali
commissari (fatta eccezione per il Presidente) soggetti
diversi dai funzionari della stazione appaltante, senza
previo accertamento della carenza in organico presso la
stessa di adeguate professionalità in grado di espletare
l’incarico, così da evitare il ricorso ad esperti esterni;
violazione dell’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006
(i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto
o svolgere alcuna funzione o incarico relativamente al
contratto del cui affidamento si tratta) per essere stato
nominato tra i commissari l’Ing. L.Dell’A., funzionario
tecnico del Provveditorato Interregionale alle OO.PP. per la
Puglia e Basilicata, ente quest’ultimo che ha provveduto, in
relazione all’opera per cui è causa, alla verifica della
progettazione definitiva ed esecutiva, emettendo il Rapporto
di Verifica Finale n. 1 del 06.05.2014.
Tutte le censure appena esposte ad avviso del collegio vanno
disattese.
Invero, quanto all’ultimo aspetto evidenziato, l’Autorità
Portuale di Taranto costituendosi in giudizio ha dimostrato
(mediante produzione in giudizio del Rapporto di Verifica
citato) che l’Ing. Dell’A., benché Funzionario Tecnico del
provveditorato, non si è occupato della verifica della
progettazione definitiva ed esecutiva dell’opera per cui è
causa, essendo del tutto estraneo al gruppo di verifica
(c.d. “Unità di Verifica Progetti”, costituita dagli
Ing. N., M. e R.) che ha compiuto tale attività redigendo il
conseguente Rapporto di Verifica, sicché nessuna
incompatibilità ex art. 84, comma 4, del d.lgs. 163 del 2006
può ritenersi sussistente nel caso in esame.
Quanto, invece, alla nomina nell’ambito della commissione
giudicatrice di soggetti esterni all’Autorità Portuale,
l’infondatezza della censura trova conferma nell’art. 120,
comma 4, del DPR 207 del 2010 che riconosce la generale
possibilità di scegliere commissari esterni alla stazione
appaltante nel caso di lavori di importo superiore a 25
milioni di euro nei quali le componenti architettonica e/o
strutturale e/o impiantistica siano non usuali e di
particolare rilevanza, ipotesi configurabile nel caso in
esame, come correttamente evidenziato nell’atto di nomina
della commissione di cui si discute.
Quanto, infine, alle contestazioni inerenti la scelta dei
commissari e più specificamente alle loro qualifiche e
conoscenze, la ricorrente ha nell’atto introduttivo
formulato doglianze puntuali in relazione alla Dott.ssa B.A.
e all’Arch. M.R.A., mettendo in discussione le loro
competenze.
In particolare la Piacentini Costruzioni spa ha sostenuto
che la dott.ssa A. non sarebbe munita della necessaria
professionalità in quanto laureata in giurisprudenza e priva
di conoscenze ed esperienze tecniche in ordine al settore
oggetto dell’appalto; la Dott.ssa An., invece, benché
architetto, ad avviso della ricorrente non potrebbe
qualificarsi come esperto ai fini della valutazione delle
offerte della procedura per cui è causa, in quanto reca nel
proprio curriculum incarichi pregressi estranei alle
specifiche tecniche ingegneristiche rilevanti nell’appalto
in esame.
Tale censura non può, tuttavia, essere condivisa alla luce
dei consolidati e condivisibili principi affermati dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di
composizione delle commissioni giudicatrici: l'art. 84 del
d.lgs. 163/2006, laddove ha previsto che i commissari siano
selezionati tra gli esperti "nello specifico settore cui
si riferisce l'oggetto del contratto", deve essere
inteso nel senso che è “la commissione nel suo complesso
a dover garantire il possesso delle conoscenze tecniche
globalmente occorrenti nella singola fattispecie”
(C.d.S., sentenza sez. V del 28.05.2012, n. 3124; sentenza
sez. V del 16.01.2015, n. 92; sentenza sez. VI, del
10.06.2013, n. 3203). “I casi noti in cui questo
Consiglio ha riscontrato la presenza del vizio che viene qui
dedotto erano caratterizzati dalla prevalenza, nelle singole
commissioni, di elementi sprovvisti di competenze tecniche
specifiche (C.d.S., sentenza sez. VI, 25.07.1994, n. 1261),
ad esempio per il fatto che quattro componenti del collegio
su cinque erano privi di diploma di laurea (C.d.S., sentenza
sez. V, 17.03.2009, n. 6297), oppure in quanto il personale
amministrativo predominava su quello tecnico (C.d.S.,
sentenza sez. V, n. 5100 del 2008), o comunque quest’ultimo
costituiva una netta minoranza (C.d.S., sentenza sez. V,
09.06.2003, n. 3242)” (Consiglio di Stato, sentenza n.
1824 del 09.04.2015).
Correlativamente, è stato reputato che la costituzione di
una commissione di cinque membri a presenza maggioritaria di
tecnici esperti sia invece coerente con le regole di
carattere generale in tema di commissioni giudicatrici di
procedure concorsuali che sono state messe a fuoco dalla
giurisprudenza a salvaguardia delle superiori esigenze di
buon andamento, imparzialità e trasparenza (C.d.S., sentenza
sez. V, 26.04.2005, n. 1902).
E si è pertanto respinta la tesi secondo cui, anche in caso
di maggioranza della commissione pacificamente composta da
tecnici, vi sarebbe illegittimità della costituzione per il
mero fatto il relativo collegio non è composto in via "esclusiva"
da esperti "nello specifico settore cui si riferisce
l’oggetto del contratto”, sul presupposto che così
andrebbe interpretato l’art. 84 del Codice dei contratti
pubblici: una interpretazione tanto radicale del precetto
non risponde, peraltro, all’elaborazione giurisprudenziale
cui la norma si riallaccia né al più ampio principio di cui
la stessa è espressione, che portano a ritenere
indispensabile, sì, ma di regola anche sufficiente, che i
tecnici dello specifico settore rappresentino la maggioranza
(e non addirittura la totalità) dei componenti della
commissione (C.d.S., Sez. V, 20.12.2011, n. 6701).
Nel caso in esame, quindi, essendo pacifico che dei cinque
componenti la commissione giudicatrice quattro erano tecnici
(un architetto e tre ingegneri) e uno solo (la Dott.ssa A.)
risultava laureato in giurisprudenza deve ritenersi che i
principi suesposti concernenti la legittima composizione del
collegio siano stati rispettati.
Peraltro, la Dott.ssa A., benché membro "non tecnico"
in quanto, appunto, dotato di laurea in giurisprudenza,
risulta attualmente “dirigente della Divisione n. 5
presso il Ministero delle Infrastrutture, con l’incarico di
coordinamento dell’assetto del territorio. Programmi e
progetti europei di sviluppo spaziale ed urbano” e reca
tra le esperienze maturate in passato quella di redazione di
“convenzioni PON”, “gestione di programmi di
iniziativa territoriale, transnazionale, trasfrontaliera,
interregionale”, “redazione di un programma innovativo
porti e stazioni”, sicché non se ne può certamente
affermare la totale estraneità rispetto alle competenze
necessarie ai fini della procedura per cui è causa,
implicando la stessa, in primo luogo, l’utilizzazione di
cognizioni giuridiche ai fini del corretto svolgimento delle
operazioni valutative e, in secondo luogo aspetti di
carattere gestionale ed organizzativo (si pensi
all’organizzazione del cantiere, voce che costituisce
oggetto di specifica valutazione nell’ipotesi in
discussione) nel cui ambito la Dott.ssa A. ha sicuramente
potuto offrire un utile apporto, a maggior ragione tenuto
conto del fatto che il lavoro oggetto dell’appalto rientra
proprio tra le azioni PON “Reti e mobilità 2007/2013”
ed è stato finanziato anche da fondi europei, con
conseguente necessità da parte dei commissari di conoscere i
profili e le normative connesse a tali gare.
Quanto, invece, alla Dott.ssa An., innanzitutto non se ne
può affermare il profilo “non tecnico” essendo la
stessa laureata in architettura; né si può ritenere, come
sostiene invece la ricorrente, che tale commissario non sia
“esperto” nel settore oggetto della gara d’appalto
per il fatto che tra le esperienze dallo stesso maturate non
rientrerebbero mansioni specificamente attinenti alle
tecniche ingegneristiche coinvolte nell’appalto per cui è
causa.
Invero, dal curriculum della professionista in esame
emerge che la Dott.ssa An., laureata in architettura, si è
specializzata dopo la laurea in “progettazione
architettonica assistita dal computer” e in
“architettura antisismica e protezione civile” e reca tra le
proprie attività di ricerca quella dello studio dei “siti
archeologici ed infrastrutture”; inoltre ha curato il
coordinamento delle monografie riguardanti proprio i “quaderni
del PON Reti e mobilità 2007/2013”, nel cui ambito si
colloca l’iniziativa oggetto dell’appalto.
Essa si è altresì occupata, presso il Ministero dei
Trasporti, di progettazione preliminare, direzione lavori,
collaudo ed ha svolto mansioni di responsabile del
procedimento e membro di altre commissioni, sicché non
sussistono dubbi in ordine al fatto che la stessa possa
ritenersi dotata delle competenze necessarie per valutare le
offerte per cui è causa.
Né possono condividersi le argomentazioni di parte
ricorrente secondo cui la necessità di particolare
conoscenze in capo ai commissari deriverebbe nel caso in
esame dalla complessità dell’appalto, atteso che pur
riguardando la gara in esame un intervento di sicura
complessità (interventi di dragaggio di sedimenti in area
Molo Polisettoriale per la realizzazione di un primo lotto
della cassa di colmata funzionale all’ampliamento del V
sporgente del Porto di Taranto), va tuttavia evidenziato che
alle società concorrenti non è stato chiesto di effettuare
l’intera progettazione dell’opera ma solo di determinare, in
relazione al progetto definitivo dettagliato già posto a
base di gara, “le modalità tecnico realizzative del
tratto a mare della struttura di confinamento della cassa di
colmata” e “gli interventi migliorativi volti a
limitare i lavori necessari al completamento della cassa di
colmata ai fini del suo utilizzo finali”, aspetti sui
quali una commissione formata prevalentemente da ingegneri e
da un architetto è sicuramente in grado di esprimere il
proprio giudizio in modo adeguato e corretto.
Pertanto, ad avviso del collegio, la censura di illegittima
composizione della commissione per mancato inserimento nella
stessa di esperti "nello specifico settore cui si
riferisce l'oggetto del contratto" deve essere
disattesa, tenuto conto della prevalenza nel collegio di
ingegneri (tre su cinque), del fatto che dei due componenti
contestati dalla ricorrente solo uno (la Dott.ssa A.) gode
di una laurea “non tecnica” (in giurisprudenza)
mentre l’altra (la Dott.ssa An.) è, invece, un architetto e,
in ogni caso, delle considerazioni suesposte circa la
capacità tecnica e la competenza giuridico-amministrativa in
tema di gare anche di questi ultimi due commissari, i cui
profili hanno quindi sicuramente completato il patrimonio di
cognizioni della commissione nel suo insieme, rendendola
pienamente idonea alla complessa attività valutativa da
compiere (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 1854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi
in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che
oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una
urbanizzazione non prevista o diversa da quella
programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una
lottizzazione abusiva materiale quando vengano
realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche
per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa
invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando,
pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento
e della vendita in lotti di un'area, quando essi per
dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino
la loro destinazione a scopo edificatorio”.
6. Ciò premesso, è anzitutto infondato il primo motivo di
ricorso, che nega in radice l’esistenza della contestata
lottizzazione, nella forma definita di lottizzazione “cartolare”
(ricorso, p. 12 § 3 c).
In proposito, è sufficiente osservare che in generale la
lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui
venga posta in essere “qualsiasi attività che
oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una
urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una
lottizzazione abusiva materiale quando vengano
realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche
per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa
invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando,
pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento
e della vendita in lotti di un'area, quando essi per
dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino
la loro destinazione a scopo edificatorio” (per tutto
ciò, molto puntualmente, la recente C.d.S. sez. IV
19.06.2014 n.3115)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In termini generali, il mero fatto che un abuso
perduri da lungo tempo non priva, di per sé,
l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo.
11. Infondato è
ancora il quinto motivo, fondato sulla presunta tolleranza
dell’abuso da parte del Comune. In termini generali,
infatti, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo
non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di
intervenire per sanzionarlo: così per tutte, da ultimo,
C.d.S. sez. V 07.08.2014 n. 4213.
E’ poi appena il caso di ricordare che la sentenza di questo
TAR sez. I 28.04.2014 n. 448, citata a proprio favore dal
ricorrente (memoria 18.04.2015 p. 4 rigo dodicesimo), appare
in realtà non esattamente pertinente, poiché decide un caso
in cui non era accertata l’esistenza stessa dell’abuso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Niente albo? Niente parcella. Iscrizione necessaria per la
redazione di un parere. Cassazione: l'avvocato sia abilitato al patrocinio presso le
magistrature superiori.
Redigere un parere circa l'opportunità di promuovere un
giudizio d'impugnazione prevede che per la remunerazione di
tale attività è necessaria, in ogni caso, l'iscrizione
nell'apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio
presso le magistrature superiori.
Ad affermarlo sono stati i giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza 03.06.2015 n. 11446.
I giudici di piazza Cavour, hanno altresì osservato che in
caso di mancata iscrizione si avrà nullità assoluta del
rapporto tra professionista e cliente, pertanto l'avvocato
non sarà legittimato a richiedere l'azione per il pagamento
della retribuzione.
Già la stessa Cassazione in tema di
onorari di avvocato e procuratore, ha avuto modo di
precisare che la redazione di un parere scritto
sull'opportunità di promuovere il giudizio di impugnazione
deve essere ricompresa nella «voce» di studio della
controversia e consultazioni con il cliente e non può
pertanto essere liquidata separatamente quale prestazione
stragiudiziale (si veda: Cass. 17/05/1991, n. 5579).
Pertanto, per la remunerazione dell'attività di «redazione
del parere preventivo», oggetto del caso in esame, nel segno
del 1° comma dell'art. 2231 c.c. nulla potrà competere
all'avvocato (si veda: Cass. 12/10/2007, n. 21495, secondo
cui l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale
di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto
nell'apposito albo previsto dalla legge, dà luogo, ai sensi
degli articoli 1418 e 2231 c.c., a nullità assoluta del
rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto
di qualsiasi effetto; pertanto, il professionista non
iscritto in detti albi non ha alcuna azione per il pagamento
della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di
arricchimento senza causa).
Il caso sul quale gli Ermellini
sono stati chiamati ad esprimersi vedeva un avvocato citare
in giudizio il suo cliente per aver ricevuto il mandato di
redigere ricorso al Consiglio di stato, e al contempo di
predisporre un «parere preventivo diretto ad illustrare i
margini di successo del proponendo appello».
L'avvocato, sebbene non fosse abilitato al patrocinio presso
le magistrature superiori, garantiva comunque la difesa al
suo assistito chiarendo di essere in contatto con diversi
studi legali specializzati nel settore, che avrebbero potuto
sottoscrivere l'atto da lui predisposto
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015). |
ENTI
LOCALI:
Bar, licenza sospesa per schiamazzi.
Il bar della movida chiude una settimana perché gli
schiamazzi non fanno dormire i residenti. Licenza sospesa
nella località di vacanze al di là delle responsabilità del
gestore: la folla in strada crea pericoli all'ordine
pubblico e alla circolazione stradale. Con la recidiva lo
stop è di dieci giorni.
È legittima la sospensione della licenza decisa dalla
questura in base all'art. 100 del Tulps: l'assembramento di
giovani in strada crea pericoli all'ordine pubblico e alla
circolazione dei veicoli. E ciò al di là della
responsabilità del gestore. Se il problema non si risolve il
secondo stop all'esercizio pubblico è più lungo: dieci
giorni invece che una settimana.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.06.2015 n. 843, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Toscana.
Tempi duri per il locale finito sotto la lente della
questura. Decine di giovani fra le undici e l'una del
mattino prendono d'assolto il bar, troppo piccolo per
contenerli tutti: i giovani sciamano in strada fra grida e
sghignazzi, per la gioia dei condomini circostanti.
Ecco allora che scatta lo stop della questura con la
sospensione della licenza di somministrare alimenti e
bevande a carico del bar: il provvedimento risulta motivato
in modo adeguato dal momento che i giovani, stazionando in
strada, complicano anche il passaggio di eventuali
ambulanze, oltre a rallentare il traffico dei veicoli
normali, creando «disagio e pericolo».
Nessun dubbio: la questura ha il potere di chiudere il bar
quando si configurano rischi «concreti e attuali» per
la collettività. Al titolare non resta che pagare le spese
di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nulla osta paesaggistici, diniego motivato senza strafare.
Il diniego di nulla osta paesaggistico può ritenersi
sufficientemente motivato laddove siano indicate le ragioni
assunte a fondamento della valutazione di compatibilità
dell'intervento edilizio con le esigenze di tutela
paesistica poste a base del relativo vincolo.
Lo hanno
ribadito i giudici della I Sez. del TAR Toscana, con la
sentenza 21.05.2015 n. 815.
I giudici
amministrativi toscani hanno evidenziato che si dovrà,
pertanto, considerare soddisfacente anche una motivazione
scarna e sintetica da parte dell'Amministrazione, purché
idonea a rivelare gli estremi logici della ritenuta
incompatibilità.
In questi casi la Soprintendenza sarà chiamata a manifestare
semplicemente la piana applicazione del disposto di cui
all'art. 146, comma 8, dlgs n. 42/2004, in forza del quale
il Soprintendente rende il proprio parere «limitatamente
alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento
nel suo complesso e alla conformità dello stesso alle
disposizioni contenute nel piano paesaggistico [ ]».
Per
regola generale, non è poi ravvisabile a carico
dell'amministrazione alcun obbligo di indicare, in una
logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni
tese a rendere l'intervento compatibile con la bellezza
d'insieme tutelata, la cui protezione risponde ad un
fondamentale interesse pubblico normalmente prevalente su
quello privato, anche per la rilevanza costituzionale che il
primo presenta.
I giudici fiorentini hanno poi evidenziato come le scelte
effettuate dall'amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscano apprezzamenti di merito
tendenzialmente sottratti al sindacato di legittimità, salvo
che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi
illogicità.
Evidenziando che esse non richiedono una
motivazione puntuale e mirata, essendo sufficiente
l'indicazione dei profili generali e dei criteri di fondo
che sorreggono le determinazioni assunte, salvo che queste
incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo le
legittime aspettative di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifica considerazione, e che
tradizionalmente vengono fatte dipendere dal superamento
degli standard minimi di cui al dm 02.04.1968, ovvero dalla
lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante
da convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato
intercorsi con il Comune, dall'esistenza di giudicati di
annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto
su una domanda di concessione, dalla modificazione in zona
agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015). |
APPALTI: Il prezzo è parte dell'offerta. È una scelta insindacabile
dell'impresa concorrente. APPALTI/ Sentenza del Tar Abruzzo sulle gare decise in base
al costo più basso.
In caso di appalto da aggiudicarsi con il criterio del
prezzo più basso determinato mediante offerta a prezzi
unitari, questi ultimi sono frutto di scelte insindacabili
delle imprese concorrenti, fissi e immutabili, e pertanto
l'indicazione dei prezzi unitari costituisce un elemento
essenziale dell'offerta.
Lo hanno sottolineato i giudici della I Sez. del
TAR Abruzzo-L'Aquila, con la
sentenza 21.05.2015 n. 413.
I giudici amministrativi de L'Aquila hanno altresì ribadito,
in ossequio anche a un consolidato orientamento che nel caso
di appalto «a corpo», nel quale il corrispettivo è
determinato in una somma fissa e invariabile, ciò che
costituisce elemento fondamentale dell'offerta economica è
solo il prezzo finale offerto, mentre il richiamo ai prezzi
unitari e ai calcoli contenuti nel computo metrico
estimativo ha valore di semplice traccia indicativa delle
modalità di formazione del prezzo globale, che è destinata a
restare fuori dal contenuto essenziale dell'offerta e quindi
del contratto che si andrà a stipulare, e ciò trova conferma
nell'art. 53, comma 4, del dlgs 163/2006, il quale prevede
che: «per le prestazioni a corpo il prezzo convenuto non può
essere modificato sulla base della verifica della quantità o
della qualità della prestazione».
Circa, poi, il vantaggio competitivo che sarebbe attribuito
all'impresa alla quale sia consentito l'utilizzo di
prezziari non più in vigore, i giudici hanno osservato come
l'indicazione di prezzi diversi rispetto a quelli contenuti
nel prezziario ufficiale rappresenti l'effetto naturale
dell'offerta al ribasso, il quale, applicato alle singole
voci del prezziario, determina il ribasso sull'importo
complessivo base di gara e, pertanto, «l'eventuale
indicazione di prezzi diversi, difformi dal prezziario
regionale (che ha funzione di garanzia della congruità dei
prezzi posti a base di gara e adeguato supporto per le
eventuali valutazioni di anomalia) connota solo una
fattispecie di sospetta anomalia il cui effetto non è già
(né può essere) l'automatica esclusione, bensì l'attivazione
eventuale del procedimento di verifica in contraddittorio»
(Tar L'Aquila, sentenza 02.11.2011, n. 508)
(articolo ItaliaOggi Sette del 15.06.2015). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
La spending non impone di rinegoziare i
contratti.
La spending review non legittima l'ente a rinegoziare i
vecchi contratti senza gara. L'obbligo di bandire una gara
rispettando i principi europei della libera concorrenza
prevale anche sulla prospettiva di risparmi di spesa e
benefici organizzativi per l'amministrazione
Non c'è spending review che tenga. L'amministrazione non può
continuare ad assicurarsi il servizio in appalto
rinegoziando i vecchi contratti senza gara, anche di fronte
alla prospettiva di risparmi di spesa e benefici
organizzativi interni: bisogna sempre rispettare i principi
europei della concorrenza, garantendo un libero confronto
fra le imprese nell'accesso alla procedure pubbliche.
No all'affidamento diretto e perfino alla procedura
negoziata con bando: serve la gara con i criteri
dell'offerta economicamente più vantaggiosa. La stazione
appaltante non risulta giustificata dalla necessità di dover
provvedere in attesa che sia indetta una gara europea.
È quanto emerge dalla
sentenza 21.05.2015 n. 398, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Abruzzo-L'Aquila.
Differimento illegittimo.
Due Asl si fondono e la nuova azienda sanitaria locale deve
risolvere il problema della fornitura di sistemi
diagnostici: decide per la via più breve dell'affidamento
diretto, motivando la scelta con la necessità di verificare
il fabbisogno del territorio e dare poi il via alla gara,
garantendo nel frattempo i servizi di assistenza
indispensabili.
Si tratterebbe dunque di differimenti solo «tecnici»
dei contratti ereditati dalle Asl sciolte e per fare il
punto della situazione e bandire «procedure competitive
economicamente vantaggiose per l'azienda e per la
collettività». E ciò per «omogeneizzare i prodotti,
allineare i prezzi e aggiornare i macchinari», come
emerge dalla delibera.
La procedura intrapresa, tuttavia, viola norme nazionali ed
europee: trova ingresso il ricorso del concorrente. Già la
proroga e il rinnovo senza gara sono contrarie ai principi
di trasparenza e imparzialità dell'amministrazione. Ma in
questo caso l'Asl dà vita di fatto a un nuovo contratto
unico che scaturisce dalla proroga dei vecchi rapporti in
essere.
Non serve giustificarsi con la spending review
laddove l'affidamento diretto consentirebbe con vantaggi
definiti «di importanza cruciale e irrinunciabile».
Mai le esigenze di contenimento della spesa pubblica,
concludono i giudici, possono consentire la distorsione
delle regole della libera concorrenza
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso –relativamente allo scrutinio di legittimità
della delibera oggetto di impugnativa- si manifesta fondato.
E’ noto che il rinnovo dei contratti pubblici ex art. 6,
comma 2, ultimo periodo della legge 24.12.1993 determinò una
situazione di contrasto con l’ordinamento comunitario,
atteso che tale norma, ammettendo il rinnovo tacito dei
contratti per la fornitura di beni e servizi della pubblica
amministrazione delle pubbliche amministrazioni, determinò
l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del
nostro Paese, recata dal parere motivato della Commissione
europea n. 2003 del 16.12.2003, chiusasi a seguito
dell’abrogazione della norma in parola ad opera dell’art. 23
della legge 18.04.2005.
Più di recente una norma non dissimile (art. 1 d.l. 95/2012,
come modificato in sede di conversione dalla legge n.
135/2012) , consentendo la proroga dei rapporti di fornitura
mediante il raddoppio delle quantità ovvero degli importi
massimi complessivi delle convenzioni Consip in corso, è
stata direttamente disapplicata dai giudici amministrativi
perché in frontale violazione del diritto comunitario (cfr.
questo Tar, 05.06.2014 n. 515, Consiglio di Stato, sez. III,
30.01.2014, nn. 1486 e 1793, 515, TAR Sardegna, sez. I ,
08.05.2013, n. 361).
Tornando al disposto dell’art. 23 della legge 18.04.2005,
ogni deroga al divieto ivi introdotto di prorogare i
contratti aveva una portata meramente transitoria,
trattandosi di proroga per periodi max semestrali, riferita
ai soli residui –ed ormai da tempo esauriti- contratti che
sarebbero scaduti entro sei mesi dalla sua entrata in vigore
(novembre 2005, per l’appunto). In questo senso, neanche la
lettura della norma offerta dalla ricorrente appare
convincente, laddove –senza considerare il contesto
transitorio sopra evidenziato- si sarebbe quantomeno “tollerato”,
nella vicenda in esame, un intervento prorogatorio dell’ASL
basato su tale disposizione, purché non superiore a sei
mesi.
Piuttosto, il rinnovo a regime del
contratto (e non solo quindi la mera proroga) risulta
introdotto con l’art. 57, comma 2, lett. b, del d.leg.vo
163/2006, come interpretato dalla giurisprudenza in
conformità al disposto dell’art. 31, comma 1, n. 4, lett.
b), della direttiva 18/2004, così consentendosi per
l’appunto il rinnovo espresso, a condizione però che detta
possibilità sia prevista ab origine negli atti di
gara da cui è scaturito il contratto scaduto od in scadenza
e l’importo totale previsto per la prosecuzione del rapporto
sia indicato nella lex specialis, fatta salva
adeguata motivazione sul punto, ma sempre che tale
possibilità sia esercitata entro tre anni dalla stipula del
contratto iniziale. |
EDILIZIA
PRIVATA: Ristrutturazione
con modifica dei prospetti e necessità di permesso di
costruire.
Anche le recenti modifiche introdotte,
non hanno prodotto novità per quanto riguarda quelle opere
edilizie che comportino modifica dei prospetti. Il concetto
di prospetto, infatti, non va confuso con quello di sagoma.
Per sagoma deve intendersi la conformazione planovolumetrica
della costruzione ed il suo perimetro, considerato in senso
verticale ed orizzontale, così che solo le aperture che non
prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione
stessa di sagoma. La modifica di prospetti attiene alla
facciata dell'edificio, per cui non va confusa e compresa
nel concetto di sagoma, che indica la forma della
costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che
assume l'edificio.
I prospetti, in altri termini, costituiscono un quid pluris
rispetto alla sagoma, attenendo all'aspetto esterno, e
quindi al profilo estetico-architettonico dell'edificio. La
chiusura di preesistenti finestre e la loro apertura in
altre parti, l'apertura di balconi in luogo di finestre,
così come l'allargamento del portone di ingresso, essendo
relativi al prospetto, non afferiscono al concetto di
sagoma.
Pertanto un intervento di ristrutturazione edilizia, che ha
visto una parziale demolizione e successiva ricostruzione
del manufatto, mantenendo le medesime dimensioni di quello
preesistente (e quindi la sua sagoma), ma comportando lo
spostamento di una finestra dal lato est -dove veniva
chiusa- al lato nord -dove veniva aperta- (e quindi modifica
dei prospetti) necessitava di permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera c), d.P.R.
06.06.2001, n. 380.
3. Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d)
(modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002), com'è noto,
definisce ristrutturazione edilizia gli interventi rivolti a
trasformare i manufatti attraverso un insieme sistematico di
opere che possono condurre ad un organismo in tutto o in
parte diverso dal precedente.
Tali interventi possono comportare il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio e
la eliminazione, la modifica, l'inserimento di nuovi
elementi o impianti (cfr. questa sez. 3, n. 834 del
04.12.2008 dep. il 13.01.2009).
Orbene, va evidenziato che opere come quelle di cui
all'odierno decidere non hanno visto modificato il loro
regime autorizzatorio in virtù dei recenti e plurimi
interventi normativi che pure hanno interessato negli ultimi
mesi la disciplina urbanistica.
Va ricordato, infatti, che dal 21.08.2013 è in vigore la
legge 09.08.2013, n. 98 di conversione del decreto "del
fare" (D.L. 21.06.2013, n. 69), che ha introdotto in
materia numerose novità, quali: 1) l'eliminazione del
vincolo della sagoma come prescrizione necessaria ai fini
dell'inquadramento degli interventi di demolizione e
ricostruzione nella categoria edilizia della
ristrutturazione edilizia; 2) la previsione nell'ambito
della categoria della ristrutturazione edilizia anche degli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti,
purché si possa accertarne la preesistente consistenza; 3)
fatti salvi alcuni casi, l'estensione della SCIA agli
interventi di ristrutturazione edilizia nonché delle cd. "varianti
minori" ai permessi di costruire in caso di modifica
della sagoma.
La nuova definizione di ristrutturazione edilizia
semplifica, dunque, le procedure di rilascio del titolo
abilitativo edilizio, poiché consente di effettuare i lavori
con la segnalazione certificata inizio attività anche nei
casi in cui la ristrutturazione edilizia comporti la
modifica la sagoma dell'edificio preesistente, purché
l'intervento non sia sottoposto a vincolo dei beni culturali
e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42, e successive modificazioni.
Negli interventi di ristrutturazione edilizia, dunque, il
legislatore pone particolare attenzione sulla consistenza
volumetrica o alla superficie dell'edificio demolito e
consente invece la sua ricostruzione con sagoma diversa
dalla precedente. La modifica di quest'ultima, in altri
termini, con la sola eccezione degli immobili sottoposti a
vincolo dei beni culturali e del paesaggio, non assume più
rilevanza ai fini della individuazione del permesso di
costruire come titolo abilitativo necessario per
l'intervento di ristrutturazione edilizia.
E' poi intervenuto il decreto-legge n. 133 del 12.09.2014
(il cosiddetto "sblocca Italia") convertito con la
legge 11.11.2014, n. 164, recante "Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività' produttive", che ha previsto,
tra l'altro, che tra gli interventi di manutenzione
straordinaria, vengono ora ricompresi anche quelli volti al
frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico purché non sia modificata la volumetria
complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria
destinazione d'uso.
4. Tuttavia, come si diceva, anche le modifiche introdotte,
non hanno prodotto novità per quanto riguarda quelle opere
edilizie che, come nel caso che ci occupa, comportino
modifica dei prospetti.
Il concetto di prospetto, infatti, non va confuso con quello
di sagoma. Questa Corte di legittimità ha in più occasioni
sottolineato come per sagoma debba intendersi la
conformazione planivolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro, considerato in senso verticale ed orizzontale,
così che solo le aperture che non prevedano superfici
sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma (cfr
questa sez. 3, n. 19034 del 18.3.2004 , Calzoni, rv.
228624).
Coerentemente con quanto afferma sul punto anche la
giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Puglia, Bari, sez.
3, 22.07.2004, n. 3210) la modifica di prospetti attiene
alla facciata dell'edificio, per cui non va confusa e
compresa nel concetto di sagoma, che indica la forma della
costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che
assume l'edificio.
I prospetti, in altri termini, costituiscono un quid
pluris rispetto alla sagoma, attenendo all'aspetto
esterno, e quindi al profilo estetico-architettonico
dell'edificio.
La chiusura di preesistenti finestre e la loro apertura in
altre parti, l'apertura di balconi in luogo di finestre,
così come l'allargamento del portone di ingresso, essendo
relativi al prospetto, non afferiscono al concetto di
sagoma.
Pertanto un intervento di ristrutturazione edilizia come
quello del 410 caso che ci occupa, che ha visto una parziale
demolizione e successiva ricostruzione del manufatto,
mantenendo le medesime dimensioni di quello preesistente (e
quindi la sua sagoma), ma comportando lo spostamento di una
finestra dal lato est -dove veniva chiusa- al lato nord
-dove veniva aperta- (e quindi modifica dei prospetti)
necessitava di permesso di costruire, ai sensi dell'articolo
10, comma 1, lettera c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.05.2015 n. 20846 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Realizzazione
tettoia di copertura.
Integra il reato previsto dall'art. 44,
lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza
il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una
tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata.
Ciò in quanto, in urbanistica, il concetto di pertinenza ha
caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal
codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di
una propria individualità, in rapporto funzionale con
l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio stesso
appartiene senza autonomia alla sua struttura.
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, la Corte di merito
-pronunciandosi sulla medesima doglianza qui riproposta- ha
evidenziato con argomento adeguato e privo di censure
logiche che la tettoia realizzata non poteva affatto esser
qualificata quale mera pertinenza edilizia; ciò alla luce
delle rilevanti dimensioni (circa 200 mq.) e del carattere
del manufatto stesso, che «costituisce, all'evidenza, una
forma di ampliamento del fabbricato cui inerisce» (il
ristorante).
In sintesi, non un "servizio", ma una "integrazione"
della costruzione principale, parte di esso quale elemento
che attiene all'essenza dell'immobile.
In tal modo, dunque, la sentenza ha fatto buon governo del
principio, più volte affermato in sede di legittimità,
secondo cui integra il reato previsto dall'art. 44, lett.
b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il
preventivo rilascio del permesso di costruire, di una
tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata
(Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2014, Salanitro, Rv. 257290;
Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628; Sez. 3,
n. 40843 dell'11/10/2005, Daniele, Rv. 232363); ciò in
quanto, in urbanistica, il concetto di pertinenza ha
caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal
codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di
una propria individualità, in rapporto funzionale con
l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio stesso
appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n.
17083 del 07/04/2006, Miranda, Rv. 234193).
Il motivo, pertanto, non può essere accolto
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.05.2015 n. 20544 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Beni
Ambientali. Bosco ed efficacia del vincolo indipendentemente
dalla qualificazione dell'area da parte degli strumenti
urbanistici.
La definizione legislativa di "bosco" si
applica ai fini dell'individuazione dei territori coperti da
boschi di cui all'articolo 142, lett. g), d.lgs. 22.01.2004,
n. 42.
I limiti di applicabilità all'applicazione del vincolo,
previsti in via del tutto eccezionale dall'art. 142, comma
2, d.lgs. 42 del 2004, dimostrano "a contrariis" che, una
volta accertata la natura boschiva di un'area, esso produce
effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni
ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali e comporta
l'ineludibile obbligo di presentare all'amministrazione
competente il progetto degli interventi che si intendano
intraprendere affinché l'area non venga distrutta o vi siano
introdotte modificazioni che possano recar pregiudizio ai
valori paesaggistici oggetto di protezione (art. 146, commi
1 e 2, d.lgs. n. 42 del 2004).
6.9. Limitandoci per ora alle questioni che attengono alla
sussistenza del reato (e dunque alla esistenza del
vincolo violato), è necessario ricordare che la
definizione legislativa di "bosco" «si applica ai fini
dell'individuazione dei territori coperti da boschi di cui
all'articolo 146, comma 1, lettera g), del decreto
legislativo 29.10.1999, n. 490» (oggi art. 142, lett. g,
d.lgs. 22.01.2004, n. 42).
6.10. I limiti di applicabilità all'applicazione del
vincolo, previsti in via del tutto eccezionale dall'art.
142, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, dimostrano "a
contrariis" che, una volta accertata la natura boschiva
di un'area, esso produce effetti indipendentemente da
eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti
urbanistici comunali e comporta l'ineludibile obbligo di
presentare all'amministrazione competente il progetto degli
interventi che si intendano intraprendere affinché l'area
non venga distrutta o vi siano introdotte modificazioni che
possano recar pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di
protezione (art. 146, commi 1 e 2, d.lgs. n. 42 del 2004).
6.11. Il fatto che il PRG del Comune di Pelago classificasse
la zona come "area ad attrezzature" ricompresa
all'interno del perimetro del centro abitato non vale ad
escluderne la natura boschiva (e dunque la sussistenza del
vincolo) se, come già detto, sussistevano i requisiti di
fatto per classificarla come tale.
6.12. Né rileva il fatto che l'area fosse compresa
all'interno del perimetro del centro abitato poiché tale
circostanza legittima l'esclusione del vincolo nei soli casi
tassativamente ed eccezionalmente previsti dal già citato
art. 142, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004, nessuno dei quali
ricorre nel caso di specie e comunque mai nemmeno dedotti
nei giudizi di merito.
6.13. Non ha nemmeno importanza stabilire se i lavori
disposti con D.I.A. dovessero essere o meno autorizzati con
permesso di costruire; quel che rileva, perché possa dirsi
insussistente il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs.
42 del 2004, è che l'intervento, oltre quelli che l'art.
149, stesso d.lgs., già sottrae alla necessità
dell'autorizzazione, sia di tale minima consistenza da non
avere nemmeno in astratto l'attitudine a ledere i valori
paesaggistici protetti
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.05.2015 n. 19533 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiustificata
inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva
ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro
90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa
dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e
dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza.
Ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4,
DPR 380/2001- costituisce soltanto titolo necessario per
l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il
trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non
voglia spogliarsi del bene.
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, si osserva che l'art. 31,
d.P.R. n. 380 del 2001 prevede -con riguardo alle opere
realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale
difformità, ovvero con variazioni essenziali- un'articolata
disciplina volta alla demolizione delle stesse; in
particolare, l'autorità comunale ingiunge al proprietario ed
al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione
dell'intervento; viene quindi concesso un termine di 90
giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale il bene e
l'area di semine vengono acquisiti di diritto, e
gratuitamente, al patrimonio del Comune; l'opera acquisita
infine demolita con apposita ordinanza, salvo che con
deliberazione consiliare "non si dichiari l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali".
Lo stesso art. 31, inoltre, stabilisce che per le opere
abusive di cui al medesimo articolo, il Giudice, con la
sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina
la demolizione delle opere stesse se non sia stata
altrimenti eseguita.
Questo complessivo dato normativo è prevalentemente
interpretato nel senso che l'ingiustificata inottemperanza
all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla
rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro novanta
giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa
dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e
dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza (Sez. 3, n. 45705 del 26/10/2011,
Perticaroli, Rv. 251321; Sez. 3, n. 22237 del 22/04/2010,
Gotti, Rv. 247653; Sez. 3, n. 39075 del 21/05/2009, Bifulco,
Rv. 244891; Sez. 3, n. 1819 del 02/10/2008, dep. 19/01/2009,
Ercoli, Rv. 242254); ed invero, questa notifica -prevista
dall'art. 31, comma 4, cit.- costituisce soltanto titolo
necessario per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta
allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il
responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.
L'effetto ablatorio, quindi, si verifica ope legis,
alla scadenza del termine fissato per ottemperare
all'ingiunzione di demolire, e senza che lo stesso debba
esser previsto nella pronuncia di condanna; proprio come
avvenuto nel caso di specie, atteso che il Comune di Milazzo
ha emesso un'ordinanza ingiunzione di demolizione in data
14/10/2008, rimasta del tutto inattuata e poi indicata nel
provvedimento qui impugnato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17134). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, nel sistema
del T.U. edilizia 06.06.2001 n. 380, in forza dell’art. 22,
sono realizzabili mediante SCIA quattro categorie di interventi:
le prime tre, che qui non
interessano riguardano le varianti a permesso di costruire
(comma 2 e 2-bis), le ristrutturazioni (comma 3, lettera a)
e le nuove costruzioni, in buona sostanza, già
dettagliatamente disciplinate da un piano di livello
superiore (comma 3, lettere b e c). Vi è poi la quarta
categoria, che si definisce per differenza: esclude a valle
gli interventi liberi di cui all’art. 6 e a monte gli
interventi per cui, in base all’art. 10, serve il permesso
di costruire (comma 1).
---------------
Andando ad esaminare il citato art. 10, l’intervento per cui
è causa (tamponamento pareti laterali di tre tettoie e,
quindi, nella loro trasformazione in capannoni) non sarebbe
assentibile con SCIA, ma richiederebbe il permesso di
costruire, comportando quanto meno un aumento di volumetria.
---------------
Resta da considerare che lo stesso art. 22, al comma 4,
consente alla legge regionale di ampliare o restringere il
campo di applicazione della SCIA.
In Lombardia, dispone in proposito l’art. 41 della l.
11.03.2005 n. 12, modificato proprio dopo l’introduzione
della SCIA, che nella parte rilevante recita: “Ferma
restando l’applicabilità della segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA) nei casi e nei termini previsti
dall’articolo 19 della legge 241/1990 e dall’articolo 5,
comma 2, lettera c), del d.l. 70/2011, chi ha titolo per
presentare istanza di permesso di costruire ha facoltà,
alternativamente e per gli stessi interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia, di inoltrare al
comune denuncia di inizio attività, salvo quanto disposto
dall'articolo 52, comma 3-bis”.
La norma, la cui lettera è non chiarissima, è stata, com’è
noto, interpretata dagli uffici regionali, sulla scorta di
conformi istruzioni ministeriali (comunicato 08.10.2010
della D.G. Territorio), che la SCIA continua ad applicarsi
ai soli interventi edilizi minori, ovvero alle sole
ristrutturazioni cd. leggere, ovvero non rientranti, come
nella specie, nella previsione dell’art. 10 T.U..
---------------
La ricorrente, che è titolare in Ospitaletto, alla locale
via ..., di un complesso produttivo formato da vari edifici
(ricorso, p. 2 § 1, fatti pacifici in causa), ha presentato
a quel Comune, al fine di procedere al cd. tamponamento,
ovvero alla chiusura con pareti laterali, di tre tettoie
comprese nel perimetro del proprio stabilimento, una prima
DIA 25.02.2014 (doc. 12 Comune, copia di essa), a fronte
della quale ha ricevuto l’inibitoria di cui al provvedimento
del 21.03.2014 (doc. 15 Comune, copia di essa).
Ha allora da un lato richiesto l’annullamento d’ufficio di
tale inibitoria, e se lo è visto negare (doc. 3 ricorrente,
copia provvedimento); dall’altro ha presentato, in data
23.04.2014, una SCIA per lo stesso intervento (doc. 19
Comune, copia di essa e memoria Comune 27.06.2014 p. 5
ultime tre righe), ed ha ricevuto una nuova inibitoria
16.05.2014 (doc. 1 ricorrente, copia di essa).
Nel ricorso principale, come si desume dal contenuto dei
motivi dedotti, la ricorrente impugna in sostanza la sola
inibitoria 16.05.2014, motivata unicamente con l’esistenza
sulle tettoie in questione di un “vincolo unilaterale di
concessione precaria che garantisce al Comune…il diritto di
richiedere la demolizione delle velette [nome tecnico delle
tettoie in parola]…per motivi legati a nuova viabilità…in
forza dell’impegnativa [testuale] registrata il 27.12.1979 a
Brescia …” e ivi trascritta nei registri immobiliari”
(doc. 1 ricorrente, cit.).
A sostegno, ha dedotto cinque censure, corrispondenti in
ordine logico ai seguenti tre motivi:
- con il primo di essi, corrispondente alla censura quarta a
p. 8 dell’atto, deduce violazione dell’art. 7 della l.
07.08.1990 n. 241, per omissione dell’avviso di inizio del
procedimento;
- con il secondo motivo, corrispondente alle censure prima e
quinta alle pp. 5 e 9 dell’atto, deduce violazione del
principio di tipicità dell’atto amministrativo, non essendo,
in sostanza, il vincolo descritto previsto dalla legge;
- con il terzo motivo, corrispondente alla censura terza a
p. 7 dell’atto, deduce eccesso di potere per difetto di
motivazione, in quanto il vincolo, a tutto voler concedere,
sarebbe stato posto a servizio di una viabilità allo stato
da tempo realizzata, e comunque non sarebbe stato
pregiudicato dalla richiesta modifica delle pensiline
esistenti, che sarebbero rimaste pur sempre amovibili, come
nel loro assetto precedente.
Ha resistito il Comune, con memoria 27.06.2014, ed ha
chiesto la reiezione del ricorso.
Questo Tribunale, con ordinanza 04.07.2014 n. 471, ha
sospeso tale provvedimento, ritenendo tale “impegnativa”
in sostanza priva di efficacia, ma facendo salvi ulteriori
provvedimenti dell’amministrazione relativi ad altri profili
di legittimità dell’opera in questione.
Il Comune ha adottato quindi il provvedimento (doc. 11
ricorrente, copia di esso) impugnato con i motivi aggiunti,
motivato con riguardo all’importanza dell’intervento
consistente nella chiusura delle tettoie in questione e
quindi nella loro trasformazione in capannoni e ritenuto non
realizzabile con semplice SCIA.
...
... per (A – ricorso principale) l’annullamento, previa
sospensiva:
- del provvedimento 16.05.2014 prot. n. 9682, conosciuto in
data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area
tecnica del Comune di Ospitaletto ha disposto nei confronti
della ricorrente Aran R.E. S.r.l. il divieto di prosecuzione
dell’attività di cui alla segnalazione certificata di inizio
attività – SCIA edilizia 23.04.2014 prot. n. 8058;
- del provvedimento 21.03.2014 prot. n. 5617, conosciuto in
data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area
tecnica del Comune di Ospitaletto ha disposto nei confronti
della medesima ricorrente il divieto di dare inizio
all’attività di cui alla dichiarazione di inizio attività –
DIA edilizia 25.02.2014 prot. n. 3712;
- del provvedimento 16.04.2014 prot. n. 7654, conosciuto in
data imprecisata, con il quale il Dirigente dell’area
tecnica del Comune di Ospitaletto ha denegato l’annullamento
in autotutela del predetto provvedimento 21.03.2014 prot. n.
5617;
...
4. Infondato è poi il secondo motivo, dovendosi condividere
quanto evidenziato dall’amministrazione sia nel
provvedimento, sia nelle proprie difese. L’intervento per
cui è causa, che in sostanza porterebbe a trasformare alcune
tettoie in altrettanti capannoni chiusi, non è infatti, nei
termini che ora si illustreranno, fra quelli realizzabili
con semplice SCIA.
5. Come è noto, nel sistema del T.U. edilizia 06.06.2001 n.
380, in forza dell’art. 22, sono realizzabili mediante SCIA
quattro categorie di interventi: le prime tre, che qui non
interessano riguardano le varianti a permesso di costruire
(comma 2 e 2-bis), le ristrutturazioni (comma 3, lettera a)
e le nuove costruzioni, in buona sostanza, già
dettagliatamente disciplinate da un piano di livello
superiore (comma 3, lettere b e c). Vi è poi la quarta
categoria, che si definisce per differenza: esclude a valle
gli interventi liberi di cui all’art. 6 e a monte gli
interventi per cui, in base all’art. 10, serve il permesso
di costruire (comma 1).
6. Andando ad esaminare il citato art. 10, l’intervento per
cui è causa non sarebbe assentibile con SCIA, ma
richiederebbe il permesso di costruire, comportando quanto
meno –come correttamente rilevato dal Comune (memoria
29.08.2014 p. 9)- un aumento di volumetria, come ritenuto da
TAR Abruzzo L’Aquila 07.03.2008 n. 123 in un caso analogo.
7. Resta da considerare che lo stesso art. 22, al comma 4,
consente alla legge regionale di ampliare o restringere il
campo di applicazione della SCIA. In Lombardia, dispone in
proposito l’art. 41 della l. 11.03.2005 n. 12, modificato
proprio dopo l’introduzione della SCIA, che nella parte
rilevante recita: “Ferma restando l’applicabilità della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) nei casi
e nei termini previsti dall’articolo 19 della legge 241/1990
e dall’articolo 5, comma 2, lettera c), del d.l. 70/2011,
chi ha titolo per presentare istanza di permesso di
costruire ha facoltà, alternativamente e per gli stessi
interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia, di
inoltrare al comune denuncia di inizio attività, salvo
quanto disposto dall'articolo 52, comma 3-bis”.
8. La norma, la cui lettera è non chiarissima, è stata,
com’è noto, interpretata dagli uffici regionali, sulla
scorta di conformi istruzioni ministeriali (comunicato
08.10.2010 della D.G. Territorio), che la SCIA continua ad
applicarsi ai soli interventi edilizi minori, ovvero, per
quanto qui interessa, alle sole ristrutturazioni cd.
leggere, ovvero non rientranti, come nella specie, nella
previsione dell’art. 10 T.U..
9. Da quanto sin qui esposto, risulta che l’intervento non
era e non è assentibile con lo strumento della SCIA invocato
dalla ricorrente: vanno quindi respinte, per difetto del
requisito del danno ingiusto, tutte le domande risarcitorie
proposte
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.02.2015 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
osservato che l’eventuale erroneità dell’indicazione di una
fonte normativa, non vizia di per sé l’atto che la rechi,
qualora il provvedimento risulti comunque conforme al
superiore paradigma normativo.
Questo è il caso che ricorre nella fattispecie, giacché il
divieto di edificare in aree gravate da vincolo cimiteriale
è contenuto anche nell’art. 338, primo comma, del R.D. n.
1265/1934, vigente ratione temporis (“I cimiteri debbono
essere collocati alla distanza di almeno duecento metri dai
centri abitati. E' vietato di costruire intorno agli stessi
nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio
di duecento metri”) e del pari, correttamente, richiamato
nel ridetto parere dell’Ufficiale sanitario.
---------------
La possibilità di deroga al vincolo cimiteriale, consistendo
in una previsione eccezionale rispetto al generale divieto
di edificazione, deve ritenersi ammessa soltanto al fine di
conseguire un interesse superindividuale, come la
costruzione di un'opera pubblica o l'attuazione di un
intervento urbanistico (oppure nel caso di fabbricati già
esistenti o in corso di costruzione, purché iniziati prima
del 31.10.1956, così l’art. 2 della L. n. 983/1957).
Analoga deroga all’ampiezza della fascia di rispetto non
potrebbe invece disporsi per soddisfare interessi privati
finalizzati al mantenimento di una costruzione abusivamente
realizzata in spregio al vincolo.
---------------
Il Consiglio di Stato ha chiarito come non sia meritevole di
scrutinio favorevole la censura con la quale si sia
sostenuta la tesi della inapplicabilità dei vincoli
cimiteriali per le opere realizzate al di fuori dei centri
abitati (come avvenuto nel caso in esame).
Si è osservato, difatti, che le disposizioni di cui all'art.
338 del R.D. n. 1265/1934, e successive modificazioni, sono
rivolte a disciplinare, da una parte, l'attività costruttiva
dei cimiteri da parte del Comune, che deve scegliere aree
distanti almeno duecento metri dai centri abitati, e,
dall'altra, l'attività costruttiva del privato (una volta
realizzato il cimitero) che non può costruire intorno al
cimitero entro il raggio di duecento metri.
Di conseguenza il riferimento ai "centri abitati" di cui al
suddetto articolo, rileva unicamente per la realizzazione e
l'ampliamento dei cimiteri da parte del Comune e non per
l'attività costruttiva del privato, che deve comunque
rispettare le prescritte distanze dal cimitero anche se la
costruzione dovesse essere edificata fuori dai centri
abitati.
---------------
Infine, è decisivo osservare che il Consiglio di Stato ha
pure affermato che, stante il vincolo assoluto di
inedificabilità all'interno della fascia di rispetto
cimiteriale posto dall'art. 338 del T.U. n. 1265/1934, in
tale fascia non è possibile applicare la sanatoria degli
abusi, essendo consentita in essa solo il recupero del
patrimonio edilizio e non anche gli interventi di
trasformazione in senso residenziale di organismi edilizi
già esistenti.
CONSIDERATO:
1. – Queste Sezioni Riunite ritengono, condividendo l’avviso
espresso dall’ULL, che il ricorso sia infondato. Ed invero,
non merita accoglimento il primo motivo.
Al riguardo va
innanzitutto precisato che la menzione all’art. 57 del
D.P.R. n. 803/1975 era contenuta nel parere dell’Ufficiale
sanitario (ossia in un atto endoprocedimentale), mentre
differente era la motivazione del provvedimento impugnato
che, senza citare una specifica fonte normativa, fondava il
rigetto sulla insistenza del fabbricato abusivo in una zona
sottoposta a vincolo cimiteriale.
Tanto precisato, va
osservato che l’eventuale erroneità dell’indicazione di una
fonte normativa, non vizia di per sé l’atto che la rechi,
qualora il provvedimento risulti comunque conforme al
superiore paradigma normativo.
Questo è il caso che ricorre
nella fattispecie, giacché il divieto di edificare in aree
gravate da vincolo cimiteriale è contenuto anche nell’art.
338, primo comma, del R.D. n. 1265/1934, vigente ratione
temporis (“I cimiteri debbono essere collocati alla
distanza di almeno duecento metri dai centri abitati. E'
vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e
ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento
metri”) e del pari, correttamente, richiamato nel ridetto
parere dell’Ufficiale sanitario. D’altra parte che il
manufatto abusivo ricada entro la sunnominata fascia di
rispetto non è circostanza contestata.
Ancorché le superiori
considerazioni siano dirimenti ai fini del rigetto della
censura, nondimeno occorre soggiungere che l'art. 57 del
D.P.R. n. 285/1990, invocato dalla ricorrente, sanciva, al
comma 3 (fino all’abrogazione disposta dall’art. 28, comma
2, della L. 01.08.2002, n. 166), il divieto generale di
costruire, entro la fascia di rispetto, nuovi edifici o di
ampliare quelli preesistenti e che soltanto il comma 4 della
disposizione (ugualmente abrogato) consentiva, limitatamente
alle ipotesi di ampliamento dei cimiteri esistenti e
ricorrendo altre condizioni, la possibilità di ridurre la
distanza da detti cimiteri a non meno di 100 metri dai
centri abitati: al caso in esame si applicava tuttavia il
comma 3 dell’art. 57 e non il quarto (o, comunque, la
ricorrente non ha offerto elementi per ritenere che dovesse
farsi applicazione del quarto comma).
2. – Infondato è anche il secondo mezzo di gravame. Difatti,
non sussiste il difetto di motivazione denunciato dalla
ricorrente.
La possibilità di deroga alla quale accenna la
signora A., consistendo in una previsione eccezionale
rispetto al generale divieto di edificazione, deve ritenersi
ammessa soltanto al fine di conseguire un interesse
superindividuale, come la costruzione di un'opera pubblica o
l'attuazione di un intervento urbanistico (oppure nel caso
di fabbricati già esistenti o in corso di costruzione,
purché iniziati prima del 31.10.1956, così l’art. 2
della L. n. 983/1957); analoga deroga all’ampiezza della
fascia di rispetto non potrebbe invece disporsi per
soddisfare interessi privati finalizzati al mantenimento di
una costruzione abusivamente realizzata in spregio al
vincolo, peraltro ben conosciuto dalla ricorrente (nel
provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca si dà
infatti conto della circostanza che il Comune di Mascalucia,
in data 26.11.1980, rilasciò alla signora A. un
certificato dal quale risultava che il terreno, interessato
dal fabbricato abusivo, ricadeva in zona di vincolo
cimiteriale e che esso era inedificabile secondo lo
strumento urbanistico vigente).
La signora A. nemmeno ha
poi offerto un principio di prova della risalenza della
costruzione, o almeno del suo inizio, a un’epoca antecedente
al 31.10.1956 (anzi, nel modulo di condono la
ricorrente indicò il periodo dal 30.01.1977 al 01.10.1983 quale epoca di ultimazione dell’abuso in
parola).
In ogni caso l’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 contempla una
facoltà di deroga, riservata alla discrezionalità del
Prefetto e del Consiglio comunale, con la conseguenza che
una specifica motivazione sul punto diviene necessaria,
attivandosi per l’appunto un potere eccezionale, soltanto
nel caso in cui dette Autorità abbiano scelto di derogare
alla distanza di 200 mt. e non anche quando difettino
esigenze pubblicistiche di rango almeno pari a quelle poste
alla base del vincolo medesimo (come invece preteso dalla
ricorrente allo scopo di salvaguardare la sua costruzione
abusiva).
3. – Nemmeno il terzo motivo è suscettibile di accoglimento,
avendo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 1593 del 29.03.2006) chiarito come non sia meritevole di scrutinio
favorevole la censura con la quale si sia sostenuta la tesi
della inapplicabilità dei vincoli cimiteriali per le opere
realizzate al di fuori dei centri abitati (come avvenuto nel
caso in esame).
Si è osservato, difatti, che le disposizioni
di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934, e successive
modificazioni, sono rivolte a disciplinare, da una parte,
l'attività costruttiva dei cimiteri da parte del Comune, che
deve scegliere aree distanti almeno duecento metri dai
centri abitati, e, dall'altra, l'attività costruttiva del
privato (una volta realizzato il cimitero) che non può
costruire intorno al cimitero entro il raggio di duecento
metri.
Di conseguenza il riferimento ai "centri abitati" di
cui al suddetto articolo, rileva unicamente per la
realizzazione e l'ampliamento dei cimiteri da parte del
Comune e non per l'attività costruttiva del privato, che
deve comunque rispettare le prescritte distanze dal cimitero
anche se la costruzione dovesse essere edificata fuori dai
centri abitati.
4. - Infine, e conclusivamente, ai fini del rigetto del
ricorso in esame, è decisivo osservare che il Consiglio di
Stato ha pure affermato che, stante il vincolo assoluto di
inedificabilità all'interno della fascia di rispetto
cimiteriale posto dall'art. 338 del T.U. n. 1265/1934, in
tale fascia non è possibile applicare la sanatoria degli
abusi, essendo consentita in essa solo il recupero del
patrimonio edilizio e non anche gli interventi di
trasformazione in senso residenziale di organismi edilizi
già esistenti (Cons. Stato, sez. V, n. 4256 dell’08.09.2008)
(C.G.A.R.S.,
parere 21.07.2014 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi
di opere edilizie abusive ed avendo la violazione delle
norme edilizie natura di illecito permanente,
l’amministrazione, nell’esercitare il potere repressivo, è
tenuta ad applicare la disciplina in vigore al momento
dell’adozione del provvedimento.
Essendo peraltro pacifico che, in ragione della natura, non
propriamente sanzionatoria bensì ripristinatoria della
legalità oggettiva violata dall’abuso, del provvedimento che
ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, il principio
dell’irretroattività delle sanzioni amministrative previsto
dalla L. n. 689/1981 non sia applicabile alle misure
repressive degli abusi edilizi.
---------------
Nel caso in esame trova dunque piena e coerente applicazione
l’attuale art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 che disciplina gli
interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello
Stato o di enti pubblici, e dispone che qualora sia
accertata la realizzazione di interventi in assenza di
permesso di costruire o di denuncia di inizio attività,
ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su
suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti
pubblici, debba essere ordinata al responsabile dell'abuso
la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Tale disciplina, differente rispetto a quella ordinaria
dettata dall'art. 31 del t.u. dell'edilizia e che non
prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua
giustificazione nella peculiare gravità della condotta
sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su
suoli pubblici.
---------------
Anche ammettendo che la costruzione (ndr: abusiva) sia stata
realizzata prima del 1967, era in vigore il Regolamento
Edilizio del Comune del 1929, che già da allora prescriveva
la preventiva autorizzazione del Podestà per la
realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio
comunale.
Né può fondatamente sostenersi che tale regolamento fosse
divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata
in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la
necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria
svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di
espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un
controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente
non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi
di una tipica prerogativa ad essi spettante.
4. Con il secondo motivo il ricorrente oppone la violazione
dell’art. 31 della L. n. 1150/1942, in quanto le opere in
questione erano state realizzate in epoca anteriore al 1967
e, pertanto, le stesse non necessitavano di alcun titolo
edificatorio, atteso che l'art. 31 della legge n. 1150/1942,
nella sua formulazione originaria, prescriveva l'obbligo
della licenza edilizia solo nell'ambito dei centri abitati e
ove esistesse il piano regolatore comunale.
In ogni caso, secondo il ricorrente, la legge dell’epoca del
compimento dell’abuso ipotizzava il pagamento di una mera
sanzione pecuniaria.
4.1. Le tesi proposte sono destituite di fondamento, dal
momento che anche ammettendo che la costruzione sia stata
realizzata prima del 1967, era in vigore il Regolamento
Edilizio del Comune di Venezia del 1929, che già da allora
(come rilevato dall’amministrazione nel corso del
procedimento), prescriveva la preventiva autorizzazione del
Podestà per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel
territorio comunale.
4.1.2. Né può fondatamente sostenersi che tale regolamento
fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta
entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31,
limitava la necessità della licenza edilizia all’attività
edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle
zone di espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un
controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente
non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi
di una tipica prerogativa ad essi spettante.
4.2. Inoltre, non va dimenticato che le opere abusive in
questione (bilancione da pesca, capanno attrezzi e pontile)
insistono su suolo appartenente al demanio marittimo, e che,
nel periodo ante 1967 in cui secondo il ricorrente sarebbero
state realizzate le opere in questione, la necessità di un
ulteriore titolo abilitativo era prevista dal Codice della
Navigazione (del 1942) dove, all'art. 55, si prevedeva che “l'esecuzione
di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio
marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è
sottoposta all'autorizzazione del capo del compartimento”.
Anche di tale autorizzazione dell’autorità marittima
competente non v’è traccia alcuna nella documentazione
depositata.
Né tale titolo può ritenersi insito nelle varie concessioni
lagunari di volta in volta rilasciate dal Magistrato delle
Acque, le quali attribuiscono ai vari titolari succedutisi
solo un titolo di disponibilità temporanea delle opere in
questione, senza interferire sul diverso piano della
regolarità urbanistico-edilizia delle stesse (cfr. TAR
Veneto: 11.12.2013 n. 1395; 28.11.2013 n. 1333).
4.3. Ne consegue che, trattandosi di opere edilizie abusive
ed avendo la violazione delle norme edilizie natura di
illecito permanente, l’amministrazione, nell’esercitare il
potere repressivo, è tenuta ad applicare la disciplina in
vigore al momento dell’adozione del provvedimento. Essendo
peraltro pacifico che, in ragione della natura, non
propriamente sanzionatoria bensì ripristinatoria della
legalità oggettiva violata dall’abuso, del provvedimento che
ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, il principio
dell’irretroattività delle sanzioni amministrative previsto
dalla L. n. 689/1981 non sia applicabile alle misure
repressive degli abusi edilizi.
4.3.2. Nel caso in esame trova dunque piena e coerente
applicazione l’attuale art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 che
disciplina gli interventi abusivi realizzati su suoli di
proprietà dello Stato o di enti pubblici, e dispone che
qualora sia accertata la realizzazione di interventi in
assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio
attività, ovvero in totale o parziale difformità dai
medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato
o di enti pubblici, debba essere ordinata al responsabile
dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei
luoghi. Tale disciplina, differente rispetto a quella
ordinaria dettata dall'art. 31 del t.u. dell'edilizia e che
non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la
sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta
sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su
suoli pubblici (cfr. TAR Abruzzo-Pescara - Sez. I,
14.01.2010, n. 23)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 30.01.2014 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce acquisizione giurisprudenziale
consolidata che l’oggettiva disponibilità dell’area sulla
quale sono stati rinvenuti i manufatti eseguiti in assenza
di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica,
costituisca condizione sufficiente per individuare il
destinatario dell’ordine di ripristino.
In casi analoghi, la giurisprudenza ha, infatti, chiarito
come sia sufficiente ad individuare il legittimato passivo
dell’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente
realizzato sul demanio, o nella relativa fascia di rispetto,
la qualità di utilizzatore dell’immobile medesimo, senza
necessità di accertare non solo chi ha realizzato l’abuso,
ma nemmeno il proprietario dell’area o del manufatto.
Detto orientamento è condiviso da questa sezione, atteso che
la disponibilità dell’immobile consente all’interessato di
porre fine alla situazione antigiuridica.
5. Con il terzo, il quinto ed il sesto motivo di gravame il
ricorrente contesta sotto vari profili il provvedimento
poiché rivolto, non nei confronti dell’originario
costruttore delle opere, bensì dell’attuale titolare, privo
di legittimazione passiva in quanto non responsabile
dell’abuso.
Tale argomento è privo di fondamento giuridico.
Infatti, costituisce acquisizione giurisprudenziale
consolidata che l’oggettiva disponibilità dell’area sulla
quale sono stati rinvenuti i manufatti eseguiti in assenza
di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica,
costituisca condizione sufficiente per individuare il
destinatario dell’ordine di ripristino.
In casi analoghi, la giurisprudenza (TAR Emilia Romagna,
Bologna, 20.03.2003, n. 259; C. Si, 18.11.1998, n. 662) ha,
infatti, chiarito come sia sufficiente ad individuare il
legittimato passivo dell’ordine di demolizione dell’immobile
abusivamente realizzato sul demanio, o nella relativa fascia
di rispetto, la qualità di utilizzatore dell’immobile
medesimo, senza necessità di accertare non solo chi ha
realizzato l’abuso, ma nemmeno il proprietario dell’area o
del manufatto.
Detto orientamento è condiviso da questa sezione (si vedano
tra le ultime la già citata n. 1333/2013 e la n. 222/2013
aventi ad oggetto casi analoghi), atteso che la
disponibilità dell’immobile consente all’interessato di
porre fine alla situazione antigiuridica.
Pertanto, nel caso di specie, legittimamente, in
applicazione del disposto di cui all’art. 35 D.P.R.
380/2001, è stata imposta al ricorrente la demolizione delle
opere abusive in oggetto, eseguite su area demaniale
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 30.01.2014 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.06.2015 |
ã |
QUOTA ANNUALE DI ISCRIZIONE ALL'ALBO/ORDINE
PROFESSIONALE:
perché la Corte dei Conti non si pronuncia?? |
Nell'ambito dell'AGGIORNAMENTO
AL 14.05.2015 davamo conto di un'ampia
rassegna pareristica/giurisprudenziale sul tema in
oggetto a seguito della tanto rumorosa
(a detta di pochi
intimi e per il "nulla")
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez.
lavoro della Corte di Cassazione.
Ebbene, ad oggi abbiamo contezza di un primo (non)
pronunciamento della Corte dei Conti, dopo la
suddetta sortita della Suprema Corte, che di seguito
riportiamo: |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
questione circa la rimborsabilità, a carico
dell’amministrazione comunale, delle spese relative
al contributo di iscrizione all’albo professionale
del dipendente professionista, la richiesta va
dichiara inammissibile poiché “la questione prospettata
–concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o
amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le
spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del
r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente potrebbe
ricondursi alla materia della contabilità pubblica,
presupponendo la risoluzione di una questione di stretta
interpretazione normativa, che esorbita (…) dal perimetro
che delinea l’ambito della competenza consultiva della
Sezione”.
---------------
La questione proposta dal Comune di Massa e Cozzile
concerne la rimborsabilità, a carico dell’amministrazione
comunale, delle spese relative al contributo di iscrizione
all’albo professionale del dipendente professionista.
L’ente evidenzia, nella richiesta, un contrasto
interpretativo tra questa Sezione (parere
22.04.2008 n. 11),
sfavorevole ad un’imputazione all’ente pubblico della spesa
di cui si discute, e una recente sentenza della Cass., Sez.
lavoro, n. 7776/2015, che impone all’ente pubblico il
pagamento degli oneri di iscrizione agli albi professionali.
...
Il punto va risolto facendo riferimento alla
deliberazione
13.01.2011 n. 1
delle Sezioni Riunite -in sede di controllo- della Corte dei
Conti che, pronunciandosi su questione di massima in
ordine ad un quesito analogo a quello sottoposto all’odierno
esame, ha affermato: “la questione prospettata
–concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o
amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le
spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del
r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente potrebbe
ricondursi alla materia della contabilità pubblica,
presupponendo la risoluzione di una questione di stretta
interpretazione normativa, che esorbita (…) dal perimetro
che delinea l’ambito della competenza consultiva della
Sezione”.
Ne è conseguita una pronuncia di inammissibilità oggettiva
che, pur riferita alla sola rimborsabilità dell’iscrizione
all’albo del dipendente avvocato, esprime un principio di
diritto valevole per tutte le fattispecie analoghe.
A tale principio si è già successivamente uniformata questa
Sezione con
parere 26.05.2011 n. 98, (così superando il
proprio precedente
parere 22.04.2008 n. 11,
richiamata dal richiedente, che pronunciava invece nel
merito, avendo risolto positivamente la questione
preliminare dell’ammissibilità), nonché altre Sezioni
regionali di controllo, tra cui Puglia (delib. nn. 14/2013 e
91/2012), Veneto (delib. n. 181/2013) e Lombardia (parere
23.10.2012 n. 442 e
parere 12.01.2012 n. 2).
La Sezione conclude pertanto nel senso della inammissibilità
della richiesta in esame (Corte dei Conti, Sez. controllo
Toscana,
parere 08.06.2015 n. 162). |
Certo che tale motivazione, per non pronunciarsi, è
semplicemente stupefacente laddove ogni anno, in
sede di controllo del conto consuntivo, si spulciano
voci di spesa anche di poche decine di euro onde
verificare se alcune siano legittimamente
annoverabili, per esempio, nelle spese di
rappresentanza degli amministratori locali.
Ed il fatto di pagare al proprio dipendente la quota
annuale di iscrizione all'albo/ordine professionale
(e stiamo parlando di 200/250 € l'anno ... dipende
dalla singola sede provinciale) ed avere la
certezza se ciò sia legittimo -o meno- evidentemente non è degno di
attenzione preventiva col rischio (tutt'altro che
remoto) di cagionare danno erariale ... allora,
volenti o nolenti, bisognerà attendere che arrivi la
Procura regionale della Corte dei Conti per dirci
come stanno le cose ...
Nell'attesa, abbiamo trovato altri pareri
sull'argomento proposti a seguire.
13.06.2015 - LA SEGRETERIA PTPL |
PUBBLICO IMPIEGO: La richiesta di parere
(in merito all’ammissibilità o meno del pagamento,
da parte del Comune, della quota annuale di
iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo
degli avvocati per il proprio dipendente incaricato
dell’avvocatura comunale) deve essere dichiarata
inammissibile in quanto la questione prospettata
solo indirettamente
potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità
pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di
stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le
ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito
della competenza consultiva della Sezione.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Suzzara (MN) ha chiesto alla Sezione un parere in merito
all’ammissibilità o meno del pagamento, da parte del Comune,
della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale
annesso all’albo degli avvocati per il proprio dipendente
incaricato dell’avvocatura comunale.
Nel formulare i predetto quesito, il Sindaco afferma che
l’ente ha preso visione del precedente parere su identica
questione già rilasciato da questa Sezione con deliberazione
n. 655/2009/PAR e chiede conferma di tale orientamento anche
a seguito di diverso avviso espresso da altri plessi
giurisdizionali (Consiglio di Stato e Tribunale di Potenza).
...
Con specifico riferimento alla richiesta oggetto della presente
pronuncia, la Sezione osserva che la stessa è inammissibile
sul piano oggettivo.
La questione risulta essere stata affrontata in più
occasioni dalla Corte dei conti, sia da parte delle Sezioni
regionali di controllo nell’esercizio della funzione
consultiva (Sez. Emilia-Romagna,
parere 28.04.2009 n. 10;
Sez. Toscana,
parere 22.04.2008 n. 11; Sez. Basilicata,
deliberazione 15.06.2007 n. 12; Sez. Piemonte,
parere 29.03.2007 n. 2; Sez. Sardegna,
parere 19.01.2007 n.
1), sia da parte
della Sezione Autonomie in sede di coordinamento (nota n.
6935/C21 del 07.06.2007).
Tali pronunce sono state univoche nell’escludere che della
spesa della quota d’iscrizione all’albo professionale del
dipendente possa essere gravato l’ente di appartenenza.
Questo Collegio, con il richiamato
parere
22.09.2009 n. 655, ha ritenuto in precedenza di condividere
tale orientamento ed ha concluso che, con riferimento
specifico al quesito posto, si dovesse ritenere esclusa per
l’ente locale la possibilità “di procedere, per i propri
dipendenti avvocati, al pagamento (o al rimborso) della
quota annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso
all’albo degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione
all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio
avanti alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre
Giurisdizioni Superiori”.
Successivamente a tale pronuncia, con deliberazione
26.10.2010 n.
722/2010/PAR, la Sezione regionale di
controllo per le Marche, in occasione dell’esame di un
parere sulla medesima questione, ha sospeso la pronuncia e
ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti per
le determinazioni di competenza ai sensi dell’art. 17, comma
31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, il quale,
a sua volta ha deferito alle Sezioni riunite una questione
di massima di particolare rilevanza del seguente tenore:
a) se rientri nel concetto di contabilità pubblica di cui
all’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 e
quindi se sia ammissibile la richiesta di parere concernente
il quesito relativo alle spese per l’iscrizione all’albo
degli avvocati (art. 3, r.d.l. 27.11.1933, n. 1578);
b) se rientri, ex art. 7, comma 8, della legge citata n. 131
del 2003, nella competenza della Sezione regionale di
controllo esprimere avviso in merito a quesiti riferiti a
casi concreti limitatamente ai profili di stretta
interpretazione normativa;
c) se, in caso di ammissibilità del quesito, le spese
relative all’iscrizione alla sezione speciale dell’albo
degli avvocati, finalizzate all’esclusivo patrocinio a
vantaggio dell’amministrazione, debbano essere poste a
carico del privato oppure, secondo quanto ritenuto dalla
Corte di cassazione (Cass. Lavoro n. 3928/2007), delle
amministrazioni locali.
Con deliberazione 13.01.2011 n. 1/CONTR/11 le
Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno affermato al
riguardo che:
“La questione è agevolmente risolvibile alla luce della
recente pronuncia di queste stesse Sezioni riunite n. 54/CONTR/10
del 17.11.2010, che ha chiarito l’ambito oggettivo
delle pronunce di orientamento generale di competenza di
questa Corte relative al coordinamento della finanza
pubblica, laddove vengano prospettate, in sede di richiesta
di parere delle Sezioni regionali di controllo, questioni in
materia di contabilità pubblica".
Al riguardo, nella citata pronuncia, si è affermato che
l’espressione “in materia di contabilità pubblica” non può
comportare una estensione dell’attività consultiva “a tutti
i settori dell’azione amministrativa”, ma va delimitata ai
profili che “risultino connessi alle modalità di utilizzo
delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi
di contenimento della spesa sanciti dai principi di
coordinamento della finanza pubblica […] in grado di
ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria
dell’ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Sulla base di questa premessa affermata nella deliberazione
n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010, che attiene alle
condizioni di ammissibilità dei quesiti –intervenuta
peraltro successivamente all’avvenuto deferimento della
questione da parte della Sezione di controllo remittente–,
deve ritenersi che la questione sia inammissibile per
carenza delle caratteristiche indicate nella citata
deliberazione, in quanto, come d’altro canto la stessa
Sezione riconosce (pag. 6), la questione prospettata
–concernente l’individuazione del soggetto (avvocato o
amministrazione locale) sul quale dovrebbero gravare le
spese per l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3 del
r.d.l. 27.11.1933, n. 1578)– solo indirettamente
potrebbe ricondursi alla materia della “contabilità
pubblica”, presupponendo la risoluzione di una questione di
stretta interpretazione normativa, che esorbita, per le
ragioni sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito
della competenza consultiva della Sezione.
Se ne deve concludere che la questione sottoposta all’esame
di queste Sezioni riunite è inammissibile e, pertanto, gli
atti vanno restituiti alla Sezione di controllo remittente.
Pertanto, in osservanza al disposto dell’art. 17, comma 31,
secondo periodo, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n.
102, a mente del quale “Tutte le sezioni regionali di
controllo si conformano alle pronunce di orientamento
generale adottate dalle Sezioni Riunite”, e recependo le
conclusioni della sopra riportata deliberazione SSRR n. 1/CONTR/11
del 13.01.2011, la richiesta di parere proveniente dal
Sindaco del Comune di Suzzara (MN) deve essere dichiarata
inammissibile (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.01.2012 n. 2). |
PUBBLICO IMPIEGO: Deve
ritenersi che la questione sia inammissibile (…) in quanto
la questione prospettata –concernente l’individuazione del
soggetto sul quale dovrebbero gravare le spese per
l’iscrizione all’albo– solo indirettamente potrebbe
ricondursi alla materia della contabilità pubblica,
presupponendo la risoluzione di una questione di stretta
interpretazione normativa, che esorbita, per le ragioni
sopra dette, dal perimetro che delinea l’ambito delle
competenze consultive della Sezione.
---------------
Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla
Sezione, con nota in data 13.05.2011 prot. n. 8243/1.13.9,
una richiesta di parere formulata dal Sindaco del comune di
Campi Bisenzio, in cui l’ente chiede se sia legittimo
accogliere la domanda di alcuni dipendenti tesa ad ottenere
il rimborso della spesa sostenuta per l’iscrizione all’albo
professionale, nonché la domanda tesa ad ottenere il
rimborso della spesa sostenuta per ottenere il rilascio
della carta di qualificazione del conducente (CQC).
...
In merito alla richiesta di legittimità del rimborso di
quanto versato per l’iscrizione all’albo professionale,
questa (deliberazione n. 11/2008) ed altre sezioni (Emilia
Romagna 10/2009, Basilicata 14/2009, Campania 97/2010,
Lombardia 673/2010) si sono espresse con esiti diversi in
tema di ammissibilità oggettiva della domanda.
A dirimere la questione sono intervenute le Sezioni Riunite
della Corte dei conti, coinvolte con una richiesta di
pronunciarsi su questione di massima ai sensi dell’art. 17,
comma 31, della L. 102/2009, di conversione del D.L.
78/2009.
La
deliberazione
13.01.2011 n. 1,
in risposta ad un quesito proposto sulla medesima questione
oggetto del parere in argomento, recita <<l’espressione
“in materia di contabilità pubblica” non può comportare
un’estensione dell’attività consultiva a tutti i settori
dell’azione amministrativa, ma va delimitata ai profili che
risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse
pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento
della spesa sanciti dai principi di coordinamento della
finanza pubblica –espressione della potestà legislativa
concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della
Costituzione– contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di
ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria
dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio.
Sulla base di questa premessa (…), deve ritenersi che la
questione sia inammissibile (…) in quanto la questione
prospettata –concernente l’individuazione del soggetto sul
quale dovrebbero gravare le spese per l’iscrizione all’albo–
solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della
contabilità pubblica, presupponendo la risoluzione di una
questione di stretta interpretazione normativa, che
esorbita, per le ragioni sopra dette, dal perimetro che
delinea l’ambito delle competenze consultive della Sezione>>.
Per le esposte ragioni, la richiesta deve ritenersi
inammissibile da un punto di vista oggettivo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 26.05.2011 n. 98). |
PUBBLICO IMPIEGO: Si
deve ritenere esclusa la “possibilità per la
Provincia di procedere, per i propri dipendenti
avvocati, al pagamento (o al rimborso) della quota
annuale d’iscrizione nell’elenco speciale annesso
all’albo degli avvocati, nonché delle tasse
d’iscrizione all’albo speciale degli avvocati
ammessi al patrocinio avanti alla Corte Suprema di
Cassazione e alle altre Giurisdizioni Superiori”.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Presidente
della Provincia di Mantova ha chiesto alla Sezione
di rendere apposito parere in ordine “alla
possibilità per la Provincia di procedere, per i
propri dipendenti avvocati, al pagamento (o al
rimborso) della quota annuale d’iscrizione
nell’elenco speciale annesso all’albo degli
avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione all’albo
speciale degli avvocati ammessi al patrocinio avanti
alla Corte Suprema di Cassazione e alle altre
Giurisdizioni Superiori”.
...
La questione risulta essere stata affrontata in più
occasioni dalla Corte dei conti, sia da parte delle
Sezioni regionali di controllo nell’esercizio della
funzione consultiva (Sez. Emilia-Romagna,
parere 28.04.2009 n. 10;
Sez. Toscana,
parere 22.04.2008 n. 11;
Sez. Basilicata,
deliberazione 15.06.2007 n. 12;
Sez. Piemonte,
parere 29.03.2007 n. 2;
Sez. Sardegna,
parere 19.01.2007 n.
1),
sia da parte della Sezione Autonomie in sede di
coordinamento (nota n. 6935/C21 del 07.06.2007).
Tali pronunce sono state univoche
nell’escludere che della spesa della quota
d’iscrizione all’albo professionale del dipendente
possa essere gravato l’ente di appartenenza.
Questo Collegio ritiene di condividere tale
orientamento e di poter esprimere al riguardo le
seguenti considerazioni.
In primo luogo va precisato che la
questione acquista rilievo solo nella misura in cui
l’iscrizione all’albo professionale (in questo caso
l’albo degli avvocati) costituisca requisito
necessario per lo svolgimento dell’attività del
dipendente. Ove l’iscrizione, se mai consentita
dalle diverse normative vigenti, fosse da imputarsi
alla libera scelta del dipendente, dovrebbe
ritenersi ovviamente a suo carico il pagamento della
relativa tassa d’iscrizione.
Rientrano in tale ipotesi anche i
casi in cui l’accesso al rapporto di pubblico
impiego abbia presupposto, quale titolo, il
conseguimento dell’abilitazione all’esercizio della
professione, non risultando poi necessaria
l’iscrizione al relativo albo per lo svolgimento
dell’attività del dipendente.
La questione si pone, dunque, per le fattispecie in
cui i dipendenti debbano essere iscritti all’albo
avvocati, in quanto requisito necessario per
l’esercizio delle funzioni (di consulenza,
rappresentanza e patrocinio legale) che svolgono per
l’ente.
In questi casi, deve ritenersi che
l’iscrizione all’albo professionale, anche se
necessaria per lo svolgimento dell’attività svolta
dal dipendente per l’ente, non sia effettuata
nell’esclusivo interesse dell’ente stesso-datore di
lavoro.
Da un lato, infatti, è vero che il rapporto che
s’instaura tra il dipendente avvocato e l’ente di
appartenenza è di tipo esclusivo, nel senso che il
dipendente svolge la propria attività professionale
solo in rappresentanza e in favore dell’ente; ciò
potrebbe indurre a ritenere che conseguentemente
spetti all’ente sostenere la spesa della quota
d’iscrizione all’albo professionale del dipendente,
proprio perché presupposto di un’attività di
quest’ultimo che va ad esclusivo vantaggio dell’ente
stesso.
Dall’altro lato, tuttavia, v’è da considerare che il
rapporto di lavoro in questione è caratterizzato da
un’attività di alta specializzazione e
professionalità, che, a differenza di altri rapporti
di lavoro pubblico, è remunerata al dipendente
avvocato, oltre che con la retribuzione base, anche
tramite la corresponsione delle cosiddette “propine”.
In quest’ottica, il mantenimento dell’iscrizione del
dipendente all’ordine professionale deve ritenersi
rimesso alla sua responsabilità, comportando esso
vari obblighi, tra cui anche quello di provvedere
agli adempimenti legati al pagamento della quota
annuale d’iscrizione al proprio albo professionale,
adempimenti che, appunto in quanto attengono a
profili strettamente connessi con la professionalità
del soggetto iscritto, arrecano benefici diretti
nella sua sfera d’interessi.
Alle suesposte considerazioni si aggiunge anche la
constatazione che gli strumenti di
contrattazione collettiva non prevedono alcun onere
specifico in tal senso a carico
dell’amministrazione.
Pertanto, deve ritenersi che, in
assenza di espresse disposizioni normative sul
punto, debba prevalere la scrupolosa osservanza dei
vigenti criteri di contenimento della spesa
complessiva per il personale, diretta e indiretta,
entro i vincoli di finanza pubblica
(art. 1, comma 1, lett. b, del D.Lgs. 30.03.2001, n.
165), ed il principio in base al
quale “l’attribuzione di trattamenti economici
può avvenire esclusivamente mediante contratti
collettivi e, alle condizioni previste, mediante
contratti individuali”
(art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165).
Conclusivamente, con riferimento specifico al
quesito posto, si deve ritenere
esclusa la “possibilità per la Provincia di
procedere, per i propri dipendenti avvocati, al
pagamento (o al rimborso) della quota annuale
d’iscrizione nell’elenco speciale annesso all’albo
degli avvocati, nonché delle tasse d’iscrizione
all’albo speciale degli avvocati ammessi al
patrocinio avanti alla Corte Suprema di Cassazione e
alle altre Giurisdizioni Superiori”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 22.09.2009 n. 655). |
CONVEGNI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L'Associazione Nazionale Consulenti Tecnici di Ufficio
organizza per sabato 20.06.2015 - ore 14,30, nell'ambito di
EXPO 2015, un seminario gratuito dal titolo “Risorsa
territorio, sviluppo sostenibile e giustizia”.
Per maggiori dettagli e per iscriversi
cliccare qui. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Maggiorazione costo di costruzione di cui all’art. 16,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 a’ sensi dell’art.
5, comma 10, della L.R. 28.11.2014 n. 31.
---------------
Per quei comuni che non avessero ancora provveduto a
deliberare, ecco un
fac-simile di testo liberamente modificabile. |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
ASSEGNI AL NUCLEO FAMILIARE - A chi e quanto
spetta? (CGIL
di Bergamo,
CGIL materiali giugno 2015 - n. 3). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI:
G.U. 12.06.2015 n. 134 "Aggiornamento degli allegati al
decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, relativo alle
disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi
contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli
enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e
2 della legge 05.05.2009, n. 42" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 20.05.2015). |
ENTI
LOCALI: G.U.
10.06.2015 n. 132, suppl. ord. n. 27, "Adozione delle
note metodologiche e dei fabbisogni standard per ciascun
comune delle regioni a Statuto ordinario, relativi alle
funzioni di istruzione pubblica, nel campo della viabilità e
dei trasporti, di gestione del territorio e dell’ambiente e
nel settore sociale"
(D.P.C.M. 27.03.2015:
volume I -
volume II). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 10.06.2015, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.05.2015, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 05.06.2015 n. 83). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
05.06.2015 n. 128 "Metodi di valutazione delle stazioni
di misurazione della qualità dell’aria di cui all’articolo 6
del decreto legislativo 13.08.2010 n. 155" (Ministero
dell'Ambiente e ella Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 05.05.2015). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI:
Segretari di rigore. C'è l'obbligo di presa in servizio.
PROVINCE/ Il ministero dell'interno applica la legge.
Province obbligate a prendere in servizio, e remunerare, i
segretari provinciali, anche se sono impossibilitate ad
assumere qualsiasi dipendente, debbono tagliare della metà i
costi del personale e sono letteralmente strangolate dalla
legge 190/2014, come ha certificato la Corte dei conti,
Sez. Autonomie, con
deliberazione
11.05.2015 n. 17/2015.
Succede a Cuneo, dove il ministero dell'interno, applicando
rigorosamente la norma, ha inviato d'ufficio un segretario
alla provincia, per coprire la sede liberatasi lo scorso
novembre a seguito del pensionamento del precedente
titolare.
Il presidente della provincia di Cuneo aveva ritenuto di
poter fare a meno della nomina di un nuovo segretario,
lasciando che a svolgere la connessa attività fosse il vice
segretario, sul presupposto che il disegno di legge di
riforma della p.a. all'attenzione della camera prevede
l'abolizione dei segretari e la loro confluenza nel ruolo
unico della dirigenza locale.
Un malinteso modo di concepire le riforme, anticipate nella
loro attuazione prima ancora che entrino in vigore e che
rivela i rischi che stanno dietro un sistema che attribuisce
eccessivo peso alle scelte discrezionali e sostanzialmente
immotivate della politica, che il disegno di legge delega
rende praticamente libera di incaricare i dirigenti.
Più comprensibile e giustificata l'altra motivazione che
aveva spinto il presidente della provincia di Cuneo a non
attivare la procedura per sostituire il segretario: evitare
di accollarsi il costo di un dirigente (circa 115 mila euro
lordi), mentre la normativa obbliga a fare a meno di metà
del personale, vieta di effettuare assunzioni e impone
pesantissime limitazioni alle spese correnti, con influenze
estremamente negative sui servizi.
Appare oggettivamente
paradossale che enti come le province, in predicato di
andare tutti in dissesto a causa delle manovre finanziarie
insostenibili, alle quali è vietato da tre anni di
effettuare qualsiasi assunzione, debbano ciò nonostante
assumersi la spesa per il segretario. Il ministero
dell'interno ha certamente adempiuto alla legge che
considera il segretario obbligatorio.
Tuttavia, la tempestività dell'intervento lascia da pensare,
considerando che le sedi vacanti nei comuni sono migliaia.
Ma, soprattutto, se per un verso è ineccepibile comunque la
copertura delle sedi di segreteria delle province, è certo
incomprensibile gravare la spesa corrente di questi enti di
ulteriori pesi.
Sarebbe certamente molto più corretto e logico che lo stato,
che preleva forzosamente alle province 2,9 miliardi di euro
di spese correnti (diverranno 4,9 a regime nel 2017),
dovendo coprire le sedi di segreteria provinciali (mentre
restano scoperte migliaia di sedi di comuni che ne hanno
molto più bisogno) si accollasse la relativa spesa
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: S.
Rosolen,
Nuovi delitti, nuovi reati presupposto 231 e nuovi
meccanismi estintivi in campo ambientale
(09.06.2015 - tratto da www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L. Sergio,
La delega delle funzioni dirigenziali nel settore degli enti
locali (08.06.2015 - link a
www.studiocataldi.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Giampietro,
Le acque meteoriche di dilavamento non sono più
“assimilabili” alle acque reflue industriali (03.06.2015
- tratto da www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: F.
Laudante,
La problematica dell’individuazione dell’organo competente,
nell'ambito degli enti locali territoriali, alla nomina
dell’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) - Commento
a TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza n. 2347/2015 (03.06.2015
- link a www.diritto.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Oneri aziendali della sicurezza (ANCE di Bergamo,
circolare 12.06.2015 n. 134). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.M. 30.01.2015 - DURC "on-line" - prime
indicazioni operative (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
circolare 08.06.2015 n. 19/2015).
---------------
DURC on line: arrivano i chiarimenti dal
Ministero del Lavoro.
Illustrata la nuova disciplina sul DURC
“on-line” e forniti i primi chiarimenti di carattere
interpretativo necessari per una corretta applicazione del
decreto interministeriale del 30.01.2015, con la circolare
n. 19 dell’08.06.2015 del Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali.
Pubblicata la circolare n. 19 dell’08.06.2015, del Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali con cui si illustra la
nuova disciplina sul DURC “on-line” che sarà efficace
decorsi 30 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta del
decreto interministeriale del 30.01.2015 (avvenuta il
01.06.2015), e con cui il Ministero fornisce i primi
chiarimenti di carattere interpretativo necessari per una
corretta applicazione.
Si riassumono brevemente le novità rispetto al decreto:
Soggetti abilitati alla verifica della
regolarità contributiva
In attesa delle implementazioni informatiche, i soggetti
delegati sono esclusi dalla possibilità di avviare la
verifica della regolarità contributiva, mentre possono
effettuarla i soggetti delegati ai sensi dell'art. 1 della
L. n. 12/1979 già abilitati per legge allo svolgimento degli
adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale.
Verifica di regolarità contributiva
l soggetti abilitati possono verificare in tempo reale la
regolarità contributiva nei confronti dell’INPS e dell’INAIL
e, per le imprese classificabili ai fini previdenziali nel
settore dell’industria o artigianato per le attività
dell’edilizia, delle Casse Edili.
Requisiti di regolarità
La regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti dovuti
scaduti fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente
a quello in cui la verifica è effettuata. La verifica
riguarda tutti i contributi dovuti dall’impresa per tutte le
tipologie di rapporti di lavoro subordinato o autonomo
intrattenuti compresi quelli relativi ai soggetti tenuti
all’iscrizione alla gestione separata.
La verifica sarà effettuata inserendo il codice fiscale del
soggetto.
E’ bene precisare che la regolarità sussiste anche in caso
di scostamenti tra le somme dovute e quelle versate, con
riferimento a ciascuna gestione che risulti pari o inferiore
a € 150,00 comprensivi di eventuali accessori di legge.
Assenza di regolarità
In assenza di regolarità sarà inviato, tramite PEC, solo al
soggetto interessato della verifica o ad un soggetto
delegato ai sensi dell’art. 1 della legge 12/1979, un invito
a regolarizzare entro il termine non superiore ai quindici
giorni, con l’indicazione analitica delle cause. Per il
rilascio del DURC è necessario comunque che la
regolarizzazione avvenga prima del trentesimo giorno dalla
data della prima richiesta.
Modalità della verifica
La verifica sarà effettuata tramite un’unica interrogazione
negli archivi dell’INPS , dell’INAIL e delle Casse Edili
tramite codice fiscale e nel caso sia presente il rilascio
di un DURC in corso di validità, il sistema rimanderà allo
stesso senza emettere un nuovo pdf.
Il documento ha validità di 120 giorni dalla data di
effettuazione della verifica.
La circolare si sofferma in particolare sul rilascio del
DURC in caso di procedure concorsuali, sulle cause ostative
della regolarità e sul periodo transitorio che non deve
andare oltre il 17.01.2017 (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Introduzione di nuovi reati in campo ambientale
(ANCE di Bergamo,
circolare 05.06.2015 n. 126). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Durc on-line – Decreto interministeriale
(ANCE di Bergamo,
circolare 05.06.2015 n. 124). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Legge 27.05.2015 n. 69, contenente disposizioni
in materia di delitti contro la pubblica amministratine, di
associazioni di tipo mafioso, nonché di falso in bilancio
(Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento,
circolare 04.06.2015 n. 10/2015). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) e Tributo per i
servizi indivisibili (TASI) – Problematiche concernenti gli
obblighi dichiarativi (Ministero dell'Economie e delle
Finanze, Dipartimento delle Finanze,
circolare 03.06.2015 n. 2/DF). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Novità legislative: Legge n. 68 del 22.05.2015, recante
“Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”
(Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario - Settore
Penale,
nota 29.05.2015).
---------------
Sommario: Premessa. – 1. Il delitto di
inquinamento ambientale – 1.1. segue: la compromissione o il
deterioramento “significativi e misurabili” - 1.2. segue:
l’oggetto della compromissione o del deterioramento - 1.3
segue: il rapporto di causalità - 1.4. segue: l’abusività
della condotta - 1.5.: segue: ancora sulla nozione di
“abusivamente” - 2. Il delitto di morte o lesioni come
conseguenza non voluta del delitto di inquinamento
ambientale - 3. Il delitto di disastro ambientale - 3.1.
segue: la condotta - 3.2. segue: la clausola di riserva - 4.
L’elemento soggettivo. L’inquinamento e il disastro
ambientali colposi - 5. Il delitto di traffico e abbandono
di materiale ad alta radioattività - 6. L’impedimento del
controllo - 7. Le aggravanti - 8. Il “ravvedimento operoso”
- 9. Le disposizioni sulla confisca - 10. Il ripristino
dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica - 11.
La responsabilità degli enti da delitto ambientale - 12.
L’intervento sulla prescrizione – 13. L’estinzione delle
contravvenzioni ambientali – 14. Le disposizioni residue.
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Definizione di manifestazione temporanea
(Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 19.05.2015 n. 5918 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Sale di alberghi destinate a riunioni varie
(Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 19.05.2015 n. 5915 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Autorimessa interrata - Quesito (Ministero
dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del
Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 21.04.2015 n. 4869 di prot.). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Partiti e accesso.
Quesito
Può un movimento politico esercitare il diritto di accesso
per ottenere l'estrazione di copia degli elenchi di atti
risalenti agli anni 1987, 1993 e 2001?
Risposta
L'articolo 10 del dlgs 267/2000 dispone che tutti gli atti
dell'amministrazione comunale sono pubblici. Secondo la
giurisprudenza amministrativa tale norma non intende
radicare un interesse generico alla legittimità dell'azione
amministrativa attraverso un controllo generalizzato degli
atti da parte del cittadino o di associazioni, che
soggiacerebbe alla disciplina dettata dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha
precisato che, ai sensi del richiamato art. 10, è consentito
al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi
dell'ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento
e senza necessità della previa indicazione delle ragioni
della richiesta, dovendosi solo rispettare la segretezza
degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge e
tutelare la riservatezza dei terzi.
Occorre, altresì, tenere
conto delle vigenti disposizioni che impongono gli obblighi
di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni, come dettate in
particolare dagli articoli 5 e 9 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che prevedono, tra l'altro, il diritto di
chiunque di richiedere documenti, informazioni o dati.
Pertanto, si ritiene che la specifica norma sull'accesso
agli atti degli enti locali, contenuta nel decreto
legislativo n. 267/2000, non sia soggetta alle limitazioni
previste dalla legge n. 241/1990 che impongono la
dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di
un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica
amministrazione. A supporto di tale orientamento soccorre,
altresì, la decisione del 17.01.2013 resa dalla
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
secondo la quale le disposizioni di cui alla legge n. 241/1990
recedono di fronte alla norma di cui all'art. 10 del Tuoel.
che, in quanto norma speciale, prevale rispetto alla
disciplina generale.
La predetta Commissione, con la
determinazione del plenum del 15.03.2011 ha riconosciuto
la legittimità della richiesta di accesso avanzata da un
movimento politico culturale, con sede nel comune a cui è
rivolta la richiesta, ritenendo peraltro, che l'esercizio
del diritto di cui all'art. 10 del Tuoel non è correlato
alla titolarità di alcuna situazione giuridicamente
rilevante né necessita di adeguata motivazione.
Anche il
difensore civico della Regione Abruzzo, con determinazione
1.9.9/2012, ha ritenuto legittimo l'accesso agli atti di un
comune da parte di un circolo politico in quanto
espressione diretta di un movimento politico nazionale e
locale che si identifica pienamente tra i soggetti privati
portatori di interessi diffusi.
Pertanto, l'accesso agli
atti richiesti, qualora si trovino nella disponibilità
effettiva dell'ente, non può essere negato. Riguardo
all'eventuale gravosità delle richieste, occorrerà disporre
misure idonee a garantire il minor aggravio possibile per
gli uffici comunali attraverso modalità che ragionevolmente
sono fissate nel regolamento dell'Ente. Infatti il diritto
di accesso agli atti deve essere esercitato dai consiglieri
comunali con il limite di poter soddisfare la richiesta
secondo i tempi necessari per non determinare interruzione
delle altre attività di tipo corrente
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2015). |
PATRIMONIO:
Possibilità di assegnare gratuitamente o a canone ridotto un
bene del patrimonio disponibile comunale. Modalità
dell'affidamento.
1) Sebbene il comodato costituisca una
forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con
il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA.,
il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che
non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso
a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei
confronti di attività di pubblico interesse, strumentali
alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) La concessione in uso gratuito di bene immobile, facente
parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va
qualificata in termini di attribuzione di un 'vantaggio
economico' a favore di un soggetto di diritto privato (art.
12 l. 241/1990). Segue che, ai fini dell'individuazione del
soggetto con cui stipulare il contratto di comodato o di
locazione a prezzo ridotto, l'Ente dovrà, previamente,
indicare una serie di criteri e modalità cui successivamente
attenersi.
Il Comune, atteso il principio di fruttuosità dei beni
pubblici immobiliari, chiede di conoscere un parere in
merito alla possibilità di assegnare gratuitamente o a
canone ridotto, ad un imprenditore, un bene facente parte
del patrimonio disponibile e, in caso di risposta positiva,
desidera sapere se l'assegnazione debba essere o meno
effettuata mediante procedura ad evidenza pubblica.
Precisa, altresì, che l'assegnazione avrebbe ad oggetto un
immobile destinato ad asilo nido [1]
e che l'amministrazione comunale non offre alcun servizio
analogo.
Il principio di fruttuosità dei beni pubblici, sancito per
lo Stato dall'articolo 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e
per i comuni dall'articolo 32, comma 8, della legge
23.12.1994, n. 724, [2]
impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio
patrimonio in modo da ottenere la massima redditività
possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere
dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le
predette disposizioni «sono la chiara espressione della
volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di
tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia
che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad
uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma
3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di
immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali
quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724
del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del
patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali - già
prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni - il
principio della redditività secondo valori di mercato
discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono
astretti gli enti pubblici». [3]
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di
gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento
sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle
dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire
che esse «devono mirare all'incremento del valore
economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore
redditività finale». [4]
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve
perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato
soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei
beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche
curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità
amministrata [5]».
[6]
La Corte dei conti, [7]
dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione
di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque
tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione
'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la
produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che
rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle
Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di
buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)»,
precisa che «è il legislatore stesso che traccia i
confini delle possibili eccezioni ai principi generali
appena richiamati». [8]
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate
eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...]
qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al
patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza e
pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che
dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il
che concerne, anche e primariamente, la scelta del
contraente cui concedere il bene in godimento)».
[9]
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione
assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario
del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la
Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che
appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate
condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato-
la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in
quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo
infruttifera, e dunque non in linea con il principio della
redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta
precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale
negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta
«nei confronti di attività di pubblico interesse,
strumentali alla realizzazione delle proprie finalità
istituzionali». [10]
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di
redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso
ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o
addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito
mediante lo sfruttamento economico dei beni».
[11]
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno
dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore
degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga
uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni
immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente
locale [12]
giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati,
in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della
discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del
proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo
evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che
intende perseguire con la stipula del negozio di comodato,
bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale
perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente
locale medesimo». [13]
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra
nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta
sulle modalità di gestione del proprio patrimonio
disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità
avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi
della comunità locale, nonché previa verifica della
compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo».
[14]
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione
del 'vantaggio economico' [15]
al destinatario del comodato si giustifica solo ed
esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite
dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune»
[16], a nulla
rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura
pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione
patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi
la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici
dell'ente locale»
[17].
[18]
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione
in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata
alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla
Corte dei conti.
Passando a trattare della seconda questione posta inerente
le modalità di individuazione del soggetto con cui stipulare
il contratto di comodato o di locazione a canone ridotto al
disotto dei normali prezzi di mercato, si rileva che, in
generale, «la concessione in uso gratuito di bene
immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un
Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un
'vantaggio economico' a favore di un soggetto di diritto
privato, anche se la disciplina codicistica del contratto di
comodato [...] pone a carico del comodatario le spese per
l'utilizzo del bene, con la diretta conseguenza che la
concessione risulta soggetta alle procedure amministrative
prescritte dall'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, in
materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici».
[19] Tale
articolo così recita: '1. La concessione di sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione
da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme
previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di
cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti
relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1'.
Segue che, ai fini dell'individuazione del soggetto con cui
stipulare il contratto di comodato o di locazione a prezzo
ridotto, l'Ente dovrà, previamente, indicare una serie di
criteri e modalità cui successivamente attenersi.
[20]
Si osserva che, con riferimento alla richiesta dell'Ente
circa la necessità di porre in essere una procedura ad
evidenza pubblica per individuare il contraente, la
giurisprudenza ha affermato, in generale, per tutti i
contratti pubblici l'osservanza dei principi dell'evidenza
pubblica di derivazione comunitaria per l'individuazione di
tale soggetto. [21]
Concludendo, in riferimento al caso in esame, preme
evidenziare, altresì, che, essendo già in essere un
contratto di locazione tra Comune e soggetto privato,
qualora l'Ente intenda modificare la tipologia contrattuale
in essere (non più locazione ma comodato o locazione a
prezzo ridotto) dovrà attendere la scadenza della stessa, o,
comunque, pervenire ad uno scioglimento per mutuo consenso o
per recesso [22]
per procedere, successivamente, ad una nuova attribuzione
dell'immobile nel rispetto delle condizioni sopra riportate.
In particolare, l'Ente, nell'esporre le ragioni sulla cui
base vorrebbe stipulare non più un ordinario contratto di
locazione ma uno a canone ridotto o, addirittura, un
contratto di comodato, dovrebbe adeguatamente indicare i
motivi di pubblico interesse sottesi a tale scelta, idonei a
giustificare la deroga al principio della fruttuosità dei
beni pubblici. [23]
---------------
[1] Va precisato che l'immobile in riferimento è,
attualmente, 'regolarmente locato' ad una società in
accomandita semplice che vi svolge l'attività di asilo nido.
[2] Il comma 8 dell'articolo 32 della legge 724/1994 così
recita: 'A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i
beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni
sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore,
determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei
beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di
mercato, fatti salvi gli scopi sociali'.
[3] Corte dei Conti, sezione II giurisdizionale centrale
d'appello, sentenza del 22.04.2010, n. 149.
[4] Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, parere del 05.10.2012, n. 716.
[5] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei
servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed
utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della
legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di
tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi
alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo
del territorio comunale, salvo quelle attribuite
espressamente dalla legge ad altri soggetti
istituzionali.»).
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[7] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[8] Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato
art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i
canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio
indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle
loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di
mercato, «fatti salvi gli scopi sociali», e l'art. 32, comma
1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti
locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di
loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle
associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di
volontariato per lo svolgimento delle loro attività
istituzionali.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in
termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014,
che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa
esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente
apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità
della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e
gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una
chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[10] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In
tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire,
però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra
i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla
discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che
dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del
provvedimento».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[12] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672
e 13.06.2011, n. 349.
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013,
n. 237.
[15] Si veda, al riguardo, la previsione di cui all'articolo
12 della legge 07.08.1990, n. 241.
[16] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[17] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n.
349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[18] Per completezza espositiva, si rinvia, anche, alla
legge regionale 18.08.2000, n. 20, recante 'Sistema
educativo integrato dei servizi per la prima infanzia', la
quale, all'articolo 10, declina una serie di attività
spettanti ai Comuni, volte al perseguimento delle finalità
poste dalla legge in riferimento, e consistenti nel voler
garantire il pieno esercizio dei diritti riconosciuti alle
bambine e ai bambini di età compresa tra i tre mesi e i tre
anni.
[19] Così, ANCI parere del 03.09.2014.
[20] Tra questi l'amministrazione potrebbe valutare
l'inserimento della previsione dell'accollo, da parte del
comodatario, di tutti gli oneri di manutenzione
dell'immobile dato in comodato. Ciò in quanto la Corte dei
Conti, in una propria pronuncia (Sez. reg.le contr. Puglia,
parere n. 170/2013, cit.), relativa all'ipotesi in cui il
comodante era un ente locale, dopo aver richiamato il
principio di redditività dei beni pubblici, ne ha ricavato
la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da
«qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso». Ancorché
si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni
immobili dello Stato, si vedano, altresì, gli artt. 10,
comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della
Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono,
rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo
gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni
immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e
straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti
soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui
all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in
locazione a canone agevolato per finalità di interesse
pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi
sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze
primarie della collettività e in ragione dei princìpi
fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]».
[21] Specificamente per la locazione, il Giudice
amministrativo (TAR Pescara, Sez. I, sentenza del
05.11.2008, n. 878) ha affermato che, anche in assenza di
specifica disposizione normativa che imponga l'adozione di
procedure concorrenziali per la selezione del contraente
privato, l'amministrazione deve osservare i fondamentali
canoni della trasparenza, dell'imparzialità e della par
condicio (sul tema si veda, anche, TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. II, sentenza del 21.05.2008, n. 1978). Vero è
che, con riferimento al contratto di comodato, pare che il
rispetto di tali principi possa attuarsi osservando ed
applicando quei criteri predisposti in sede regolamentare,
l'applicazione dei quali dovrebbe consentire di attribuire
il bene, in presenza di una pluralità di richiedenti, a
colui che meglio pare soddisfare le esigenze della Pubblica
Amministrazione.
[22] Si osserva che l'articolo 27, commi settimo e ottavo,
della legge 27.07.1978, n. 392, prevede la possibilità, per
il conduttore, di recedere dal contratto nel caso in cui una
tale possibilità sia prevista contrattualmente o,
indipendentemente dalle previsioni contrattuali, qualora
ricorrano gravi motivi.
[23] Al riguardo, spetta all'Ente, in relazione alla
situazione concreta, esplicitare le ragioni che
giustificherebbero la stipulazione di un contratto non
comportante più un introito economico per lo stesso (o,
comunque, di entità ridotta rispetto ai valori di mercato).
Ad esempio, la determinazione di un canone di locazione
ridotto al di sotto dei normali prezzi di mercato potrebbe
risultare giustificata a fronte della previsione, nella
convenzione intercorrente tra il Comune ed il soggetto
gestore dell'asilo nido, di vantaggi ulteriori per la
collettività comunale, anche sotto il profilo delle tariffe
a carico dell'utenza. Ancora, si potrebbe presentare il caso
in cui, a fronte di una mutata situazione di fatto (minori
iscrizioni al nido; maggiori costi di gestione) non vi siano
più le condizioni per il mantenimento in vita del servizio
di asilo. In tale ultimo caso, spetta al Comune valutare se
la situazione prospettata sia oggettivamente tale da
giustificare e ritenere fondato il cambiamento di tipologia
contrattuale
(20.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE:
Art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012. Approvvigionamento di
carburanti.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012,
stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento
da parte delle pubbliche amministrazioni di determinate
categorie merceologiche, tra cui i carburanti.
Per detti beni, la norma in commento prevede l'obbligo di
approvvigionamento mediante le Convenzioni Consip o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali
di committenza regionali, ovvero attraverso autonome
procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando
i sistemi telematici di negoziazione resi disponibili dai
soggetti indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad
affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre
centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica,
a condizione che gli stessi prevedano corrispettivi
inferiori a quelli indicati nelle convenzioni o accordi
quadro messi a disposizione da Consip Spa e dalle centrali
di committenza regionali, avuto riguardo allo specifico
parametro dei prezzi dei beni o servizi che devono essere
più bassi ('corrispettivi inferiori').
Il Comune pone la questione dell'acquisizione di carburanti,
alla luce di quanto previsto dall'art. 1, comma 7, D.L. n.
95/2012 [1],
in particolare sulla sussistenza dell'obbligo di acquisto a
mezzo convenzione Consip anche in caso di dimostrabile anti
economicità della fornitura per ragioni di maggiori distanze
dei fornitori Consip e dunque di maggior impiego di tempo,
mezzi e persone.
Al riguardo, il Comune chiede di sapere se ci siano
aggiornamenti rispetto a quanto già affermato da questo
Servizio nella nota prot. n. 2679/2013 [2].
Per chiarezza espositiva, si ritiene utile riportare i
contenuti della nota richiamata dal Comune, di sintesi del
quadro normativo di interesse, rilevando, sin da adesso, che
non si riscontrano nuovi elementi, provenienti da pronunce
giurisprudenziali o da circolari esplicative dei competenti
organi statali, che consentano di discostarsi da quanto già
espresso.
L'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, stabilisce una
disciplina speciale per l'approvvigionamento da parte delle
pubbliche amministrazioni di beni, quali energia elettrica,
gas, carburanti (per quanto qui di interesse), combustibili
per riscaldamento e telefonia.
Il comma 7 richiamato prevede che la fornitura dei predetti
beni avvenga utilizzando le convenzioni o gli accordi quadro
messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza
regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel
rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione resi disponibili dai soggetti
indicati.
In alternativa, sussiste la possibilità di procedere ad
affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre
centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i
cui corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi)
rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro
messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di
committenza. In tale caso, i contratti devono essere
sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di
adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui
intervengano convenzioni Consip e delle centrali regionali
di committenza che prevedano condizioni economiche di
maggiore vantaggio.
L'art. 1, comma 8, D.L. n. 95/2012, stabilisce che sono
nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa i contratti stipulati in
violazione di quanto previsto dal comma 7.
A ben vedere, il tenore letterale dell'art. 1, comma 7, D.L.
n. 95/2012, subordina la possibilità di procedere ad
affidamenti sul libero mercato alla duplice condizione che
gli stessi conseguano a procedure ad evidenza pubblica e
prevedano corrispettivi inferiori a quelli indicati nelle
convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip
S.p.a. e dalle centrali di committenza regionali.
In particolare, la procedura ad evidenza pubblica deve
determinare condizioni contrattuali più convenienti, avuto
riguardo allo specifico parametro previsto dei prezzi dei
beni o servizi, che devono essere più bassi ('corrispettivi
inferiori'). Mentre, non sono contemplati, nella norma
in commento, altri indici di risparmio di spesa pubblica,
quali, nel caso di specie, potrebbero essere i risparmi sui
costi accessori derivanti dalla maggiore lontananza dei
distributori di carburante convenzionati Consip. Un tanto si
osserva, fermo restando che, comunque, la norma in commento
non consente alle pubbliche amministrazioni di
approvvigionarsi da altri fornitori se non previo
esperimento di procedure ad evidenza pubblica.
Per come formulato l'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, non è
dato, dunque, in questa sede, di assumere una posizione
diversa da quella espressa nella precedente nota prot. n.
2679/2013, non essendo ad oggi intervenuti, come sopra
anticipato, rilievi giurisprudenziali o indicazioni
ministeriali che possano giustificare un'apertura rispetto
agli obblighi di approvvigionamento ivi previsti.
Sulla questione, è stata, invero, chiamata a rendere parere
la Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Umbria [3],
che, peraltro, non ha offerto una soluzione di merito allo
specifico riguardo. In particolare, il comune che ad essa si
era rivolto aveva chiesto di poter derogare all'obbligo
previsto dall'art. 1, comma 7, D.L. n. 95/2012, in quanto la
fornitura di carburanti presso distributori non rientranti
nella convenzione Consip avrebbe consentito, a suo dire, un
risparmio di spesa pari ai costi accessori dovuti alla
maggiore distanza dal Comune dei distributori previsti dalla
convenzione Consip.
La Corte dei conti dell'Umbria ha ritenuto inammissibile la
richiesta sotto il profilo oggettivo in quanto relativo alla
possibilità di derogare agli obblighi derivanti dalla
normativa vigente in materia di forniture di carburanti alle
pubbliche amministrazioni.
Specificamente, la Corte dei conti ha rilevato che
trattavasi di un quesito concernente uno specifico caso di
gestione e non limitato, come dovrebbe essere, a temi di
carattere generale in materia di contabilità pubblica
[4], ma
comportante di fatto valutazioni relative all'adeguatezza
delle specifiche scelte gestionali, sia di natura tecnica
che contabile, da adottarsi da parte dell'ente, per cui,
eventuali sue pronunce avrebbero contrastato con i principi
e le modalità per l'esercizio dell'attività consultiva della
Corte dei conti.
--------------
[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese nel settore bancario'.
[2] La nota è rinvenibile all'indirizzo web della Regione
FVG: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[3] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l'Umbria, Perugia, parere n. 241 del 30.11.2012.
[4] La Corte dei conti Umbria richiama, in questo senso, i
principi e le modalità per l'esercizio dell'attività
consultiva, fissati dalla Sezione delle Autonomie, adunanza
del 27.04.2004
(04.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso agli atti. Quesito.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con la quale
codesta Prefettura, nel trasmettere la nota del segretario
del Comune di …, ha chiesto un parere in ordine al diritto
di accesso esercitato da un movimento politico che ha
presentato istanza per la visione e l’estrazione di copia
degli elenchi di atti risalenti agli anni 1987, 1993 e 2001.
Al riguardo, conformemente a quanto già espresso con il
parere di questo Ufficio del 22.07.2014, richiamato dal
segretario comunale, si osserva che l’articolo 10 del
decreto legislativo n. 267/2000 -che disciplina il diritto
di accesso e informazione, rafforzando il diritto alla
trasparenza dell’azione amministrativa locale per il
cittadino, singolo o associato,- dispone che tutti gli atti
dell’amministrazione comunale sono pubblici.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale norma non
intende, comunque, radicare un interesse generico alla
legittimità dell’azione amministrativa attraverso un
controllo generalizzato degli atti da parte del cittadino o
di associazioni, che soggiacerebbe alla disciplina dettata
dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha
precisato, che ai sensi del richiamato art. 10, è consentito
al cittadino residente di accedere agli atti amministrativi
dell’ente locale di appartenenza senza alcun condizionamento
e senza necessità della previa indicazione delle ragioni
della richiesta, dovendosi solo rispettare la segretezza
degli atti la cui esibizione è vietata dalla legge e
tutelare la riservatezza dei terzi.
Occorre, altresì, tenere conto delle vigenti disposizioni
che impongono gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni, come dettate in particolare dagli articoli
5 e 9 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che
prevedono, tra l’altro, il diritto di chiunque di richiedere
documenti, informazioni o dati.
Pertanto, si ritiene che la specifica norma sull’accesso
agli atti degli enti locali, contenuta nel decreto
legislativo n. 267/00, non sia soggetta alle limitazioni
previste dalla legge n. 241/1990 che impongono la
dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di
un provvedimento emesso e detenuto dalla pubblica
amministrazione.
A supporto di tale orientamento soccorre, altresì, la
decisione del 17.01.2013 resa dalla Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi, secondo la quale le
disposizioni di cui alla legge n. 241/1990 recedono di
fronte alla norma di cui all’art. 10 del T.U.O.E.L. che, in
quanto norma speciale, prevale rispetto alla disciplina
generale.
La predetta Commissione, con la determinazione del plenum
del 15.03.2011 ha riconosciuto la legittimità della
richiesta di accesso avanzata da un movimento politico
culturale, con sede nel Comune a cui è rivolta la richiesta,
ritenendo peraltro, che l’esercizio del diritto di cui
all’art. 10 del T.U.O.E.L. non è correlato alla titolarità
di alcuna situazione giuridicamente rilevante né necessita
di adeguata motivazione.
Anche il Difensore civico della Regione Abruzzo con
determinazione 1.9.9/2012 ha ritenuto legittimo l’accesso
agli atti di un comune da parte di un Circolo politico in
quanto espressione diretta di un movimento politico
nazionale e locale che si identifica pienamente tra i
soggetti privati portatori di interessi diffusi.
Si ritiene, pertanto, che l’accesso agli atti richiesti,
qualora si trovino nella disponibilità effettiva dell’Ente,
non possa essere negato.
Riguardo alla lamentata gravosità delle richieste, si
ritiene, sulla scorta di quanto previsto anche per
l’esercizio del diritto da parte dei consiglieri comunali,
che occorra disporre misure idonee a garantire il minor
aggravio possibile per gli uffici comunali attraverso
modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento
dell’Ente.
Infatti il diritto si esercita con il limite di potere
soddisfare la richiesta secondo i tempi necessari per non
determinare interruzione delle altre attività di tipo
corrente
(Ministero
dell'Interno,
parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Sottoscrizione di deliberazioni consiliari da
parte del consigliere anziano. Quesito.
Si fa
riferimento alla nota sopradistinta con la quale codesta
Prefettura, in relazione ad un quesito del Segretario del
Comune di oggetto, ha chiesto il parere in ordine alla
legittimità del rifiuto di controfirmare due deliberazioni
consiliari opposto dal consigliere comunale anziano, il
quale ha invece regolarmente sottoscritto i relativi verbali
delle sedute consiliari.
Al riguardo, si evidenzia che l’articolo 38 del decreto
legislativo n. 267/2000 al comma 2 dispone che “il
funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento”,
mentre il comma 3 prevede, altresì, che “i consigli sono
dotati di autonomia funzionale e organizzativa”.
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato
decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle
deliberazioni, essendo invece prevista, all’art. 124 la sola
obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all’albo
pretorio.
Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni interne di cui
l’ente si è dotato, in virtù proprio del rimando di cui
all’art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
L’art. 22 dello statuto comunale demanda la sottoscrizione
del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale,
al sindaco ed al consigliere anziano.
I citati soggetti, ai sensi del successivo articolo 23
sottoscrivono anche le deliberazioni comunali.
L’articolo 42 del regolamento consiliare, al comma 6,
ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal
Presidente, dal Consigliere anziano e dal Segretario
comunale. Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma
che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni.
Nella fattispecie prospettata, tuttavia, l’obbligo di firma
delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano
scaturisce proprio dallo statuto comunale che, al richiamato
articolo 23, dispone testualmente che le deliberazioni del
consiglio comunale sottoscritte dai soggetti di cui all’art.
22, comma 1, tra i quali rientra anche il consigliere
anziano.
Si ritiene, altresì, opportuno evidenziare, che la
sottoscrizione del provvedimento deliberativo ai fini della
pubblicazione, assume una mera funzione certificativa della
regolarità formale dell’atto.
Si fa riferimento alla nota sopradistinta con
la quale codesta Prefettura, in relazione ad un quesito del
Segretario del Comune di oggetto, ha chiesto il parere in
ordine alla legittimità del rifiuto di controfirmare due
deliberazioni consiliari opposto dal consigliere comunale
anziano, il quale ha invece regolarmente sottoscritto i
relativi verbali delle sedute consiliari.
Al riguardo, si evidenzia che l’articolo 38 del decreto
legislativo n. 267/2000 al comma 2 dispone che “il
funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento”,
mentre il comma 3 prevede, altresì, che “i consigli sono
dotati di autonomia funzionale e organizzativa”.
Nessuna particolare indicazione è contenuta nel citato
decreto legislativo in ordine alla sottoscrizione delle
deliberazioni, essendo invece prevista, all’art. 124 la sola
obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all’albo
pretorio.
Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni interne di cui
l’ente si è dotato, in virtù proprio del rimando di cui
all’art. 38, nonché alle disposizioni di carattere generale.
L’art. 22 dello statuto comunale demanda la sottoscrizione
del verbale di riunione di consiglio al segretario comunale,
al sindaco ed al consigliere anziano.
I citati soggetti, ai sensi del successivo articolo 23
sottoscrivono anche le deliberazioni comunali.
L’articolo 42 del regolamento consiliare, al comma 6,
ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal
Presidente, dal Consigliere anziano e dal Segretario
comunale. Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma
che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni.
Nella fattispecie prospettata, tuttavia, l’obbligo di firma
delle deliberazioni anche da parte del consigliere anziano
scaturisce proprio dallo statuto comunale che, al richiamato
articolo 23, dispone testualmente che le deliberazioni del
consiglio comunale sottoscritte dai soggetti di cui all’art.
22, comma 1, tra i quali rientra anche il consigliere
anziano.
Si ritiene, altresì, opportuno evidenziare, che la
sottoscrizione del provvedimento deliberativo ai fini della
pubblicazione, assume una mera funzione certificativa della
regolarità formale dell’atto
(Ministero dell'Interno,
parere 04.03.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Il Vice Sindaco di un comune nel far presente che
l’ente ha in forza lavoratori LSU stabilizzati co.co.co. ha
chiesto se sia possibile munire gli stessi di badge
marcatempo al fine di verificare la presenza, senza che gli
stessi abbiano la possibilità di rivendicare diritti di
assunzione, tenuto conto che gli stessi attualmente firmano
su fogli di presenza.
Con una nota il vice sindaco di un Comune, nel far presente
che l’ente ha in forza lavoratori LSU ed altri ex LSU
stabilizzati con contratti di co.co.co., ha chiesto di
conoscere se sia possibile munire gli stessi di badge
marcatempo al fine di verificarne la presenza, senza che ciò
comporti da parte degli stessi la possibilità di rivendicare
diritti di assunzione, tenuto conto che attualmente gli
stessi firmano su fogli di presenza.
Si fa, preliminarmente, presente che, com’è noto, le
pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di dotarsi di
sistemi di rilevazione per il controllo automatizzato
dell’orario di lavoro. Ciò per ottenere un’efficace
razionalizzazione delle proprie risorse finanziarie, con
attribuzione del trattamento accessorio solo allorché il
lavoro sia effettivamente prestato, e per attuare una
maggiore trasparenza nel rapporto fra le predette
amministrazioni, i dipendenti e i cittadini.
Ciò posto si rileva che il lavoratore dipendente è tenuto ad
osservare l’orario di lavoro e non può assentarsi senza
giustificato motivo. Invero, l’inosservanza dell’orario di
lavoro oltre a determinare una fattispecie di responsabilità
disciplinare, determina una situazione debitoria per la
mancata prestazione lavorativa.
Anche i lavoratori socialmente utili, seppur non dipendenti,
sono sottoposti ad una serie di doveri, solitamente indicati
nei disciplinari regionali relativi all’utilizzazione dei
predetti lavoratori. Tra tali doveri rientra quello
dell’osservanza l’orario di lavoro e dell’osservanza delle
disposizioni di natura formale che attestino detto orario.
In tale contesto non osta la possibilità di dotare di badge
i lavoratori in questione.
A tal proposito giova richiamare la sentenza n. 12738/2010
con la quale la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha
chiarito che il dipendente non può essere obbligato a
firmare il registro cartaceo delle presenze, qualora sia
utilizzato il sistema di rilevazione a mezzo badge.
Per quanto riguarda i lavoratori ex LSU stabilizzati con
contratti di co.co.co. giova rammentare che la natura “autonoma”
di dette collaborazioni comporta di per sé l’impossibilità
di considerare come un obbligo la prestazione oraria e il
relativo controllo delle presenze. Infatti, se è pur vero
che potrebbe essere necessario un inserimento del
collaboratore nell'organizzazione dell’ente, poiché debbono
essere garantiti uno o più risultati continuativi che si
integrino in tale organizzazione, ciò dovrà comunque
avvenire in presenza di una gestione autonoma del tempo di
lavoro da parte del collaboratore.
In altri termini, l'attività del collaboratore potrebbe
anche svolgersi in un luogo diverso da quello nel quale
opera l'organizzazione che fa capo al committente, venendo
questi in contatto con l'organizzazione solo nei tempi utili
allo svolgimento della sua collaborazione. Conseguentemente,
l’eventuale utilizzo del badge per detti lavoratori, ad
avviso dello scrivente, potrebbe avvenire solamente tenendo
conto dell’autonomia della prestazione lavorativa ovvero al
solo scopo identificativo
(Ministero
dell'Interno,
parere 23.02.2015 - link a http://incomune.interno.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
OGGETTO: Costituzione in giudizio
dell’amministrazione e refusione delle spese legali a
dipendenti assolti ex art. 425 c.p.p.. Richiesta di parere.
Con una nota una Amministrazione ha fatto presente di non
aver provveduto al rimborso delle spese legali sostenute da
alcuni dipendenti, sottoposti nell’anno 2005 a procedimento
penale per i reati di cui agli artt. 81 c.p.v., 479 c.p. in
relazione all’art. 476, comma 2, c.p., e prosciolti, nel
2007, con la formula “perché il fatto non sussiste”
ex art. 425 c.p.p., atteso il parere negativo espresso
dall’Avvocatura comunale che non ravvisò la sussistenza dei
presupposti richiesti dall’art. 28 del C.C.N.L. 14.05.2000.
All’epoca dei fatti, l’Ente si costituì in giudizio e,
contestualmente, l’organo disciplinare interno provvide ad
attivare regolare procedimento disciplinare nei confronti
dei dipendenti medesimi. Poiché i dipendenti, citati in
giudizio dall’avvocato per il pagamento dell’onorario, che
ammonta ad una cifra cadauno, si sono costituiti chiamando
in causa il comune, si è riproposta la questione sulla
accoglibilità della citata richiesta. Viene chiesto, in
particolare, di conoscere se in presenza della su accennata
pronuncia di proscioglimento, che ha escluso la
responsabilità del dipendente, l’Ente sia tenuto a detto
rimborso; se la comunicazione della scelta dell’avvocato sia
da considerarsi come coinvolgimento dell’Ente nella scelta
stessa, oltre, infine a voler conoscere un giudizio di
congruità sulle spese legali chieste dall’avvocato
difensore.
Al riguardo, si fa presente che il citato art. 28 del CCNL
14.05.2000, disciplinante la materia per il personale di
qualifica non dirigenziale, testualmente dispone che: “l’ente
anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si
verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità
civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti
o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, assumerà a proprio
carico, a condizione che non sussista conflitto di
interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del
procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale
di comune gradimento.”
L’assunzione dell’onere relativo all’assistenza legale dei
dipendenti, pertanto, non è automatico ma presuppone alcune
valutazioni che si ricavano dalla formulazione dell’articolo
medesimo, valutazioni volte ad accertare il rispetto
dell’interesse dell’ente di assicurare una buona
amministrazione delle risorse economiche e di tutelare il
proprio decoro e la propria immagine.
L’esatto adempimento delle statuizioni del predetto art. 28
obbliga l’ente, prima di convenire di assumere a proprio
carico ogni onere di difesa in un procedimento di
responsabilità civile o penale aperto nei confronti di un
proprio dipendente, a valutare la sussistenza delle seguenti
condizioni: necessità di tutelare i propri diritti e i
propri interessi; insussistenza di conflitto di interessi
con il dipendente come in tutti i casi in cui questi abbia
posto in essere atti illegittimi; che si tratti di atti
posti in essere dal dipendente durante l’espletamento del
servizio e per l’adempimento dei compiti d’ufficio.
L’amministrazione, dunque, ha l’onere di verificare se
l’imputazione riguardi un’attività svolta in diretta
connessione con i fini del comune e sia imputabile all’ente
stesso, nonché di accertare la inesistenza di un conflitto
di interesse, valutato non solo sotto il profilo della
responsabilità penale, ma anche sotto i profili disciplinare
e amministrativo per mancanze attinenti al compimento dei
doveri d’ufficio.
Alla luce dei principi illustrati e relativamente al caso
prospettato, la circostanza che codesto Ente si sia
costituito parte civile e, allo stesso tempo, abbia attivato
la procedura disciplinare nei confronti dei dipendenti,
sembrerebbe deporre per l’esistenza di un conflitto di
interessi tra l’ente e i dipendenti interessati (Cfr. Corte
di Cassazione, sent. n. 13624/2002), che non consentono
l’assunzione dell’onere della difesa.
In ogni caso, secondo un orientamento giurisprudenziale
consolidato, si ritiene che codesta Amministrazione debba
attentamente valutare, che il requisito dell’assenza del
conflitto di interesse, condizione per poter procedere al
rimborso, emerga chiaramente alla conclusione del
procedimento penale, tenendo conto non solo della formula
assolutoria della sentenza, ma anche da tutte le circostanze
del caso, in relazione alle caratteristiche concrete del
fatto e delle specifiche finalità che hanno spinto il
dipendente a porlo in essere.
Relativamente al giudizio di congruità sulle spese legali
richieste, si fa presente che la Corte dei Conti Sez. Reg.
Lombardia, nel parere 514/2010, ha affermato l’opportunità,
se non la necessità, che la parcella delle spese, da
produrre a corredo dell’istanza di rimborso oltre alla
fattura debitamente quietanzata dal professionista, rechi il
parere di congruità dell’Ordine forense.
A tale proposito, si è dell’avviso che la semplice
comunicazione all’amministrazione della scelta dell’avvocato
fatta dai dipendenti, non assolva alla condizione posta
dalla norma secondo la quale il professionista deve essere
scelto preventivamente e concordemente tra le parti (cfr.
Cons. di Stato, sez. V, n. 552/2007)
(Ministero
dell'Interno,
parere 15.03.2012 - link a http://incomune.interno.it). |
NEWS |
APPALTI:
Un albo dei direttori dei lavori. Annullabili in
autotutela le gare a rischio corruzione.
In aula al Senato le proposte dei relatori al
disegno di legge delega sugli appalti.
Albo nazionale dei commissari di gara obbligatorio, così
come quello dei direttori lavori delle grandi opere;
spostamento dell'Avcpass (strumento che serve per la
verifica dei requisiti) presso il Ministero delle
infrastrutture; Cantone potrà annullare in autotutela le
gare a rischio corruzione; braccio di ferro sull'obbligo di
gara per gli appalti dei concessionari.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo sui quali
si sta focalizzando la discussione del testo del disegno di
legge delega sugli appalti
(Atto
Senato n. 1678)
che l'aula del Senato ha iniziato ad esaminare ieri,
partendo della relazione orale dei due relatori Stefano
Esposito e Marco Pagnoncelli.
L'articolato, come risultante dal lavoro condotto in
commissione lavori pubblici, contiene 61 criteri di delega e
risulta ben più preciso e vincolante per il lavoro che il
Governo dovrà svolgere, rispetto al testo iniziale approvato
dal Consiglio dei ministri del 29 agosto. Sono circa 200 gli
emendamenti presentati in Aula dai diversi gruppi, ma la
forte accelerazione impressa ai lavori dovrebbe portare a
limitate modifiche di cui, peraltro, si sono fatti carico
anche i due relatori che in queste ultime ore hanno
presentato alcune proposte di modifica.
In particolare una prima correzione tocca le banche dati che
dovranno essere utilizzate dalle stazioni appaltanti per
verificare i requisiti: secondo la proposta depositata in
aula la suddivisione delle competenze sarà tale da spostare
presso il Ministero delle infrastrutture lo strumento dell'Avcpass
e l'unificazione di tutte le altre banche dati presso
l'Autorità nazionale anticorruzione.
Rimanendo all'authority presieduta da Raffaele Cantone –che
dovrà anche definire i criteri reputazionali per qualificare
le imprese– i relatori hanno precisato che l'albo nazionale
dei commissari di gara deve essere obbligatorio per tutti i
casi in cui si deve nominare una commissione (anche se il
sorteggio dei candidati a commissario sarebbe bene affidarlo
alla stessa authority e non alle singole stazioni
appaltanti).
Sulla norma che ammette l'annullamento di una gara in caso
di fenomeni corruttivi e l'esperimento di una nuova
procedura (rinnovazione della gara), in alternativa al
commissariamento dell'azienda, i due relatori prevedono
l'attribuzione di questo potere direttamente al Presidente
Anac e non più all'Autorità nel suo complesso. Diventa
obbligatorio anche l'albo nazionale dei direttori dei lavori
delle grandi opere: non saranno le stazioni appaltanti a
fare la richiesta di nomina, ma il Ministero delle
infrastrutture a fornire i candidati da scegliere, presi
dall'albo.
Sul tema delle concessioni, elemento di particolare rilievo
e delicatezza sul quale la linea scelta in commissione è
stata quella di obbligare tutti i concessionari di lavori e
di servizi pubblici (con una moratoria di 12 mesi) ad
affidare a terzi lavori, servizi e forniture, i relatori
hanno proposto di escludere le concessioni affidate con la
formula della finanza di progetto, ma già qualche
subemendamento ha chiesto di estendere l'esclusione a tutte
le concessioni affidate in gara (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: Accesso
limitato al Durc online. Nella prima fase alcuni soggetti
delegati non potranno avviare la verifica.
Contributi. Dal ministero del Lavoro le prime indicazioni
operative: confermata la correzione delle scoperture in 30
giorni.
Durc online ma non per
tutti. Con la
circolare 08.06.2015 n. 19/2015 pubblicata dal
Ministero del
Lavoro continua la fase di assemblaggio del puzzle di regole
che –dal 1° luglio– consentiranno l’operatività del
documento unico di regolarità contributiva online.
Il quadro tracciato dai primi provvedimenti (oltre alla
circolare 19, c’è il messaggio Inps 45482) evidenzia come la
nuova modalità del Durc telematico partirà depotenziata
rispetto all’intento indicato dal legislatore nel Dl
34/2014, ossia la completa sburocratizzazione del processo
vigente: infatti, chiarendo la platea abilitata alla
verifica del Durc online, viene specificato che «in una
prima fase di applicazione della nuova disciplina» non
potranno accedere al sistema i soggetti terzi interessati
alla richiesta di regolarità che siano stati delegati dalle
aziende e dai lavoratori autonomi, fatte salve le figure
individuate ai sensi della legge 12/1979, le quali sono già
abilitate per legge allo svolgimento degli adempienti di
carattere lavoristico e previdenziale.
Solo in un secondo tempo i soggetti indicati –al pari delle
banche e degli intermediari finanziari (in particolari
fattispecie)– potranno servirsi del sistema del documento
unico di regolarità contributiva online, dietro apposita
delega che dovrà essere comunicata a cura del delegante agli
istituiti coinvolti dalla verifica della regolarità: sul
punto la procedura potrà rivelarsi macchinosa e dovranno
essere create delle implementazioni ad hoc.
Inoltre, al di là dell’esclusione iniziale di alcuni
soggetti dal nuovo sistema, in via transitoria e fino al 31.12.2016, laddove la verifica “in tempo reale” non sia
possibile per via della carenza di dati negli archivi degli
enti coinvolti, si potranno continuare ad utilizzare le
vigenti modalità di rilascio del Durc, nel rispetto però
delle regole aggiornate secondo il Dm del 30.01.2015.
L’altra novità rilevante che emerge tra le pieghe della
circolare 19 è che –come traspariva già dal messaggio Inps
45482– in tutte le ipotesi in cui dall’interrogazione del
sistema non risultino posizioni “cristalline” di regolarità,
la procedura si esaurirà nei successivi 30 giorni, come
avviene nel sistema vigente.
L’impostazione è positiva per quei soggetti che, trovandosi
in una situazione di irregolarità e ricevuto il preavviso
per sistemare le scoperture (con 15 giorni di tempo),
potranno comunque far generare il Durc online, qualora
effettuino i pagamenti dovuti prima del 30° giorno dalla
data della prima richiesta: infatti, prima di tale scadenza
–nelle fattispecie descritte– gli Istituti coinvolti non
potranno dichiarare l’irregolarità.
La circolare interviene altresì a chiarire alcuni aspetti
tecnici. Con riferimento al requisito della regolarità, ad
esempio, non potranno essere considerate positive al
rilascio del Durc quelle condotte omissive laddove il
soggetto interessato -al quale sia stato spedito l’invito a
regolarizzare- non abbia presentato le denunce contributive
o le abbia presentate con importo pari a zero, ovvero con
contenuto privo degli elementi necessari: il sistema
riporterà così l’esito di irregolarità, specificando
l’informazione dell’omissione con importo pari a zero.
Invece per le aziende di recente costituzione, poiché la
verifica opera con riferimento ai pagamenti scaduti sino
all’ultimo giorno del 2° mese antecedente a quello della
stessa, l’interrogazione del sistema indicherà la data di
decorrenza dell’iscrizione agli enti, senza attestare la
regolarità, in quanto non rilevabile.
Resta, infine, confermato, anche nell’impianto del Durc
online, l’intervento sostituivo delle stazioni appaltanti
pubbliche, nel caso in cui l’esito irregolare rilevi
posizioni a debito e ove ne ricorrano i presupposti di
legge (articolo Il Sole 24 Ore del
09.06.2015). |
CONDOMINIO -
ESPROPRIAZIONE:
Espropri, coinvolgimento ampio. L’intesa sul risarcimento
deve essere approvata all’unanimità.
Azioni amministrative. Notifiche ai singoli comproprietari -
Possibili ricorsi al Tar e alla Corte d’appello.
L’esproprio per pubblica
utilità entra in condominio: a Milano per la linea 4 della
metrò, sono già arrivate le prime notifiche. Il problema è
comunque diffuso anche altrove, perché più in generale il
processo espropriativo permette alla pubblica
amministrazione di ottenere la proprietà di beni necessari
per la realizzazione di opere d’ interesse pubblico.
I beni possono essere acquisiti dalla Pubblica
amministrazione con il consenso del proprietario (cessione
volontaria) o senza, mediante l’esercizio del potere
autoritativo che le compete. Il naturale interlocutore della
Pubblica amministrazione per tutto il procedimento sia il
legittimo proprietario del bene da espropriare.
Cosa accade nel caso in cui il bene da espropriare sia un
terreno di proprietà condominiale? Il condominio ha una
soggettività limitata e può disporre della cosa comune per
la gestione, non potendola alienare:per la vendita di un
bene condominiale è infatti necessario il consenso di tutti
i condòmini.
La procedura espropriativa, incidendo sul diritto di
proprietà ,dovrà pertanto essere indirizzata nei confronti
di tutti i comproprietari e non direttamente nei confronti
del condominio che ha solo dei limitati poteri di controllo
sulla regolarità della procedura.
Agli espropriati sono consentiti, in linea di massima, tre
tipi di tutela nei confronti dell’Autorità espropriante.
La prima tutela riguarda la valutazione della pubblica
utilità la cui sussistenza giustifica l’esproprio. Gli
interessati possono dimostrare che l’opera da realizzare non
soddisfa un reale interesse pubblico , o che potrebbe essere
utilizzato altro terreno più idoneo. Questo di tipo di
contestazione deve essere indirizzata al Tar o su richiesta
del condominio, la cui soggettività è idonea a svolgere
azioni legali a tutela del godimento comune, oppure su
richiesta del singolo condòmino, anch’egli intitolato del
pieno diritto di difendere la sua comproprietà.
La seconda tipologia di tutela è legata il rispetto delle
regole del procedimento espropriativo. Il Testo Unico sugli
espropri (Dl 327/2001) scandisce tempi e modalità del
procedimento espropriativo, la cui mancata osservanza può
essere utilmente contestata innanzi al Giudice
amministrativo. Anche in questo caso il ricorso potrà essere
proposto sia dal condominio che dal singolo condòmino,
essendo entrambi portatori di interesse meritevole di
tutela.
La terza e ultima categoria di contestazioni riguarda la
misura del «ristoro» da assicurare al soggetto espropriato.
Le problematiche legate alla misura dell’indennizzo dovuto
sono affidate al giudice ordinario, con un giudizio speciale
che si svolge direttamente in Corte d’appello.
In linea di massima dobbiamo ricordare come all’espropriato
oggi competa, finalmente, il valore venale del bene al
momento dell’esproprio. Questo è il punto di arrivo cui si è
giunti dopo due celebri sentenze dalla Corte costituzionale
(348 e 349/2007) che hanno sgombrato il campo da tutte le
disposizioni che limitavano , a volte in modo pesantissimo,
le aspettative di ristoro degli espropriati.
I privati possono, ed è anzi auspicabile, partecipare al
procedimento trovando con la Pubblica amministrazione
un’intesa sulla misura del ristoro.
Il legislatore, in tal caso, al fine di dissuadere gli
interessati da lunghe e socialmente onerose controversie
giudiziarie, assicura a quanti raggiungono un accordo una
premialità pari al 10% del valore del bene.
Nel caso di area condominiale la stima dovrà necessariamente
essere accettata da tutti i condòmini individualmente e non
basterà il consenso o la valutazione positiva del condominio
a maggioranza .
Qualora non si riesca ad arrivare ad un accordo e la misura
dell’indennità offerta sia oggetto di contestazione, il
giudizio dovrà essere promosso dai singoli condòmini,
essendo da escludere la legittimazione del condominio.
Nel caso la stima dell’area risulti significativamente più
alta di quanto in prima battuta offerto, l’espropriante
verrà condannato a pagare, oltre le spese di processo, anche
il 10% di premialità di cui gli espropriati avrebbero potuto
beneficiare se fosse stata loro offerta una stima congrua.
È importante segnalare , infine , che gli effetti della
sentenza, positivi o negativi che siano, si produrranno solo
nei confronti dei condòmini che hanno partecipato alla lite.
Della nuova e diversa stima non beneficeranno,
conseguenzialmente, i condòmini che non hanno proposto
opposizione nei termini, accettando con «acquiescenza»
l’indennità loro offerta.
---------------
in sintesi
01 GLI INTERESSATI
La procedura espropriativa dovrà essere indirizzata a tutti
i condòmini individualmente e non al condominio
02 L’OPPOSIZIONE
La prima tutela (al Tar) permette di provare che non c’è la
«pubblica utilità» la cui sussistenza giustifica
l’esproprio. La seconda tutela è legata al rispetto delle
regole formali del Dpr 327/2001 , che scandisce tempi e
modalità del procedimento (sempre
davanti al Tar)
03 IL RISARCIMENTO
Il «ristoro» è al valore venale del bene al momento
dell’esproprio; i privati possono trovare un’intesa,
incassando il 10% in più. Nel caso di area condominiale la
stima dovrà essere accettata da tutti i condòmini. Qualora
non si riesca ad arrivare a un accordo il giudizio dovrà
essere promosso dai singoli condòmini, essendo da escludere
la legittimazione del condominio (articolo Il Sole 24 Ore del
09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
Vecchi Durc fino alla scadenza. Validi i
certificati rilasciati prima del passaggio online.
I chiarimenti del ministero in vista del
debutto (dal 1° luglio) della nuova procedura.
Vecchi Durc validi fino a scadenza. Infatti, i certificati
di regolarità contributiva (Durc) ottenuti prima
dell'entrata in vigore della procedura online, fissata al 1°
luglio, si potranno utilizzare nei casi e per i periodi di
validità previsti dalla vecchia disciplina.
Lo precisa il Ministero del lavoro nella
circolare 08.06.2015 n. 19/2015, spiegando però che, in fase di avvio del nuovo
sistema, non sarà possibile fare verifiche online a imprese,
lavoratori autonomi, banche e consulenti.
Subito in vigore
(dal 16 giugno) la norma sullo «scostamento non grave»: c'è
comunque regolarità in presenza di debiti fino a 150 euro
(oggi 100 euro).
Operazione di semplificazione.
A distanza di un anno arriva in porto la semplificazione del
Durc. Dal 1° luglio si potrà verificare in tempo reale se
un'impresa o un lavoratore autonomo è in regola con i
contributi e gli adempimenti nei confronti dell'Inps,
dell'Inail e delle casse edili (quest'ultima soltanto per le
aziende dell'edilizia).
A prevedere la novità è stato il dl
n. 34/2014 (convertito dalla legge n. 78/2014) attuata dal
dm 30 gennaio, pubblicato sulla G.U. n. 125/2015, in vigore
dal prossimo 16 giugno relativamente alle norme degli art.
3, commi 2 e 3 (requisiti di regolarità), art. 5 (procedure
concorsuali) e art. 8 (cause ostative alla regolarità).
Soggetti abilitati.
La verifica online sarà possibile anche da parte delle
stesse imprese e lavoratori autonomi per le proprie
posizioni contributive ovvero, su delega di questi, da
chiunque vi abbia interesse, nonché da parte di banche e
intermediati finanziari.
Poiché in questi casi la verifica è
subordinata alla sussistenza di delega, il ministero spiega
che nella prima fase di avvio della nuova disciplina questi
soggetti resteranno esclusi dalla possibilità in «attesa
delle necessarie implementazioni informatiche». L'esclusione
in ogni caso non riguarda i consulenti del lavoro e gli
altri professionisti abilitati per legge (art. 1, legge n.
12/1979).
Scostamenti non gravi.
La regolarità presuppone i pagamenti dovuti dall'impresa per
i lavoratori subordinati e quelli impiegati in
collaborazioni coordinate e continuative nonché dei
lavoratori autonomi, scaduti fino all'ultimo giorno del
secondo mese antecedente a quello in cui è fatta la
verifica, a patto che sia scaduto anche il termine di
presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni
casi, poi, la regolarità sussiste comunque anche in presenza
di parziali scoperture (tra l'altro in presenza di
rateizzazioni concesse dall'Inps, dall'Inail o dalle casse
edili ovvero dagli agenti di riscossione; sospensione dei
pagamenti disposti dalla legge ecc.), oppure in presenza di
uno scostamento definito «non grave» tra le somme dovute e
quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto
previdenziale e a ciascuna cassa edile; ossia se il predetto
scostamento risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro
inclusi gli eventuali accessori di legge.
Stessa deroga è
prevista anche oggi, ma con doppio limite, ossia quando la
differenza tra dovuto e versato non supera il 5% oppure lo
supera ma il debito complessivo non arriva a 100 euro. Il
nuovo e unico limite (150 euro) entra in vigore il 16
giugno.
Validi i vecchi Durc.
Infine, la circolare precisa che i Durc richiesti prima
dell'entrata in vigore della nuove regole e in corso di
validità possono essere utilizzati nelle ipotesi e per i
periodi di validità fissati dalla previgente disciplina.
Mentre in via transitoria non oltre il 01.01.2017 resta
assoggettato alle previgenti modalità il Durc richiesto in
applicazione delle disposizioni indicate in tabella (articolo ItaliaOggi del
09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: Durc interno, pioggia di avvisi. La procedura informatizzata
carente alimenta gli invii.
In corso di ultimazione le operazioni di controllo della
regolarità dei datori di lavoro.
Una pioggia di preavvisi d'irregolarità in arrivo da parte
dell'Inps.
Lo prevede il
messaggio 21.05.2015 n. 3454 (si
veda ItaliaOggi del 22 maggio) per mezzo del quale
l'Istituto comunica che, in vista del prossimo rilascio del
nuovo sistema di gestione del cosiddetto Durc online, sono
in corso di ultimazione le operazioni di controllo della
regolarità dei datori di lavoro ai fini della fruizione dei
benefici normativi e contributivi e che, conseguentemente,
sono riprese le operazioni di spedizione dei preavvisi di
accertamento negativo ai fini delle fruizione dei benefici
stessi (come anticipato da ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).
Ad alimentare gli invii, anche «finte» irregolarità
frutto di carenze della piattaforma informatizzata di
gestione del Durc interno, che ancora, ad oggi, non risulta
in grado di elaborare tutte le informazioni relative alle
effettive situazioni aziendali (si veda altro articolo in
pagina).
Il Durc. Il Durc è il certificato che, sulla base di
un'unica richiesta, attesta contestualmente la regolarità di
un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti
degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti
dell'Inps, dell'Inail e della Cassa Edile.
Allo scopo di
favorire la creazione di un sistema che concretamente premi
i comportamenti virtuosi delle imprese, il legislatore ha
introdotto alcuni requisiti che i datori di lavoro sono
tenuti a rispettare.
Più precisamente l'art. 1, comma 1175,
della legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007) ha subordinato la
fruizione dei benefici normativi e contributivi previsti
dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale:
a) Al possesso del Durc regolare; b) Al generale rispetto,
da parte dei datori di lavoro, degli obblighi di legge e
degli accordi e contratti collettivi di qualunque livello
(quindi nazionali, regionali, territoriali o aziendali ove
presenti) stipulati dalle organizzazioni sindacali dei
datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale.
L'art. 3 del dm
24/10/2007 prevede che, in caso di coincidenza tra istituto
che rilascia il certificato e quello che ammette il datore
di lavoro alla fruizione dei benefici contributivi, sia
compito dell'istituto stesso verifica la sussistenza delle
condizioni di regolarità senza procedere alla materiale
emissione del documento (c.d. «Durc interno»).
A tal proposito si rammenta che la circolare Inps n. 51/2008
ha chiarito che la richiesta del Durc per fruire dei
benefici si ritiene assolta attribuendo al mod. DM10
(denuncia mensile nella quale vanno indicate le agevolazioni
e gli sgravi) il carattere di idonea manifestazione di
volontà del datore di lavoro.
Avviso di accertamento negativo del debito. L'art. 7, comma
3, del dm 24/10/2007 prevede che, qualora gli Enti preposti
al rilascio del Durc rilevino, nel corso della procedura,
una carenza dei requisiti di regolarità (o più semplicemente
della documentazione mancante) che sia di ostacolo al
rilascio del certificato, debbono, prima dell'emissione del
Durc negativo o prima dell'annullamento del documento
positivo già rilasciato, consentire all'interessato di
intervenire nel procedimento per sanare la propria
posizione.
Si tratta, come osservava il ministero del lavoro
nella circolare n. 5/2008, di un meccanismo che il
regolamento ha mutuato dall'art. 10-bis della legge n.
241/1990 e che si concretizza in una sorta di preavviso di
accertamento negativo. Il comma 8, dell'art. 31 del dl n.
69/2013, intervenendo sugli aspetti legati all'emissione del
certificato, ha rafforzato il dettato regolamentare
contemplando che, in caso di mancanza dei requisiti per il
rilascio del Durc, gli istituti invitino l'interessato a
regolarizzare, entro un termine non superiore a 15 giorni
(da considerarsi perentorio), la riscontrata non conformità
indicando analiticamente le cause d'irregolarità.
Allo scopo di velocizzare la procedura di regolarizzazione e
la conseguente emissione del documento, la normativa
individua la posta elettronica certificata quale strumento
attraverso il quale procedere alla comunicazione di che
trattasi. Col recente mess. n. 3454/2015 l'Inps ribadisce
che in futuro, il preavviso sarà prioritariamente spedito
all'indirizzo Pec del datore di lavoro ovvero del
titolare/legale rappresentante e, solo in mancanza dei
predetti indirizzi, all'indirizzo Pec dell'intermediario
delegato (consulente del lavoro o altro professionista
abilitato ai sensi della legge n. 12/1979 risultante dagli
archivi).
L'istituto, pertanto, richiama l'attenzione dei
datori di lavoro sulla necessità di operare al più presto
l'aggiornamento degli indirizzi Pec all'interno
dell'anagrafica aziendale. Qualora l'impresa non dia, entro
il termine assegnato, fattivo riscontro all'invito,
l'Istituto si pronuncerà sulla base delle informazioni che
sono in suo possesso certificando l'irregolarità
dell'interessato con tutto ciò che ne consegue.
I benefici. I benefici normativi e contributivi la cui
fruizione resta preclusa in mancanza del Durc regolare, sono
individuati da una tabella (avente carattere esemplificativo
e non esaustivo) allegata alla circolare del ministero del
lavoro n. 5/2008, classificazione alla quale fa a sua volta
esplicito rinvio anche la circolare Inps n. 51/2008.
In
linea generale, spiega il Dicastero, per benefici
contributivi devono intendersi «quegli sgravi collegati alla
costituzione e gestione del rapporto di lavoro che
rappresentano una deroga all'ordinario regime contributivo»
(es. l'esonero contributivo per le nuove assunzioni con
contratto di lavoro a tempo indeterminato previsto dalla
Legge n. 190/2014).
Non rientrano in questa nozione quei
regimi di sottocontribuzione che caratterizzano interi
settori (es. agricoltura), territori (es. zone montane o
zone a declino industriale), ovvero speciali tipologie
contrattuali che godono di un'aliquota contributiva
«speciale» prevista per legge (es. apprendistato). I
benefici normativi sono, invece, «quelle agevolazioni che
operano su un piano diverso da quello della contribuzione
previdenziale ma sempre di natura patrimoniale e comunque
sempre in materia di lavoro e legislazione sociale».
Rientrano, quindi, in quest'ultima categoria le agevolazioni
fiscali, i contributi e le sovvenzioni previsti dalla
normativa vigente connesse alla costituzione e gestione del
rapporto di lavoro (es. riduzione del cuneo fiscale ecc.).
Il rispetto dei contratti collettivi. La fruizione dei
benefici economici e normativi è subordinata anche al
rispetto, da parte del beneficiario, degli accordi e
contratti collettivi. A tal proposito il ministero del
lavoro, con la circolare n. 34/2008, ha affermato che la
previsione normativa s'intende rispettata anche «solo» con
l'applicazione, da parte del datore di lavoro, della parte
economica e normativa dei suddetti patti (senza quindi
necessità di applicare anche la c.d. parte obbligatoria).
Sotto l'aspetto procedimentale, inoltre, il dicastero ha
ritenuto che tale circostanza non possa essere oggetto di
autocertificazione, ma solo di verifica da parte del
personale ispettivo. In pratica, se in sede di vigilanza,
dovesse emergere il non rispetto di questo requisito, gli
istituti procederanno al recupero delle somme indebitamente
fruite dai datori di lavoro a far data dal momento in cui il
datore di lavoro non ha osservato l'obbligo.
---------------
False irregolarità, ai professionisti non va giù.
L'Istituto sta procedendo in questi giorni al recapito dei
primi preavvisi di accertamento che evidenziano presunte
irregolarità da parte dei datori di lavoro. In realtà, come
denunciato nei giorni scorsi dal Cno dei consulenti del
lavoro in una nota trasmessa al presidente dell'Inps e al
ministro del lavoro, nella maggior parte dei casi, più che
d'irregolarità vere e proprie, si tratta di una carenza
della procedura informatizzata di gestione del Durc interno,
piattaforma che purtroppo non si dimostra ancora in grado di
mettere a sistema tutta le informazioni e notizie (es.
presenza di istanze di rateizzazione, pagamento dei
contributi effettuati presso il concessionario della
riscossione, pendenza di ricorsi, ecc.) necessarie alla
corretta e puntuale valutazione della situazione
contributiva aziendale.
Al presidente Inps hanno scritto anche i commercialisti
dell'Anc, in una missiva nella quale i professionisti
contestano non solo le modalità di invio (finora
all'intermediario, invece che all'impresa interessata), ma
anche «l'assoluta inadeguatezza» del termine (15 giorni) per
gestire le pratiche.
Le carenze evidenziate dalla procedura risultano ancor più
preoccupanti in ragione del fatto che, dal prossimo 1°
luglio, entrerà pienamente a regime il c.d. «Durc online»
teorizzato dal dl n. 34/2014 e recentemente disciplinato dal
dm 30/01/2015. Eventuali disallineamenti fra le banche dati
integrate degli istituti rischiano, in questo caso, di
moltiplicare esponenzialmente i falsi avvisi con deplorevoli
effetti anche negli altri ambiti di utilizzo del certificato
(es. appalti, accesso alle sovvenzioni e benefici comunitari
ecc.) e conseguenti inevitabili ricadute di segno negativo
sui bilanci delle incolpevoli aziende (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Eco-delitti ad ampio raggio. Necessari scrupolosi
accertamenti in sede processuale.
Nella relazione della Cassazione le prime indicazioni sui
nuovi illeciti ambientali.
I nuovi delitti d'inquinamento e disastro ambientale possono
abbracciare le più diverse forme di aggressione
all'ecosistema, colpire anche le condotte solo formalmente
aderenti a prescrizioni normative e con portata che va
temporalmente oltre la prima materiale alterazione delle
matrici verdi. Ma necessitano di un'attenta verifica
dell'effettivo nesso di causalità tra condotta ed evento
dannoso, un riscontro dei livelli di inquinamento provocato
da condursi sulla base dei parametri offerti dalla normativa
e la prova della violazione di regole precauzionali
conoscibili ed esigibili.
Queste le prime coordinate di
navigazione sulla nuova mappa dei delitti ambientali
disegnata dalla legge 22.05.2015, n. 68 che appaiono
essere tracciate dall'Ufficio del massimario della Corte di
cassazione, il quale con la
nota 29.05.2015 (giorno dell'entrata in vigore della normativa)
ha fatto luce su alcuni punti critici della disciplina.
Al
centro del documento i due nuovi eco-delitti di inquinamento
e disastro ambientale introdotti dalla citata legge nel
Codice penale insieme a quelli di morte o lesioni come
conseguenza di inquinamento ambientale, traffico o abbandono
di materiale altamente radioattivo, omessa bonifica,
impedimento di controlli.
Inquinamento ambientale. Il nuovo articolo 452-bis del
Codice penale introdotto dalla legge 68/2015 punisce
chiunque abusivamente cagiona compromissione o
deterioramento significativi e misurabili di: acque, aria,
porzioni estese e significative suolo o sottosuolo;
ecosistema, biodiversità, flora o fauna.
La Corte di cassazione sembra rilevare come la nuova
fattispecie vada inquadrata tra i reati di danno,
caratteristica che comporterà sul piano processuale la
necessità di uno scrupoloso accertamento del nesso di
causalità (tra condotta ed evento) ai fini della
contestazione, soprattutto in presenza di comportamenti
segmentati nel corso del tempo.
Ad ampio raggio sembrano per il Massimario essere le
condotte riconducibili nel nuovo delitto laddove in materia
richiama anche, per la funzione ermeneutica che potrà
svolgere, la definizione di «inquinamento ambientale»
prevista dall'articolo 5 del Codice ambientale (dlgs
152/2006) a mente del quale è tale «l'introduzione diretta o
indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze,
vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti
fisici o chimici, nell'aria, nell'acqua o nel suolo, che
potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità
dell'ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali,
oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi
dell'ambiente o ad altri suoi legittimi usi».
A indicare i confini del nuovo delitto sono i parametri di
«significatività e misurabilità» della compromissione o
deterioramento delle eco-matrici che rendono rilevanti il
danno ambientale ai fini penali.
Sotto questo profilo la Cassazione appare suggerire che la
condotta dovrebbe essere inquadrata nel nuovo delitto
d'inquinamento entro l'arco logico che si colloca tra il
superamento delle «concentrazioni soglie di rischio»
previste dal dlgs 152/2006 (cd. «Csr», che oltrepassati
determinano la classificazione della matrice ambientale come
contaminata, facendo scattare obblighi di bonifica o messa
in sicurezza) e quello della compromissione «irreversibile o
particolarmente onerosa» dell'ecosistema, che integra il più
grave e nuovo delitto di disastro.
Disastro ambientale. Il nuovo articolo 452-quater del Codice
penale punisce infatti chi, fuori dai casi ex articolo 434
C.p., abusivamente cagiona (alternativamente):
un'alterazione dell'equilibrio dell'ecosistema irreversibile
o con eliminazione particolarmente onerosa tramite
provvedimenti eccezionali; una rilevante offesa pubblica
incolumità (per estensione compromissione, effetti lesivi o
numero persone offese/esposte a pericolo).
Anche questo nuovo delitto, sembra la Corte sottolineare, si
pone come reato di danno laddove il delitto di «disastro
innominato» ex articolo 434, C.p., si ricorda, è dalla
giurisprudenza normalmente inquadrato come illecito di
pericolo, in quanto integrato con la realizzazione della
minaccia concreta di un macro evento dannoso, eventualmente
aggravato dal suo realizzarsi.
Rispetto alla storica figura ex articolo 434, c.p., il nuovo
delitto, si evince dalla Relazione della Corte, sarebbe però
configurabile anche ricorrendo solo uno degli elementi
«dimensionali» (l'alterazione) o «offensivi» (il pericolo
per la pubblica incolumità) previsti dal neo articolo
452-quater. Anche qui sono i parametri del danno ambientale
a definire i confini dell'illecito.
E per la Cassazione la
caratteristica dell'«irreversibilità» dell'alterazione
dovrebbe non essere considerata in assoluto, ma
relativamente alle categorie dell'agire umano, per sui
sarebbe tale anche quella ovviabile solo in un ciclo
temporale che lo superi. Ancora, varrebbe a configurare il
neo delitto anche l'arduità della reversibilità coincidente
con la necessità di provvedimenti amministrativi deroganti
all'ordinaria disciplina ambientale.
Abusività della condotta. La Suprema Corte appare
evidenziare come la caratteristica dell'abusività che
qualifica come illecita la condotta di entrambi i reati
abbia confini molto estesi. Per suggerirne la dimensione, la
Relazione chiama in rassegna l'interpretazione già data al
termine «abusivo» dalla giurisprudenza di legittimità, in
base alla quale è da considerarsi tale sia una condotta non
autorizzata (alla quale è paragonato anche l'agire in
dispregio di prescrizioni e limiti imposti da titoli validi
o in presenza di atti scaduti) sia una condotta formalmente
ed esteriormente corrispondente (sì) a una prescrizione
normativa o a un'autorizzazione, ma di fatto incongruente
rispetto a questi e posta in essere sviando dalla funzione
tipica del diritto o facoltà concessi.
Ipotesi colpose. Per entrambi i nuovi delitti è prevista
(dal nuovo articolo 452-quinquies del Codice penale, con una
riduzione di pena) anche una fattispecie colposa, in alcuni
casi con una anticipazione della punibilità alla condotta
che cagioni il semplice pericolo di danno ambientale.
La Corte pare arginare una lettura estensiva di tali norme,
sottolineando come esse non conferiscono un carattere
direttamente precettivo al principio di precauzione previsto
dal Codice ambientale. L'attribuzione a titolo di colpa
dell'inquinamento o del disastro non dovrà infatti
prescindere dall'accertamento della effettiva prevedibilità
(sulla base di comportamenti precauzionali già tipizzati) ed
evitabilità (da parte dell'agente modello) degli eventi
antigiuridici posti in essere.
Prescrizione. Due gli aspetti del tema messi in luce dalla
Relazione della Cassazione. In primo luogo l'evidente
allungamento dei termini di prescrizione previsto dalla
legge 68/2015 mediante la diretta modifica dell'articolo 157
del Codice penale (che portano fino a 50 anni, in presenza
di atti interruttivi, la perseguibilità del disastro
doloso).
In secondo luogo la citata formulazione in chiave
«naturalistica» degli eventi dannosi sottesi ai neo delitti
di inquinamento e disastro ambientale, che potrebbe avere
come conseguenza il perfezionamento degli illeciti stessi
molto tempo dopo rispetto all'ultima condotta di materiale
immissione di sostanze nell'eco-sistema o di sua fisica
alterazione.
Riflessioni, queste della Cassazione, che se lette insieme
potrebbero effettivamente suggerire l'introduzione da parte
della nuova legge 68/2015 di un vero e proprio «effetto
moltiplicatore» delle prescrizioni relative ai nuovi delitti
ambientali (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Edifici classificati su format. Anche l'Ape si rinnova e si
unifica a livello nazionale.
Le novità in vigore dal 1° luglio contenute in due decreti
sul risparmio energetico.
Rivoluzione in vista per il risparmio energetico. Dal 1°
luglio entreranno in vigore i nuovi metodi di calcolo della
prestazione energetica degli edifici adeguati alla normativa
europea e le nuove norme per la redazione dell'attestato di
prestazione energetica.
Il primo decreto sugli edifici a
energia zero ha ricevuto il 25 marzo il via libera della
conferenza unificata e si appresta ad approdare in Gazzetta
ufficiale. Il secondo, relativo alle linee guida nazionali
per l'attestato di certificazione energetica, dovrebbe
approdare a breve in conferenza unificata.
Requisiti minimi. Il primo decreto noto come «decreto
requisiti minimi» fissa i criteri e le modalità di calcolo
della prestazione energetica degli edifici. La
classificazione degli edifici avverrà in base alla
destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il
monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa
e tecnica della prestazione degli edifici.
Dal 01.07.2015 i requisiti minimi saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto
agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni 5 anni,
prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o
sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a
energia quasi zero.
L'Ape (Attestato di prestazione
energetica) conterrà anche gli indici di climatizzazione
estiva, di illuminazione, l'indicazione dell'energia
prelevata dalla rete e i vantaggi legati alle diagnosi
energetiche e agli interventi di riqualificazione
energetica, con lo scopo di rendere più reali le
raccomandazioni già oggi presenti nell'attestato.
Queste
alcune delle novità contenute nel decreto Mise (emanato di
concerto con il ministero dell'ambiente e dei trasporti) di
prossima pubblicazione in G.U. che ridefinirà le modalità di
applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni
energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli
edifici, e i requisiti minimi in materia di prestazioni
energetiche.
Il decreto entrerà in vigore il prossimo 01.07.2015 ed è attuativo dell'articolo 5 del decreto fare)
convertito nella legge 03/08/2013 n. 90.
Edificio a energia zero. Per la prima volta, all'interno del
decreto una definizione tecnica di «edificio a energia quasi
zero». L'indice di prestazione energetica globale
dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in
funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio
(climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua
calda sanitaria, illuminazione e ventilazione).
Ci sarà una
definizione più chiara dei consumi energetici così da
permettere all'utente di individuare il consumo totale di
energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la
qualità dell'involucro e degli impianti.
Nuova Ape nazionale. Il secondo decreto introduce un Ape
unico per tutto il territorio nazionale, con una metodologia
di calcolo omogenea. Le classi energetiche con la nuova Ape
passeranno da sette a dieci, dalla A4 (la migliore) alla G
(la peggiore). La nuova Ape nazionale entrerà in vigore il
1° luglio prossimo e verrà applicato alle regioni e province
autonome che non abbiano ancora provveduto a recepire la
direttiva 2010/31/Ue.
Verrà introdotto uno schema di
annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni
uniformi sulla qualità energetica degli edifici. Per fornire
un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno
riportati anche gli indici di prestazione energetica
parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale
e la relativa classe energetica corrispondente. Inoltre
verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per
facilitare la comprensione ai non tecnici. Le nuove linee
guida sostituiranno quelle per la certificazione energetica
emanate con il dm 26.06.2009.
Queste le novità
contenute nella bozza definitiva di decreto, contenente le
linee guida nazionali per l'attestazione della prestazione
energetica degli edifici dal ministero dello sviluppo
economico e inviate alle regioni alla fine di maggio. Per la
piena operatività bisogna attendere ancora tre passaggi: il
via libera della conferenza unificata, la registrazione alla
Corte dei conti e la pubblicazione in G.U.. Di seguito le
novità più importanti:
Attestato unico. Introduzione di un attestato unico
semplificato riguardante tutto il territorio nazionale, con
una metodologia di calcolo omogenea per la classificazione
delle prestazioni energetiche. Le regioni dovranno adeguarsi
entro due anni. Con predisposizione di un sistema
informativo comune per tutto il Paese, dal nome Siape, dove
saranno raccolti tutti i dati relativi agli attestati di
prestazione energetica affinché le regioni possano
effettuare i controlli.
Contenuti attestato. Per ciò che concerne i contenuti, il
nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica
globale sia in termini di energia primaria totale sia di
energia primaria non rinnovabile. Andranno specificati gli
interventi da realizzare sull'edificio distinguendo tra
interventi di ristrutturazione edilizia e interventi di
riqualificazione energetica.
La classe energetica dovrà
essere determinata attraverso l'indice di prestazione
energetica globale, espresso in energia primaria non
rinnovabile. L'attestato dovrà contenere i consumi
energetici non solo per il riscaldamento invernale ma
altresì per le attività di raffrescamento estivo, oltre a
riportare le emissioni di anidride carbonica e l'energia
esportata.
Schema annuncio.
Definito uno schema di annuncio di vendita e locazione per
uniformare le informazioni riguardanti la qualità energetica
degli edifici riportando anche gli indici di prestazione
energetica parziali, come quello riferito all'involucro,
quello globale e la relativa classe energetica
corrispondente (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: L’avvio del concordato non blocca il Durc.
Si può ottenere il certificato dopo la pubblicazione della
domanda nel Registro imprese.
Regolarità contributiva. Il decreto sulla procedura online
ribadisce l’orientamento di prassi sulle aziende che
continuano l’attività
L’impresa ammessa al
concordato preventivo con continuità dell’attività aziendale
può ottenere il rilascio del Documento unico di regolarità
contributiva (Durc) a partire dalla pubblicazione della
domanda di concordato nel Registro delle imprese.
È la
conclusione alla quale arriva l’Inps, che ha recepito, con
il messaggio 24.04.2015 n. 2835, l’orientamento del
ministero del Lavoro, espresso con la nota del 21 aprile.
Peraltro, si tratta di una fattispecie raccolta e confermata
anche dal decreto interministeriale attuativo del nuovo Durc
online (decreto del 30.01.2015, pubblicato sulla
«Gazzetta Ufficiale» 125 del 1° giugno scorso) che debutterà
dal 1° luglio, in attuazione del Dl 34/2014.
La precisazione interviene su una linea di prassi ormai
consolidata ma è funzionale a dirimere le criticità che si
erano originate nella pratica sull’effettiva decorrenza
dalla quale l’azienda potesse avere il rilascio del Durc: in
particolare, sul fatto che dovesse essere negato il
documento alle aziende che, pur avendo presentato la
domanda, ma essendo in attesa del perfezionamento della
procedura di omologa, si trovavano nell’impossibilità di
adempiere agli obblighi contributivi sorti prima del
deposito della domanda stessa di concordato.
Su questo punto era già intervenuto il ministero del Lavoro
con l’interpello 41/2012, affrontando la problematica delle
condizioni necessarie, per il rilascio del Durc, nel caso di
imprese in concordato preventivo in continuità dell’attività
aziendale, in base all’articolo 186-bis della legge
fallimentare (in seguito alle modifiche disposte dal Dl
83/2012).
Era stata dunque prevista la possibilità del
rilascio del Durc per l’impresa, se il piano inerente il
concordato omologato dal tribunale avesse contemplato
l’integrale assolvimento dei debiti previdenziali e
assistenziali contratti prima dell’attivazione della
procedura concorsuale e se fosse stata espressamente
prevista la cosiddetta moratoria indicata dall’articolo
186-bis, comma 2, lettera c), della legge fallimentare, per
un periodo non superiore a un anno dalla data
dell’omologazione
Secondo il ministero del Lavoro, l’ipotesi rientra
nell’alveo dell’articolo 5, comma 2, lettera b), del Dm 24.10.2007 secondo cui la regolarità contributiva sussiste
nelle ipotesi delle «sospensioni dei pagamenti a seguito di
disposizioni legislative». È un’apertura che si sposa con le
finalità sottese alla procedura concorsuale perché offre
all’impresa la possibilità di continuare a operare,
garantendo la prosecuzione dell’attività aziendale e la
salvaguardia dei livelli occupazionali.
Nel dettaglio, infatti, la pubblicazione della domanda di
concordato nel Registro delle imprese (articolo 161 della
legge fallimentare) determina il divieto per i creditori per
titolo o causa pregressa di intraprendere azioni esecutive:
lo stesso divieto coinvolge anche il pagamento dei debiti
anteriori
Come accennato sopra, l’impostazione descritta rimarrà
valida anche con la piena operatività del Durc online:
attraverso la nuova procedura, chiunque vi abbia interesse,
compresa la stessa impresa, potrà verificare in tempo reale
la regolarità contributiva nei confronti dell’Inps,
dell’Inail e delle Case edili. L’interrogazione fornirà una
certificazione che avrà validità di 120 giorni dalla data di
acquisizione, sostituendo a ogni effetto il Durc, come
regolato nella sua veste attuale.
A questa innovazione si accompagnano, per le imprese
interessate, indubbi vantaggi in termini di tempi e di costi
rispetto al sistema in vigore oggi ma sarà opportuno gestire
le situazioni particolari, come quella sopra esaminata: se
l’interconnessione tra gli archivi degli enti coinvolti dal
processo non sarà efficace, c’è il rischio che fattispecie
di “potenziale” regolarità diano invece luogo a
interrogazioni negative da parte di chi accederà alla
piattaforma, dovute, appunto, al mancato aggancio di
informazioni specifiche o allo sfasamento temporale nella
loro acquisizione (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
APPALTI: Più spazio per la sanatoria in gara.
Appalti pubblici. Il Dm del 1° giugno potrebbe risolvere il
nodo degli orientamenti diversi tra i giudici sulla
possibilità di mettersi in regola entro 15 giorni da un
esito negativo.
L’impresa che partecipa a una gara deve possedere il
requisito della regolarità contributiva al momento della
presentazione dell’offerta oppure, in mancanza dei requisiti
di regolarità, deve essere invitata a sanare la posizione
previdenziale entro 15 giorni prima di essere esclusa dalla
gara?
È il quesito sul quale
si è animato il dibattito giurisprudenziale negli ultimi
tempi a causa della stratificazione di leggi in materia e
che potrebbe essere risolto dall’articolo 10 del Dm 30.01.2015 sul Durc online (pubblicato sulla «Gazzetta
Ufficiale» del 01.06.2015 e in vigore dal 1° luglio). Il
provvedimento dispone infatti l’abrogazione di tutte le
disposizioni di legge incompatibili con la sanatoria della
posizione previdenziale. Ma analizziamo meglio la questione
partendo proprio dalla normativa.
L’articolo 38, comma 1, lettera i), del Codice degli appalti
(Dlgs 163/2006) sancisce l’esclusione dalla gara (o
l’impossibilità di stipulare contratti) dei soggetti che
abbiano commesso gravi violazioni della normativa
contributiva e assistenziale. Per effetto dell’entrata in
vigore del Dm 30.01.2015, il requisito della regolarità
contributiva, salvo ipotesi particolari, sarà soddisfatto
dal rispetto della nuova normativa sul Durc online.
L’articolo 31, comma 8, del Dlgs 69/2013 -il cui contenuto
risulta confermato dall’articolo 4 del decreto ministeriale- consente una sanatoria delle irregolarità previdenziali.
Se non è possibile attestare la regolarità contributiva,
infatti, l’ente previdenziale deve invitare l’interessato a
regolarizzare la propria posizione entro quindici giorni.
Trascorso il termine, il risultato negativo della verifica
dovrà essere comunicato ai soggetti che hanno effettuato
l’interrogazione. Ci si è chiesti dunque se il partecipante
alla gara possa sanare la propria posizione tramite la
procedura prevista dal Dlgs 69/2013 oppure no. Su questo
punto i giudici amministrativi sono divisi.
No a regolarizzazioni in corsa
Una parte della giurisprudenza considera inapplicabile la
normativa sulla sanatoria del Durc (sentenze Tar
Emilia-Romagna 1153 del 27.11.2014; Tar Lazio 18.07.2004 n. 7732; Tar Campania n. 3619 del
02.07.2014).
Da una parte, infatti, l’articolo 38 richiede che il
requisito della regolarità contributiva debba sussistere già
al momento della partecipazione alla gara e permanga fino
alla stipula del contratto; dall’altra, una diversa
interpretazione sarebbe incompatibile con i principi di
tutela dell’interesse pubblico e della par condicio tra
imprese concorrenti.
Il Consiglio di Stato «apre»
Il Consiglio di Stato, invece, propende per una soluzione
diversa, consentendo la sanatoria anche in corso di gara.
Con la sentenza 781 del 16.02.2015, ha affermato
l’illegittimità dell’esclusione dalla gara dell’impresa
partecipante senza che gli enti preposti l’abbiano invitata
a sanare l’irregolarità contributiva entro quindici giorni.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, l’articolo 31 del Dl
69/2013 ha modificato l’articolo 38 del Dlgs 163/2006,
laddove stabilisce che il requisito della regolarità
contributiva debba sussistere al momento della domanda di
partecipazione alla procedura concorsuale.
In altri termini,
il requisito deve sussistere al momento della scadenza dei
15 giorni assegnati dall’ente previdenziale per
regolarizzare la posizione contributiva.
Il tema della sanatoria del Durc non riguarda solo il
diritto italiano. Recentemente il Consiglio di Stato
(ordinanza 1236 dell’11.03.2015) ha sollevato una
questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia
europea.
La normativa italiana, che richiede il controllo
d’ufficio e storico della regolarità contributiva senza
possibilità di regolarizzazione in corso di gara, sarebbe in
contrasto con l’articolo 45 della Direttiva 18/2004/Ce che,
invece, dispone l’allegazione del Durc al momento
dell’aggiudicazione. Ora la normativa sul Durc online
potrebbe contribuire a risolvere la questione (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Per il Durc
online correzioni manuali e rischio ritardi.
Lavoro. Se i dati in archivio non sono aggiornati.
Si aggiunge un
nuovo tassello nel percorso di avvicinamento che sta
portando all’avvio del Durc online: a riscontrare le novità
introdotte dal decreto interministeriale attuativo che
entrerà in vigore il 1° luglio è stato l’Inps, con il
messaggio 05.06.20145 n. 45482.
L’intervento, con
l’obiettivo di diffondere alle sedi dell’istituto le prime
anticipazioni sulla procedura, lascia trasparire alcune
considerazioni applicative.
Prima fra tutte, la conferma delle criticità che potranno
emergere con l’entrata a regime del nuovo impianto sul
documento unico di regolarità contributiva: il rischio è che
il rilascio in tempo reale del Durc finisca per essere
relegato a casistiche numericamente ridotte, rispetto alla
generalità dei datori di lavoro, a maggior ragione in questo
particolare momento storico di difficoltà che le aziende
stanno attraversando.
Infatti, come prevede lo stesso testo del decreto attuativo
(comma 2, dell’articolo 9), rimane invariata l’attuale
procedura di richiesta del Durc nelle situazioni in cui la
verifica non sia possibile per l’assenza dei dati necessari
negli archivi informatizzati degli enti coinvolti dal
processo (Inps, Inail e Casse edili). Sul punto non va,
peraltro, tralasciata la complessità dell’operazione qualora
siano coinvolte tutte le gestioni interessate: posizione
contributiva riferita ai dipendenti, gestione separata per i
lavoratori parasubordinati, gestione dei lavoratori
autonomi; posizione assicurativa e posizione presso le Casse
edili per le aziende del settore.
Di fatto, in tutti i casi in cui dall’interrogazione non
derivi una posizione assolutamente regolare –riferita a
tutti gli enti– le tempistiche di emissione dell’esito
saranno distanti dall’obiettivo ricercato dal legislatore,
ossia l’emissione in tempo reale. Si pensi a questo esempio:
un soggetto interessato accede al sistema del Durc online il
01.07.2015 e il documento di regolarità in formato pdf
non viene rilasciato subito perché il sistema rileva alcune
irregolarità contributive.
A quel punto –come specificato
nel messaggio dell’Inps– la sede territorialmente
competente ha tempo 72 ore (dall’istanza di verifica) per
correggere d’ufficio (se possibile) le incongruenze. Si
tratta di un aspetto positivo perché consente di eliminare a
monte tutte quelle criticità degli archivi che non
corrispondo a situazioni di irregolarità effettiva.
In caso contrario, l’Inps invierà al soggetto interessato il
preavviso di irregolarità, consentendo di verificare e di
sanare la propria posizione nel termine di 15 giorni dallo
stesso, attraverso i canali già in uso: la regolarizzazione
genererà l’estrazione del Durc a chi ne ha fatto richiesta,
mentre la mancata regolarizzazione farà scattare la
comunicazione dell’esito negativo della verifica.
L’Inps precisa che «l’intero iter dovrà necessariamente
concludersi entro 30 giorni dall’istanza di verifica», ossia
in tempi pari a quelli che regolano l’attuale processo, con
le vecchie regole. Va, infine, precisato come occorra
comunque attendere le circolari operative del ministero e
dell’Inps che dovranno fornire i dettagli gestionali del Durc online
(articolo Il Sole 24 Ore del
06.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente,
rimedi fai-da-te per le trasgressioni leggere.
Le violazioni meno importanti verso l'ambiente punite con
una contravvenzione ora si potranno rimediare con il
ripristino dello stato dei luoghi e il pagamento di una
sanzione pecuniaria. Ma dal beneficio resteranno escluse le
infrazioni punite solo con l'arresto come per esempio la
mancata ottemperanza all'ordinanza del sindaco in materia di
rifiuti. E in ogni caso la novella si potrà applicare solo
ai procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato
dopo il 29 maggio.
La legge 22.05.2015, n. 68 ha modificato il codice
dell'ambiente (dlgs 152/2006) introducendo, tra l'altro, i
nuovi articoli 318–bis e seguenti dedicati ai reati
ambientali meno pericolosi e invasivi.
In buona sostanza per
le contravvenzioni punite con l'ammenda da sola ovvero
alternativa o cumulativa alla pena dell'arresto è possibile
attivare la nuova procedura deflattiva. Purché non si sia
determinato un pericolo concreto ed attuale alla risorse
ambientali, paesaggistiche e urbanistiche protette.
Spetterà
alla polizia giudiziaria verificare queste condizioni e
attivare la particolare procedura indicata negli artt. 318–bis del codice dell'ambiente. Ovvero impartire al
contravventore un'apposita prescrizione asseverata
tecnicamente, fissando un termine per la regolarizzazione e
il ripristino dello stato dei luoghi.
Spetterà all'organo di
vigilanza verificare la regolarizzazione e gestire il
seguito del procedimento informando tempestivamente la
procura anche sull'effettività del pagamento della sanzione
da parte del trasgressore. Il procedimento penale
eventualmente aperto con la comunicazione della notizia di
reato rimarrà sospeso fino all'esito di queste procedure che
fanno capo alla polizia, specifica la nota. Se verrà
comunicato che il trasgressore ha adempiuto tempestivamente
alla prescrizione imposta e ha pagato la sanzione il reato
si estinguerà.
La nota illustra poi tutta la filiera
procedimentale del nuovo istituto specificando che la
novella non si applica ai procedimenti già in corso ma solo
alle notizie di reato registrate successivamente al 29.05.2015
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuove
norme sugli ecoreati: i dubbi della Cassazione.
Linee guida. Sottolineati problemi
strutturali e mancato coordinamento.
Con un provvedimento
fiume (36 pagine) dell’ufficio del Massimario-Settore Penale, la Corte di
Cassazione traccia le prime linee guida sulla controversa
legge 68/2015 che ridisegna i reati ambientali.
Un documento
asettico (nota
29.05.2015), come è nel ruolo dell’istituzione, ma che non
manca di sottolineare problemi strutturali delle nuove
norme, dal lessico al coordinamento con il Codice ambientale
e con il vecchio reato “innominato” (articolo 434 del Codice
penale) utilizzato nelle recenti, grandi inchieste sui
disastri ambientali.
Per quanto riguarda il delitto di inquinamento ambientale
(da 1 a sei anni e fino a 100 mila euro di multa) secondo la
Corte i punti critici sono i concetti di «deterioramento e
compromissione» e, soprattutto, la «misurabilità» del danno.
Sul primo aspetto, dopo aver stabilito una continuità tra
l’illecito disegnato nel codice ambientale e il nuovo reato
-in sostanza sono compatibili- il relatore suggerisce una
sostanziale identità di significato tra le due condotte
distruttive ( deterioramento e compromissione), che peraltro
traggono ispirazione dalla direttiva 99/2008.
La
misurabilità del danno invece, a giudizio della Cassazione,
nonostante abbia sollevato notevoli polemiche, è un
requisito necessario della fattispecie -appunto per non
cadere in una indeterminatezza discrezionale poco
compatibile con il principio di tassatività- e inoltre
delimita il reato: il livello di “ingresso” è il superamento
delle soglie di rischio autorizzate (nel caso appunto di
attività inquinanti lecite), mentre il confine superiore è
il più grave illecito di disastro. Ma è sull’oggetto del
deterioramento che sorgono i problemi più seri: l’ecosistema
citato dal legislatore, pur avendo un rilievo costituzionale
(articolo 117) non ha una definizione legislativa, pertanto
le Corti si misureranno con le indicazioni della scienza e,
soprattutto, si atterranno al dato normativo che esige la
compromissione non «dell’» (intero) ecosistema, ma «di un»
(solo, anche se minuscolo) ecosistema.
Certamente però, secondo la Corte, la nuova strutturazione
del reato come di evento -e non più di pericolo- rende più
difficile la ricostruzione del nesso causale, non bastando
più oggi il semplice superamento dei valori soglia per
l’incriminazione. Quanto all’abusività della condotta, la
Cassazione finisce per inquadrare l’avverbio in una formula
“elastica” necessaria per ricomprendere una platea di
fattispecie non esauribile in un dettagliato, e perciò
limitato, elenco di condotte tipizzate.
Problemi di inquadramento sorgono con l’aggravante
dell’evento morte (articolo 452-ter), soprattutto perché non
è prevista per il più grave reato di disastro ambientale.
Secondo il relatore si crea il paradosso di un evento
giuridico tale da provocare la morte di una persona fuori
dai casi di disastro e, soprattutto, fuori da un contesto di
«irreversibile compromissione» dell’ambiente.
Ma è proprio nel nuovo reato di disastro ambientale
(452-quater) che si intravedono problemi, soprattutto perché
si passa dal delitto a consumazione anticipata del vecchio
«disastro innominato» (in cui l’evento è una semplice
circostanza aggravante) a una vera fattispecie di evento,
con tre presupposti alternativi: la compromissione
irreversibile di un ecosistema, ovvero un suo risanamento
comunque troppo oneroso o lungo, o ancora l’intensità
dell’offerta alla popolazione. La questione, qui, sta
proprio nell’aver separato due aspetti -l’elemento
dimensionale del disastro e quello dell’offesa- che la
giurisprudenza costituzionale aveva considerato legati, e
legittimi, nel vecchio disastro colposo innominato.
Delicato poi il rapporto tra il principio di precauzione
previsto nel Codice ambientale e il reato colposo
all’articolo 452-quinquies (inquinamento o disastro per
colpa) del Codice penale. Secondo la Corte per il secondo
vale sempre la regola della prevedibilità dell’evento
lesivo.
Temi non risolti dalla legge sono poi il ravvedimento
operoso, le aggravanti e la confisca per equivalente, mentre
per la prescrizione -che pure può arrivare a cinquant’anni
per i casi più gravi- si pone il problema del tempus
commissi delicti legato alla struttura “a evento” del reato
, che nei casi più subdoli di inquinamento certo non agevola
la ricerca della prova e la dimostrazione del nesso causale
(articolo Il Sole 24 Ore del
05.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Minambiente.
Potature a scopo energetico.
Possono essere impiegati ai fini energetici i residui di
potatura derivanti da attività di manutenzione del verde se
rispettano quanto stabilito dall'articolo 185 del dlgs n.
152/2006 o se possono essere qualificati come sottoprodotti.
Tutto questo lo afferma la direzione generale dei rifiuti
del ministero dell'ambiente che, con la
nota 27.05.2015 n. 6038 di prot. di risposta alla
Fiper riconosce la possibilità di poter impiegare i residui
di potatura derivanti da attività di manutenzione del verde
a fini energetici al di fuori della normativa in materia di
rifiuti.
I tecnici dell'ambiente ricordano che i residui
derivanti da attività di manutenzione del verde possono
essere qualificati «sottoprodotti» a patto che rispettino i
quattro requisiti definiti dall'articolo 184-bis del Testo
unico ambientale.
Per essere qualificato sottoprodotto la
sostanza o l'oggetto è originato da un processo di
produzione di cui costituisce parte integrante, ma il cui
scopo primario non è la produzione di tale sostanza
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2015). |
LAVORI PUBBLICI:
Uno sbarramento alle varianti. Direzione lavori
off limits per il contraente generale.
APPALTI/ Cosa prevede il ddl delega approvato mercoledì
in commissione al Senato.
Appalti con forti limiti alle varianti, ammesse soltanto se
impreviste o imprevedibili ed entro una determinata soglia;
divieto di direzione lavori al contraente generale; limiti
all'appalto integrato; divieto di proroga delle concessioni
autostradali; più poteri all'Anac; maggiori tutele per le
piccole e medie imprese; divieto di deroga al codice appalti
se non per calamità naturali; introdotti l' albo dei
commissari di gara e dei direttori dei lavori delle grandi
opere.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore rilievo contenuti
nel testo disegno di legge delega sugli appalti pubblici (Atto
Senato n. 1678)
approvata mercoledì sera dalla commissione lavori pubblici
del Senato in sede referente.
Il provvedimento attraverso il
quale si avvierà il processo di recepimento delle nuove
direttive europee sugli appalti pubblici e, soprattutto, la
riforma del codice dei contratti pubblici e del relativo
regolamento di attuazione, adesso va in aula dove è già
previsto all'8 giugno il termine per gli emendamenti, segno
evidente di una accelerazione dei lavori dopo il lungo e
approfondito esame in commissione, iniziato sei mesi fa.
Fra gli emendamenti approvati mercoledì al testo predisposto
dai due relatori, Esposito e Pagnoncelli (che ad aprile ha
sostituito integralmente quello del Governo di agosto 2014),
si segnala quello concernente le concessioni autostradali,
con il divieto di proroga e l'obbligo di gara da esperire
almeno 24 mesi prima della scadenza della concessione.
Un
altro emendamento approvato l'altra sera riguarda il regime
delle varianti, con la possibilità per la stazione
appaltante di risolvere il contratto laddove le varianti -ammesse soltanto se determinate da eventi imprevisti e
imprevedibili e adeguatamente motivate- superino una
determinata soglia che dovrà essere fissata in sede di
attuazione della delega; sullo stesso argomento si precisa
che la responsabilità del progettista per errori od
omissioni progettuali vale anche in caso di predisposizione
di varianti.
Prevista anche, con una modifica introdotta mercoledì sera,
l'indicazione alle stazioni appaltanti di mettere in gara
contratti che, per la loro entità, favoriscano la
partecipazione delle piccole e medie imprese;
sostanzialmente si tratta di una attuazione del divieto di
mega-lotti, tipici degli interventi della cosiddetta «legge
obiettivo». Sulle grandi opere viene confermato il divieto
di affidamento della direzione lavori al general contrastar
e la creazione di una sorta di albo dei direttori dei lavori
presso il Ministero delle infrastrutture.
Il nuovo codice
dei contratti pubblici sarà obbligatorio e le deroghe
saranno ammesse soltanto per calamità naturali. Le stazioni
appaltanti saranno tenute a utilizzare prevalentemente il
criterio di aggiudicazione dell'offerta offerta
economicamente più vantaggiosa e si dovrà disciplinare
quando usare, residualmente, il criterio del prezzo più
basso: si tratta di una delle indicazioni finalizzate alla
valorizzazione del progetto e in generale all'innalzamento
degli aspetti qualitativi e tecnici dell'opera, unitamente
al principio generale di affidamento dei lavori sulla base
del progetti esecutivo.
I contratti misti di progettazione e
costruzione, come l'appalto integrato, vengono infatti
relegati alle ipotesi di particolare complessità tecnologica
e impiantistica, praticamente tornando alla previsione della
cosiddetta «Merloni-Ter» del 1998.
Un ruolo fondamentale,
all'interno delle nuove regole che verranno scritte nei
decreti delegati, viene assegnato all'Anac, l'Autorità
nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, che
vede molto rafforzati i propri poteri, a partire dalla
vincolatività dei propri provvedimenti: le stazioni
appaltanti dovranno seguire le linee guida e le indicazioni
dell'authority.
Inoltre sarà l'Anac a gestire un albo dei
commissari di gara cui le stazioni appaltanti dovranno fare
riferimento quando dovranno costituire le commissioni
giudicatrici, un elemento di forte moralizzazione del
sistema. Dovrà poi essere rivisto il sistema di verifica dei
requisiti denominato Avcpass, oggetto di critiche da parte
del mondo delle amministrazioni e degli operatori economici
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Tasi, dichiarazione come l'Imu. Ai fini
dell'adempimento si utilizza lo stesso modello. Circolare
delle Finanze. Esentati gli occupanti diversi dai titolari
del diritto reale.
Non è necessaria l'approvazione di un apposito modello di
dichiarazione Tasi, perché può essere utilizzato quello
previsto per la dichiarazione dell'Imu.
Gli «occupanti» diversi dai titolari del diritto reale
sull'immobile non devono presentare la dichiarazione Tasi se
il comune è già a conoscenza delle informazioni relative
agli immobili locati.
È quanto si legge nella
circolare
03.06.2015 n. 2/DF
della direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia.
In realtà nella risoluzione n. 3/DF del 25.03.2015, alla
quale i tecnici di via dei Normanni fanno rinvio, era stato
precisato che anche il modello di dichiarazione Tasi, come
quello dell'Imu, deve essere approvato con decreto del
ministro dell'economia e delle finanze ed essere, quindi,
unico e valido su tutto il territorio nazionale, e non
poteva esserci spazio per modelli deliberati dai comuni, sui
quali incombe solo l'onere specifico, dettato dal comma 685
dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, di mettere a
disposizione dei contribuenti il modello di dichiarazione.
Con l'approssimarsi del termine del 30.06.2015 previsto
per l'adempimento dell'obbligo dichiarativo relativo alla Tasi, tutti si attendevano un modello ministeriale unico a
livello nazionale che, a dire il vero, non ci sarà.
Il motivo è semplice: allo scopo di semplificare gli
adempimenti dei contribuenti, tenuto conto del fatto che le
informazioni necessarie al comune per il controllo e
l'accertamento del corretto assolvimento dell'obbligazione
tributaria ai fini Imu e Tasi, sono sostanzialmente
identiche, è sufficiente utilizzare il modello previsto per
la dichiarazione dell'Imu, approvato con decreto del
ministro dell'economia e delle finanze 30.10.2012.
Nella risoluzione si precisa, altresì, che tale
determinazione è assunta «anche in vista della preannunciata
riforma della tassazione immobiliare locale», circostanza
che fa, quindi, propendere per una soluzione che non addossi
per quest'anno ulteriori adempimenti a carico dei
contribuenti.
Del resto, tale semplificazione era già stata enunciata
relativamente alla dichiarazione Imu prevista per gli enti
non commerciali di cui all'art. 7, comma 1, lett. i), del
dlgs n. 504, del 1992, per la quale si prevede un unico
modello con il quale viene assolto sia l'obbligo
dichiarativo Imu sia quello Tasi. La seconda questione
affrontata nella circolare riguarda l'art. 1, comma 681,
della legge n. 147 del 2013, in base al quale «nel caso in
cui l'unità immobiliare è occupata da un soggetto diverso
dal titolare del diritto reale sull'unità immobiliare,
quest'ultimo e l'occupante sono titolari di un'autonoma
obbligazione tributaria».
Ebbene una rigida applicazione
della norma imporrebbe agli «occupanti» diversi dai titolari
del diritto reale sull'immobile, che non hanno, quindi,
finora assolto gli adempimenti dichiarativi in materia di Imu, di presentare la dichiarazione Tasi.
In realtà varie sono le ipotesi in cui il comune è già a
conoscenza delle informazioni relative agli immobili locati
e quindi non vi è necessità di dichiarazione da parte del
contribuente. Nella risoluzione si fa riferimento a quanto
già illustrato nelle istruzioni alla dichiarazione Imu, dove
si legge che la dichiarazione non deve essere presentata:
- nel caso di contratti di locazione e di affitto registrati
dal 01.07.2010, poiché da tale data, al momento della
registrazione devono essere comunicati al competente ufficio
dell'Agenzia delle entrate anche i relativi dati catastali;
- nel caso in cui il comune ha previsto, nel regolamento, ai
fini dell'applicazione dell'aliquota ridotta, specifiche
modalità per il riconoscimento dell'agevolazione,
consistenti nell'assolvimento da parte del contribuente di
particolari adempimenti formali quali, per esempio, la
consegna del contratto di locazione o la presentazione di
un'autocertificazione.
Nella risoluzione si precisa, inoltre, che il comune può
adottare ulteriori strumenti di integrazione delle
informazioni assumendole, in particolare:
- da quelle relative ad altri tributi, come al prelievo sui
rifiuti;
- dai dati risultanti dai versamenti Tasi effettuati dai
possessori degli immobili, visto che in base ai commi 681 e
688 dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, detti soggetti
sono tenuti a versare la Tasi nella misura del 90%, se il
comune non ha stabilito la misura del versamento Tasi a
carico dell'occupante oppure fino al limite del 70%
dell'imposta, nel caso in cui il comune abbia deliberato una
diversa misura della percentuale a carico dell'occupante.
Ne consegue che il contribuente che sia un soggetto diverso
dal titolare del diritto reale sull'immobile e che deve ad
ogni modo fornire i dati necessari al comune, che non ne è
entrato in possesso in altro modo, deve utilizzare la parte
del modello di dichiarazione Imu dedicata alle «Annotazioni»
per precisare il titolo (per esempio, «locatario») in base
al quale l'immobile è occupato ed è sorta la propria
obbligazione tributaria
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2015). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI -
COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Legge Severino, legittima la stretta sugli
arbitrati. Via libera anche alla disciplina della fase
transitoria. Corte costituzionale. Promossa la necessità
dell’autorizzazione pubblica.
La legge Severino, nella parte in
cui condiziona ad autorizzazione l’utilizzo dell’arbitrato,
passa l’esame di costituzionalità. Anche nella disciplina
della fase transitoria.
La Corte costituzionale con la
sentenza 09.06.2015 n. 108, scritta da Daria de
Pretis, depositata ieri, ha infatti giudicato infondate le
questioni sollevate su quella parte della legge (articolo 1,
comma 25, della legge n. 190 del 2012) che, nel prevedere la
necessita dell’«autorizzazione motivata da parte
dell’organo di governo dell'amministrazione» per la
devoluzione ad arbitri della soluzione delle controversie su
diritti soggettivi nell’ambito dell’esecuzione di contratti
pubblici stabilisce l’applicazione anche a quegli arbitrati
che sono stati conferiti dopo l’entrata in vigore della
Severino sulla base di clausole compromissorie pattuite
precedentemente.
L’inefficacia sopravvenuta di queste ultime, non autorizzate
dalla pubblica amministrazione, sarebbe in contrasto con il
principio di certezza e di stabilità dell’ordinamento
giuridico e con la libertà di iniziativa economica.
Una tesi che però la Corte costituzionale non condivide. Il
divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una
preventiva e motivata autorizzazione, sottolinea la
Consulta, non ha l’effetto di rendere nulle in via
retroattiva le clausole compromissorie originariamente
inserite nei contratti, ma “solo” quello di sancirne
l’inefficacia per il futuro.
Una conseguenza dell’applicazione del principio secondo il
quale la nullità di un contratto o di una sua singola
clausola, prevista da una norma limitativa dell’autonomia
contrattuale che sopraggiunge nel corso di esecuzione di un
rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la
produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la
sua singola clausola si devono ritenere non più operanti.
Non si pone conseguentemente alcun problema di
retroattività.
Quanto alla parte più strutturale, quella
dell’autorizzazione, che contrasterebbe con gli articoli 3 e
111 della Costituzione perché si «risolverebbe in un vero
e proprio diritto potestativo all'instaurazione del giudizio
arbitrale, tale da pregiudicare la parità delle parti nel
processo e da determinare uno sbilanciamento in favore della
parte pubblica», il giudizio finale resta il medesimo:
infondatezza.
Per la Corte costituzionale si tratta di una limitazione che
non è manifestamente irragionevole, vista la necessità della
pubblica amministrazione di limitare i costi in controversie
dall’elevato valore economico. Tanto più che, nel caso
esaminato adesso dalla Consulta (che peraltro ricorda un
precedente di tenore analogo del 2001, sentenza n. 376), si
accompagna anche la finalità generale di prevenire
l’illegalità nella pubblica amministrazione.
A questo obiettivo è ispirata la norma della legge Severino,
che non esprime un irragionevole sfavore per il ricorso
all’arbitrato, ma si limita a subordinare il deferimento
delle controversie ad arbitri a una preventiva
autorizzazione amministrativa che assicuri la ponderata
valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze
del caso concreto (articolo Il Sole 24 Ore del
10.06.2015). |
APPALTI -
COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Il politico autorizza l'arbitrato nei lavori.
Una sentenza della Consulta salva la legge
190 del 2012.
Il politico decide se autorizzare l'arbitrato per una
controversia su un appalto pubblico. Si tratta di una scelta
discrezionale, che è legittimo affidare all'organo di
governo. Inoltre l'obbligo di preventiva autorizzazione si
applica anche agli appalti anteriori all'entrata in vigore
della legge 190/2012.
Con questa motivazione la Corte costituzionale ha promosso
proprio la legge 190/2012, e l'articolo 241 del Codice degli
appalti (dlgs 163/2006), che hanno modificato le possibilità
di ricorrere all'arbitrato al posto delle cause davanti al
giudice.
La
sentenza 09.06.2015 n. 108
della Consulta ha scrutinato sotto diversi profili la norma,
che ne è uscita indenne.
Vediamo di illustrare la questione.
La legge 190/2012 (norme anticorruzione) prevede, per la
risoluzione delle controversie relative agli appalti
pubblici, il ricorso all'arbitrato solo se c'è la preventiva
autorizzazione dell'organo di governo dell'amministrazione;
inoltre si prevede la nullità delle clausole compromissorie
e dei procedimenti di arbitrati senza l'autorizzazione.
Questa norma si applica anche ai contratti precedenti alla
introduzione della norma, facendo, però, salvi gli arbitrati
già iniziati o già autorizzati.
Propria questa regola ha convinto un collegio arbitrale a
sollevare la questione, per più motivi, alla Corte
costituzionale, che, però, ha ritenuto infondato il ricorso.
Innanzi tutto la norma non può essere censurata, perché
retroattiva: in realtà non lo è, perché si limita a
disciplinare per il futuro l'efficacia delle clausole dei
contratti precedenti, che vengono integrate dalla norma
successiva.
Non c'è, poi, prevaricazione della pubblica amministrazione
sul privato: la p.a. unilateralmente può decidere se
autorizzare o meno la clausola sull'arbitrato; ci sono
interessi pubblici superiori da tutelare come il
contenimento dei costi delle cause e la finalità di
prevenire l'illegalità.
Nessun problema anche per l'assegnazione della competenza a
dare l'autorizzazione all'organo politico di governo,
anziché ai dirigenti. Anzi, l'attribuzione del compito al
politico ha una sua ragionevolezza.
Si tratta, infatti, di verificare se sono in gioco verifiche
tecniche o scelte di indirizzo politico. La Corte
costituzionale si pronuncia a favore della seconda opzione.
La sentenza in esame spiega che la scelta di autorizzare
l'arbitrato è di carattere altamente discrezionale, non è
riconducibile alla categoria delle valutazioni tecniche, ma
impone di formulare giudizi molto delicati, affidati
all'organo di governo.
Confisca antimafia
Si può fare solo per violazione di legge, il ricorso in
cassazione contro i provvedimenti di confisca, quale misura
di prevenzione. Non è, invece, possibile il ricorso per
vizio di motivazione (possibile per contestare le misure di
carattere personale).
La consulta (sentenza 106 depositata il 09.06.2015) ha
ritenuto infondata la questione di illegittimità relativa
all'articolo 4 della legge 1423/1975 e dell'articolo 3-ter
della legge 575/1965 (articolo ItaliaOggi del
10.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI
PROGETTAZIONE: Risarcimento
integrale per l’architetto che perde la gara. Appalti.
Responsabilità extracontrattuale per la Pa che preferisce il
candidato con meno titoli.
La pubblica amministrazione deve
risarcire il professionista per le spese sostenute, il
guadagno sfumato e il mancato incremento del suo curriculum
se nella gara gli ha preferito un concorrente con meno
titoli.
La Corte di Cassazione - Sez.
III civile, con la
sentenza
08.06.2015 n. 11794, dà partita vinta a un architetto che era entrato in
lizza per un incarico di progettista nell’ambito di un
progetto di edilizia residenziale pubblica.
Compito che era stato assegnato a un altro partecipante con
minor punteggio, scelta che avevano portato il Tar Calabria
ad accogliere il ricorso dell’escluso annullando la
delibera, per la mancata comparazione dei curricula. Il Tar
aveva nominato anche un commissario ad acta per la
valutazione dei titoli, una verifica dalla quale era emerso
che il “posto” spettava al ricorrente.
Una soddisfazione che era arrivata troppo tardi per poter
svolgere l’ambìto incarico, ormai già espletato, ma non per
chiedere il risarcimento per lucro cessante e danno
emergente. Pretesa legittima secondo il tribunale di prima
istanza che accorda le due voci, ritenendo il pregiudizio
subìto dal professionista provato già dai fatti. Diversa
l’opinione della corte d’Appello che riconosce solo il danno
emergente, quantificato nelle spese per sostenere la gara, e
“taglia” il lucro cessante perché non era stato concluso
alcun contratto né svolta alcuna attività.
L’ultimo verdetto sgombra il campo dai dubbi. La Cassazione
bacchetta il Tribunale che ha sbagliato solo nella premessa:
la colpa dell’amministrazione non è mai in re ipsa, per
affermarla non basta l’adozione del provvedimento
illegittimo ma bisogna capire come sarebbero andate le cose
per il ricorrente se la gara si fosse svolta correttamente.
Scivolone giurisprudenziale a parte, è giusta la
conclusione, perché il diritto al risarcimento è integrale.
Un punto sul quale a sbagliare è invece la Corte d’appello
che, pur verificando corettamente tutti i presupposti della
responsabilità extracontrattuale, nesso causale tra attività
illegittima e danno compreso, “cade” sulla quantificazione
limitando la somma da riconoscere al danno emergente.
La Suprema corte spiega che accolta la domanda per «la
lesione degli interessi legittimi pretensivi, i criteri per
la quantificazione del danno sono quelli ordinari».
Appurato
che il “sorpasso” da parte del meno titolato era illegittimo
e che se non ci fosse stato il ricorrente avrebbe intascato
il guadagno derivante dall’incarico, ha diritto alle spese
di competizione, alle entrate perse e anche al mancato
arricchimento del curriculum (articolo Il Sole 24 Ore del
09.06.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi
in cui l’ordinanza ingiuntiva (di demolizione) sia
indirizzata ad un soggetto che non è il diretto autore
dell’opera ed attinga un bene di realizzazione assai
risalente, essa deve menzionare le esigenze di pubblico
interesse sottese alla emanazione del provvedimento
demolitorio.
Tanto più giusta il carattere risalente delle opere
(esistenti quantomeno da 22 anni risultando menzionate
nell’atto di compravendita stipulato) e buona fede
dell'acquirente (avendo egli acquistato l’immobile facendo
affidamento sulla dichiarazione del dante causa in ordine
alla conformità dei beni compravenduti alla concessione
edilizia n. 114 del 16.09.1986).
...per l'annullamento dell’ordinanza n. 26 del 16.04.2014,
con la quale è stata disposta la demolizione di manufatti
ritenuti abusivi, di ogni atto connesso e presupposto,
compreso il rapporto prot. n. 58994 del 10.04.2014
...
Espone il ricorrente di aver acquistato in data 22.06.1993,
dal sig. G.P., i seguenti immobili facenti parte del
complesso residenziale denominato P.co Bouganville, sito
alla Via ... n. 1 del Comune di Salerno:
- appartamento costituente l’intero secondo piano del
fabbricato distinto con la lett. C del predetto complesso;
- locale deposito in piano terra del fabbricato C;
- locale box sito al piano terra del medesimo fabbricato C;
- locale box sito ugualmente al piano terra del fabbricato
D.
Lamenta quindi che, a distanza di oltre 28 anni dalla
realizzazione dei manufatti, l’amministrazione comunale,
rilevata a seguito di sopralluogo la realizzazione sine
titulo dei due box, ne ha ingiunto la demolizione.
...
Tanto premesso, la domanda di annullamento è meritevole di
accoglimento.
Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza n. 1016 del 04.03.2014, nell’ipotesi in cui
l’ordinanza ingiuntiva sia indirizzata ad un soggetto che
non è il diretto autore dell’opera ed attinga un bene di
realizzazione assai risalente, essa deve menzionare le
esigenze di pubblico interesse sottese alla emanazione del
provvedimento demolitorio.
Ebbene, i suindicati presupposti per imporre
all’amministrazione, in occasione dell’esercizio del potere
repressivo, uno specifico onere motivazionale sussistono
nella fattispecie in esame, allegando il ricorrente, senza
essere smentito dall’amministrazione comunale, il carattere
risalente delle opere (esistenti quantomeno a far data dal
22.06.1993, risultando menzionate nell’atto di compravendita
stipulato in pari data dal ricorrente, dalla coniuge e dal
dante causa sig. P.G.) e la sua buona fede (avendo egli
acquistato l’immobile facendo affidamento sulla
dichiarazione del dante causa in ordine alla conformità dei
beni compravenduti alla concessione edilizia n. 114 del
16.09.1986).
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi sulla scorta
del fatto, evidenziato dalla difesa comunale, che le opere
de quibus ricadono in area paesaggisticamente
tutelata (cd. Masso della Signora) ex d.m. 15.09.1971,
trattandosi di dato rilevante in sede di eventuale
riesercizio del potere repressivo, in occasione del quale
l’amministrazione ben potrà tenere conto, previa attenta
valutazione della consistenza delle opere abusive e della
loro ubicazione, della effettiva incidenza delle stesse sui
valori paesaggistici tutelati e meritevoli di conservazione
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.06.2015 n. 1348 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente doppia sanzione sugli incarichi.
Pubblico impiego. Cancellata dalla Consulta la penalità per
i soggetti che non comunicano il compenso alla Pa di
appartenenza.
Chi conferisce un incarico a un dipendente pubblico e non
comunica alla Pa di appartenenza dello statale il compenso
erogato entro 15 giorni dal pagamento non si vedrà più
chiedere una sanzione pari al doppio del compenso stesso.
La norma che
prevedeva questa penalità è stata infatti cancellata dalla
Corte costituzionale, nella
sentenza
05.06.2015 n. 98 (presidente Criscuolo, relatore Grossi) diffusa ieri.
Per capire il problema bisogna ricostruire l’architettura
delle regole, come al solito complessa e figlia di varie
stratificazioni normative. In pratica, i soggetti privati e
gli enti pubblici economici possono conferire incarichi agli
statali (così come ai dipendenti di Regioni ed enti locali)
previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza,
ed entro 15 giorni dal pagamento devono comunicare alla
stessa amministrazione l’ammontare del compenso.
Questi obblighi sono accompagnati da una sanzione pari al
doppio del compenso erogato, che colpisce sia chi conferisce
incarichi senza che la Pa di appartenenza autorizzi il
dipendente, sia chi non comunica il compenso entro 15 giorni
dal pagamento. La norma finita sui tavoli della Consulta e
cancellata dai giudici delle leggi (articolo 53, comma 15,
del Testo unico del pubblico impiego, Dlgs 165/2001)
riguarda solo il secondo caso, quello della mancata
comunicazione.
A convincere i giudici che fosse necessario cancellare
questa norma sono stati due fattori: il primo è un eccesso
di delega, dovuto al fatto che la regola è stata introdotta
da un decreto legislativo (Dlgs 80/1998) attuativo di una
delle tante riforme della Pubblica amministrazione, prevista
dalla legge 59/1997. Dal momento che nessuno dei criteri
direttivi di questa legge sembrava adombrare una sanzione da
applicare anche ai casi di mancata comunicazione, il testo
del decreto attuativo è uscito dal seminato.
Ma queste considerazioni sulla gerarchia delle leggi si
accompagnano nella sentenza a riflessioni sostanziali, che
censurano l’«irragionevolezza» e la mancata proporzionalità
della sanzione. La stessa penalità (due volte il compenso
erogato) si applica infatti sia al conferimento di incarichi
senza aver ottenuto l’autorizzazione della Pa di
appartenenza del dipendente, sia alla mancata comunicazione
del compenso, «perequando situazioni del tutto differenziate
per gravità e natura».
L’obbligo di comunicazione, infatti,
è solo strumentale, serve al funzionamento dell’anagrafe
delle prestazioni (che in realtà anche oggi rimane lontana
dal pieno regime), e non può essere sanzionato come la
violazione sostanziale determinata dalla mancata
autorizzazione (articolo Il Sole 24 Ore del
06.06.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Compensi ai dipendenti pubblici, sanzione in soffitta.
La corte costituzionale sulla mancata comunicazione da parte
degli enti e soggetti privati erogatori.
Incostituzionale la sanzione imposta a enti pubblici e
soggetti privati che non comunichino alle amministrazioni di
appartenenza eventuali compensi erogati ai loro dipendenti.
La Corte costituzionale, con la
sentenza
05.06.2015 n.
98, a seguito della questione di legittimità sollevata dal
giudice del lavoro di Ancona, ha bocciato la sanzione (pari
al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi
forma) prevista dal dlgs 165/2001.
La Consulta ha ritenuto
fondato il ricorso, in applicazione degli articoli 3 e 76
della Costituzione, quest'ultimo posto a disciplinare il
procedimento di delegazione legislativa. In sintesi, dunque,
l'incostituzionalità dell'articolo 53, comma 15, del dlgs
165/2001 deriva dalla violazione da parte del legislatore
delegato, cioè il governo, dei criteri direttivi fissati dal
parlamento con la legge delega.
L'articolo 53, comma 15, è il frutto di un intricato e
complicato susseguirsi di disposizioni normative. La prima è
l'art. 2, comma 1, lett. p), della legge 421/1992, che dava
mandato al governo di obbligare enti pubblici economici e
soggetti privati a comunicare alle amministrazioni di
appartenenza gli emolumenti corrisposti a dipendenti
pubblici da essi incaricati a qualsiasi titolo, «allo scopo
di favorire la completa attuazione dell'anagrafe delle
prestazioni». La legge delega, dunque, non conteneva alcuna
indicazione tendente a indurre il legislatore delegato a
introdurre una sanzione amministrativa in caso di omissione
della comunicazione.
L'art. 58 del dlgs 29/1993 aveva attuato la delega prevista,
proprio senza aver previsto alcuna sanzione amministrativa.
Successivamente, il dl 79/1997, convertito dalla legge 140/1997,
con l'art. 6 introduceva nell'ordinamento, per la prima
volta, la sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti
pubblici o privati, per non aver rispettato l'obbligo di
comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli
incarichi conferiti a dipendenti pubblici.
Un anno dopo, l'art. 26 del dlgs 80/1998, introdusse rilevanti
modificazioni all'art. 58 del dlgs 29/1993, sostituendo
l'obbligo della mera comunicazione dell'incarico a
dipendenti pubblici, con quello della previa autorizzazione
da parte della amministrazione di appartenenza;
contestualmente, correlò la sanzione amministrativa
all'inadempimento all'obbligo di preventiva autorizzazione.
Ma, il citato art. 26 del dlgs 80/1998, frutto della legge
delega 59/1997, non si limitò a questo, perché estese la
medesima sanzione amministrativa anche all'ipotesi di
mancata comunicazione degli emolumenti erogati ai dipendenti
pubblici incaricati.
È, dunque, l'art. 26 del dlgs 80/1998 ad aver violato la
disciplina dell'art. 76 della Costituzione sulla delegazione
legislativa. L'art. 53 del dlgs 165/2001, che ha sostituito
il dlgs 29/1993, si è limitato poi a riprodurre le
disposizioni come determinate dal citato articolo 26 del
dlgs 80/1998, confermandone così un contenuto influenzato dal
vizio di costituzionalità evidenziato.
La Consulta nella sentenza mette in rilievo che il governo,
in applicazione delle deleghe legislative, dispone
sicuramente di un ampio margine di discrezionalità.
Tuttavia, «ove, come nella situazione di specie, si
discuta della predisposizione, da parte del legislatore
delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di
espressa indicazione nell'ambito della delega, lo scrutinio
di «conformità» tra le discipline appare particolarmente
delicato» e «la sanzione non rappresenta affatto
l'indispensabile corollario di una prescrizione e che
quest'ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una
propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo
un'esauriente ed efficace osservanza».
Dunque, il governo non disponeva del margine per introdurre
una sanzione per l'omessa comunicazione degli emolumenti,
tanto più che tale comunicazione aveva il solo scopo «accessorio»
di permettere la completa formulazione dell'anagrafe delle
prestazioni dei dipendenti pubblici. La sanzione, dunque,
considerata incostituzionale è stata valutata dalla Consulta
irrazionale e particolarmente afflittiva
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Mette
conto evidenziare che, in linea generale, nei procedimenti
in materia di edilizia ed urbanistica, ed in particolare,
nel caso di rilascio di concessione edilizia e di
autorizzazione paesaggistica, non si rivela necessaria la
previa comunicazione di avvio del procedimento a soggetti
terzi dal momento che, in subiecta materia, non sono
normalmente configurabili controinteressati nei confronti
dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e
ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per il terzo ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica.
Il vicino controinteressato non è, dunque, un soggetto cui
deve essere inviata la comunicazione di avvio del
procedimento per un titolo edilizio (ma lo stesso è a dirsi
anche rispetto all’autorizzazione paesaggistica), ai sensi
dell'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, pur se egli già si sia
opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia
dell'altro soggetto confinante.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione
edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto
legittimato possono intervenire nel procedimento ed
impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non
hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
... per l'annullamento del parere reso con nota prot. n.
16349/2011con cui la Soprintendenza per i beni storici,
artistici ed etnoantropologici per Napoli e Provincia ha
espresso il proprio avviso favorevole, ai sensi
dell’articolo 167 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2014,
sull’istanza di compatibilità paesaggistica presentata dal controinteressato,
...
Esaurita la disamina delle questioni di rito, e venendo al
merito della res iudicanda, rileva il Collegio che priva di
pregio si rivela, anzitutto, la censura con cui la parte
ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di
partecipazione al procedimento.
Ed, invero, mette conto evidenziare che, in linea generale,
nei procedimenti in materia di edilizia ed urbanistica, ed
in particolare, nel caso di rilascio di concessione edilizia
e di autorizzazione paesaggistica, non si rivela necessaria
la previa comunicazione di avvio del procedimento a soggetti
terzi dal momento che, in subiecta materia, non sono
normalmente configurabili controinteressati nei confronti
dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e
ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per il terzo ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica (cfr. ex multis Consiglio di
Stato sez. III 12.12.2014 n. 6138).
Il vicino controinteressato non è, dunque, un soggetto cui
deve essere inviata la comunicazione di avvio del
procedimento per un titolo edilizio (ma lo stesso è a dirsi
anche rispetto all’autorizzazione paesaggistica), ai sensi
dell'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, pur se egli già si
sia opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia
dell'altro soggetto confinante. Infatti, ove sia stata
proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del
richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire
nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie
l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio
del procedimento (Consiglio di Stato sez. VI 10.04.2014
n. 1718)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 04.06.2015 n. 3042 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
all’inquadramento dell’intervento qui in rilievo nelle varie
categorie edilizie previste dalla disciplina di settore, la
realizzazione di un balcone, in ragione del quid novi che ad
essa si riconnette rispetto al pregresso stato dei luoghi,
debba essere ascritta nel genus della cd. ristrutturazione
edilizia.
---------------
La enucleabilità di un intervento di ristrutturazione non
vale di per sé a rendere inammissibile l’istanza di
sanatoria di cui all’articolo 167, comma IV, del d.lgs.
42/2004, a mente del quale “L'autorità amministrativa
competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo
le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380”.
Ed, invero, la richiamata disciplina di riferimento non
esclude, in via astratta, la possibilità di un accertamento
della compatibilità paesaggistica di un intervento di
ristrutturazione edilizia già effettuato in assenza di
previo rilascio di autorizzazione paesistica; il solo
elemento a ciò ostativo in via assoluta, preso in
considerazione dal legislatore nell'occasione, è la
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente assentiti, pur con l'esclusione dei
lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria ai sensi dell'art. 3,
D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In siffatte evenienze, dunque, s’impone piuttosto una
puntuale valutazione in concreto onde appurare se
l’intervento di ristrutturazione eseguito integri un
incremento non consentito, tra l’altro, di superficie utile,
valutazione nella specie del tutto omessa, non evincendosi
sul punto alcun utile riferimento nel corpo del
provvedimento gravato che giustifica il proprio favorevole
avviso con la seguente laconica espressione “parere
favorevole in quanto paesaggisticamente compatibile ben
inserendosi il balcone nell’architettura locale”.
--------------
Non è possibile ritenere che l’obbligo generale della
motivazione patisca eccezioni nel caso di atti di contenuto
positivo.
E’ stato, infatti, più volte evidenziato in giurisprudenza,
proprio in subiecta materia, che sia i provvedimenti
negativi che quelli positivi debbano essere sostenuti da
adeguata motivazione. Invero, l'esigenza di una congrua
motivazione —che si giustifica, innanzitutto, con la
considerazione del valore costituzionale da preservare
(tutela del paesaggio ex art. 9 cost.)— postula che l'atto
autorizzatorio fornisca la piena ricostruzione
dell'itinerario seguito in ordine alle ragioni di
compatibilità/incompatibilità effettiva che, in riferimento
agli specifici valori paesistici del luogo, possano, ove
sussistenti, consentire o meno i progettati lavori.
L'onere di motivazione non sussiste, dunque, solo in caso di
diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per
l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso,
dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la
compatibilità effettiva degli interventi edificatori in
riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi,
occorrendo dare sufficiente prova dei criteri di merito
seguiti per giustificare il finale e positivo giudizio di
compatibilità ambientale del manufatto medesimo.
Deve, viceversa, ritenersi fondata la censura con cui il
ricorrente lamenta l’insufficienza del corredo motivazionale
in cui impinge il provvedimento impugnato.
Vale premettere, quanto all’inquadramento dell’intervento
qui in rilievo nelle varie categorie edilizie previste dalla
disciplina di settore, che la realizzazione di un balcone,
in ragione del quid novi che ad essa si riconnette rispetto
al pregresso stato dei luoghi, debba essere ascritta nel genus della cd. ristrutturazione edilizia (arg. ex Consiglio
di Stato sez. VI 05.12.2013 n. 5804; TAR Napoli
(Campania) sez. VII 07.06.2012 n. 2717; TAR Napoli
(Campania) sez. IV 28.10.2011 n. 5052; Cassazione
penale sez. III 20.05.1988; Cassazione penale sez. III
20.05.1988).
Ciò nondimeno, la enucleabilità di un intervento di
ristrutturazione non vale di per sé a rendere inammissibile
l’istanza di sanatoria di cui all’articolo 167, comma IV, del
d.lgs. 42/2004, a mente del quale “L'autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei
seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380”.
Ed, invero, la richiamata disciplina di riferimento non
esclude, in via astratta, la possibilità di un accertamento
della compatibilità paesaggistica di un intervento di
ristrutturazione edilizia già effettuato in assenza di
previo rilascio di autorizzazione paesistica; il solo
elemento a ciò ostativo in via assoluta, preso in
considerazione dal legislatore nell'occasione, è la
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente assentiti, pur con l'esclusione dei
lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria ai sensi dell'art. 3,
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Napoli (Campania)
sez. VII n. 2665 del 05/05/2010).
In siffatte evenienze, dunque, s’impone piuttosto una
puntuale valutazione in concreto onde appurare se
l’intervento di ristrutturazione eseguito integri un
incremento non consentito, tra l’altro, di superficie utile,
valutazione nella specie del tutto omessa, non evincendosi
sul punto alcun utile riferimento nel corpo del
provvedimento gravato che giustifica il proprio favorevole
avviso con la seguente laconica espressione “parere
favorevole in quanto paesaggisticamente compatibile ben
inserendosi il balcone nell’architettura locale”.
D’altro canto, e come efficacemente evidenziato dal
ricorrente, l’inettitudine funzionale della sopra riportata
proposizione a dar conto di una puntuale e approfondita
disamina dell’opera con la disciplina di riferimento è fatta
palese anche dall’assenza di qualsivoglia contributo
esplicativo idoneo a chiarire la ritenuta compatibilità
dell’intervento in argomento con le cogenti prescrizioni
conformative del vigente PTP, nemmeno menzionato nel
provvedimento impugnato e che non si perita nemmeno di
accertare la zona di riferimento ed il relativo regime
giuridico.
Senza contare, sotto diverso profilo, che, anche per gli
stessi profili di merito della suddetta valutazione, nella
parte in cui si afferma la compatibilità paesaggistica
dell’opera, appare di tutta evidenza l’insufficienza della
detta motivazione.
Ed, invero, ad una piana lettura del provvedimento qui
impugnato, emerge, con particolare nitore, che le
informazioni veicolate nel corpo dell’atto finale sono
manifestamente insufficienti, anche sotto tale ultimo
profilo, a dar conto, in modo chiaro, della traiettoria
argomentativa seguita dall’Autorità procedente.
Deve, infatti, ritenersi apodittica, in assenza di
plausibili argomentazioni esplicative, l’affermata
meritevolezza dell’istanza attorea “...ben inserendosi il
balcone nell’architettura locale”.
Tale statuizione, siccome del tutto disancorata da
pertinenti indicazioni esplicative, si rivela manifestamente
inidonea a disvelare, da un lato, il quadro di riferimento
utilizzato come parametro di riferimento e, dall’altro, i
ravvisati profili di presunta omogeneità dell’opera con il
tessuto architettonico locale.
Né è possibile ritenere che l’obbligo generale della
motivazione patisca eccezioni nel caso di atti di contenuto
positivo.
E’ stato, infatti, più volte evidenziato in giurisprudenza,
proprio in subiecta materia, che sia i provvedimenti
negativi che quelli positivi debbano essere sostenuti da
adeguata motivazione. Invero, l'esigenza di una congrua
motivazione —che si giustifica, innanzitutto, con la
considerazione del valore costituzionale da preservare
(tutela del paesaggio ex art. 9 cost.)— postula che l'atto autorizzatorio fornisca la piena ricostruzione
dell'itinerario seguito in ordine alle ragioni di
compatibilità/incompatibilità effettiva che, in riferimento
agli specifici valori paesistici del luogo, possano, ove
sussistenti, consentire o meno i progettati lavori (arg. ex
TAR Roma (Lazio) sez. II 08.08.2012 n. 7317).
L'onere di motivazione non sussiste, dunque, solo in caso di
diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per
l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso,
dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la
compatibilità effettiva degli interventi edificatori in
riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi,
occorrendo dare sufficiente prova dei criteri di merito
seguiti per giustificare il finale e positivo giudizio di
compatibilità ambientale del manufatto medesimo (arg. ex
TAR Napoli (Campania) sez. VI n. 1640 del 05/04/2012)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 04.06.2015 n. 3042 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, non
definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,
dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato le seguenti questioni:
a) se sia o meno obbligatoria, ai sensi dell’art. 118 del
d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, l’indicazione
già in sede di presentazione dell’offerta del nominativo del
subappaltatore, qualora il concorrente sia privo dei
necessari requisiti di qualificazione per talune categorie
scorporabili ed abbia espresso l’intento di subappaltare
tali prestazioni;
b) se, ammessa la risposta affermativa al quesito che
precede, per le procedure nelle quali la fase di
presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al
pronunciamento della Plenaria, sia possibile ovviare
all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d.
soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente
interessato a integrare la dichiarazione carente;
c) se, in relazione all’obbligo di indicazione in sede di
offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale,
affermato anche per gli appalti di lavori dalla sentenza nr.
3 del 2015, sia del pari possibile, per le procedure nelle
quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita
anteriormente al ridetto pronunciamento, ovviare
all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d.
soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente
interessato a integrare o precisare la dichiarazione
carente.
10. Tutto ciò premesso, la Sezione ritiene di dover
devolvere all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le
questioni di diritto meglio di sèguito indicate, che
risultano sottese al presente giudizio e in relazione alle
quali sussistono –o, comunque, potrebbero sussistere–
difformità di indirizzi in giurisprudenza potenzialmente
idonei a pregiudicare l’equa ed uniforme applicazione della
normativa di riferimento.
11. Più specificamente, e principiando dal tema oggetto
degli appelli principale e incidentale, questo attiene alla
necessità (o meno) dell’indicazione del nominativo dei
subappaltatori in sede di offerta da parte dei concorrenti
di una gara di appalto, i quali abbiano dichiarato di voler
subappaltare parte delle prestazioni oggetto
dell’affidamento, per le quali non risultino in possesso
della richiesta qualificazione.
11.1. Sul punto, si è già rilevato in sede cautelare che
effettivamente l’orientamento di gran lunga prevalente,
consolidatosi almeno negli ultimi due anni presso tutte le
Sezioni di questo Consiglio di Stato, è nel senso che l’art.
118, comma 2, del d.lgs. nr. 163/2006, nella parte in cui
sottopone l’affidamento in subappalto alla condizione che i
concorrenti all’atto dell’offerta abbiano indicato i lavori
o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti
di servizi e forniture che intendono subappaltare o
concedere in cottimo, va interpretato nel senso che la
dichiarazione deve contenere anche l’indicazione del
subappaltatore, unitamente alla dimostrazione del possesso
in capo al medesimo dei requisiti di qualificazione,
ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario
in conseguenza del mancato autonomo possesso, da parte del
concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (cd.
subappalto necessario); detta dichiarazione può invece
essere limitata alla mera indicazione della volontà di
concludere un subappalto nell’ipotesi in cui il concorrente
disponga autonomamente delle qualificazioni necessarie per
l’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto, ossia
quando il ricorso al subappalto rappresenti per lo stesso
concorrente una facoltà e non la via necessitata per
partecipare alla gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, nr. 944; id., 10.02.2015, nr. 676; id., sez. III,
26.11.2014, nr. 5856; id., sez. V, 28.08.2014, nr.
4405; id., sez. IV, 26.08.2014, nr. 4299; id., 26.05.2014, nr. 2675; id., 13.03.2014, nr. 1224; id.,
05.12.2013, nr. 5781).
Questa Sezione condivide tale indirizzo, la cui ratio
risiede manifestamente nell’esigenza di assicurare sempre e
comunque la partecipazione alle gare di concorrenti i quali
risultino in possesso della qualificazione richiesta dalla
lex specialis per tutte le prestazioni oggetto dell’appalto;
l’opposto indirizzo, infatti, produrrebbe l’effetto di
consentire la partecipazione di imprese sfornite dei
necessari requisiti di qualificazione all’atto della
presentazione dell’offerta, consentendo poi loro di
integrare ex post, in sede di esecuzione del contratto ed al
momento della successiva indicazione dei subappaltatori, i
predetti requisiti non posseduti: ciò che, con ogni
evidenza, comporterebbe una grave e ingiustificata
violazione della par condicio tra i concorrenti.
A fronte di tali rilievi, non appaiono dirimenti le
considerazioni sovente addotte, e anche nel presente
giudizio sostenute dalle parti appellanti, a sostegno
dell’opposta conclusione nel senso della non necessità di
un’immediata indicazione dei subappaltatori: considerazioni
riassumibili nel non essere tale obbligo espressamente
sancito dall’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006, nel porsi la
conseguente esclusione –ove non prevista dal bando di gara– in violazione del principio di tassatività delle cause
ostative oggi codificato all’art. 46, comma 1-ter, del
medesimo decreto, e nell’inidoneità in ogni caso
dell’indicazione dei subappaltatori a fornire alla stazione
appaltante serie garanzie sul possesso dei requisiti in capo
al concorrente.
Quanto al primo aspetto, è agevole rilevare che nell’ipotesi
in esame l’esclusione del concorrente dalla procedura
selettiva conseguirebbe non già alla mera inosservanza di un
obbligo dichiarativo, ma alla circostanza sostanziale del
mancato possesso dei necessari requisiti di qualificazione
per parte delle prestazioni oggetto dell’appalto: donde
l’irrilevanza della carenza di una specifica previsione
nell’art. 118, discendendo l’esigenza di un’indicazione
nominativa del subappaltatore dalla logica stessa del
sistema in materia di necessario possesso dei requisiti
tecnico-organizzativi di partecipazione.
Con riguardo al secondo profilo, va rammentato che,
nell’accezione “sostanzialistica” fatta propria
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. sent. 07.06.2012, nr. 21), il principio di tassatività va inteso
nel senso che l’esclusione dalle gare possa essere disposta
non nei soli casi in cui disposizioni del Codice dei
contratti pubblici o del regolamento attuativo la prevedano
espressamente, ma anche in ogni altro caso in cui dette
disposizioni impongano adempimenti doverosi ai concorrenti o
candidati, pur senza prevedere una espressa sanzione di
esclusione (in tal modo restando irrilevante la mancata
previsione esplicita di una comminatoria di esclusione, in
quanto si realizza una eterointegrazione legale della lex
specialis); tale argomento, con richiamo alle norme in tema
di possesso dei titoli di qualificazione indispensabili per
l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto, è richiamato
dalle pronunce che sostengono l’orientamento interpretativo
cui qui si aderisce (cfr. ad esempio la sent. nr. 1124/2014,
cit.).
Infine, quanto al terzo dei profili evocati, l’indirizzo
prevalente finisce invero per essere idoneo a garantire la
stazione appaltante in ordine al possesso dei requisiti di
qualificazione in capo al concorrente, nella misura in cui
si assuma –come in fatto è, nelle decisioni che a tale
impostazione aderiscono– che il concorrente, il quale sia
sprovvisto della qualificazione per le categorie
scorporabili e dichiari di voler subappaltare le relative
prestazioni, sia tenuto non solo a indicare nominativamente
i subappaltatori, ma anche e soprattutto ad attestare il
possesso dei requisiti in capo agli stessi (svolgendo di
fatto il subappalto, in tale ipotesi, la medesima funzione
dell’avvalimento ex art. 49 del d.lgs. nr. 163/2006).
11.2. Se tali sono gli argomenti che militano a favore
dell’opzione maggioritaria, non può però sottacersi che
ancora in tempi recenti l’opposto orientamento è emerso
nella giurisprudenza sia di primo grado (cfr. TAR Puglia,
sez. II, 27.03.2014, nr. 393) sia d’appello (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 07.07.2014, nr. 3449, sia pure con
riferimento a una fattispecie concreta in cui non si
trattava di subappalto c.d. “necessario”; id., 19.06.2012, nr. 3653), nonché nell’avviso costantemente espresso
sul punto dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti
Pubblici, oggi Autorità Nazionale Anticorruzione, secondo
cui “la normativa vigente non pone l’obbligo d’indicare i
nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, a
differenza di quanto previsto dall’art. 49 del d.lgs. 12.04.2006, nr. 163 per l’impresa ausiliaria, ma soltanto
l’onere di dichiarare preventivamente le lavorazioni che il
concorrente intenda subappaltare, qualora privo della
necessaria qualificazione, fermo restando, in tal caso, che
la mancanza della qualificazione nelle categorie
scorporabili a qualificazione obbligatoria deve essere
compensata da un corrispondente incremento della
qualificazione nella categoria prevalente, e ciò a tutela
della stazione appaltante, circa la sussistenza della
complessiva capacità economica e finanziaria in capo
all’appaltatore” (cfr. parere nr. 11 del 30.01.2014;
nello stesso senso, determinazione 10.10.2012, nr. 4,
e, da ultimo, determinazione 08.01.2015, nr. 1).
11.3. Al di là della perdurante difformità di indirizzi
testé evidenziata, tale da giustificare ex art. 99 cod.
proc. amm. la devoluzione all’Adunanza plenaria, rileva
l’ulteriore questione evidenziata dalle appellanti
principali nella propria memoria conclusiva, laddove si è
osservato come, avuto riguardo all’epoca in cui è stata
indetta la procedura selettiva per cui è causa (ottobre
2013), l’offerta è stata presentata in un momento in cui era
estremamente vivo il contrasto di indirizzi sopra descritto,
solo di recente in via di risoluzione con la prevalenza
dell’opzione più rigorosa; pertanto, in diretta applicazione
del principio di diritto comunitario che preclude
l’esclusione del concorrente da una procedura selettiva per
la violazione di una regola non connotata da chiarezza,
precisione e univocità al momento in cui sono stati posti in
essere i relativi adempimenti, la stazione appaltante
avrebbe dovuto ammettere l’impresa interessata al c.d.
soccorso istruttorio, consentendole di integrare la
dichiarazione carente.
Al riguardo, questa Sezione rileva che effettivamente, in
precedenti occasioni in cui l’Adunanza plenaria ha enunciato
principi di diritto suscettibili di incidere anche su
procedure di gara in corso, è stato lo stesso Supremo
Collegio a porsi il problema degli effetti della loro
possibile applicazione in relazione a vicende pregresse,
svoltesi in fase di perdurante incertezza
sull’interpretazione della normativa di riferimento,
ammettendo per tali casi l’esperibilità del soccorso
istruttorio: ciò è avvenuto, ad esempio, allorché è stata
generalizzata la regola della pubblicità della seduta di
gara concernente l’apertura dei plichi contenenti le offerte
tecniche e la verifica del loro contenuto (cfr. sent. 27.06.2013, nr. 16), nonché quando, a proposito degli
effetti della omessa indicazione per i concorrenti di una
gara di appalti della esistenza di condanne penali nei loro
confronti passate in giudicato, ex art. 38, comma 1, lett.
c), d.lgs. nr. 163/2006, nell’affermare la sussistenza di
tale obbligo in relazione alla posizione degli
amministratori di società interessate da processi di fusione
o incorporazione con il concorrente, è stato precisato che
tali condizioni dovessero ritenersi operanti per le gare
successive all’arresto interpretativo così raggiunto, mentre
per le gare precedenti, salvo espresse previsioni delle
norme di gara, dovesse negarsi l’ipotesi di espulsione per
mera omessa dichiarazione, dovendosi a tal fine dare
ingresso al c.d. soccorso istruttorio (cfr. sent. 07.06.2012, nr. 21).
Pertanto, qualora l’Adunanza plenaria dovesse condividere il
più rigoroso indirizzo che qui si sostiene, sarebbe
opportuno che si esprimesse anche in ordine alle sue
ricadute sulle procedure esperite in epoca anteriore, sotto
lo specifico profilo dell’ammissibilità (o meno) di
un’integrazione delle dichiarazioni rese dal concorrente
interessato, con l’indicazione nominativa dei subappaltatori
destinati a svolgere le prestazioni per le quali difetti in
capo all’impresa la necessaria qualificazione.
12. Una questione di diritto intertemporale, analoga a
quella testé prospettata, viene altresì sollecitata
dall’ulteriore motivo di censura articolato in primo grado,
rimasto assorbito dalla sentenza appellata e riproposto nel
presente grado dalla parte appellata, con riguardo alla
necessità, per quanto riguarda gli appalti di lavori, di
indicare già in sede di presentazione dell’ offerta i costi
da sostenere per gli oneri di sicurezza aziendale (motivo
destinato a venire in rilievo ove si concludesse nel senso
della fondatezza degli appelli sotto il profilo fin qui
esaminato).
Sul punto, in sede di reiezione dell’istanza di sospensiva
avanzata in una all’appello, è stato sinteticamente
richiamato, a sostegno della possibile fondatezza di tale
doglianza, il recente indirizzo dell’Adunanza plenaria nel
senso dell’obbligatorietà di detta indicazione, non potendo
il relativo accertamento rimettersi alla fase, successiva e
solamente eventuale, della verifica di congruità
dell’offerta economica (cfr. sent. 20.03.2015, nr. 3).
Tuttavia, anche con riguardo a tale questione parte
appellante evidenzia che nella specie la formulazione
dell’offerta risale ad epoca in cui il principio era
tutt’altro che pacifico (sottolineandosi anzi, nella stessa
decisione della Plenaria sopra richiamata, che negli anni
più recenti l’orientamento della giurisprudenza era stato in
senso opposto, e, cioè, nel senso che per gli appalti di
lavori non fosse necessario indicare già in sede di offerta
gli oneri per la sicurezza aziendale).
Di conseguenza, anche a tale riguardo la Sezione reputa
opportuno rimettere all’Adunanza plenaria gli opportuni
chiarimenti in ordine al “regime” cui assoggettare, quanto
all’esperibilità o meno del soccorso istruttorio, le vicende
–quale è quella che qui occupa- antecedenti all’arresto
giurisprudenziale da ultimo consolidatosi.
13. Riepilogando, sulla base delle motivazioni fin qui
esposte, si ritiene di dover deferire all’Adunanza plenaria
le questioni esposte in narrativa, e segnatamente:
a) se sia o meno obbligatoria, ai sensi dell’art. 118 del
d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, l’indicazione
già in sede di presentazione dell’offerta del nominativo del
subappaltatore, qualora il concorrente sia privo dei
necessari requisiti di qualificazione per talune categorie
scorporabili ed abbia espresso l’intento di subappaltare
tali prestazioni;
b) se, ammessa la risposta affermativa al quesito che
precede, per le procedure nelle quali la fase di
presentazione delle offerte si sia esaurita anteriormente al
pronunciamento della Plenaria, sia possibile ovviare
all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d.
soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente
interessato a integrare la dichiarazione carente;
c) se, in relazione all’obbligo di indicazione in sede di
offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale,
affermato anche per gli appalti di lavori dalla sentenza nr.
3 del 2015, sia del pari possibile, per le procedure nelle
quali la fase di presentazione delle offerte si sia esaurita
anteriormente al ridetto pronunciamento, ovviare
all’eventuale omissione attraverso il rimedio del c.d.
soccorso istruttorio, e quindi invitando il concorrente
interessato a integrare o precisare la dichiarazione
carente.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 03.06.2015 n. 2707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Rammenta il Collegio come sia inveterato
insegnamento dottrinale l’assunto che le ordinanze –delle
quali quelle contingibili ed urgenti ex art. 50, d.lgs. n.
267/2000 costituiscono una species– nella sistematica
giuridica vengono annoverate tra gli ordini, che sono atti
autoritativi espressione della potestà di imperio della
pubblica Amministrazione con i quali vengono imposte ai
privati determinate prestazioni o attività finalizzate al
perseguimento di specifici obiettivi di interesse pubblico
nel caso concreto, per lo più afferenti alla pubblica
incolumità, all’ordine pubblico e all’igiene e sanità
pubblica, facendosi l’esempio degli ordini di abbattimento
di animali affetti da malattie epidemiche e diffusive, degli
ordini di requisizione della proprietà privata per
soddisfare eccezionali e temporanee esigenze pubbliche,
delle ordinanze di messa in sicurezza di edifici privati
pericolanti etcetera..
Orbene, il tratto caratteristico che accomuna siffatti
ordini è individuabile sotto il profilo oggettivo e
contenutistico nell’imposizione di talune prestazioni o
attività e, correlativamente, nella natura afflittiva del
provvedimento, mentre sotto il profilo finalistico nella sua
preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico,
oltretutto cagionate da situazioni impreviste, imprevedibili
ed eccezionali e come tali determinanti l’urgenza di
provvedere.
--------------
Il primo e più macroscopico elemento che difetta
nell'ordinanza contingibile ed urgente qui appellata è la
natura impositiva e il correlato carattere afflittivo,
essendosi ordinata non l’effettuazione di un’attività
sacrificante o l’imposizione di una prestazione, ma
l’esplicazione di una facoltà giuridica comportante
conseguenze vantaggiose e riflessi accrescitivi della sfera
giuridico–economica dei destinatari, secondo il classico
modulo del provvedimento ampliativo della posizione
giuridica dei privati, atto a rimuovere un limite posto
dall’ordinamento all’esercizio di un’attività per la quale
il destinatario vanta, secondo la sistematica sandulliana,
un c.d. diritto in attesta di espansione, alias di un
interesse pretensivo, di talché il provvedimento, rimuovendo
quel limite si profila come creativo di un diritto.
Rammenta il Collegio come il precipitato giuridico
sostanziale della delineata differenziazione sia il dato che
a fronte di un ordine e di un’ordinanza, il privato
destinatario versa in una situazione giuridica soggettiva di
interesse oppositivo, là dove quella in cui versa il
destinatario di un provvedimento autorizzativo –o ampliativo
in genere– è, prima della comunicazione del provvedimento,
di interesse pretensivo.
Difetta inoltre nell’impugnata ordinanza anche il
presupposto funzionale, che nelle ordinanze contingibili ed
urgenti è rappresentato, come detto, dalla preordinazione a
soddisfare esigenze di interesse pubblico, mentre
l’ordinanza all’esame realizza l’interesse privato delle tre
imprese di navigazione controinteressate, l’interesse
pubblico rimanendo sullo sfondo della vicenda.
---------------
La giurisprudenza pronunciatasi sui presupposti del potere
di ordinanza di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 è
vastissima, qui richiamandosi solo gli arresti più
significativi che confermano come la norma consenta di
adottare tale tipologia di provvedimento solo per far fronte
a situazioni di pericolo, imprevedibili ed eccezionali, da
esternare con congrua motivazione e che non possono essere
fronteggiate esercitando gli strumenti ordinari allestiti
dall’ordinamento (c.d. residualità) determinando quindi
un’urgenza di provvedere mediante l’adozione di un
provvedimento extra ordinem.
Si è al riguardo statuito che “Il potere extra ordinem
previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per
l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone,
da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da
esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una
situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia
possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria
dall'ordinamento. Pertanto, l'ordinanza contingibile ed
urgente non può essere utilizzata per soddisfare esigenze
che siano invece prevedibili ed ordinarie, e richiede sempre
la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a una
situazione di natura eccezionale ed imprevedibile”.
Si è pure compiutamente precisato che “I presupposti delle
ordinanze contingibili e urgenti sono da rinvenire, da un
lato, nella necessità, intesa come situazione di fatto, che
rende indispensabile derogare agli ordinari mezzi offerti
dalla legislazione, tenuto conto delle presumibili serie
probabilità di pericolo nei confronti dello specifico
interesse pubblico da salvaguardare e, dall'altro,
nell'urgenza, consistente nella materiale impossibilità di
differire l'intervento ad altra data, in relazione alla
ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo”.
Con riferimento all’art. 38 della abrogata L. n. 142/1990
che contemplava anche l’edilizia e la polizia locale tra le
materie di consentito oggetto di ordinanza sindacale, si era
efficacemente affermato che “Il potere di ordinanza del
Sindaco in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia
locale, presuppone l'esistenza di una situazione
eccezionale, che richiede un intervento immediato e urgente,
non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli strumenti
ordinari di cui può disporre normalmente l'autorità
amministrativa” e analogamente, che “Ai sensi dell'art. 38,
comma 2, l. 08.06.1990 n. 142, all'epoca vigente,
legittimamente il sindaco, in qualità di ufficiale del
governo, ha la potestà di adottare, nel rispetto dei
principi generali dell'ordinamento, provvedimenti
contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale, al fine di prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini”.
---------------
L’altro indefettibile requisito che condiziona la
legittimità dello strumento dell’ordinanza contingibile ed
urgente è l’evenienza formale che, oltre alla già accertata
situazione di pericolo derivante da circostanze
imprevedibili ed eccezionali, la legge non contempli onde
fronteggiare l’urgenza di provvedere, altri e tipici
provvedimenti.
L’ordinanza ex artt. 50 e 54 del Testo unico sugli enti
locali rappresenta dunque l’extrema ratio del potere
amministrativo, la valvola di chiusura del sistema,
configurando un rimedio extra ordinem che, sia pur nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento, è atto a
derogare al principio di legalità e al suo corollario in cui
tale principio declina sul versante dell’attività
provvedimentale e che è costituito dal principio di tipicità
dei provvedimenti.
Si è in giurisprudenza di recente rammentato che
“incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria
residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo
che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa
farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione
degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento”
essendosi anche in tal senso evidenziato che ai fini
dell’adozione dell’ordinanza in parola la situazione
imprevista ed eccezionale “non possa essere fronteggiata con
altri rimedi apprestati dall’ordinamento”.
Sotto il primo profilo, rammenta il Collegio come sia
inveterato insegnamento dottrinale l’assunto che le
ordinanze –delle quali quelle contingibili ed urgenti ex
art. 50, d.lgs. n. 267/2000 costituiscono una species– nella sistematica giuridica vengono annoverate tra gli
ordini, che sono atti autoritativi espressione della potestà
di imperio della pubblica Amministrazione con i quali
vengono imposte ai privati determinate prestazioni o
attività finalizzate al perseguimento di specifici obiettivi
di interesse pubblico nel caso concreto, per lo più
afferenti alla pubblica incolumità, all’ordine pubblico e
all’igiene e sanità pubblica, facendosi l’esempio degli
ordini di abbattimento di animali affetti da malattie
epidemiche e diffusive, degli ordini di requisizione della
proprietà privata per soddisfare eccezionali e temporanee
esigenze pubbliche, delle ordinanze di messa in sicurezza di
edifici privati pericolanti etcetera..
Orbene, il tratto caratteristico che accomuna siffatti
ordini è individuabile sotto il profilo oggettivo e
contenutistico nell’imposizione di talune prestazioni o
attività e, correlativamente, nella natura afflittiva del
provvedimento, mentre sotto il profilo finalistico nella sua
preordinazione a soddisfare esigenze di interesse pubblico,
oltretutto cagionate da situazioni impreviste, imprevedibili
ed eccezionali e come tali determinanti l’urgenza di
provvedere.
Ebbene, in disparte l’ausilio delle indicazioni
giurisprudenziali sulla quali breviter infra, rileva il
Collegio come nessuno dei divisati requisiti del canonico
provvedimento di ordinanza sia presente nella gravata
ordinanza n. 54 del 23.04.2013 assunta dal Comune di Capri.
Invero, il primo e più macroscopico elemento che difetta è
la natura impositiva e il correlato carattere afflittivo,
essendosi ordinata non l’effettuazione di un’attività
sacrificante o l’imposizione di una prestazione, ma
l’esplicazione di una facoltà giuridica comportante
conseguenze vantaggiose e riflessi accrescitivi della sfera
giuridico–economica dei destinatari, secondo il classico
modulo del provvedimento ampliativo della posizione
giuridica dei privati, atto a rimuovere un limite posto
dall’ordinamento all’esercizio di un’attività per la quale
il destinatario vanta, secondo la sistematica sandulliana,
un c.d. diritto in attesta di espansione, alias di un
interesse pretensivo, di talché il provvedimento, rimuovendo
quel limite si profila come creativo di un diritto.
Rammenta il Collegio come il precipitato giuridico
sostanziale della delineata differenziazione sia il dato che
a fronte di un ordine e di un’ordinanza, il privato
destinatario versa in una situazione giuridica soggettiva di
interesse oppositivo, là dove quella in cui versa il
destinatario di un provvedimento autorizzativo –o ampliativo in genere– è, prima della comunicazione del
provvedimento, di interesse pretensivo.
3.3. Difetta inoltre nell’impugnata ordinanza anche il
presupposto funzionale, che nelle ordinanze contingibili ed
urgenti è rappresentato, come detto, dalla preordinazione a
soddisfare esigenze di interesse pubblico, mentre
l’ordinanza all’esame realizza l’interesse privato delle tre
imprese di navigazione controinteressate, l’interesse
pubblico rimanendo sullo sfondo della vicenda.
---------------
3.5. Al
riguardo giova rammentare che la giurisprudenza
pronunciatasi sui presupposti del potere di ordinanza di cui
all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000 è vastissima, qui
richiamandosi solo gli arresti più significativi che
confermano come la norma consenta di adottare tale tipologia
di provvedimento solo per far fronte a situazioni di
pericolo, imprevedibili ed eccezionali, da esternare con
congrua motivazione e che non possono essere fronteggiate
esercitando gli strumenti ordinari allestiti
dall’ordinamento (c.d. residualità) determinando quindi
un’urgenza di provvedere mediante l’adozione di un
provvedimento extra ordinem.
Si è al riguardo statuito che
“Il potere extra ordinem previsto dall’art. 50 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, per l’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti presuppone, da un lato, una
situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua
motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e
imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi
previsti in via ordinaria dall'ordinamento. Pertanto,
l'ordinanza contingibile ed urgente non può essere
utilizzata per soddisfare esigenze che siano invece
prevedibili ed ordinarie, e richiede sempre la necessità di
provvedere con immediatezza in ordine a una situazione di
natura eccezionale ed imprevedibile” (TAR Veneto, Sez. 04.08.2009, n. 2274) e si è pure compiutamente precisato
che “I presupposti delle ordinanze contingibili e urgenti
sono da rinvenire, da un lato, nella necessità, intesa come
situazione di fatto, che rende indispensabile derogare agli
ordinari mezzi offerti dalla legislazione, tenuto conto
delle presumibili serie probabilità di pericolo nei
confronti dello specifico interesse pubblico da
salvaguardare e, dall'altro, nell'urgenza, consistente nella
materiale impossibilità di differire l'intervento ad altra
data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a
breve distanza di tempo” (TAR Lazio, II, 14.02.2007, n.
1352).
Con riferimento all’art. 38 della abrogata L. n.
142/1990 che contemplava anche l’edilizia e la polizia
locale tra le materie di consentito oggetto di ordinanza
sindacale, si era efficacemente affermato che “Il potere di
ordinanza del Sindaco in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale, presuppone l'esistenza di una
situazione eccezionale, che richiede un intervento immediato
e urgente, non fronteggiabile attraverso l'utilizzo degli
strumenti ordinari di cui può disporre normalmente
l'autorità amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, sez. III, 31.07.2008, n. 3124) e analogamente, che “Ai sensi
dell'art. 38, comma 2, l. 08.06.1990 n. 142, all'epoca
vigente, legittimamente il sindaco, in qualità di ufficiale
del governo, ha la potestà di adottare, nel rispetto dei
principi generali dell'ordinamento, provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sanità ed igiene,
edilizia e polizia locale, al fine di prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, 02.05.2006, n. 3086).
3.6. Per concludere sul punto va altresì ricordato che
l’altro indefettibile requisito che condiziona la
legittimità dello strumento dell’ordinanza contingibile ed
urgente è l’evenienza formale che, oltre alla già accertata
situazione di pericolo derivante da circostanze
imprevedibili ed eccezionali, la legge non contempli onde
fronteggiare l’urgenza di provvedere, altri e tipici
provvedimenti.
L’ordinanza ex artt. 50 e 54 del Testo unico sugli enti
locali rappresenta dunque l’extrema ratio del potere
amministrativo, la valvola di chiusura del sistema,
configurando un rimedio extra ordinem che, sia pur nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento, è atto a
derogare al principio di legalità e al suo corollario in cui
tale principio declina sul versante dell’attività
provvedimentale e che è costituito dal principio di tipicità
dei provvedimenti.
Si è in giurisprudenza di recente rammentato che
“incontrastato è poi l’indirizzo che predica la necessaria
residualità del potere di ordinanza, ossia il dato normativo
che alla situazione di pericolo o di emergenza non possa
farsi fronte mediante l’esercizio di poteri e l’adozione
degli strumenti ordinari e tipici previsti dall’ordinamento”
(TAR Toscana, Sez. III, 27.08.2012, n. 1484)
essendosi anche in tal senso evidenziato che ai fini
dell’adozione dell’ordinanza in parola la situazione
imprevista ed eccezionale “non possa essere fronteggiata con
altri rimedi apprestati dall’ordinamento” (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Marche, 04.02.2003 n. 26; TAR Emilia Romagna–Parma,
10.01.2003, n. 1, nonché, più di recente, TAR Puglia–Lecce, Sez. III, 11.04.2009, n. 711; Consiglio di Stato, Sez.
V, 16.02.2010, n. 868)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 01.06.2015 n. 3011 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Occorre
distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi
dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici.
Mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche
può anche non essere considerato rilevante e non essere
oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio
perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini
paesaggistici un volume può assumere comunque una sua
rilevanza e determinare una possibile alterazione dello
stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
---------------
Ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo
paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore
(cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004) gli stessi
risultano soggetti alla previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che
“quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o
precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A.,
l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art.
27 d.P.R. 380/2001 è, comunque, doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
... per l'annullamento dell’ordinanza del Comune di
Castellammare di Stabia n. 72701 del 24.12.2009, con
la quale è stata ordinata al ricorrente, ai sensi degli
articoli 31 del d.P.R. n. 380/2001 e 167 del decreto
legislativo n. 42/2004, la demolizione di opere abusive
poste in essere alla via Cosenza n. 153, quali nel suo corpo
indicate,
...
4- Procedendo con la fase valutativa/decisionale, osserva il Collegio
come dalla stessa prospettazione attorea e dalla
documentazione versata in atti a supporto delle formulate
denunce si trae che, a seguito dell’incendio della caldaia
di cui innanzi, si è fatto luogo alla realizzazione -ex novo
nelle attuali dimensioni- di quello che nello stesso ricorso
viene definito “locale a servizio della cucina, ossia uno
spazio destinato a soddisfare tutte le attività strumentali
da svolgere per la corretta gestione della vita familiare”
(pag. 4 del gravame); locale che, a differenza di quanto
sostenuto dal ricorrente nel primo mezzo di impugnazione e
però senza adeguati supporti probatori atti a smentire le
contestazioni ricevute, ha determinato la creazione di un
nuovo organismo, la cui fattibilità non appare esser sancita
dal regolamento del condominio che consente solo “la
copertura del balcone con tettoia di vetro resinato”:
ovvero, non la creazione di un locale avente le
sopradescritte più ampie finalità.
4a- Fermo che, in ogni caso, le previsioni condominiali non
fanno venir meno gli obblighi di legge sotto il versante
pubblicistico, ne consegue (ne conseguiva) la necessità di
premunirsi dei titoli abilitativi richiesti dalla legge in
quanto la natura pertinenziale del nuovo vano, quale creato
nelle sopra descritte dimensioni, a differenza di quanto
denunciato nel secondo mezzo di impugnazione non rende
illegittima la sanzione demolitoria irrogata.
Ed invero, per giurisprudenza consolidata e condivisa:
- “occorre distinguere il concetto di volume rilevante ai
fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini
paesaggistici. Mentre ai fini edilizi un volume per le sue
caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e
non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili
(ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai
fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua
rilevanza e determinare una possibile alterazione dello
stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire”
(cfr. per il principio, Tar Campania, questa settima
sezione, sentenza n. 1645 del 19.03.2015 e, sesta
sezione, n. 2150 del 16.04.2014 e n. 1770 del 18.04.2012);
- ove gli interventi ricadano in zona assoggettata a vicolo
paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore
(cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004) -che qui anche
viene ad aversi- gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la
conseguenza che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi
dell’art. 27 d.P.R. 380/2001 è, comunque, doverosa ove non
sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica” (cfr.,
ex multis, Tar Campania, sezione sesta, sentenza n. 4676 del
23.10.2013) (Cons. Stato, sezione sesta, sentenza n. 2226
del 04.05.2015) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 28.05.2015 n. 2971 - link a
www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’orientamento del giudice di appello, in
situazione fattuale che si appalesa pressoché identica a
quella qui data, ha ribadito che un manufatto, di più ampie
dimensioni rispetto al preesistente, realizzato senza
assenso edilizio su un terrazzo di un appartamento, produce
“l’effetto di incremento di volumetria e di modifica della
sagoma dell’edificio ....”, senza che “la veranda possa
essere considerata mero volume tecnico a protezione della
caldaia, alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale
anche solo potenziale…”, di guisa che “in quanto comportante
modifica del volume, della sagoma e del prospetto
dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione
della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10,
comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui
realizzazione sconta il previo permesso di costruire da
parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione
circa la natura pertinenziale o meno del manufatto
realizzato”.
4b- Ancorché quanto sopra, ovvero la contestata mancanza del
titolo paesaggistico, sia sufficiente ad imporre di negare
ingresso alle doglianze attoree aventi pregnanza
sostanziale, ovvero sia al primo ed al secondo mezzo di
impugnazione, è il caso di richiamare ancora l’orientamento
del giudice di appello che, in situazione fattuale che si
appalesa pressoché identica a quella qui data, ha ribadito
che un manufatto, di più ampie dimensioni rispetto al
preesistente, realizzato senza assenso edilizio su un
terrazzo di un appartamento, produce “l’effetto di
incremento di volumetria e di modifica della sagoma
dell’edificio ....”, senza che “la veranda possa essere
considerata mero volume tecnico a protezione della caldaia,
alla cui definizione difetta l’autonomia funzionale anche
solo potenziale…”, di guisa che “in quanto comportante
modifica del volume, della sagoma e del prospetto
dell’edificio, l’intervento sanzionato rientra nella nozione
della ristrutturazione edilizia come definita dall’art. 10,
comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, la cui
realizzazione sconta il previo permesso di costruire da
parte del Comune, a prescindere da qualunque considerazione
circa la natura pertinenziale o meno del manufatto
realizzato” (Cons. Stato, sezione sesta, sentenza n. 2226
del 04.05.2015) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 28.05.2015 n. 2971 - link a
www.giustizia-amminitrativa.it). |
VARI:
Nessun obbligo di prodotti «bio» nel
supermercato. Tar di Napoli. È solo
fattore di premialità.
Non si può imporre a un supermercato la
vendita di alimentari provenienti da agricoltura biologica
locale: lo
sottolinea il TAR Campania-Napoli, Sez. III, nella
sentenza 28.05.2015 n. 2950.
Nel caso specifico, un Comune aveva subordinato il rilascio
della licenza commerciale, in ampliamento di una struttura
per la vendita al dettaglio di alimentari, all’impegno di
vendere questi prodotti regionali per almeno il 5% del
totale del food venduto.
Secondo i giudici amministrativi questa clausola è
illegittima: a tutto concedere, una norma locale (nel caso
specifico, la legge regionale della Campania 1/2014), può
solo considerare la vendita di prodotti locali quale fattore
di premialità al rilascio delle autorizzazioni per grandi
strutture. In altri termini, l’impegno del titolare della
struttura, a porre in vendita prodotti alimentari a
chilometri zero provenienti da agricoltura biologica
certificata, può giovare per benefici ulteriori, ma non può
condizionare l'originario rilascio della licenza
commerciale.
La previsione della legge regionale Campania contrasta
quindi con la liberalizzazione delle attività economiche,
quale scaturisce dai d.l. 138/2011 n. 201/2011 e n. 1/2012
ed è stata perciò disapplicata per contrasto con il diritto
comunitario. Quest'ultimo è infatti applicabile in via
diretta, in luogo del diritto interno, sia da parte dei
giudici sia dagli organi della pubblica amministrazione
nello svolgimento della loro attività di diritto pubblico, e
ciò anche di ufficio, cioè indipendentemente da richieste o
sollecitazioni di parte.
Gli elementi fondamentali di tale liberalizzazione, secondo
il Tar napoletano sono due: il primo è la libertà di
apertura e di ampliamento degli esercizi commerciali, la
quale non può subire restrizioni se non per la tutela di
interessi costituzionalmente rilevanti.
Applicando questo principio è stato ritenuto legittimo –ad
esempio- il limite della collocazione di un discount in una
precedente sede di banca, per mancanza di parcheggi (Tar
Liguria 220 del 2015), l'attivazione di 12 autorizzazioni
per il servizio di noleggio con conducente da parte di un
Comune di 18.000 abitanti (TAR Umbria 68/2015); il regime
degli orari di apertura (Cons. Stato 5288/2014), l'apertura
di esercizi in di gioco e scommesse (Corte cost. 220/2014).
La seconda tappa del processo di liberalizzazione si
manifesta nel divieto di contingenti, limiti territoriali o
altri vincoli di qualsiasi altra natura, anche relativi alle
modalità di organizzazione e svolgimento delle attività
economiche, esclusi quelli connessi alla tutela della
salute, dei lavoratori, dell'ambiente, incluso quello urbano
e dei beni culturali.
Non è quindi possibile imporre aliquote di prodotti in
vendita, perché vi sarebbe una restrizione contraria al
principio di libertà. Si può invece parlare di requisiti
premiali, utilizzando il sistema (appunto, premiale), che si
applica nell'edilizia, qualora si adottino materiali
ecocompatibili, e nelle procedure di appalto, con il sistema
delle white list e del rating di legalità
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri
prevista dall'art. 338 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (testo
unico delle leggi sanitarie), cioè il c.d. “vincolo
cimiteriale”, comporta un vincolo assoluto di
inedificabilità, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici tutelati (quali le esigenze di natura
igienico-sanitaria, la peculiare sacralità dei luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403,
secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale prevista dal
citato art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie, da misurare
a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un
vincolo assoluto di inedificabilità -tale da imporsi anche
rispetto a contrastanti previsioni di P.R.G.- che non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici sia di
opere incompatibili col vincolo medesimo).
Da tale effetto di inedificabilità assoluta e legale
discende che le amministrazioni comunali non dispongono di
alcun potere discrezionale di valutazione in ordine alla
concreta compatibilità delle opere di volta in volta
realizzate con i valori tutelati dal vincolo.
Inoltre non incide sulla legittimità del provvedimento
impugnato quanto riferito genericamente dal ricorrente
riguardo all’avvenuto rilascio di provvedimenti concessori
per altri immobili (del pari ricadenti nella medesima area
di rispetto cimiteriale), posto che l’eventuale
illegittimità di detti assensi non potrebbe giustificare
l’annullamento di un diniego legittimo (Cons. Stato, sez. VI,
30.06.2011, n. 3894, secondo cui la legittimità dell'operato
della Pubblica amministrazione non può comunque essere
inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra
situazione).
---------------
In base all’art. 28 della L. n. 166/2002 il divieto di
inedificabilità assoluta vigente nell'area di rispetto
cimiteriale (200 m.) può essere derogato soltanto per
realizzare un'opera pubblica o per attuare un intervento
urbanistico e sempre che non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie: nella fattispecie, tuttavia, le opere
realizzate non rientrano in alcuna delle categorie in
relazione alle quali la legge ammette una possibilità di
deroga al divieto e, comunque, la riduzione della fascia di
rispetto, sebbene possa riguardare anche gli ampliamenti, è
espressione di discrezionalità urbanistica dell’ente civico
il cui esercizio non è oggetto di un obbligo.
---------------
Il vincolo di rispetto della fascia cimiteriale, in quanto
previsto dalla legge (art. 338 del T.U. 27.07.1934 n. 1265,
come modificato dalla legge 04.12.1956 n. 1428, e dalla
legge 17.10.1957 n. 983 , nonché art. 57 del D.P.R.
21.10.1975 n. 803), incide sull'edificabilità dei suoli in
modo generale ed obiettivo, nei confronti di tutti i
proprietari di determinati beni. I vincoli posti dalla
citata norma, pertanto, non avendo carattere espropriativo
ed essendo previsti a tempo indeterminato, non sono soggetti
a decadenza.
CONSIDERATO
1. – Il ricorso non merita accoglimento. Ed invero, è
manifestamente infondato il primo motivo sub litteris a) e
c).
Difatti, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente,
la salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200
metri prevista dall'art. 338 del R.D. 27.07.1934, n.
1265 (testo unico delle leggi sanitarie), cioè il c.d.
“vincolo cimiteriale”, comporta un vincolo assoluto di inedificabilità, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici tutelati (quali le esigenze di natura
igienico-sanitaria, la peculiare sacralità dei luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403,
secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale prevista dal
citato art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie, da misurare
a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un
vincolo assoluto di inedificabilità -tale da imporsi anche
rispetto a contrastanti previsioni di P.R.G.- che non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici sia di
opere incompatibili col vincolo medesimo).
Da tale effetto
di inedificabilità assoluta e legale discende che le
amministrazioni comunali non dispongono di alcun potere
discrezionale di valutazione in ordine alla concreta
compatibilità delle opere di volta in volta realizzate con i
valori tutelati dal vincolo (C.G.A., sez. riun., 08.05.2012, n. 260/12; Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2009, n.
6547).
Inoltre non incide sulla legittimità del
provvedimento impugnato quanto riferito genericamente dal
ricorrente riguardo all’avvenuto rilascio di provvedimenti
concessori per altri immobili (del pari ricadenti nella
medesima area di rispetto cimiteriale), posto che
l’eventuale illegittimità di detti assensi non potrebbe
giustificare l’annullamento di un diniego legittimo (Cons.
Stato, sez. VI, 30.06.2011, n. 3894, secondo cui la
legittimità dell'operato della Pubblica amministrazione non
può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità
compiuta in altra situazione).
2. – I superiori rilievi travolgono anche gli altri motivi
di ricorso, posto che –stante la condizione di assoluta inedificabilità e, quindi, di non condonabilità dell’area in
parola– il ricorrente non può aspirare alla formazione del
titolo in sanatoria per silentium né in applicazione
dell’art. 28 della L. n. 166/2002.
A quest’ultimo riguardo
va osservato che, in base a detta disposizione, il divieto
di inedificabilità assoluta vigente nell'area di rispetto
cimiteriale (200 m.) può essere derogato soltanto per
realizzare un'opera pubblica o per attuare un intervento
urbanistico e sempre che non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie (Cons. Stato, sez. IV, n. 609 del 27.01.2011): nella fattispecie, tuttavia, le opere
realizzate non rientrano in alcuna delle categorie in
relazione alle quali la legge ammette una possibilità di
deroga al divieto e, comunque, la riduzione della fascia di
rispetto, sebbene possa riguardare anche gli ampliamenti, è
espressione di discrezionalità urbanistica dell’ente civico
il cui esercizio non è oggetto di un obbligo. Vanno, dunque,
respinti i motivi I), sub b), III) e IV).
Infine è infondato il secondo motivo dal momento che il
vincolo di rispetto della fascia cimiteriale, in quanto
previsto dalla legge (art. 338 del T.U. 27.07.1934 n.
1265, come modificato dalla legge 04.12.1956 n. 1428, e
dalla legge 17.10.1957 n. 983 , nonché art. 57 del
D.P.R. 21.10.1975 n. 803), incide sull'edificabilità
dei suoli in modo generale ed obiettivo, nei confronti di
tutti i proprietari di determinati beni. I vincoli posti
dalla citata norma, pertanto, non avendo carattere
espropriativo ed essendo previsti a tempo indeterminato, non
sono soggetti a decadenza
(C.G.A.R.S.,
parere 28.05.2015 n. 551 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nemmeno l’omissione multipla esclude il concorrente dalla
gara.
Soccorso istruttorio. Pioggia di interventi del Consiglio di
Stato.
Il nuovo soccorso
istruttorio non consente l’esclusione di un concorrente
dalla gara nemmeno quando questo non abbia reso più
dichiarazioni relative ai requisiti.
La giurisprudenza sta elaborando interpretazioni molto
operative delle regole introdotte dall’articolo 38, comma
2-bis e dall’articolo 46 del Codice dei contratti, in base
alle quali l’operatore economico può regolarizzare la
mancanza, l’incompletezza o le irregolarità formative di
dichiarazioni e documenti indispensabili per prendere parte
alla gara, dovendo peraltro pagare una sanzione per gli
inadempimenti.
Il Consiglio di Stato è intervenuto sui problematici profili
applicativi con una serie di sentenze, che evidenziano
numerose criticità rilevate nelle procedure selettive,
rispetto alle quali deve aversi un’applicazione sostanziale
delle disposizioni sul soccorso istruttorio.
La Sez. VI, con la
sentenza
26.05.2015 n. 2662, ha evidenziato
che il nuovo soccorso istruttorio è stato definito dal
legislatore per impedire l’esclusione di concorrenti per
mere carenze documentali. In questa prospettiva, le stazioni
appaltanti devono evitare esclusioni fondate solo su
elementi formali e procedere alla completa acquisizione
istruttoria dei documenti necessari.
Se, quindi, un operatore economico omette di rendere una
dichiarazione inerente un requisito di ordine generale,
questo comportamento non comporta un falso, ma si sostanzia
in una semplice omissione, alla quale si applica il sistema
di sanzione-regolarizzazione previsto dall’articolo 38,
comma 2-bis, del Dlgs 163/2006 (come osservato dal Consiglio
di Stato, Sez. IV, nella
sentenza 25.05.2015 n. 2589).
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera
o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che
riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello
della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso
la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della
mancanza al fine del soccorso istruttorio (secondo una linea
precisata dall’Anac nella determinazione 1/2015).
L’istituto e la sua procedura si applicano anche se la
dichiarazione è resa dal legale rappresentante
dell’operatore economico in forma sintetica e risulta non
esaustiva rispetto alla descrizione della situazione
riguardante (per le misure di prevenzione e le condanne)
anche gli altri soggetti obbligati, come gli atri
rappresentanti e i direttori tecnici (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza
28.05.2015 n. 2681).
Il principio si applica anche alle dichiarazioni che devono
essere rese dall’impresa ausiliaria, quando il concorrente
decida di utilizzare l’avvalimento per i requisiti di
capacità.
Rispetto alla mancanza delle dichiarazioni (particolarmente
di quelle relative ai requisiti di ordine generale) la linea
interpretativa del Consiglio di Stato definisce ampie
garanzie per gli operatori economici, i quali, tuttavia, in
alcuni casi arrivano all’eccesso di limitarsi a produrre
l’istanza di partecipazione sottoscritta, ma priva delle
dichiarazioni essenziali, costringendo le stazioni
appaltanti all’avvio del procedimento sanzionatorio e di
regolarizzazione con incidenza conseguente sulle tempistiche
della gara.
L’esclusione dalla procedura può comunque aversi per cause
di vario genere (ad esempio per il mancato superamento della
soglia di sbarramento qualitativo o per violazioni del
principio di segretezza dei plichi).
In questi casi si applica il periodo conclusivo del comma
2-bis dell’articolo 38 secondo il quale ogni variazione che
intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia
giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione,
regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai
fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
26.05.2015 n. 2609,
ha infatti precisato che la previsione si utilizza non solo
per i casi di esclusione connessi all’applicazione del nuovo
soccorso istruttorio, ma anche nelle altre ipotesi di
“espulsione” dei concorrenti dalla gara, dato l’ambito
esteso di applicabilità della regola generale, che viene ad
essere definita come principio di stabilità della soglia di
anomalia, una volta terminata in sede amministrativa la fase
di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
APPALTI: Soglie
di anomalia bloccate. L'esclusione d'impresa non porta al
ricalcolo delle medie. Il principio
di stabilità del dl fare limita i tentativi di concorrenza
sleale tra appaltatrici.
Chiuse le offerte per l'appalto, la soglia di anomalia resta
tale anche se una delle imprese partecipanti è poi esclusa
dalla gara. E ciò grazie al decreto fare, che ha introdotto
nel codice dei contratti pubblici un vero e proprio
«principio di stabilità» per evitare ogni tentazione di
concorrenza sleale fra imprese nelle gare: ogni variazione
successiva non implica il ricalcolo delle medie nella
procedura pubblica, compresa l'ipotesi in cui arrivi la
sentenza di un giudice in proposito.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.05.2015 n. 2609, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di Stato.
Tutela esclusa
Niente da fare per l'impresa edile che ha perso l'appalto
per ristrutturare la scuola. In discussione non c'è solo
l'aggiudicazione, ma anche la mancata estromissione di un
concorrente che pure ha perso la gara: in caso di esclusione
di quest'ultima, sostiene la difesa, i lavori sarebbero
stati aggiudicati alla ricorrente grazie al ricalcolo della
soglia di anomalia delle offerte.
Le censure si appuntano sul contratto di avvalimento che ha
consentito al concorrente di partecipare alla gara,
incidendo così sulla media delle offerte: l'oggetto del
negozio sarebbe indeterminato e lo stesso documento non
sarebbe stato riprodotto nella dichiarazione resa
dall'ausiliaria alla stazione appaltante.
Ma se anche le doglianze fossero fondate, la soglia di
anomalia delle offerte resterebbe tale: il decreto fare ha
introdotto una norma di carattere generale che ha una
portata precettiva più ampia della stessa disposizione del
codice appalti nella quale è stata inserita per motivi
contingenti; risultato: qualsiasi sopravvenienza rispetto al
calcolo delle medie che servono per aggiudicare l'appalto
deve ritenersi irrilevante perché con il dl fare il
legislatore ha mostrato interesse a rendere più stabili gli
esiti finali del procedimento.
E non riconosce alcuna protezione giuridica all'impresa che
vuole far riaprire la fase ormai chiusa della presentazione
delle offerte.
Nessun dubbio di costituzionalità: la riforma non introduce
una norma processuale, mentre le medie per il calcolo della
soglia di anomalia costituiscono meri dati convenzionali
rispetto ai quali è ampia la discrezionalità del
legislatore. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del
10.06.2015). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Il cliente è risarcito anche se non risponde alle lettere.
L'avvocato sarà tenuto al risarcimento del cliente anche nel
caso in cui quest'ultimo non risponda alle lettere del suo
legale e il diritto cade in prescrizione.
Lo hanno sottolineato i giudici della III Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
22.05.2015 n. 10527.
La responsabilità professionale dell'avvocato, è opportuno
in via introduttiva rammentare, non viene meno per il fatto
che il cliente sia dotato, per scienza personale o per
ragioni di lavoro, di un certo bagaglio di conoscenze
giuridiche, poiché l'incarico professionale, una volta
conferito, investe l'avvocato della «piena responsabilità
della sua gestione, senza che possa attribuirsi alcuna forma
di corresponsabilità a carico del cliente».
Sembra opportuno in sede di commento ribadire come dovere
primario del difensore sia quello di tutelare, le ragioni
del proprio cliente secondo la regola di diligenza di cui
all'art. 1176 c.c.; e che gli atti interruttivi della
prescrizione non richiedono alcuna particolare e specifica
competenza.
Secondo la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione
l'affermazione relativa al carattere ordinario dell'atto di
interruzione della prescrizione «ai fini del giudizio di
responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le
modalità dello svolgimento della sua attività in relazione
al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo
comma, c.c., che è quello della diligenza del professionista
di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo,
rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il
compimento di atti interruttivi della prescrizione del
diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono
speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla
particolare situazione di fatto, che va liberamente
apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il
calcolo del termine (sentenze 18.07.2002, n. 10454, 28.11.2007, n. 24764, e
05.08.2013, n. 18612)».
Il
caso specifico sul quale i giudici di piazza Cavour sono
stati chiamati a esprimersi aveva a oggetto la conclusione
del rapporto professionale tra un avvocato e un cliente al
fine di ottenere il risarcimento dei danni da quest'ultimo
patiti a seguito di sinistro stradale, in aggiunta a quanto
liquidato dall'Inail, trattandosi di infortunio in itinere (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
La colpa dell'avvocato valutata con attenzione.
Solo nel caso in cui la condotta che si dichiara colposa,
posta in essere dall'avvocato nell'esercizio delle sue
funzioni, si possa sostituire con quella che si ritiene
astrattamente esigibile e quest'ultima procuri un vantaggio
concreto all'assistito, allora si avrà responsabilità
professionale dell'avvocato.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza
22.05.2015 n. 10526.
Il procedimento logico sembra essere lineare: i giudici di
piazza Cavour hanno altresì osservato, in ossequio anche ad
un consolidato orientamento giurisprudenziale, come la
responsabilità del prestatore d'opera intellettuale nei
confronti del proprio cliente per negligente svolgimento
dell'attività professionale presupponga la prova del danno e
del nesso causale tra la condotta del professionista ed il
pregiudizio del cliente.
Gli Ermellini hanno altresì evidenziato che nel caso in cui
si tratti dell'attività di un legale, l'affermazione della
responsabilità per colpa professionale implica una
valutazione prognostica positiva circa il probabile esito
favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere
proposta e diligentemente seguita (si vedano, fra le altre,
le sentenze della Cassazione: 09.06.2004, n. 10966, 27.03.2006, n. 6967, 27.05.2009, n. 12354,
05.02.2013, n. 2638, e 13.02.2014, n. 3355).
Il caso sul quale la Suprema corte è stata chiamata a
esprimersi vedeva un avvocato che otteneva dal tribunale un
decreto ingiuntivo contro un proprio cliente che si era reso
inadempiente al pagamento delle competenze professionali per
ben quattro cause. L'opposizione del cliente veniva
rigettata, ma successivamente la Corte d'appello riduceva
quanto dovuto, ma il cliente non pago ricorreva in
Cassazione.
La Corte di cassazione rigettava il ricorso sotto ogni
profilo, evidenziando, quindi, che non si può prospettare
una mera perdita di chance su base probabilistica, ma
occorre dimostrare concretamente che il comportamento
diverso da quello effettuato dal legale sarebbe potuto
essere vincente (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Utilizzabili solo progetti con l'ok.
Il Consiglio di stato sugli appalti.
In un appalto pubblico sono utilizzabili soltanto i progetti
approvati, anche se non eseguiti; per progetti svolti verso
committenti privati occorre il requisito della avvenuta
esecuzione.
È quanto afferma il Consiglio di Stato con la
sentenza
22.05.2015 n.
2567 della V Sez. che ribalta
nuovamente la sentenza 10.02.2015 n. 692 che invece
aveva aperto all'utilizzazione delle referenze anche di
progetti valutati positivamente in gara, anche se poi non
approvati.
La questione riguarda l'interpretazione del
secondo comma dell'art. 263 del dpr 207/2010 che, ai fini
della dimostrazione del possesso dei requisiti
tecnico-organizzativi, indica i servizi «iniziati, ultimati
e approvati nel decennio o nel quinquennio antecedente la
gara».
Per i giudici non c'è dubbio che per i committenti
pubblici debba esserci una formale «approvazione». Per i
committenti privati, invece, i lavori connessi alla
progettazione devono essere stati eseguiti. Il perché di
questo diverso trattamento risiede, dice il Collegio, nella
diversità soggettiva dei destinatari dei servizi di
progettazione: da una parte, la pubblica amministrazione
che, in qualità di committente pubblico, offre garanzie di
certificazione, anche in mancanza della concreta attuazione
del progetto; dall'altra parte, il committente privato che
assicura un livello analogo di garanzie soltanto nel caso in
cui il progetto abbiano ricevuto concreto svolgimento
mediante l'esecuzione dei lavori e ciò anche per evitare,
dice la sentenza, ogni problema di falsa referenza.
In
definitiva la stazione appaltante può valutare i servizi di
progettazione «approvati» da un'altra stazione appaltante,
ovvero i servizi di progettazione «eseguiti» per
conto di un committente privato. In quest'ultimo caso, dice
la sentenza, occorre che siano prodotti o i certificati di
buona e regolare esecuzione, rilasciati dai committenti
privati, o la o dichiarazione dell'operatore economico e la
documentazione di quanto dichiarato, su richiesta della
stazione appaltante.
In particolare i contratti e le fatture devono intendersi
come relativi all'esecuzione dell'opera e non alla
prestazione del servizio
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, il divieto di sanatoria sancito nel
codice del 2004 è frutto di precisa scelta del legislatore
delegato che ha ritenuto così di reagire ad un orientamento
giurisprudenziale favorevole all’autorizzabilità ex post.
Tale indirizzo interpretativo, basato su un parallelismo tra
(il necessariamente successivo) accertamento di conformità
in materia edilizia, introdotto dall’art. 13 della legge n.
47 del 1985 -sostanzialmente vincolato-, e (la ben diversa)
valutazione di compatibilità, di natura essenzialmente
tecnico-discrezionale, rendeva il sistema di tutela del
paesaggio perennemente esposto a una sorta di condono
permanente, attraverso la monetizzazione dell’infrazione,
ovvero il pagamento della relativa oblazione, ex articolo 15
della legge n. 1497 del 1939.
Lo stesso decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 ammette
l’autorizzazione paesistica postuma nelle ipotesi di cui
all'articolo 167, commi 4 e 5, quando venga realizzata
“un’opera senza creazione di superfici utili o volumi”; di
conseguenza, occorre qualificare sotto tale aspetto il caso
in esame.
---------------
L’Ufficio comunale riconduce il manufatto a “interventi di
nuova costruzione e di volumi (piattaforma in calcestruzzo
“fuori terra”, traliccio in ferro zincato di m. 15,
vano-cabinet, etc.) che comportano una irreversibile
modificazione dello stato naturale dei luoghi ed integrano
pertanto attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia”.
È evidente che né la piattaforma in calcestruzzo, né il
traliccio, né il vano-cabinet (un’armadiatura a protezione
degli allacci elettrici) sviluppino superficie o volumetria
utile, sebbene rappresentino, come giustamente sottolinea
l’Amministrazione, pur sempre una “trasformazione
urbanistica ed edilizia”.
Di conseguenza, deve ritenersi errata la conclusione
dell’Ufficio tecnico, il quale esclude la sussumibilità del
caso concreto riguardante tale specifica opera nella
fattispecie descritta dall’articolo 167, quarto comma.
Ciò ovviamente non significa negare l’impatto visivo
dell’impianto (che, se collocato in una zona vincolata, è
dunque soggetto ad autorizzazione), ma solo rilevare che la
mancanza della previa acquisizione dell’assenso da parte
dell’autorità preposta alla tutela non comporta, di per sé,
preclusione all’esame della pratica confluente
nell’autorizzazione unica, di cui all’articolo 87 del D.Lgs.
01.08.2003, n. 259.
---------------
In secondo luogo, non è condivisibile la posizione
dell’Autorità municipale, laddove giustifica il diniego
(della compatibilità paesaggistica) sul presupposto che
"l’intervento comunque non risulta conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
La giurisprudenza che si è occupata della questione, è
partita dal presupposto che tali opere integrino impianti
tecnologici e volumi tecnici costituenti una rete di
infrastrutture, legislativamente qualificate come opere di
urbanizzazione primaria.
Ha dedotto quindi che esse siano in astratto compatibili con
qualsiasi destinazione di P.R.G. delle aree interessate,
evidenziando poi che l'insediamento degli impianti -la cui
compatibilità urbanistica va poi in concreto operata
nell'ambito della procedura autorizzatoria degli art. 86 e
seguenti del d.lgs. 01.08.2003, n. 259- non può
aprioristicamente prescindere dalla realtà di fatto di una
rete di telecomunicazione, la quale per sua natura postula
una diffusione sul territorio, segnatamente nei casi di
telefonia mobile c.d. cellulare, che compensa la debolezza
del segnale di antenna con la maggiore contiguità delle
singole stazioni radio base.
In altri termini, poiché l'art. 90 del vigente D.Lgs. n. 259
del 2003 dispone che gli impianti in questione e le opere
accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno
"carattere di pubblica utilità" e che rientrano nelle opere
di urbanizzazione primaria, a norma dell’articolo 86, essi
possono essere ubicati in qualsiasi parte del territorio
comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni
urbanistiche e, ad esempio, “non soggetti in linea di
massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza
e cubatura delle costruzioni circostanti”.
Il ridimensionamento del potere urbanistico dell’ente locale
che normativamente si produce non solo riflette la rilevanza
dell’interesse pubblico (che si arresta solo di fronte alle
discipline poste a tutela degli interessi differenziati -in
quanto espressione di principi fondamentali della
Costituzione- come quello naturalistico-ambientale.
Esso trova altresì giustificazione nella circostanza che le
prescrizioni urbanistico-edilizie preesistenti si
riferiscono a tipologie di opere diverse da questi impianti
e sono state elaborate con riferimento a possibilità di
diverso utilizzo del territorio, nell'inconsapevolezza del
fenomeno della telefonia mobile e, più in generale,
dell'inquinamento elettromagnetico. Tali strutture non
possono essere assimilate alle normali costruzioni edilizie
e, pertanto, il titolo autorizzatorio non può essere negato
se non avuto riguardo ad una specifica disciplina
conformativa, che prenda in considerazione le reti
infrastrutturali tecnologiche necessarie per il
funzionamento del servizio pubblico, attraverso l’apposito
regolamento previsto dall’articolo 8, comma sesto, della
legge 22.02.2001, n. 36.
C. Devono essere invece congiuntamente esaminati l’atto
recante motivi aggiunti depositato il 23.10.2014 e
quello prodotto il giorno 11.02.2015, in quanto il
provvedimento nel primo contestato (26.06.2014 prot. n.
13714) è stato integrato con provvedimento prot. n. 27943
del 31.12.2014 (emanato dopo l’ordinanza cautelare n.
598/2014) che ribadisce l’esito della pratica, sviluppando e
aggiungendo ragioni e argomenti a sostegno del rigetto
dell’istanza edilizia, provvedimento quest’ultimo da
qualificare come atto non meramente confermativo.
C.1. In primo luogo, il Comune ha opposto diniego
all’accertamento di conformità (con l’atto prot. n.
27943/2014 ma analogamente anche con il precedente prot. n.
13714/2014) perché non è ammessa la cosiddetta sanatoria
paesaggistica (tranne nei casi previsti dall’articolo 167 -comma 4- del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che, secondo
l’Ufficio tecnico, non ricorrono nella fattispecie).
Il divieto dell’autorizzazione paesistica in sanatoria è
stato introdotto dall’articolo 146, comma quarto, del
decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 -Codice dei beni
culturali e del paesaggio-, il quale dispone che
“L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. Fuori
dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5,
l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi”.
Come noto, il divieto di sanatoria sancito nel codice del
2004 è frutto di precisa scelta del legislatore delegato che
ha ritenuto così di reagire ad un orientamento
giurisprudenziale favorevole all’autorizzabilità ex post
(Consiglio Stato, Ad. gen., 11.04.2002 n. 4; Sez. VI, 09.10.2000 n. 5373; 31.10.2000 n. 5851; 27.03.2003, n. 1594 e 15.05.2003, n. 2653).
Tale indirizzo interpretativo, basato su un parallelismo tra
(il necessariamente successivo) accertamento di conformità
in materia edilizia, introdotto dall’art. 13 della legge n.
47 del 1985 -sostanzialmente vincolato-, e (la ben
diversa) valutazione di compatibilità, di natura
essenzialmente tecnico-discrezionale, rendeva il sistema di
tutela del paesaggio perennemente esposto a una sorta di
condono permanente, attraverso la monetizzazione
dell’infrazione, ovvero il pagamento della relativa
oblazione, ex articolo 15 della legge n. 1497 del 1939.
Lo stesso decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 ammette
l’autorizzazione paesistica postuma nelle ipotesi di cui
all'articolo 167, commi 4 e 5, quando venga realizzata
“un’opera senza creazione di superfici utili o volumi”; di
conseguenza, occorre qualificare sotto tale aspetto il caso
in esame.
L’Ufficio comunale riconduce il manufatto a “interventi di
nuova costruzione e di volumi (piattaforma in calcestruzzo
“fuori terra”, traliccio in ferro zincato di m. 15, vano-cabinet, etc.) che comportano una irreversibile
modificazione dello stato naturale dei luoghi ed integrano
pertanto attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia”.
È evidente che né la piattaforma in calcestruzzo, né il
traliccio, né il vano-cabinet (un’armadiatura a protezione
degli allacci elettrici) sviluppino superficie o volumetria
utile, sebbene rappresentino, come giustamente sottolinea
l’Amministrazione, pur sempre una “trasformazione
urbanistica ed edilizia”.
Di conseguenza, deve ritenersi errata la conclusione
dell’Ufficio tecnico, il quale esclude la sussumibilità del
caso concreto riguardante tale specifica opera nella
fattispecie descritta dall’articolo 167, quarto comma.
Ciò ovviamente non significa negare l’impatto visivo
dell’impianto (che, se collocato in una zona vincolata, è
dunque soggetto ad autorizzazione), ma solo rilevare che la
mancanza della previa acquisizione dell’assenso da parte
dell’autorità preposta alla tutela non comporta, di per sé,
preclusione all’esame della pratica confluente
nell’autorizzazione unica, di cui all’articolo 87 del D.Lgs.
01.08.2003, n. 259.
C.2. In secondo luogo, non è condivisibile la posizione
dell’Autorità municipale, laddove giustifica il diniego sul
presupposto che (b) “l’intervento comunque non risulta
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda”.
La giurisprudenza che si è occupata della questione, è
partita dal presupposto che tali opere integrino impianti
tecnologici e volumi tecnici costituenti una rete di
infrastrutture, legislativamente qualificate come opere di
urbanizzazione primaria. Ha dedotto quindi che esse siano in
astratto compatibili con qualsiasi destinazione di P.R.G.
delle aree interessate (Cons. Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n. 4910), evidenziando poi che l'insediamento degli
impianti -la cui compatibilità urbanistica va poi in
concreto operata nell'ambito della procedura autorizzatoria
degli art. 86 e seguenti del d.lgs. 01.08.2003, n. 259-
non può aprioristicamente prescindere dalla realtà di fatto
di una rete di telecomunicazione, la quale per sua natura
postula una diffusione sul territorio, segnatamente nei casi
di telefonia mobile c.d. cellulare, che compensa la
debolezza del segnale di antenna con la maggiore contiguità
delle singole stazioni radio base.
In altri termini, poiché l'art. 90 del vigente D.Lgs. n. 259
del 2003 dispone che gli impianti in questione e le opere
accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno
"carattere di pubblica utilità" e che rientrano nelle opere
di urbanizzazione primaria, a norma dell’articolo 86, essi
possono essere ubicati in qualsiasi parte del territorio
comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni
urbanistiche e, ad esempio, “non soggetti in linea di
massima (salvo disposizioni peculiari) ai limiti di altezza
e cubatura delle costruzioni circostanti” (Cons. Stato, Sez. VI, 13.04.2010, n. 2055).
Il ridimensionamento del potere urbanistico dell’ente locale
che normativamente si produce non solo riflette la rilevanza
dell’interesse pubblico (che si arresta solo di fronte alle
discipline poste a tutela degli interessi differenziati -in
quanto espressione di principi fondamentali della
Costituzione- come quello naturalistico-ambientale (Cons.
Stato, Sez. III, 19.03.2014, n. 1361).
Esso trova altresì
giustificazione nella circostanza che le prescrizioni urbanistico-edilizie preesistenti si riferiscono a tipologie
di opere diverse da questi impianti e sono state elaborate
con riferimento a possibilità di diverso utilizzo del
territorio, nell'inconsapevolezza del fenomeno della
telefonia mobile e, più in generale, dell'inquinamento
elettromagnetico. Tali strutture non possono essere
assimilate alle normali costruzioni edilizie e, pertanto, il
titolo autorizzatorio non può essere negato se non avuto
riguardo ad una specifica disciplina conformativa, che
prenda in considerazione le reti infrastrutturali
tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio
pubblico (C.G.A.S., 25.06.2013, n. 624; TAR Sicilia,
Palermo, Sez. II, 15.01.2015, n. 100), attraverso
l’apposito regolamento previsto dall’articolo 8, comma
sesto, della legge 22.02.2001, n. 36.
In conclusione, in accoglimento delle censure attorie -e
anche prescindendo dalla questione se l’ordinanza cautelare
n. 598/2014 consentisse un’integrazione motivazionale-,
devono ritenersi illegittimi i provvedimenti 26.06.2014 prot. n. 13714 e 31.12.2014 prot. n. 27943.
Di conseguenza, nel complesso, il ricorso originario è da
dichiararsi improcedibile, mentre i motivi aggiunti
(rispettivamente depositati il 23.10.2014 e il giorno
11.02.2015) devono essere accolti, con annullamento
del provvedimento 26.06.2014 prot. n. 13714 (e delle
ordinanze di demolizione n. 15 del 14.07.2014 e n. 17
del 27.08.2014, fondate sul primo atto), nonché del
provvedimento 31.12.2014 prot. n. 27943
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 21.05.2015 n. 1676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: DEONTOLOGIA FORENSE/ Sentenza della Corte di cassazione.
Serve diligenza media. Responsabilità professionale per chi
la viola.
Se l'avvocato viola il dovere di diligenza media, incorrerà
nella responsabilità professionale.
A ribadirlo sono stati i giudici della III Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
20.05.2015 n. 10289.
I medesimi giudici hanno evidenziato,
altresì, che quella dell'avvocato si configura come
obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto il dovere
di diligenza media sarà esigibile ai sensi dell'art. 1176
c.c.
Il professionista legale potrà, quindi, incorrere in
suddetta violazione nel caso in cui adotti mezzi difensivi
che possano risultare di pregiudizio per il cliente.
Nel caso in cui, poi, tali mezzi siano stati suggeriti dal
cliente medesimo, si sottolinea, in ossequio anche a un
consolidato orientamento giurisprudenziale, che sarà
«compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica
da seguire nella prestazione dell'attività professionale»
(si veda Cass. n. 20869/2004).
Il caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini riguardava
un cliente che aveva chiamato in causa il suo legale,
chiedendo la condanna dello stesso al risarcimento dei danni
patrimoniali per negligente condotta professionale.
I giudici della Cassazione hanno, poi, sottolineato che
l'avvocato è tenuto ad assolvere, secondo giurisprudenza
della stessa Corte, sia all'atto del conferimento del
mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, «non
solo al dovere di informazione del cliente ma anche ai
doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione dello
stesso ed essendo tenuto, tra l'altro, a sconsigliare il
cliente dall'intraprendere o proseguire un giudizio
dall'esito probabilmente sfavorevole» (si veda Cass. 30.07.2004, n. 14597).
Inoltre i giudici di piazza Cavour, nella medesima sentenza
in commento, hanno affermato che se un ricorrente propone
una questione in sede di legittimità avrà l'onere, al fine
di evitare una statuizione di inammissibilità per novità
della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione
della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di
indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia
fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare
ex actis la attendibilità di tale asserzione prima di
verificare nel merito la questione stessa (si veda Cass.
28.09.2008, n. 20518) (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sette parametri per provare il mobbing.
Le linee guida fissate dalla Corte di cassazione.
Linee guida certe per riconoscere il mobbing dalla Corte di
Cassazione.
I giudici di legittimità, infatti, con la
sentenza 15.05.2015 n. 10037,
offrono oggi il «metodo» certo per scoprire se il lavoratore
ricorrente ha diritto a ottenere un risarcimento da parte
del proprio datore di lavoro. In sostanza si tratta del
riconoscimento da parte della giurisprudenza di un già noto
metodo scientifico di valutazione del danno lavorativo. I
parametri che, secondo l'autorevole pronuncia, devono essere
provati dal soggetto che si dice mobbizzato concernono
puntualmente i seguenti aspetti:
1) l'ambiente di lavoro (nel senso che le vessazioni devono
avvenire sul luogo di lavoro);
2) la durata (con contrasti avvenuti in un congruo periodo
di tempo);
3) la frequenza (le provate attività vessatorie devono
essere reiterate e molteplici nel tempo);
4) tipo di azioni ostili (le azioni poste in essere devono
rientrare in almeno due delle categorie di azioni ostili
riconosciute: attacchi alla possibilità di comunicare;
isolamento sistematico; cambiamenti delle mansioni
lavorative; attacchi alla reputazione; violenze o minacce);
5) dislivello tra gli antagonisti (provando l'inferiorità
del soggetto mobbizzato);
6) andamento secondo fasi successive (almeno alcune tra,
conflitto mirato; inizio del mobbing; sintomi psicosomatici;
errori e abusi; aggravamento salute; esclusione dal mondo
del lavoro ecc);
7) intento persecutorio (ossia la prova di un disegno
vessatorio coerente).
Perché si abbia mobbing, a giudizio della Cassazione, devono
ricorrere tassativamente e contestualmente tutte e sette le
predette condizioni. Nel caso trattato, dei predetti
profili, i giudici di merito, in fase istruttoria, avevano
avuto prova certa, argomentando di conseguenza le proprie
motivazioni.
La vicenda traeva origine dalla vicenda di un dipendente
pubblico che lamentava di avere sofferto mobbing a causa di
un conflitto con il proprio diretto superiore gerarchico,
senza che il datore di lavoro intervenisse per evitare la
situazione di vessazione. Già i giudici di merito, a seguito
di prove testimoniali e perizie, nonché sulla base della
documentazione prodotta, erano venuti a riconoscere che il
dipendente aveva sofferto «la sottrazione delle proprie
mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza
plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di
essere subordinati a quello che prima era il proprio
sottoposto, l'assegnazione a un ufficio aperto al pubblico
senza possibilità di poter lavorare, così rendendo più
cocente l'umiliazione». Ora, in sede di giudizio di
legittimità, confermano l'ineccepibilità delle decisioni di
merito che già avevano dato ragione al lavoratore.
Da osservare come, a conforto delle tesi espresse nelle
pronunce di merito, la S.C. richiami più volte la
sostanziale e, si direbbe, quasi dirimente, rilevanza
dell'autorevole perizia eseguita in sede penale «da uno dei
massimi esperti di mobbing».
Sempre nell'annosa attesa di
una disciplina normativa del mobbing, la sentenza n.
10037/2015 segna un decisivo e ulteriore passo verso un più
definito assetto della nozione di vessazioni sul luogo di
lavoro. Da un lato, disincentivando azioni avventate (o
comunque poco meditate) da parte dei lavoratori. Dall'altro,
offrendo, a parti e giudici, gli «appigli» sicuri di una
ponderata road map di riscontri che devono essere posti alla
base del riconoscimento del danno del lavoratore
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tar Campania. Dieci metri di distanza tra gli edifici.
Dieci metri, balconi compresi. È la distanza minima che il
nuovo fabbricato deve osservare dall'edificio preesistente
che ha pareti con finestre, altrimenti non se ne fa niente.
Lo stop al permesso di costruire scatta anche se il
regolamento comunale consente di calcolare il minimo al
lordo e non al netto dei balconi: la disposizione dell'ente
deve infatti essere disapplicata e sostituita dalla norma
generale ex articolo 9 del dm 1444/1968, dettata per evitare
che nei complessi residenziali si formino intercapedini a
rischio per l'igiene e la salute dei residenti.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.05.2015 n. 2688 della II Sez.
del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condominio e di
alcuni proprietari che fanno dichiarare illegittimo il
titolo edilizio che il dirimpettaio ha ottenuto
dall'amministrazione in un paesone dell'entroterra
napoletano. I lavori puntano a riconvertire un capannone
industriale trasformandolo in edificio residenziale, ma di
fronte c'è un fabbricato con tanto di vedute che si aprono
in quella direzione.
Per i condomini è come trovarsi
qualcuno in casa da un giorno all'altro. La distanza minima
di dieci metri può essere calcolata al lordo dei balconi
soltanto quando si tratta di aggetti meramente decorativi e
di piccole dimensioni: risulta sempre necessario calcolarla
al netto quando le strutture sono invece «vivibili» perché
consentono al proprietario di estendere l'uso
dell'appartamento. Proprietario, impresa e comune pagano le
spese
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il D.M.
02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in tutti i
casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che
impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione
o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.
E da ciò deriva che l'adozione, da parte degli enti locali,
di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta
l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9,
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in
funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina.
La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli
aggetti costituenti elementi architettonici o meramente
decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo
della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che
presentino modeste dimensioni, sicché non può che
concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità,
solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso
abitativo.
Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per
l’applicazione del regime garantistico della distanza minima
dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che
si contrappongono di cui almeno una è finestrata: la
sussistenza di tale condizione non è in contestazione nel
caso che ne occupa, sussistendo, dunque, i presupposti di
fatto e di diritto richiesti per l'applicabilità della
disciplina qui in discussione.
2.1. L’eccezione non merita accoglimento.
2.2. Milita in tal senso in primo luogo l’analisi della
documentazione in atti e, in particolare, lo stato di
sviluppo del progetto all’epoca indicata dai
controinteressati, dovendosi attribuire precipuo rilievo –al fine di escludere un livello di ragionevole certezza in
ordine alla possibilità di percezione del profilo di
illegittimità, imprescindibile al fine di fondare una
valutazione di tardività del gravame– alla consistenza
complessiva dell’intervento, sicché lo stato di avanzamento
deve essere necessariamente rapportato all’intervento
progettato nella sua integrità, stanti anche le difficoltà,
in tali casi, di individuare nelle fasi prodromiche o
intermedie dell’edificazione l’incidenza di singoli elementi
costruttivi pure rilevanti nella rilevazione del contestato
vizio.
2.3. Si osserva, inoltre, che la difficoltà di percezione
del vizio dedotto in una fase antecedente all’acquisizione
di dati connotati da una maggiore certezza ed attendibilità
risulta, nella fattispecie, acuita dalla sussistenza di una
disciplina regolamentare (art. 99, commi 18 e 19) che
espressamente prevede che “i balconi aperti, le pensiline, i
cornicioni non formano distanze fino ad un aggetto pari a
1/8,50 della distanza dai confini e per un massimo di metri
1,20”.
2.4. Ciò senza considerare che la violazione dell’art. 9 del
d.m. n. 1444 del 1968 è stata, comunque, dedotta con il
ricorso introduttivo, notificato in data 07.08.2013,
sicché le successive argomentazioni articolate con il
ricorso per motivi aggiunti non costituiscono delle censure
nuove, ponendosi quale sviluppo e puntualizzazione di una
contestazione già lamentata, conseguente all’acquisizione
dei dati necessari ad una più specifica e circostanziata
qualificazione dell’asserito vizio.
3. Il Collegio rileva che proprio l’analisi di tale censura
riveste, nell’articolato impianto delle doglianze sviluppate
dalla difesa di parte ricorrente, carattere assorbente ai
fini della fondatezza del ricorso nella parte riferita alla
legittimità dei permessi di costruire n. 55 del 29.05.2012 e n. 26 del 22.02.2013.
3.1. Nella fattispecie, il C.T.U. (pagg. 36, 41 e 42
dell’elaborato peritale) ha espressamente rilevato che la
conformità alla disciplina dettata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 può essere affermata esclusivamente
escludendo dal computo delle distanze i balconi, sicché la
previsione del regolamento comunale sopra richiamata
costituisce condizione imprescindibile al fine del rispetto
dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444.
3.2. Il problema che si pone, dunque, è quello di verificare
la legittimità della previsione regolamentare in rapporto
alla ratio sottesa alla disposizione contenuta nel decreto
ministeriale.
3.3. Il Collegio non ritiene suscettibili di un favorevole
apprezzamento le controdeduzioni sviluppate dalle difese dei
controinteressati, dirette a sostenere la ragionevolezza
della previsione regolamentare e la possibilità per le
amministrazioni di operare una valutazione “a monte”,
attraverso, appunto, le norme regolamentari in ordine al
computo o meno dei balconi.
3.4. Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, il
D.M. 02.04.1968 n. 1444 -là dove all'art. 9 prescrive in
tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma
che impone determinati limiti edilizi ai comuni nella
formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati. E da
ciò deriva (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. II 01.11.2004 n.
21899) che l'adozione, da parte degli enti locali, di
strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta
l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9,
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (cfr. Cons. St., sez. V, 02.11.2010 n. 7731; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 16.10.2009, n. 1742).
3.5. Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, là dove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in
funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr.
TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001 n. 1734, TAR Liguria
Sez. I, 12.02.2004 n. 145). Pertanto, le distanze tra
costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di
modo che al giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina
(cfr. Cons. St., Sez. IV, 05.12.2005 n. 6909).
3.6. La stessa giurisprudenza ha anche chiarito che solo gli
aggetti costituenti elementi architettonici o meramente
decorativi sono esclusi dal computo ai fini del calcolo
della distanza in argomento, a condizione, peraltro, che
presentino modeste dimensioni, sicché non può che
concludersi nel senso della rilevanza di tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, aventi carattere di stabilità,
solidità e della immobilizzazione ovvero idonei ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso
abitativo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
3.7. Si osserva, inoltre, che condizione indispensabile per
l’applicazione del regime garantistico della distanza minima
dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che
si contrappongono di cui almeno una è finestrata (Cons. St.,
sez. IV, 31.03.2015, n. 1670): la sussistenza di tale
condizione non è in contestazione nel caso che ne occupa,
sussistendo, dunque, i presupposti di fatto e di diritto
richiesti per l'applicabilità della disciplina qui in
discussione.
3.8. Come sopra esposto, infatti, a prescindere da ogni
considerazione in merito all’impugnazione della disposizione
regolamentare, la sussistenza dei suddetti presupposti
consente la disapplicazione, pure richiesta dalla difesa di
parte ricorrente, della norma regolamentare, dovendosi
ritenere l’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
automaticamente inserito al posto della norma illegittima
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
15.05.2015 n. 2688 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità … Al tempo stesso
l'accertamento della piena conformità dei manufatti alle
norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso
di costruire, nonché alle disposizioni di convenzione
urbanistica, costituisce il presupposto indispensabile per
il legittimo rilascio del certificato di agibilità.
L’art. 25 del d.p.r. n. 380/2001 prescrive espressamente
che, ai fini del rilascio del certificato di agibilità,
risulta necessaria: “b) dichiarazione sottoscritta dallo
stesso richiedente il certificato di agibilità di conformità
dell'opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine
alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli
ambienti”.
Il quarto motivo di ricorso è infondato in quanto, per
pacifica giurisprudenza, l’agibilità presuppone non solo il
rispetto dei requisiti igienico sanitari ma altresì la
conformità dell’opera ai titoli abilitativi presupposti.
Ex pluribus Consiglio di Stato n. 5523/2013 secondo
cui: “il certificato di agibilità attesta la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità … Al tempo
stesso l'accertamento della piena conformità dei manufatti
alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del
permesso di costruire, nonché alle disposizioni di
convenzione urbanistica, costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità”.
L’art. 25 del d.p.r. n. 380/2001 prescrive espressamente
che, ai fini del rilascio del certificato di agibilità,
risulta necessaria: “b) dichiarazione sottoscritta dallo
stesso richiedente il certificato di agibilità di conformità
dell'opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine
alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli
ambienti”.
Né può trovare spazio la valutazione di agibilità parziale
posto che la normativa subordina il rilascio del certificato
all’ultimazione dei lavori, conformemente al progetto;
ancora l’art. 49, co. 12, della l.r Piemonte n. 56/1977
nella versione vigente all’epoca di adozione degli atti
impugnati (e per altro il co. 6 del medesimo articolo del
testo normativo nella formulazione attualmente in vigore)
prevede che: “per ultimazione dell'opera si intende il
completamento integrale di ogni parte del progetto,
confermata con la presentazione della comunicazione di
ultimazione dei lavori"
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 15.05.2015 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La giurisdizione è del Tar nei recessi causa antimafia.
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in quei
casi nei quali un'amministrazione pubblica recede da un
contratto di appalto già stipulato con l'impresa
aggiudicataria della relativa gara, a causa, non già di
inadempimento contrattuale da parte dell'impresa, ma in
forza dell'adozione, da parte della competente Autorità
prefettizia, di informativa interdittiva c.d. «antimafia»,
riguardante l'impresa stessa.
Lo hanno ribadito i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la
sentenza
13.05.2015 n. 461.
I giudici amministrativi bolognesi hanno altresì evidenziato
che in ossequio anche a quanto stabilito dalle Sezioni
Unite, «Il recesso di cui si tratta non trova fondamento in
inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del
contratto, ma è consequenziale all'informativa del Prefetto
ai sensi del dpr n. 252 del 1998 art. 10, e, quindi è
espressione di un potere di valutazione di natura
pubblicistica diretto a soddisfare l'esigenza di evitare la
costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra
i soggetti indicati nel citato art. 1, e imprese nei cui
confronti emergono sospetti di collegamenti con la
criminalità organizzata» (si veda Cassazione, sezioni unite
civili 29.08.2008 n. 21928).
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici bolognesi,
l'ordinanza del Commissario delegato, pur avendo ad oggetto
formalmente l'esercizio del potere di recesso dal contratto
(e, quale diretta conseguenza del recesso, l'incameramento
della cauzione definitiva), risultava essere espressione di
un potere autoritativo di valutazione dei requisiti
soggettivi del contraente, che attiene, per consolidato
orientamento giurisprudenziale, alla scelta del contraente
stesso e il cui esercizio è consentito anche nella fase di
esecuzione del contratto ex art. 11 del decreto del
presidente della repubblica n. 252 del 1998 (si veda ancora
Cassazione, sezioni unite civili n. 21928 del 2008 cit.).
Nel caso di specie, sembra opportuno osservare come la
Prefettura adottava misura interdittiva antimafia nei
riguardi di una società per azioni, recante l'obbligo, per
l'Amministrazione che aveva chiesto l'informativa, di
recedere dai contratti stipulati con l'impresa destinataria
della suddetta misura interdittiva.
Pertanto nel caso di specie il recesso dal contratto di
appalto da parte dell'Amministrazione è stato determinato
dall'adozione di una misura interdittiva antimafia che,
ancorché adottata successivamente alla stipulazione del
contratto di appalto, ha pur sempre natura provvedimentale e
origine nella precedente fase procedimentale ad evidenza
pubblica per la scelta del contraente della pubblica
amministrazione.
Sicché, a parere del Tar per l'Emilia-Romagna, in tali casi,
all'obbligato recesso dal contratto non può seguire
l'ulteriore misura dell'incameramento della cauzione
definitiva, stante l'evidente mancanza del necessario
presupposto, espressamente richiesto dall'art. 113 decreto
legislativo n. 163 del 2006, di sussistenza di un “mancato
od inesatto adempimento” contrattuale imputabile
all'impresa privata (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.06.2015). |
APPALTI: Il
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente
pronunciando sul ricorso in epigrafe, dispone il deferimento
all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la controversia
circa l’individuazione del corretto criterio da applicare in
una gara d’appalto al fine della risoluzione di discordanze
tra offerta esposta dal concorrente in cifre e offerta
esposta in lettere, nel caso in cui la legge di gara sia
silente al riguardo.
2. Oggetto sostanziale della presente controversia è
l’individuazione del corretto criterio da applicare in una
gara d’appalto al fine della risoluzione di discordanze tra
offerta esposta dal concorrente in cifre e offerta esposta
in lettere, nel caso in cui la legge di gara sia silente al
riguardo.
In linea generale la giurisprudenza appare consolidata
nell’affermare che non necessita alcun criterio di
risoluzione ove il contrasto (tra ribasso in cifre e in
lettere) sia dovuto ad errore materiale facilmente
riconoscibile, dovendosi in tal caso dare rilievo a quegli
elementi di valutazione diretti ed univoci che consentano di
riconoscere (art. 1431 cod. civ.) l'errore materiale o di
scritturazione in cui sia incorso l'offerente e di
emendarlo, dando così prevalenza al valore effettivo
dell'offerta.
Problemi interpretativi sorgono invece allorché (come nel
caso all'esame) la discordanza sia tutt'altro che
macroscopica ed anzi obiettivamente marginale, di talché non
è dato a priori riconoscere con sicurezza quale delle due
diverse indicazioni sia frutto di errore.
Come è noto, nei rapporti tra privati il criterio discretivo
in analoghe situazioni di differenza negli importi è
sostanzialmente quello della prevalenza dell’importo
indicato in lettere, come si desume dall’art. 6 R.D.
1669/1933 (cambiali) e art. 9 R.D. 1736/1933 (assegni).
Per contro, l’ordinamento di settore della contrattualistica
pubblica contiene due norme, diversamente orientate, alle
quali sembra possibile fare riferimento.
L’art. 72 del R.D. n. 827 del 1924 (Regolamento per
l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità
generale dello Stato) nel disciplinare il procedimento di
asta pubblica prevede al comma secondo che: “Quando in
una offerta all'asta vi sia discordanza fra il prezzo
indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida
l'indicazione più vantaggiosa per l'amministrazione.”.
L’art. 119 del Regolamento di esecuzione del codice degli
appalti approvato con D.P.R. n. 207 del 2010, nel
disciplinare il caso dell'aggiudicazione al prezzo più basso
mediante offerta a prezzi unitari, prevede per quanto di
interesse ai commi 2 e 3 che: “2... Il prezzo complessivo
ed il ribasso sono indicati in cifre ed in lettere. In caso
di discordanza prevale il ribasso percentuale indicato in
lettere.
3. Nel caso di discordanza dei prezzi unitari offerti
prevale il prezzo indicato in lettere.....”.
Nell’ambito del codice appalti e del regolamento non si
rinvengono invece norme di portata generale per la
risoluzione della questione in esame.
In proposito, questo Consiglio si è di recente espresso nel
senso della specialità della regola dettata dall’art. 119 (e
cioè della sua attinenza al solo caso dell’offerta a prezzi
unitari) e invece della generale applicabilità della diversa
regola sancita dall’art. 72 del Regolamento di contabilità
(cfr. CGA n. 511 del 2014).
A tale conclusione questo Consiglio è pervenuto in primo
luogo escludendo l'intervenuta abrogazione dell'art. 72 del
Regolamento di contabilità per effetto dell'entrata in
vigore del codice appalti, in quanto l'art. 256 del D.l.vo
n. 163 del 2006 individua analiticamente le disposizioni
abrogate a seguito dell'entrata in vigore del codice stesso
fra le quali non è ricompreso l'art. 72 citato (cfr. CGA n.
54 del 2014 ma vedi in precedenza VI Sez. n. 248 del 2010).
In secondo luogo si è rilevato che la normativa oggi
contenuta nell’art. 119 del Regolamento non ha carattere di
novità, riproponendo essa il contenuto dell’art. 90 del
vecchio Regolamento di attuazione delle legge quadro di cui
al D.P.R. n. 554 del 1999 e prima ancora dell’art. 5 della
legge n. 14 del 1973: di talché mal si comprende come il
Legislatore del codice possa aver inteso implicitamente
elevare al rango generale una regola che dal 1973 si è
costantemente riferita e si riferisce ancor oggi
espressamente al peculiare caso dell’offerta mediante
ribasso sui prezzi unitari.
Altra parte della Giurisprudenza, anche di questo Consiglio,
è invece orientata in senso contrario e ritiene che quella
della prevalenza dell’offerta in lettere si configura come
clausola di chiusura volta a prevenire eventuali
contestazioni circa l’effettiva volontà della parte privata
e a risolvere, nel rispetto dei fondamentali canoni di
certezza e trasparenza delle operazioni di affidamento degli
appalti di lavori pubblici, ogni incertezza nell'ipotesi di
discordanze tra le diverse componenti dell'offerta (cfr. CGA
n. 884 del 2007, IV Sez. n. 4104 del 2009, V Sez. n. 5095
del 2011 e III Sez. n. 4873 del 2013).
All’indirizzo da ultimo richiamato aderisce appunto con la
sentenza qui impugnata il TAR Palermo il quale, dopo aver
sottoposto a revisione critica il contrario orientamento, ha
acutamente affermato la possibile coesistenza delle due
diverse impostazioni, riferibili l’una (art. 119) all’intero
settore degli affidamenti di appalti e l’altra (art. 72)
alle residue procedure prodromiche alla stipula di contratti
con diverso oggetto (locazioni, vendite etc.).
Infine per completezza occorre dar conto di quanto rilevato,
con riguardo alla specifica tipologia di gara in
controversia, dall’Avvocatura erariale.
In sintesi, secondo l’Avvocatura, la regola dell’art. 72 non
sarebbe comunque e ontologicamente applicabile ad una gara
sottosoglia con esclusione automatica delle offerte anomale,
nella quale a priori non è possibile stabilire quale sia
l’offerta effettivamente più vantaggiosa per
l’Amministrazione: infatti un’offerta che ex ante appare più
vantaggiosa in quanto esprime un maggior ribasso potrebbe
poi risultare anomala ed essere esclusa, con pregiudizio
finale per la stazione appaltante.
3. Premessi tali riferimenti normativi e giurisprudenziali,
questo Collegio osserva che della attuale vigenza dell’art.
72 del Regolamento di contabilità non sembra possibile
dubitare.
Occorre quindi valutare se, come appunto implicitamente
statuito dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra
richiamati ed esplicitamente dal TAR Palermo con la sentenza
impugnata, esso sia in realtà oggi inapplicabile al settore
degli appalti, da considerare governato nella sua interezza
dal criterio speciale di cui all’art. 119 del Regolamento.
In un’ottica sistematica può rilevarsi che l’art. 72
valorizza l’interesse immediato della P.A. procedente e
quindi, in applicazione del principio di responsabilità,
addossa all’aggiudicatario il costo dell’errore compiuto in
sede di offerta, e ciò a prescindere da ogni ricostruzione
della sua reale volontà.
Per contro l’art. 119 appare invece ispirato al criterio di
privilegiare quella forma di espressione del ribasso offerto
(la scrittura in lettere) che di norma –come comprova
l’esempio dell’assegno e della cambiale- si considera più
meditata e quindi presuntivamente più aderente all’effettiva
intenzione di chi formula l’offerta.
Indubbiamente, quindi, l’art. 119 orbita –come ben rilevato
dal TAR- in un’ottica paritetica più sensibile al principio
di concorrenza e quindi alla necessità che nelle procedure
di evidenza pubblica il confronto competitivo tra i
concorrenti si sviluppi su un piano di effettiva parità.
Ugualmente, sul piano sistematico non può trascurarsi il
rilievo che il criterio dell’art. 72 (il ribasso più
significativo) mal si inserisce in un sistema di
aggiudicazione che oggi fa perno sull’eliminazione (specie
se automatica) delle offerte anormalmente basse.
Come si è più volte ricordato, il principale ostacolo alla
applicazione generalizzata dell’art. 119 del Regolamento
all’intero settore degli appalti sta nel fatto che tale
articolo regola solo l’offerta mediante offerta a prezzi
unitari e non l’offerta con ribasso sull’elenco prezzi o
importo dell’appalto, disciplinata dall’art. 118 in cui il
problema delle discordanze non è invece considerato.
Analogamente, nel caso dell’aggiudicazione all’offerta
economicamente più vantaggiosa, né l’art. 120 del
Regolamento né l’art. 83 del codice prevedono la risoluzione
di eventuali discordanze nell’indicazione del prezzo da
parte dei concorrenti.
Tale apparente anomalia potrebbe essere spiegata osservando
che in realtà quello dell’offerta a prezzi unitari (appunto
art. 119) è il solo caso in cui espressamente la fonte
generale impone al concorrente (per esigenze pratiche di
organizzazione dei fogli della lista lavorazioni) di
esprimere obbligatoriamente i prezzi sia in lettere che in
cifre.
Invece nel caso di massimo ribasso sull’elenco
prezzi/importo lavori o di offerta economicamente più
vantaggiosa la legge non impone che il ribasso o il prezzo
offerti siano indicati in forma duplice: e quindi la regola
generale sarebbe stata collocata solo là ove essa è di più
probabile applicazione.
Certamente anche volendo aderire a questa ricostruzione
resta però –come si è ricordato sopra– la stranezza di una
clausola generale celata in una normativa che dal 1973 si
riferisce ad uno specifico criterio di formulazione
dell’offerta.
Ciò premesso, in un contesto normativo e giurisprudenziale
venato da così rilevante perplessità ed avuto riguardo al
significativo rilievo pratico della questione controversa
sopra delineata, questo Collegio ritiene opportuno deferire
d’ufficio la definizione del ricorso all’Adunanza Plenaria,
ai sensi dell’art. 99, comma 1, del codice del processo
amministrativo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente
pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il
deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
(C.G.A.R.S.,
ordinanza 11.05.2015 n. 390 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Permessi per la 104 nel mirino. Ormai la legge è
divenuta un colabrodo, nuovo intervento.
Condanne a gogò dei giudici contro l'utilizzo
improprio e a fini personali delle misure.
Mano pesante dei giudici ordinari nei confronti dei
lavoratori che utilizzano impropriamente i tre giorni
mensili di permesso retribuito, previsti dall'articolo 33
della legge 104 del 1992, come modificata dalle leggi n.
53/2000 e n. 183/2010, per assistere parenti disabili in
situazione di gravità. L'utilizzo improprio si configura,
per esempio, svolgendo, in uno o in tutti i tre giorni di
permesso, altre attività sia ludiche o turistiche che
manuali incompatibili con l'obbligo di assistere il parente
disabile.
Sul punto sono sempre più numerose le sentenze di condanna
pronunciate dai giudici ordinari nei confronti appunto di
lavoratori che utilizzano non correttamente, secondo i
giudici, i permessi previsti dal predetto articolo 33.
L'ultima in ordine di tempo è la
sentenza 30.04.2015 n. 8784 pronunciata dalla Sez.
lavoro della Corte di Cassazione.
Con questa sentenza, in particolare, i giudici della
Cassazione hanno sostenuto -come peraltro avevano fatto in
precedenza quelli della Corte di Appello dell'Aquila- che il
comportamento tenuto nella circostanza dal lavoratore
(durante la fruizione del permesso per assistere la madre
disabile grave aveva partecipato ad una serata danzante)
implica un disvalore sociale nel momento in cui i permessi
richiesti e concessi per assistere un parente disabile in
situazione di gravità vengono utilizzati per soddisfare
proprie esigenze personali, scaricando il costo di tale
esigenza sulla intera collettività.
Stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal
datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall'ente
previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi
e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni
permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri
compagni di lavoro che lo devono sostituire, ad una maggiore
penosità della prestazione lavorativa.
Effetti questi ultimi che nella scuola si risentono
quotidianamente e ciò in ragione di un aumento esponenziale
del numero di richieste dei tre giorni di permesso per
assistere un parente disabile, permessi da fruire in
moltissimi casi esclusivamente nella giornata del sabato o
del lunedì.
La mano pesante che stanno adottando i giudici dovrebbe ora
indurre il legislatore a predisporre norme finalizzate non a
comprimere un civilissimo istituto, quale è quello
dell'assistenza ai disabili, come disciplinato dall'articolo
33 attualmente in vigore, ma a favorirne l'utilizzo, anche
per un maggior numero di giornate mensili, da parte dei
lavoratori che possano dimostrare che quei giorni di
permesso richiesti servono effettivamente ad assistere il
parente disabile.
Le disposizioni contenute in particolare nel comma 3-bis non
sembrano essere più sufficienti a tal fine (articolo ItaliaOggi del
09.06.2015). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Va motivata la scelta dei dirigenti a termine. Il
Tar Umbria non consente una decisione in base a punteggi
predeterminati.
Selezione annullata perché non trasparente. Stop alla
procedura del Comune per l'incarico a termine al dirigente
se i criteri per reclutare i manager si limitano a punteggi
predeterminati in modo generico, mentre il decreto Brunetta
impone all'amministrazione di motivare comunque il
conferimento dell'incarico, per quanto triennale:
diversamente si finirebbe per ledere i principi che
regolamentano l'accesso al pubblico impiego.
E invocando la
mera necessità del rapporto fiduciario nei tre anni di
contratto si potrebbe assumere soltanto chi risulta «affine»
alla maggioranza politica che in quel momento governa l'ente
locale.
È quanto emerge dalla
sentenza
30.04.2015 n. 192, pubblicata dal TAR Umbria.
Nessun dubbio che si configuri
la giurisdizione del giudice amministrativo, almeno per
l'annullamento degli atti che hanno portato il Comune a
ingaggiare il manager, peraltro subito spostato a un
incarico più prestigioso. Nelle amministrazioni si entra
soltanto per concorso pubblico e non c'è dubbio che il
candidato escluso abbia un interesse legittimo a ottenere
l'incarico attraverso procedure trasparenti.
È vero: l'iter
«incriminato» è soltanto una selezione pubblica e non una
vera e propria tornata concorsuale, ma deve comunque essere
ritenuta una procedura para-concorsuale perché risulta
previsto un colloquio oltre che l'esame dei curricula.
Ed è proprio lì che si trova «l'area grigia» tale da
far annullare gli atti. Alla commissione di valutazione
nominata dal Comune il bando riconosce una discrezionalità
praticamente assoluta dal momento che non risultano
stabiliti i parametri da osservare per poter accedere al
colloquio e valutare i candidati.
In particolare risultano ammessi all'orale soltanto gli
aspiranti dirigenti a termine che ottengono un punteggio
superiore a 28/40: si configura comunque una valutazione
comparativa dei candidati da parte dell'organo di
valutazione.
E il decreto legislativo 150/2009, il cosiddetto decreto
Brunetta, ha cambiato le regole che governano il pubblico
impiego precisando che bisogna spiegare le ragioni per cui
l'amministrazione dà l'incarico a uno piuttosto che a un
altro dei partecipanti (articolo ItaliaOggi del
09.06.2015).
---------------
MASSIMA
3. Preliminarmente, deve essere affrontata l’eccezione
di giurisdizione sollevata dal Comune resistente.
3.1. Secondo la difesa comunale, la selezione effettuata ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL non avrebbe natura
concorsuale, trattandosi di selezione preordinata al
conferimento di carattere fiduciario di incarichi
dirigenziali nell’ente locale, con conseguente esclusione
della giurisdizione del g.a. in materia di controversie
inerenti procedure concorsuali prevista dal comma 4,
dell’art. 63 del D.lgs. 165 del 2001, e attrazione nella
giurisdizione del g.o. (prevista dal comma 1 del medesimo
D.lgs.) in tema di controversie concernenti il conferimento
degli incarichi dirigenziali.
3.2. Invero, è oramai principio pacifico che su tale ultima
tipologia di controversie sussista la giurisdizione del
giudice ordinario (ex multis Cass. civ. sez. unite,
23.09.2013, n. 21671; id. 01.12.2009, n. 25254; id.
14.04.2008, n. 9814; Consiglio di Stato sez. V, 29.04.2009
n. 2713) come peraltro statuito anche dall’adito TAR (sent.
n. 330 del 06.06.2013) quantomeno in riferimento
all’affidamento di incarichi di direzione di struttura
sanitaria complessa (peraltro nella fattispecie conferito a
soggetto interno e non preceduto da selezione pubblica).
3.3. Occorre però stabilire, anzitutto, se la selezione
disciplinata dall’art. 110, comma 1, TUEL a monte del
conferimento dell’incarico dirigenziale (da parte del
Sindaco) abbia o meno carattere concorsuale, poiché in
ipotesi affermativa ne discenderebbe la giurisdizione del
g.a. ai sensi del citato art. 63, c. 4, del D.lgs. 165/2001.
3.4. Recentemente la Cassazione (sez. lav. 13.01.2014,
n. 478) invero senza affrontare funditus la natura della
selezione di che trattasi, ne ha affermato la natura di
“strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base
dell’intuitu personae” riconoscendo la contempo la necessità
di integrare la disciplina di cui all’art. 110 TUEL con
l’art. 19 del D.lgs. 165 del 2001 (peraltro espressamente
richiamato nell’avviso pubblico della selezione per cui è
causa) quanto al profilo del termine minimo di durata degli
incarichi.
In precedenza è stata altresì sostenuta l’assenza di vincoli
di carattere procedimentale, risultando il conferimento
dell’incarico, appunto, atto privatistico di gestione (ex multis Cassazione sez. lav. 20.03.2004, n. 5659).
E’ stato però anche affermato che il conferimento di
incarico dirigenziale non è incompatibile con la preventiva
attivazione di una procedura selettiva tra gli aspiranti che
assuma le caratteristiche del pubblico concorso (Cass. sez.
unite 23.03.2005, n. 6217; id. sez. lav., 14.04.2015,
n. 7495).
Più di recente, pur ribadendo la natura
privatistica degli atti di conferimento degli incarichi
dirigenziali, è stato evidenziato che, le norme contenute
nell'art. 19, comma 1, D.lgs. 30.03.2001 n. 165,
obbligano l'Amministrazione datrice di lavoro al rispetto
dei criteri di massima in esse indicati, anche per il
tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede
(art. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei
principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art.
97 Cost.; tali norme obbligano la p.a. a valutazioni anche
comparative, all'adozione di adeguate forme di
partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le
ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto,
l'Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i
criteri e le motivazioni seguiti nella scelta dei dirigenti
ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è
configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di
produrre danno risarcibile (così Cassazione 14.04.2008,
n. 9814; id. sez. lav., 14.04.2015, n. 7495).
3.5. Va anche evidenziato che ai sensi dell’art. 40, c. 1,
lett. b), del D.lgs. 27.10.2009 n. 150 c.d. “Brunetta”,
che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 19 del D.lgs. 165
del 2001, è imposto all’Amministrazione un preciso onere
motivazionale circa le ragioni e i criteri seguiti per il
conferimento dell’incarico.
Infine, secondo orientamento oramai minoritario, la regola
dell’evidenza pubblica sarebbe inderogabile per il
conferimento degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni
(TAR Calabria-Catanzaro sez. II, 04.12.2008, n.
1560; TAR Campania-Napoli sez. V, 09.12.2002, n.
7887) dovendo necessariamente distinguersi tra conferimento
di incarichi dirigenziali interni ovvero a soggetti già in
possesso della qualifica dirigenziale ed incarichi a
soggetti esterni all’Amministrazione conferente, per i quali
venendosi a costituire un rapporto di pubblico impiego
occorre selezione assimilabile a quella concorsuale (Corte
Costituzionale 2007 n. 108).
3.6. Ciò premesso, secondo orientamento diffuso della
giurisprudenza amministrativa di prime cure,
l’art. 110 del TUEL nel consentire agli enti locali di affidare incarichi
di responsabilità dirigenziale con contratti a tempo
determinato, non li esonera dallo svolgere procedure
concorsuali (TAR Sicilia Catania sez. II, 11.10.2013, n. 2465; TAR Piemonte sez. II, 21.03.2012, n.
362; TAR Toscana sez. I, 11.11.2010 n. 6578; TAR
Campania Napoli sez. V, 09.12.2002, n. 7887).
3.7. Va evidenziato che la selezione indetta nel caso di
specie dal Comune di Città di Castello è risultata pubblica
ovvero aperta ai candidati esterni alla struttura
organizzativa comunale e contraddistinta da una selezione
dei candidati sia quanto alla valutazione del curriculum (max
40 punti) sia del colloquio (max 40 punti) a cui potevano
accedere soltanto i candidati che avevano conseguito un
punteggio di 28/40 per il curriculum.
Pur a fronte della prevista esclusione della formazione di
una graduatoria, non sfugge al Collegio che una selezione
così strutturata, pur non essendo riconducibile ad un
concorso pubblico in senso stretto, pare assumere valenza
para-concorsuale essendovi una selezione comparativa tra i
candidati a fronte della quale le relative posizioni
sostanziali assumono consistenza di interesse legittimo
all’ottenimento dell’incarico, secondo le regole
predeterminate dalla legge e dall’avviso pubblico.
3.8. Vi è in sostanza, prima dell’atto di conferimento
dell’incarico, la necessaria e preventiva intermediazione di
un potere autoritativo di tipo discrezionale tecnico
(comparazione dei curricula e del colloquio) che assegna
alla posizione azionata dal dott.ssa D.S. valenza di
interesse legittimo.
3.9. Diversamente opinando ovvero qualificando la selezione
di cui all’art. 110, comma 1, TUEL quale scelta “intuitu personae” risulterebbe assai dubbia la compatibilità
costituzionale della norma in riferimento all’art. 97 commi
2 e 4, Cost., dal momento che il conferimento di incarichi
dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione
comporterebbe, in quanto costitutivo di un rapporto di
impiego pubblico, una aperta deroga al principio
costituzionale dell’accesso tramite pubblico concorso -valevole anche per le assunzioni a tempo determinato (Corte
Cost. 23.04.2013, n. 73; Consiglio di Stato sez. VI, 04.11.2014, n. 5431)-
non sorretta da esigenze di buon
andamento e straordinarie esigenze di interesse pubblico
idonee a giustificarla (Corte Costituzionale 13.06.2013
n. 137; Id. n. 205 del 2006; nn. 297, 363 e 448 del 2006,
104 del 2007; 161 del 2008, 215 e 293 del 2009; n. 9, 10,
169, 195, 225, 235, 267, 354 del 2010; 7, 42, 52, 67, 68,
108, 127, 189, 299 e 310 del 2011; 30, 62, 100, 161, 177,
211, 212, 217, 226, 231 del 2012; 3 e 28 del 2013).
3.10. La scelta “intuitu personae”, motivata con l’esigenza
di un rapporto di fiducia tipico del profilo dirigenziale,
risulterebbe preordinata non già alla scelta del Dirigente
migliore bensì a quello “maggiormente affine” all’indirizzo
politico dell’Amministrazione -come non a torto sostenuto
dalla difesa del ricorrente- con grave pregiudizio per lo
stesso principio di separazione tra attività di indirizzo
politico e attività di gestione amministrativa sancita dal
Codice sul Pubblico Impiego (artt. 13 e seg.) e dallo stesso TUEL (art. 107) principio ritenuto - anche di recente -
espressione del buon andamento (Corte Cost. sent. 03.05.2013, n. 81) e che non avrebbe alcun significato ove la
scelta del Dirigente fosse a monte “intuitu personae”.
Diversamente dal conferimento di incarichi dirigenziali a
personale già dotato della qualifica dirigenziale, il
conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni
all’Amministrazione conferente, presupponendo una selezione
assimilabile a quella concorsuale (C.Cost. 2007 n. 108),
rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
3.11. Va quindi affermato che l’art. 110, comma 1, del TUEL,
indipendentemente dalla questione della natura pubblica o
privata dell’atto terminale di conferimento dell’incarico
dirigenziale, non costituisce una piena deroga alla regola
del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost. trattandosi
di selezione para -concorsuale retta dai principi di
trasparenza, imparzialità e par condicio.
E ciò è più vero laddove l’Amministrazione, come nel caso di
specie, abbia applicato lo strumento offerto dall’art. 110,
c. 1, del TUEL prevedendo l’assegnazione di un punteggio ai
curricula con una soglia minima per l’accesso al colloquio e
con un punteggio finale dato dalla sommatoria tra i punti
ottenuti nella valutazione del curriculum e del colloquio
stesso, ovvero optando per una valutazione di tipo
comparativo e procedimentalizzata, come non le è certo
vietato bensì imposto (secondo la tesi di Cassazione sez. lav. 14.04.2008 n. 9814).
3.12. Ritiene poi il Collegio che anche a voler ragionare in
termini di piena deroga allo strumento del concorso
pubblico, di cui si ribadisce il forte sospetto di
incostituzionalità, la sostenuta e condivisibile necessità
di valutazioni comparative e di motivazione delle
valutazioni al fine della compatibilità coi principi di
imparzialità e buon andamento, denota inequivocabilmente, in
punto di giurisdizione, la natura di interesse legittimo
della posizione azionata dal ricorrente, che si duole
proprio della ingiusta violazione dei suddetti principi.
Non ritiene infatti il Collegio di poter qualificare la
posizione soggettiva di cui il ricorrente prospetta la
lesione come di interesse legittimo di diritto privato
(Cass. sez. unite, 24.02.2000, n. 41; id. sez. lav.,
14.04.2015, n. 7495) ovvero di diritto soggettivo
tutelabile dal g.o., collocandosi la presente controversia
non già nel rapporto privatistico di lavoro dirigenziale
bensì nella presupposta fase di selezione a monte del
conferimento dell’incarico.
3.13. D’altronde, a voler estendere il campo di indagine
oltre al settore dei concorsi pubblici, è del tutto pacifico
come nell’attività dell’Amministrazione di affidamento di
forniture di beni e servizi di modesto importo con procedure
negoziate semplificate (art. 125 D.lgs. 163/2006) laddove
non è imposta l’applicazione di procedure ad evidenza
pubblica, siano indefettibili ed immanenti i principi di
trasparenza e parità di trattamento (ex multis Consiglio di
Stato sez. V, 16.01.2015, n. 65) la cui violazione,
come nessun dubita, determina l’illegittimità del
procedimento amministrativo e la lesione di posizioni
sostanziali di interesse legittimo nei confronti degli
aspiranti al perfezionamento del contratto.
E ciò non solo
in virtù dell’interesse comunitario che permea la materia
dell’affidamento di contratti pubblici, oggetto come noto di
puntuali direttive sul versante sostanziale che processuale,
bensì ancor prima in applicazione dei principi fondamentali
di trasparenza e imparzialità (art. 1 legge 241 del 1990) di
chiara matrice costituzionale. |
APPALTI:
Bachi informatici, responsabilità oggettiva. Tar
di Trento. I sistemi digitali non sono amministrazioni
parallele e indipendenti.
I sistemi informatici non sono
amministrazioni pubbliche parallele indipendenti, per cui
chi ne ha predisposto il funzionamento è responsabile delle
anomalie, così come lo è il dipendente che non ha fatto
tutto ciò che avrebbe potuto per soddisfare le legittime
richieste degli utenti.
È scritto nella
sentenza 15.04.2015 n. 149 del T.R.G.A. Trentino
Alto Adige-Trento, che ha accolto il ricorso di un privato
contro l’ultimo atto di esclusione «implicito,
pronunciato online» da un concorso straordinario per
l’apertura di nuove farmacie in non più di due Regioni o
Province autonome.
Il ricorrente aveva presentato tre domande di ammissione
attraverso la piattaforma informatica creata dal ministero
della Salute per gli enti interessati: le prime due erano
state escluse dal sistema per l’assenza dell’indirizzo di
posta elettronica certificata, mentre la terza era stata
bloccata perché il numero massimo di istanze consentite
(due) era stato già superato.
La Provincia autonoma di Trento, pur informata dell’errore
prima della scadenza del bando, aveva bocciato la richiesta
di sblocco.
I giudici amministrativi, dopo aver già concesso trenta
giorni per depositare la domanda cartacea (poi ammessa),
hanno spiegato come per la pubblica amministrazione «l’informatica
costituisca sicuramente (...)uno strumento ormai doveroso e
imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento
(e in particolare dal Dlgs 82/2005 - Codice
dell’amministrazione digitale) al fine di raggiungere
crescenti obiettivi di efficienza e efficacia dell’azione
amministrativa» e che quindi «sarebbe (...)gravemente
errato vedere nel procedimento informatico una sorta di
amministrazione parallela, che opera in piena indipendenza
dai mezzi e dagli uomini, e che i dipendenti si devono
limitare a osservare con passiva rassegnazione: le risposte
del sistema informatico sono invece oggettivamente
imputabili all’amministrazione, come plesso, e dunque alle
persone che ne hanno la responsabilità».
Per il Tar Trento, quindi, se i sistemi informatici causano
anomalie «vi è anzitutto una responsabilità di chi ne ha
predisposto il funzionamento senza considerare tali
conseguenze», ma anche un’altra «almeno omissiva, del
dipendente che, tempestivamente informato, non si è
adoperato per svolgere, secondo i principi di legalità e
imparzialità, tutte quelle attività che, in concreto,
possano soddisfare le legittime pretese dell’istante, nel
rispetto, comunque recessivo, delle procedure informatiche».
Nel decidere il ricorso, i giudici trentini imputano «il
rifiuto della piattaforma informatica» alla Pa
interessata. Inoltre, «la partecipazione tecnica del
Ministero estende, ma non sostituisce la responsabilità»,
poiché, accertata l’assenza di violazioni formali «era
dunque tenuta a valutarne la legittimità (...)e ciò non
avrebbe costituito violazione della par condicio, ma
attuazione del principio di legalità» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2015). |
EDILIZIA
PRIVATA: Cambi d’uso con meno vincoli.
Il Consiglio di Stato «liberalizza» i passaggi nella stessa
categoria funzionale.
Urbanistica. Impossibile bloccare i mutamenti nell’ambito di
un comparto, ma resta il nodo delle discipline locali
preesistenti.
«Padroni in casa propria» era lo slogan della legge
obiettivo (la n. 443/2001) che allargava la super-Dia a
tutta Italia, rendendo così più semplici i lavori di
ristrutturazione.
Sembra che il Consiglio di
Stato -Sez. IV- abbia preso spunto da qui con la recente
sentenza 19.03.2015 n. 1444,
riferita all’utilizzo che ciascuno fa dei propri immobili,
siano essi ad uso commerciale o terziario (caso considerato
dalla decisione), oppure residenziale o produttivo.
Secondo i giudici amministrativi di secondo grado, la
disciplina sul mutamento della destinazione d’uso -da
ultimo modificata dall’articolo 23-ter del Testo unico
edilizia (Dpr 380/2001) introdotto dal decreto Sblocca
Italia (Dl 133/2014) e citato dalla decisione in parola-
manifesta «evidenti risvolti sulla tutela della proprietà».
Le conseguenze di questa affermazione potrebbero essere
notevolissime, atteso che nella materia dell’ordinamento
civile (cui afferisce il diritto di proprietà) la potestà
legislativa è di esclusiva competenza statale, per cui le
leggi approvate dal parlamento non possono essere disattese
dalle regioni e, a maggior ragione, dai regolamenti locali
come i piani regolatori. Al contrario, se il cambio di
destinazione d’uso dovesse appartenere solo alla materia
urbanistica, si aprirebbero ancora spazi di autonomia
legislativa per le Regioni.
In altre parole, e in concreto, non sarebbero modificabili
in sede locale (se non nei limiti stabiliti dalla stessa
norma statale) le previsioni dell’articolo 23-ter per cui:
-
costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso
solo l’utilizzo dell’immobile che comporti l’assegnazione di
una diversa categoria funzionale tra residenziale,
turistico-ricettiva, produttiva-direzionale, commerciale e
rurale;
-
il mutamento della destinazione d’uso all'interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Di fatto quindi nelle Regioni che non hanno legiferato entro
il termine loro assegnato e ormai scaduto (tutte tranne
Liguria, Umbria e Toscana) troverebbe diretta applicazione
la disciplina nazionale che rende più semplici i cambi
d’uso, ammettendoli sempre all’interno della stessa
categoria. Non sarebbero dunque salve le leggi regionali
esistenti in materia.
Di diverso avviso la Regione Emilia Romagna (si veda
articolo a fianco) per cui al contrario le discipline
preesistenti -tra cui la propria- resterebbero in vigore.
La precedente giurisprudenza amministrativa non soccorre a
sciogliere i dubbi.
Sino all’entrata in vigore dell’articolo 23-ter del Testo
unico edilizia, il mutamento delle destinazioni d’uso veniva
infatti principalmente trattato all’articolo 10, comma 2,
del Testo unico che demanda alle regioni il compito di
stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi
a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro
parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia
di inizio attività.
Le legislazioni regionali sul punto erano dunque piuttosto
eterogenee e spesso rinviavano la disciplina di dettaglio
agli strumenti urbanistici comunali. Gli unici principi
comuni in materia derivavano da primarie nozioni
urbanistiche e dall’evoluzione giurisprudenziale. In
particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che
la destinazione d’uso di un fabbricato è quella impressa dal
titolo edilizio (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 09.02.2001 n. 583) e che il mutamento della destinazione
impressa ad un fabbricato in favore di altra funzione è
ammesso solo se la destinazione che si intende assegnare
ricada tra quelle astrattamente ammesse per l’area dallo
strumento urbanistico generale (Tar Lombardia, Milano,
sezione II, sentenza 07.05.1992, n. 219).
La giurisprudenza ha inoltre precisato come il mutamento di
destinazione sia urbanisticamente “rilevante” solamente
allorquando sussista un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
ossia aventi diverso regime contributivo in ragione del
diverso carico urbanistico.
Con l’articolo 23-ter, il legislatore statale ha
evidenziato una maggiore attenzione sul tema e la volontà di
porre rimedio all’eterogeneità delle discipline regionali.
Ma il tentativo non appare però andato pienamente a buon
fine, in ragione dei dubbi interpretativi emersi anche con
la sentenza del Consiglio di Stato.
---------------
L’adeguamento. La mappa sul territorio.
Solo tre le Regioni già allineate alla semplificazione.
Sono solo tre le Regioni
che hanno centrato l’obiettivo imposto dal decreto Sblocca
Italia di adeguare le proprie leggi sui cambi d’uso alla
semplificazione introdotta dal Dl Sblocca Italia: Liguria,
Umbria e Toscana.
L’articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia (Dpr
380/2001) ha imposto alle Regioni di adeguare la propria
legislazione, entro 90 giorni dall’entrata in vigore
(termine già decorso), ai principi secondo i quali:
costituisce mutamento «rilevante» della destinazione d’uso
di un immobile o di un’unità immobiliare solo l’utilizzo che
comporti il passaggio da una ad altra delle categorie
funzionali «residenziale», «turistico-ricettiva»,
«produttiva e direzionale», «commerciale» e «rurale»;
il mutamento della destinazione d’uso all’interno della
stessa categoria funzionale è sempre consentito.
La norma ha altresì disposto che, scaduti i 90 giorni,
questi principi avrebbero avuto diretta applicazione. Le
autonomie che hanno tempestivamente risposto all’appello del
legislatore nazionale sono, appunto, tre. La Liguria è
intervenuta con la legge 41/2014, la Toscana, ha ottemperato
con la legge sul governo del territorio (Lr 65/2014) e la
Regione Umbria recentemente ha approvato la legge 1/2015.
Altre autonomie, come ad esempio, l’Emilia Romagna, in
risposta alle richieste di chiarimenti avanzate in relazione
agli effetti della disciplina nazionale, sono invece
intervenute con semplici note interpretative.
La circolare 11.03.2015 della Regione Emilia Romagna è
utile per comprendere i profili di criticità che il dettato
normativo nazionale porta con sé.
La Regione Emilia Romagna si è, infatti, limitata ad
evidenziare che la disposizione introdotta a livello
nazionale, in realtà, non comporta significative innovazioni
sul territorio, atteso che il legislatore nazionale,
rispetto a i due principi nazionali, ha espressamente fatto
salve le diverse discipline contenute nelle leggi regionali.
Così la Regione ha riferito che la diretta applicabilità
delle statuizioni nazionali sia possibile solamente nelle
Regioni prive di legislazione di dettaglio in materia di
cambio d’uso.
Questa lettura, effettivamente confortata del dettato
letterale dell’articolo 23-ter (che non manca di rivelare
profili di contraddittorietà), chiarisce come l’intento di
uniformare la materia, sotteso all’introduzione della nuova
disposizione nel corpo del Testo unico sia soggetto a
notevoli limitazioni.
Il legislatore potrebbe, dunque, aver mancato l’importante
obiettivo di eliminare le disparità ad oggi esistenti tra le
discipline previste dalle singole regioni per regolare
mutamenti d’uso tra loro identici, salvo che per il
territorio sul quale sono posti in essere.
Il contenuto sostanziale della disposizione nazionale ha,
comunque, il pregio di distinguere in modo puntuale le
singole categorie funzionali e di identificare le modifiche
d’uso attuabili liberamente senza incidere sul carico
urbanistico esistente e quindi sulla dotazione di aree per
servizi (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo cimiteriale è perpetuo, ai sensi dell'art. 338 del
Testo unico. 27.07.1934 n. 1265, e la sua reiterazione nel
piano regolatore generale (peraltro ricognitiva) non dà
luogo a indennizzo, anche perché non integra un vincolo
preordinato all'esproprio, bensì un vincolo di natura
“conformativa” discendente ex lege per ragioni soprattutto
di tutela dell'igiene e della sicurezza pubblica.
Considerato.
La Sezione osserva sul piano generale che la giurisprudenza
amministrativa si è ripetutamente espressa nel senso che il
vincolo cimiteriale è perpetuo, ai sensi dell'art. 338 del
Testo unico. 27.07.1934 n. 1265, e che la sua reiterazione
nel piano regolatore generale (peraltro ricognitiva) non dà
luogo a indennizzo (ex multis, C.G.A. Reg. Sicilia -
sez. giurisdizionale, 08.10.2007, n. 929), anche perché non
integra un vincolo preordinato all'esproprio, bensì un
vincolo di natura “conformativa” discendente ex
lege per ragioni soprattutto di tutela dell'igiene e
della sicurezza pubblica.
Nel caso di specie, il PGT si limita a recepire le
previsioni del vigente piano regolatore cimiteriale, sia
nella parte che classifica come G1 (zone cimiteriali) la
porzione di vigneto ricadente nella fascia di rispetto
cimiteriale, sia nella parte in cui individua come possibile
zona di espansione dell’attuale cimitero l’area ove ricade
il vigneto in questione.
Ne consegue che l’eventuale lesività delle suddette
previsioni non discende, come sostengono i ricorrenti, dal
PGT bensì dal piano regolatore cimiteriale divenuto
inoppugnabile
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 18.03.2015 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Per l’antenna tv non serve l’ok dell’assemblea.
Condominio. Anche se c’è l’impianto centralizzato.
L’assemblea non può
negare al singolo condomino di installare sul tetto o sul
lastrico comune una propria antenna ricetrasmittente
televisiva in quanto con il divieto viene ad essere menomato
il diritto di ciascun partecipante all’uso della copertura e
si va ad incidere sul di lui diritto di proprietà. Né il
condomino può impedire il passaggio del personale tecnico
all’interno della propria unità immobiliare, se ciò consegue
al diritto di installare l’impianto d’antenna.
Simile principio, dapprima previsto nel Dlgs 259/2003
all’articolo 91, è stato poi nuovamente sancito dal nuovo
articolo 1122-bis del Codice civile introdotto con legge di
riforma del condominio che lo ha esteso anche in relazione a
qualunque altro genere di flusso informatico, anche da
satellite o via cavo.
I condomini possono dunque operare in
tal senso senza necessità di ottenere il preventivo consenso
da parte dell’assemblea, qualora l’intervento sia eseguito
in modo tale da arrecare il minor pregiudizio possibile sia
alle parti comuni dell’edificio e sia alle unità immobiliari
di proprietà dei singoli condomini.
Resta sempre fermo
l’obbligo di rispettare il decoro architettonico dello
stabile, nonché, in generale, la stabilità e la sicurezza
dell’edificio perché così continua a prevedere il comma
terzo dell’articolo 1120 del Codice civile in tema di
innovazioni.
Così ha disposto anche il
TRIBUNALE di Milano (presidente: Manunta, relatore: Rota)
con provvedimento 26.02.2015 (nel procedimento
14231/2014) che, accogliendo in sede di reclamo la congiunta
istanza formulata sulla base dell’articolo 700 del Codice di
procedura civile dal singolo condomino e dal suo conduttore
verso il condominio, ha ritenuto legittima la pretesa
avanzata dai predetti di istallare sul lastrico solare
comune un sistema di antenna fondamentale per lo svolgimento
da parte della società conduttrice della propria primaria
attività, indicando nel contempo punto del lastrico in cui
doveva essere posizionato l’impianto.
Ha inoltre condannato
due singoli condomini a consentire il passaggio ai tecnici
incaricati della posa dell’impianto attraverso il loro
terrazzo per il tempo necessario alla realizzazione delle
opere sul lastrico condominiale.
Nemmeno la presenza in condominio di un impianto
centralizzato impedisce dunque al singolo condomino di
installarne uno proprio.
Solo un regolamento condominiale di natura contrattuale può
limitare tale facoltà del condomino, proprio perché in grado
di invadere la sfera di proprietà degli altri condomini, sia
in ordine alle cose comuni e sia a quelle esclusive
(Cassazione 26468/2007).
Se però l’installazione dei nuovi impianti comportano delle
modificazioni delle parti comuni, allora l’interessato ha
l’obbligo di indicare all’amministratore il contenuto
specifico degli interventi e le modalità con cui vuole porli
in essere, affinché relazioni l’assemblea. Spetta a
quest’ultima, con le maggioranza di cui al quinto comma
dell’articolo 1136 del Codice civile, prescrivere soluzioni
alternative di esecuzione, prevedendo semmai una idonea
garanzia per eventuali danni ne dovessero conseguire (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi ex
art. 22 della l. n. 241 cit. e “la tutela del diritto di
accesso civico connessa all’inadempimento degli obblighi di
trasparenza”, sono due
istituti sono tra loro diversi.
La distinzione e non sovrapponibilità
tra i due istituti è stata delineata anche dalla più recente
giurisprudenza, la quale ha rimarcato come le nuove
disposizioni dettate con il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, in
materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte della P.A. regolino situazioni non
ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono
l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi degli artt.
22 e ss. della l. n. 241/1990.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al
riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i
cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle P.A., allo
scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi
costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento,
responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di
risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una
buona amministrazione e per la realizzazione di
un’Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di
documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato
decreto legislativo ed aventi ad oggetto l’organizzazione,
nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti
istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere
a tali siti direttamente ed immediatamente, senza
autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5
del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in
una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale
adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva
inadempienza dell’obbligo in questione, di ricorrere al G.A.
secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente –continua la giurisprudenza– l’accesso ai
documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss.
della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di
“documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati” i
soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento a cui si rivolge
l’accesso, cosicché in funzione di tale interesse l’istanza
di accesso deve essere motivata opportunamente.
---------------
Per la giurisprudenza consolidata nella materia del
risarcimento dei danni, vertendosi in tema di diritti
soggettivi, trova piena applicazione il principio dell’onere
della prova e non l’onere del principio di prova che, almeno
tendenzialmente, si applica in materia di interessi
legittimi.
... per l’annullamento del provvedimento del Comune di
Cervaro prot. n. 5487 del 29.05.2014, recante rigetto
della richiesta di accesso agli atti presentata dalla sig.ra
N.P. il 15.04.2014, avente ad oggetto le
delibere/determine del Consiglio Comunale e/o della Giunta
Municipale, con cui è stata istituita l’Avvocatura Comunale
...
- Considerato che con il ricorso in epigrafe la sig.ra N.P. ha agito per ottenere l’ostensione dei documenti
amministrativi del Comune di Cervaro oggetto dell’istanza di
accesso inoltrata dalla medesima al citato Comune il 15.04.2014 (ed assunta al protocollo con n. 4204);
-
Considerato che la riferita istanza di accesso è stata
respinta dal Comune di Cervaro con nota prot. n. 5487 del 29.05.2014 –di cui la ricorrente chiede l’annullamento–
sul rilievo della carenza, in capo alla sig.ra P.,
della legittimazione ad estrarre le copie richieste;
-
Considerato che la ricorrente propone, inoltre, domanda di
risarcimento dei danni;
-
Osservato che il Comune di Cervaro ed il sig. M.C. (quest’ultimo, evocato nella sua qualità di
Segretario Comunale), pur evocati, non si sono costituiti in
giudizio;
-
Osservato che con istanza depositata il 02.10.2014 la
ricorrente ha chiesto, altresì, il riesame del diniego di
ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato,
di cui al verbale n. 28 dell’11.09.2014;
-
Osservato che, ai sensi dell’art. 116, comma 4, c.p.a., sul
ricorso in materia di accesso ai documenti amministrativi il
giudice decide con sentenza in forma semplificata ex art. 74
c.p.a.;
-
Considerato che il ricorso, nella parte in cui ha ad oggetto
l’istanza di accesso, è inammissibile, non avendo la
ricorrente chiarito (pur a fronte delle interrogazioni ad
essa rivolte dal Collegio in sede di discussione del
gravame, anche ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.) se
con il medesimo ha inteso azionare il cd. diritto
all’ostensione dei documenti amministrativi previsto dagli
artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, ovvero il cd. accesso
civico di cui al d.lgs. n. 33/2013;
-
Considerato, sul punto, che pur essendo il rito ex art. 116
c.p.a. esperibile sia a tutela dell’accesso ai documenti
amministrativi ex art. 22 della l. n. 241 cit., sia “per la
tutela del diritto di accesso civico connessa
all’inadempimento degli obblighi di trasparenza”, i due
istituti sono tra loro diversi (come rammenta la stessa
documentazione depositata dalla ricorrente: cfr. il
comunicato dell’A.N.A.C. del 15.10.2014), vista, in
particolare, la differenza dei relativi presupposti. Essi,
perciò, non devono essere confusi;
-
Osservato che la distinzione e non sovrapponibilità tra i
due istituti è stata delineata anche dalla più recente
giurisprudenza (C.d.S., Sez. VI, 20.11.2013, n. 5515),
la quale ha rimarcato come le nuove disposizioni dettate con
il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, in materia di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A.
regolino situazioni non ampliative, né sovrapponibili a
quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi
ai sensi degli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990.
Con il
d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino
della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la
più ampia accessibilità alle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività delle P.A., allo scopo di
attuare il principio democratico, nonché i principi
costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento,
responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di
risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una
buona amministrazione e per la realizzazione di
un’Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il
tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di
documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato
decreto legislativo ed aventi ad oggetto l’organizzazione,
nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti
istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere
a tali siti direttamente ed immediatamente, senza
autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5
del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in
una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale
adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva
inadempienza dell’obbligo in questione, di ricorrere al G.A.
secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente –continua la giurisprudenza– l’accesso ai
documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss.
della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli
interessati di prendere visione e di estrarre copia di
“documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati” i
soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento a cui si rivolge
l’accesso, cosicché in funzione di tale interesse l’istanza
di accesso deve essere motivata opportunamente;
-
Osservato, tuttavia, che la causa petendi fatta valere dalla
ricorrente da un lato sembra da rinvenire nell’accesso ex l.
n. 241/1990, come, d’altronde, ha inteso il verbale di
diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato
(negato per la ritenuta assenza di un interesse
giuridicamente rilevante all’ostensione degli atti
richiesti) e, prima ancora, in sede procedimentale, il
medesimo Comune di Cervaro (che ha respinto l’istanza di
accesso per l’assenza di legittimazione, id est di una
posizione legittimante, all’ostensione); dall’altro, invece,
sembra da rinvenire nel diritto di accesso civico ex d.lgs.
n. 33 cit., come si evince, ad es., dal sesto e dal settimo
motivo di gravame. Il tutto, senza che nel ricorso sia
precisata alcuna graduazione tra le suddette posizioni, che
vengono, invero, azionate in modo indistinto;
-
Considerato che la commistione e sovrapposizione, da parte
della ricorrente, di due causae petendi distinte, autonome e
non sovrapponibili non può che portare alla declaratoria di
inammissibilità del ricorso, nella parte in cui ha ad
oggetto, più propriamente, l’istanza di accesso, visti i
dubbi circa la legittimazione attiva della predetta
ricorrente;
-
Considerato che l’inammissibilità discende, altresì, dalla
confusione del petitum, poiché non è dato comprendere se
l’obiettivo avuto di mira dalla ricorrente sia la
pubblicazione, da parte del Comune di Cervaro, degli atti e
documenti di cui al d.lgs. n. 33/2013, ovvero la presa
visione ed estrazione di copia degli atti oggetto
dell’istanza inoltrata al Comune il 15.04.2014;
-
Considerato, inoltre, che, con riferimento alla domanda di
risarcimento dei danni, si può prescindere dall’esaminare la
questione se la stessa sia da reputare inammissibile, non
potendosi ammettere che con lo speciale rimedio processuale
ex art. 116 c.p.a. possa veicolarsi altresì la domanda
risarcitoria (come affermato dalla concorde giurisprudenza
nel vigore della disciplina processuale anteriore al d.lgs.
n. 104/2010: cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 10.08.2004, n. 5514; id., Sez. V, 18.10.2001, n. 5519; TAR
Lazio, Roma, Sez. III-quater, 26.03.2008, n. 2599; id.,
Sez. I, 11.06.2004, n. 5601), ovvero se al rito
dell’accesso possa applicarsi analogicamente l’art. 117,
comma 6, c.p.a., che per il cd. rito speciale del silenzio
consente che l’eventuale domanda risarcitoria proposta sia
rimessa sul ruolo per essere trattata con il rito ordinario
(oppure immediatamente decisa, quando emerga da subito la
sua infondatezza: TAR Lazio, Latina, Sez. I, 20.05.2013, n. 470). Ciò, in quanto nella fattispecie all’esame la
domanda di risarcimento dei danni è manifestamente infondata
e da respingere;
-
Considerato, infatti, in proposito, che per la
giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV,
26.08.2014, n. 4293; id., Sez., VI, 23.03.2009, n.
1716), anche di questa Sezione (cfr, ex multis, TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 22.09.2014, n. 728; id., 20.05.2013, n. 464), nella materia del risarcimento dei
danni, vertendosi in tema di diritti soggettivi, trova piena
applicazione il principio dell’onere della prova e non
l’onere del principio di prova che, almeno tendenzialmente,
si applica in materia di interessi legittimi.
Orbene, nel
caso ora in esame la ricorrente non ha fornito alcun
elemento probatorio a sostegno della pretesa risarcitoria da
essa avanzata: tale pretesa, perciò, non può che essere
respinta (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 09.12.2014 n. 1046 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 05.06.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sulla liquidazione delle parcelle legali.
Quando la difesa legale non
riguarda la particolare fattispecie di giudizio per
l’accertamento della eventuale responsabilità dei
propri dipendenti, l’ente locale prima di
procedere al pagamento della parcella presentata dal
proprio difensore ha il dovere di esaminare la
documentazione relativa all’attività svolta dal
difensore per valutarne la congruità.
Detta valutazione di congruità
risponde all’esigenza di garantire una “attenta e
prudente gestione della spesa pubblica”, pertanto
deve tenere conto, “da un lato dell’incertezza
dell’esatta individuazione delle voci che potrebbero
concorrere alla determinazione degli onorari, dei
diritti e delle indennità dovute agli avvocati per
l’esercizio della loro attività professionale e dei
relativi parametri legali, dall’altro della
necessità di scongiurare il rischio di annoverare
nella parcella spese oggettivamente superflue o non
proporzionali all’opera prestata”.
Inoltre, anche quando non è
richiesto dalla legge il parere dell’Avvocatura
dello Stato, la valutazione di congruità deve
“riguardare, non solo la conformità della parcella
alla tariffa forense, ma anche il rapporto fra
l'importanza e delicatezza della causa e le somme
spese per la difesa”.
---------------
Nell'ipotesi di soccombenza laddove "nel
dispositivo della sentenza si legge sempre
l'ammontare della parcella dovuta al legale della
controparte, mentre nulla è stabilito dal giudice
per quella dovuta al legale che ha assistito
l'Amministrazione” detta liquidazione può
rappresentare un parametro di congruità (per pagare
il proprio legale) in relazione al valore della
causa, al numero di udienze alle quali hanno
partecipato i difensori delle parti in giudizio,
nonché al numero di atti processuali redatti e
depositati in corso di causa.
---------------
Circa la necessità -o meno- di avviare “la procedura
di riconoscimento del debito fuori bilancio per
quella parte della parcella eccedente il preventivo
impegno di spesa” si osserva quanto segue.
Il riconoscimento degli
oneri spettanti ad un legale per l’attività svolta a
favore dell’ente rientra nel novero delle
acquisizioni di servizi per i quali in astratto può
essere attivata legittimamente la procedura prevista
dalla lettera e) dell’art. 194 D.lgs. 267/2000”.
Tuttavia, vengono in rilievo anche i principi
contabili in tema di contratti di prestazione
d'opera intellettuale laddove affermano che “l'ente
deve determinare compiutamente, anche in fasi
successive temporalmente, l'ammontare del compenso
(esempio gli incarichi per assistenza legale) al
fine di evitare la maturazione di oneri a carico del
bilancio non coperti dall'impegno di spesa
inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità
dell'ente potrà disciplinare l'assunzione di
ulteriore impegno, per spese eccedenti l'impegno
originario, dovute a cause sopravvenute ed
imprevedibili”.
La Magistratura contabile ha affrontato il caso in
cui l’impegno di spesa per un incarico legale non
fosse risultato adeguato rispetto alla parcella
presentata dal professionista e si è chiesta se in
questi casi l’ente locale debba ricorrere alla
procedura del debito fuori bilancio per liquidare la
differenza rispetto al preventivo.
La fattispecie è stata risolta richiamando il
principio secondo cui “pur in
presenza di difficoltà nella individuazione della
somma esatta relativa alla parcelle del
professionista, l’Ente è tenuto al rispetto dei
canoni di buona amministrazione (fra gli altri a
quello del prudente apprezzamento), delle regole
giuscontabili in materia di spesa e dei principi che
caratterizzano la corretta gestione dei pubblici
bilanci”.
Così, con riferimento alla
determinazione dell’impegno di spesa per attività
professionale legale, va acquisito “dall’avvocato,
al quale è stata affidata la rappresentanza in
giudizio del Comune, un preventivo di massima
relativo agli onorari, alle competenze ed alle spese
che presuntivamente deriveranno dall’espletamento
dell’incarico stesso ai fini di predisporre un
adeguata copertura finanziaria".
D’altra parte, se si
verificano casi in cui è difficile quantificare
l’impegno finanziario al momento dell’ordinazione
della prestazione ai sensi dell’art. 191 TUEL, in
ragione dell’imprevedibile andamento della causa,
“la difficoltà di determinazione dell’esatto
ammontare di una spesa non esime l’ente dall’obbligo
di effettuarne una stima quanto più possibile
veritiera e prudenziale, al fine di una corretta
imputazione a bilancio del costo complessivo
presunto della prestazione. L’importo così
determinato dovrà essere impegnato in bilancio nella
sua interezza anche se verrà corrisposto, quanto
meno in parte, in epoca successiva all’esercizio di
competenza".
Dunque, nell’ordinamento contabile
degli enti locali (art. 162 TUEL) vigente prima
dell’entrata a regime dell’armonizzazione dei
sistemi contabili, è corretta l’assunzione
dell’impegno di spesa quando il sottostante
contratto (nella specie, mandato d’opera) viene
stipulato con il professionista incaricato della
tutela legale secondo una prudente e oculata
previsione della durata e dell’importo complessivo
dell’incarico, al fine di predisporre un’adeguata
copertura finanziaria.
In questo caso, l’impegno di spesa per prestazioni
professionali a tutela dell’ente può dirsi assunto
correttamente quando in presenza di un eventuale
maggior onere (emergente dall’imprevedibile lunga
durata della causa), l’ente al fine di garantire la
copertura finanziaria procede ad adeguare lo
stanziamento iniziale integrando l’originario
impegno di spesa.
In altri termini, “fatti
successivi, non prevedibili al momento
dell’originario impegno di spesa quali il protrarsi
della durata del processo, costituiscono una
legittima causa giuridica per la spesa da sostenere
e consentono, quindi, di assumere il relativo
impegno in bilancio. In questa ipotesi, anzi, il
ricorso all’istituto del riconoscimento del debito
fuori bilancio contrasterebbe con i principi di
contabilità pubblica”.
Ne consegue che “qualora
l’importo legittimamente impegnato si riveli
insufficiente, la differenza non realizza
automaticamente una fattispecie di debito fuori
bilancio, da legittimare ai sensi dell’art. 194, co.
1, lett. e TUEL”.
Con l’attuazione
dell’armonizzazione dei sistemi contabili
e, in particolare, l’applicazione
del principio della competenza finanziaria
potenziata, i richiamati principi elaborati dalla
giurisprudenza contabile trovano ulteriore conferma.
Infatti, “gli impegni
derivanti dal conferimento di incarico a legali
esterni, la cui esigibilità non è determinabile,
sono imputati all'esercizio in cui il contratto è
firmato, in deroga al principio della competenza
potenziata, al fine di garantire la copertura della
spesa. In sede di predisposizione del rendiconto, in
occasione della verifica dei residui prevista
dall'articolo 3, comma 4 del presente decreto, se
l'obbligazione non è esigibile, si provvede alla
cancellazione dell'impegno ed alla sua immediata
re-imputazione all'esercizio in cui si prevede che
sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni
presenti nel contratto di incarico al legale.
Al fine di evitare la formazione di debiti fuori
bilancio, l'ente chiede ogni anno al legale di
confermare o meno il preventivo di spesa sulla base
della quale è stato assunto l'impegno e, di
conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali
ulteriori impegni. Nell'esercizio in cui l'impegno è
cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo
pluriennale vincolato al fine di consentire la
copertura dell'impegno nell'esercizio in cui
l'obbligazione è imputata.
Al riguardo si ricorda che l'articolo 3, comma 4,
del presente decreto prevede che le variazioni agli
stanziamenti del fondo pluriennale vincolato e
dell'esercizio in corso e dell'esercizio precedente
necessarie alla reimputazione delle entrate e delle
spese reimputate sono effettuate con provvedimento
amministrativo della giunta entro i termini previsti
per l'approvazione del rendiconto”.
---------------
Il Sindaco del
Comune di Erbusco chiede alla Sezione un “parere:
- circa la necessità, prima di procedere al
pagamento: di sottoporre, o meno, la parcella del
legale al parere di congruità della spesa della
competente Avvocatura distrettuale dello Stato o, in
alternativa, del Consiglio dell'Ordine degli
Avvocati;
- di avviare, o meno, la procedura di
riconoscimento del debito fuori bilancio per quella
parte della parcella eccedente il preventivo impegno
di spesa”.
...
Venendo al merito della richiesta, il Sindaco del
Comune di Erbusco chiede alla Sezione un “parere
circa la necessità, prima di procedere al pagamento:
di sottoporre, o meno, la parcella del legale al
parere di congruità della spesa della competente
Avvocatura distrettuale dello Stato o, in
alternativa, del Consiglio dell'Ordine degli
Avvocati; di avviare ,o meno, la procedura di
riconoscimento del debito fuori bilancio per quella
parte della parcella eccedente il preventivo impegno
di spesa”.
Primo quesito: è necessario
sottoporre “la parcella del legale al parere di
congruità della spesa della competente Avvocatura
distrettuale dello Stato o, in alternativa, del
Consiglio dell'Ordine degli Avvocati”?
Alla stregua del tenore letterale della richiesta di
parere occorre, preliminarmente, chiarire che la
Sezione, nell’ambito dell’attività consultiva, non
può interferire sulla valutazione
dell’amministrazione circa la congruità della
parcella presentata dal difensore in relazione
all’attività svolta per conto e nell’interesse del
Comune, trattandosi di valutazione che deve svolgere
in concreto l’ente locale nell’esercizio della piena
ed esclusiva discrezionalità che per legge gli
spetta.
Tenendo a mente questa premessa, in merito al primo
quesito, la Sezione richiama i principi generali ai
quali potrà orientarsi l’ente locale nel compiere la
valutazione di congruità della parcella presentata
dal difensore.
Nella richiesta l’ente cita il
precedente parere deliberato dalla Sezione regionale
di controllo per il Piemonte
(delibera n. 35/2011) che,
tuttavia, si occupa della particolare fattispecie di
spese di patrocinio legale relative a giudizi per
l’accertamento delle responsabilità civili, penali
ed amministrative promossi nei confronti di
dipendenti ed amministratori dell’ente locale
(ipotesi tra l’altro di cui si è occupata, non solo
la richiamata delibera della Sezione regionale per
il Piemonte, ma anche la Sezione regionale di
controllo per il Molise, con la delibera n. 6/2007,
e la Sezione regionale di controllo per la
Basilicata, con la delibera n. 4/2007).
Questa Sezione ritiene che, quando
la difesa legale non riguarda questa particolare
fattispecie di giudizio per l’accertamento della
eventuale responsabilità dei propri dipendenti
-se così fosse si rinvia integralmente a quanto
affermato nella delibera n. 35/2011 della Sezione
regionale di controllo per il Piemonte di cui l’ente
locale istante ha già contezza-,
l’ente locale prima di procedere al pagamento
della parcella presentata dal proprio difensore ha
il dovere di esaminare la documentazione relativa
all’attività svolta dal difensore per valutarne la
congruità.
Detta valutazione di congruità
(a prescindere che venga svolta dall’Avvocatura
dello Stato come nella particolare fattispecie
prevista dall’art. 18, comma 1, del D.L. 25/03/1997,
n. 67, convertito, con modificazioni, nella Legge
23/05/1997, n. 135) risponde
all’esigenza di garantire una “attenta e prudente
gestione della spesa pubblica”, pertanto deve
tenere conto, “da un lato dell’incertezza
dell’esatta individuazione delle voci che potrebbero
concorrere alla determinazione degli onorari, dei
diritti e delle indennità dovute agli avvocati per
l’esercizio della loro attività professionale e dei
relativi parametri legali, dall’altro della
necessità di scongiurare il rischio di annoverare
nella parcella spese oggettivamente superflue o non
proporzionali all’opera prestata”
(C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011).
Inoltre, anche quando non è
richiesto dalla legge il parere dell’Avvocatura
dello Stato, la valutazione di congruità deve “riguardare,
non solo la conformità della parcella alla tariffa
forense, ma anche il rapporto fra l'importanza e
delicatezza della causa e le somme spese per la
difesa”
(C. Conti, sez. reg. Piemonte del. n. 35/2011 che
richiama Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sent.
23.01.2007, n. 1418).
L’ente locale istante nella
richiesta di parere, nell’esporre le difficoltà che
incontra l’Amministrazione nel valutare la congruità
della parcella, aggiunge quando l’Amministrazione
medesima è “parte soccombente, nel dispositivo
della sentenza si legge sempre l'ammontare della
parcella dovuta al legale della controparte, mentre
nulla è stabilito dal giudice per quella dovuta al
legale che ha assistito l'Amministrazione”.
In proposito, questa Sezione osserva che,
nell’ipotesi rappresentata dall’ente, anche
se la sentenza che definisce il contenzioso
quantifica le spese legali sostenute da controparte
(e non dall’Amministrazione soccombente) detta
liquidazione può rappresentare un parametro di
congruità in relazione al valore della causa, al
numero di udienze alle quali hanno partecipato i
difensori delle parti in giudizio, nonché al numero
di atti processuali redatti e depositati in corso di
causa.
* * *
Secondo quesito: è
necessario avviare “la procedura di
riconoscimento del debito fuori bilancio per quella
parte della parcella eccedente il preventivo impegno
di spesa”?
Con riferimento al procedimento che l’ente locale
istante deve seguire per contabilizzare in bilancio
la spesa che l’Amministrazione comunale è chiamata a
sostenere a titolo di corrispettivo per la
prestazione professionale svolta dall’avvocato nel
suo interesse, si richiamano i principi generali più
volte affermati da questa Sezione con riferimento
alla disciplina antecedente all’attuazione
dell’armonizzazione dei sistemi contabili (ex del
d.lgs. n. 118/2011 e succ. mod.).
Questa Sezione, sia in sede di esercizio delle
funzioni di controllo sulla sana gestione
finanziaria degli enti locali (Lombardia/322/2012/PRSE
dell’11.07.2012) sia in sede consultiva
(Lombardia/441/2012/PAR del 23.10.2012), ha già
avuto modo di affermare che “il
riconoscimento degli oneri spettanti ad un legale
per l’attività svolta a favore dell’ente rientra nel
novero delle acquisizioni di servizi per i quali in
astratto può essere attivata legittimamente la
procedura prevista dalla lettera e) dell’art. 194
D.lgs. 267/2000”.
Tuttavia, vengono in rilievo anche i principi
contabili in tema di contratti di prestazione
d'opera intellettuale laddove affermano che “l'ente
deve determinare compiutamente, anche in fasi
successive temporalmente, l'ammontare del compenso
(esempio gli incarichi per assistenza legale) al
fine di evitare la maturazione di oneri a carico del
bilancio non coperti dall'impegno di spesa
inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità
dell'ente potrà disciplinare l'assunzione di
ulteriore impegno, per spese eccedenti l'impegno
originario, dovute a cause sopravvenute ed
imprevedibili”
(Testo approvato dall'Osservatorio il 18.11.2008,
princ. Cont. n. 2 cpv. 108).
La Magistratura contabile ha affrontato il caso in
cui l’impegno di spesa per un incarico legale non
fosse risultato adeguato rispetto alla parcella
presentata dal professionista e si è chiesta se in
questi casi l’ente locale debba ricorrere alla
procedura del debito fuori bilancio per liquidare la
differenza rispetto al preventivo.
La fattispecie è stata risolta richiamando il
principio secondo cui “pur in
presenza di difficoltà nella individuazione della
somma esatta relativa alla parcelle del
professionista, l’Ente è tenuto al rispetto dei
canoni di buona amministrazione (fra gli altri a
quello del prudente apprezzamento), delle regole
giuscontabili in materia di spesa e dei principi che
caratterizzano la corretta gestione dei pubblici
bilanci”.
Così, con riferimento alla
determinazione dell’impegno di spesa per attività
professionale legale, va acquisito “dall’avvocato,
al quale è stata affidata la rappresentanza in
giudizio del Comune, un preventivo di massima
relativo agli onorari, alle competenze ed alle spese
che presuntivamente deriveranno dall’espletamento
dell’incarico stesso ai fini di predisporre un
adeguata copertura finanziaria”
(cfr. C. Conti, sez. contr. Campania, par. n. 8 del
04.02.2009; la delibera della Sezione Campana
richiama il principio già espresso dalle Sezioni
Riunite, in sede di Controllo, per la Regione
Sicilia n. 2 del 27.01.2007).
D’altra parte, se si verificano
casi in cui è difficile quantificare l’impegno
finanziario al momento dell’ordinazione della
prestazione ai sensi dell’art. 191 TUEL, in ragione
dell’imprevedibile andamento della causa, “la
difficoltà di determinazione dell’esatto ammontare
di una spesa non esime l’ente dall’obbligo di
effettuarne una stima quanto più possibile veritiera
e prudenziale, al fine di una corretta imputazione a
bilancio del costo complessivo presunto della
prestazione. L’importo così determinato dovrà essere
impegnato in bilancio nella sua interezza anche se
verrà corrisposto, quanto meno in parte, in epoca
successiva all’esercizio di competenza”
(sul punto Corte dei conti, Sez. contr. reg.
Sardegna, parere n. 2/2007).
Dunque, nell’ordinamento contabile
degli enti locali (art. 162 TUEL) vigente prima
dell’entrata a regime dell’armonizzazione dei
sistemi contabili, è corretta l’assunzione
dell’impegno di spesa quando il sottostante
contratto (nella specie, mandato d’opera) viene
stipulato con il professionista incaricato della
tutela legale secondo una prudente e oculata
previsione della durata e dell’importo complessivo
dell’incarico, al fine di predisporre un’adeguata
copertura finanziaria.
In questo caso, l’impegno di spesa per prestazioni
professionali a tutela dell’ente può dirsi assunto
correttamente quando in presenza di un eventuale
maggior onere (emergente dall’imprevedibile lunga
durata della causa), l’ente al fine di garantire la
copertura finanziaria procede ad adeguare lo
stanziamento iniziale integrando l’originario
impegno di spesa
(in senso conforme, Sez. Contr. reg. Campania,
parere n. 9/2007, che richiama il principio
contabile n. 2 punto 52 dei “principi contabili
per gli enti locali”, emanati dall’Osservatorio
per la finanza e la contabilità degli enti locali
del Ministero Interno, gennaio 2004).
In altri termini, “fatti
successivi, non prevedibili al momento
dell’originario impegno di spesa quali il protrarsi
della durata del processo, costituiscono una
legittima causa giuridica per la spesa da sostenere
e consentono, quindi, di assumere il relativo
impegno in bilancio. In questa ipotesi, anzi, il
ricorso all’istituto del riconoscimento del debito
fuori bilancio contrasterebbe con i principi di
contabilità pubblica”
(LOMBARDIA/19/2009/PAR del 05.02.2009).
Ne consegue che “qualora l’importo
legittimamente impegnato si riveli insufficiente, la
differenza non realizza automaticamente una
fattispecie di debito fuori bilancio, da legittimare
ai sensi dell’art. 194, co. 1, lett. e TUEL”
(LOMBARDIA/19/2009/PAR del 05.02.2009).
Con l’attuazione
dell’armonizzazione dei sistemi contabili
(ex del d.lgs. n. 118/2011 e succ. mod.)
e, in particolare, l’applicazione del
principio della competenza finanziaria potenziata, i
richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza
contabile trovano ulteriore conferma.
Infatti, nell’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/11
relativo al principio generale di competenza
finanziaria, si afferma che “gli
impegni derivanti dal conferimento di incarico a
legali esterni, la cui esigibilità non è
determinabile, sono imputati all'esercizio in cui il
contratto è firmato, in deroga al principio della
competenza potenziata, al fine di garantire la
copertura della spesa. In sede di predisposizione
del rendiconto, in occasione della verifica dei
residui prevista dall'articolo 3, comma 4 del
presente decreto, se l'obbligazione non è esigibile,
si provvede alla cancellazione dell'impegno ed alla
sua immediata re-imputazione all'esercizio in cui si
prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle
indicazioni presenti nel contratto di incarico al
legale.
Al fine di evitare la formazione di debiti fuori
bilancio, l'ente chiede ogni anno al legale di
confermare o meno il preventivo di spesa sulla base
della quale è stato assunto l'impegno e, di
conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali
ulteriori impegni. Nell'esercizio in cui l'impegno è
cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo
pluriennale vincolato al fine di consentire la
copertura dell'impegno nell'esercizio in cui
l'obbligazione è imputata.
Al riguardo si ricorda che l'articolo 3, comma 4,
del presente decreto prevede che le variazioni agli
stanziamenti del fondo pluriennale vincolato e
dell'esercizio in corso e dell'esercizio precedente
necessarie alla reimputazione delle entrate e delle
spese reimputate sono effettuate con provvedimento
amministrativo della giunta entro i termini previsti
per l'approvazione del rendiconto”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 20.05.2015 n. 200). |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla legittimità di indire un concorso pubblico per
l'assunzione del dirigente del "settore Lavori
Pubblici" riservato ai soli ingegneri e non anche
agli architetti.
Il Collegio dà atto che secondo consolidato
orientamento di giurisprudenza gli artt. 51 e 52 del
R.D. 2537/1925, che sono ancora in vigore e che
pertanto ancora oggi costituiscono il punto di
riferimento normativo per stabilire il discrimine
tra le competenze degli architetti e quelle degli
ingegneri, debbono essere interpretati nel senso che
appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri
non solo la progettazione delle opere necessarie
alla estrazione e lavorazione di materiali destinati
alle costruzioni e la progettazione delle
costruzioni industriali, ma anche la progettazione
delle opere igienico-sanitarie e delle opere di
urbanizzazione primaria, per tali dovendosi
intendere le opere afferenti la viabilità, gli
acquedotti, e depuratori, le condotte fognarie e gli
impianti di illuminazione, salvo solo il caso che
tali opere non siano di pertinenza di singoli
edifici civili.
Tra le opere igienico-sanitarie la cui progettazione
appartiene alla esclusiva competenza degli
ingegneri, vanno incluse, tra le altre, anche gli
impianti cimiteriali.
---------------
L’elenco delle opere la cui progettazione è di
esclusiva competenza degli ingegneri include, come
si vede, larga parte delle opere pubbliche di
necessaria competenza dei comuni, all’interno dei
quali il Settore di riferimento è certamente quello
che ha in carico, appunto, i lavori pubblici.
E’ evidente che le opere pubbliche di che trattasi
non esauriscono il panorama delle opere pubbliche
che un comune può decidere di realizzare (scuole,
centri sportivi; biblioteche e centri culturali;
etc. etc.); tuttavia è importante rimarcare che non
tutte le opere classificabili come “pubbliche”, come
tali rientranti nella competenza istituzionale del
settore “Lavori pubblici” di un comune, sono di
competenza concorrente degli ingegneri ed
architetti, essendo che le opere di urbanizzazione
primaria e quelle afferenti la sfera
igienico-sanitaria appartengono alla sfera esclusiva
di competenza degli ingegneri.
Valga inoltre la considerazione che la sfera di
competenza esclusiva degli architetti finisce invece
per interessare solo gli edifici civili con
rilevante carattere artistico nonché quelli di cui
alla L. 364/1909, -fermo restando che anche in tal
caso sussiste una competenza concorrente tra
architetti ed ingegneri per quanto riguarda la
“parte tecnica” (art. 52 comma 2, R.D. 2537/1925)-,
e risulta pertanto di marginale importanza se
riferita al settore “Lavori Pubblici” di un comune:
infatti, mentre ogni comune deve confrontarsi, prima
o poi, con la necessità di dotarsi di opere di
urbanizzazione primaria e di opere
igienico-sanitarie, costituisce invece una mera
evenienza il fatto che un comune risulti
proprietario di beni di particolare interesse
artistico in relazione ai quali intenda effettuare
interventi edilizi.
---------------
Il Collegio ritiene che la laurea in ingegneria e
l’abilitazione alla professione di ingegnere
costituiscono titoli aventi un collegamento diretto
con l’attività del settore “Lavori Pubblici” di un
qualsiasi comune e che, pertanto, il bando di
concorso indetto per la selezione del dirigente di
un tale settore non deve contenere una specifica
motivazione a giustificazione della scelta di
indicare la laurea in ingegneria e l’abilitazione
alla professione di ingegnere quali requisiti di
ammissione alla selezione.
Si deve ricordare che nella materia dei concorsi
pubblici, ferma la definizione del titolo (laurea o
altro titolo di studio), che è affidata alla legge,
"deve essere riconosciuto all’Amministrazione un
potere discrezionale nella determinazione della
tipologia del titolo di studio richiesto, che deve
essere correlato alla professionalità ed alla
preparazione culturale richieste per lo svolgimento
delle mansioni proprie dei posti che si intendono
ricoprire”.
E’ ben vero che, in considerazione della attività
propria del settore “Lavori Pubblici” di un comune,
anche la laurea in architettura ed il titolo di
architetto possono considerarsi pertinenti alle
mansioni proprie del dirigente di tale settore.
Tuttavia, in forza del principio dianzi richiamato
non si può affermare che l’Amministrazione comunale
abbia l’obbligo di indicare, tra i requisiti di
partecipazione al concorso indetto per selezionare
il dirigente di un tale settore, entrambi i titoli
di studio e di abilitazione, né, correlativamente,
che abbia l’obbligo di motivare in maniera specifica
la scelta di circoscrivere ad una o all’altra
categoria dei citati professionisti la possibilità
di partecipare al concorso, scelta che essa
Amministrazione effettuerà tenendo conto delle
peculiarità della attività del proprio settore
“lavori Pubblici” nonché delle proprie priorità.
Così, mentre una Amministrazione proprietaria di un
ingente patrimonio immobiliare di rilevanza
artistica potrà ritenere opportuno selezionare un
architetto da preporre al proprio settore “Lavori
Pubblici”, un’altra Amministrazione, che abbia tra
le proprie priorità quella di procedere alla
realizzazione di determinate opere che appartengano
alla sfera di competenza esclusiva degli ingegneri,
potrà invece legittimamente ritenere appropriato di
affidare la dirigenza del settore competente ad un
ingegnere, circoscrivendo ai soli ingegneri la
partecipazione alla relativa selezione.
Ciascuna di tali scelte non abbisogna di particolare
e specifica motivazione non solo perché, come già
precisato, le Amministrazioni dispongono di un
potere discrezionale nella scelta del titolo di
studio richiesto per accedere ad una determinata
selezione, il quale potere è soggetto a limiti solo
nella misura in cui si richiede che il titolo di
studio richiesto sia coerente con le mansioni
proprie del posto da ricoprire: ciò che nella specie
si è verificato.
-----------------
In ordine al fatto che il bando impugnato sia
illegittimo perché prevede limiti di partecipazione
che non si giustificano anche alla luce di quanto
stabilisce l’art. 110 T.U.E.L. in ordine alla
selezione del personale della dirigenza, il Collegio
non ritiene che la previsione di un certo numero di
anni di pregressa esperienza nel settore “Lavori
Pubblici – Area Tecnica” ed in qualità di dipendente
di enti pubblici, sia incoerente con le previsioni
dell’art. 110 T.U.E.L., secondo il quale il
personale dirigenziale deve essere in possesso di
“comprovata esperienza pluriennale e specifica
professionalità nelle materie oggetto
dell’incarico”.
La norma, come si vede, stabilisce che la pregressa
esperienza del dirigente non deve limitarsi ad un
anno, ma neppure specifica un limite massimo di anni
di esperienza che si può pretendere dall’aspirante
dirigente: il periodo di esperienza pregressa può
quindi ragionevolmente variare a seconda della
complessità delle mansioni che il dirigente è
chiamato a svolgere e bisogna dire che nella prassi
esso è frequentemente indicato, come nel caso di
specie, in un periodo variabile tra i tre ed i
cinque anni.
L’art. 110 T.U.E.L. richiede poi che la pregressa
esperienza sia specifica in relazione alle materie
oggetto dell’incarico, e si deve ritenere che questa
specificità possa comprendere, quantomeno quando il
posto da ricoprire sia quello di dirigente del
settore Lavori Pubblici di un comune, anche il
contesto lavorativo in cui tale esperienza è
maturata: ciò per la ragione che, come sopra
precisato, il settore Lavori Pubblici di un Comune
si occupa normalmente della realizzazione di opere
(quelle di urbanizzazione primaria e le opere di
natura igienico-sanitarie) di cui un libero
professionista raramente si occupa in via
continuativa, a meno che non sia specializzato nel
settore e non sia organizzato in modo da poter
partecipare a numerose gare per l’affidamento della
progettazione di simili opere.
Il Settore Lavori Pubblici si occupa poi spesso,
come emerso nel corso del giudizio, della gestione
delle gare di affidamento di lavori, ed è evidente
che anche in tale materia una esperienza
significativa viene maturata solo alle dipendenze di
una amministrazione pubblica che debba gestire gare
d’appalto. Anche la richiesta che l’esperienza
pregressa sia stata maturata nel settore “Area
Tecnica-Lavori Pubblici” è evidentemente coerente
con il posto messo a concorso.
I criteri di selezione introdotti dal bando di che
trattasi sono, in definitiva, coerenti con quanto
stabilito dall’art. 110 T.U.E.L.; conseguentemente
da essi non è possibile trarre alcun argomento a
sostegno dell’assunto secondo cui il Comune di Novi
Ligure avrebbe inteso, consapevolmente, restringere
la platea dei partecipanti alla selezione onde
favorire l’ing. R..
... per l'annullamento:
1. dell'avviso pubblico indetto da Comune di Novi
Ligure e relativo alla selezione per l'assunzione di
n. 1 dirigente tecnico a tempo determinato e pieno,
per anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela
Ambientale, approvato con determinazione n. 198/723
del 14.07.2014;
2. della determina del Comune di Novi Ligure n.
248/875 del 15.9.2014 Settore: Sett. 8 - Personale e
Organizzazione - Affari generali, Ufficio:
Personale, con cui sono stati ammessi i candidati
della selezione per l'assunzione di n. 1 dirigente
tecnico a tempo determinato e pieno, per anni tre,
area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale ed è stato
escluso l'arch. C.P. per mancanza del titolo di
studio richiesto nell'avviso di selezione;
3. della graduatoria del Comune di Novi Ligure
approvata con determinazione n. 266/928 del
01/10/2014 Sett. 8 - Personale e organizzazione -
Affari Generali - Ufficio Personale, con cui sono
stati individuati i soggetti ammessi per
l'assunzione di n. 1 dirigente tecnico a tempo
determinato e pieno, per anni tre, area Lavori
Pubblici e Tutela Ambientale;
4. del decreto del Comune di Novi Ligure n. 11 del
03.10.2014 con cui è stato conferito l'incarico di
dirigente tecnico a tempo determinato e pieno, per
anni tre, area Lavori Pubblici e Tutela Ambientale,
all'ing. P.I.R. a seguito della procedura di
selezione;
...
11. Procedendo nella disamina del merito del ricorso
il Collegio dà atto che secondo consolidato
orientamento di giurisprudenza gli artt. 51 e 52 del
R.D. 2537/1925 (C.d.S. sez. IV, n. 2938/2000; TAR
Palermo, sez. I, n. 2274/2002; TAR Catanzaro sez. II,
n. 354/2008; TAR Veneto sez. I, n. 1153/2011; C.d.S.
sez. VI, n. 1150/2013; TAR Lecce, sez. II, n.
1270/2013; TAR Lazio-Latina, sez. I, n. 608/2013),
che sono ancora in vigore e che pertanto ancora oggi
costituiscono il punto di riferimento normativo per
stabilire il discrimine tra le competenze degli
architetti e quelle degli ingegneri, debbono essere
interpretati nel senso che appartiene alla esclusiva
competenza degli ingegneri non solo la progettazione
delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione
di materiali destinati alle costruzioni e la
progettazione delle costruzioni industriali, ma
anche la progettazione delle opere
igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione
primaria, per tali dovendosi intendere le opere
afferenti la viabilità, gli acquedotti, e
depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di
illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non
siano di pertinenza di singoli edifici civili. Tra
le opere igienico-sanitarie la cui progettazione
appartiene alla esclusiva competenza degli
ingegneri, vanno incluse, tra le altre, anche gli
impianti cimiteriali (C.d.S. n. 2938/2000 cit.).
12. L’elenco delle opere la cui progettazione è di
esclusiva competenza degli ingegneri include, come
si vede, larga parte delle opere pubbliche di
necessaria competenza dei comuni, all’interno dei
quali il Settore di riferimento è certamente quello
che ha in carico, appunto, i lavori pubblici.
E’ evidente che le opere pubbliche di che trattasi
non esauriscono il panorama delle opere pubbliche
che un comune può decidere di realizzare (scuole,
centri sportivi; biblioteche e centri culturali;
etc. etc.); tuttavia è importante rimarcare che non
tutte le opere classificabili come “pubbliche”,
come tali rientranti nella competenza istituzionale
del settore “Lavori pubblici” di un comune,
sono di competenza concorrente degli ingegneri ed
architetti, essendo che le opere di urbanizzazione
primaria e quelle afferenti la sfera
igienico-sanitaria appartengono alla sfera esclusiva
di competenza degli ingegneri.
Valga inoltre la considerazione che la sfera di
competenza esclusiva degli architetti finisce invece
per interessare solo gli edifici civili con
rilevante carattere artistico nonché quelli di cui
alla L. 364/1909, -fermo restando che anche in tal
caso sussiste una competenza concorrente tra
architetti ed ingegneri per quanto riguarda la “parte
tecnica” (art. 52, comma 2, R.D. 2537/1925)-, e
risulta pertanto di marginale importanza se riferita
al settore “Lavori Pubblici” di un comune:
infatti, mentre ogni comune deve confrontarsi, prima
o poi, con la necessità di dotarsi di opere di
urbanizzazione primaria e di opere
igienico-sanitarie, costituisce invece una mera
evenienza il fatto che un comune risulti
proprietario di beni di particolare interesse
artistico in relazione ai quali intenda effettuare
interventi edilizi.
13. In base alle considerazioni che precedono il
Collegio ritiene che la laurea in ingegneria e
l’abilitazione alla professione di ingegnere
costituiscono titoli aventi un collegamento diretto
con l’attività del settore “Lavori Pubblici”
di un qualsiasi comune e che, pertanto, il bando di
concorso indetto per la selezione del dirigente di
un tale settore non deve contenere una specifica
motivazione a giustificazione della scelta di
indicare la laurea in ingegneria e l’abilitazione
alla professione di ingegnere quali requisiti di
ammissione alla selezione.
13.1 Si deve ricordare che nella materia dei
concorsi pubblici, ferma la definizione del titolo
(laurea o altro titolo di studio), che è affidata
alla legge, "deve essere riconosciuto
all’Amministrazione un potere discrezionale nella
determinazione della tipologia del titolo di studio
richiesto, che deve essere correlato alla
professionalità ed alla preparazione culturale
richieste per lo svolgimento delle mansioni proprie
dei posti che si intendono ricoprire” (TAR
Puglia-Bari, sez. II, n. 1359/2013; C.d.S. sez. V,
n. 5351/2012; C.d.S. sez. VI, n. 2994/2009; TAR
Lazio sez. III, n. 253/2008).
13.2. E’ ben vero che, in considerazione della
attività propria del settore “Lavori Pubblici”
di un comune, anche la laurea in architettura ed il
titolo di architetto possono considerarsi pertinenti
alle mansioni proprie del dirigente di tale settore.
Tuttavia, in forza del principio dianzi richiamato
non si può affermare che l’Amministrazione comunale
abbia l’obbligo di indicare, tra i requisiti di
partecipazione al concorso indetto per selezionare
il dirigente di un tale settore, entrambi i titoli
di studio e di abilitazione, né, correlativamente,
che abbia l’obbligo di motivare in maniera specifica
la scelta di circoscrivere ad una o all’altra
categoria dei citati professionisti la possibilità
di partecipare al concorso, scelta che essa
Amministrazione effettuerà tenendo conto delle
peculiarità della attività del proprio settore “lavori
Pubblici” nonché delle proprie priorità.
Così, mentre una Amministrazione proprietaria di un
ingente patrimonio immobiliare di rilevanza
artistica potrà ritenere opportuno selezionare un
architetto da preporre al proprio settore “Lavori
Pubblici”, un’altra Amministrazione, che abbia
tra le proprie priorità quella di procedere alla
realizzazione di determinate opere che appartengano
alla sfera di competenza esclusiva degli ingegneri,
potrà invece legittimamente ritenere appropriato di
affidare la dirigenza del settore competente ad un
ingegnere, circoscrivendo ai soli ingegneri la
partecipazione alla relativa selezione.
Ciascuna di tali scelte non abbisogna di particolare
e specifica motivazione non solo perché, come già
precisato, le Amministrazioni dispongono di un
potere discrezionale nella scelta del titolo di
studio richiesto per accedere ad una determinata
selezione, il quale potere è soggetto a limiti solo
nella misura in cui si richiede che il titolo di
studio richiesto sia coerente con le mansioni
proprie del posto da ricoprire: ciò che nella specie
si è verificato.
13.3. Il primo motivo di ricorso deve quindi essere
respinto, non potendosi affermare che la sfera di
competenze tra architetti ed ingegneri sia
completamente sovrapponibile né potendosi ravvisare
difetto di motivazione nel bando di concorso
impugnato, nella parte in cui non ha giustificato la
scelta di escludere la laurea in architettura tra i
requisiti che legittimavano a partecipare alla
selezione per cui è causa.
Alla luce di tali constatazioni diventa poi
irrilevante il fatto che la delibera di Giunta n.
143 del 26/03/2014, che peraltro non è stata
impugnata dai ricorrenti, non abbia dato indicazione
specifiche in ordine al titolo di studio da
richiedere per la copertura del posto di dirigente
del settore Lavori Pubblici; né assume rilevanza il
fatto che gli atti del procedimento non evidenzino
le ragioni -esplicitate invece negli atti di questo
giudizio- che in concreto avrebbero indotto
l’Amministrazione a selezionare un ingegnere.
14. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti
lamentano che il bando impugnato sia comunque
illegittimo perché prevede limiti di partecipazione
che non si giustificano anche alla luce di quanto
stabilisce l’art. 110 T.U.E.L. in ordine alla
selezione del personale della dirigenza.
14.1. Il Collegio premette, preliminarmente, che i
ricorrenti hanno interesse alla decisione su tale
motivo di ricorso, atteso che esso è sostanzialmente
finalizzato ad evidenziare aspetti di sviamento di
potere che nella specie avrebbero ispirato l’azione
amministrativa e che sarebbero stati finalizzati a
garantire l’assunzione dell’ing. R., che già
lavorava per il Comune di Novi Ligure: l’interesse a
verificare la sussistenza di possibili profili di
sviamento di potere sussiste, in particolare,
proprio in ragione della ampia discrezionalità che
si deve riconoscere alle Pubbliche Amministrazioni
nello stabilire i requisiti di partecipazione alle
procedure concorsuali e nella correlativa
insussistenza di uno specifico obbligo di motivare
la scelta di tali requisiti.
14.2. Ebbene, il Collegio non ritiene che la
previsione di un certo numero di anni di pregressa
esperienza nel settore “Lavori Pubblici – Area
Tecnica” ed in qualità di dipendente di enti
pubblici, sia incoerente con le previsioni dell’art.
110 T.U.E.L., secondo il quale il personale
dirigenziale deve essere in possesso di “comprovata
esperienza pluriennale e specifica professionalità
nelle materie oggetto dell’incarico”.
14.2.1. La norma, come si vede, stabilisce che la
pregressa esperienza del dirigente non deve
limitarsi ad un anno, ma neppure specifica un limite
massimo di anni di esperienza che si può pretendere
dall’aspirante dirigente: il periodo di esperienza
pregressa può quindi ragionevolmente variare a
seconda della complessità delle mansioni che il
dirigente è chiamato a svolgere e bisogna dire che
nella prassi esso è frequentemente indicato, come
nel caso di specie, in un periodo variabile tra i
tre ed i cinque anni.
14.2.3. L’art. 110 T.U.E.L. richiede poi che la
pregressa esperienza sia specifica in relazione alle
materie oggetto dell’incarico, e si deve ritenere
che questa specificità possa comprendere, quantomeno
quando il posto da ricoprire sia quello di dirigente
del settore Lavori Pubblici di un comune, anche il
contesto lavorativo in cui tale esperienza è
maturata: ciò per la ragione che, come sopra
precisato, il settore Lavori Pubblici di un Comune
si occupa normalmente della realizzazione di opere
(quelle di urbanizzazione primaria e le opere di
natura igienico-sanitarie) di cui un libero
professionista raramente si occupa in via
continuativa, a meno che non sia specializzato nel
settore e non sia organizzato in modo da poter
partecipare a numerose gare per l’affidamento della
progettazione di simili opere.
Il Settore Lavori Pubblici si occupa poi spesso,
come emerso nel corso del giudizio, della gestione
delle gare di affidamento di lavori, ed è evidente
che anche in tale materia una esperienza
significativa viene maturata solo alle dipendenze di
una amministrazione pubblica che debba gestire gare
d’appalto. Anche la richiesta che l’esperienza
pregressa sia stata maturata nel settore “Area
Tecnica-Lavori Pubblici” è evidentemente
coerente con il posto messo a concorso.
14.3. I criteri di selezione introdotti dal bando di
che trattasi sono, in definitiva, coerenti con
quanto stabilito dall’art. 110 T.U.E.L.;
conseguentemente da essi non è possibile trarre
alcun argomento a sostegno dell’assunto secondo cui
il Comune di Novi Ligure avrebbe inteso,
consapevolmente, restringere la platea dei
partecipanti alla selezione onde favorire l’ing. R..
15. Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 15.05.2015 n. 846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo
richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità
del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire
specificamente quel privato interessato alla singola vicenda
amministrativa.
4.2. — Quanto al secondo motivo di ricorso, è sufficiente
qui rilevare che i giudici di primo e secondo grado muovono
dalle evidenze processuali, costituite dalla macroscopicità
della violazione e dalla specifica competenza tecnica di
entrambi gli imputati, per farne logicamente conseguire, pur
in mancanza di prova di un accordo fra i due, la piena
sussistenza dell'elemento soggettivo, rappresentato dalla
piena consapevolezza e partecipazione di entrambi gli
imputati alla commissione del reato.
E la natura macroscopica dell'abuso risulta ulteriormente
confermata -secondo la coerente valutazione dei giudici di
merito- dall'analogia tra la fattispecie qui in esame e la
vicenda relativa ad altro centro commerciale (I...) nella
quale era già venuta in rilievo l'illegittimità di
insediamenti commerciali nell'area F3 destinata a verde
pubblico; con la conseguenza che, anche a prescindere
dall'assoluta chiarezza delle disposizioni dello strumento
urbanistico sul punto, vi è ulteriore conferma che gli
imputati avessero piena e puntuale contezza dell'illiceità
dell'attività che andavano svolgendo. Né osta a tale
conclusione il generico richiamo della difesa a non meglio
precisati chiarimenti che l'imputato Biondi avrebbe
richiesto in via preventiva alla Procura della Repubblica.
E del resto, come costantemente affermato da questa Corte,
in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto
l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si
intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(ex plurimis, sez. 6, 15.04.2014, n. 36179, rv.
260233; sez. 3, 07.11.2013, n. 48475, rv. 258290).
Ne deriva la manifesta infondatezza di tale censura (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19182 - tratto da
www.lexambiente.it). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
legittima, e non spetta alcun indennizzo (per), la
detenzione subìta dal dirigente comunale che si presta
alla consapevole consumazione di illeciti da parte del
sindaco.
Anche
il comportamento passivo del connivente può assumere valenza
ostativa, rispetto al diritto alla equa riparazione, qualora
il soggetto non si sia limitato ad assistere passivamente
alla consumazione di un reato da parte di terzi, ma abbia
tollerato che il reato venisse consumato, pur essendo in
grado di impedire la consumazione o la prosecuzione della
attività criminosa.
Come è noto, in tema di riparazione per l'ingiusta
detenzione, il giudice, per valutare se chi l'ha patita vi
abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa
grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti
gli elementi probatori disponibili, con particolare
riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino
eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione
di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento
conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è
incensurabile in sede di legittimità.
Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su
fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal
richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà
personale, al fine di stabilire, con valutazione "ex ante"
-e secondo un iter logico motivazionale del tutto autonomo
rispetto a quello seguito nel processo di merito- non se
tale condotta integri estremi di reato ma solo se sia stata
il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di
errore dell'autorità procedente, la falsa apparenza della
sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla
detenzione con rapporto di "causa ad effetto" (Cass.
Sez. U, Sentenza n. 34559 del 26/06/2002, dep. 15/10/2002,
Rv. 222263).
Sul punto, si è anche recentemente rilevato che il giudizio
per la riparazione dell'ingiusta detenzione è del tutto
autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione,
impegnando piani di indagine diversi, che possono portare a
conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso
materiale probatorio acquisito agli atti ma sottoposto ad un
vaglio caratterizzato dall'utilizzo di parametri di
valutazione differenti (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 39500 del
18/06/2013, dep. 24/09/2013, Rv. 256764).
Preme pure evidenziare che le Sezioni Unite della Suprema
Corte di Cassazione hanno chiarito, nell'esaminare
funditus l'istituto della riparazione per ingiusta
detenzione, che risulta evidente l'avvicinamento fra le
ipotesi di cui all'art. 314 cod. proc. pen., commi 1 e 2,
sotto il profilo della possibile comune derivazione della "ingiustizia"
della misura da elementi emersi successivamente al momento
della sua applicazione; che l'elemento della accertata "ingiustizia"
della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi
del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le
ragioni che integrano l'ingiustizia stessa) ne disvela il
comune fondamento e ne impone una comune disciplina quanto
alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento; e che
tale ricostruzione, conforme alla logica del principio
solidaristico, implica, l'oggettiva inerenza al diritto in
questione, in ogni sua estrinsecazione "del limite della
non interferenza causale della condotta del soggetto passivo
della custodia" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 32383 del
27.05.2010, Rv. 247663).
Le Sezioni unite, nella sentenza ora richiamata, hanno pure
evidenziato che risulta legittima una disciplina normativa
che preveda l'esclusione dal beneficio in esame di chi,
avendo contribuito con la sua condotta a causare la
restrizione, non possa esserne considerato propriamente "vittima".
Tanto premesso, occorre considerare che la giurisprudenza di
legittimità risulta consolidata nel rilevare che
condotte sinergicamente rilevanti, rispetto alla
cautela sofferta, possono essere di tipo extraprocessuale
(grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato
l'adozione del provvedimento restrittivo) o di tipo
processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole
sull'esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal
giudice della cognizione.
A tal fine, nei reati contestati in
concorso, va apprezzata la condotta che si sia sostanziata
nella consapevolezza dell'attività criminale altrui e,
nondimeno, nel porre in essere una attività che si presti
sul piano logico ad essere contigua a quella criminale
(Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4159 del 09/12/2008, dep.
28/01/2009, Rv. 242760).
E deve, in particolare, rilevarsi che la Corte regolatrice
ha ripetutamente affermato che anche il
comportamento passivo del connivente può assumere valenza
ostativa, rispetto al diritto alla equa riparazione, qualora
il soggetto non si sia limitato ad assistere passivamente
alla consumazione di un reato da parte di terzi, ma abbia
tollerato che il reato venisse consumato, pur essendo in
grado di impedire la consumazione o la prosecuzione della
attività criminosa
(cfr. Cass. Sezione 4, Sentenza n. 40297 del 10.06.2008,
dep. 29.10.2008, Rv. 241325)
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 26.05.2015 n. 22063). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Sindaco: l'avocazione non opera per rimediare ad atti
illegittimi.
E' illegittima la decisione del Sindaco
di avocare a sé un singolo procedimento ed affidarlo ad un
dirigente di altro settore con il compito di dargli corso
sul presupposto che le valutazioni operate dal dirigente
competente “si pongono in aperto contrasto con le
conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale” del Comune
stesso.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione il Sindaco non
aveva posto un obiettivo gestionale, ma di fatto adottato
l’atto di gestione: egli non si è, infatti, limitato a
dettare un indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad
adottare il provvedimento, ma ha configurato in modo
puntuale il contenuto che il provvedimento doveva assumere,
avvalendosi di un parere legale da lui stesso richiesto e
facendo ad esso assumere una portata assoluta e vincolante.
Il Sindaco non può dunque esercitare poteri di fatto per
rimediare ad eventuali atti illegittimi compiuti dai
dirigenti preposti agli uffici comunali: nel quadro
normativo vigente, infatti, la competenza negli enti locali
a provvedere in sede di autotutela va riconosciuta
unicamente all'organo che ha emanato l'atto illegittimo
(commento tratto tratto da a e link a http://studiospallino.blogspot.it).
---------------
Sul fatto che il Sindaco avochi a sé il procedimento
amministrativo gestito dal Dirigente del Dipartimento
Urbanistica assegnandolo al Dirigente del Dipartimento
Lavori Pubblici Servizi Tecnologici ed Operativi–Servizi
Finanziari affinché si proceda ad adeguare la concessione
edilizia già rilasciata a quanto statuito nel parere
dell’Ufficio Legislativo e Legale della Regione Siciliana in
ordine al recupero di somme a titolo di contributo di
costruzione non precedentemente quantificate all'atto del
rilascio.
Rileva la società ricorrente che la competenza del
dirigente del Dipartimento LL.PP. a modificare il permesso
di costruire rilasciato dal Dirigente del Dipartimento
Urbanistica non può trovare fondamento nella determina
sindacale n. 37/2012, a sua volta illegittima perché
contraria all’art. 51 l. n. 142/1990 e non poggiante su una
espressa deroga o previsione ad hoc neppure di tipo
regolamentare.
Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato, per un
triplice ordine di ragioni.
È pacifico che il vigente ordinamento delle autonomie locali
demanda -in base al criterio di distinzione fra le
responsabilità di natura politico amministrativa e quelle di
gestione operativa- in via esclusiva ai dirigenti l'adozione
di quegli atti gestionali in precedenza riservati agli
organi di vertice dell'Ente, cui ora spettano solo i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione del 26.09.2012
il Sindaco non ha posto un obiettivo gestionale (come si
legge nelle difese in atti), ma ha di fatto adottato l’atto
di gestione: egli non si è, infatti, limitato a dettare un
indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad adottare il
provvedimento (profilo di cui si dirà a breve), ma ha
configurato in modo puntuale il contenuto che il
provvedimento riguardante la società ricorrente doveva
assumere, avvalendosi di un parere legale da lui stesso
richiesto (e peraltro non stringente nella sua formulazione)
e facendo ad esso assumere una portata assoluta e
vincolante.
Il Sindaco ha inoltre contestualmente avocato a sé ed
affidato ad un dirigente di altro settore ritenuto “dotato
di adeguata professionalità”, diverso da quello competente,
il compito di dar corso al singolo procedimento sul
presupposto che le valutazioni operate dal dirigente
competente “si pongono in aperto contrasto con le
conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale”.
Tale modus operandi è illegittimo.
Premesso che le attribuzioni dei dirigenti, ai sensi
dell’art. 107, comma 4, T.U. n. 267/2000, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative, è di norma il regolamento che
disciplina il funzionamento degli organi e degli uffici.
Inoltre, il Sindaco, salvo appunto quanto previsto dall'art.
107, esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo
statuto e dai regolamenti (art. 50, co. 3), tra cui la
nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi,
l’attribuzione e definizione degli incarichi dirigenziali e
quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai
rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali (co.
10).
L’art. 109 stabilisce per quanto qui interessa che “Gli
incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato,
ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri
di competenza professionale, in relazione agli obiettivi
indicati nel programma amministrativo del sindaco o del
presidente della provincia e sono revocati in caso di
inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente
della provincia, della giunta o dell'assessore di
riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine
di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel
piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per
responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli
altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”.
Dal combinato disposto delle suddette norme discendono gli
ulteriori due aspetti di illegittimità di cui si
diceva.
Per un verso deve escludersi che l’ordinamento
conosca un potere di avocazione di singoli affari in capo al
Sindaco o un suo potere di intervento per rimediare ad
eventuali atti illegittimi compiuti dai dirigenti preposti
agli uffici comunali.
Il principio della separazione tra funzione di gestione,
rientrante nei compiti dei dirigenti preposti all'apparato
burocratico degli enti, e funzione di indirizzo e di
controllo, devoluta agli organi elettivi, esclude, infatti,
la sussistenza di un rapporto di tipo gerarchico tra i primi
ed i secondi ed esclude altresì l’applicabilità, al di fuori
delle amministrazioni dello Stato, della disposizione
dettata dall'art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, che
conserva un potere sostitutivo sul singolo atto e di
annullamento per motivi di legittimità solo all'autorità
ministeriale.
Dall’altro, un siffatto intervento non trova avallo
neppure nel regolamento comunale che tratta solo l’ipotesi
di assenza o impedimento del soggetto titolare, che è
diversa da quella verificatasi nella vicenda in esame,
stabilendo comunque non già la sostituzione del dirigente
assente od impedito con un dirigente di altro settore, ma
piuttosto con un dipendente dello stesso dipartimento ed
esattamente con un “dipendente incaricato dell’area delle
posizioni organizzative operante nel dipartimento ed in
mancanza con un dipendente di categoria D (o C nel caso di
assenza di dipendenti di categoria D) nell’ambito del
medesimo dipartimento, individuato formalmente dal Sindaco,
ove non provveda il Dirigente” (art. 25, co. 6, reg.)
Ne discende che in tale quadro normativo e regolamentare (vd.
anche co. 8 dell’art. 25) negli enti locali la competenza a
provvedere in sede di autotutela va riconosciuta solo allo
stesso organo che ha emanato l'atto illegittimo.
... per l'annullamento:
►
quanto al ricorso introduttivo:
- della determina dirigenziale n. 71 del 04.02.2013,
notificata il successivo giorno 11, con la quale il
dirigente del dipartimento IV lavori pubblici del Comune di
Licata ha disposto la rettifica, prevedendo il pagamento
degli oneri di concessione, del permesso a costruire n. 76
del 20.10.2006 (det. dir. 1233 del 20.10.2006) rilasciato
dal dirigente del settore urbanistica-edilizia privata per
la realizzazione del porto turistico di Licata ed opere
connesse;
- di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale e, in
particolare:
- della direttiva sindacale n. 37 del 26.09.2012;
- della deliberazione di G.M. n. 43 del 12.04.2012, nonché,
ove occorra,
per l'accertamento negativo, previa adozione di ogni più
opportuna misura cautelare del diritto del Comune di Licata
ad ottenere il pagamento delle somme richieste con atto di
diffida e messa in mora del 14.02.2013;
►
quanto al ricorso per motivi aggiunti:
- della determina dirigenziale n. 222 ll.pp. del 12.04.2013,
con la quale il Dipartimento lavori pubblici del Comune di
Licata ha emesso nei confronti della ricorrente
un’ingiunzione di pagamento ai sensi del r.d. 639 dei
14.04.1910 per la somma di £ 4.928.865,93, oltre £
704.625,27 per interessi legali dal 20.10.2006 (data di
rilascio della concessione edilizia) all'11.02.2013.
...
1. Viene all’esame del Tribunale la questione della
legittimità di un intervento tutorio parziale, fatto a
distanza di diversi anni e ad opera già quasi integralmente
eseguita, avente ad oggetto un permesso di costruire per la
realizzazione di un porto turistico da parte di un soggetto
privato concessionario della relativa area demaniale,
rilasciato dal Comune di Licata gratuitamente sul
presupposto, poi ritenuto erroneo, dell’applicabilità
dell’art. 17 DPR n. 380/2001.
Ritiene questo Collegio, ad un ulteriore e più approfondito
esame degli atti, che sia necessario prendere le mosse dal
terzo motivo di gravame col quale la società lamenta
l’incompetenza del dirigente che ha adottato tanto il
provvedimento impugnato col ricorso principale, quanto
l’ingiunzione aggredita coi motivi aggiunti.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale,
confermato anche nella vigenza del c.p.a., il vizio di
incompetenza deve, infatti, essere sempre scrutinato per
primo, anche qualora la parte non lo abbia indicato come
primo motivo e addirittura anche nel caso in cui lo abbia
subordinato al rigetto degli altri motivi di impugnazione.
2. Ciò premesso, si ritiene opportuna una puntuale
ricostruzione della vicenda per i profili che interessano il
tema della competenza.
In data 20.10.2006 il Comune di Licata rilasciava alla
società ricorrente un permesso di costruire per la
realizzazione del porto turistico, con la clausola che “non
è dovuto il pagamento di oneri di concessione, giacché
trattasi di attrezzature d’interesse pubblico previste dal
PRG vigente e dal PRP ai sensi dell’art. 17 del DPR n.
380/2001”.
Con nota prot. n. 19702 del 06.05.2011 il Sindaco del Comune
di Licata inoltrava a vari enti, statali e regionali,
richiesta di parere legale in merito al pagamento degli
oneri concessori degli interventi edilizi compresi nel porto
turistico “Marina di cala del Sole”.
Con nota del 21.07.2011 prot. n. 48625 il Dirigente generale
dell’ARTA offriva alcuni elementi di giudizio inerenti la
fattispecie concreta e con nota prot. n. 26113 –
131/11/2011, ricevuta dall’ARTA il 24.08.2011 e dal Comune
di Licata il 31.08.2011, l’Ufficio legislativo e legale
della Presidenza regionale condivideva e faceva proprio
l’avviso negativo espresso dal Dirigente “in ordine alla
richiesta di rilascio della concessione edilizia gratuita …”.
Accadeva che il Dirigente del Dipartimento Urbanistica del
Comune di Licata, con più note (prot. n. 39044 del
19.09.2011, n. 44182 del 02.11.2011 e n. 46512 del
21.11.2011), riteneva di non dare corso al parere, assumendo
sostanzialmente la legittimità del proprio operato.
Pertanto, la Giunta comunale, ribadita la “ferma
intenzione di … procedere al recupero di quanto si ritiene
dovuto dalla Società I.I.Spa a titolo di oneri concessori”
con deliberazione n. 43 del 12.04.2012 immediatamente
esecutiva approvava un atto di indirizzo col quale invitava
il Dirigente del Dipartimento LL.PP. a provvedere, previa
comunicazione di avvio del procedimento, al calcolo degli
oneri concessori ed il Dirigente del Dipartimento Affari
generali a conferire successivamente mandato al Responsabile
dell’avvocatura comunale di provvedere alla formale
richiesta di pagamento di quanto calcolato, con l’ulteriore
avvertenza che se la società non provvederà spontaneamente
il Dirigente del Dipartimento LL.PP. “valuterà gli atti
da adottare ai fini dell’ingiunzione di pagamento degli
oneri calcolati”.
Occorre aggiungere che su detta deliberazione interveniva il
Segretario generale del Comune evidenziandone “gravi
irregolarità amministrative ed illegittimità” in quanto
priva del parere di regolarità tecnica, priva della firma
del responsabile del procedimento e comunque contraria al
dettato dell’art. 4 D.lgs. n. 165/2001 sui compiti dei
dirigenti.
In data 30.04.2012 il Dirigente LL.PP. dava comunicazione di
avvio del procedimento di pagamento degli oneri alla società
I.I.Spa e con nota prot. 28087 del 12.06.2012 trasmetteva al
Dirigente del Dipartimento Affari generali ed al Sindaco la
tabella degli oneri concessori.
Successivamente il Sindaco, dopo aver inviato altro
sollecito al Dirigente del Dipartimento urbanistica a
provvedere entro cinque giorni ad adeguare la concessione
edilizia al parere dell’Ufficio legislativo ed aver
ricevuto, da parte del suddetto Dirigente, ulteriore nota
con la quale ribadiva la correttezza della gratuità della
concessione, con determinazione n. 37 del 26.09.2012 –qui
pure impugnata dalla Società ricorrente– decideva, senza più
menzionare la delibera di Giunta, di “avocare il
procedimento relativo alla pratica in oggetto, in atto
gestito dal Dirigente del Dipartimento Urbanistica Ing. V.O.,
assegnandolo al Dirigente del Dipartimento 4° Lavori
Pubblici Servizi Tecnologici ed Operativi – Servizi
Finanziari, Arch. F.M., affinché si proceda ad adeguare la
Concessione edilizia n. 76 del 20.10.2006 di cui alla
determina dirigenziale n. 1233 del 20.10.2006 a quanto
statuito nel parere prot. n. 26133/2011 dell’Ufficio
Legislativo e Legale della Regione Siciliana”.
Il Dirigente Arch. F. adottava, dunque, la determina n. 71
del 04.02.2013, pure oggetto del presente giudizio.
3. Rileva la società, col terzo motivo di ricorso, che la
competenza del dirigente del Dipartimento LL.PP. a
modificare il permesso di costruire rilasciato dal Dirigente
del Dipartimento Urbanistica non può trovare fondamento
nella determina sindacale n. 37/2012, a sua volta
illegittima perché contraria all’art. 51 l. n. 142/1990 e
non poggiante su una espressa deroga o previsione ad hoc
neppure di tipo regolamentare.
Ritiene il Collegio che il motivo sia fondato, per un
triplice ordine di ragioni.
3.1. È pacifico che il vigente ordinamento delle autonomie
locali demanda -in base al criterio di distinzione fra le
responsabilità di natura politico amministrativa e quelle di
gestione operativa- in via esclusiva ai dirigenti l'adozione
di quegli atti gestionali in precedenza riservati agli
organi di vertice dell'Ente, cui ora spettano solo i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Nel caso in esame, con l’atto di avocazione del 26.09.2012
il Sindaco non ha posto un obiettivo gestionale (come si
legge nelle difese in atti), ma ha di fatto adottato l’atto
di gestione: egli non si è, infatti, limitato a dettare un
indirizzo o a individuare il soggetto tenuto ad adottare il
provvedimento (profilo di cui si dirà a breve), ma ha
configurato in modo puntuale il contenuto che il
provvedimento riguardante la società ricorrente doveva
assumere, avvalendosi di un parere legale da lui stesso
richiesto (e peraltro non stringente nella sua formulazione)
e facendo ad esso assumere una portata assoluta e
vincolante.
3.2. Il Sindaco ha inoltre contestualmente avocato a sé ed
affidato ad un dirigente di altro settore ritenuto “dotato
di adeguata professionalità”, diverso da quello
competente, il compito di dar corso al singolo procedimento
sul presupposto che le valutazioni operate dal dirigente
competente “si pongono in aperto contrasto con le
conclusioni dell’Ufficio legislativo e legale”.
Tale modus operandi è illegittimo.
Premesso che le attribuzioni dei dirigenti, ai sensi
dell’art. 107, comma 4, T.U. n. 267/2000, possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative, è di norma il regolamento che
disciplina il funzionamento degli organi e degli uffici.
Inoltre, il Sindaco, salvo appunto quanto previsto dall'art.
107, esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo
statuto e dai regolamenti (art. 50, co. 3), tra cui la
nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi,
l’attribuzione e definizione degli incarichi dirigenziali e
quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai
rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali (co.
10).
L’art. 109 stabilisce per quanto qui interessa che “Gli
incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato,
ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri
di competenza professionale, in relazione agli obiettivi
indicati nel programma amministrativo del sindaco o del
presidente della provincia e sono revocati in caso di
inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente
della provincia, della giunta o dell'assessore di
riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine
di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel
piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per
responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli
altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”.
3.3. Dal combinato disposto delle suddette norme discendono
gli ulteriori due aspetti di illegittimità di cui si
diceva.
Per un verso deve escludersi che l’ordinamento
conosca un potere di avocazione di singoli affari in capo al
Sindaco o un suo potere di intervento per rimediare ad
eventuali atti illegittimi compiuti dai dirigenti preposti
agli uffici comunali.
Il principio della separazione tra funzione di gestione,
rientrante nei compiti dei dirigenti preposti all'apparato
burocratico degli enti, e funzione di indirizzo e di
controllo, devoluta agli organi elettivi, esclude, infatti,
la sussistenza di un rapporto di tipo gerarchico tra i primi
ed i secondi ed esclude altresì l’applicabilità, al di fuori
delle amministrazioni dello Stato, della disposizione
dettata dall'art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, che
conserva un potere sostitutivo sul singolo atto e di
annullamento per motivi di legittimità solo all'autorità
ministeriale (in termini TAR Napoli, I, 05.05.2006, n.
3967).
Dall’altro, un siffatto intervento non trova avallo
neppure nel regolamento comunale che tratta solo l’ipotesi
di assenza o impedimento del soggetto titolare, che è
diversa da quella verificatasi nella vicenda in esame,
stabilendo comunque non già la sostituzione del dirigente
assente od impedito con un dirigente di altro settore, ma
piuttosto con un dipendente dello stesso dipartimento ed
esattamente con un “dipendente incaricato dell’area delle
posizioni organizzative operante nel dipartimento ed in
mancanza con un dipendente di categoria D (o C nel caso di
assenza di dipendenti di categoria D) nell’ambito del
medesimo dipartimento, individuato formalmente dal Sindaco,
ove non provveda il Dirigente” (art. 25, co. 6, reg.)
Ne discende che in tale quadro normativo e regolamentare (vd.
anche co. 8 dell’art. 25) negli enti locali la competenza a
provvedere in sede di autotutela va riconosciuta solo allo
stesso organo che ha emanato l'atto illegittimo.
Si aggiunga per completezza che appare inconsistente il
richiamo, fatto negli atti difensivi del Comune, alla
necessità di affidare urgentemente il compito ad altro
dirigente per evitare il concretizzarsi di un danno
erariale: esso è comunque superato dal fatto che già nel
2007 la Corte dei Conti aveva ritenuto di non contestare
alcuna violazione, archiviando il procedimento
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 21.05.2015 n. 1206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria.
La sistemazione di un'insegna o tabella
pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso
di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti
mutamento territoriale, atteso che soltanto un sostanziale
mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia
sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere
rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio,
con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44,
comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
3. - Il ricorso non
è fondato.
3.1. - Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a
sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il
consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la
sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede
il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per
le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale;
atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio
nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo
urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla
violazione del regolamento edilizio, con conseguente
integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera
b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328,
rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3,
22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di
specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in
materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001
e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto
legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale
sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta
di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi,
presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il
controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro
contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione
dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare, come fa il
ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs. n. 42 del 2004
richiama, per l'apposizione di cartelli con mezzi
pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela
del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste
dal codice della strada, perché la tutela del paesaggio
rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto ai
corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela
dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis,
Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724; sez. 3,
10.04.2013, n. 39796, rv. 257677). E tale giurisprudenza ha
ampiamente superato il contrario orientamento isolatamente
espresso dalla sentenza sez. 3, 03.05.2006, n. 323,
richiamata dalla difesa.
Né può valere ad escludere la sussistenza del reato il
riferimento alla deliberazione della giunta della Regione
Calabria 22.07.2011, n. 330 (Approvazione elenco opere
dichiarate «minori». Indirizzi interpretativi in
materia di sopraelevazione di edifici esistenti). Si tratta
infatti, a ben vedere, di una delibera che, per la parte che
qui rileva, deve essere ritenuta illegittima, perché crea
ex novo la categoria delle "opere minori" che non
sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta
violazione del disposto dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del
2001, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità
sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire
alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per
particolari categorie di opere.
E l'illegittimità della deliberazione regionale emerge dalla
sua stessa formulazione laterale, laddove nel preambolo si
riconosce espressamente che «le norme legislative nonché
quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente, alcuna
particolare limitazione o esclusione delle opere da
assoggettare alle discipline di cui sopra».
Anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte, deve
in ogni caso rilevarsi che tale deliberazione
-contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente- non opera
una liberalizzazione generalizzata dell'istallazione di
strutture di sostegno per pannelli pubblicitari.
Non vi è dubbio che l'art. 2 del provvedimento stabilisca
che le opere minori individuate nell'allegato A sono
esentate dalla trasmissione del progetto presso gli uffici
regionali al fine dell'ottenimento dell'autorizzazione ai
sensi delle leggi nazionali e regionali in materia edilizia
sismica, e che in tale allegato siano comprese le «strutture
di sostegno per dispositivi di illuminazione, segnaletica
stradale, pannelli pubblicitari, insegne e simili, isolate e
non ancorati agli edifici, e qualora ancorati agli edifici,
aventi un peso complessivo uguale o inferiore a 1 KN [...]»
(punto 17 dell'allegato A).
Nondimeno, tale esenzione risulta sottoposta a due
condizioni. La prima, prevista dal successivo art. 3, è che
«la rispondenza della progettazione e della realizzazione
delle opere di che trattasi alle norme tecniche in vigore
dovrà essere certificata presso l'Ufficio tecnico del Comune
interessato, da un tecnico abilitato che dovrà dichiarare,
altresì che le stesse sono quelle riportate nel citato
elenco A».
La seconda è fissata dal richiamato punto 17 dell'allegato A, il quale
prevede che siano escluse dall'assoggettabilità alle
procedure previste in materia edilizia sismica le strutture
di sostegno, anche per pannelli pubblicitari, alla
condizione che esse siano dotate di certificato e/o brevetto
ministeriale. Ne consegue che, anche a prescindere dalla già
rilevata illegittimità della deliberazione, la stessa non
può avere in nessun caso l'effetto di depenalizzare la
condotta del ricorrente, perché la realizzazione di sostegni
per pannelli pubblicitari non è libera, ma sottoposta ai
regimi di certificazione sopra richiamati. E del resto nel
caso di specie il ricorrente non ha neanche prospettato che
il sostegno da lui realizzato fosse dotato di certificazione
ai sensi dell'art. 3 e di certificato e/o brevetto
ministeriale ai sensi dell'art. 17 dell'allegato A alla
richiamata deliberazione regionale del 22.07.2011.
In relazione, infine, alle dimensioni del manufatto, va
osservato che le stesse sono molto significative,
trattandosi di un sostegno di 60 cm di diametro e di
un'altezza all'incirca corrispondente a quella di un
edificio di due piani; con la conseguenza che le
considerazioni svolte dalla difesa circa l'esclusione dei
manufatti di piccole dimensioni dall'ambito di applicazione
della disciplina antisismica risultano comunque irrilevanti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19185 -
tratto da www.lexambiente.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, aprile 2015). |
VARI:
FISCO E CASA: ACQUISTO E VENDITA (Agenzia delle
Entrate, aprile 2015). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
D. M. Massaini,
Al via il “nuovo” Durc on-line: assicurata la regolarità in
tempo reale (03.06.2015 - tratto da
www.ipsoa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
05.06.2015, "Bando regionale 2015 per l’eliminazione e il
superamento delle barriere architettoniche negli edifici
privati in attuazione delle disposizioni contenute nell’art.
34-ter della legge 20.02.1989 n. 6 e della deliberazione di
Giunta regionale del 13.03.2014 n. X/1506" (decreto
D.S. 28.05.2015 n. 4394). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 04.06.2015, "Approvazione
delle «Modalità di gestione della banca dati georeferenziata
regionale della rete ciclabile» e delle «Indicazioni
operative per la digitalizzazione della rete ciclabile»" (decreto
D.S. 26.05.2015 n. 4292). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 01.06.2015 n. 125 "Semplificazione in materia di
documento unico di regolarità contributiva (DURC)" (Ministero
del Lavoro e delle delle Politiche Sociali,
decreto 30.01.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 30.05.2015 n. 124 "Disposizioni in materia di
delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni
di tipo mafioso e di falso in bilancio" (Legge
27.05.2015 n. 69). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 27.05.2015 n. 121 "Approvazione del modello unico
per la realizzazione, la connessione e l’esercizio di
piccoli impianti fotovoltaici integrati sui tetti degli
edifici" (Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 19.05.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Articolo 212, comma 8, del decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali,
nota
29.05.2015 n. 437 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Classificazione dei residui di potatura derivanti da
attività di manutenzione del verde (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento,
nota 27.05.2015 n. 6038 di prot.).
---------------
Ministero dell’Ambiente: ok all’impiego delle potature
del verde urbano a fini energetici se si rispettano i
criteri definiti per i sottoprodotti.
A seguito di richiesta di parere inviata da Fiper in data
19.05.2015 per la classificazione delle potature del verde
pubblico quale sottoprodotto della gestione del verde
(allegato 1), arriva una buona notizia da parte della
Direzione Generale dei Rifiuti del Ministero dell’Ambiente
che, nella nota U. 6038 del 27.05.2015 inviata alla
Federazione (allegato 2), riconosce la possibilità di poter
impiegare i residui di potatura derivanti da attività di
manutenzione del verde a fini energetici al di fuori della
normativa in materia di rifiuti.
Il Ministero dell’Ambiente specifica che, fermo restando
l'esclusione dal campo di applicazione della normativa in
materia di rifiuti prevista per i residui di potatura
derivanti da attività agricole e reimpiegati in attività
agricola o per la produzione di energia, i residui derivanti
da attività di manutenzione del verde possono essere
qualificati come sottoprodotti a patto che rispettino i 4
requisiti definiti dall’art. 184-bis del Testo Unico
Ambientale, che prevede che è un sottoprodotto è non un
rifiuto una qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte
le seguenti condizioni:
1) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di
produzione di cui costituisce parte integrante, il cui scopo
primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
2) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato nel
corso della stesso o di un successivo processo di produzione
da parte del produttore o di terzi;
3) la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato direttamente
senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica industriale
4) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o
l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione
della salute o dell’ambiente e non porterà a impatti
complessivi negativi sull’ambiente e sulla salute umana.
Il Ministero specifica inoltre come, con riferimento alla
fattispecie, la nozione di residuo produttivo vada intesa
nell’accezione più ampia, ricomprendendo anche i residui
derivanti dalla manutenzione del verde.
L’operatore di caso in caso deve dimostrare la sussistenza
dei 4 requisiti relativi alla definizione di sottoprodotto,
altrimenti i materiali derivanti da attività di sfalcio,
potatura e manutenzione del territorio dovranno essere
qualificati ,a seconda della provenienza, come rifiuti
urbani o speciali.
Commenta Righini: "Da quattro anni la Fiper combatte una
battaglia sulle potature del verde urbano che fino a ieri
sono state considerate un rifiuto e come tali dovevano
essere smaltite, con un costo notevole per le
amministrazioni comunali. Il chiarimento del Ministero
dell’Ambiente significa che questi residui da costo potranno
diventare una risorsa; infatti il Comune invece di spendere
dai 5 ai 7 euro al quintale di costo di smaltimento potrebbe
recuperare 2-3 euro al quintale, nel rispetto dei requisiti
definiti per i sottoprodotti, conferendolo alle centrali di
teleriscaldamento e producendo calore. La forbice mi sembra
notevole"
(tratto da www.fiper.it). |
TRIBUTI:
Oggetto: Tributo per i servizi in divisibili (TASI) -
Corretta applicazione dell'imposta sugli immobili di
interesse storico ed artistico ubicati nel comune di Verona
- Quesito
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle
Finanze,
nota 22.05.2015 n. 16252 di prot.). |
ENTI LOCALI: Oggetto:
Veicoli da locare senza conducente alle Polizie Locali e da
adibire a servizi di polizia stradale
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 22.05.2015 n. 12291 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Quesito assenze gravi patologie (Ministero
dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ufficio
Scolastico Regionale per l’Umbria,
nota 21.05.2015 n. 6587 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: regolamento locale di igiene tipo: art. 124
della legge regionale n. 33/2009 (Testo unico delle leggi
regionali in materia di sanità) - Ulteriori indicazioni
(Regione Lombardia, Direzione Generale Salute,
nota 14.05.2015 n. 14336 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Uffici tecnici senza incentivi per le
manutenzioni. Corte dei conti. Le conseguenze applicative
del decreto sul pubblico impiego.
I dipendenti degli uffici tecnici dei Comuni e delle altre
amministrazioni pubbliche non possono ricevere
incentivazioni per lo svolgimento di qualunque attività di
manutenzione, sia essa ordinaria sia straordinaria.
In questa direzione vanno le indicazioni dettate dalla
sezione regionale di controllo della Corte dei Conti
dell'Umbria e contenute nel
parere
14.05.2015 n. 71. Si afferma quindi una lettura
restrittiva e formale delle novità introdotte dalla legge di
conversione del Dl 90/2014.
Il parere perviene a questa conclusione sulla base delle
seguenti considerazioni. In primo luogo, il dettato
letterale della nuova disposizione che esclude la
incentivazione delle manutenzioni tout court. Indicazione
legislativa che arriva dopo che si era consolidata una
lettura per cui potevano essere incentivate le manutenzioni
straordinarie a condizione che le stesse non fossero
intervenute nel caso di appalti di servizi manutentivi, che
vi fosse stata una attività progettuale e che i lavori
fossero stati realizzati a seguito di una gara, quindi con
esclusione di quelli svolti in economia.
Ed ancora, viene evidenziato che «l'attrazione delle opere
di manutenzione straordinaria nell'alveo delle spese di
investimento» non costituisce un argomento che possa essere
speso in questa direzione, visto che esso ha finalità
esclusivamente di tipo contabile e non ha alcuna attinenza
con le scelte legislative in esame.
Altro argomento è che l’incentivazione ai tecnici dipendenti
dell'ente è finalizzata allo scopo di «valorizzare al
massimo le competenze e le professionalità tecniche
possedute dal personale dipendente.. e ad evitare di
ricorrere .. a professionalità esterne con conseguente
aggravio di costi». Elementi che la sezione non ritrova
nella incentivazione delle manutenzioni straordinarie.
Il parere evidenzia infine, sulla scorta delle indicazioni
dettate dalla sezione Autonomie della magistratura contabile
nella
deliberazione 24.03.2015 n. 11, che la decorrenza delle
nuove disposizioni è da ritenere fissata nei pagamenti che
sono relativi ad attività svolte a partire dallo scorso 19
agosto, cioè dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del Dl 90/2014.
Ne consegue che l’applicazione degli incentivi è guidata dal
principio di competenza e non da quello di cassa, che
seguirebbe cioè la data dei pagamenti; questo principio si
deve applicare anche ai compensi relativi alle manutenzioni
straordinarie.
Si deve infine ricordare che, sulla scorta dei principi
fissati dalla sentenza della Corte dei Conti della Puglia n.
203 dello scorso 14 aprile la erogazione di questi compensi
è subordinata al rispetto delle seguenti due condizioni.
In
primo luogo, queste risorse devono essere inserite nel fondo
per la contrattazione decentrata, parte variabile, ex
articolo 15, comma 1, lettera k), del contratto collettivo
nazionale del 01.04.1999, cioè risorse provenienti da
specifiche disposizioni di legge. In secondo luogo, esse non
possono essere oggetto di una autoliquidazione da parte del
dirigente o del responsabile dell'area tecnica, in quanto lo
stesso ha un obbligo di astensione, che il recente Dpr n.
62/2013 (il Codice di comportamento) ha rafforzato (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2015). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il
segretario verbalizza. Compiti fissati dal Testo unico enti
locali. Il caso dell'assenza di
regolamento sul funzionamento del consiglio.
Qual è la corretta modalità di verbalizzazione delle sedute
di consiglio comunale, qualora l'ente non sia dotato di
regolamento per il funzionamento del consiglio comunale e lo
statuto non rechi indicazioni sulle modalità di
verbalizzazione? In tal caso, può ritenersi corretta la
proceduta adottata dal segretario comunale, volta a supplire
a tale carenza, consistente nella registrazione e
trascrizione integrale della discussione e nella
pubblicazione della stessa sull'albo pretorio online e sul
sito web istituzionale?
L'adozione del regolamento per il funzionamento del
consiglio comunale è riservata, ai sensi dell'art. 38, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000, all'autonomia
dell'ente. Tale strumento, da adottare nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto, è necessario per il
corretto funzionamento del consiglio, proprio per l'ampia
serie di istituti da regolamentare, e per il superamento
della disciplina transitoria di cui all'art. 273, comma 6,
del citato decreto legislativo.
Nelle more di una disciplina
autonoma, il Tar Lazio, I Sez. con sentenza 10.10.1991,
n. 1703, ha stabilito che «il verbale, non attiene al
procedimento deliberativo, che si esaurisce e si perfeziona
con la proclamazione del risultato della votazione, ma
assolve ad una funzione di mera certificazione dell'attività
dell'organo deliberante». Tale strumento «ha l'onere di
attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di
verificare il corretto «iter» di formazione della volontà
collegiale e di permettere il controllo delle attività
svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l'eventuale
difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività
compiute o delle singole opinioni espresse. D'altra parte
deve aggiungersi che il verbale della seduta di un organo
collegiale, quale il consiglio comunale, costituisce atto
pubblico che fa fede fino a querela di falso dei fatti in
esso attestati» (Conforme Consiglio di stato, Sez. IV,
25/07/2001, n. 4074).
Atteso che il presidente del consiglio
comunale, in base all'articolo 39 del richiamato Tuoel, ha
poteri di convocazione nonché di direzione dei lavori e
delle attività del consiglio che potrebbero comportare la
possibilità di fornire istruzioni in merito opportunamente
condivise dal consiglio comunale, la «cura delle
verbalizzazioni» delle sedute del consiglio e della
giunta sono riservate, ai sensi dell'art. 97, comma 4, del
citato decreto legislativo n. 267/2000, direttamente al
segretario comunale
(articolo ItaliaOggi del 29.05.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Controfirma delle
delibere.
È legittimo il rifiuto, da parte di un consigliere comunale
anziano, di controfirmare due deliberazioni consiliari dopo
aver regolarmente sottoscritto i relativi verbali delle due
sedute consiliari?
L'articolo 38 del decreto legislativo n. 267/2000 al comma 2
dispone che «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento», mentre il comma 3 prevede che «i consigli sono
dotati di autonomia funzionale e organizzativa».
Nessuna
particolare indicazione è contenuta nel citato decreto
legislativo in ordine alla sottoscrizione delle
deliberazioni, essendo invece prevista, all'art. 124 la sola
obbligatorietà della pubblicazione di tali atti all'albo
pretorio. Occorre, pertanto rinviare alle disposizioni
interne di cui l'ente si è dotato, in virtù proprio del
rimando di cui all'art. 38, nonché alle disposizioni di
carattere generale.
Nel caso di specie, lo statuto comunale
demanda la sottoscrizione del verbale di riunione di
consiglio al segretario comunale, al sindaco ed al
consigliere anziano. Tali soggetti sottoscrivono anche le
deliberazioni comunali. Il regolamento consiliare, inoltre,
ribadisce che il verbale delle adunanze è firmato dal
presidente, dal consigliere anziano e dal segretario
comunale.
Lo stesso regolamento non contiene alcuna norma
che disciplini la sottoscrizione delle deliberazioni;
tuttavia, l'obbligo di firma delle deliberazioni anche da
parte del consigliere anziano scaturisce proprio dallo
statuto comunale che dispone testualmente che le
deliberazioni del consiglio comunale sottoscritte dai
soggetti tra i quali rientra anche il consigliere anziano.
La sottoscrizione del provvedimento deliberativo, ai fini
della pubblicazione, assume una mera funzione certificativa
della regolarità formale dell'atto
(articolo ItaliaOggi del 29.05.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso a delibere comunali risalenti nel tempo.
L'art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013
disciplina il nuovo istituto dell'accesso civico, stabilendo
che l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle
pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di
richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la
loro pubblicazione. L'accesso civico, ha precisato il
Consiglio di Stato, non può intendersi riferito agli atti
antecedenti all'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, entrato in
vigore il 20.04.2013.
L'accesso a delibere comunali risalenti nel tempo va dunque
risolto alla luce della disciplina in materia di accesso,
quella specifica per gli atti comunali, di cui al D.Lgs. n.
267/2000, e quella generale per i documenti della p.a. di
cui alla L. n. 241/1990.
Il coordinamento tra queste due discipline ha dato luogo a
diversi orientamenti in seno alla giurisprudenza: a fronte
del filone di alcuni TAR nel senso della legittimazione del
cittadino dell'ente locale all'accesso agli atti comunali
senza dover dimostrare un interesse, si è registrato un
ulteriore orientamento nel senso dell'accessibilità a tutta
la cittadinanza degli atti delle amministrazioni locali se
prevista nei regolamenti dei singoli enti locali, con
un'ultima pronuncia del Consiglio di Stato che ha aderito,
invece, all'indirizzo che ritiene prevalente la normativa
generale di cui alla L. n. 241/1990, in forza della quale è
sempre richiesta la dimostrazione dell'interesse e del
collegamento tra questo ed il documento richiesto.
Il Comune pone un quesito in relazione alla trasparenza
amministrativa, in particolare sull'accessibilità di
delibere comunali risalenti nel tempo (ad esempio del 1980),
alla luce della normativa vigente (D.Lgs. n. 267/2000
[1]; L. n.
241/1990 [2];
D.Lgs. n. 33/2013 [3]).
Si chiarisce sin da subito che l'ambito di applicazione
dell'istituto dell'accesso civico è circoscritto agli atti
emanati dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 33/2013
[4] o
emanati in precedenza ma ancora operativi al momento
dell'entrata in vigore del decreto sulla trasparenza
[5]. Per
cui, la questione dell'accessibilità delle delibere comunali
risalenti nel tempo va risolta alla luce della disciplina in
materia di accesso, quella specifica per gli atti comunali
di cui al D.Lgs. n. 267/2000 e quella generale per i
documenti della pubblica amministrazione di cui alla L. n.
241/1990, coordinate nei termini che si andranno ad
analizzare nel corso della trattazione.
Precisato un tanto, si può passare ad un esame più
approfondito dell'istituto dell'accesso civico, dell'accesso
agli atti delle amministrazioni comunali e di quello ai
documenti delle pubbliche amministrazioni.
Ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. n. 33/2013, la trasparenza è
intesa come accessibilità totale delle informazioni
concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Gli obblighi di
pubblicazione previsti dal decreto hanno ad oggetto una
serie di documenti -specificati nei capi II, III, IV e V del
medesimo decreto e concernenti l'organizzazione, nonché
diversi specifici campi di attività delle predette
amministrazioni [6]-
che devono essere pubblicati tempestivamente sul sito
istituzionale dell'amministrazione (art. 8)
[7], in
un'apposita sezione denominata «Amministrazione
trasparente», al cui interno sono contenuti i dati, le
informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della
normativa vigente (art. 9), cui chiunque può accedere
direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed
identificazione (art. 2). Chiunque ha diritto di conoscere e
di fruire gratuitamente di detti atti, in quanto pubblici
(art. 3).
In questo contesto, l'art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013
disciplina l'innovativo istituto dell'accesso civico,
stabilendo che 'l'obbligo previsto dalla normativa
vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di
chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata
omessa la loro pubblicazione' (comma 1).
La norma viene esplicitata dal Consiglio di Stato
[8], il
quale chiarisce che, in caso di omessa pubblicazione dei
documenti per cui è prevista la pubblicazione obbligatoria,
può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n.
33/2013, il cosiddetto 'accesso civico', consistente
in una richiesta -che non deve essere motivata- di
effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di
conclusiva inadempienza all'obbligo in questione, di
ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni
contenute nel relativo codice sul processo (D.Lgs. n.
104/2010).
L'accesso civico non può, però -precisa il Consiglio di
Stato- intendersi riferito agli atti antecedenti
all'emanazione del D.Lgs. n. 33/2013, entrato in vigore il
20.04.2013.
Posizione, questa, da cui non pare discostarsi il Giudice
amministrativo di primo grado, che, in una recente
pronuncia, ha sì esteso l'applicabilità del decreto sulla
trasparenza anche agli atti emanati prima dell'entrata in
vigore del decreto medesimo, ma purché dispieghino ancora i
loro effetti a quella data [9].
Alla luce di queste considerazioni della giurisprudenza
amministrativa, il quesito dell'Ente istante relativo
all'accessibilità di una delibera adottata diversi decenni
fa non può dunque essere risolto ai sensi del D.Lgs. n.
33/2013.
Si tratta, allora, di verificare in quali termini possa
trovare applicazione la normativa specifica sull'accesso
agli atti delle amministrazioni comunali, di cui al D.Lgs.
n. 267/2000, tenuto conto della normativa generale
sull'accessibilità ai documenti amministrativi, di cui alla
L. n. 241/1990.
L'art. 10 del TUEL prevede che tutti gli atti
dell'amministrazione comunale sono pubblici, ad eccezione di
quelli riservati per espressa indicazione di legge o per
effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del
sindaco che ne vieti l'esibizione, per non pregiudicare il
diritto di riservatezza delle persone, dei gruppi e delle
imprese (comma 1), e demanda alla fonte regolamentare la
disciplina delle modalità di esercizio dell'accesso per
assicurare ai cittadini, singoli e associati, il diritto di
accesso agli atti amministrativi e più in generale alle
informazioni di cui è in possesso l'amministrazione, senza
prevedere la necessità di una specifica motivazione (comma
2).
Diverso contenuto rivela, invece, la disciplina generale
dell'accesso ai documenti amministrativi, contenuta negli
artt. 22 e ss., L. n. 241/1990. In particolare, l'art. 22
prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed
estrarre copia di documenti amministrativi, intendendosi per
interessati tutti i soggetti che abbiano un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso; in funzione di tale interesse
la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata
[10].
Il coordinamento tra la disciplina specifica di cui all'art.
10 del TUEL e quella generale di cui alla L. n. 241/1990 ha
dato luogo a diversi orientamenti in seno alla
giurisprudenza amministrativa e allo stesso Consiglio di
Stato, con un ultimo arresto del Supremo Giudice
amministrativo che ha aderito all'indirizzo che ritiene
prevalente la normativa generale (L. n. 241/1990), in forza
della quale è sempre richiesta la dimostrazione
dell'interesse e del collegamento tra questo ed il documento
richiesto.
In questa sede, si illustrano, pertanto, le diverse
posizioni assunte dal Consiglio di Stato e dai TAR, nonché,
sul piano della prassi, le interpretazioni fornite dal
Ministero dell'Interno e dalla Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi.
Con la pronuncia n. 1772 del 24.03.2011, la sezione V del
Consiglio di Stato ha affermato che la disposizione
contenuta nel primo comma dell'art. 10 del TUEL sancisce il
principio della pubblicità degli atti delle amministrazioni
locali (fatte salve le esclusioni ivi contemplate), senza
tuttavia con ciò implicare una diversa configurazione del
diritto di accesso e una diversa disciplina delle modalità
di esercizio del diritto di accesso, come delineate dalla L.
n. 241/1990. Per quanto riguarda i requisiti di accoglimento
della domanda di accesso non sussiste dunque alcuna ragione
per discostarsi da quelli contenuti nella disciplina
generale di cui agli artt. 22 e seguenti della L. n.
241/1990. Ciò vale anche per le norme statutarie e
regolamentari che devono conformarsi al principio generale
dell'art. 22, L. n. 241/1990 [11].
A fronte di quest'indirizzo giurisprudenziale che subordina
comunque l'esercizio del diritto di accesso nell'ordinamento
degli enti locali alla dimostrazione di un interesse
concreto ed attuale, si registra una diversa pronuncia in
seno alla medesima sezione V del Consiglio di Stato, nel
senso dell'accessibilità a tutta la cittadinanza degli atti
delle amministrazioni locali, se prevista nei regolamenti
dei singoli enti locali.
Specificamente, sempre la Sezione V del Consiglio di Stato
ha affermato che il rapporto tra le discipline recate
rispettivamente dall'art. 10 del TUEL e dalle norme sul
diritto di accesso contenute nella L. n. 241/1990 va posto
in termini di coordinazione, con la conseguenza che le
disposizioni della legge 241 penetrano all'interno degli
ordinamenti degli enti locali in tutte le ipotesi in cui
nella disciplina di settore non si rinvengano appositi
precetti che regolino la materia con carattere di
specialità. In particolare, l'art. 10 del TUEL ha introdotto
una disposizione per gli enti locali che si pone
semplicemente in termini integrativi rispetto a quella, di
contenuto generale, di cui all'art. 22, L. n. 241/1990
[12].
Pertanto, in caso di mancata emanazione del regolamento
previsto dall'art. 10 del TUEL, non si può ritenere operante
il principio di generalizzata accessibilità agli atti
dell'ente locale [13].
Su questa linea si è espresso altresì il Ministero
dell'Interno, secondo cui la specifica norma sull'accesso
agli atti degli enti locali, di cui all'art. 10 del TUEL,
non è soggetta alle limitazioni previste dalla L. n.
241/1990 che impongono la dimostrazione di un effettivo
interesse alla conoscenza di un provvedimento emesso e
detenuto dalla pubblica amministrazione. Di qui il diritto
di accesso a tutti i documenti dell'amministrazione non
classificati come 'segreti' o contenenti dati
sensibili, che possono essere consegnati ai richiedenti
sulla base e con le modalità dettate dalle specifiche norme
regolamentari di cui gli enti sono tenuti a dotarsi
[14].
La dottrina [15]
osserva come l'orientamento giurisprudenziale, nel senso
dell'accessibilità a tutta la cittadinanza degli atti delle
amministrazioni locali se prevista nei regolamenti dei
singoli enti, sia aderente a quanto consentito dalla
normativa generale in materia di accesso agli atti della
p.a., circa la possibilità per gli enti locali di prevedere
livelli ulteriori di tutela in tema di accesso alla
documentazione amministrativa rispetto ai livelli essenziali
di tutela garantiti dagli artt. 22 e ss. della L. n.
241/1990 (art. 29, comma 2, L. n. 241/1990; art. 14, comma
2, D.P.R. n. 184/2006 [16]).
Si segnala infine che sull'accesso agli atti delle
amministrazioni comunali si è più volte espressa anche la
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
secondo la quale ai sensi dell'art. 10, D.Lgs. n. 267/2000,
qualora l'istante risieda nel territorio del Comune, si deve
ritenere che possa accedere a tutti i documenti dell'ente
locale, 'senza essere condizionato alla titolarità in
capo al soggetto accedente di una situazione giuridica
differenziata né alla necessità di motivare la sua istanza
con riferimento ad uno specifico interesse all'accesso,
atteso che l'esercizio di tale diritto è equiparabile
all'attivazione di un'azione popolare finalizzata ad una più
efficace e diretta partecipazione del cittadino all'attività
amministrativa dell'ente locale e alla realizzazione di un
più immanente controllo sulla legalità dell'azione
amministrativa' [17].
---------------
[1] D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, recante: 'Testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali'.
[2] L. 07.08.1990, n. 241, recante: 'Nuove norme in materia
di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi'.
[3] D.Lgs. n. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni'.
[4] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013, n. 5515,
di cui si dirà nel prosieguo.
[5] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.11.2014, n. 5671,
di cui si dirà nel prosieguo.
[6] In particolare, sul piano degli obblighi di
pubblicazione, il decreto distingue tra informazioni che
riguardano: l'organizzazione e l'attività della p.a. (capo
II), l'uso delle risorse pubbliche (capo III), le
prestazioni offerte e i servizi erogati (capo IV), i settori
speciali quali i contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture e la pianificazione urbanistica (capo V).
[7] Un aspetto innovativo della normativa in esame sta nel
fatto che l'accessibilità alle informazioni per cui è
prevista la pubblicazione obbligatoria deve essere garantita
attraverso l'utilizzo del web: l'amministrazione deve
infatti pubblicare le informazioni in questione sul proprio
sito internet oppure creare un link apposito al sito sul
quale siano presenti le informazioni (cfr. in dottrina,
Riccardo Bianchini, L'accesso civico riguarda anche atti
vigenti all'entrata in vigore della norma, nota di commento
a TAR Campania, Napoli, sez. V, 05.11.2014, n. 5671).
[8] Consiglio di Stato, n. 5515/2013, cit..
[9] TAR Campania, n. 5671/2014, cit., il quale precisa che
in tal caso, per gli atti compresi negli obblighi di
pubblicazione, di cui al D.Lgs. n. 33/2013, potranno operare
cumulativamente tanto il diritto di accesso classico' ex L.
n. 241/1990, quanto il diritto di accesso civico ex D.Lgs.
n. 33/2013, mentre, per gli atti non rientranti in tali
obblighi di pubblicazione, opererà esclusivamente il solo
diritto di accesso procedimentale classico' di cui alla L.
n. 241/1990.
[10] Consiglio di Stato, n. 5515/2013, cit..
[11] La Sezione V del Consiglio di Stato conferma nel 2011
quanto già rilevato dalla medesima Sezione nelle pronunce n.
7773 del 29.11.2004, n. 1412 del 18.03.2004, e n. 6879 del
20.10.2004.
Di avviso contrario rispetto a questo orientamento del
Consiglio di Stato, si pongono alcune pronunce dei Giudici
amministrativi di primo grado, le quali riconoscono che al
cittadino dell'ente locale è attribuita una posizione più
ampia, che non richiede la dimostrazione dell'interesse.
Cfr. in questo senso, TAR Lecce, sez. II, 12.04.2005, n.
2067, che espressamente afferma di discostarsi dal filone
suesposto; TAR Ancona, 12.10.2001, n. 1133; TAR Ancona, sez.
I, 03.04.2006, n 101; TAR Milano, sez. I, 30.06.2004, n.
2708.
[12] Consiglio di Stato, sez. V, 08.09.2003, n. 5034.
[13] TAR Milano, sez. II, 22.07.2004, n. 3174, che richiama
TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 14.06.2003, n. 1009.
[14] Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari
Interni e territoriali, parere del 22.07.2014.
[15] Cfr. Alberto Zucchetti, L'accesso ai documenti: limiti,
procedimento, responsabilità: aggiornato con il regolamento
sull'accesso (d.p.r. 12.04.2006, n. 184), Giuffrè, Milano,
2006, p. 144 e segg.. L'autore muove in tal senso dalla
lettura combinata dell'art. 10 del TUEL e dell'art. 22,
comma 1, L. n. 241/1990, che nel testo previgente prevedeva
che 'Resta ferma la potestà delle regioni e degli enti
locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di
garantire livelli ulteriori di tutela'. La previsione sui
livelli ulteriori di tutela in materia di diritto di accesso
è ora contenuta, a seguito della novella recata dalla L. n.
69/2009, nell'art. 29, comma 2-quater, L. n. 241/1990.
La combinazione dell'art. 10 del TUEL richiamato -che nel
suo tenore letterale incardina nella sola qualità di
cittadino la legittimazione all'accesso agli atti delle
amministrazioni comunali, senza dover dimostrare uno
specifico interesse, demandando al regolamento comunale la
disciplina dell'esercizio di accesso- e della previsione dei
livelli ulteriori di tutela, riconoscibili dalle autonomie
locali nell'ambito della loro potestà normativa, tende a
configurare -rileva l'autore- il regolamento locale in
materia di diritto di accesso quale disciplina speciale
applicabile al di là (in questo, precisamente, il contenuto
del 'livello ulteriore') di quanto statuito in via generale
negli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990.
[16] D.P.R. 12.04.2006, n. 184, recante: 'Regolamento
recante disciplina in materia di accesso ai documenti
amministrativi'.
[17] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
seduta del 27.09.2011. Conformi: seduta del 10.05.2011;
seduta del 15.03.2011; seduta del 07.07.2011; seduta del
17.01.2013.
Si osserva che quella giurisprudenza del Consiglio di Stato,
che ha ritenuto che anche per gli atti delle amministrazioni
locali valga la norma secondo cui il diritto di accesso è
riconosciuto unicamente a chi vanti un interesse per la
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, ha nel
contempo affermato che non convince la tesi (adombrata in
quelle sedi dalle parti appellanti) di un diritto di accesso
agli atti degli enti locali libero per i soli residenti, in
quanto non sarebbe in linea con la fondamentale direttiva
costituzionale sull'eguaglianza di tutti i cittadini di
fronte alla legge (cfr. Consiglio di Stato, n. 7773/2004, e
n. 6879/2004, citt.)
(15.05.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
TRIBUTI:
Tasse locali, tempo di acconti. Imu e Tasi al 16 giugno.
Sulla Tari decidono i comuni.
Un vademecum per orientarsi tra i pagamenti delle imposte
sulla casa nel 2015.
Contribuenti alla cassa per il pagamento degli acconti Imu,
Tasi e Tari. Mentre per i primi due tributi il termine
ultimo per versare gli acconti è quello classico del
prossimo 16 giugno, per la tassa rifiuti le scadenze per il
pagamento sono fissate dai comuni.
L'acconto Imu dovrà
essere versato da tutti i contribuenti titolari di
fabbricati, aree edificabili e terreni, ad eccezione degli
immobili adibiti a abitazione principale, sono tenuti invece
a pagare la Tasi solo coloro che possiedono fabbricati e
aree edificabili.
Per entrambi i tributi l'acconto va
calcolato sulla base delle aliquote e delle detrazioni
deliberate dai comuni per i dodici mesi dell'anno
precedente. Quindi va versato il 50% di quanto pagato nel
2014. Fermo restando che i contribuenti possono effettuare i
pagamenti in un'unica soluzione se già conoscono le
deliberazioni adottate dalle amministrazioni comunali.
Imu.
Il primo appuntamento con l'imposta municipale, al solito, è
confermato per il 16 giugno. Non devono versare l'imposta i
titolari di immobili destinati a prima casa e equiparati per
i quali è prevista l'esenzione. Dall'esenzione sono esclusi
gli immobili classificati nelle categorie catastali A1, A8 e
A9 (immobili di lusso, ville e castelli). Questi fabbricati
fruiscono comunque di un trattamento agevolato, perché deve
essere applicata un'aliquota ridotta (dal 2 al 6 per mille),
deliberata dal comune, e una detrazione di 200 euro.
I
soggetti obbligati al pagamento dovranno mettere mano al
portafoglio e versare il 50% dell'imposta calcolata in base
a aliquote e detrazioni adottate nel 2014. I comuni,
infatti, hanno tempo fino al prossimo 30 luglio per
approvare bilanci preventivi, regolamenti e delibere. Il
resto dovrà essere pagato entro il 16 dicembre, a conguaglio
di quanto dovuto per l'intero anno facendo riferimento a
aliquote e detrazioni deliberate per il 2015.
Tasi.
Sono obbligati al pagamento della Tasi sia proprietari che
inquilini. L'articolo 1, commi 671 e 681, della legge di
Stabilità 2014 (147/2013) individua come distinti soggetti
passivi possessori e detentori degli immobili. Il titolare
dell'immobile, a titolo di proprietà, usufrutto, uso e via
dicendo, non è tenuto a pagare la quota che il comune pone a
carico del detentore, nel caso in cui quest'ultimo non versi
l'imposta dovuta. Solo in caso di occupazione temporanea,
non superiore a 6 mesi, è obbligato al versamento del
tributo colui che risulti possessore dell'immobile.
L'imposta sui servizi comunali indivisibili si paga solo sui
fabbricati, comprese le abitazioni principali, e le aree
edificabili. Esclusi espressamente dall'imposizione i
terreni. La base imponibile è la stessa dell'Imu Va
ricordato che i comuni non sono tenuti a inviare ai
contribuenti i modelli di pagamento Tasi precompilati.
L'imposta sui servizi, come l'Imu, deve essere versata in
autoliquidazione e spetta al contribuente fare i calcoli e
pagare quanto dovuto. In effetti, la legge non prevede
l'obbligo di invio dei modelli precompilati.
Il bollettino
va predisposto su richiesta dell'interessato, ma non c'è un
obbligo di invio generalizzato. Le amministrazioni locali
devono garantire ai contribuenti un servizio di assistenza
compilando, su richiesta, i bollettini di pagamento.
Acconti Tari.
Per la tassa rifiuti i comuni possono richiedere il
pagamento degli acconti in attesa dell'approvazione del
bilancio di previsione, delle delibere tariffarie e dei
regolamenti. Nulla osta, dunque, all'invio degli avvisi di
pagamento degli acconti della tassa rifiuti anche se i
comuni non hanno ancora approvato i regolamenti e
determinato le tariffe.
Il tributo può essere calcolato
sulle tariffe del 2014. Nonostante non vi sia una norma ad
hoc che attribuisca questo potere, i comuni hanno il potere
di determinare gli acconti Tari calcolando gli importi in
base a quanto pagato dai contribuenti l'anno precedente. In
questo senso, tra l'altro, si è espresso il dipartimento
delle finanze del ministero dell'economia con la nota
5648/2014.
Secondo il dipartimento delle finanze non serve
un'apposita disposizione legislativa per riscuotere gli
acconti Tari. Del resto, il comma 688 della legge di
Stabilità 2014 (147/2013) attribuisce ai comuni la piena
facoltà di prevedere liberamente le scadenze, con l'unico
limite di garantire un numero minimo di due rate semestrali.
Modalità di pagamento.
Il pagamento di Imu e Tasi può essere effettuato con il
modello F24 o tramite apposito bollettino di conto corrente
postale, secondo le regole stabilite dall'articolo 17 del
decreto legislativo 241/1997. Quindi, le somme versate dai
contribuenti vengono incassate dalla «Struttura di gestione»
e riversate all'ente interessato. Gli stessi canali di
pagamento possono essere utilizzati per la Tari.
Per la
Tari, inoltre, è possibile pagare tramite i servizi
elettronici di incasso e interbancari. La legge, però,
impone che Tasi e Tari devono essere versate in momenti
diversi, fermo restando che gli interessati hanno la facoltà
di pagare in un'unica soluzione entro il 16 giugno, qualora
siano già a conoscenza delle deliberazioni adottate
dall'ente.
---------------
Imponibile a metà per fabbricati di
interesse storico-artistico. Tributo
sui servizi indivisibili/ Le finanze rispondono al comune di
Verona.
Anche ai fini Tasi, i fabbricati di interesse storico e
artistico possono usufruire della riduzione al 50% del
valore imponibile prevista per l'Imu.
Lo chiarisce il Dipartimento delle finanze (nota
22.05.2015 n. 16252 di prot.) rispondendo a un
quesito posto dall'Ordine dei commercialisti e degli esperti
contabili di Verona, che ha sollevato la questione dopo che
il comune aveva negato l'estensione del beneficio
dall'ambito dell'imposta municipale a quello del tributo sui
servizi indivisibili.
Come ricordano le Finanze, la
disciplina di riferimento è contenuta nel comma 675 della l
147/2013. Tale norma dispone che la base imponibile Tasi è
«quella prevista per l'applicazione» dell'Imu. In virtù di
tale richiamo, è applicabile alla Tasi anche l'art. 13,
comma 3, del dl 201/2011, il quale prevede il dimezzamento
della base imponibile per i suddetti immobili.
La stessa
tesi, del resto, era stata sostenuta anche nelle Faq
pubblicate dallo stesso Dipartimento (Faq n. 8 del 04.06.2014). Del medesimo tenore è la stessa disciplina
regolamentare adottata dal comune scaligero, che richiama
per la Tasi le stesse regole di determinazione della base
imponibile previste per l'Imu, ivi compreso lo sconto per
gli immobili di pregio. Soddisfazione è stata espressa dai
commercialisti veronesi e dal presidente Alberto Mion. Ai
fini dell'identificazione degli immobili di interesse
storico-artistico, rileva la classificazione di cui all'art.
10 del dlgs 42/2004.
La medesima agevolazione spetta anche ai
fabbricati inagibili/inabitabili, sempre che tale condizione
sia stata accertata dall'ufficio tecnico comunale o
dichiarata dal contribuente mediante autocertificazione e
purché risultino di fatto non utilizzati. Se un fabbricato
inagibile/inabitabile è anche di interesse storico-artistico
l'agevolazione si applica una volta sola, per cui la
riduzione della base imponibile è sempre del 50% (e non del
25%)
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Da luglio cambia l'Ape. Si passa da 7 a 10 classi
di spreco energetico. Nuovo attestato di prestazione
energetica degli edifici. Pronte le linee guida.
Sono in dirittura d'arrivo le linee guida nazionali che
dovranno ridefinire l'Ape, ovvero l'attestato di prestazione
energetica che viene utilizzato per determinare l'efficientamento
degli immobili.
Le nuove linee guida sostituiranno quelle per la
certificazione energetica emanate con il dm 26.06.2009.
Le classi energetiche con la nuova Ape passeranno da sette a
dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore). Verrà
introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione
contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica
degli edifici.
Per fornire un quadro completo dell'immobile
in tale schema saranno riportati anche gli indici di
prestazione energetica parziali, come quello riferito
all'involucro, quello globale e la relativa classe
energetica corrispondente.
Inoltre verranno inseriti simboli
grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione
ai non tecnici. La nuova Ape nazionale, entrerà in vigore il
primo giorno di luglio del 2015 e verrà applicato alle
regioni e province autonome che non abbiano ancora
provveduto a recepire la direttiva 2010/31/Ue.
Queste le
novità contenute nella bozza definitiva di decreto
contenente le linee guida nazionali per l'attestazione della
prestazione energetica degli edifici (si veda ItaliaOggi del
31.03.2015) redatte dal ministero dello sviluppo
economico e inviate alle regioni alla fine di maggio. Per la
piena operatività bisogna attendere ancora tre passaggi: il
via libera della conferenza unificata, la registrazione alla
corte dei conti e la pubblicazione in gazzetta ufficiale. Di
seguito le novità più importanti.
Attestato unico.
Introduzione di un attestato unico semplificato riguardante
tutto il territorio nazionale, con una metodologia di
calcolo omogenea per la classificazione delle prestazioni
energetiche. Le regioni dovranno adeguarsi entro due anni.
Con predisposizione di un sistema informativo comune per
tutto il Paese, dal nome Siape, dove saranno raccolti tutti
i dati relativi agli attestati di prestazione energetica
affinché le regioni possano effettuare gli opportuni
controlli.
Contenuti attestato.
Per ciò che concerne i contenuti, il nuovo attestato dovrà
esprimere la prestazione energetica globale sia in termini
di energia primaria totale che di energia primaria non
rinnovabile. Andranno specificati gli interventi da
realizzare sull'edificio distinguendo tra interventi di
ristrutturazione edilizia ed interventi di riqualificazione
energetica.
La classe energetica dovrà poi essere
determinata attraverso l'indice di prestazione energetica
globale, espresso in energia primaria non rinnovabile.
L'attestato dovrà contenere i consumi energetici non solo
per il riscaldamento invernale ma altresì per le attività di raffrescamento estivo, oltre a riportare le emissioni di
anidride carbonica e l'energia esportata.
Schema annuncio.
Definito uno schema di annuncio di vendita e locazione per
uniformare le informazioni riguardanti la qualità energetica
degli edifici riportando anche gli indici di prestazione
energetica parziali, come quello riferito all'involucro,
quello globale e la relativa classe energetica
corrispondente
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc, con irregolarità stand by di un mese.
Procedura online. Il sistema blocca eventuali
interrogazioni.
Uno dei punti
critici del nuovo Durc online che debutterà il 1° luglio è
costituito dalla gestione di eventuali casi di irregolarità
vera o presunta delle aziende che potrebbero determinare dei
danni alle stesse (si vedano gli articoli pubblicati ieri su
«Il Sole 24 Ore»).
Il decreto interministeriale attuativo del 30.01.2015,
pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» del 1° giugno, prevede
che, nel caso in cui la regolarità contributiva non sia
attestabile, il sistema –tramite Pec– invierà un preavviso
di irregolarità al soggetto in questione (o
all’intermediario delegato) invitando lo stesso a
regolarizzare le proprie scoperture entro 15 giorni dalla
notifica dell’invito. In questa situazione, eventuali
ulteriori interrogazioni del sistema saranno “congelate”,
per un periodo non superiore a 30 giorni dalla data
dell’interrogazione che ha originato il blocco.
Se la regolarizzazione non avviene, l’esito negativo viene
comunicato a chi ha effettuato l’interrogazione, con
indicazione degli importi oggetto dell’irregolarità.
Il decreto, confermando in larga parte l’impianto vigente,
precisa che la regolarità è comunque rilasciata in presenza
di queste ipotesi: rateizzazioni concesse dagli enti
coinvolti ovvero dagli agenti della riscossione; sospensione
dei pagamenti in forza di disposizioni legislative ovvero
sospensione della cartella di pagamento o dell’avviso di
addebito a seguito di ricorso giudiziario; crediti in fase
amministrava oggetto di compensazione (purché verificati);
crediti in fase amministrativa in pendenza di contenzioso
amministrativo o giudiziale, rispettivamente fino alla
decisione che respinge il ricorso o fino al passaggio in
giudicato della sentenza.
Inoltre non genera l’irregolarità lo scostamento non grave
tra le somme dovute e quelle versate (nella misura massima
di 150 euro, compresi eventuali accessori di legge, con
riferimento a ciascuna gestione).
Da notare come l’articolo 5 del decreto abbia recepito
l’orientamento di prassi secondo il quale il Durc -nelle
ipotesi di concordato preventivo con continuità
dell’attività aziendale- debba essere rilasciato già a
partire dalla pubblicazione della domanda di concordato nel
registro delle imprese, se il piano contempla l’integrale
assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali
contratti prima dell’attivazione della procedura
concorsuale. In queste fattispecie l’impresa dovrà comunque
essere regolare con riferimento agli obblighi contributivi
correnti.
Infine merita segnalare come resti confermato l’obbligo in
capo all’interessato di autocertificare alla Dtl
l’inesistenza a proprio carico di provvedimenti
amministrativi o giurisdizionali definitivi in ordine alla
commissioni delle violazioni indicate all’allegato A del
decreto attuativo stesso.
Se la verifica di regolarità ha esito positivo, in tempo
reale viene generato un documento in formato “pdf” non
modificabile recante i dati identificativi del soggetto,
l’iscrizione all’Inps, all’Inail e alla Cassa edile (ove
prevista), la dichiarazione di regolarità, il numero
identificativo, la data di effettuazione della verifica e la
scadenza del Durc (che viene fissata, in via universale, in
120 giorni) (articolo Il Sole 24 Ore del 04.06.2015). |
APPALTI:
Mini-enti, acquisti liberi. Sotto 40 mila euro
niente centralizzazione. Lo prevede
la bozza di dl ormai in dirittura in consiglio dei ministri.
Mano libera ai piccoli comuni sugli acquisti per importi
inferiori a 40.000 euro. C'è anche questo nel menù del
decreto «enti locali», che dovrebbe essere emanato nei
prossimi giorni dal consiglio del ministri, dopo una lunga e
tribolata gestazione.
Nelle ultime bozze del provvedimento, infatti, è stato
inserito un correttivo all'art. 23-ter del dl 90/2014. Tale
disposizione ha riscritto la tempistica attuativa dell'art.
33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici (dlgs
163/2006), il quale, a sua volta, impone ai comuni non
capoluogo di provincia di avvalersi per i propri acquisti di
una centrale unica di committenza da istituire all'interno
delle unioni o mediante accordo consortile, ovvero di un
soggetto aggregatore ovvero ancora delle province. In
alternativa, gli stessi comuni possono acquisire beni e
servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto
gestiti da Consip o da altro soggetto aggregatore di
riferimento.
Tale obbligo, più volte rinviato, dovrebbe scattare dal
prossimo 1° settembre, sia per i servizi e le forniture, che
per i lavori. Esso, inoltre, è rafforzato dal divieto
imposto all'Anac di rilasciare il Codice identificativo gara
(Cig) ai comuni inadempienti, di fatto bloccando le gare «fuori
legge». L'unica deroga al momento prevista riguarda gli
acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a
40.000 euro, per i quali è consentito di procedere
autonomamente, ma ai soli comuni con popolazione superiore a
10.000 abitanti. Ebbene, il dl in arrivo dovrebbe cancellare
questa limitazione demografica, estendendo la deroga anche
ai comuni di minori dimensioni.
In origine, l'obbligo di centralizzare gli acquisti era
imposto ai soli comuni con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti. Ma era sorto il dubbio se permanesse in capo al
comune la competenza per lavori, servizi e forniture
realizzati mediante acquisizioni in economia (art. 125 del
codice dei contratti), cioè mediante cottimo fiduciario o
amministrazione diretta, trattandosi di procedure che non
richiedono il previo esperimento di una «gara» tra
potenziali aggiudicatori.
Alcune sezioni regionali della Corte dei conti (Piemonte,
parere n. 271/2012, Lombardia, parere n. 165/2013) avevano
escluso l'obbligo di avvalersi della centrale unica sia per
l'amministrazione diretta che per il cottimo fiduciario
semplificato, ammesso solo per importi inferiori a 40.000
euro. Tale orientamento era stato infine recepito dalla l.
147/2013, ma le modifiche successive lo hanno limitato ai
soli comuni medio-grandi.
Ora tale possibilità potrebbe essere nuovamente concessa ai
mini-enti, come da chiesto richiesto dalle relative
associazioni rappresentative e sollecitato anche da numerosi
esponenti politici, preoccupati di una possibile espulsione
dal mercato dei piccoli fornitori
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti assimilati agli urbani. L'impresa
nell'albo gestori.
Obbligo di iscrizione all'albo gestori ambientali per
l'impresa che intende trasportare nei centri di raccolta i
rifiuti speciali assimilati a quelli urbani prodotti dalla
propria attività. L'art. 212, 8 comma, del decreto
legislativo 03.04.2006 n. 152, non opera alcuna distinzione
tra i rifiuti speciali e i rifiuti speciali assimilati ai
rifiuti urbani e non prevede deroghe all'obbligo di
iscrizione all'albo gestori ambientali per il trasporto di
questi ultimi effettuato dal produttore iniziale.
Queste le istruzioni contenute nella
nota
29.05.2015 n. 437 di prot.
dell'albo nazionale gestori ambientali.
L'iscrizione all'albo nazionale dei gestori ambientali è
requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e
trasporto dei rifiuti e costituisce titolo per l'esercizio
di tali attività (art. 210, commi 5 e 6, dlgs n. 152 del
2006). La sospensione dell'iscrizione comporta il venir
meno, per tutto il periodo della durata, dell'efficacia del
titolo necessario per poter esercitare le attività per le
quali l'impresa è stata iscritta.
Sicché lo svolgimento «medio tempore» dell'attività
(in questo caso) di trasporto di rifiuti deve ritenersi
effettuato in mancanza di autorizzazione, dovendosi aver
riguardo, a tal fine, non alla mancanza fisica
dell'iscrizione, bensì agli effetti autorizzatori connessi
all'iscrizione, sospesi (e dunque mancanti) per tutta la
durata del relativo provvedimento.
La procedura di iscrizione ordinaria riguarda i soggetti di
cui all'articolo 212, comma 5, del dlgs 152/2006. Parliamo
di imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto
rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni
contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei
rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi.
La procedura prevede la presentazione della domanda
d'iscrizione alla sezione regionale o provinciale nel cui
territorio è sita la sede legale dell'impresa
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Durc online pronto al debutto. Dal 1° luglio
verifica in tempo reale della regolarità.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che
fissa le nuove regole di rilascio e validità.
Conto alla rovescia per il Durc online. A partire dal 1°
luglio si potrà verificare in tempo reale se un'impresa o un
lavoratore autonomo è in regola con i contributi e gli
adempimenti nei confronti dell'Inps, dell'Inail e delle
casse edili (quest'ultima soltanto per le aziende
dell'edilizia), inserendo semplicemente il codice fiscale
del soggetto da controllare nella procedura online. In caso
d'esito positivo, viene emesso un documento in formato «pdf»
non modificabile: è il nuovo Durc che ha validità di 120
giorni (anche per i lavori privati dell'edilizia).
A fissare le nuove regole è il dm 30 gennaio pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 di ieri, che entrerà in
vigore tra 30 giorni.
Verifiche online.
La verifica della regolarità contributiva, stabilisce il
decreto, si potrà fare online, in tempo reale, nei confronti
dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi per i quali è
richiesto il possesso del Documento unico di regolarità
contributiva (Durc).
Praticamente, la verifica si farà accedendo ad un'unica
procedura online (tra Inps, Inail e casse edile), indicando
soltanto il codice fiscale del soggetto da controllare.
L'accesso alla verifica (ed eventualmente al Durc se già
formato) sarà possibile tramite gli appositi link presenti
nei siti internet degli istituti interessati (Inps, Inail e
casse edili).
Il Durc online.
Se la verifica dà come esito la regolarità contributiva del
soggetto controllato, la procedura telematica genera un
documento in formato «pdf» non modificabile, con i seguenti
contenuti minimi:
a) la denominazione o ragione sociale, la sede legale e il
codice fiscale del soggetto verificato;
b) l'iscrizione all'Inps, all'Inail e, ove previsto, alle
casse edili;
c) la dichiarazione di regolarità;
d) il numero identificativo, la data d'effettuazione della
verifica e quella di scadenza di validità del documento.
Validità di 120 giorni.
Il decreto stabilisce che il nuovo Durc ha validità di 120
giorni dalla data di effettuazione della verifica, senza
precisazioni circa l'ambito di applicazione. In tal modo,
perciò, deve intendersi superata la distinzione oggi
esistente: la validità è per tutte le finalità di utilizzo
del Durc, inclusi i lavori privati dell'edilizia per i quali
oggi è di 90 giorni.
I requisiti di regolarità.
La verifica della regolarità in tempo reale, stabilisce
ancora il decreto, riguarda i pagamenti dovuti dall'impresa
in relazione ai lavoratori subordinati e a quelli impiegati
con contratto di collaborazione coordinata e continuativa,
nonché i pagamenti dovuti dai lavoratori autonomi, scaduti
fino all'ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello
in cui è fatta la verifica, a patto che sia scaduto anche il
termine di presentazione delle relative denunce retributive.
In alcuni casi, poi, è previsto che la regolarità sussista
comunque anche in presenza di parziali scoperture (tra
l'altro in presenza di rateizzazioni concesse dall'Inps,
dall'Inail o dalle casse edili ovvero dagli agenti di
riscossione; sospensione dei pagamenti disposti dalla legge
ecc.).
Infine, la regolarità sussiste in presenza di uno
scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate,
con riferimento a ciascun Istituto previdenziale e a
ciascuna cassa edile, ossia se il predetto scostamento
risulti pari o inferiore all'importo di 150 euro inclusi gli
eventuali accessori di legge
(articolo ItaliaOggi del 02.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Visite per gravi patologie senza la trattenuta
Brunetta.
Le assenze per visite specialistiche collegate alla cura di
gravi patologie non sono soggette alla «trattenuta
Brunetta». E non rientrano nemmeno nel periodo di comporto.
Lo ha spiegato l'ufficio scolastico regionale per l'Umbria
con la
nota 21.05.2015 n. 6587 di prot..
La nota vincola solo le istituzioni scolastiche umbre. Ma si
tratta comunque di un parere autorevole, che può essere
utile agli addetti ai lavori su tutto il territorio
nazionale.
Di recente, peraltro, il Tar ha annullato la circolare della
funzione pubblica che poneva restrizioni alla fruizione
delle assenze per malattia in caso di visite specialistiche
(si veda Italia Oggi del 12.05.2015). E il ministero
dell'istruzione si è conformato alle direttive dei giudici
amministrativi con una nota emanata il 6 maggio scorso
(7457).
Il Miur ha ricordato, inoltre, che la normativa generale che
regola l'equiparazione delle assenze per viste
specialistiche ad assenze per malattia prevede un
aggravamento degli oneri di giustificazione: non basta un
mero certificato medico, ma è necessaria anche
l'attestazione dello specialista.
L'amministrazione centrale, però, non ha affrontato il
delicato nodo delle assenze per viste specialistiche
collegate alle gravi patologie. Una materia per la quale
l'ordinamento prevede un regime di particolari tutele.
Tant'è che le assenze, in questo caso, non solo non sono
soggette alla trattenuta introdotta dal decreto Brunetta, ma
non rientrano nemmeno nel calcolo del periodo di comporto,
cioè nel numero massimo di assenze per malattia, superato il
quale, è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro.
L'intervento interpretativo dell'ufficio scolastico
dell'Umbria riempie questo vuoto. Facendo riferimento
all'articolo 17, comma 9, del vigente contratto di lavoro,
la direzione regionale ha spiegato che: «Considerato che
il suddetto articolo parla di conseguenze certificate delle
terapie, in detta dizione deve farsi rientrare qualsiasi
effetto derivante dalle stesse, facendosi ricomprendere
anche le eventuali visite specialistiche che si ritengano
necessarie ai fini della corretta effettuazione della
terapia»
(articolo ItaliaOggi del 02.06.2015). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: In
Gazzetta il Dm per il Durc online.
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta ieri,
del decreto del ministero del Lavoro 30.01.2015, è
confermata l’entrata in vigore il 1° luglio del Durc online.
L’atteso passaggio dall’attuale versione a quella evoluta
era stato annunciato dal ministro del Lavoro, Giuliano
Poletti, nel corso di una conferenza stampa il 21 maggio (si
veda il Sole 24 Ore del 22 maggio).
Il documento unico di regolarità contributiva è stato
previsto dal decreto legge 34/2014 e il relativo decreto
ministeriale di attuazione (quello pubblicato ieri) avrebbe
dovuto essere emanato entro il 20 maggio dell’anno scorso.
La nuova procedura, come sottolineato dal ministero del
Lavoro, comporterà vantaggi in termini di tempo e di costi.
Attualmente per ottenere un documento unico di regolarità
contributiva un’impresa in regola può dover attendere anche
un mese. In futuro, invece, la certificazione sarà emessa in
tempo reale a meno che si riscontrino delle irregolarità. In
tal caso le posizioni da sanare saranno comunicate
all’azienda interessata entro 72 ore.
Sempre il ministero ha calcolato che con la nuova procedura
le pubbliche amministrazioni risparmieranno oltre 80 milioni
di euro all’anno, importo determinato dal costo di 16 euro
per un’ora di lavoro di un dipendente moltiplicato per i 5,2
milioni di Durc rilasciati ogni anno. Sul fronte delle
imprese, invece, il risparmio è stato stimato in oltre 25
milioni di euro.
Altra conseguenza positiva del Durc online è costituita dal
fatto che mentre oggi è la singola azienda che deve
richiedere il certificato e presentarlo poi al soggetto che
lo richiede, in futuro potrà essere quest’ultimo a ottenerlo
direttamente. La messa a punto del Durc online ha reso
necessario aggiornare e mettere in comunicazione le banche
dati di Inps, Inail e Casse edili (per le imprese che
operano nell’edilizia).
Un processo non semplice, anche perché finora, spesso, le
informazioni in possesso degli istituti non erano aggiornate
e quindi poteva accadere che un’azienda, per sbaglio,
risultasse irregolare (articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per le dipendenti della Pa scalino di sei anni.
Oltre la riforma Fornero. L’incremento dei
minimi per accedere alla pensione è conseguenza di diversi
provvedimenti adottati dal 2004 in poi.
Le più penalizzate sono le lavoratrici
del pubblico impiego, per le quali l’età minima necessaria
per il pensionamento, tra il 2010 e il 2015, è aumentata di
sei anni. Il passaggio dalla pensione di anzianità a quella
anticipata, invece, ha comportato un incremento, tra il 2007
e il 2012, di sette anni di contributi e cinque di età (per
non subire penalizzazioni economiche). Le modifiche minori
riguardano l’assegno di vecchiaia per gli uomini, dipendenti
o autonomi, il cui requisito anagrafico negli ultimi
quindici anni è salito solo di 15 mesi.
Sono questi gli effetti principali, in termini di requisiti
minimi, delle riforme previdenziali effettuate negli ultimi
undici anni, in cui si contano quelle a firma Maroni (2004),
Prodi (2007), il decreto legge 78/2009, la “manovra
estiva Sacconi” del 2010 e quella del 2011. Già, perché
anche se buona parte dei lavoratori oggi maledice la riforma
Monti-Fornero di fine 2011, l’intervento sui requisiti è
stato effettuato in più anni con provvedimenti successivi.
Di certo la più recente revisione straordinaria ha stravolto
il futuro di una platea di lavoratori non indifferente. Il
superamento della pensione di anzianità (a quel tempo
raggiungibile con 60 anni di età, 35 di contributi e una
quota di 96) e l’istituzione della pensione anticipata (42 o
41 anni di contributi più un mese) ha significato per molti
attendere l’età prevista per il conseguimento della pensione
di vecchiaia.
Salvo i casi di coloro che hanno iniziato a lavorare
stabilmente prima dei 24 anni, o che dopo la laurea hanno
trovato immediatamente un impiego, la pensione anticipata
rischia di essere posticipata rispetto alla vecchiaia e
quindi un traguardo impossibile da raggiungere. Il
differimento maggiore lo hanno pagato i lavoratori e le
lavoratrici nate nel 1952 che, anziché accedere alla
pensione nel 2012, rischiano di arrivare al traguardo non
prima del 2018.
Il salto verso l’alto del requisito anagrafico che ha
penalizzato le dipendenti del pubblico impiego, invece,
dipende più dalla riforma del 2010 che dalla Monti-Fornero.
Fino al 2009 per queste lavoratrici erano sufficienti 60
anni. Nell’estate di sei anni fa, però, il requisito venne
portato a 65 anni. Di conseguenza le donne nate nel 1961,
con ameno 20 anni di contributi, hanno avuto l’illusione,
fino al 2010, di poter accedere nel 2013 alla vecchiaia, ma
così non sarà: infatti per effetto di quella manovra e della
Monti-Fornero ora dovranno attendere il 2017-2018, quando
avranno il minimo di 66 anni e 7 mesi.
All’estremo opposto, pochi cambiamenti riguardano la
pensione di vecchiaia ordinaria per gli uomini, anche se,
sul piano concreto, la penalizzazione si verifica perché non
c’è più la pensione di anzianità (salvo che per alcune
categorie) che in origine richiedeva solo 57 anni di età e
35 di contributi per poi salire a 60 e 35 nel 2011. Preso
atto di ciò, i minimi della vecchiaia sono passati dai 65
anni di età con 20 di contributi del 2001 agli attuali 66
anni e 3 mesi.
In prospettiva, invece, saranno le dipendenti del settore
privato a dover fare i conti con l’incremento più
consistente dei requisiti. A seguito dell’adeguamento alla
speranza di vita che si applicherà nel triennio 2016-2018
(+4 mesi), ma anche di quanto già previsto dalle manovre
estive del 2010 e del 2011, il minimo per il trattamento di
vecchiaia passerà dai 63 anni e 9 mesi attuali ai 66 e 7
mesi del 2018. Uno scalino di 34 mesi che non ha uguali per
le altre categorie di lavoratori: per le autonome sarà di 22
mesi, per le dipendenti del pubblico impiego (che, come
visto, “hanno già dato”) e per tutti gli uomini sarà
di 4 mesi.
Il 2018 sarà l’anno dell’equiparazione dei requisiti per la
vecchiaia di tutte le categorie. Salvo ulteriori interventi,
dal 2019 ogni due anni, si applicherà solo l’adeguamento
alla speranza di vita (articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015). |
CONDOMINIO: I
rischi del neo-condòmino. Chi acquista deve controllare il
regolamento e gli eventuali debiti pregressi.
Compravendita. Nelle regole interne può essere previsto che
la solidarietà con il venditore si estenda oltre i due anni.
Chi subentra in
uno stabile come nuovo condòmino dovrebbe seguire, per
evitare spiacevoli sorprese sempre possibili, alcune regole
fondamentali.
Innanzitutto, l’accertamento dell’eventuale presenza di
norme del regolamento di condominio che potrebbero
penalizzarlo o limitarlo nei suoi diritti soggettivi, ma
anche l’eventuale “eredità” che il suo venditore
potrebbe lasciargli a causa del mancato pagamento di oneri
condominiali.
Meglio poi che il nuovo condòmino abbia ben chiaro, qualora
vi siano lavori straordinari (magari anche molto ingenti) in
corso, quali spese toccheranno a lui e quali al suo dante
causa.
Il regolamento
La prima cosa da fare per il neo condòmino sarà pertanto
farsi dare copia del regolamento, per poi chiarire se si
tratti o meno di un regolamento contrattuale: in questo
secondo caso farà bene a consultarlo con attenzione, dato
che potrebbero esservi regole a lui opponibili (una volta
che lo accetti divenendo a sua volta condòmino), per esempio
su determinate attività commerciali che non si possono
svolgere in condominio, o che vietino (cosa ancora possibile
se decisa dall’unanimità dei condomini, nonostante la legge
220/2012 abbia introdotto una nuova norma sul punto a favore
degli amanti degli animali) di detenere animali in
condominio.
Il subentrante particolarmente attento, inoltre, dovrebbe
cercare di capire, magari con l’aiuto dell’amministratore
dato che non sempre si tratta di cosa così scontata, se
alcuni parti dello stabile siano di natura condominiale o
appartengono in via esclusiva ad alcuni condòmini. Il
principio cardine per distinguere fra parti private e parti
comuni, è quello dell’utilizzo che ne viene fatto o da un
solo condòmino (e in questo caso si tratterà di proprietà
esclusiva), o (anche solo ipoteticamente) da più o
addirittura da tutti i condomini.
A questo tipo di situazione dovrà fare particolarmente caso
chi acquisti un vano abitativo con annesso sottotetto, dato
che spesso si tratta di spazi condominiali di difficile
attribuzione. Il criterio, in sostanza, se l’articolo 1117
del Codice civile o il regolamento di condomino non siano
chiari sul punto, è verificare se la parte contesa sia al
servizio (anche solo virtuale) o meno di un unico condomino.
I debiti
L'articolo 63 delle Disposizioni di attuazione del Codice
civile prevedono che «chi subentra nei diritti di un
condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento
di contributi relativi all'anno in corso e a quello
precedente».
Come minimo, pertanto, il condòmino dovrà accertare quali
somme relative alle spese condominiali del biennio predetto
siano state eventualmente tralasciate dal venditore: per
fare ciò gli dovrebbe essere sufficiente interpellare
l’amministratore o farsi consegnare i vari rendiconti.
È possibile, tuttavia, che il condominio abbia deciso di
tutelarsi (cosa riconosciuta valida da parte di diversi
tribunali) inserendo nel proprio regolamento una norma che
imponga al condòmino entrante di farsi carico, anche se in
solido con il venditore, di tutti i debiti lasciati (e
quindi non solo quelli del biennio) dal predecessore: cosa
che può essere pericolosa specialmente per chi abbia
acquistato, magari anche tramite assegnazione da una
esecuzione immobiliare, un immobile per una cifra divenuta
immediatamente non congrua data la pesante eredità di debiti
lasciata dal suo predecessore, di cui dovrà necessariamente
farsi carico e che non recupererà mai.
Spese straordinarie
Per quanto riguarda le spese straordinarie, infine, la
Cassazione ha chiarito che, in base alla natura “accertativa”
delle delibere assembleari, queste divengono esigibili non
quando l’assemblea abbia genericamente dichiarato che un
dato lavoro dovrà essere eseguito, ma quando successivamente
con una nuova delibera si darà effettivamente incarico ad
una ditta di procedere in tal senso. Chi compra, pertanto,
dovrà -anche da questo punto di vista con accortezza-
consultare almeno le ultime delibere, onde evitare di dover
a breve trovarsi a far fronte a spese straordinarie anche
ingenti.
È sicuramente sintomo di professionalità che
l’amministratore che accolga il neo condòmino gli fornisca i
dati importanti del condominio, quali: la presenza di norme
regolamentari sulle parti private, la situazione debitoria
del venditore, la previsione a breve o meno di lavori
straordinari già deliberati o da deliberare, l’esistenza di
eventuali cause.
---------------
LE AVVERTENZE
01 NEL REGOLAMENTO
Il regolamento di condominio è da consultare con attenzione:
potrebbe contenere norme relative alle parti private o ai
diritti soggettivi, ad esempio, vietando lo svolgimento di
attività commerciali in condominio o la presenza di animali
domestici
02 VECCHI DEBITI
Altro aspetto fondamentale è la verifica dei debiti del
condòmino che vende: chi subentra per legge è responsabile
in solido dei debiti condominiali lasciati dal suo
predecessore relativi all’anno in corso e a quello
precedente.
È tuttavia possibile che il regolamento condominiale ampli
tali termini prevedendo che il nuovo condòmino risponda in
generale del mancato pagamento delle spese condominiali da
parte del suo predecessore senza limiti di tempo
03 LAVORI IMPREVISTI
Sul rischio di trovare spese straordinarie di cui non si
conosceva l’esistenza, occorrerà consultare almeno le ultime
delibere assembleari per verificare se è previsto lo
svolgimento di spese o interventi straordinari sul
condominio.
Tali spese divengono esigibili non in seguito ad una
delibera generica che le approvi, ma solo quando viene
effettivamente designata la ditta e dato incarico
dall’assemblea all'amministratore di concludere il contratto
04 L'AMMINISTRATORE
È sicuramente sintomo di professionalità che
l’amministratore che accolga il neo condòmino gli fornisca i
dati importanti del condominio, quali: la presenza di norme
regolamentari sulle parti private, la situazione debitoria
del venditore, la previsione a breve o meno di lavori
straordinari già deliberati o da deliberare, l’esistenza di
eventuali cause
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, imprese sul chi va là. Dall'1/6 nuovi obblighi (e
rischi) per chi gestisce gli scarti.
Le regole Ue di classificazione impongono maggiore allerta
per controlli e sanzioni.
Dal 01.06.2015 detentori e gestori di rifiuti sono
chiamati a osservare le nuove regole di matrice comunitaria
sulla classificazione dei rifiuti, con la necessità di
effettuare un controllo anche su documentazione di
tracciamento ed autorizzazioni ambientali già in essere al
fine di non incorrere nelle relative sanzioni.
Il tutto
nell'ottica che già dal precedente 29.05.2015, in virtù
dell'entrata in vigore della nuova legge 68/2015 sugli
eco-delitti, inquinamento e disastro ambientale provocati in
dispregio delle norme di settore potrà costare la reclusione
fino a 20 anni.
La nuova classificazione dei rifiuti. Dal 1° giugno i
rifiuti devono essere riclassificati in base alle norme
previste a monte dalla decisione 2014/995/Ue e dal
regolamento n. 1357/2014, provvedimenti direttamente
applicabili sul territorio nazionale e recanti
rispettivamente il neo Elenco europeo dei rifiuti ed i
rinnovati criteri di attribuzione delle caratteristiche di
pericolo ai residui.
Al fine di allineare alle nuove prescrizioni Ue le norme
interne, il Minambiente ha tuttavia previsto un decreto
correttivo delle analoghe disposizioni contenute
rispettivamente negli allegati D e I al Titolo I della Parte
IV del dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale).
Nel rinnovato Elenco dei rifiuti previsto dalla decisione
2014/995/Ue (di modifica della precedente decisione
2000/532/Ce) fanno il loro esordio le nuove voci «010310*»
(fanghi da attività estrattive), «160307*» e «190308*»
(mercurio) e la riformulazione di quelle rubricate come
«010309» e «190304*».
Le nuove regole sull'attribuzione delle caratteristiche di
pericolo ai rifiuti recate dal regolamento Ue n. 1357/2014
prevedono invece la riformulazione delle relative classi
generali (che passano da «H» ad «Hp»), la revisione di
alcune categorie e valori limite, la rimodulazione degli
specifici criteri per l'attribuzione delle caratteristiche
di rischio.
L'inosservanza delle nuove norme farà scattare le sanzioni
previste dall'articolo 258 del dlgs 152/2006 (che punisce le
inesatte o false informazioni sulla natura dei rifiuti
attestate nei documenti di tracciamento) ed, eventualmente,
quelle ex articolo 256 dello stesso Codice ambientale
(sull'attività di gestione di rifiuti non autorizzata, ove
integrata).
Un upgrade è già stato in anticipo predisposto per le
operazioni da effettuare in ambiente Sistri: sebbene le
infrazioni delle regole previste dal nuovo sistema di
tracciamento telematico sui rifiuti siano sanzionabili solo
dal 01.01.2016, già dallo scorso 25 maggio il sistema
informatico è stato aggiornato per permettere la
riclassificazione dei residui che risultano essere
registrati «in giacenza» dallo stesso software.
I nuovi delitti ambientali. Ad aumentare la criticità delle
nuove regole sulla classificazione dei rifiuti è, come
accennato, l'efficacia dallo scorso 29 maggio delle nuove
norme in materia di «Delitti contro l'ambiente» previste
dalla legge 22.05.2015, n. 68, pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 122 del 28 maggio ed entrata in vigore il
giorno successivo.
La nuova legge 68/2015 introduce infatti direttamente nel
Codice penale le nuove fattispecie di inquinamento
ambientale, morte o lesioni come conseguenza di inquinamento
ambientale, disastro ambientale, traffico o abbandono di
materiale altamente radioattivo, omessa bonifica ed
impedimento di controlli.
E a integrare, in particolare, la condotta dei nuovi delitti
di inquinamento e disastro sarà, nella logica del rinnovato
Codice penale (che li persegue sia a titolo di dolo che di
colpa), la compromissione dell'eco-sistema provocata
«abusivamente», dunque proprio in mancanza o in dispregio
delle autorizzazioni ambientali necessarie ad operare, anche
nel campo della gestione dei rifiuti.
---------------
Autorizzazioni necessarie anche per avviare un oggetto a
recupero.
Integra gli estremi del «disfarsi» di un oggetto, che
diventa di conseguenza giuridicamente un «rifiuto», non solo
l'azione puramente dismissiva del bene ma anche l'intenzione
di avviarlo ad un processo di recupero o smaltimento. Con la
conseguenza che qualora la seconda delle due condotte non
sia accompagnata, anche nelle fasi (come il suo trasporto o
la sua commercializzazione) che precedono il trattamento cui
il residuo è destinato da specifica autorizzazione
ambientale il relativo autore commette il reato di gestione
illecita di rifiuti.
A ricordare l'ampiezza del concetto del «disfarsi» previsto
dal dlgs 152/2006 (e, dunque, quella del reato di gestione
illecita di rifiuti) è la recente
sentenza
15.04.2015 n. 15447 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale.
Il caso. La questione sottesa alla pronuncia del giudice di
legittimità riguarda il trasporto tramite bagaglio personale
di scarti di lavorazione odontoiatrica e protesi dentarie da
parte di un passeggero di un aereo di linea nazionale,
trasporto risultante da un controllo effettuato
nell'aeroporto di destinazione privo di documentazione che
ne giustificasse detenzione e movimentazione ai sensi del
Codice ambientale.
Contestato al trasportatore, risultante esercente attività
d'impresa connessa al commercio dei materiali in parola, il
reato di gestione illecita di rifiuti ex articolo 256, comma
1, del dlgs 152/2006, la relativa difesa eccepiva
l'illegittima applicazione al caso di specie della
disciplina propria dei rifiuti, sia per l'avere gli oggetti
in parola un valore economico, sia per la conseguente
mancanza di una volontà di disfarsene, essendo gli stessi
(ritirati presso studi dentistici e odontoiatrici) destinati
invece ad essere reimmessi sul mercato.
La pronuncia della Corte. La Cassazione rigetta entrambe le
eccezioni difensorie, ritenendo invece gli oggetti in parola
rientranti nel novero dei rifiuti, con conseguente
applicazione del relativo regime. Sotto il primo punto di
vista, secondo il giudice non vale a escluderne la natura di
rifiuti il solo fatto che gli scarti abbiano utilità dal
punto del mercato poiché la stessa norma incriminatrice ex
articolo 256, comma 1, del dlgs 152/2006 sanziona penalmente
(oltre a raccolta, trasporto, recupero e smaltimento) anche
il commercio di rifiuti effettuato in mancanza della
prescritta autorizzazione.
Quanto alla natura di rifiuto degli stessi oggetti, il
giudice ne individua la sussistenza sia sotto l'aspetto
oggettivo che quello soggettivo. Detti scarti, ricorda la
Cassazione, sono oggettivamente collocati tra i rifiuti
derivanti da attività sanitaria ai sensi degli articoli 184,
comma 3, lettera h), e 227 del Codice ambientale, come poi
specificati (per espresso richiamo effettuatone dallo stesso dlgs 152/2006) nell'allegato I del dpr 254/2003 (rifiuti da
gabinetti dentistici e interventi odontotecnici).
Sotto il profilo soggettivo, appare suggerire lo stesso
giudice, la stessa volontà di reimmissione sul mercato degli
stessi oggetti per via del valore dei metalli nobili in essi
contenuti è foriera di quella del loro necessario
trattamento (vera e propria attività di gestione dei
rifiuti) finalizzato ad estrarne le parti preziose, non
essendo essi riutilizzabili tal quali (cosa che ne esclude
anche l'inquadramento tra i sottoprodotti).
È sotto questa ottica, ossia della prospettiva della
destinazione a successivo trattamento, che deve
evidentemente ritenersi integrata la volontà del «disfarsi»
perno attorno al quale ruota la nozione di rifiuto ex
articolo 183, comma 1, lettera a), dello stesso Codice
ambientale), volontà (come sottolinea la sentenza)
riconducibile fin all'originario detentore/produttore dei
residui che poi ha provveduto a consegnarli all'imputato
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti pericolosi, registri con doppio binario.
Ambiente. Da domani le nuove regole: come gestire la fase
transitoria.
Scattano,
domani, lunedì 01.06.2015, le nuove regole previste dalla
Ue per la classificazione dei rifiuti. Si tratta della
Decisione 955/2014/Ce che modifica l’elenco europeo dei
rifiuti e la sua introduzione e del Regolamento (Ue)
1357/2014 che contiene le nuove indicazioni europee per
attribuire ai rifiuti le caratteristiche di pericolo;
inoltre, vengono sostituite le precedenti caratteristiche da
H1 a H15 con le nuove da HP1 a HP15, acronimo di “Hazardous
Properties”. Quindi, da domani gli allegati D e I alla parte
IV del Codice ambientale saranno sostituiti da queste norme
comunitarie (si veda Il Sole 24 Ore del 23 maggio).
A differenza di quanto previsto dalla legge 116/2014, per
l’attribuzione della pericolosità, ora la norma si concentra
sulla ricerca delle “sostanze pericolose pertinenti” e non
più sul punitivo e inutile parametro dei “composti peggiori”
(ad esclusione dell’HP 9 – infettivo che ha riferimenti
diversi). Se un rifiuto figura nel nuovo Elenco europeo come
pericoloso “assoluto” (quindi, senza “voci specchio”, cioè
rifiuti a volte pericolosi e a volte no) vanno comunque
verificate le caratteristiche concrete di pericolo.
Era atteso un Dm che, pur non recependo le regole
comunitarie direttamente applicabili, sostituisse
formalmente gli allegati D e I alla parte quarta del Codice
ambientale con le nuove norme. Ma lo schema di Dm prevedeva
qualcosa in più e il Consiglio di Stato, con parere n. 1480
del 14 maggio, ha corretto la rotta. I giudici di Palazzo
Spada hanno ricordato la natura ricognitiva e non innovativa
del Dm. Infatti, dopo la legge 116/2014, che ha
“rilegificato” la materia, il Governo non ha più il potere
di modificare con Dm gli allegati al Codice ambientale.
Pertanto, l’HP 14–ecotossico va attribuita in base
all’allegato VI alla direttiva 67/548/Cee e non in base alle
norme Adr come lo schema di decreto prefigurava.
La direttiva 67/548/Cee sarà abrogata da domani ma il
regolamento (Ue) 1342/2014 fa un rinvio statico al suo
allegato VI; quindi, l’abrogazione della direttiva non
incide su tale allegato. Il nuovo metodo di ricerca dell’HP
14 rappresenta la principale ragione di una possibile
trasformazione di alcuni rifiuti in pericolosi.
Di qui, alcuni problemi pratici. Ad esempio, autorizzazioni
non in linea con la nuova classificazione. Si ritiene che,
in attesa dell’aggiornamento, come consigliato anche da
Confindustria nella sua nota di aggiornamento del 28 maggio,
sarà opportuno mantenere un “doppio binario” di H e HP per
rendere evidente la corretta gestione. Ancora, rifiuti
prodotti o gestiti prima di domani e caricati sui registri
con le vecchie H.
Si ritiene che se pericolosi assoluti,
oppure “voce specchio” che resta pericolosa, sul registro
sarà opportuno annotare anche le nuove HP. Per la “voce
specchio” diventata pericolosa, saranno annotati il nuovo Cer e la nuova HP e il rifiuto sarà gestito da soggetti
autorizzati per i pericolosi. Lo stesso, con le debite
differenze, se la “voce specchio” diventa non pericolosa.
L’annotazione della nuova HP sarà salvifica anche per i
formulari che accompagnano i rifiuti prodotti prima di
domani ma gestiti dopo tale data.
L’annotazione sarà
fondamentale anche se è partito un rifiuto pericoloso che
diventa non pericoloso. Il doppio binario H-HP non potrà
essere usato per il Sistri perché il sistema accetta solo le
HP (articolo Il Sole 24 Ore del
31.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
classificazione dei rifiuti verso la soluzione.
Forse sta per arrivare a soluzione il problema, tutto
italiano, della classificazione dei rifiuti. Quelle poche
righe, contenute in extremis nella legge 116/2014, che ha
convertito il ddl Competitività e introdotto la nuova
classificazione, hanno creato, negli ultimi tre mesi,
difficoltà e costi aggiuntivi per le imprese.
La nuova
disciplina, infatti, che ha modificato la precedente ha
previsto un percorso complesso, e costoso. In che modo? I
rifiuti possono essere pericolosi, non pericolosi, «a
specchio», vale a dire «pericolosi» o «non pericolosi» a
seconda dei casi. In passato, i rifiuti «a specchio» erano
analizzati, una volta per tutte, dall'impresa e poi
classificati secondo tale valutazione anche in seguito. La
legge 106/2014, invece, ha imposto che queste analisi vengano
effettuate sempre, caso per caso, con un investimento
pesante di tempo e denaro.
È il caso dei trucioli di
falegname, che sono pericolosi solo se contengono vernici,
ma anche dei calcinacci delle imprese edili o delle
bombolette di shampoo dei parrucchieri. Complessivamente,
più di 200 mila imprese coinvolte di cui, almeno 150 mila
piccole imprese sotto i dieci dipendenti.
Che cosa sta
succedendo in queste settimane? Molte imprese hanno deciso
di definire «pericolosi» rifiuti che in realtà potrebbero
non essere tali, pur di evitare le complicazioni delle
analisi, ma accollandosi però un costo consistente. Nel
frattempo, numerosi trasportatori, non attrezzati a
movimentare rifiuti pericolosi, stanno perdendo i clienti. E
molte discariche cominciano a mandare indietro questi
rifiuti pericolosi, perché stanno rapidamente raggiungendo i
limiti di carico.
In seguito alle segnalazioni delle
associazioni di impresa, e grazie anche alle novità che
arrivano dall'Europa, sembra che il ministero dell'ambiente
si sia reso conto dei problemi e stia provvedendo a
risolverli. Tutto ciò è accaduto, è utile ricordarlo, mentre
l'Unione europea stava riscrivendo le regole in materia di
rifiuti. In particolare sono cambiati i criteri relativi
alle caratteristiche di pericolo dei rifiuti, ed è stato
modificato l'elenco europeo dei rifiuti. Queste novità
saranno direttamente esecutive a partire da lunedì 1° giugno
e non contemplano la procedura di classificazione introdotta
in Italia.
Che succederà, concretamente, nei prossimi
giorni? Appena le regole Ue saranno in vigore dovrebbero, di
fatto, essere superati i problemi emersi in questi mesi. Nel
frattempo, è opportuno che il Testo unico ambientale si
adegui a queste novità, in modo da fugare ogni dubbio
nell'applicazione delle norme, rendendo coerente il quadro
normativo nazionale con quello europeo
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Debuttano i nuovi «ecoreati». Ingresso nel Codice per cinque
fattispecie - Termini di prescrizione più lunghi.
Diritto penale. Ieri la pubblicazione in «Gazzetta
Ufficiale» della legge con le disposizioni che sono in
vigore già da oggi.
In vigore da
oggi le nuove norme sui reati ambientali. È di ieri,
infatti, l’approdo in Gazzetta (Gu 122) della legge 68/2015
che interviene sugli ecoreati. La norma introduce nel codice
penale cinque nuovi delitti e allunga i termini di
prescrizione per perseguire i delitti con meno affanno,
aumenta le pene ma concede la possibilità di “pentirsi”: con
il ravvedimento operoso è assicurato lo sconto di pena dalla
metà a due terzi. Nel testo anche l’aggravante mafiosa e la
confisca preventiva.
Nel nuovo titolo del Codice penale «delitti contro
l’ambiente» fanno ingresso: inquinamento ambientale,
disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale
radioattivo,impedimento di controllo e omessa bonifica. La
norma, inasprisce le sanzioni e coinvolge nella
responsabilità anche la persona giuridica per i reati
commessi nel suo interesse.
Il delitto di inquinamento ambientale è punito con la
reclusione da due a sei anni e con multe che vanno da 10mila
a 100mila euro, ma il suo perfezionamento richiede una
duplice condizione : l’esistenza di un danno ambientale e di
una condotta abusiva. Le aggravanti scattano se ad essere
danneggiata è un’area protetta o l’azione ha causato il
ferimento o la morte di persone.
L’elemento dell’abusivismo è presente anche nel disastro
ambientale, che può costare fino a 15 anni di reclusione.
Per parlare di disastro ambientale è necessario che si
verifichino, alternativamente, alcune condizioni che
riguardano un’alterazione senza ritorno dell’equilibrio
dell’ecosistema, la possibilità di eliminare le conseguenze
solo con mezzi particolarmente onerosi e provvedimenti
eccezionali e un’offesa all’incolumità pubblica rilevante
per il numero di persone coinvolte.
Il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo è punito
con la reclusione da due a sei anni, con relative aggravanti
in caso di danni all’ambiente o alle persone.
Si paga con il carcere, da sei mesi a tre anni, il tentativo
di depistare o compromettere le indagini mettendo off-limit
i luoghi oggetto di controllo. La legge 68 prevede anche
l’invocata aggravante dell’associazione mafiosa per i
sodalizi dediti al “business ambientale”, mentre ancora un
inasprimento di pena è previsto per i pubblici ufficiali che
entrano nel “giro”. Via libera alla confisca, compresa
quella per equivalente, applicata anche al traffico illecito
di rifiuti. Una misura però esclusa se l’imputato mette i
luoghi in sicurezza o li ripristina. Possibile anche la
confisca preventiva sui valori ingiustificati rispetto al
reddito, in caso di disastro ambientale , traffico di
rifiuti e associazione a delinquere.
Con il ravvedimento
operoso, attraverso lo sconto di pena, si punta a ottenere
la collaborazione per evitare che i reati producano
conseguenze ulteriori o per scoprire i colpevoli. Niente
sconto ma pena accessoria del divieto di contrattare con la
Pa nelle ipotesi di inquinamento ambientale, disastro,
traffico di materiale radiaottivo, impedito controllo e
traffico illecito di rifiuti.
Mano più pesante anche sulla prescrizione che si allunga in
maniera direttamente proporzionale alla gravità del reato.
Per la responsabilità degli enti ci sono le sanzioni
pecuniarie tarate sulle quote fino a un massimo di 1000 per
l’associazione mafiosa. La norma entra in vigore proprio in
vista della scadenza del 2 giugno, termine entro il quale la
Commissione Europea chiede alle regioni di scoprire le carte
sugli interventi fatti per mettersi in regola con le
discariche.
L’Italia era stata condannata dalla Corte di Giustizia
(C-333/13 e C-196/13 ) a pagare una sanzione forfettaria di
40 milioni di euro e 42,8 per ogni semestre di ritardo
nell’adeguarsi alla sentenza del 2007.
----------------
INTERVENTO -
I delitti scivolano sull’indeterminatezza.
Entra oggi in
vigore, col fragore di molti applausi e col sibilo di
qualche fischio, un nuovo sistema sanzionatorio in materia
ambientale. Cerchiamo qui di dare qualche flash sui nuovi
principali delitti inseriti nel Codice penale: inquinamento
e disastro.
Il primo punisce chi abusivamente cagiona una compromissione
o un deterioramento significativi e misurabili di acqua,
aria o di porzioni estese o significative di suolo o
sottosuolo, nonché di un ecosistema, della biodiversità,
anche agraria, della flora e della fauna. Il secondo
sanziona chi, abusivamente, cagiona un disastro ambientale
costituito, in via alternativa, dall’alterazione
dell’equilibrio di un ecosistema irreversibile, oppure la
cui eliminazione sia particolarmente onerosa o conseguibile
solo con provvedimenti eccezionali, oppure ancora
dall’offesa alla pubblica incolumità quando si tratti di un
fatto rilevante per l’estensione degli effetti lesivi o per
il numero di persone offese o esposte al pericolo.
Tali delitti, in forza della previsione dell'articolo 452-quinquies, sono puniti pure a titolo colposo.
Un primo elemento comune a entrambi è il termine
«abusivamente» che qualifica la condotta. Il significato del
riferimento non è di facile individuazione. A prima lettura
sembrerebbe limitare la rilevanza penale ai fatti commessi
senza o contro una autorizzazione. Inoltre, la presenza
dell’avverbio crea ulteriori interrogativi: sembra arduo, in
presenza della violazione di un’autorizzazione, formulare
una contestazione in forma colposa.
I due nuovi delitti soffrono altresì di scarsa
determinatezza, caratteristica non secondaria per un reato
che dovrebbe avere nella precisione dei contorni un
requisito irrinunciabile.
Nell’inquinamento, le parole
«compromissione» e «deterioramento», non essendo termini
tecnici, risultano assai poco denotativi. Chi può dire
quando davvero insorge una compromissione o un
deterioramento? L’una e l’altro, poi, debbono essere
significativi e misurabili. E se la nozione di
«significativo» non aiuta a colmare il vuoto di precisione
già segnalato, il riferimento al secondo aggettivo lascia
quasi sbalorditi. Non sembrano esistere compromissioni e
deterioramenti non misurabili. Certo, a meno di non voler
ritenere che con ciò il legislatore abbia inteso escludere
dalla punizione i fenomeni incommensurabili.
Se i reati in esame fossero compresi in una disciplina
complementare il legislatore forse avrebbe previsto delle
definizioni, ma trattandosi di normativa codicistica, si
precipita nell’indeterminatezza.
Il delitto di disastro, poi, oltre ad avere analoghi
problemi di genericità, prevede una definizione del fenomeno
i cui presupposti paiono non c’entrare con il fatto, come ad
esempio l’onerosità della eliminazione delle conseguenze o
il coinvolgimento di un elevato numero di persone.
I delitti colposi suscitano anch’essi qualche diffidenza.
Oltre alla difficoltà di contestare in tale forma una
condotta qualificata come abusiva, il comma 2 dell’articolo
452-quinquies prevede una disposizione la cui logica sfugge.
Se dalla commissione dei fatti di inquinamento e disastro
deriva il pericolo di inquinamento e disastro le pene sono
ulteriormente diminuite. Come, da un fatto di inquinamento o
disastro, possa derivare un pericolo di quello stesso e già
cagionato inquinamento o disastro, è circostanza oscura.
In conclusione: che dovessero essere inseriti nel Codice
delitti di danno e di pericolo concreto gli studiosi da anni
lo sostengono e di recente l’Europa l’ha imposto. Il
risultato, però, minato da eccessi di legislazione
simbolica, lascia scettici. Almeno quanto la dichiarazione
del ministro che ha ipotizzato di effettuare un “tagliando”
alla normativa.
Fa piacere sapere l'ovvio -il legisl atore è pronto a
modificare una normativa che non faccia buona prova di sé-
dispiace però avere la certezza che sia stato licenziato un
testo con la riserva mentale di una revisione a breve (articolo Il Sole 24 Ore del
29.05.2015). |
APPALTI: A rischio incostituzionalità i limiti di pagine ai ricorsi.
Appalti. Direttiva del Consiglio di Stato sulle dimensioni
degli atti per gli appalti.
Massimo 30
pagine, senza barare: questo è il limite di lunghezza per i
ricorsi in materia di appalti deciso dal Consiglio di Stato
con il
decreto 25.05.2015 n. 40, di prossima pubblicazione
in «Gazzetta» ufficiale. Dal mese successivo a tale
pubblicazione, per scrivere fino a 50 pagine dovrà ottenere un nulla-osta dall’organo giudicante, ad esempio per cause su
opere strategiche, o di valore superiori a 50 milioni.
La finalità è quella di snellire tempi e procedimenti, e si
collega alla possibilità di redigere sentenze brevi, di
decidere quali motivi esaminare, dando precedenza ai motivi
immediatamente esaminabili. Le pagine, sono anche definite
con specifiche grafiche (corpi e caratteri, interlinee e
margini), mentre nulla si dice sull’uso del fronte retro
(che pure ridurrebbe pesi e consumi).
Il riordino grafico
già riguardava i provvedimenti amministrativi, che possono
limitarsi ad allegare (senza trascriverli) altri
provvedimenti (articolo 3, legge 241/1990); nei bandi di
gara sono possibili limiti alle descrizioni dei beni e
servizi offerti (ad esempio cinque pagine) mentre misure di
contenimento sono operanti in Corte di Cassazione (20 pagine
più un riassunto di 3 pagine) e nella giustizia delle Corti
europee. Alcuni di questi limiti sono connessi all’uso della
telematica, (ma il limite equivale in pdf a molte centinaia
di pagine).
L’articolo 40 del decreto legge 90/2014, che consente di
imporre limiti quantitativi, sottolinea che il giudice è
tenuto ad esaminare le questioni trattate nelle pagine
consentite, e qualora manchi tale esame è possibile
impugnare la sentenza. Da ciò si desume che tutto ciò che è
scritto nelle pagine eccedenti può essere trascurato dal
giudice senza possibilità di appello. Una sanzione del
genere è stata ritenuta legittima nelle offerte in gare di
appalto (Consiglio di Stato n. 2745/2012) ma solo per
garantire l’eguale trattamento per tutti i concorrenti,
mentre nel caso della difesa giudiziale non vi è antagonismo
tra giudice e parti litiganti.
Se quindi le esigenze di speditezza fanno condividere il
limite posto dalla direttiva del Consiglio di Stato, la
sanzione dell’omessa considerazione delle pagine eccedenti
suscita rilevanti dubbi di costituzionalità. La difesa in
giudizio è garantita dall’articolo 24 della Costituzione, e
già la sentenza 345/1987 della Corte costituzionale ha
esaminato un caso analogo, sul divieto di nominare più
consulenti nel processo penale.
Nell’attesa di una verifica
di costituzionalità, gli studi cercano di correre ai ripari
togliendo dai ricorsi tutto ciò che è diversamente
documentabile: massime di giurisprudenza, descrizioni
tecniche, fotografie, relazioni giurate diventeranno
elementi esterni al ricorso e quindi non soggetti al limite
di lunghezza. Stesso incremento avranno i link (ammessi da
Tar Cagliari 91/2012) e i rinvii a Google maps o siti
qualificati (Tar Catanzaro 443/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del
29.05.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Da oggi cinque nuovi ecoreati. Pugno duro, dal disastro
ambientale all'omessa bonifica. Pubblicata ieri in Gazzetta Ufficiale la legge 68/2015 che
entra subito in vigore.
Da oggi nel nostro ordinamento entrano (di diritto) cinque
nuovi ecoreati: con la pubblicazione in G.U. n. 122 del
28/05/2015 della legge 68/2015 sarà possibile punire chi
commette disastro ambientale, inquinamento ambientale,
traffico e abbandono di materiale radioattivo, impedimento
del controllo e omessa bonifica.
Il provvedimento, varato
definitivamente dal senato pochi giorni fa (ItaliaOggi del
20/05/2015), prevede reclusione e multe severe, stabilendo
per il disastro ambientale da 5 a 15 anni di carcere, per
l'inquinamento da 2 a 6 anni (con multa da 10 mila a 100
mila euro); per entrambe le fattispecie si introducono
inasprimenti, in caso dalle azioni commesse derivino lesioni
personali, o la morte.
Laddove, poi, i reati di inquinamento e di disastro
ambientale vengano commessi per colpa, anziché dolo, le pene
vengono ridotte da un terzo a due terzi, mentre il traffico
e il rilascio nei terreni di materiale ad alta radioattività
cagionerà da 2 a 6 anni di carcere; e impedire i controlli
di luoghi avvelenati costerà da 6 mesi a 3 anni.
Il Parlamento ha introdotto, inoltre, lo «sconto» per chi
mette in sicurezza le zone inquinate: mediante il cosiddetto
«ravvedimento operoso», infatti, scatterà il
beneficio della riduzione da un terzo alla metà della pena,
e di un terzo per chi collaborerà con la magistratura, o con
le forze di polizia «nella ricostruzione del fatto,
nell'individuazione degli autori, o nella sottrazione di
risorse rilevanti per la commissione dei delitti».
E, ancora, la norma ha disposto delle aggravanti, qualora
nella contaminazione del territorio abbiano avuto un ruolo
le organizzazioni mafiose, delle cui indagini dovrà esser
avvisato il procuratore nazionale Antimafia, nonché le
Entrate
(articolo ItaliaOggi del 29.05.201). |
ENTI LOCALI:
Targhe fai-da-te per i vigili. È meglio
immatricolare il mezzo per uso generico.
Indicazioni contenute in una circolare delle
Infrastrutture del 22 maggio scorso.
La polizia locale può scegliere di immatricolare un veicolo
per uso speciale di polizia stradale anche senza applicare
sul mezzo la nuova targa personalizzata per i vigili. Nella
sostanza cambia poco a parte l'applicazione del nuovo fregio
e la necessità della patente di servizio.
Meglio allora immatricolare il mezzo per uso generico di
polizia locale che comprende anche l'attività generica di
controllo stradale.
Lo ha evidenziato implicitamente il Ministero dei Trasporti
con la
nota 22.05.2015 n. 12291 di
prot..
L'identità funzionale della polizia municipale è poco chiara e questo si
riflette anche nella disciplina corrente della gestione dei
trasporti. Con la riforma della patente a punti sono stati
infatti introdotti nell'ordinamento sia la patente di
servizio che le targhe speciali dedicate alla polizia locale
ma le finalità di questi istituti sono stati traditi dalla
pratica operativa.
Per quanto riguarda l'immatricolazione
dei veicoli della pm in particolare, la circolare è molto
chiara. I mezzi dei vigili possono essere immatricolati per
uso polizia locale oppure per impiego esclusivo di polizia
stradale, con o senza il rilascio della speciale targa di
polizia. In buona sostanza i comandi di polizia municipale a
parere del ministero dei trasporti non hanno l'obbligo di
avvalersi dello speciale sistema di targatura «essendo
rimesso al loro insindacabile apprezzamento se richiedere il
rilascio di targhe pl o targhe nazionali».
Nel caso di un
veicolo da adibire esclusivamente a compiti di polizia
locale non sussistono i presupposti per il rilascio delle
nuove targhe speciali, prosegue la circolare. In ipotesi di
un mezzo da attrezzare solo per controlli di polizia
stradale spetterà al comando scegliere se applicare sul
veicolo le targhe normali o le targhe speciali con le
insegne di polizia.
Ma in questo caso la conduzione del mezzo potrà essere
riservata solo ai conducenti in divisa muniti della speciale
patente di servizio. Come ha chiarito il ministero
dell'interno alla prefettura di Treviso con il parere del 14.11.2012.
Un boomerang specie per molti comandi medio piccoli che non
possono disporre di un parco veicoli ad hoc
(articolo ItaliaOggi del 29.05.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Gomme. Nevicate, mani legate al sindaco.
Anche in caso di forti nevicate in atto il primo cittadino
non può imporre ai camion in transito di dotarsi sia di
gomme da neve che di catene contemporaneamente. Al massimo
il comune potrà inibire temporaneamente la circolazione nel
tratto interessato dal ghiaccio. Ma solo per il tempo
strettamente necessario.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con l'inedito
parere 17.04.2015 n. 1734 di prot..
Un piccolo comune montano del Piemonte ha adottato una
originale misura di emergenza invernale. In caso di ghiaccio
e forti nevicate i mezzi pesanti che circolano sulla strada
di fondovalle devono munirsi sia di catene che di gomme da
neve.
Questa determinazione non è coerente con il dettato
normativo, specifica il ministero dei trasporti. Il codice
stradale infatti non ammette mai l'uso congiunto delle
catene da neve assieme alle gomme tassellate.
In buona sostanza una misura così originale non ha
consistenza giuridica. In caso di forti precipitazioni resta
sempre possibile inibire completamente la circolazione
(articolo ItaliaOggi del 29.05.2015). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto
di mera conferma ricorre nei casi in cui l’Amministrazione
si sia limitata, sul piano strettamente ricognitivo, al
riscontro di avere provveduto in ordine a un determinato
affare o oggetto.
Quando invece…sia stato rinnovato l’esame dei presupposti
del provvedere, si versa a fronte di un nuovo esercizio del
potere, cui segue l’adozione di un atto che, anche se emesso
a conferma del provvedimento oggetto di riesame, ha natura
provvedimentale e non si identifica con l’atto confermato.
L’atto del Comune del 27.12.2012 (prot. n. 23574), impugnato
in primo grado dalla signora L., deve essere qualificato
come atto di conferma e non meramente confermativo
dell’autorizzazione paesaggistica n. 25 del 2011.
Questo Consiglio ha chiarito che “L’atto di mera conferma
ricorre nei casi in cui l’Amministrazione si sia limitata,
sul piano strettamente ricognitivo, al riscontro di avere
provveduto in ordine a un determinato affare o oggetto.
Quando invece…sia stato rinnovato l’esame dei presupposti
del provvedere, si versa a fronte di un nuovo esercizio del
potere, cui segue l’adozione di un atto che, anche se emesso
a conferma del provvedimento oggetto di riesame, ha natura
provvedimentale e non si identifica con l’atto confermato”
(Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2015, n. 908)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.06.2015 n. 2751 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con l’entrata in vigore, a regime (dal
01.01.2010), dell’art. 146 sulla disciplina autorizzatoria
prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la Soprintendenza si è ritrovata
ad esercitare non più un sindacato di mera legittimità (come
previsto dall’art. 159 d.lgs. n. 42/04 nel regime
transitorio vigente fino al 31.12.2009) sull’atto
autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente
subdelegato, con il correlativo potere di annullamento ad
estrema difesa del vincolo ma una valutazione di “merito
amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di cogestione
del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs. 42/2004).
Non par dubbio che tale mutato quadro normativo abbia
giustificato sul piano normativo una diversa e più
penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della
compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i
valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina
vincolistica.
Alla luce di questa
normativa, che attribuisce in particolare al previo parere
della Soprintendenza natura vincolante (art. 146, comma 5),
questo Consiglio ha precisato che “…con l’entrata in
vigore, a regime (dal 01.01.2010), dell’art. 146 sulla
disciplina autorizzatoria prevista dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio (d.lgs. 22.01.2004 n. 42), la
Soprintendenza si è ritrovata ad esercitare non più un
sindacato di mera legittimità (come previsto dall’art. 159
d.lgs. n. 42/04 nel regime transitorio vigente fino al
31.12.2009) sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla
Regione o dall’ente subdelegato, con il correlativo potere
di annullamento ad estrema difesa del vincolo (su cui Cons.
Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9) ma una valutazione di
“merito amministrativo”, espressione dei nuovi poteri di
cogestione del vincolo paesaggistico (art. 146 d.lgs.
42/2004).
Non par dubbio che tale mutato quadro normativo abbia
giustificato sul piano normativo una diversa e più
penetrante valutazione, da parte della Soprintendenza, della
compatibilità dell’intervento edilizio progettato con i
valori paesaggistici compendiati nella richiamata disciplina
vincolistica” (Cons. Stato, Sez. VI, 25.02.2013, n.
1129)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.06.2015 n. 2751 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'autorizzazione paesaggistica
rilasciata dal medesimo dirigente che ha rilasciato anche il
correlato permesso di costruire.
... per l'annullamento dell'autorizzazione paesaggistica
prot. n. 622 del 27/01/2015;
...
- Considerato che, conformemente all’orientamento
giurisprudenziale di questo TAR (cfr. TAR Veneto, II.
24/04/2013, n. 619), risulta fondato il secondo motivo col
quale si lamenta l’adozione da parte del medesimo dirigente
comunale sia dell’impugnata presupposta autorizzazione
paesaggistica sia dell’impugnato presupponente permesso di
costruzione, contro l’art. 146, comma 6, D.Lgs. 42/2004 e la
delibera G.R. 835/2010;
- Ritenuto, infatti, che la normativa predetta, proprio
perché fa riferimento alla necessità di garantire
l’effettiva “differenziazione” tra l’attività
amministrativa edilizia e la tutela paesaggistica, non possa
essere interpretata in modo riduttivo, tale da richiedere
che –come intervenuto nella fattispecie concreta– solo una
relazione istruttoria sul vincolo ambientale sia stata
esperita da un soggetto distinto, mentre un unico soggetto
abbia esercitato le valutazioni di merito e le decisioni
finali su entrambe le pratiche amministrative;
- Ritenuto cioè, e in specie, che la “responsabilità del
procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”
di cui alla delibera G.R. 835/2010 non possa essere limitata
a una parte delle sole attività istruttorie;
- Considerato pertanto che, assorbiti gli altri profili, il
ricorso debba essere accolto, mentre le spese di lite
possono essere compensate ...
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.06.2015 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: a)
le dimissioni costituiscono un negozio unilaterale
recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto
nel momento in cui sono portate a conoscenza del datore di
lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di
accettarle, sicché non necessitano più, per divenire
efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della
pubblica amministrazione (il principio, tradizionalmente
applicato al lavoro privato, è stato esteso anche al
pubblico impiego privatizzato da Cass. 57/2009);
b) una volta divenute efficaci, con l’avvenuta comunicazione
al datore di lavoro, le dimissioni sono irrevocabili. Ne
deriva che una volta estinto per dimissioni, il rapporto di
lavoro non può essere unilateralmente ripristinato per
effetto di altro simmetrico atto unilaterale del lavoratore
che le ha rassegnate.
RITENUTO che il ricorso appare fondato sulla scorta delle
seguenti ragioni:
1) l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico non era,
nella specie, necessaria per il semplice motivo che l’arch.
V., in data 29.01.2015 (subito dopo aver
presentato la domanda di partecipazione, ma prima della
scadenza del termine di presentazione dell’offerte), aveva
già rassegnato le dimissioni dall’incarico ricoperto presso
il Comune di Oria, con decorrenza 05.02.2015;
2) la circostanza che il Commissario straordinario del
Comune di Oria abbia differito le dimissioni dell’arch.
V. al 28.02.2015, al fine di ottenere il rispetto
del termine di preavviso, e che il rapporto di lavoro sia
proseguito nel periodo di preavviso (cd. efficacia reale del
preavviso) non appare idonea a determinare l’esclusione
della ricorrente atteso che:
a) le dimissioni costituiscono un negozio unilaterale
recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto
nel momento in cui sono portate a conoscenza del datore di
lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di
accettarle, sicché non necessitano più, per divenire
efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della
pubblica amministrazione (il principio, tradizionalmente
applicato al lavoro privato, è stato esteso anche al
pubblico impiego privatizzato da Cass. 57/2009);
b) una volta divenute efficaci, con l’avvenuta comunicazione
al datore di lavoro, le dimissioni sono irrevocabili. Ne
deriva che una volta estinto per dimissioni, il rapporto di
lavoro non può essere unilateralmente ripristinato per
effetto di altro simmetrico atto unilaterale del lavoratore
che le ha rassegnate. Preso atto che l’arch. V. aveva
comunicato le proprie dimissioni al datore di lavoro, la
stazione appaltante non poteva pertanto escludere la
ricorrente dalla procedura, non sussistendo più, in capo
alla medesima, la situazione di incompatibilità che imponeva
la produzione dell'autorizzazione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 28.05.2015 n. 1772 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nell'ambito
del conferimento di una posizione organizzativa eventuali
controversie sono devolute sono devolute al giudice
ordinario e non al giudice amministrativo.
Invero, la posizione organizzativa non determina un
mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né
un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di
funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si
tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta
responsabilità la cui definizione -nell'ambito della
classificazione del personale di ciascun comparto- è
demandata dalla legge alla contrattazione collettiva …
Siffatta qualificazione comporta che le relative
controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria,
non ostandovi che vengano in considerazione atti
amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei
criteri per l'attribuzione della posizione organizzativa.
... per l'annullamento dell'avviso prot. n. 5213 del
03.02.2013 di selezione interna per il conferimento di n. 1
incarico di Posizione Organizzativa relativo al Servizio
Polizia Municipale con il quale il Dirigente VI Settore del
Comune di Vasto rende noto che con propria determina n. 7
del 02.02.2015 è stato approvato l'avviso pubblico per la
suddetta selezione; della determinazione dirigenziale n. 23
del 12.03.2015 con la quale è stato conferito l'incarico al
controinteressato; del verbale del 02.03.2015 con cui sono
state esaminate le domande prodotte dai partecipanti la
selezione; nonché di tutti gli altri atti prodromici,
connessi e consequenziali.
...
Va condivisa l’eccezione di difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo sollevata dal Comune resistente;
Va infatti ritenuto che il conferimento di posizioni
organizzative esuli dall’ambito delle procedure concorsuali
di cui al co. 4 dell’art. 63 d.lgs. 165/2001 in quanto “la
posizione organizzativa non determina un mutamento di
profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento
di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in
definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità
la cui definizione -nell'ambito della classificazione del
personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla
contrattazione collettiva … Siffatta qualificazione comporta
che le relative controversie siano devolute alla
giurisdizione ordinaria, non ostandovi che vengano in
considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla
fissazione dei criteri per l'attribuzione della posizione
organizzativa …" (Cass. sez. un. ord. 8836/2010; in
termini analoghi TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I –
16.12.2014, n. 1238, con richiami a decisioni di identico
tenore).
Va quindi rilevato il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, salvi gli effetti derivanti dalla
riproposizione del giudizio al giudice ordinario ai sensi
dell’art. 11 cod. proc. amm.
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 28.05.2015 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Subappalti, decisiva l’autonomia. L’obbligo prevenzionistico
viene meno se manca il potere di ingerenza.
Prevenzione. L’appaltatore che non sovrintende
all’organizzazione non ha responsabilità sulla sicurezza.
Nel caso di subappalto dei lavori è configurabile
l’esclusione di responsabilità dell’appaltatore solo nel
caso in cui al subappaltatore sia affidato lo svolgimento
dei lavori che questi svolga in piena autonomia
organizzativa e dirigenziale rispetto all’appaltatore.
È questo uno dei
principi che vengono sottolineati dalla Corte di Cassazione
(Sez. IV penale) con la
sentenza
26.05.2015 n. 22032.
La vicenda che ha portato alla pronuncia della Corte nasce
dall’infortunio subito da un lavoratore per la caduta da una
altezza di oltre tre metri a causa del cedimento di parte
del parapetto posto a protezione di un solaio sul quale
stava lavorando.
Gli imputati erano stati individuati nel committente i
lavori ed il coordinatore per la sicurezza, nell’impresa
affidataria ed il capo cantiere, e nell’amministratore
dell’impresa esecutrice, tutti condannati per le rispettive
riconosciute responsabilità sia in prima, sia in secondo
grado, seppure con una riduzione delle pene in sede di
appello.
La Corte di cassazione, non condividendo la posizione dei
giudici di merito nei confronti di tutti gli imputati
ricorrenti ,ha annullato la sentenza impugnata con rinvio ad
altra sezione della stessa Corte di appello.
Soffermando l’attenzione sui rapporti tra committente e
coordinatore per l’esecuzione la Corte, richiamandosi
all’articolo 6, comma 2, del Dlgs 494/1996 (trasfuso
nell’articolo 92, comma 2, del Dlgs 81/2008 , il Testo Unico
sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, evidenzia che
esso da una parte prevede che il coordinatore per la
progettazione rediga il piano di sicurezza e di
coordinamento (Psc) e che disponga un fascicolo contenenti
informazioni utili ai fini della sicurezza, dall’altra che
durante la realizzazione dell’opera il coordinatore per
l’esecuzione provveda a verificare, tramite le opportune
azioni, l’applicazione da parte delle imprese esecutrici e
dei lavoratori autonomi, le disposizioni contenute nel Psc e
la corretta applicazione delle procedure di lavoro. Tutto
ciò tenendo anche presente che tale controllo verrà svolto
con modalità le quali escludono la presenza continuativa in
cantiere ma che tuttavia assicurino il risultato, ossia che
le prescrizioni del piano operativo di sicurezza (Pos) siano
osservate.
Si tratta di “alta vigilanza”, la quale deve
intendersi: a) come il controllo sulla corretta osservanza,
da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel Psc,
nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di
lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori; b) nella
verifica dell’idoneità del Pos e nell’assicurazione della
sua coerenza rispetto al Psc; c) nell’adeguamento dei piani
in relazione all’evoluzione dei lavori e alle eventuali
modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese
esecutrici adeguino i rispettivi Pos.
L’obbligo del committente invece è quello di verificare che
il coordinatore svolga effettivamente tale compito, il quale
non si concretizza in un controllo capillare e continuo
dell’attività di questi, ma si sostanzia con modalità che
valgono a descriverla anch’essa come “alta vigilanza”, come
quella testé richiamata per il coordinatore.
Fermo restando il principio secondo il quale nell’ambito dei
subappalti gli obblighi prevenzionistici gravano su tutti
coloro che esercitano i lavori e, quindi, anche sul sub
appaltatore interessato all’esecuzione di un'opera parziale
e specialistica, vale quindi il principio secondo cui il
subappaltante è esonerato dagli obblighi di protezione solo
nel caso in cui il lavori subappaltati rivestano una
completa autonomia, sicché non possa verificarsi alcuna sua
ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatori (articolo Il Sole 24 Ore del
29.05.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di canne fumarie, l'esistenza di un regolamento
comunale (di igiene) preclude in capo al Giudice di poter
disporre discrezionalmente.
Il rispetto della distanza prevista
dall'art. 890 del codice civile, nella cui regolamentazione
rientrano anche i comignoli con canna fumaria è collegato a
una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che
prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi
sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la
distanza medesima.
Diversamente, in difetto di una disposizione regolamentare,
si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure
relativa, che può essere superata ove la parte interessata
al mantenimento del manufatto dimostri che mediante
opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno
del fondo vicino.
Col primo motivo si lamentano violazione degli arti.
890 cc, 57 r.e. e 42 reg. di igiene perché contrariamente a
quanto reputa la sentenza disciplinano le distanze ed
integrano l'art. 890 cc, con quesito.
Col secondo motivo si denunzia violazione dell'art.
2697 cpc, recte cc, perché erra la sentenza nel
ritenere D. gravato della prova di nocività, con quesito.
Col terzo motivo si deducono difetto di motivazione
sulla sufficienza della prova offerta da Z. sulla innocuità
della fabbrica e violazione degli artt. 111.6 Cost., 112 cpc,
132 cpc..
Col quarto motivo si denunzia insufficiente
motivazione con indicazione del fatto decisivo non
considerato nella nocività o pericolosità della canna
fumaria.
Ciò premesso si osserva:
La Corte di appello ha dedotto che né l'art. 890 cc né
l'art. 7 del r.e. prevedono distanze per le canne fumarie
mentre quella di metri dieci era prevista nell'art. 6, comma
15, dpr 1391/1970, norma dichiarata inapplicabile dal primo
giudice, senza censura sul punto di alcuna parte.
In ordine alla nocività o pericolosità il D. non aveva
fornito alcuna prova mentre controparte aveva documentato
l'esistenza di due provvedimenti giudiziari, in particolare
ex art. 700 cpc, che avevano escluso conseguenze nocive per
l'appartamento e la salute dell'appellato.
Ciò premesso, la prima censura afferma l'esistenza di
una normativa sulle distanze esclusa dalla sentenza (si
legge, invero, a pagina quattro che sia l'art. 890 cc che
l'art. 57 del reg.ed. non contengono alcuna prescrizione in
tema di distanze ed in particolare la norma regolamentare
prevede solo una altezza dei comignoli di almeno un metro
dal colmo delle coperture, in modo da evitare danni a terzi
per i fumi).
Va tuttavia considerato che l'art. 890 cc rinvia alle norme
locali e solo in mancanza demanda l'accertamento al Giudice.
Se è violata la norma locale, la nocività o pericolosità è
presunta iuris et de iure, mentre se manca la norma
locale la presunzione è iuris tantum. Nel caso
in esame la sentenza cita l'art. 42 del regolamento locale
di igiene il quale prevede che lo sbocco superiore dei
fumaioli... .dovrà elevarsi almeno di un metro sul tetto
della casa più alta vicina, al momento della costruzione del
camino stesso.
Una distanza, sia pure in verticale, è prevista e pertanto è
integrato l'art. 890 cc ed il giudice non aveva alcun potere
discrezionale al riguardo. Nel controricorso si sostiene che
il regolamento edilizio del 1989 avrebbe abrogato quello di
igiene del 1942 ma il rilievo è inesatto in quanto hanno
oggetti diversi (l'uno lo sviluppo urbanistico, l'altro la
tutela della salute).
La norma codicistica fa riferimento alle distanze stabilite
dai regolamenti e, in mancanza, a quelle necessarie a
preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità,
salubrità e sicurezza.
Donde l'accoglimento del primo motivo con assorbimento degli
altri (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 26.05.2015 n. 10814). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sconta il versamento del costo di costruzione la parte di
fabbricato destinata ad artigianato.
In un fabbricato con duplice
destinazione (artigianale e commerciale),
il conteggio del contributo di costruzione deve
essere condotto in maniera distinta sulle superfici
afferenti ai diversi usi che, con riguardo alla componente
del costo di costruzione, soggiacciono a regimi diversi, non
potendosi dar corso al criterio della destinazione
prevalente in una fattispecie caratterizzata dalla netta
separazione strutturale delle due destinazioni, e dalla
comprovata non accessorietà dell’attività artigianale
rispetto a quella commerciale.
... per l'accertamento che l’edificio di proprietà della
ricorrente è oggettivamente destinato allo svolgimento di
attività artigianale e che nello stesso la ricorrente svolge
attività artigianale e la dichiarazione che non è dovuto,
per la parte dello stesso destinata ad attività artigianale,
il pagamento del costo di costruzione.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Nel caso all’esame, come risulta dalle planimetrie
depositate in giudizio e dalla denuncia di inizio attività
che attesta l’esecuzione dei lavori approvati dai vigili del
fuoco (cfr. la tavola 3h relativa al progetto di variante a
consuntivo del permesso di costruire e la predetta denuncia
di inizio attività di cui ai docc. 1 e 2 del secondo elenco
documenti depositato in giudizio il 17.03.2015) la parte
commerciale e artigianale dell’immobile sono chiaramente
delimitate e strutturalmente separate, e l’attività
artigianale, che comprende lo svolgimento di lavori
meccanici, elettrici, di gommista e lavaggio, ha
un’autonomia funzionale, perché svolta non solo in favore
degli acquirenti dei veicoli oggetto dell’attività
commerciale, ma anche nei confronti di proprietari di
automobili di altri marchi, come risulta dai contratti di
service partner depositati in giudizio (cfr. docc. da 7 a 10
allegati al ricorso), dalle insegne luminose autorizzate
(che recano anche la scritta “meccanico – elettrauto
gommista”, cfr. doc. 12 allegato al ricorso), nonché
dalla nota di accettazione delle consistenti somme fissate
quale obiettivo complessivo di vendita di ricambi originali
(cfr. doc. 5 allegato al secondo elenco documenti depositato
in giudizio il 27.03.2015), e la Società non opera solo nel
ramo di attività commerciale, ma anche in quello
dell’industria meccanica come risulta dall’attestazione Inps
del 13.03.2006 (cfr. doc. 3 allegato al secondo elenco
documenti depositato in giudizio il 27.03.2015).
In un tale contesto nel quale il Comune non contesta né la
descrizione della costruzione effettuata dalla parte
ricorrente, né l’esercizio dell’attività artigianale secondo
le modalità da essa indicate, in base al criterio
dell’oggettiva destinazione funzionale delle opere, il
conteggio deve essere condotto in maniera distinta sulle
superfici afferenti ai diversi usi che, con riguardo alla
componente del costo di costruzione, soggiacciono a regimi
diversi, non potendosi dar corso al criterio della
destinazione prevalente in una fattispecie caratterizzata
dalla netta separazione strutturale delle due destinazioni,
e dalla comprovata non accessorietà dell’attività
artigianale rispetto a quella commerciale.
Peraltro il Comune non ha indicato né in sede procedimentale
né in giudizio come applicare il criterio di prevalenza alla
fattispecie in esame e, come evidenziato dalla parte
ricorrente nella memoria di replica, il riferimento al
criterio della superficie produrrebbe l’effetto paradossale
di esentare dal pagamento del costo di costruzione anche la
superficie con destinazione commerciale, dato che la
superficie con destinazione artigianale (mq 3.131,10) è
molto maggiore di quella commerciale (mq 1710,60).
Ne discende che il ricorso deve essere accolto.
Ai fini della quantificazione della somma da corrispondere,
il Collegio ritiene di fare applicazione della previsione di
cui al’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., secondo cui, in
caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di
opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai
quali il debitore deve proporre a favore del creditore il
pagamento di una somma entro un congruo termine, stabilendo
che debbano essere restituite dal Comune di Venezia le somme
corrisposte dalla parte ricorrente a titolo di costo di
costruzione relativo al computo metrico estimativo riferito
alla parte della costruzione con destinazione artigianale,
maggiorate degli interessi legali dalla data della domanda
sino all’effettivo soddisfo ai sensi dell’art. 2033 del
codice civile, con esclusione della rivalutazione monetaria
(rispetto all’esclusione della rivalutazione cfr. Tar
Toscana, Sez. III, 27.11.2014, n. 1902; Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2172; Consiglio di Stato,
Sez. V, 17.10.2013, n. 5045; Tar Friuli Venezia Giulia,
12.12.2013, n. 649) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.05.2015 n. 589 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. f), del
codice degli appalti, è previsto che siano “esclusi dalla
partecipazione alle procedure” i soggetti “che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Ciò implica che basti una delle due condizioni per
legittimare l’esclusione dalla gara.
----------------
Diverso è ovviamente il profilo della qualità dei fatti da
dichiarare, visto che in un caso, per i rapporti con la
stessa stazione appaltante, si verte in una “grave
negligenza o malafede”, mentre nel secondo, per i rapporti
con altri soggetti, rileva “un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale”.
In questo senso, la giurisprudenza tende a far risaltare
l’ambito decisionale lasciato all’amministrazione, atteso
che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità
delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede
commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti
pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità
soltanto quando il comportamento di deplorevole
trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in
occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con
la stessa stazione appaltante che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio d’inaffidabilità
professionale su un'impresa partecipante a una gara pubblica
è subordinato alla preventiva motivata valutazione della
stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è
tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle
imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare
gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti
risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
In ogni caso ciò che rileva a detti fini è che l'errore
ascritto sia espressione di un difetto di capacità
professionale e lo stesso, nella sua obiettiva rilevanza,
costituisca elemento sintomatico della perdita del requisito
di affidabilità e capacità professionale a fornire
prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico
perseguiti dall'ente committente.
Proprio lo spazio lasciato all’apprezzamento
dell’amministrazione, e quindi alla necessità che la stessa
abbia contezza di come si siano stati svolti i pregressi
rapporti contrattuali del partecipante alla gara al fine di
poter compiutamente esprimere il suo voto, rende ragione
dell’ampiezza con cui deve essere inteso l’obbligo di
informazione in capo all’impresa.
Questa ratio giustifica l’estensione del dovere di
esternazione dei fatti, atteso che “si tratta di
dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla
stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai
principi di lealtà e affidabilità contrattuale e
professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con
la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non
effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque
all'Amministrazione la valutazione dell'errore grave che può
essere accertato con qualsiasi mezzo di prova. La
circostanza pertanto assume il carattere di elemento
sintomatico in ogni caso apprezzabile, anche se proveniente
da altra Amministrazione, e che può fornire elementi
oggettivi per le determinazioni della stazione appaltante”.
---------------
Parte appellante ha effettivamente mancato di indicare,
nella sua domanda di partecipazione, l’esistenza di un fatto
valutabile come errore rilevante ai fini dell’art. 38 del
D.Lgs. n. 163 del 2006.
Le tesi contrapposte sono del tutto chiare e così
riassumibili. Secondo una prima prospettazione, la
mancata indicazione di un fatto rilevante ai sensi dell’art.
38 non può essere considerato “errore”, ma dichiarazione non
veritiera a norma dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000,
comportando così la decadenza dai benefici conseguiti, ossia
in questo caso l’ammissione alla procedura di gara.
Secondo una seconda prospettazione, si sarebbe in
presenza di una mera omissione, e come tale ricompresa
nell’ambito applicativo del sopravvenuto comma 2-bis
dell’art. 38.
Questa seconda lettura pare alla Sezione meritevole di
accoglimento, in quanto maggiormente in linea con la norma
recentemente introdotta (di per sé prevalente, sia perché
successiva nel tempo rispetto al d.P.R. del 2000, sia perché
speciale, concernendo unicamente la materia delle procedure
di gara per contratti pubblici), sia perché più coerente con
l’interpretazione datane dalla citata sentenza n. 16 del
2014 dell’Adunanza plenaria.
Si noti, infatti, che il comportamento della parte è
consistito nella mancata indicazione di un determinato
elemento (ossia l’esistenza di una vicenda rilevante a norma
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti).
Si tratta quindi di una fattispecie che si connota
strutturalmente per una sua mancata interezza e come tale
considerata dall’interpretazione appena esaminata (che
considera come fatto che impone il soccorso istruttorio
della pubblica amministrazione anche l’omissione totale).
Questa è quindi strutturalmente mancante e, come tale, fa
sorgere l’obbligo dell’amministrazione di procedere a quanto
disposto dal comma 2-bis dello stesso art. 38.
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera
o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che
riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello
della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso
la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della
situazione a monte ai fini del citato comma 2-bis.
Conclusivamente, la mancata indicazione da parte
dell’appellante dell’esistenza di un fatto rilevante ai fini
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006
imponeva all’amministrazione l’attivazione dei doveri di
soccorso di cui al comma 2-bis dello stesso articolo,
evenienza concretamente non verificatasi.
4.1. - La censura
non ha pregio.
Il supposto scollamento tra i contenuti della norma
primaria, di cui all’art. 38, comma 1, lett. f), del codice
degli appalti e il punto 2, lett. h), del disciplinare di
gara è palesemente insussistente.
La norma primaria prevede che siano “esclusi dalla
partecipazione alle procedure” i soggetti “che,
secondo motivata valutazione della stazione appaltante,
hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione
delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che
bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave
nell'esercizio della loro attività professionale, accertato
con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione
appaltante”. Ciò implica che basti una delle due
condizioni per legittimare l’esclusione dalla gara.
Il disciplinare ha richiesto che le parti dichiarassero che
nessuna delle due condizioni di esclusione sussistesse,
ossia ha richiesto alla parte che non esistesse né la prima
(“grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara”), né la seconda (commissione di “un errore
grave nell'esercizio della loro attività professionale”)
e si è posto quindi in linea con il disposto normativo,
atteso che entrambi i complessi disciplinari richiedono che
venga data prova dell’inesistenza di entrambi i tipi di
fatti escludenti.
Diverso è ovviamente il profilo della qualità dei fatti da
dichiarare, visto che in un caso, per i rapporti con la
stessa stazione appaltante, si verte in una “grave
negligenza o malafede”, mentre nel secondo, per i
rapporti con altri soggetti, rileva “un errore grave
nell'esercizio della loro attività professionale”.
In questo senso, la giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di
Stato, sez. V, 28.12.2011 n. 6951) tende a far risaltare
l’ambito decisionale lasciato all’amministrazione, atteso
che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità
delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede
commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti
pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità
soltanto quando il comportamento di deplorevole
trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in
occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con
la stessa stazione appaltante che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio d’inaffidabilità
professionale su un'impresa partecipante a una gara pubblica
è subordinato alla preventiva motivata valutazione della
stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è
tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle
imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare
gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti
risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
In ogni caso ciò che rileva a detti fini è che l'errore
ascritto sia espressione di un difetto di capacità
professionale e lo stesso, nella sua obiettiva rilevanza,
costituisca elemento sintomatico della perdita del requisito
di affidabilità e capacità professionale a fornire
prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico
perseguiti dall'ente committente.
Proprio lo spazio lasciato all’apprezzamento
dell’amministrazione, e quindi alla necessità che la stessa
abbia contezza di come si siano stati svolti i pregressi
rapporti contrattuali del partecipante alla gara al fine di
poter compiutamente esprimere il suo voto, rende ragione
dell’ampiezza con cui deve essere inteso l’obbligo di
informazione in capo all’impresa.
Questa ratio giustifica l’estensione del dovere di
esternazione dei fatti, atteso che “si tratta di
dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla
stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai
principi di lealtà e affidabilità contrattuale e
professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con
la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non
effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque
all'Amministrazione la valutazione dell'errore grave che può
essere accertato con qualsiasi mezzo di prova. La
circostanza pertanto assume il carattere di elemento
sintomatico in ogni caso apprezzabile, anche se proveniente
da altra Amministrazione, e che può fornire elementi
oggettivi per le determinazioni della stazione appaltante”
(in termini, Consiglio di Stato, sez. III, 05.05.2014 n.
2289).
La censura non è quindi fondata e va respinta.
5. - Con il secondo motivo di diritto, di carattere
subordinato, viene lamentata l’illegittimità del
provvedimento di esclusione per violazione dell’art. 38,
comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, come introdotto
dall’art. 39, comma 1, del D.L. n. 90 del 2014, per la
mancata attivazione del dovuto soccorso istruttorio a fronte
della rilevata omissione nella dichiarazione.
5.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Come già evidenziato in via cautelare, la fattispecie in
esame è effettivamente disciplinata dall’art. 38, comma
2-bis del D.Lgs. n. 163 del 2006, come introdotto dall’art.
39, comma 1, del D.L. 24.06.2014, n. 90 “Misure urgenti
per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari”. Questa
disposizione, entrata in vigore il giorno successivo alla
sua pubblicazione, ossia dal 24.06.2014, è applicabile alle
procedure di gara indette dopo la sua entrata in vigore come
quella in esame, dove il bando di gara è stato pubblicato in
data 30.06.2014.
La norma così recita: “La mancanza, l'incompletezza e
ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle
dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il
concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore
della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui
versamento e' garantito dalla cauzione provvisoria. In tal
caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere.
Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza
o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la
stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, ne'
applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del
termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso
dalla gara. Ogni variazione che intervenga, anche in
conseguenza di una pronuncia giurisdizionale,
successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di
medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia
di anomalia delle offerte”.
Si tratta di un’evidente riconsiderazione dei poteri
unilaterali di esclusione dei partecipanti dalla procedura
di gara che, per il suo impatto sull’evoluzione dei
procedimenti, è stata immediatamente oggetto di
considerazione da parte di questo Consiglio e interpretata
dall’Adunanza plenaria, con sentenza 30.07.2014 n. 16, dove
si è evidenziata la “chiara volontà del legislatore di
evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e,
quindi, dell'ammissione alla gara delle offerte presentate)
esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi
compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni)”.
La considerazione, appena riportata, dell’Adunanza plenaria
(“ivi compresa anche la mancanza assoluta delle
dichiarazioni”) incide sulla questione qui in scrutino,
dove la parte appellante ha effettivamente mancato di
indicare, nella sua domanda di partecipazione, l’esistenza
di un fatto valutabile come errore rilevante ai fini
dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006.
Su tale vicenda e sulla sua qualificazione si è quindi
concentrata la discussione tra le parti, dopo che la
Sezione, con ordinanza n. 742 del 18.02.2015, aveva
esplicitamente sottoposto alle parti il tema, al fine di
sollecitarne gli apporti ricostruttivi.
Le tesi contrapposte sono del tutto chiare e così
riassumibili. Secondo una prima prospettazione, la
mancata indicazione di un fatto rilevante ai sensi dell’art.
38 non può essere considerato “errore”, ma
dichiarazione non veritiera a norma dell’art. 75 del d.P.R.
n. 445 del 2000, comportando così la decadenza dai benefici
conseguiti, ossia in questo caso l’ammissione alla procedura
di gara. Secondo una seconda prospettazione, si
sarebbe in presenza di una mera omissione, e come tale
ricompresa nell’ambito applicativo del sopravvenuto comma
2-bis dell’art. 38.
Questa seconda lettura pare alla Sezione meritevole di
accoglimento, in quanto maggiormente in linea con la norma
recentemente introdotta (di per sé prevalente, sia perché
successiva nel tempo rispetto al d.P.R. del 2000, sia perché
speciale, concernendo unicamente la materia delle procedure
di gara per contratti pubblici), sia perché più coerente con
l’interpretazione datane dalla citata sentenza n. 16 del
2014 dell’Adunanza plenaria.
Si noti, infatti, che il comportamento della parte è
consistito nella mancata indicazione di un determinato
elemento (ossia l’esistenza di una vicenda rilevante a norma
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del codice degli appalti).
Si tratta quindi di una fattispecie che si connota
strutturalmente per una sua mancata interezza e come tale
considerata dall’interpretazione appena esaminata (che
considera come fatto che impone il soccorso istruttorio
della pubblica amministrazione anche l’omissione totale).
Questa è quindi strutturalmente mancante e, come tale, fa
sorgere l’obbligo dell’amministrazione di procedere a quanto
disposto dal comma 2-bis dello stesso art. 38.
L’eventuale qualificazione come dichiarazione non veritiera
o mendacio è, invece, una qualificazione giuridica che
riguarda un momento giuridicamente successivo, ossia quello
della valutazione dell’ordinamento sull’intento che ha mosso
la parte, e non vale a escludere la rilevanza in sé della
situazione a monte ai fini del citato comma 2-bis.
Conclusivamente, la mancata indicazione da parte
dell’appellante dell’esistenza di un fatto rilevante ai fini
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006
imponeva all’amministrazione l’attivazione dei doveri di
soccorso di cui al comma 2-bis dello stesso articolo,
evenienza concretamente non verificatasi.
Ne consegue l’illegittimità dell’esclusione della B. Spa
dalla procedura di gara.
Considerato quindi che agli atti di causa non risulta
stipulato il contratto, la presente decisione può limitarsi
all’annullamento dei soli atti impugnati, come sopra
descritti, con l’esclusione del bando di gara e del
disciplinare di gara, dei quali si è acclarata la
legittimità (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2015 n. 2589 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Nelle strade con le buche la velocità si paga
cara.
Il comune che fa abbassare il limite di velocità sulla
strada statale dissestata può anche attivare controlli
elettronici della circolazione. E sanzionare chi pigia
troppo sull'acceleratore previa segnalazione dell'attività
di controllo in atto.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez., VI civile,
con l'ordinanza
22.05.2015 n. 10684.
Un paese attraversato da una superstrada con limite
ordinario di velocità fissato in 110 km/h ha ottenuto
dall'Anas di abbassare il limite a 80 km/h a causa della
deformazione del piano viabile. Nell'opporsi a una
conseguente multa per eccesso di velocità rilevata tramite
l'autovelox, un automobilista ha percorso tutti i gradi del
giudizio senza ottenere alcun successo.
Il degrado del manto stradale è una condizione che incide
legittimamente sulla modulazione del limite di velocità dei
veicoli. In buona sostanza, è corretto abbassare il limite
di velocità in presenza di avvallamenti, dissesti e buche e
i relativi controlli elettronici non sono viziati da nessun
difetto se regolarmente segnalati ed effettuati in
conformità alle direttive ministeriali
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi. I titoli prima dell'orale.
Nel concorso pubblico la valutazione dei titoli deve essere
comunicata al candidato prima delle prove orali: la
trasparenza delle procedure, infatti, impone che chi aspira
al posto nell'ente sappia a quanto ammonta per il momento il
suo voto per prepararsi meglio al rush finale. E soprattutto
per garantirgli che la commissione non stia cambiando i
giudizi in corso d'opera.
È quanto emerge dalla
sentenza 22.05.2015 n. 2584 della V Sez. del
Consiglio di stato.
Confermato l'annullamento della procedura avviata per
assumere un dirigente comunale di prima qualifica. Anche se
la commissione giudicatrice ha predisposto una griglia con
punteggi fissi da attribuire sulla base dei voti riportati
alla laurea e all'abitazione professionale dagli ingegneri
in lizza per il posto. Quel che conta è che le relative
valutazioni non sono state rese note ai partecipanti alla
selezione.
Sbaglia il Tar quando sostiene che l'esito della valutazione
sui titoli dovrebbe essere comunicato agli interessati prima
dello svolgimento di tutte le prove concorsuali: in seguito
alla riformulazione delle norme, il voto che la commissione
attribuisce al candidato può essere esplicitato anche solo
prima dell'orale. Ma nel caso di specie l'onere non risulta
mai adempiuto dall'amministrazione e dunque non può comunque
scattare l'annullamento della sentenza emessa dal tribunale
regionale.
Chi prende parte alla tornata concorsuale ha diritto di
conoscere prima della prova decisiva il punteggio che gli è
stato attribuito in via provvisoria dalla commissione di
valutazione: così può calibrare meglio la sua preparazione
e, soprattutto, ha la certezza che i punteggi di merito non
possono essere manipolati per indebiti favoritismi.
Inutile per il Comune tentare di far dichiarare
improcedibile il ricorso dell'ingegnere sostenendo che il
posto di dirigente del settore tecnico posto a concorso è
stato in seguito ricoperto con una procedura di mobilità,
che l'interessato non ha impugnato. Il professionista
conserva l'interesse all'annullamento della procedura perché
potrebbe ottenere il risarcimento dalla p.a. Che paga le
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).
---------------
MASSIMA
6. Passando al merito, deve premettersi che il giudice
di primo grado ha accolto l’impugnativa dell’ing. T. per
violazione dell’art. 12 d.p.r. n. 487/1994 (“recante
norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi,
dei concorsi unici e delle altre forme di assunzioni nei
pubblici impieghi”), e ciò perché il risultato della
valutazione dei titoli non è stato reso noto ai candidati
prima dell’effettuazione delle prove concorsuali, come
invece previsto dal comma 2 della disposizione regolamentare
ora richiamata.
Il TAR ha sul punto precisato che la scansione
procedimentale prefigurata dalla norma in questione è posta
a tutela di «un’esigenza sostanziale fondamentale: quella
cioè di evitare che la valutazione dei titoli, possa in
itinere essere discrezionalmente modificata in seguito ai
risultati delle prove orali, così da influenzare l'esito
finale dell'intera procedura concorsuale»; ed è dunque
strumentale alle superiori esigenze di trasparenza ed
imparzialità amministrativa e tale da non ammettere
equipollenti.
7. Pur non contestando la mancata comunicazione degli esiti
della valutazione dei titoli ai candidati, nel proprio
appello il Comune di Civitavecchia nega tuttavia che ciò
abbia leso gli interessi dell’ing. T.. L’amministrazione
evidenzia al riguardo che nella prima riunione la
commissione di gara ha rigidamente predeterminato i criteri
di valutazione dei titoli, autovincolando la propria
discrezionalità mediante griglie di punteggi proporzionati
al punteggio di laurea ed a quello conseguito in sede di
abilitazione professionale (verbale n. 1 del 14.05.1997), di
cui ha poi fatto pedissequa applicazione. Pertanto, il
Comune appellante principale ritiene che la mancata
comunicazione dei punteggi attribuiti per i titoli prima
delle prove degraderebbe ad irregolarità non invalidante ex
art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
8. L’assunto non può essere condiviso, per cui l’appello del
Comune di Civitavecchia deve essere respinto, dovendosi
conseguentemente dichiarare improcedibile per sopravvenuto
difetto di interesse l’appello incidentale condizionato
dell’ing. T..
9. Deve al riguardo precisarsi che, diversamente da quanto
rilevato dal TAR, l’obbligo di
comunicazione deve precedere non già lo svolgimento delle
prove scritte ma, in seguito alla riformulazione del citato
art. 12, comma 2, d.p.r. n. 487/1994 ad opera del d.p.r. n.
693/1996 (“regolamento
recante modificazioni al regolamento sull'accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni e sulle modalità di
svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre
forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con
decreto del Presidente della Repubblica 09.05.1994, n. 487”),
solo le prove orali.
Non per questo la
decisione di primo grado può tuttavia essere riformata. Ciò
per la dirimente considerazione che tale comunicazione non è
comunque avvenuta nemmeno prima di queste prove.
Infatti, il fondamento dell’obbligo partecipativo in
questione consiste, da un lato, nel rendere noto ai
concorrenti prima dello svolgimento dell’ultima prova il
punteggio provvisoriamente conseguito fino a tale momento,
così da calibrare di conseguenza la preparazione per essa,
e, dall’altro lato, di assicurare una rigida scansione dei
diversi momenti valutativi nei quali si articola la
selezione concorsuale, così da prevenire qualsiasi rischio
che i punteggi di merito possano essere manipolati a scopo
di indebiti favoritismi.
Pertanto, mediante questa sequenza tra punteggi provvisori,
soggetti a comunicazione preventiva, e graduatoria
definitiva, si assicura un più elevato tasso di imparzialità
della valutazione delle capacità ed attitudini dei
candidati, facendosi in modo che la graduatoria definitiva
consista nell’effettiva risultante delle diverse fasi
valutative, senza indebite commistioni tra le stesse.
Deve poi evidenziarsi che attraverso la comunicazione dei
punteggi provvisori si realizza un maggior grado di
trasparenza già nella fase concorsuale, al cui perseguimento
è preordinato anche l’accesso previsto dal comma 3 dell’art.
12 in esame, finalizzato ad eventuali richieste di
correzione prima dello svolgimento della prova finale, allo
scopo di prevenire eventuali contenziosi.
10. Trattandosi quindi di un adempimento procedimentale
finalizzato alla tutela delle descritte inderogabili
esigenze di trasparenza ed imparzialità, la sua mancata
osservanza non può ritenersi priva di valenza invalidante ex
art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, per effetto della
predeterminazione ex ante dei criteri di valutazione
dei titoli.
In contrario a quanto sostiene l’amministrazione appellante
principale, si rileva che quest’ultima attività risponde a
sua volta ad un obbligo inderogabilmente previsto dall’art.
8 del d.p.r. n. 487/1994, ed ancora una volta ispirato alle
medesime finalità di trasparenza ed imparzialità finora
evidenziate, attraverso la relativa fissazione prima della
valutazione delle prove scritte. Anche in questo caso la
scansione procedimentale prefigurata a livello regolamentare
tende, in primo luogo, a separare le diverse fasi
valutative, ed in secondo luogo a prevenire commistioni tra
queste. Il tutto secondo modalità analoghe a quelle sopra
esaminate per quanto riguarda la prova orale da un parte e
la valutazione dei titoli e delle prove scritte dall’altra.
11. Deve ancora rilevarsi che, in ragione della finalità
preventiva che connota l’obbligo comunicativo in
contestazione nel presente giudizio, la relativa violazione
comporta di per sé l’illegittimità della procedura
concorsuale, senza che possa invocarsi la sanatoria
processuale di cui all’art. 21-octies l. n. 241/1990, non
essendo possibile stabilire se la violazione procedimentale
abbia o meno determinato una lesione in concreto degli
interessi dei singoli concorrenti.
Mutuando una terminologia penalistica, l’illegittimità in
questione può quindi essere definita “di pericolo
astratto”, analogamente a quanto si afferma per il caso
di violazione della regola dell’anonimato delle prove
concorsuali (Ad. Plen., 20.11.2013, n. 26; da ultimo: Cons.
giust. amm. Sicilia, 20.04.2015, n. 330). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
caso di emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente
non occorre il rispetto delle regole procedimentali poste a
presidio della partecipazione ex art. 7 della legge n.
241/1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza di
provvedere insita in tale tipologia di atto amministrativo,
anche in ragione della perdurante attualità dello stato di
pericolo necessariamente posta a presupposto dell’atto
medesimo: di fatto, la comunicazione di avvio del
procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del
sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza di
provvedere, ovvero rispetto alle finalità proprie della
tipologia e della natura del provvedimento in questione.
Tali considerazioni valgono però nel caso in cui vi siano
effettivamente i presupposti di contingibilità e urgenza
indicati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e valorizzati
dalla Corte Costituzionale (n. 115/2011).
---------------
L’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e l’art. 2 del D.M.
05.08.2008 richiedono la sussistenza di una situazione di
effettivo pericolo di danno grave ed imminente per
l'incolumità pubblica, debitamente motivata a seguito di
approfondita istruttoria, essendo necessaria la documentata
necessità e urgenza attuale di intervenire a difesa degli
interessi pubblici perseguiti e dovendo comunque rilevare
accadimenti non fronteggiabili con gli strumenti ordinari
apprestati dall'ordinamento.
Tra i requisiti di validità delle ordinanze contingibili e
urgenti vi è, inoltre, la fissazione di un termine di
efficacia del provvedimento: il carattere della
contingibilità esprime l'urgente necessità di provvedere con
efficacia ed immediatezza in casi di pericolo attuale od
imminente ed a ciò è correlata la natura necessariamente
provvisoria di siffatti provvedimenti, la quale implica che
le misure previste devono avere efficacia temporalmente
limitata.
In tale contesto il potere di ordinanza presuppone che la
sussistenza di situazioni non pienamente tipizzate dalla
legge sia suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, giustificante l’eccezionalità del potere
esercitato: solo in presenza di un’adeguata istruttoria e di
un’esauriente motivazione che dia contezza delle ragioni di
provvisorietà, sussidiarietà e straordinarietà proprie
dell’ordinanza sindacale si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la
possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale
tipologia provvedimentale.
---------------
L’ordinanza sindacale contingibile e urgente, per come
disciplinata dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, è
legittimamente utilizzabile soltanto in via provvisoria,
sussidiaria e straordinaria.
---------------
Non può ritenersi compatibile con la Carta costituzionale un
potere atipico di ordinanza sganciato dalla necessità di far
fronte a specifiche situazioni contingibili di pericolo, in
quanto, diversamente opinando, verrebbe ad essere attribuita
in via ordinaria ai sindaci la possibilità di incidere su
diritti individuali in modo assolutamente indeterminato ed
in base a presupposti molto lati suscettibili di larghissimi
margini di apprezzamento.
La giurisprudenza amministrativa ha valorizzato «il disposto
del DM del 05.08.2008 laddove aggancia la difesa della
sicurezza pubblica al rispetto di norme (preesistenti) che
regolano la vita civile, con la conseguenza che il potere
sindacale di ordinanza ex art. 54 D.Lgs. 267/2000…non può
avere una valenza "creativa" ma deve limitarsi a prefigurare
misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a
tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui
dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per la
sicurezza pubblica. In altre parole il potere in questione
può essere esercitato qualora la violazione delle norme che
tutelano i beni previsti dal DM del 05.08.2008 (situazioni
di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e
della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di
immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro
urbano) non assuma rilevanza solo in sé stessa (poiché in
tal caso soccorrono gli strumenti ordinari) ma possa
costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di
criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica; in
tal caso, venendo in gioco interessi che vanno oltre le
normali competenze di polizia amministrativa locale, il
Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo
di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto
il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive
del Ministero dell'interno, alle misure necessarie a
prevenire o eliminare i gravi pericoli che la minacciano».
---------------
La finalità di tutelare la sicurezza pubblica, ovvero di far
fronte alla lesione dei beni di cui all’art. 2 del D.M.
05.08.2008 (compreso l’intralcio alla viabilità pubblica),
non consente comunque di esercitare il potere extra ordinem
al di fuori dei casi contingibili e urgenti.
Pertanto la situazione di intralcio alla viabilità pubblica,
cui fa riferimento l’atto impugnato, non può rilevare di per
sé, dovendo comunque rientrare in situazioni di
contingibilità e urgenza e attenere a fenomeni di insorgenza
della criminalità suscettibili di minare la sicurezza
pubblica.
La prima censura è incentrata sull’inosservanza dell’obbligo
di comunicazione di avvio del procedimento.
Il rilievo è fondato.
In caso di emanazione di un’ordinanza contingibile ed
urgente non occorre il rispetto delle regole procedimentali
poste a presidio della partecipazione ex art. 7 della legge
n. 241/1990, essendo queste incompatibili con l'urgenza di
provvedere insita in tale tipologia di atto amministrativo,
anche in ragione della perdurante attualità dello stato di
pericolo necessariamente posta a presupposto dell’atto
medesimo: di fatto, la comunicazione di avvio del
procedimento nelle ordinanze contingibili e urgenti del
sindaco non può che essere di pregiudizio per l'urgenza di
provvedere, ovvero rispetto alle finalità proprie della
tipologia e della natura del provvedimento in questione
(Cons. Stato, V, 01.12.2014, n. 5919; TAR Sicilia, Palermo, II, 17.02.2015, n. 485).
Tali considerazioni valgono però nel caso in cui vi siano
effettivamente i presupposti di contingibilità e urgenza
indicati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e valorizzati
dalla Corte Costituzionale (n. 115/2011).
Invece, per le
ragioni di seguito evidenziate nella trattazione della
successiva censura, l’atto impugnato non risponde alle
condizioni previste dalla suddetta norma, con la conseguenza
che avrebbe dovuto trovare piena applicazione l’art. 7 della
legge n. 241/1990, invocato dalla deducente.
Invero non rileva, ai fini della connotazione di urgenza,
che esonera dall’applicazione dell’art. 7 della legge n.
241/1990, la finalità astrattamente perseguita
dall’amministrazione con l’ordinanza adottata, ma il potere
amministrativo concretamente esercitato.
Né può valere, come partecipazione al procedimento tale da
rendere superflua l’informativa ex art. 7 della legge n.
241/1990, la nota del 31.10.2009 (documento n. 7 depositato
in giudizio contestualmente all’impugnativa), inviata via
fax dalla ricorrente al Comune in assenza di qualsivoglia
preavviso sul tipo di provvedimento amministrativo che
sarebbe stato adottato e perciò priva di qualsiasi apporto
partecipativo riferibile alle peculiarità della contestata
azione amministrativa.
Con il secondo motivo l’istante sostiene che non vi sono,
nella fattispecie in esame, i presupposti propri
dell’ordinanza contingibile e urgente (costituiti
dall’impossibilità di differire l’intervento e di provvedere
con i mezzi ordinari offerti dalla legislazione), la quale
andrebbe sempre adeguatamente motivata e finalizzata a
prevenire ed eliminare gravi pericoli per l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana.
Il ricorrente lamenta la
carenza di motivazione e deduce altresì che appare
inappropriato il richiamo, espresso nel gravato
provvedimento, all’esigenza di prevenire intralci alla
viabilità pubblica ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d,
del D.M. n. 33086 del 2008, in quanto la suddetta norma
prevede come rilevante l’intralcio riconducibile a fenomeni
di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo
pubblico; secondo l’esponente, infine, l’atto impugnato
opera a tempo indefinito, mentre invece l’ordinanza contingibile e urgente ha necessariamente natura
provvisoria.
La censura va accolta, nei sensi appresso specificati.
L’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 e l’art. 2 del D.M.
05.08.2008 richiedono la sussistenza di una situazione di
effettivo pericolo di danno grave ed imminente per
l'incolumità pubblica, debitamente motivata a seguito di
approfondita istruttoria, essendo necessaria la documentata
necessità e urgenza attuale di intervenire a difesa degli
interessi pubblici perseguiti (TAR Piemonte, I, 09.01.2015, n.
46) e dovendo comunque rilevare accadimenti non
fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento (Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 904; TAR
Campania, Napoli, V, 03.03.2015, n. 1367; TAR Molise, I,
13.03.2015, n. 103).
Tra i requisiti di validità delle
ordinanze contingibili e urgenti vi è, inoltre, la
fissazione di un termine di efficacia del provvedimento: il
carattere della contingibilità esprime l'urgente necessità
di provvedere con efficacia ed immediatezza in casi di
pericolo attuale od imminente ed a ciò è correlata la natura
necessariamente provvisoria di siffatti provvedimenti, la
quale implica che le misure previste devono avere efficacia
temporalmente limitata (Cons. Stato, III, 05.10.2011, n.
5471; TAR Toscana, I, 20.01.2009, n. 53).
In tale contesto il potere di ordinanza presuppone che la
sussistenza di situazioni non pienamente tipizzate dalla
legge sia suffragata da istruttoria adeguata e da congrua
motivazione, giustificante l’eccezionalità del potere
esercitato (TAR Calabria, Catanzaro, I, 25.06.2013, n. 709):
solo in presenza di un’adeguata istruttoria e di
un’esauriente motivazione che dia contezza delle ragioni di
provvisorietà, sussidiarietà e straordinarietà proprie
dell’ordinanza sindacale si giustifica la deviazione dal
principio di tipicità degli atti amministrativi e la
possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la
configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale
tipologia provvedimentale (Cons. Stato, V, 25.05.2012, n.
3077).
Al contrario, l’ordinanza adottata dal Comune resistente ha
efficacia indeterminata nel tempo e si pone a rimedio di
accadimenti fronteggiabili con strumenti ordinari. Sotto
quest’ultimo aspetto, i mezzi di tutela dei diritti
demaniali, previsti dagli artt. 823, comma 2, e 825 cod.
civ. richiamati nell’impugnato provvedimento, escludono la
possibilità di ricorrere all’adozione dell’ordinanza in
argomento; depone nello stesso senso l’applicabilità
dell’art. 2932 cod. civ., ove trovasse conferma la tesi
della controinteressata secondo cui il Condominio
risulterebbe proprietario dell’area de qua a seguito
dell’inottemperanza all’obbligo di cedere l’opera di
urbanizzazione realizzata sancito dalla convenzione
urbanistica (pagina 10 della memoria di replica di Alter
Ego).
Non sussistono quindi i requisiti di contingibilità e
urgenza delineati dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000;
invero, l’ordinanza sindacale contingibile e urgente, per
come disciplinata dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, è
legittimamente utilizzabile soltanto in via provvisoria,
sussidiaria e straordinaria (TAR Molise, I, 20.06.2014, n.
393).
Sotto altro profilo, la contestata ordinanza assume a
parametro normativo di raffronto l’art. 2 del D.M. 05.08.2008,
che definisce l’ambito di intervento a tutela della
sicurezza urbana.
Orbene, premesso che «non può ritenersi compatibile con la
Carta costituzionale un potere atipico di ordinanza
sganciato dalla necessità di far fronte a specifiche
situazioni contingibili di pericolo, in quanto, diversamente
opinando, verrebbe ad essere attribuita in via ordinaria ai
sindaci la possibilità di incidere su diritti individuali in
modo assolutamente indeterminato ed in base a presupposti
molto lati suscettibili di larghissimi margini di
apprezzamento», la giurisprudenza amministrativa ha
valorizzato «il disposto del DM del 05.08.2008 laddove
aggancia la difesa della sicurezza pubblica al rispetto di
norme (preesistenti) che regolano la vita civile, con la
conseguenza che il potere sindacale di ordinanza ex art. 54 D.Lgs. 267/2000…non può avere una valenza "creativa" ma deve
limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di
norme ordinarie volte a tutelare l'ordinata convivenza
civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano
derivare gravi pericoli per la sicurezza pubblica. In altre
parole il potere in questione può essere esercitato qualora
la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal
DM del 05.08.2008 (situazioni di degrado o isolamento,
tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità,
incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla
viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma
rilevanza solo in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono
gli strumenti ordinari) ma possa costituire la premessa per
l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di
minare la sicurezza pubblica; in tal caso, venendo in gioco
interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia
amministrativa locale, il Sindaco, in qualità di ufficiale
di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza
pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed
in conformità delle direttive del Ministero dell'interno,
alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi
pericoli che la minacciano» (TAR Lombardia, Milano, III,
06.04.2010, n. 981; si veda anche Corte Costituzionale, 01.07.2009, n. 196).
Alla luce di tali premesse il provvedimento impugnato appare
affetto da carenza di motivazione e di presupposti in ordine
ai pericoli per l'incolumità pubblica o per la sicurezza
urbana (come sopra intesa).
Inoltre, la finalità di tutelare la sicurezza pubblica,
ovvero di far fronte alla lesione dei beni di cui all’art. 2
del D.M. 05.08.2008 (compreso l’intralcio alla viabilità
pubblica), non consente comunque di esercitare il potere
extra ordinem al di fuori dei casi contingibili e urgenti
(si veda Corte Costituzionale, 07.04.2011, n. 115).
Pertanto la situazione di intralcio alla viabilità pubblica,
cui fa riferimento l’atto impugnato, non può rilevare di per
sé, dovendo comunque rientrare in situazioni di
contingibilità e urgenza (Cons. Stato, VI, 31.10.2013, n.
5276; Corte Costituzionale 07.04.2011, n. 115) e attenere a
fenomeni di insorgenza della criminalità suscettibili di
minare la sicurezza pubblica (TAR Lombardia, Milano, III,
06.04.2010, n. 981).
In definitiva, gli intercorsi dissidi tra privati, le
ragioni di quieto vivere e la situazione di intralcio alla
pubblica viabilità, ai quali si riferisce l’atto impugnato,
non costituiscono presupposto legittimante l’adozione
dell’ordinanza contingibile e urgente
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.05.2015 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sulla redazione dell'atto introduttivo il legale
non può pretendere il pagamento.
Nel caso in cui l'atto introduttivo di un giudizio venga
redatto da un legale diverso da quello a cui è stata
rilasciata formalmente la procura, quest'ultimo non avrà
diritto di richiedere il pagamento degli onorari e diritti
per le attività di studio non richieste e la mera ricerca di
documenti.
Lo hanno
affermato i giudici della VI Sez. civile della Corte di
Cassazione con
ordinanza 20.05.2015 n. 10420.
Secondo i giudici di piazza Cavour la ricerca di documenti
rappresenta una prestazione d'ordine intellettuale che non
va confusa con l'attività meramente materiale con la quale i
documenti sono messi a disposizione del professionista.
Evidenziano gli Ermellini, che tale attività si inserisce
tra lo studio della controversa e l'attività relativa alla
consultazione con il cliente ed è normalmente seguita dalla
preparazione e redazione dell'atto introduttivo del
giudizio. Sarà pertanto logico il mancato riconoscimento
degli onorari e dei diritti per le attività di studio non
richieste e per la ricerca di documenti, trattandosi di atti
finalizzati alla elaborazione dell'atto introduttivo.
Nella sentenza, i giudici della Cassazione hanno poi
sostenuto che, per la revocazione delle sentenze della
Cassazione, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, n. 4, cod.
proc. civ., la ricorrenza dell'errore revocatorio presuppone
un errore di fatto e non un qualsiasi errore; inoltre, tale
errore dovrà risolversi in un'erronea percezione dei fatti
di causa «non ricorrendo, dunque, vizio revocatorio,
quando la decisione della Corte sia conseguenza di una
pretesa errata valutazione o interpretazione di documenti e
risultanze processuali e non della relativa inesatta
percezione».
Sarà altresì opportuno che presenti (oltre ai caratteri
dell'essenzialità e decisività ai fini della pronunzia)
quelli dell'estraneità a punti controversi su cui il giudice
si sia pronunciato nonché dell'assoluta evidenza e della
incontrovertibile rilevabilità sulla base del mero raffronto
tra sentenza, atti e documenti di causa
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha affermato che, rispetto ad un’ordinanza di
demolizione, non sono configurabili controinteressati e ciò
anche nel caso in cui sia ravvisabile una posizione di
vantaggio per il terzo, scaturente dall’esecuzione della
misura repressiva ed anche quando il terzo abbia segnalato
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso.
Diverso, però, il caso in cui non si tratti di un generico
vicino di casa che abbia presentato una segnalazione o un
esposto, ma di un vicino denunciante che risulti leso in
modo diretto dall’attività abusiva posta in essere, giacché
in questo caso si è in presenza di un interesse qualificato
a difendere un diritto di proprietà. In presenza di una
situazione del genere il vicino deve essere considerato un
controinteressato, essendo direttamente avvantaggiato
dall’attività repressiva dell’attività abusiva.
---------------
L’ordinanza di demolizione è un atto di carattere vincolato,
che deve essere adottato in base all’accertamento
dell’abuso.
Esso, in quanto provvedimento sanzionatorio, non richiede
particolare motivazione anche a distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso rilevato, non potendosi ammettere
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
decorso del tempo non può legittimare.
... per l’annullamento dell’ordinanza n. 18/2013 Reg. Ord.
del 17.05.2013 del Dirigente del Settore Assetto del
Territorio del Comune di Rossano di demolizione di opere
abusive e riduzione in pristino;
...
Con ricorso notificato al Comune di Rossano e ai Sig.ri
L.A. e D.I. in data, rispettivamente, 31.07.2013 e 26.07.2013 e depositato nella Segreteria
del Tribunale Amministrativo Regionale di Catanzaro il 07.08.2013, i sig.ri G.C. e D.P.
hanno impugnato l’ordinanza n. 18/2013 Reg. Ord. del 17.05.2013 del Dirigente del Settore Assetto del Territorio
del Comune di Rossano, con cui è stato loro ingiunto di
provvedere a propria cura e spese alla demolizione delle
opere realizzate senza titolo autorizzativo e/o abitativo
site in C.da Lampa del Comune di Rossano.
L’ordinanza reca
la seguente descrizione delle opere di cui è ordinata la
demolizione: “1) ampliamento di un capannone agricolo con
copertura in eternit ad una falda inclinata, lo stesso
misura internamente m12,50x411,60xH media 3,90, in aderenza
allo stesso sono adibiti un locale adibito a deposito con
manto di copertura in tegole ad una falda inclinata, delle
dimensioni interne di m 6,30x4,00xH media 3,00, ed un locale
adibito a forno, con copertura in eternit ad una falda
inclinata, delle dimensioni interne di 2,95x4,00xH media in
3,00;
2) realizzazione, in aderenza a fabbricato esistente,
di un vano adibito a cucina con copertura ad una falda
inclinata in eternit, (1,20x3,60xH media 2,75) che dista 1 m
dal confine, da cui fuoriescono 2 tubi in plastica adibiti a
scarico di una lavatrice e di un lavandino che scaricano a
cielo aperto;
3) realizzazione di un massetto in
calcestruzzo dalle dimensioni di m 1,67x1,10 dello spessore
di 15 cm, con posizionamento di un serbatoio di acqua che
dista 1,30 m dal confine;
4) installazione, sul lato sud
ovest del fabbricato esistente, di un condizionatore che
dista dal confine circa 1,50 m;
5) vasca Imhoff a servizio
del fabbricato”.
I ricorrenti hanno dedotto l’illegittimità del provvedimento
impugnato in quanto viziato per violazione e falsa
applicazione dell’art. 10 legge 765/1967 e dell’art. 31 del
D.P.R. n. 380/2001, rilevando che la maggior parte delle
opere cui si riferisce l’ordinanza sarebbero stati
realizzati prima dell’01.09.1967, data di entrata in
vigore della L. 765/1967 (Legge Ponte).
Hanno dedotto, altresì, violazione di legge ed eccesso di
potere, carenza di motivazione e di istruttoria (art. 3
L. 241/1990): la sopraelevazione di circa un metro dei muri
del capannone agricolo, la copertura di parte dello stesso,
e la costruzione di un locale adibito a cucina –uniche
opere successive all’acquisto del terreno nel 1974–
sarebbero stati effettuati circa venticinque anni prima
dell’emissione del provvedimento oggetto di questa
controversia; pertanto l’ordinanza di demolizione impugnata
avrebbe dovuto contenere un’adeguata motivazione in ordine
all’interesse pubblico sotteso alla repressione dell’abuso.
Con il terzo e quarto motivo di ricorso i ricorrenti hanno
dedotto, infine, la violazione e falsa applicazione degli
artt. 3, 6 e 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Con il terzo motivo hanno rilevato che il provvedimento
impugnato non indicherebbe con precisione quale sia la parte
di opera di cui si ingiunge la demolizione.
Con il quarto motivo hanno sottolineato che l’ordinanza
oggetto di causa ingiunge la demolizione di un massetto in
calcestruzzo, di un condizionatore e di una vasca Imhoff –opere necessarie ad integrare gli impianti tecnologici
esistenti, che, in quanto interventi di manutenzione
ordinaria, non avrebbero necessitato di alcun titolo
abitativo o autorizzativo; anche qualora classificati come
interventi di manutenzione straordinaria- per i quali è
invece richiesta una comunicazione di inizio lavori – la
sanzione prevista sarebbe stata pecuniaria.
...
Va esaminata, in via preliminare, l’eccezione di difetto di
legittimazione sollevata dai confinanti L.A. e D.I., che hanno rilevato di non avere alcun
interesse in relazione alla causa in questione.
La giurisprudenza ha affermato che, rispetto ad un’ordinanza
di demolizione, non sono configurabili controinteressati e
ciò anche nel caso in cui sia ravvisabile una posizione di
vantaggio per il terzo, scaturente dall’esecuzione della
misura repressiva ed anche quando il terzo abbia segnalato
all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso
(Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Cons. St.,
sez. V, 03.07.1995 n. 991; Cons. St. sez. II, 22.01.1992 n. 759).
Diverso, però, il caso in cui non si tratti di un generico
vicino di casa che abbia presentato una segnalazione o un
esposto, ma di un vicino denunciante che risulti leso in
modo diretto dall’attività abusiva posta in essere, giacché
in questo caso si è in presenza di un interesse qualificato
a difendere un diritto di proprietà. In presenza di una
situazione del genere il vicino deve essere considerato un
controinteressato, essendo direttamente avvantaggiato
dall’attività repressiva dell’attività abusiva (Cons. St.,
sez. VI, 29.05.2012 n. 3212; Cons. St., sez. VI, 29.05.2007 n. 2742).
...
Il motivo è privo di fondamento.
L’ordinanza di demolizione è un atto di carattere vincolato,
che deve essere adottato in base all’accertamento
dell’abuso. Esso, in quanto provvedimento sanzionatorio, non
richiede particolare motivazione anche a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso rilevato, non potendosi
ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
decorso del tempo non può legittimare (Cons. Stato, sez. VI,
04.03.2013, n. 1268) (Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2015 n. 406; Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2013, n. 498).
È infondato anche il terzo motivo di gravame, con cui viene
censurata la genericità dell’ordinanza di demolizione, che
non conterrebbe alcuna specificazione in ordine al rilevato
ampliamento. Dall’esame del provvedimento sanzionatorio
impugnato e dal verbale di accertamento n. 6413 del 26.04.2013
della Polizia Municipale, corredato da foto, con il quale
sono stati accertati gli abusi commessi, si evince in
maniera sufficientemente chiara l’entità dell’ampliamento
del capannone agricolo
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.05.2015 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla natura di interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria, un orientamento giurisprudenziale
che fa capo ad un parere del Consiglio di Stato, afferma che
l’installazione di condizionatori e climatizzatori non è
soggetta ad alcun titolo abilitativo, trattandosi di opere
libere.
Secondo il TAR Puglia in particolare il posizionamento dei
condizionatori climatici all’esterno dell’edificio, può
dirsi opera del tutto minore e sostanzialmente libera non
idonea a ledere in modo apprezzabile né l’interesse
paesaggistico né tantomeno quello urbanistico.
Secondo altro orientamento invece una regolare installazione
di climatizzatori o condizionatori –in quanto impianti
tecnologici- richiede la DIA. I climatizzatori e
condizionatori rientrano nella nozione di impianti
tecnologici posti in rapporti di strumentalità necessaria
rispetto agli edifici esistenti, come tali sono considerati
interventi edilizi minori.
Uguale problematica potrebbe porsi per gli altri elementi
menzionati, quali la vasca interrata, la cisterna e il
massetto. I caratteri di tali manufatti potrebbero condurre
ad affermare che si tratta di interventi minori, per i quali
non è necessaria l’acquisizione di alcun titolo.
Ma, in ogni caso, anche a far rientrare la realizzazione
delle opere in questione nel novero degli interventi edilizi
definiti dall’art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 380 del
2001, in quanto tali assoggettati a dichiarazione di inizio
di attività ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001, il
Comune di Rossano, come dedotto dai ricorrenti, avrebbe
dovuto applicare la sanzione pecuniaria prevista dall'art.
37 D.P.R. n. 380 del 2001 e non ingiungerne la demolizione.
Per le ragioni su esposte, il ricorso in epigrafe è fondato
e deve essere accolto nella parte in cui è dedotta
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione in riferimento
ai manufatti sopra indicati per i quali è stata ingiunta la
demolizione, realizzati antecedentemente al settembre 1967,
nonché con riguardo al massetto in calcestruzzo, al
serbatoio di acqua, al condizionatore e alla vasca Imhoff e
va, per tale parte, accolto.
Appare, invece, fondata la censura mossa con il quarto ed
ultimo motivo di gravame, con il quale si denuncia
l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in
cui prevede la demolizione di un massetto in calcestruzzo
con sovrastante posizionamento di un serbatoio di acqua, di
un condizionatore e della vasca Imhoff.
Sulla natura di
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, un
orientamento giurisprudenziale che fa capo ad un parere del
Consiglio di Stato del 16.03.2005 n. 2602/2003, afferma
che l’installazione di condizionatori e climatizzatori non è
soggetta ad alcun titolo abilitativo, trattandosi di opere
libere.
Secondo il TAR Puglia in particolare il
posizionamento dei condizionatori climatici all’esterno
dell’edificio, può dirsi opera del tutto minore e
sostanzialmente libera non idonea a ledere in modo
apprezzabile né l’interesse paesaggistico né tantomeno
quello urbanistico (Tar Puglia Sez. III, ord. 847/2011).
Secondo altro orientamento invece una regolare installazione
di climatizzatori o condizionatori –in quanto impianti
tecnologici- richiede la DIA (Tar, Campania, Napoli, sez. IV, 15.04.2011 n. 2157; Cons. St., sez. VI 01.10.2008 n. 4744). I climatizzatori e condizionatori rientrano
nella nozione di impianti tecnologici posti in rapporti di
strumentalità necessaria rispetto agli edifici esistenti,
come tali sono considerati interventi edilizi minori.
Uguale problematica potrebbe porsi per gli altri elementi
menzionati, quali la vasca interrata, la cisterna e il
massetto. I caratteri di tali manufatti potrebbero condurre
ad affermare che si tratta di interventi minori, per i quali
non è necessaria l’acquisizione di alcun titolo.
Ma, in ogni caso, anche a far rientrare la realizzazione
delle opere in questione nel novero degli interventi edilizi
definiti dall’art. 3, comma 1, lett. b), D.P.R. n. 380 del
2001, in quanto tali assoggettati a dichiarazione di inizio
di attività ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001, il
Comune di Rossano, come dedotto dai ricorrenti, avrebbe
dovuto applicare la sanzione pecuniaria prevista dall'art.
37 D.P.R. n. 380 del 2001 e non ingiungerne la demolizione.
Per le ragioni su esposte, il ricorso in epigrafe è fondato
e deve essere accolto nella parte in cui è dedotta
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione in riferimento
ai manufatti sopra indicati per i quali è stata ingiunta la
demolizione, realizzati antecedentemente al settembre 1967,
nonché con riguardo al massetto in calcestruzzo, al
serbatoio di acqua, al condizionatore e alla vasca Imhoff e
va, per tale parte, accolto.
Nel resto e, specificamente,
con riferimento all’ordine di demolizione relativo
all’ampliamento del capannone, all’edificazione del locale
cucina di cui al punto 2) dell’ordinanza impugnata, esso è
infondato e deve essere rigettato
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.05.2015 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ammissione
che il fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano
la medesima sagoma già implica che l’intervento non possa
qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo
infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo
ex d.lgs. n. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione,
affinché l’intervento sia qualificabile come
ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e
quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se le
sagome divergono, per quanto modesta possa essere la
divergenza, l’intervento non è più qualificabile come
ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina
valevole per gli interventi di “nuova costruzione”.
In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume
dell’immobile ricostruito sia (leggermente) inferiore al
volume di quello demolito, perché la legge richiede il
rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla
sagoma (che deve essere la “medesima”).
... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione
del permesso di costruire n. 3713 del 09.07.2013, del
permesso di costruire in variante n. 3728 del 10.04.2014 e
del permesso di costruire n. 3729 del 24.04.2014.
...
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano che l’intervento
edilizio assentito con il permesso di costruire del luglio
2013 non avrebbe potuto essere qualificato come
ristrutturazione, costituendo invece un intervento di nuova
costruzione; trattandosi di un intervento di nuova
costruzione, esso avrebbe dovuto essere conforme ai
parametri previsti dall’articolo 15/0 delle n.t.a. del
P.R.G. comunale (e quindi essere posto a 5 metri dai confini
e a 10 metri dalle pareti finestrate e rispettare il
rapporto di copertura 0,15).
La tesi dei ricorrenti è che la ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione implicherebbe che l’edificio da
ricostruire abbia i medesimi forma, volume e sagoma del
preesistente fabbricato da demolire; nella fattispecie
invece è stato autorizzato un fabbricato con caratteristiche
sostanzialmente diverse sia sotto il profilo della forma che
sotto i profili del volume e della sagoma.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono fondate.
Va premesso che la nozione di “ristrutturazione edilizia”
e in particolare quella di “ristrutturazione edilizia
mediante demolizione e ricostruzione” è stata oggetto di
varie modifiche alcune delle quali risalgono proprio
all’epoca dei permessi di costruire impugnati.
Alla data del rilascio del primo di essi –cioè alla data del
09.07.2013– era vigente la definizione recata dall’articolo
3, comma 1, lettera d), come modificata dall’articolo 30 del
d.l. 21.06.2013, n. 69.
Il testo vigente alla data del
09.07.2013 riconduceva alla ristrutturazione gli interventi
di demolizione e ricostruzione alla condizione che
l’immobile da ricostruire avesse il medesimo volume di
quello demolito (il testo previgente prevedeva il doppio
limite del rispetto della sagoma e della volumetria);
tuttavia per gli immobili soggetti a vincolo ex d.lgs.
22.01.2004, n. 42 era in pratica fatta salva la disciplina
precedente, e quindi il doppio limite della sagoma e del
volume, perché il nuovo testo stabiliva che “rimane fermo
che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai
sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente” (questo limite è rimasto
anche nel testo attualmente vigente).
L’immobile che viene in rilievo ricade incontestatamente in
area soggetta a vincolo (si legga la relazione tecnica)
tant’è che sul progetto è stata acquisita l’autorizzazione
paesaggistica (che è infatti citata nel preambolo del
permesso di costruire; d’altra parte una seconda
autorizzazione paesaggistica datata 18.03.2014 è stata
rilasciata per il progetto in variante e quest’ultima
autorizzazione è citata anche nel preambolo del permesso di
costruire del 24.04.2014). Di conseguenza, affinché il
progetto potesse qualificarsi nei termini di una
ristrutturazione, sarebbe stato necessario che la prevista
ricostruzione avvenisse nel rispetto della sagoma del
preesistente fabbricato; la sagoma è stata invece modificata
(per quanto di poco) e di conseguenza l’intervento non è
qualificabile come ristrutturazione.
Sul punto non appaiono convincenti le argomentazioni del
comune e della società controinteressata che evidenziano
come il mutamento della sagoma risulti modesto e come il
volume del fabbricato da ricostruire risulti persino
inferiore (anche se di poco) a quello demolito.
Per quanto riguarda il primo profilo, l’ammissione che il
fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano la
medesima sagoma già implica che l’intervento non possa
qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo
infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo
ex d.lgs. n. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione,
affinché l’intervento sia qualificabile come
ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e
quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se
le sagome divergono, per quanto modesta possa essere la
divergenza, l’intervento non è più qualificabile come
ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina
valevole per gli interventi di “nuova costruzione”.
In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume
dell’immobile ricostruito sia (leggermente) inferiore al
volume di quello demolito, perché la legge richiede il
rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla
sagoma (che deve essere la “medesima”).
Parimenti non fondato è l’argomento basato sul disposto
dell’articolo 17 della legge regionale 11.08.2008, n. 15
(cui fa riferimento la relazione tecnica al progetto e che è
stato invocato nelle difese); che le divergenze tra immobile
demolito e immobile ricostruito non superino il limite della
variazione essenziale come definita in quell’articolo non è
rilevante nella fattispecie, perché la definizione
dell’articolo 17 attiene alla materia del trattamento
sanzionatorio delle divergenze tra progetto assentito
dall’amministrazione e quanto di fatto realizzato (come del
resto lo stesso primo comma precisa con l’inciso “ai fini
dell’applicazione degli articoli 15 e 16”); del resto –se
anche si ritenesse di poter desumere argomenti per la
decisione dall’articolo 17 citato- l’ultimo comma di esso
stabilisce che “gli interventi di cui al comma 1 (tra cui
rientra la “modifica della sagoma quando la sovrapposizione
di quella autorizzata, rispetto a quella realizzata in
variante, dia un'area oggetto di variazione, in debordamento
od in rientranza, superiore al 10 per cento della sagoma
stessa”), effettuati su immobili sottoposti a vincolo
storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico
ed ambientale, nonché su immobili ricadenti in aree naturali
protette nazionali e regionali, sono considerati in totale
difformità dal titolo abilitativo”.
Quanto alle argomentazioni basate sulla disciplina
introdotta dall’articolo 1 d.lgs. 27.12.2001, n. 201 (cioè
sulla norma che ha modificato la definizione di
ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione
sostituendo all’espressione “demolizione e successiva
fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a
sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei
materiali, a quello preesistente” quella di “demolizione
e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente”) anch’esse, benché suggestive, non sono
condivisibili; il ricorrente sostiene che il concetto di
ricostruzione con stessa sagoma e stessa volumetria non
possono interpretarsi come identica sagoma e identica
volumetria ma come “standard massimi”, dato che
altrimenti sarebbe vanificata la novella del 2002.
Al contrario va rilevato che la novella del 2002 ha fatto
venir meno il vincolo della fedele ricostruzione
dell’immobile demolito ma ha comunque mantenuto quello della
identità di sagoma e di volume; il vincolo della identità di
sagoma è poi venuto meno per effetto delle modifiche del
2013 ma è stato mantenuto per gli immobili da demolire e
ricostruire in ambito soggetto a vincolo ex d.lgs. n. 42. In
definitiva medesima sagoma non può che significare che le
sagome dell’immobile demolito e dell’immobile da ricostruire
debbano essere uguali; se non lo sono l’intervento –allorché
si tratti di ambito vincolato- non è più una
ristrutturazione ma una nuova costruzione con tutte le
relative implicazioni.
Né può sostenersi che le modifiche siano state rese
necessarie dall’adeguamento alla normativa antisismica, dato
che non è stato dimostrato –e invero appare decisamente
improbabile- che non fosse possibile ricostruire un immobile
avente la medesima sagoma di quello demolito conforme alla
normativa antisismica (ovvero perché la sagoma preesistente
fosse incompatibile con la normativa antisismica).
In definitiva la controinteressata aveva due alternative; o
presentare un progetto che prevedesse un nuovo fabbricato
con sagoma e volume identici a quello da demolire ovvero
presentare un progetto che superasse questo limite; in
quest’ultimo caso però –trattandosi di nuova costruzione– si
sarebbero dovuti rispettare i parametri urbanistici previsti
per questa categoria di intervento; l’operazione autorizzata
dal comune si è invece tradotta nella realizzazione di una
nuova costruzione con la elusione dei limiti previsti dalle
n.t.a. del P.R.G. per questa categoria di interventi (che,
ove correttamente applicati, avrebbero implicato la
realizzazione di un intervento ben più modesto data la
necessità di rispettare le distanze dai confini e il
prescritto rapporto di copertura).
Di conseguenza è fondato il primo motivo, cosicché il
permesso di costruire del 09.07.2013 è illegittimo ed è
illegittimo per invalidità derivata anche il permesso in
variante assentito il 10.04.2014
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 20.05.2015 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Com'è
noto, la procedura disciplinata dall'art. 31 del D.P.R.
380/2001 (e ancor prima, dall'art. 7 della L. 47/1985)
prevede che l'autorità comunale, accertato l'abuso edilizio,
ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la
demolizione dell'immobile abusivo; se il responsabile non
provvede alla demolizione nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, l'immobile è acquisito di diritto
gratuitamente al patrimonio comunale; l'art. 31, terzo
comma, dispone che "se il responsabile dell'abuso non
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il
bene e l'area di sedime ... sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune", indicando che
l'effetto ablatorio si verifica ope legis per effetto
dell'inutile scadenza del termine fissato per ottemperare
all'ingiunzione di demolire, mentre la notifica
dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura
solo come titolo necessario per l'immissione in possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. art. 31,
quarto comma: "l'accertamento della inottemperanza alla
ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3,
previa notifica all'interessato, costituisce titolo per
l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente").
Questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla
logica degli istituti giuridici che connotano la specifica
disciplina, in quanto la scadenza del termine per
ottemperare configura il presupposto per l'applicazione
automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel
trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà
sull'immobile non demolito.
Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire
all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione
dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che
si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla
conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto
comma).
Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente
comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può
capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia
spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis),
sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente
alla demolizione, dovrà notificare formalmente
all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla
ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per
l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della
giurisprudenza amministrativa e della giurisprudenza penale
di legittimità secondo cui la notifica del verbale di
accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi
a constatare l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino:
quindi, non è necessario che lo stesso venga notificato al
responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento
con cui si dispone l'acquisizione gratuita, rilevando
l'adempimento della notifica all'interessato
dell'accertamento formale dell'inottemperanza unicamente
allo scopo di consentire all'ente locale l'immissione in
possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del
titolo dell'acquisizione.
---------------
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce
una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di
demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo
trascorso dalla realizzazione dell'abuso, né l'affidamento
eventualmente riposto dall'interessato sulla legittimità
delle opere realizzate, né infine l'assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l'acquisizione.
Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Dall’istruttoria svolta, infatti, è emerso che,
contrariamente a quanto dedotto in ricorso, l’ingiunzione di
demolizione n. 6 del 17.03.2008, avente ad oggetto le opere
abusive edificate sul fondo di proprietà della ricorrente è
stata ritualmente notificata alla stessa mediante consegna
di copia dell’atto al marito convivente, in data 26.03.2008.
La ricorrente non ha in alcun modo contestato le modalità
della notifica né dedotto una eventuale invalidità della
stessa, di tal che la comunicazione dell’atto sanzionatorio
risulta correttamente effettuata.
Peraltro il procedimento è iniziato a seguito di sopralluogo
effettuato in presenza della stessa ricorrente in data
13.02.2008, sopralluogo nel corso del quale è stata
constatata l’esistenza di opere abusive e sequestrato il
cantiere, con apposizione dei sigilli; il 29.02.2008 è stato
comunicato alla ricorrente l’avvio del procedimento
sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; il 06.11.2008
veniva constatata, sempre in presenza della ricorrente, la
violazione dei sigilli apposti al cantiere.
Né la ricorrente può affermare la propria estraneità
rispetto all’edificazione abusiva, in quanto, in primo
luogo, non ha fornito alcuna dimostrazione di tale assunto,
ad esempio deducendo e documentando la concessione ad altri
della disponibilità del suolo, e, inoltre, sia dal verbale
di sopralluogo e sequestro che da quello di violazione di
sigilli risulta chiaramente la sua presenza in loco al
momento dell’esecuzione dei lavori.
Con il secondo motivo di diritto parte ricorrente assume
l'illegittimità dell'iter procedimentale per omessa notifica
del verbale di inottemperanza all'ordine di demolizione, in
violazione dell'art. 31, quarto comma, del D.P.R. 380/2001.
Al riguardo va evidenziato che, com'è noto, la procedura
disciplinata dall'art. 31 del D.P.R. 380/2001 (e ancor
prima, dall'art. 7 della L. 47/1985) prevede che l'autorità
comunale, accertato l'abuso edilizio, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la demolizione
dell'immobile abusivo; se il responsabile non provvede alla
demolizione nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione,
l'immobile è acquisito di diritto gratuitamente al
patrimonio comunale; l'art. 31, terzo comma, dispone che "se
il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e
al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime ... sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del
comune", indicando che l'effetto ablatorio si verifica ope
legis per effetto dell'inutile scadenza del termine fissato
per ottemperare all'ingiunzione di demolire, mentre la
notifica dell'accertamento formale dell'inottemperanza si
configura solo come titolo necessario per l'immissione in
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari
(cfr. art. 31, quarto comma: "l'accertamento della
inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di
cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce
titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari, che deve essere eseguita
gratuitamente") (TAR Napoli, sez. VIII, 26/03/2014 n.
1780, Consiglio di Stato sez. VI 08.05.2014 n. 2368).
Questa interpretazione letterale risponde perfettamente alla
logica degli istituti giuridici che connotano la specifica
disciplina, in quanto la scadenza del termine per
ottemperare configura il presupposto per l'applicazione
automatica della sanzione amministrativa, che consiste nel
trasferimento coattivo all'ente comunale della proprietà
sull'immobile non demolito.
Scopo evidente di questa sanzione è quello di consentire
all'ente pubblico di provvedere d'ufficio alla demolizione
dell'immobile a spese del responsabile dell'abuso, salvo che
si accerti in concreto un prevalente interesse pubblico alla
conservazione dell'immobile stesso (dell'art. 31, quinto
comma). Tuttavia, anche dopo il trasferimento all'ente
comunale della proprietà e del relativo jus possidendi, può
capitare che il privato responsabile dell'abuso non voglia
spontaneamente spogliarsi del possesso (jus possessionis),
sicché l'ente comunale che intenda procedere concretamente
alla demolizione, dovrà notificare formalmente
all'interessato l'accertamento della inottemperanza alla
ingiunzione, in tal modo acquisendo il titolo per
l'immissione in possesso contro il privato possessore.
Peraltro, è questo il prevalente indirizzo della
giurisprudenza amministrativa (Consiglio Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174), seguita anche da questo Tribunale
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012 n. 1542;
Sez. III, 19.01.2010 n. 195) e della giurisprudenza
penale di legittimità (Cassazione penale, Sez. III, 28.11.2007 n. 4962 e 16.02.2005 n. 14638) secondo
cui la notifica del verbale di accertamento
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, non ha
alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare
l'inadempimento all'ingiunzione di ripristino: quindi, non è
necessario che lo stesso venga notificato al responsabile
dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si
dispone l'acquisizione gratuita, rilevando l'adempimento
della notifica all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza unicamente allo scopo di consentire
all'ente locale l'immissione in possesso e la trascrizione
nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.
Sono del pari infondati gli ulteriori due motivi con i quali
l'esponente censura, rispettivamente, l'omessa
specificazione dei manufatti oggetto di demolizione e la
mancata ponderazione dell'interesse pubblico al ripristino
con quello contrapposto del privato destinatario dell'atto
sanzionatorio.
Sotto un primo profilo, le opere abusive acquisite di
diritto ai sensi dell'art. 31, terzo comma, del D.P.R.
380/2001 vanno individuate in quelle realizzate ed ubicate
sulla porzione immobiliare dettagliatamente indicata nei
suoi estremi catastali (Foglio 2, particella 5044) e sono
state specificamente descritte nell’ingiunzione a demolire
che riporta: “All'interno di una recinzione costituita da
parete in c.a. di cui è stata presentata regolare D.I.A.
protocollo n. 4149 del 01.10.2007, risulta realizzata una
costruzione composta da un vespaio in cemento armato
rialzato dal suolo di circa mt. 1,00, su cui poggiano n. 12
pilastri con il relativo solaio di copertura, il tutto
ancora armato e puntellato. Al primo piano sono eretti n. 5
armature in ferro e legno per pilastri prive di getto. Il
manufatto insiste su di un area di circa 170 mq. (dimensioni mt. 15,00 x mt. 11,50 circa). L'abuso ricade nella zona "E"
(Agricola) del P.R.G. del Comune di Casapesenna regolarmente
approvato. L'abuso risulta realizzato su una zona di terreno
distinta in catasto al foglio n. 2 particella 5044 di mq.
648,00”.
La descrizione risulta quindi analitica e individua
compiutamente le opere e le relative dimensioni.
Quanto al pubblico interesse sotteso all'adozione del
provvedimento, giova rammentare che l'acquisizione gratuita
al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere
sanzionatorio che consegue automaticamente
all'inottemperanza dell'ordine di demolizione, sicché non
osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione
dell'abuso, né l'affidamento eventualmente riposto
dall'interessato sulla legittimità delle opere realizzate,
né infine l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni
di interesse pubblico perseguite attraverso l'acquisizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.02.2013 n. 718)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001,
successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione,
produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, il
riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di
sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o
tacito), che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso,
che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio si sposta,
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato e divenuto inefficace, all'annullamento
dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di
sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti
sanzionatori.
In tali ipotesi, pertanto, viene a mancare l'interesse della
parte ricorrente alla decisione sull'impugnativa del primo
provvedimento sanzionatorio, in considerazione della
necessaria successiva formazione di un ulteriore
provvedimento (positivo o negativo) sull'istanza di
sanatoria o "condono", anch'esso eventualmente censurabile
in sede giurisdizionale dall'interessato.
La giurisprudenza amministrativa ha affermato costantemente che la
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente
all'impugnazione dell'ordine di demolizione, produce
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per
sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, il riesame
dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di
sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, di accoglimento o di rigetto (espresso o
tacito), che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso,
che deve conseguentemente essere dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse, perché l'interesse
del responsabile dell'abuso edilizio si sposta,
dall'annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato e divenuto inefficace, all'annullamento
dell'eventuale provvedimento di rigetto della domanda di
sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti
sanzionatori (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 07.11.2008, n. 1482; TAR Campania Napoli, sez. IV,
07.11.2008, n. 19352; TAR Sicilia Catania, sez. I, 04.11.2008, n. 1911; TAR Lazio Roma, sez. II, 15.09.2008, n. 8306).
In tali ipotesi, pertanto, viene a mancare l'interesse della
parte ricorrente alla decisione sull'impugnativa del primo
provvedimento sanzionatorio, in considerazione della
necessaria successiva formazione di un ulteriore
provvedimento (positivo o negativo) sull'istanza di
sanatoria o "condono", anch'esso eventualmente censurabile
in sede giurisdizionale dall'interessato (TAR Napoli,
Sez. VII, n. 3605 del 26.07.2012)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Il preavviso di diniego ex art. 10-bis della L.
n. 241 del 07.08.1990 non può ridursi a mero rituale
formalistico, con la conseguenza, nella prospettiva del buon
andamento dell'azione amministrativa, che il privato non può
limitarsi a denunciare la mancata o incompleta comunicazione
del preavviso di rigetto, ma è anche tenuto ad allegare gli
elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase
procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto
finale del provvedimento.
---------------
Nel caso in esame, attesa la palese non conformità delle
opere alla disciplina pianificatoria vigente, il vizio
connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta
in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990)
risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241
del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e
vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto stabilito.
Infatti, a fronte dell'entità dell'abuso edilizio (nuova
costruzione di un edificio in zona nella quale non sono
consentiti interventi di tale portata), l'attività
provvedimentale sull'istanza di sanatoria (di per sé
vincolata al riscontro della doppia conformità e priva di
margini discrezionali), non può che condurre al rigetto
della stessa, con conseguente inconsistenza delle censure
formali attinenti alla violazione degli artt. 7 e 10-bis ,
l. n. 241 del 1990.
Con il primo
motivo la ricorrente ha dedotto che non sarebbe stato
inviato il preavviso di diniego dell’istanza.
In proposito deve rilevarsi che il preavviso di diniego ex
art. 10-bis della L. n. 241 del 07.08.1990 non può
ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza,
nella prospettiva del buon andamento dell'azione
amministrativa, che il privato non può limitarsi a
denunciare la mancata o incompleta comunicazione del
preavviso di rigetto, ma è anche tenuto ad allegare gli
elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase
procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto
finale del provvedimento (in tal senso ex multis TAR
Sardegna, sez. II, 17.11.2014 n. 952).
Di contro, nella specie la parte istante non ha in alcun
modo contestato le ragioni sostanziali poste a fondamento
del diniego, e relative all’insistenza dell’abuso in zona A2
contraddistinta dalla presenza di edifici monumentali,
laddove sono consentiti dalla disciplina urbanistica vigente
solo interventi di restauro e di utilizzo dei beni
esistenti.
Nel caso in esame, quindi, attesa, la palese non conformità
delle opere alla disciplina pianificatoria vigente, il vizio
connesso alla mancata previa comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza di sanatoria (dovuta
in applicazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990)
risulta superabile ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241
del 1990, posto che, trattandosi di attività doverosa e
vincolata, il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto stabilito (TAR Napoli, sez. II 10.04.2013 n. 1903).
Infatti, a fronte dell'entità dell'abuso edilizio (nuova
costruzione di un edificio in zona nella quale non sono
consentiti interventi di tale portata), l'attività
provvedimentale sull'istanza di sanatoria (di per sé
vincolata al riscontro della doppia conformità e priva di
margini discrezionali), non può che condurre al rigetto
della stessa, con conseguente inconsistenza delle censure
formali attinenti alla violazione degli artt. 7 e 10-bis ,
l. n. 241 del 1990 (TAR Napoli, sez. IV 08.04.2013 n. 1822) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
Con i motivi
aggiunti notificati il 16.09.2008 la ricorrente ha
impugnato l’ordinanza commissariale n. 2052 del 04.06.2008 con la quale è stata ingiunta la demolizione delle
opere abusive, deducendo in primo luogo l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento.
Al riguardo va rilevato che secondo costante indirizzo
giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi,
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto
(Consiglio di Stato VI Sezione 29.11.2012 n. 6071;
Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio
di Stato IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di
Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di
Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001
successivamente all'adozione dell'ordine di demolizione
produce l'effetto di rendere inefficace tale provvedimento,
perché il riesame dell'abusività dell'opera provocato
dall'istanza di sanatoria comporta la formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito, di accoglimento o di
rigetto, che vale comunque a superare la precedente
ingiunzione a demolire, sicché nell'ipotesi di rigetto
dell'istanza l'Amministrazione deve adottare un nuovo ordine
di demolizione, con l'assegnazione in tal caso di un nuovo
termine per adempiere.
Pertanto, considerato la sopravvenuta inefficacia
dell'ordine di demolizione per effetto dell'istanza di
accertamento di conformità, coerentemente con tale
ricostruzione all’esito del procedimento, ed a seguito del
diniego di sanatoria, l'amministrazione deve notificare una
nuova ingiunzione a demolire per consentire all'interessato,
che si è visto rigettare l'istanza di sanatoria, di optare
per la demolizione in proprio al fine di evitare l'effetto
pregiudizievole dell'acquisizione del bene al patrimonio
pubblico.
Quanto,
invece, all’impugnazione del provvedimento prot. 3259 del
23.9.2008, con il quale è stata accertata l’inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione prot. 2052 del 04.06.2008, il
gravame è fondato.
Le ricorrenti hanno infatti dedotto l’inefficacia dei
provvedimenti sanzionatori antecedenti alla richiesta di
sanatoria (presentata l’08.07.2008) e quindi dell’avviso di
acquisizione delle opere al patrimonio comunale, che avrebbe
dovuto essere preceduto da un nuovo provvedimento
sanzionatorio a seguito del diniego di sanatoria
dell’08.07.2008.
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile
in questione è stata infatti disposta con riferimento
all’inottemperanza all’ordine di demolizione n. 2052 del
04.06.2008, a seguito del quale è stata presentata istanza di
sanatoria, sfociata nel successivo diniego.
Come già visto secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale, la presentazione dell'istanza di
accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del D.P.R.
n. 380/2001 successivamente all'adozione dell'ordine di
demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale
provvedimento (ex multis, TAR Campania, Sez. IV, 28.10.2005, n. 17863; 13.09.2004, n. 11983), perché
il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza
di sanatoria comporta la formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito od implicito, di accoglimento o di
rigetto, che vale comunque a superare la precedente
ingiunzione a demolire, sicché nell'ipotesi di rigetto
dell'istanza l'Amministrazione deve adottare un nuovo ordine
di demolizione, con l'assegnazione in tal caso di un nuovo
termine per adempiere.
Pertanto, considerato la sopravvenuta inefficacia
dell'ordine di demolizione per effetto dell'istanza di
accertamento di conformità, coerentemente con tale
ricostruzione all’esito del procedimento, ed a seguito del
diniego di sanatoria, l'amministrazione deve notificare una
nuova ingiunzione a demolire per consentire all'interessato,
che si è visto rigettare l'istanza di sanatoria, di optare
per la demolizione in proprio al fine di evitare l'effetto
pregiudizievole dell'acquisizione del bene al patrimonio
pubblico (TAR Lazio, Roma, sez. II 04.02.2011 n.
1076, TAR Campania, Napoli, sez. III 13.05.2014 n.
2623, sez. III 19.02.2014 n. 1050, sez. VII 04.12.2008 n. 20973, TAR Catania, sez. I, 19/11/2008)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2813 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto all’omessa indicazione dei beni da
acquisire in caso di inottemperanza alla demolizione, si
evidenzia che ai fini della motivazione dell'ordine di
demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione
precisa della superficie occupata e dell'area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione, perché tali elementi afferiscono all'eventuale
successiva ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale.
---------------
Le censure incentrate sui vizi formali del provvedimento,
con particolare riferimento alla violazione dell'art. 7 L.
n. 241 del 1990 e alla omessa motivazione non sono
suscettibili di accoglimento in quanto costituisce principio
consolidato della giurisprudenza quello di considerare
l'ordine di ripristino dello stato dei luoghi come un atto
dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo
abilitativo; ne consegue, quindi, che tale provvedimento
vincolato non necessita di particolare motivazione in ordine
alle norme violate, all'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso e agli interessi privati coinvolti -che è in re
ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico
violato- e alla possibilità di adottare provvedimenti
alternativi.
---------------
Infine, con riferimento alla impossibilità di ottemperare
all’ingiunzione demolitoria stante il sequestro penale
dell’immobile, si rileva che ai sensi dell'art. 85 disp.
att. c.p.p., il proprietario di un bene in sequestro può
chiederne la riconsegna all'A.G. competente, la quale se del
caso potrà accogliere la richiesta, dettando le necessarie
prescrizioni e garanzie; di conseguenza il sequestro penale
non è inquadrabile tra gli impedimenti assoluti
all'esecuzione dell'ingiunzione di demolizione e perciò non
determina la sospensione del termine di novanta giorni per
l'esecuzione della stessa, il cui infruttuoso decorso
comporta acquisizione gratuita del bene al patrimonio del
Comune, in base all'art. 31 del d.p.r. n. 380 del
06.06.2001.
Quanto all’omessa indicazione dei beni da acquisire in caso di
inottemperanza alla demolizione, si evidenzia che ai fini
della motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e
sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della superficie occupata
e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente
acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono
all'eventuale successiva ordinanza di acquisizione al
patrimonio comunale (ex multis, da ultimo TAR Napoli,
sez. VII, 09.01.2015 n. 68).
Le censure incentrate sui vizi formali del provvedimento,
con particolare riferimento alla violazione dell'art. 7 L.
n. 241 del 1990 e alla omessa motivazione, di cui al terzo e
al quarto motivo, non sono suscettibili di accoglimento in
quanto costituisce principio consolidato della
giurisprudenza quello di considerare l'ordine di ripristino
dello stato dei luoghi come un atto dovuto in presenza di
opere realizzate senza alcun titolo abilitativo; ne
consegue, quindi, che tale provvedimento vincolato non
necessita di particolare motivazione in ordine alle norme
violate, all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso e
agli interessi privati coinvolti -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi
(cfr. ex multis, TAR Campania Napoli, sez. IV, 04.02.2003, n. 617; idem, Sez. VI, 15.06.2007, n. 6178).
Infine, con riferimento al quinto motivo, relativo alla
impossibilità di ottemperare all’ingiunzione demolitoria
stante il sequestro penale dell’immobile, si rileva che ai
sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p., il proprietario di un
bene in sequestro può chiederne la riconsegna all'A.G.
competente, la quale se del caso potrà accogliere la
richiesta, dettando le necessarie prescrizioni e garanzie;
di conseguenza il sequestro penale non è inquadrabile tra
gli impedimenti assoluti all'esecuzione dell'ingiunzione di
demolizione e perciò non determina la sospensione del
termine di novanta giorni per l'esecuzione della stessa, il
cui infruttuoso decorso comporta acquisizione gratuita del
bene al patrimonio del Comune, in base all'art. 31 del
d.p.r. n. 380 del 06.06.2001 (TAR Cagliari, sez. II,
11.12.2014 n. 1079; TAR Roma, sez. I, 30.12.2014 n. 13335; TAR Lecce, sez. III, 11.11.2014 n.
2740) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce ius receptum che, in
presenza di atti plurimotivati, basati cioè su una pluralità
di motivazioni, ciascuna delle quali sufficiente a reggere
l’atto, l’omessa censura di una di esse determini
l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a
ricorrere, rimanendo l’atto sorretto dall’ulteriore ragione
giustificatrice non oggetto di censura.
Analogamente occorre, altresì, ritenere che, ove tutte le
motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state
censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una
delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto
impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di
disamina delle ulteriori censure relative alle restanti
motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare
alcun interesse all’analisi di tali censure [- «per un atto
c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una
delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso
condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento
sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante
motivazionale risultato immune ai vizi lamentati»;
- «nel caso di provvedimento di esclusione da una gara
d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di
una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il
provvedimento di estromissione»;
- «nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su
di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento
plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente»].
Osserva il Tribunale che il gravato annullamento del permesso di
costruire è sostanzialmente basato su più ragioni, ognuna
avente valore autonomo e suscettibile di reggere di per sé
il provvedimento: per ragioni di economia processuale e di
sinteticità della motivazione della sentenza, appare allora
opportuno analizzare per prima cosa la questione relativa
alla necessità dell’adozione di un Piano di Lottizzazione
prima del rilascio del permesso di costruire in parola, in
quanto da sola idonea a sorreggere l’impugnato diniego di
condono.
Costituisce, infatti, ius receptum che, in presenza di atti
plurimotivati, basati cioè su una pluralità di motivazioni,
ciascuna delle quali sufficiente a reggere l’atto, l’omessa
censura di una di esse determini l’inammissibilità del
ricorso per difetto di interesse a ricorrere, rimanendo
l’atto sorretto dall’ulteriore ragione giustificatrice non
oggetto di censura (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli,
sez. VII, 08.04.2011, n. 2009; in senso analogo, TAR
Liguria Genova, sez. I, 25.10.2010, n. 10015; TAR
Campania Napoli, sez. VII, 02.10.2009, n. 5138).
Analogamente occorre, altresì, ritenere che, ove tutte le
motivazioni poste a base dell’atto impugnato siano state
censurate, ma che siano infondate le censure relative ad una
delle motivazioni in grado da sola di reggere l’atto
impugnato, il ricorso vada rigettato senza necessità di
disamina delle ulteriori censure relative alle restanti
motivazioni dell’atto, non potendo il ricorrente vantare
alcun interesse all’analisi di tali censure [ex multis,
TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63
secondo cui «per un atto c.d. "plurimotivato", anche
l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte
non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento
dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune
ai vizi lamentati»; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui «nel caso di provvedimento
di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la
riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è
sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione»;
TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164
secondo cui «nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d.
provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza
volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici
comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente»] (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che la giurisprudenza amministrativa è
consolidata nell’affermare che “E' illegittima la pretesa
del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio
alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur
astrattamente previsto dallo strumento generale, allorquando
sia accertato che la costruzione in progetto insiste nel
lotto residuo di un'area già edificata e dotata delle
necessarie opere di urbanizzazione (cd. "lotto
intercluso")”, sempre la giurisprudenza amministrativa ha
anche precisato che tale principio non è però applicabile
“nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione
disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio,
completando il sistema della viabilità secondaria nella zona
o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il
rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici
e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione)”.
Osserva il
Tribunale come sia incontroverso che l’area in questione
ricade in zona classificata “C”, di espansione residenziale,
dal PRG del Comune di Baselice; e che tale strumento
urbanistico condiziona gli interventi da effettuarsi ivi
alla previa redazione e approvazione di un Piano di
Lottizzazione, il quale nella specie è invece mancante (e,
in ogni caso, lo stesso è stato ritenuto non necessario al
momento del rilascio del permesso di costruire oggetto
dell’annullamento qui in discussione).
La tesi portata avanti dal C., all’atto della
presentazione dell’istanza edilizia e anche in questa sede,
è, infatti, che il lotto di sua proprietà sarebbe in
sostanza “di completamento”, essendo ubicato in zona
centrale dell’abitato (limitrofa al centro antico), del
tutto urbanizzata e dotata delle necessarie infrastrutture:
la previa redazione di pianificazione attuativa non sarebbe
allora necessaria, poiché, come chiarito da giurisprudenza
costante in fattispecie analoghe, non avrebbe più alcuna
utile funzione.
Peraltro, sostiene sempre il ricorrente, i box auto da
realizzare avrebbero il carattere della pertinenzialità
rispetto ad un edificio da costruire in un secondo momento
(cfr. relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di
costruire prot. n. 2828 del 28.05.2012).
Ora, se è vero che la giurisprudenza amministrativa è
consolidata nell’affermare che “E' illegittima la pretesa
del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio
alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur
astrattamente previsto dallo strumento generale, allorquando
sia accertato che la costruzione in progetto insiste nel
lotto residuo di un'area già edificata e dotata delle
necessarie opere di urbanizzazione (cd. "lotto
intercluso")” (così TAR Sardegna n. 576 del 30.03.2007;
nonché in senso analogo cfr. TAR Sicilia-Catania n. 386 del
13.02.2012; TAR Puglia-Lecce n. 15 del 10.01.2012; TAR Campania-Napoli n. 546 del 30.01.2009), sempre la
giurisprudenza amministrativa ha anche precisato che tale
principio non è però applicabile “nell'ipotesi in cui per
effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di
fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora
definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento
della zona (ad esempio, completando il sistema della
viabilità secondaria nella zona o integrando
l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue,
già asservite all'edificazione)” (così TAR Sardegna n. 117
del 10.02.2011, nonché, analogamente, Cons. di Stato sez. IV,
n. 4255 del 22.08.2013; Cons. di Stato sez. IV, n. 7486 del
13.10.2010; TAR Puglia-Lecce n. 294 del 10.02.2011; TAR
Basilicata n. 28 del 14.01.2011) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza amministrativa ritiene che l’art. 107 del T.U. 18.08.2000 n. 267
vada letto, alla stregua del correlato art. 4 del T.U.
30.03.2001 n. 165 sul pubblico impiego, come un’actio finium
regundorum tra le competenze degli organi di governo e
quelle delle strutture amministrative, e dunque non come
obbligo dei vertici di queste ultime di esercitare
direttamente tutte le attribuzioni ad essi affidate.
Nell'ambito dei poteri di organizzazione riconosciuto ai
dirigenti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17,
lett. d), del T.U. 30.03.2001 n. 165 (che prevede poteri
sostitutivi in caso di inerzia) e 6 della L. 07.08.1990 n.
241 (che enumera le funzioni del responsabile del
procedimento), rientra anche la possibilità di delegare
alcune competenze a funzionari incardinati nella struttura
dell’ufficio, con la precisazione che il comma 1-bis,
aggiunto all'art. 17 del citato T.U. dall'art. 2 della L.
15.07.2002 n. 145 (il quale prevede tale facoltà per un
periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, a
favore di dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali
più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati),
costituisce peraltro esplicitazione di un potere che era già
implicito in base alla previgente disciplina normativa.
Alla luce della disposizione normativa da ultimo richiamata
deve ritenersi che la potestà decisoria conferita dalla
legge ai dirigenti in materia di rilascio di concessioni
edilizie possa essere delegata a un funzionario e, pertanto,
anche i relativi provvedimenti di secondo grado.
Il motivo è infondato.
In punto di diritto, l’art. 107 -Funzioni e responsabilità
della dirigenza– del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, al comma 3
prevede, per quello che in questa sede interessa, che: “3.
Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione
degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di
indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o
dai regolamenti dell'ente: a) ….. f) i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie; g)
tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori,
abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale,
nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione
statale e regionale in materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale;”.
Inoltre l’art. 17 -Funzioni dei dirigenti– al comma 1 tra
l’altro dispone: “1. I dirigenti, nell'ambito di quanto
stabilito dall'articolo 4 esercitano, fra gli altri, i
seguenti compiti e poteri: …d) dirigono, coordinano e
controllano l’attività degli uffici che da essi dipendono e
dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con
poteri sostitutivi in caso di inerzia;….” ed il comma
1-bis., comma aggiunto dall’art. 2, comma 1, della L. 15.07.2002, n. 145, prevede: “1-bis. I dirigenti, per
specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono
delegare per un periodo di tempo determinato, con atto
scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle
funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a
dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate
nell'ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in
ogni caso l'articolo 2103 del codice civile.”
Al riguardo la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal
Collegio, ritiene che l’art. 107 del T.U. 18.08.2000 n.
267 vada letto, alla stregua del correlato art. 4 del T.U.
30.03.2001 n. 165 sul pubblico impiego, come un’actio
finium regundorum tra le competenze degli organi di governo
e quelle delle strutture amministrative, e dunque non come
obbligo dei vertici di queste ultime di esercitare
direttamente tutte le attribuzioni ad essi affidate.
Nell'ambito dei poteri di organizzazione riconosciuto ai
dirigenti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17,
lett. d), del T.U. 30.03.2001 n. 165 (che prevede poteri
sostitutivi in caso di inerzia) e 6 della L. 07.08.1990
n. 241 (che enumera le funzioni del responsabile del
procedimento), rientra anche la possibilità di delegare
alcune competenze a funzionari incardinati nella struttura
dell’ufficio, con la precisazione che il comma 1-bis,
aggiunto all'art. 17 del citato T.U. dall'art. 2 della L. 15.07.2002 n. 145 (il quale prevede tale facoltà per un
periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, a
favore di dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali
più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati),
costituisce peraltro esplicitazione di un potere che era già
implicito in base alla previgente disciplina normativa.
Alla
luce della disposizione normativa da ultimo richiamata deve
ritenersi che la potestà decisoria conferita dalla legge ai
dirigenti in materia di rilascio di concessioni edilizie
possa essere delegata a un funzionario (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. II Consultiva, n. 321 del 09.12.2004) e,
pertanto, anche i relativi provvedimenti di secondo grado.
Passando ad esaminare la fattispecie oggetto di gravame, il
Collegio, confermando quanto già sostenuto da questa Sezione
nell’ordinanza n. 1662 del 09.10.2014, con la quale è
stata respinta la domanda incidentale di sospensione
cautelare proposta dai ricorrenti, ritiene che il
provvedimento impugnato non sia viziato per incompetenza,
stante la delegabilità delle funzioni per un singolo
procedimento ai sensi dell’art. 17 comma 1-bis, del d.lgs.
n. 165/2001, nella specie peraltro motivata per la
ricorrenza in atto di una situazione di conflitto di
interesse, funzioni delegate dal dirigente del V Settore
Urbanistica del Comune di Marcianise al geom. M.A. con la disposizione dirigenziale prot. n. 9871 del
29.04.2014 anch’essa oggetto di gravame.
Occorre precisare che parte ricorrente ha solo
apoditticamente censurato la violazione e falsa applicazione
dell’art. 42 dello Statuto del Comune di Marcianise; di
contro la suddetta disposizione dirigenziale prot. n. 9871
del 29.04.2014 è stata adottata sul presupposto della
precedente determinazione numero 785 del 06.05.2013,
prodotta in giudizio da parte resistente, con la quale il
medesimo dirigente aveva tra l’altro nominato il geom.
Matteo Alberico quale suo sostituto “nel caso in cui ricorre
l’obbligo di astensione a carico dello stesso dal
partecipare all’adozione di atti, decisioni o attività che
coinvolgono interessi propri o di altri soggetti, come
individuati dal codice di comportamento dei dipendenti della
P.A.”; tale determinazione espressamente richiama la
delibera di Giunta Comunale n. 105 del 15.03.2011
“Integrazione regolamento degli uffici e dei servizi
comunali - delega funzioni dirigenziali” disciplinante
l’esercizio della delega da parte dei dirigenti
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In riferimento all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444, che prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti, la giurisprudenza
amministrativa ha chiarito che tale distanza va rispettata
in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
---------------
Secondo la consolidata giurisprudenza, la regola delle
distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell’art.
9 deve ritenersi applicabile anche alle sopraelevazioni.
Inoltre la disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2,
del citato D.M., essendo tassativa ed inderogabile, impone
al proprietario dell'area confinante col muro finestrato
altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci
metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e
a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano,
con efficacia precettiva, il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Il suddetto
motivo è infondato in punto di fatto.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente,
l’ordinanza impugnata esplicita le ragioni di pubblico
interesse poste a fondamento del provvedimento adottato in
autotutela, “la tutela dell'interesse pubblico all'igiene,
alla sicurezza e al decoro della collettività”,
evidentemente diverse dall’interesse al ripristino della
legalità ed idonee a giustificare, ad avviso del Collegio,
il sacrificio del contrapposto interesse privato, in
conformità a quanto previsto dell'art. 21-nonies della l. n.
241 del 1990.
Ed infatti nel provvedimento impugnato è, in particolare,
rappresentato: “Atteso che:
- Per quanto sopra e tenendo
conto degli interessi pubblici, di quelli dei proprietari
dell'immobile di che trattasi nonché di eventuali soggetti
comunque interessati e quelli dei contro interessati,… è
opportuno e necessario annullare i seguenti titoli
abilitativi:…. perché risultano essere illegittimi e lesivi
degli interessi pubblici e privati ed in quanto sussistono
ragioni di pubblico interesse in particolare: …….
- Per
l'esistenza di distanze minime non garantite (DM 1444/1968),
in quanto la norma sulla stesse è preordinata, più che alla
tutela di interessi privati, alla tutela dell'interesse
pubblico all'igiene, alla sicurezza e al decoro della
collettività, attesi che il rispetto della distanza minima
imposta è necessario per impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario;
- Per la valutata impossibilità di procedere ad eventuale
rilascio di titolo edilizio in “sanatoria” od applicazione
di sanzioni amministrative pecuniarie in alternativa alla
demolizione, atteso il mancato rispetto delle distanze fra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti per
fabbricati in Zona Classificata B del vigente PRG Comunale
il tutto per la succitata tutela degli interessi privati,
tutela dell'interesse pubblico cogente ed attuale
dell'igiene, della sicurezza e del decoro della
collettività, precisato, come sopradetto, che il rispetto
della distanza minima imposta è necessario per impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario;….”.
Sotto altro profilo non può attribuirsi rilievo
all’affidamento ingeneratosi per effetto del rilascio del
pregresso titolo in sanatoria dal momento che l’affidamento
della parte privata alla stabilizzazione del rapporto
giuridico in conformità del titolo in sanatoria appare per
vero recessivo, nel caso qui dato, al cospetto degli
evidenziati interessi pubblici, di valore preminente (cfr.
TAR Napoli, Sezione VIII, 12.06.2014, n. 3264).
In particolare, in riferimento all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive la distanza di dieci metri tra
le pareti finestrate di edifici antistanti, la
giurisprudenza amministrativa ha chiarito che tale distanza
va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909,
02.11.2010, n. 7731).
---------------
In riferimento
alla violazione delle distanze, il Collegio deve rilevare
che il D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’art. 9 -Limiti di
distanza tra i fabbricati- comma 1, n. 2, dispone: “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:.. 2) Nuovi
edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i
casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;”.
Al riguardo occorre innanzitutto precisare che, secondo la
consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis, in tal senso,
Cassazione civile, sezione II, 27.03.2001, n.4413,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759), dal
quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la regola
delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2
dell’art. 9 deve ritenersi applicabile anche alle
sopraelevazioni. Inoltre la disposizione di cui all'art. 9,
comma 1, n. 2, del citato D.M., essendo tassativa ed
inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante
col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio
ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga,
neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia
destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia
di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c..
Le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444
integrano, con efficacia precettiva, il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza
di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla
tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi
consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011,
n. 5759) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è stata rappresentata una situazione dei
luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale
difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo
edilizio determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale
circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente
per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio
del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può
prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento
con un interesse pubblico attuale e concreto.
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici,
rende necessaria e vincolante l’adozione, da parte
dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela.
Al riguardo il
Collegio ritiene che principio per certo rilevante per il
caso in esame è quello ben consolidato nella condivisibile
giurisprudenza e in forza del quale se è stata rappresentata
una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà
esistente e tale difformità costituisce un vizio di
legittimità del titolo edilizio determinato dallo stesso
soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se
ragione idonea e sufficiente per l’adozione del
provvedimento di annullamento di ufficio del titolo
medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere,
ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un
interesse pubblico attuale e concreto (cfr. in tal senso, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6554, nonché
Sez. V, 12.10.2004 n. 6554).
Proprio la falsa rappresentazione della realtà dei grafici,
rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte
dell’Amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27.08.2012, n. 4619) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In epoca più risalente (1992), in assenza di
titolo abilitativo edilizio, risulta che è stata trasformata una
tettoia in capannone e, poi (1995), se ne è mutata (con
opere materiali, tra cui l’installazione di un voluminoso
container) la destinazione da deposito a locale di vendita;
- in epoca più recente (2003-2004), sempre in assenza di
titolo abilitativo edilizio, risulta, altresì, esser stato
realizzato ex novo un capannone e sostituito tettoie
preesistenti con un’altra tettoia.
Ora, l’entità e la natura delle suindicate opere abusive
inducono a ripudiare la tesi, propugnata da parte
ricorrente, secondo cui si tratterebbe interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, non sanzionabili in
via demolitoria.
Ed invero, il C. non si è limitato ad effettuare
riparazioni, rinnovazioni e sostituzioni di parti dei
manufatti preesistenti, senza alterarne le volumetrie e le
destinazioni d’uso, ma ha realizzato organismi edilizi nuovi
o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari.
Ha, cioè, costruito e ricostruito capannoni e tettoie,
implicanti, per le relative caratteristiche dimensionali,
morfologiche, strutturali e funzionali, una significativa e
stabile trasformazione del territorio in termini di
incremento planivolumetrico e di aggravio del carico
insediativo.
Ebbene, una simile attività di trasformazione edilizia non
poteva non essere assoggettata, in quanto tale, al regime
abilitativo del permesso di costruire ed essere, quindi,
sanzionata in via esclusivamente ripristinatoria ai sensi
dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001.
1. Prima di scrutinare i singoli motivi di gravame, giova chiarire, in
punto di fatto, che, come rilevato nella relazione di
sopralluogo di cui alla nota della Polizia municipale di
Teano, prot. n. 51, del 05.11.2007, nonché
nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008, e sostanzialmente non contestato da parte
ricorrente:
- in epoca più risalente (1992), il C., in assenza di
titolo abilitativo edilizio, risulta aver trasformato una
tettoia in capannone e, poi (1995), averne mutato (con opere
materiali, tra cui l’installazione di un voluminoso
container) la destinazione da deposito a locale di vendita;
- in epoca più recente (2003-2004), egli, sempre in assenza
di titolo abilitativo edilizio, risulta, altresì, aver
realizzato ex novo un capannone e sostituito tettoie
preesistenti con un’altra tettoia.
2. Ora, l’entità e la natura delle suindicate opere abusive
inducono a ripudiare la tesi, propugnata da parte
ricorrente, secondo cui si tratterebbe interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, non sanzionabili in
via demolitoria.
Ed invero, il C. non si è limitato ad effettuare
riparazioni, rinnovazioni e sostituzioni di parti dei
manufatti preesistenti, senza alterarne le volumetrie e le
destinazioni d’uso, ma ha realizzato organismi edilizi nuovi
o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari.
Ha, cioè, costruito e ricostruito capannoni e tettoie,
implicanti, per le relative caratteristiche dimensionali,
morfologiche, strutturali e funzionali (cfr. retro, in
narrativa, sub n. 2), una significativa e stabile
trasformazione del territorio in termini di incremento
planivolumetrico e di aggravio del carico insediativo (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490; sez. IV, 11.11.2010, n. 8026; TAR Piemonte, sez. I, 30.11.2004, n. 3531; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 21.09.2002, n. 5491; Salerno, sez. II,
03.05.2004, n. 311;
Napoli, 02.12.2004, n. 18027; 10.05.2005, n. 5765;
sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; 21.12.2007, n.
16493; 24.01.2008, n. 361; 07.05.2008, n. 3501; sez. III, 09.09.2008, n. 10059; sez. VI, 17.12.2008,
n. 21346; sez. II, 29.01.2009, n. 492; sez. VIII, 07.05.2009, n. 2438; sez. II,
02.12.2009, n. 8320;
sez. VI, 02.04.2012, n. 1522; TAR Emilia Romagna,
Bologna, sez. II, 05.04.2006, n. 359; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 04.12.2007, n. 6544; TAR Abruzzo,
Pescara, 09.02.2008, n. 98; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
17.11.2008 , n. 3323; TAR Liguria, sez. I, 11.04.2012, n. 530).
Ebbene, una simile attività di trasformazione edilizia non
poteva non essere assoggettata, in quanto tale, al regime
abilitativo del permesso di costruire ed essere, quindi,
sanzionata in via esclusivamente ripristinatoria ai sensi
dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 31 del d.p.r. n.
380/2001, cui risulta senz’altro riconducibile la
fattispecie in esame (costruzione di organismi edilizi nuovi
o, comunque, del tutto diversi rispetto a quelli originari),
non contempla l'irrogazione di una sanzione alternativa a
quella ripristinatoria.
La misura alternativa pecuniaria è, infatti, prevista
unicamente per le diverse ipotesi di opere di
ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova
costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31
cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire.
“Il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri
termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore,
non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla
sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere
repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per
il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
3. Il superiore approdo elide la censura di carenza di
motivazione quanto alla irrogabilità della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
In questo senso, occorre rimarcare che il citato art. 31 del
d.p.r. n. 380/2001, cui –come detto– risulta senz’altro
riconducibile la fattispecie in esame (costruzione di
organismi edilizi nuovi o, comunque, del tutto diversi
rispetto a quelli originari), non contempla l'irrogazione di
una sanzione alternativa a quella ripristinatoria (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899).
La misura alternativa pecuniaria è, infatti, prevista
unicamente per le diverse ipotesi di opere di
ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova
costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31
cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire.
“Il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri
termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore,
non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla
sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere
repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per
il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua
rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009,
n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di ristrutturazione edilizia abusiva, il
modello legale tipico e vincolato di atto sanzionatorio è
proprio quello dell’ingiunzione di demolizione, in quanto
unico atto idoneo a soddisfare pienamente l’interesse
pubblico risiedente in re ipsa nella rimozione dell’illecito
e nella ricostituzione dell’assetto urbanistico-edilizio
violato.
Cosicché, ove l’iter repressivo si incanali nell’alveo
naturale della riduzione in pristino, alcun onere di
specifica motivazione ricade sull’amministrazione
procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito
dallo stesso legislatore; mentre, solo in caso di oggettiva
impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione
in pristino, si renderà applicabile la misura residuale
della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta
evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela
reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua
motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni
effettuate.
4. Non varrebbe, peraltro, addurre, in senso contrario, che
due dei tre manufatti contestati sono stati realizzati in
modifica o sostituzione di altri manufatti preesistenti,
così da integrare, ipoteticamente, gli estremi della
ristrutturazione edilizia abusiva, suscettibile di sanzione
alternativa pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.p.r. n.
380/2001.
4.1. Innanzitutto, la regola immanente al citato art. 33 del
d.p.r. n. 380/2001 è rappresentata dall’operatività della
misura ripristinatoria, la quale non richiede
all’amministrazione un particolare impegno motivazionale.
Ed invero, nel caso di ristrutturazione edilizia abusiva, il
modello legale tipico e vincolato di atto sanzionatorio è
proprio quello dell’ingiunzione di demolizione, in quanto
unico atto idoneo a soddisfare pienamente l’interesse
pubblico risiedente in re ipsa nella rimozione dell’illecito
e nella ricostituzione dell’assetto urbanistico-edilizio
violato; cosicché, ove l’iter repressivo si incanali
nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere
di specifica motivazione ricade sull’amministrazione
procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito
dallo stesso legislatore (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.08.2002, n. 4374; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
03.06.2003, n. 7107; 02.12.2003, n. 15208; 13.11.2006, n. 9463;
08.06.2007, n. 6038; TAR Sicilia, Palermo,
sez. I, 02.08.2007, n. 1877; TAR Lazio, Roma, sez. I, 21.07.2009, n. 7285); mentre, solo in caso di oggettiva
impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione
in pristino, si renderà applicabile la misura residuale
della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta
evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela
reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua
motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni
effettuate (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 24.09.2002, n. 8106).
4.2. A prescindere dal superiore rilievo, deve, poi,
osservarsi, in punto di fatto, che il ricorrente neppure ha
minimamente documentato trattarsi di interventi di autentica
ristrutturazione edilizia, senza incrementi volumetrici e/o
alterazioni delle sagome degli originari manufatti, secondo
l’accezione sancita dall’art. 3, comma 1, lett. d, del
d.p.r. n. 380/2001 (vieppiù, nella versione applicabile,
ratione temporis, alla fattispecie in esame) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, in
quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, rimane
affrancata dalla ponderazione discrezionale del confliggente
interesse al mantenimento in loco della res, dove
l’interesse pubblico risiede in re ipsa nella riparazione
(tramite ripristino dello stato dei luoghi) dell’illecito
edilizio e, stante il carattere permanente di quest’ultimo,
non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile
di ingenerare affidamenti nel soggetto trasgressore.
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e
autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la
compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati
(segnatamente, per relationem alla richiamata ordinanza di
sospensione dei lavori n. 143 del 17.10.2008),
l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite
in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio) e
delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n.
380/2001).
---------------
Deve obiettarsi che, l’ordinanza di demolizione, per la sua
natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non
implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in
meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto
di fatto rientrante nella sfera di controllo
dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina
tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la
preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene,
in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato.
---------------
L’omessa comunicazione di avvio del procedimento
repressivo-ripristinatorio si rivela insuscettibile di
invalidare l'atto finale, essendo stata, in data 06.11.2008,
previamente notificata all’interessato la menzionata
ordinanza di sospensione dei lavori ed essendo da
quest’ultima ragionevolmente e agevolmente inferibile il
proponimento dell’amministrazione comunale di applicare le
susseguenti e doverose misure sanzionatorie.
Non senza considerare, ancora, che non occorre, comunque, la
comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990, allorquando
–come, appunto, nel caso in esame–, prima dell’ingiunzione
di demolizione di opere abusive, l'interessato sia stato
reso avveduto dell'avvio del procedimento finalizzato ad
accertare la presenza dell’illecito edilizio in occasione
del sopralluogo effettuato dall’autorità competente.
5. Più in generale, va escluso il lamentato deficit
motivazionale, anche sotto il peculiare profilo della
ponderazione tra l’interesse pubblico alla rimozione
dell’illecito edilizio e il confliggente affidamento del
privato nella conservazione della res, consolidatosi
nell’arco temporale trascorso dalla commissione dell’abuso.
Al riguardo, occorre rimarcare che l’ingiunta misura
repressivo-ripristinatoria, in quanto atto dovuto e
rigorosamente vincolato, rimane affrancata dalla
ponderazione discrezionale del confliggente interesse al
mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico
risiede in re ipsa nella riparazione (tramite ripristino
dello stato dei luoghi) dell’illecito edilizio e, stante il
carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il
mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare
affidamenti nel soggetto trasgressore (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV,
04.05.2012, n. 2592; TAR
Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII,
05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962;
09.11.2010, n. 2631; TAR
Piemonte, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR
Liguria, sez. I, 21.03.2011, n. 432);
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e
autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto,
nella specie– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati (segnatamente, per relationem
alla richiamata ordinanza di sospensione dei lavori n. 143
del 17.10.2008: cfr. retro, in narrativa, sub n. 2),
l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite
in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio) e
delle norme applicate (artt. 27 e 31 del d.p.r. n. 380/2001)
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 30.05.2006, n.
3283; sez. VI, 25.08.2006, n. 4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV,
06.06.2008, n. 2705; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI,
09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; sez. III, 05.06.2008, n.
5255; sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV,
04.08.2008, n. 9720; sez. II, 07.10.2008, n. 13456; sez. IV, 29.09.2008, n. 11820
sez. VI, 27.10.2008, n. 18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564;
02.12.2008, n. 20794; sez. VI, 17.12.2008, n.
21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100;
sez. IV, 06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009, n. 1318;
09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.03.2008,
n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117;
06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
6. Il C. non può, poi, fondatamente dolersi della mancata
comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio.
In proposito, deve obiettarsi che, l’ordinanza di
demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e
rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella
sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti
partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla
disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini
del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei
luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di
interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva
statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive;
tanto più che, in relazione ad una simile tipologia
provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies
della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità
dell’atto adottato in violazione delle norme su
procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
03.03.2007, n. 1021; sez. IV,
01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII,
09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038;
Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676;
06.11.2007, n. 10679; sez. VII,
12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n.
16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474;
04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano,
08.02.2007, n. 52; TAR Molise, 20.03.2007, n. 178;
TAR Sardegna, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, sez.
I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
A ciò si aggiunga che, nella specie, l’ordinanza di
demolizione è stata preceduta dall’ordinanza di sospensione
dei lavori n. 143 del 17.10.2008.
Anche sotto tale profilo, l’omessa comunicazione di avvio
del procedimento repressivo-ripristinatorio si rivela
insuscettibile di invalidare l'atto finale, essendo stata,
in data 06.11.2008, previamente notificata
all’interessato la menzionata ordinanza di sospensione dei
lavori ed essendo da quest’ultima ragionevolmente e
agevolmente inferibile il proponimento dell’amministrazione
comunale di applicare le susseguenti e doverose misure
sanzionatorie (cfr. TAR Basilicata, 19.01.2008, n. 16; TAR Sardegna, sez. II,
03.09.2008, n. 1738; TAR Lazio, Latina, 26.01.2009, n. 56;
TAR Liguria, sez. I, 28.01.2011, n. 169; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 01.09.2011, n. 4272).
Non senza considerare, ancora, che non occorre, comunque, la
comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990, allorquando –come, appunto, nel caso in esame–, prima dell’ingiunzione
di demolizione di opere abusive, l'interessato sia stato
reso avveduto dell'avvio del procedimento finalizzato ad
accertare la presenza dell’illecito edilizio in occasione
del sopralluogo effettuato dall’autorità competente (cfr.
nota della Polizia municipale di Teano, prot. n. 51, del
05.11.2007) (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470;
TAR Liguria, Genova, sez. I, 17.10.2013, n. 1217) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.05.2015 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio, via obbligata. Non si può prescindere
dall'ok della Soprintendenza. Il presupposto di legittimità della concessione in sanatoria
arriva sul tavolo del Cds.
È in generale condivisibile il principio secondo cui il
nulla osta di competenza della Soprintendenza in materia di
condono edilizio costituisce un presupposto di legittimità
della concessione in sanatoria da cui non si può
prescindere.
Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. del
Consiglio di Stato con
sentenza
18.05.2015 n. 2518.
I giudici di palazzo Spada hanno altresì evidenziato che
diversi sono gli interessi tutelati dal Comune rispetto
all'Autorità statale dedicata alla tutela del paesaggio, e
quindi in astratto è da stigmatizzare l'operato del Comune
che si pronunci richiamando pratiche analoghe della
Soprintendenza, senza richiedere una espressione di
compatibilità sulla vicenda concreta.
Nella sentenza in commento si è richiamata la giurisprudenza
costituzionale (sentenza n. 196 del 2004) che ha precisato i
limiti di applicabilità del c.d. terzo condono ai soli abusi
formali, ovvero realizzati in mancanza del previo titolo a
costruire ma non in contrasto con la vigente disciplina
urbanistica, nonché la delimitazione del raggio applicativo
del condono alle sole tipologie di abusi minori di cui ai nn.
4, 5 e 6 dell'allegato I al decreto legge 269 del 2003, conv.
in legge 326 del 2003.
L'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle
opere realizzate in zona vincolata è limitata alle sole
opere di restauro e risanamento conservativo o di
manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed
in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici (si veda:
Cassazione penale, sez. III, 01.10.2004, n. 1593)
Già lo stesso Consiglio di stato (si veda: Cons. stato, VI,
02.03.2010, n. 1200 in termini sulle opere minori; IV, 19.05.2010, n. 3174) ha ribadito che, ai sensi dell'art. 32,
comma 27, lett. d), del decreto legge su menzionato come
convertito sul terzo condono, sono sanabili le opere
abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici
vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo le
ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si
tratti di opere realizzate prima della imposizione del
vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità
del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di
superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria); d) che vi sia il previo parere dell'Autorità
preposta al vincolo.
La valutazione espressa dal Comune, della inammissibilità a
monte del condono, perché in zona vincolata e perché non
rientrante negli abusi minori (condizione sub c), con
consequenziale valutazione della inesistenza dei presupposti
per coinvolgere (inutiliter) la Soprintendenza (condizione
sub d), è in linea con la esigenza di economicità
dell'azione amministrativa, essendo superflua nella vicenda
esaminata, in acclarata mancanza dei presupposti di legge
per la condonabilità delle opere, la effettuazione di un
inutile vaglio di compatibilità paesaggistica (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015).
---------------
MASSIMA
L’appello è fondato e come tale da accogliere.
In primo luogo, va richiamata la
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 196 del 2004) che
ha precisato i limiti di applicabilità del c.d. terzo
condono ai soli abusi formali, ovvero realizzati in mancanza
del previo titolo a costruire ma non in contrasto con la
vigente disciplina urbanistica, nonché la delimitazione del
raggio applicativo del condono alle sole tipologie di abusi
minori di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato I al decreto
legge 269 del 2003, conv. in legge 326 del 2003.
L’applicabilità del c.d. terzo condono in
riferimento alle opere realizzate in zona vincolata è
limitata alle sole opere di restauro e risanamento
conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili
già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
(così Cassazione penale, sez. III, 01.10.2004, n.1593)
Questo Consesso (Cons. Stato, VI, 02.03.2010, n. 1200 in
termini sulle opere minori; IV, 19.05.2010, n. 3174) ha
ribadito che, ai sensi dell’art. 32, comma
27, lett. d), del decreto legge su menzionato come
convertito sul terzo condono, sono sanabili le opere
abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici
vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo le
ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si
tratti di opere realizzate prima della imposizione del
vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità
del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di
superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione
straordinaria); d) che vi sia il previo parere dell’Autorità
preposta al vincolo.
La valutazione espressa dal Comune, della
inammissibilità a monte del condono, perché in zona
vincolata e perché non rientrante negli abusi minori
(condizione sub c), con consequenziale valutazione della
inesistenza dei presupposti per coinvolgere (inutiliter)
la Soprintendenza (condizione sub d), è in linea con la
esigenza di economicità dell’azione amministrativa, essendo
superflua nella vicenda esaminata, in acclarata mancanza dei
presupposti di legge per la condonabilità delle opere, la
effettuazione di un inutile vaglio di compatibilità
paesaggistica.
Pertanto, l’accertata estraneità delle opere in questione
dall’ambito applicativo del c.d. terzo condono, evidenziando
di per sé una ragione giustificativa del diniego
originariamente impugnato, consente di ritenere legittimo
l’operato dell’amministrazione comunale.
Se pertanto il principio affermato dalla sentenza appellata
è in generale condivisibile, nel senso che il nulla osta di
competenza della Soprintendenza in materia di condono
edilizio costituisce un presupposto di legittimità della
concessione in sanatoria da cui non si può prescindere,
diversi essendo gli interessi tutelati dal Comune rispetto
all’Autorità statale dedicata alla tutela del paesaggio, e
quindi in astratto è da stigmatizzare l’operato del Comune
che si pronunci richiamando pratiche analoghe della
Soprintendenza, senza richiedere una espressione di
compatibilità sulla vicenda concreta, si evidenzia, di
contro, la superfluità della richiesta di parere alla
Soprintendenza nella ipotesi in cui, già per l’assenza di
uno dei requisiti essenziali, sia impossibile la concessione
in sanatoria del c.d. terzo condono, perché si tratta di
abusi non minori.
La censura che il ricorso originario aveva proposto e il
primo giudice accolto, non attiene alla contestazione del
fatto che l’abuso si trovi in zona vincolata (il ricorso di
primo grado non è stato accolto su tale profilo), o sulla
insistenza del vincolo paesaggistico, il che richiederebbe
accertamenti in punto di fatto, in verità non chiesti, ma
alla circostanza che sia stata richiamato parere della
Soprintendenza su pratica analoga, al fine di ritenere
superfluo, come in effetti è, il giudizio di compatibilità
paesaggistica.
E’ evidente che, per natura e dimensioni, anche se si tratta
in fatto di manufatto di ridotte dimensioni –tanto che
secondo la ricorrente originaria non risponderebbe ad
esigenze abitative (trattasi di costruzioni di circa trenta
metri quadri)– dal punto di vista della natura delle opere,
esse non possono essere che esulare dalla nozione di abusi
minori così come sopra classificati sulla base della legge
richiamata (restauro, risanamento etc.).
L’accoglimento dell’appello in ordine al diniego di
concessione non può che ridondare altresì in ordine alla
validità derivata del successivo ordine di demolizione. |
TRIBUTI:
Ai consorzi di bonifica contributi solo se
meritati.
Contributi ai consorzi di bonifica dovuti solo se gli
interventi eseguiti hanno apportato benefici all'immobile
del contribuente. L'ente che richiede il pagamento ha
l'onere di fornire prova del presupposto impositivo. Non è
sufficiente riferirsi genericamente a tutti i fabbricati
ricompresi nell'area consortile, ma la presunzione di
beneficio deve limitarsi a quelli inclusi nel cosiddetto
«perimetro di contribuenza». In caso contrario, la cartella
di pagamento è nulla per difetto di motivazione.
A ribadire il principio è la Ctp di Campobasso, che con la
sentenza 06.05.2015 n. 722/2/15 segna un altro
precedente in materia di contributi consortile (si veda
anche ItaliaOggi del 26.03.2015).
Il caso in esame vedeva un contribuente opporsi a una
cartella da 500 euro notificata dal locale consorzio.
Quest'ultimo sosteneva che i proprietari degli immobili siti
nei comprensori consortili avrebbero avuto l'obbligo di
versare i contributi, dal momento che le opere di bonifica
poste in essere avevano incrementato il valore di ogni
fabbricato.
I giudici molisani, richiamando la pronuncia n. 8960/96
della Cassazione a sezioni unite, osservano però che «non
rileva il beneficio complessivo che deriva dall'esecuzione
di tutte le opere di bonifica, destinate a fini di interesse
generale, né il miglioramento complessivo dell'igiene e
della salubrità dell'aria». Per far scattare il
versamento dell'onere al consorzio, infatti, «occorre un
incremento di valore dell'immobile soggetto a contributo, in
rapporto causale con le opere di bonifica (e con la loro
manutenzione)». Pertanto, aggiungono i magistrati della
Ctp il beneficio deve essere «diretto e specifico,
conseguito o conseguibile a causa della bonifica».
Il consorzio impositore avrebbe dovuto produrre in giudizio
sia il piano di classifica approvato dalla regione Molise
sia il decreto di delimitazione del perimetro di
contribuenza. In assenza di tale documentazione, «non può
che accogliersi la proposta eccezione di vizio di
motivazione della opposta cartella, con conseguente
declaratoria di nullità assoluta della stessa»
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
sistema normativo ratione temporis rilevante (ndr: ottobre
2012), in caso di infruttuoso decorso
del termine per l’espressione del parere da parte della
Soprintendenza ai sensi del comma 8 dell’articolo 146 D.Lgs.
42/2004,
l’Organo statale non resta privato del potere di
esprimere comunque un parere (in particolare, nell’ambito
della conferenza di servizi di cui al successivo comma 9).
Tuttavia, il parere in tal modo espresso perde il proprio
carattere di vincolatività e deve essere
autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione
procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del
caso.
2. L’appello è infondato in base alle considerazioni che
seguono.
2.1. E’ evidente che assume rilievo del tutto centrale ai
fini del decidere la questione se, nell’ambito dello
speciale procedimento per il rilascio dell’autorizzazione ai
fini paesaggistici di cui all’articolo 146 del decreto
legislativo 146 del 2004 e una volta decorso l’ordinario
termine di quarantacinque giorni previsto per il rilascio
del parere da parte della Soprintendenza (ivi, comma 8),
resti consumato il potere in capo all’Organo statale di
rendere tale parere, ovvero se l’atto consultivo possa
essere reso anche dopo la scadenza del termine, mantenendo
nondimeno la propria valenza vincolante.
2.2. Ad avviso del Collegio, la corretta ricostruzione della
questione nei suoi termini normativi e sistematici richiede
in primo luogo l’esatta individuazione del pertinente quadro
normativo.
Ora, ai fini che qui rilevano giova richiamare i commi da 8
a 10 dell’articolo 146, cit., nella formulazione rilevante
al tempo delle vicende di causa (si tratta del testo vigente
nel corso del 2012, ossia prima delle modifiche apportate
dall’articolo 25, comma 3, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014, n. 164).
Ebbene, nella formulazione ratione temporis rilevante i
commi da 8 a 10 stabilivano quanto segue:
“8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5,
limitatamente alla compatibilità paesaggistica del
progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità
dello stesso alle disposizioni contenute nel piano
paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui
all'articolo 140, comma 2, entro il termine di
quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il
soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli
interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi
dell’articolo 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241.
Entro venti giorni dalla ricezione del parere,
l’amministrazione provvede in conformità.
9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo
del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il
prescritto parere, l'amministrazione competente può indire
una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente
partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si
pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In
ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli
atti da parte del soprintendente, l'amministrazione
competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Con
regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2,
della legge 23.08.1988, n. 400, entro il 31.12.2008, su proposta del Ministro d'intesa con la Conferenza
unificata, salvo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, sono stabilite procedure
semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in
relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di
snellimento e concentrazione dei procedimenti, ferme,
comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e
20, comma 4 della legge 07.08.1990, n. 241 e successive
modificazioni.
10. Decorso inutilmente il termine indicato all'ultimo
periodo del comma 8 senza che l'amministrazione si sia
pronunciata, l'interessato può richiedere l'autorizzazione
in via sostitutiva alla regione, che vi provvede, anche
mediante un commissario ad acta, entro sessanta giorni dal
ricevimento della richiesta. Qualora la regione non abbia
delegato gli enti indicati al comma 6 al rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, e sia essa stessa
inadempiente, la richiesta del rilascio in via sostitutiva è
presentata al soprintendente”.
2.3. Ebbene, a fronte di tali previsioni, nel caso di
adozione di un parere (negativo) da parte della
Soprintendenza successivamente al decorso del richiamato
termine di quarantacinque giorni (e successivamente
all’indizione da parte dell’amministrazione procedente,
della speciale conferenza di servizi di cui al comma 8),
erano astrattamente ipotizzabili tre opzioni:
a) in base a una prima opzione (seguita dal TAR) in
siffatte ipotesi dovrebbe concludersi nel senso
dell’intervenuta consumazione del potere per l’Organo
statale di rendere un qualunque parere (di carattere
vincolante o meno);
b) in base a una seconda opzione (proposta dal Ministero
appellante) nelle medesime ipotesi dovrebbe concludersi nel
senso della permanenza in capo alla Soprintendenza del
potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante
(dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente
ordinatorio al richiamato termine);
c) in base a una terza opzione interpretativa, nelle ridette
ipotesi non potrebbe escludersi in radice la possibilità per
l’Organo statale di rendere comunque un parere in ordine
alla compatibilità paesaggistica dell’intervento; tuttavia
il parere in parola perderebbe il carattere di vincolatività
e dovrebbe essere autonomamente valutato
dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto
autorizzatorio finale.
2.4. Non sfugge al Collegio l’esistenza di un orientamento
giurisprudenziale (peraltro, puntualmente richiamato
dall’appellante) di fatto tributario dell’orientamento
dinanzi richiamato sub b).
E’ stato in particolare osservato che, in caso di
superamento da parte della competente Soprintendenza del
termine ordinariamente previsto per il rilascio del proprio
parere (vincolante) ai sensi dei commi 5 e 8 dell’articolo
146, cit., il potere in capo all’Organo statale continua a
sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque
disciplinato dai richiamati commi 5 e 8 e mantiene la sua
natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso
dinanzi al G.A. per contestare l’illegittimità del silenzio
serbato dall’amministrazione statale (in tal senso: Cons.
Stato, VI, 04.10.2013, n. 4914; in termini simili: Cons.
Stato, VI, 18.09.2013, n. 4656).
In base a tale orientamento, la perentorietà del termine
riguarderebbe non la sussistenza del potere o la legittimità
del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del
procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal Giudice con le relative
conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia
del funzionario –in tal senso: sentenza 4914/2013, cit.-).
2.5. Ebbene, pur tenendo nella massima considerazione
l’orientamento appena richiamato, il Collegio ritiene che
prevalenti ragioni di carattere sistematico depongano nel
senso dell’adesione al diverso orientamento volto a
riconoscere carattere perentorio al termine di
quarantacinque giorni di cui al comma 5 dell’articolo 146,
cit. (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 15.03.2013, n.
1561).
La decisione in parola (richiamando il pregresso
orientamento che riconosceva carattere perentorio al termine
riconosciuto alla Soprintendenza per procedere
all’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica reso
dall’amministrazione competente ai sensi dell’articolo 82
del d.P,R. 24.07.1977, n 616 –in seguito: articolo 162
del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490-) ha quindi
ritenuto che l’evoluzione normativa, la quale ha trasformato
l’atto di controllo annullatorio in una forma di cogestione
del vincolo, non ha inciso sulla perentorietà del termine
entro il quale l’atto di esercizio del relativo potere può e
deve essere adottato.
Si osserva al riguardo che, nell’ambito di entrambi i
modelli normativi (quello pregresso basato su una relazione
di controllo e quello attuale basato su un modello di
sostanziale cogestione del vincolo), il Legislatore ha
inteso individuare un adeguato punto di equilibrio fra:
- (da un lato) l’esigenza di assicurare una tutela pregnante
a un valore di rilievo costituzionale quale la tutela del
paesaggio attraverso il riconoscimento all’Organo statale di
poteri (quale quello di annullamento e in seguito quello di
rendere un parere conforme) di assoluto rilievo nell’ambito
della fattispecie autorizzatoria e
- (dall’altro) l’esigenza –parimenti di rilievo
costituzionale- di garantire in massimo grado la certezza e
la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i
richiamati poteri debbano essere esercitati in tutta la loro
ampiezza entro un termine certamente congruo ma allo stesso
tempo certo e non superabile.
Sul punto occorre tuttavia operare una precisazione.
La sentenza n. 1561, cit. ha stabilito che il parere reso
dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146, cit. “è da considerarsi privo
dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di
valenza obbligatoria e vincolante”.
2.6. Ma una volta chiarito che il parere tardivamente
espresso resti privo di alcun effetto vincolante, occorre
domandarsi se il medesimo articolo 146 ne impedisca
tout-court l’espressione, ovvero se -più semplicemente- un
siffatto parere possa comunque essere reso in favore
dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi
valutarlo in modo adeguato.
Ad avviso del Collegio il quesito deve essere risolto nel
secondo dei sensi indicati.
Depone in tal senso il primo periodo del comma 9 del
richiamato articolo 146 secondo cui “decorso inutilmente il
termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il
soprintendente abbia reso il prescritto parere,
l'amministrazione competente può indire una conferenza di
servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa
pervenire il parere scritto”.
Sussiste quindi un univoco indice normativo secondo cui, a
seguito del decorso del più volte richiamato termine per
l’espressione del parere vincolante (rectius: conforme) da
parte della Soprintendenza, l’Organo statale non resti in
assoluto privato della possibilità di rendere un parere;
tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio
valore vincolante e dovrà essere autonomamente e
motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al
rilascio del titolo.
Del resto, una lettura in senso sistematico del combinato
disposto dei commi 8, 9 e 10 (dinanzi riportati de extenso)
rende piuttosto evidente l’esistenza di un ordito normativo
volto a configurare, in tema di rilascio dell’autorizzazione
ai fini paesaggistici, una sorta di climax inverso per ciò
che riguarda la possibilità per l’Organo statale di incidere
attraverso l’espressione del proprio parere sugli esiti
della vicenda autorizzatoria.
Ed infatti:
- nel corso di una prima fase –per così dire: fisiologica–
che si esaurisce con il decorso del termine di
quarantacinque giorni, l’Organo statale può, nella pienezza
dei suoi poteri di cogestione del vincolo, emanare un parere
vincolante dal quale l’amministrazione deputata all’adozione
dell’autorizzazione finale non potrà discostarsi (comma 8);
- una volta decorso inutilmente il richiamato termine senza
che la Soprintendenza abbia reso il prescritto parere
(seconda fase), l’amministrazione procedente può indire una
conferenza di servizi nel cui ambito –per le ragioni
dinanzi esposte– l’Organo statale, pur se non privato in
assoluto del potere di esprimersi, potrà soltanto emanare un
parere che l’amministrazione procedente avrà l’onere di
valutare in modo autonomo;
- laddove poi l’inerzia della Soprintendenza di protragga
ulteriormente oltre il termine di sessanta giorni da quello
della ricezione della documentazione completa (terza fase),
“l’amministrazione competente provvede sulla domanda di
autorizzazione” (comma 9, terzo periodo). In tal modo il
Legislatore rende chiaro che l’ulteriore, ingiustificabile
decorso del tempo legittima l’amministrazione competente
all’adozione dell’autorizzazione prescindendo in radice dal
parere della Soprintendenza (il quale, evidentemente, viene
così a perdere il proprio carattere di obbligatorietà e vincolatività).
2.7. Tanto premesso dal punto di vista generale, si può ora
passare all’esame puntuale dei singoli argomenti proposti
con il primo motivo di appello.
2.7.1. Non può essere condivisa la tesi secondo cui il
richiamo operato dal secondo periodo del comma 8, cit.
all’istituto del c.d. ‘preavviso di rigetto’ ai sensi
dell’articolo 10-bis della l. 241 del 1990 confermerebbe in
via implicita il carattere non consumabile del potere della
Soprintendenza di rendere un parere tardivo e nondimeno
vincolante.
Si osserva in contrario che il richiamo al c.d. ‘preavviso
di rigetto’ ben si coniuga con la ricostruzione sistematica
dinanzi offerta sub 2.5. e 2.6., atteso che:
i) il parere
negativo del Soprintendente sortirà valenza di sostanziale
diniego (e richiederà il previo rilascio del ‘preavviso di rigetto’) nelle sole ipotesi di svolgimento -per così dire– ‘fisiologico’ dell’iter autorizzatorio di cui al comma 8;
ii) al contrario, nelle ipotesi residuali di cui al
successivo comma 9 il parere del Soprintendente perderà il
suo carattere vincolante e non assumerà alcun effetto di
sostanziale arresto procedimentale di segno negativo, in tal
modo non richiedendo alcun previo avviso (non a caso, del
resto, il comma 9 non richiama la previsione di cui
all’articolo 10-bis, cit.).
2.7.2. Non può essere condivisa la tesi dell’appellante
volta ad enfatizzare il richiamo contenuto al comma 9
dell’articolo 146, cit. al procedimento per conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14 e seguenti della l. 241
del 1990. Come anticipato in narrativa, l’appellante ritiene
qui applicabile, in particolare, il comma 3-bis
dell’articolo 14-ter della medesima l. 241 del 1990 secondo
cui “in caso di opera o attività sottoposta anche ad
autorizzazione paesaggistica, il soprintendente si esprime,
in via definitiva, in sede di conferenza di servizi ove
convocata, in ordine a tutti i provvedimenti di sua
competenza ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42”.
Ebbene, il richiamo al comma 3-bis, cit. non sembra
presentare alcun profilo di incongruità con la ricostruzione
sistematica dinanzi offerta sub 2.5. e 2.6.
Ciò, in quanto il carattere (vincolante o non vincolante)
del parere della Soprintendenza non va desunto dalle
previsioni di cui al Capo IV della l. 241 del 1990 (il quale
è sul punto sostanzialmente ‘neutro’, rinviando alla
pertinente disciplina di settore), bensì dall’ordito
normativo di cui alla parte II, Titolo IV del decreto
legislativo n. 42 del 2004, per come dinanzi
sistematicamente ricostruito.
2.7.3. Da ultimo, non può essere condivisa la tesi fondata
sulle disposizioni in tema di conferenza di servizi le quali
contemplano talune deroghe al pieno operare del principio
maggioritario nel caso in cui il dissenso sia espresso da
un’amministrazione preposta alla tutela del paesaggio.
Anche in questo caso, il Legislatore del 1990 (e delle
successive novelle alla l. 241) si è interessato dei soli
aspetti procedimentali relativi all’espressione dei pareri
in seno alla conferenza di servizi e delle conseguenti
modalità di composizione del dissenso, ma ha rimesso alla
disciplina di settore la determinazione del corretto assetto
di competenze amministrative (ivi compresa l’individuazione
delle amministrazioni in concreto preposte alla tutela dei
valori tutelati).
In definitiva, le disposizioni in tema di conferenza di
servizi invocate dall’appellante non rappresentano un
sistema chiuso e autonomo in tema di determinazione della
latitudine dei poteri spettanti alla Soprintendenza, ma si
limitano -piuttosto– ad operare una sorta di rinvio
esterno alla pertinente disciplina di settore (in questo
caso, la parte II, Titolo IV del decreto legislativo n. 42
del 2004, la cui esegesi sistematica è stata dinanzi
chiarita retro, sub 2.5. e 2.6.).
2.8. In base a quanto esposto retro (sub 2.5, 2.6. e 2.7) si
deve quindi concludere nel senso che, nel sistema normativo
ratione temporis rilevante, in caso di infruttuoso decorso
del termine per l’espressione del parere da parte della
Soprintendenza ai sensi del comma 8 dell’articolo 146,
l’Organo statale non restasse privato del potere di
esprimere comunque un parere (in particolare, nell’ambito
della conferenza di servizi di cui al successivo comma 9).
Tuttavia, il parere in tal modo espresso perdeva il proprio
carattere di vincolatività e avrebbe dovuto essere
autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione
procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del
caso.
Ebbene, siccome l’amministrazione competente (i.e.: l’Unione
“Talassa”) ha omesso di valutare in modo autonomo e
specifico l’incidenza del parere tardivamente reso
dall’Organo statale e ne ha erroneamente ritenuto la valenza
comunque vincolante (uniformandosi pedissequamente ad esso),
la stessa ha posto in essere un’illegittimità attizia che
deve essere censurata attraverso l’annullamento dell’atto di
diniego dell’autorizzazione paesaggistica del 12.06.2013
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2015 n. 2136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Facilitato il solare sul pergolato.
Non serve il permesso di costruire per l'installazione di un
impianto fotovoltaico su un pergolato. In quanto secondo le
linee guida per l'autorizzazione degli impianti,
l'installazione può avvenire sugli edifici esistenti e le
loro pertinenze. Tra le pertinenze possono rientrare i
pergolati, cioè manufatti con natura ornamentale realizzati
in struttura leggera, facilmente amovibili e usati per
riparare e ombreggiare le superfici di modeste dimensioni.
La situazione non cambia se sui pergolati si installano dei
pannelli fotovoltaici, purché vengano lasciati spazi per far
filtrare la luce e l'acqua e non ci sia un aumento della
volumetria.
Queste le precisazioni del Consiglio di Stato, Sez. VI, con
la
sentenza 27.04.2015 n. 2134.
La nozione di pergolato non muta se alle piante si
sostituiscono i pannelli fotovoltaici, sicché gli stessi
devono essere collocati in modo tale da lasciare spazi per
il filtraggio della luce e dell'acqua e non devono
caratterizzarsi come copertura stabile e continua degli
spazi sottostanti
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2015). |
URBANISTICA: La
natura di atto strettamente vincolato della declaratoria di
decadenza è elemento acquisito in giurisprudenza e tale
orientamento è da tenersi presente in relazione all’atto qui
in discussione.
Inoltre non può negarsi che l’atto dichiarativo della
decadenza si configuri come manifestazione di tipo
ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del
termine di efficacia di un pregresso titolo o convenzione
come effetto automatico contemplato dalla legge, tanto da
non richiedere nemmeno una deliberazione dichiarativa di
decadenza.
Avuto riguardo quindi alla natura giuridica e al contenuto
dell’atto de quo, ritiene il Collegio che nel caso di specie
sussistono quanto meno i presupposti per applicare la regola
di cui all’art. 21-octies, 2° comma della legge n. 241/1990
giacché il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere
un contenuto diverso da quello avuto, cioè la declaratoria
di decadenza del Piano, attesa la mancata esecuzione delle
opere di urbanizzazione nel decennio decorrente dalla
stipula della convenzione.
--------------
E' pacifico l’orientamento giurisprudenziale per il quale il
Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché
decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento
attuativo perde efficacia.
La tesi della dedotta ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale va disattesa in quanto la
prosecuzione degli effetti delle previsioni urbanistiche di
secondo livello oltre il detto termine decennale confligge
con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e
attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le
lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura.
---------------
Nella specie le opere di urbanizzazione primaria, nate dalla
stipula della convenzione e poste a carico dei lottizzanti,
da ritenersi indispensabili per la realizzazione degli
interventi edilizi del comparto, non hanno raggiunto una
entità tale da consentire il rilascio dei titoli edilizi,
sicché si rende applicabile il principio giurisprudenziale
secondo il quale se nell’ambito dell’esecuzione dello
strumento attuativo non è stato già raggiunto la dotazione
minima degli standard urbanistici, la parte inattuata dello
strumento urbanistico di secondo livello non permette il
rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di
nuove costruzioni.
Al di là del rilievo di carattere assorbente testé
illustrato, non può concordarsi con la parte appellante la
quale definisce factum principis addebitabile unicamente al
Comune, e cioè l’aver dato rilevanza al contenzioso civile
instauratosi su questioni di confini di proprietà tra il
confinante sig. M. e i sigg.ri C..
Ebbene è il caso di osservare che in realtà la controversia
va effettivamente ad incidere sull’assetto urbanistico
dell’intera lottizzazione sia pure interessando solo una
porzione delle proprietà dell’impresa M.: in particolare con
l’azione possessoria promossa dal M. si rivendica parte di
terreni destinati a realizzare la strada di accesso
all’intero comparto e non v’è dubbio che, stante la notevole
importanza dell’opera strutturale in questione, la eventuale
compromissione della realizzazione della stessa può
comportare una alterazione significativa dell’assetto della
intera lottizzazione, consigliando, come avvenuto, al
Consiglio Comunale, di soprassedere circa il rilascio dei
titoli edilizi.
Ad ogni modo vale richiamare, quale elemento dirimente
dell’intera questione, la regula iuris affermata da questo
Consesso secondo la quale è irrilevante ai fini delle
conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di
efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della
impossibilità della mancata attuazione se dovuta alla
pubblica amministrazione o al privato lottizzante.
Il fatto certo che rileva è che insomma il Piano attuativo
(come avvenuto nella fattispecie) è rimasto comunque
ineseguito per il periodo di efficacia del convenzionamento
e l’inutile spirare del termine decennale è causa
sufficiente a produrre l’inefficacia dello strumento de quo,
non essendo neppure necessaria l’adozione di un atto
dichiarativo della intervenuta caducazione.
---------------
Va osservato con riferimento al bene della vita
sostanzialmente rivendicato dall’appellante che se l’omesso
completamento delle opere di urbanizzazione entro il termine
di legge osta al perfezionamento della pretesa al rilascio
dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del termine di
esecuzione di un piano attuativo determina sì l’inefficacia
dello stesso ma fa salva la destinazione urbanistica data
all’area dal Piano Regolatore, di guisa che
l’Amministrazione nell’adozione delle nuove decisioni
sull’assetto urbanistico della porzione del territorio
interessata non può prescindere totalmente dalle posizioni
degli originari sottoscrittori della convenzione.
... per la riforma della sentenza del TAR Sardegna-Cagliari:
Sezione II n. 553/2013, resa tra le parti, concernente
decadenza piano di lottizzazione - silenzio su istanza di
rilascio concessioni edilizie.
...
L’appello è infondato, rivelandosi i profili di doglianza
ivi dedotti inidonei ad inficiare le statuizioni rese dal
primo giudice con l’impugnata sentenza.
Col primo mezzo d’impugnazione (rubricato sub A) parte
appellante denuncia la violazione delle disposizioni di tipo
garantistico recate dagli artt. 7 e 8 della legge n.
241/1990, avendo l’Amministrazione omesso di inviare,
com’era suo dovere, la previa comunicazione dell’avvio del
procedimento.
Il dedotto vizio procedimentale non sussiste.
La natura di atto strettamente vincolato della declaratoria
di decadenza è elemento acquisito in giurisprudenza (cfr
Cons. Stato Sez. IV 18/01/2011 n. 1411; Cons. Sez. V
11/07/1985 n. 260; idem 23/04/1982 n. 295) e tale
orientamento è da tenersi presente in relazione all’atto qui
in discussione.
Inoltre non può negarsi che l’atto dichiarativo della
decadenza si configuri come manifestazione di tipo
ricognitivo di un dato storico costituito dalla scadenza del
termine di efficacia di un pregresso titolo o convenzione
come effetto automatico contemplato dalla legge, tanto da
non richiedere nemmeno una deliberazione dichiarativa di
decadenza (cfr Cons. Stato Sez. IV 04/12/2007 n. 6170).
Avuto riguardo quindi alla natura giuridica e al contenuto
dell’atto de quo, ritiene il Collegio che nel caso di
specie sussistono quanto meno i presupposti per applicare la
regola di cui all’art. 21-octies, 2° comma della legge n.
241/1990 giacché il provvedimento impugnato non avrebbe
potuto avere un contenuto diverso da quello avuto, cioè la
declaratoria di decadenza del Piano, attesa la mancata
esecuzione delle opere di urbanizzazione nel decennio
decorrente dalla stipula della convenzione.
Con i profili di doglianza di cui alla lettera B) come
variamente articolati con i subparagrafi indicati in fatto,
l’appellante deduce in primo luogo la non applicabilità del
termine decennale di cui all’art. 16 IV comma, 17 e 28 della
legge n. 1150/1942, con il mantenimento dell’efficacia del
Piano e rileva inoltre:
- che le opere di urbanizzazione sono state eseguite per la
gran parte ed è stato il Comune con il suo comportamento ad
impedire il completamento delle stesse e comunque la mancata
esecuzione delle opere non è imputabile a responsabilità
dell’impresa appellante;
- che v’è eccesso di potere per contraddittorietà e
travisamento della realtà anche in relazione al fatto che
l’Amministrazione avrebbe potuto esercitare i poteri di
autotutela ed espropriativi in riferimento al contenzioso
intercorso tra il sig. M. e i C. ed in ogni caso si sarebbe
potuto rimodulare la situazione con lo stralcio della
lottizzazione Massa da quella dei C.;
- che la sospensione del rilascio dei titoli ad
aedificandum da parte del Comune ha “paralizzato”
i termini di efficacia del Piano che quindi non sarebbero
ancora scaduti;
- che l’appellante si è attivato per ottenere il rilascio
delle concessioni ed ha cooperato per eliminare ogni
problema ostativo al completamento della lottizzazione e
comunque il Comune non ha preso minimamente in
considerazione gli interessi pubblici e privati coinvolti
nella vicenda.
Le dedotte censure non appaiono condivisibili.
Quanto alla prima delle doglianze dedotte, è sufficiente
osservare come sia pacifico l’orientamento giurisprudenziale
per il quale il Piano di lottizzazione ha durata decennale,
di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo
strumento attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI
20/01/2003 n. 200; idem 25/07/2001 n. 4073).
La tesi della dedotta ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale, pure fatta valere, va
disattesa in quanto la prosecuzione degli effetti delle
previsioni urbanistiche di secondo livello oltre il detto
termine decennale confligge con la finalità sottesa alla
fissazione del termine de quo coincidente con
l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle
previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni
convenzionate condizionare a tempo indeterminato la
pianificazione urbanistica futura (Cons. Stato Sez. IV
29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543).
Con gli altri profili di doglianza parte appellante mette in
discussione i presupposti che hanno condotto alla
caducazione del Piano, imputando all’Amministrazione
comunale, in ragione del comportamento sostanzialmente
omissivo da questa tenuto, la non esecuzione nel termine
de quo del Piano stesso, ma tali critiche non colgono
nel segno.
In primo luogo occorre rilevare che nella specie le opere di
urbanizzazione primaria, nate dalla stipula della
convenzione e poste a carico dei lottizzanti (M. e C.), da
ritenersi indispensabili per la realizzazione degli
interventi edilizi del comparto, non hanno raggiunto una
entità tale da consentire il rilascio dei titoli edilizi,
sicché si rende applicabile il principio giurisprudenziale
secondo il quale se nell’ambito dell’esecuzione dello
strumento attuativo non è stato già raggiunto la dotazione
minima degli standard urbanistici, la parte inattuata dello
strumento urbanistico di secondo livello non permette il
rilascio di altre autorizzazioni per la realizzazione di
nuove costruzioni (Cons. Stato Sez. IV 01/08/2007 n. 4276).
Al di là del rilievo di carattere assorbente testé
illustrato, non può concordarsi con la parte appellante la
quale definisce factum principis addebitabile
unicamente al Comune, e cioè l’aver dato rilevanza al
contenzioso civile instauratosi su questioni di confini di
proprietà tra il confinante sig. M. e i sigg.ri C..
Ebbene è il caso di osservare che in realtà la controversia
va effettivamente ad incidere sull’assetto urbanistico
dell’intera lottizzazione sia pure interessando solo una
porzione delle proprietà dell’impresa M.: in particolare con
l’azione possessoria promossa dal M. si rivendica parte di
terreni destinati a realizzare la strada di accesso
all’intero comparto e non v’è dubbio che, stante la notevole
importanza dell’opera strutturale in questione, la eventuale
compromissione della realizzazione della stessa può
comportare una alterazione significativa dell’assetto della
intera lottizzazione, consigliando, come avvenuto, al
Consiglio Comunale, di soprassedere circa il rilascio dei
titoli edilizi.
Ad ogni modo vale richiamare, quale elemento dirimente
dell’intera questione, la regula iuris affermata da
questo Consesso secondo la quale è irrilevante ai fini delle
conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di
efficacia del piano di lottizzazione la circostanza della
impossibilità della mancata attuazione se dovuta alla
pubblica amministrazione o al privato lottizzante (Cons.
Stato Sez. IV 10/08/2011 n. 4761).
Il fatto certo che rileva è che insomma il Piano attuativo
(come avvenuto nella fattispecie) è rimasto comunque
ineseguito per il periodo di efficacia del convenzionamento
e l’inutile spirare del termine decennale è causa
sufficiente a produrre l’inefficacia dello strumento de
quo, non essendo neppure necessaria l’adozione di un
atto dichiarativo della intervenuta caducazione.
Con il motivo sub c) parte appellante critica la decisione
del primo giudice di dichiarare la improcedibilità del
ricorso (il primo) proposto avverso il silenzio serbato in
ordine alla richiesta di esitazione delle domande di
concessione edilizia, ma la statuizione assunta al riguardo
appare ineccepibile.
Nella specie deve ritenersi essersi inverata la figura
processuale della improcedibilità atteso che nelle more del
giudizio avverso l’inerzia dell’Amministrazione è
sopravvenuta l’adozione del provvedimento di decadenza che
va ad innestarsi nel rapporto in contestazione traslando
l’interesse sostanziale e processuale dei ricorrenti sul
gravame interposto nei confronti dell’assunta, successiva
determinazione (Cons. Stato Sez. IV 04/06/2014 n. 2862; idem
31/12/2009 n. 9292).
Con il motivo sub c1) vengono riproposti alcuni mezzi
d’impugnazione già formulati in primo grado: con dette
censure viene ribadita la tesi dell’imputabilità in capo
all’Amministrazione delle cause di mancata esecuzione della
lottizzazione e al riguardo si fa rinvio a quanto già in
proposito osservato circa la non fondatezza di siffatto
assunto difensivo.
Rimane da scrutinare il motivo sub D) con cui parte
appellante si diffonde sulla richiesta risarcitoria ancorata
non solo e non tanto sull’affermata illegittimità della
delibera dichiarativa della decadenza, ma sul comportamento
complessivo tenuto dal Comune irrispettoso delle regole
della correttezza e dell’affidamento insorto in capo ai
privati, relativamente alla mancata esecuzione delle
obbligazioni pattizie nascenti dal convenzionamento.
Parte appellante sul punto fornisce poi ampi ragguagli sulla
insorgenza e sul quantum dei danni patiti e sulla
necessità che gli stessi siano risarciti.
Ritiene il Collegio che la domanda risarcitoria sia
inammissibile e comunque infondata.
In primo luogo si rileva che in relazione agli interessi
oppositivi propri dell’impugnazione proposta, l’assenza di
vizi di legittimità a carico della deliberazione gravata
impedisce di per sé la configurazione di un’azione
amministrativa contra legem causativa di danno
ingiusto suscettibile di ristoro patrimoniale, secondo lo
schema di responsabilità aquiliana ex art. 2043 codice
civile (Cass. Sez. I Civ. 10/01/2003 n. 157).
Quanto poi agli aspetti di tipo pretensivo collegati al
dedotto non corretto comportamento dell’Amministrazione che,
ad avviso di parte appellante, avrebbe in sostanza impedito
lo sfruttamento dell’attitudine edificatoria dei suoli
oggetto di lottizzazione neppure è possibile ravvisare
nell’agire del Comune di Pula una condotta contraria ai
doveri della correttezza non essendo provata l’inadempienza
alle pattuizioni poste in convenzione.
D’altra parte va osservato con riferimento al bene della
vita sostanzialmente rivendicato dall’appellante che se
l’omesso completamento delle opere di urbanizzazione entro
il termine di legge osta al perfezionamento della pretesa al
rilascio dei titoli edilizi, nondimeno la scadenza del
termine di esecuzione di un piano attuativo determina sì
l’inefficacia dello stesso ma fa salva la destinazione
urbanistica data all’area dal Piano Regolatore, di guisa che
l’Amministrazione nell’adozione delle nuove decisioni
sull’assetto urbanistico della porzione del territorio
interessata non può prescindere totalmente dalle posizioni
degli originari sottoscrittori della convenzione (Cons.
Stato Sez. IV 03/11/1998 n. 1412), il che non giustifica un
diritto al risarcimento.
In forza delle su estese considerazioni l’appello, in quanto
infondato, va respinto, con la precisazione che ogni altro
profilo di censura adombrato in gravame non ha rilevanza
tale da far mutare le prese conclusioni
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.04.2015 n. 2109 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fittizia suddivisione dell'attività edificatoria.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi
non può essere eluso attraverso la suddivisione
dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di
forme di controllo preventivo più limitate per la loro più
modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel
suo complesso, senza che sia consentito scindere e
considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò
ancor più nel caso di interventi su preesistente opera
abusiva.
2. La vicenda in esame, secondo quanto emerge dalla
ricostruzione effettuata dal Tribunale e dalla testuale
riproduzione della provvisoria incolpazione opportunamente
riprodotta dal ricorrente nell'atto di impugnazione,
riguarda la realizzazione di una tettoia, avente una
superficie di 100 mq ed asservita ad un preesistente
esercizio commerciale destinato a bar ristorante, di
proprietà dell'indagato, mediante presentazione, il
26/4/2010, di una d.i.a., alla quale faceva seguito, il
09/11/2010, altra d.i.a. avente ad oggetto la tamponatura
temporanea della medesima tettoia per far fronte alle
intemperie.
Tale modus operandi si riteneva tuttavia
caratterizzato dall'indebito frazionamento dell'intervento,
finalizzato alla realizzazione di nuovi volumi in
ampliamento del bar ristorante e dalla falsa attestazione di
conformità delle opere agli strumenti urbanistici, tanto da
dar luogo ad un primo sequestro del manufatto, all'esito del
quale l'indagato presentava istanza di permesso di costruire
in sanatoria, accolto dall'amministrazione comunale di
Pizzoferrato.
Il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria comportava
l'annullamento, ad opera del Tribunale, del vincolo reale
imposto sulle opere.
li Pubblico Ministero, tuttavia, disponeva una consulenza
tecnica e, tenuto conto della natura e consistenza
dell'intervento, della non conformità dello stesso allo
strumento urbanistico, della ritenuta incompetenza
dell'amministrazione comunale ed dell'assenza di una
preventiva istruttoria, considerato che il permesso in
sanatoria era stato richiesto il 24.12.2013, vigilia di
natale e rilasciato, dopo due giorni festivi, il 27.12.2013,
ipotizzava anche il concorrente reato di abuso d'ufficio,
chiedendo ed ottenendo l'ulteriore misura cautelare reale
poi revocata con il provvedimento impugnato.
...
6. Ciò posto, deve rilevarsi che, effettivamente, come
affermato dal ricorrente, il provvedimento impugnato risulta
fondato esclusivamente sulle allegazioni difensive, che
vengono peraltro recepite senza alcuna valutazione critica,
attribuendo loro un effetto demolitorio dell'ipotesi
accusatoria che prescinde del tutto non soltanto dalle
risultanze dell'attività investigativa dell'autorità
inquirente, ma anche da dati fattuali dei quali lo stesso
Tribunale ha dato precedentemente contezza.
Invero, la descrizione della vicenda sintetizzata dal
Tribunale pone in evidenza una serie di comportamenti la cui
particolarità non può essere ignorata.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle modalità con le quali
si è proceduto alla realizzazione delle opere attraverso la
frammentazione degli interventi, assentiti con d.i.a., per
giungere al risultato finale della creazione di nuovi volumi
e la successiva richiesta di un permesso di costruire in
sanatoria, titolo abilitativo, quest'ultimo, che sarebbe
stato dunque necessario fin dall'inizio per la realizzazione
del manufatto.
7. Una simile evenienza, che nel caso in esame risulta ancor
più rilevante, avendo l'ufficio di Procura ipotizzato la
falsità delle asseverazione che accompagnavano le d.i.a. e
l'abuso d'ufficio nel rilascio del titolo abilitativo
sanante, non poteva essere ignorata, perché si pone in
palese contrasto con il principio, ripetutamente affermato
da questa Corte e che qui va ribadito, secondo il quale
il regime dei titoli abilitativi edilizi non può
essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività
edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di
controllo preventivo più limitate per la loro più modesta
incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere
infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza
che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di
interventi su preesistente opera abusiva
(Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv.
252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non
massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv.
247175; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci,
Rv. 223365) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.04.2015 n. 16622 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condizionatore rimosso anche se comunale.
Sentenza del consiglio di stato.
È legittimo il provvedimento adottato dall'amministrazione
periferica del ministero dei beni culturali con cui si
intima al conduttore di un immobile soggetto a vincolo
storico-artistico la rimozione dell'impianto di
condizionamento edificato anche quando il bene sia di
proprietà del comune e quest'ultimo, in qualità di locatore,
abbia espressamente negoziato l'intervento censurato.
Lo ha stabilito la VI Sez. del Consiglio di Stato con
la
sentenza
16.04.2015 n. 1942.
Nel caso
concreto, i gestori di un'attività commerciale svolta
all'interno di un edificio pubblico soggetto a vincolo,
hanno edificato nel cortile dell'immobile una tettoia
metallica per poi posizionarvi un impianto di
condizionamento.
All'esito di alcuni accertamenti, il direttore generale per
i beni architettonici e paesaggistici del ministero dei beni
e delle attività culturali ha ordinato la rimozione delle
opere realizzate senza titolo autorizzatorio.
I due commercianti hanno, dunque, proposto ricorso contro il
provvedimento negativo, chiedendone l'annullamento.
All'esito del giudizio di primo grado, tuttavia, il
Tribunale amministrativo ha confermato la legittimità della
scelta operata dall'amministrazione.
La lite è stata riproposta innanzi al Consiglio di stato,
adito in ultima istanza dai due soccombenti. In particolare,
i due appellanti hanno contestato l'assoggettamento del
cortile in cui era stato posizionato l'impianto di
condizionamento al vincolo storico-artistico, siccome non
indicato nel decreto che, in origine, aveva riconosciuto il
particolare pregio dell'immobile. Sotto altro profilo, i due
appellanti hanno sottolineato come gli interventi edilizi
censurati con il provvedimento impugnato fossero stati
concordati con l'amministrazione proprietaria dell'immobile
(il comune), tanto da essere previsti nel contratto di
locazione.
Ebbene, il Consiglio di stato, nel confermare quanto già
affermato dal Tar, ha respinto entrambe le censure
prospettate.
Quanto al perimetro del vincolo, i giudici romani hanno ben
evidenziato come, nel decreto di riconoscimento si facesse
riferimento alla planimetria catastale all'interno della
quale -ancorché non esplicitamente- rientrava anche il
cortile. Ad ogni modo -ha spiegato il consiglio di stato-
corrisponde al generale criterio di logica e di esperienza
ritenere che, salvo non sia diversamente stabilito, «i
palazzi storici -che usualmente identificano un complesso
unitario, quand'anche formato da successive stratificazioni
e addizioni- devono presumersi vincolati nel loro insieme,
stante l'esigenza che tali beni siano assoggettati a tutela
nella loro interezza, a prescindere dal maggiore o minore
pregio storico e artistico delle loro singole parti.
Diversamente, la storicità del vincolo -che si riferisce al
valore testimoniale dell'unità complessiva del manufatto-
perderebbe ragione».
Altrettanto severa è la motivazione offerta nella sentenza
con riferimento alla rilevanza della negoziazione
intervenuta tra i gestori dell'immobile e il comune
proprietario. Sul punto, Palazzo Spada ha spiegato come a
nulla rilevi che i lavori sull'immobile fossero stati
concordati con il comune, quale proprietario-concedente, in
sede di stipula del contratto locativo «posto che l'assenso
del proprietario agli interventi edilizi sull'immobile
locato incide sulla legittimità degli stessi sul piano
meramente contrattuale, ma non ha effetti derogatori su
cogenti disposizioni di legge, che attengono a tutt'altra
cura amministrativa che l'interesse locatizio».
Ne deriva
che grava sempre sul conduttore l'obbligo di munirsi, prima
dell'esecuzione dei programmati interventi, di tutti i
necessari titoli autorizzatori pubblici presso le competenti
amministrazioni, anche quando -come nel caso di specie- la
controparte negoziale sia essa stessa un'amministrazione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
sanzioni per illeciti amministrativi –vale a dire, che
puniscono comportamenti lesivi di precetti giuridici
sanzionati da una norma non penale- si estinguono con la
morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi
(cfr. art. 7 l. 24.11.1981, n. 689).
Invece, come avviene in materia edilizia, la misura
dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi,
che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di
un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha
carattere reale in quanto è volta a ripristinare l’ordine
prima ancora materiale che giuridico, alterato a mezzo della
sopravvenienza oggettiva del manufatto, cioè di una cosa,
priva di un giusto titolo: non già a sanzionare il
comportamento che ha dato luogo a quella cosa (al che
presiede, piuttosto, la fattispecie penale dell’art. 44
d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue, a ben vedere, che la stessa qualificazione di
‘sanzione’ della misura ripristinatoria è impropria, perché
non si tratta di sanzionare, cioè di punire, un
comportamento, ma solo di adottare una misura di
ricomposizione dell’ordine urbanistico quale si presentava,
e che ha di mira solo l’eliminazione degli effetti materiali
dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione.
L’ablazione che può conseguire all’inadempimento dell’ordine
di demolizione concerne un effetto anch’esso della stessa
natura, perché con l’acquisizione al Comune l’ente pubblico
può facilmente dar luogo alla realizzazione di quel
ripristino a spese dei responsabili: ovvero,
compensativamente -e sempre che l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici o ambientali- destinare la
cosa stessa a soddisfare prevalenti interessi pubblici (art.
31, comma 5).
Per questa ragione, la misura demolitoria è opponibile anche
a soggetti estranei al comportamento illecito (ad es. gli
eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso).
Per tal genere di misure riparatorie a carattere reale, non
è dato dubitare, per costante, consolidata e risalente
giurisprudenza, della trasmissibilità agli eredi
dell’obbligazione ripristinatoria insita nell’ordine di
demolizione dell’opera abusiva.
---------------
L’acquisizione al patrimonio disponibile del Comune
dell’area sulla quale insiste la costruzione (abusiva) si
differenzia dalla stretta e immediata misura ripristinatoria
insita nell’ordine di demolizione, posto che non solo
estende l’ablazione al sedime (ed eventualmente all’area
necessaria per opere analoghe), ma anche ne evidenzia il suo
carattere di conseguenza dovuta (cfr. art. 31, comma 2,
ultima parte) rispetto alla mancata esecuzione ad opera del
destinatario dell’ordine di demolizione in base a quanto
sopra detto (tale significando l’espressione ‘responsabile
dell’abuso’, di cui al comma 2).
È evidente che non si tratta di sanzione di un comportamento
(omissivo), perché se così fosse lo schema procedimentale
applicativo dovrebbe essere quello della rammentata l. n.
689 del 1981: la quale invece non si applica alle misure
ripristinatorie reali, nel cui alveo questa stessa ablazione
va iscritta per le ragioni testé rammentate (v. infra per
ulteriori considerazioni).
Nondimeno, poiché si tratta comunque di conseguenza
oggettivamente incidente sul diritto di proprietà (estesa al
sedime ed eventualmente all’area per opere analoghe), e
postulante un volontario inadempimento da parte
dell’obbligato, occorre –in omaggio a un elementare criterio
di conoscenza ed esigibilità- che la persona dell’obbligato
medesimo alla rimozione (o a patire –come si vedrà–
l’operazione demolitoria comunale) sia stata fatta
formalmente destinataria del previo ordine di demolizione ed
abbia avuto a sua disposizione il termine per provvedere
alla demolizione.
Non è stato così nel caso qui in esame, dove –come
ricordato- l’ordine di demolizione era sì stato notificato,
ma solo all’allora vivente proprietario, di cui gli attuali
ricorrenti sono i successivi eredi. Né alcun onere di
avvenuta informazione può essere presunto in capo a loro,
essendo la loro successione nella proprietà del bene
avvenuta non già inter vivos (il che comporta la presunzione
di conoscenza della legittimità dell’immobile, a norma delle
disposizioni incidenti sulla validità dei contratti: cfr
art. 30) bensì mortis causa: sicché nulla è loro riferibile.
Ne consegue che –in deroga all’automatismo dell’acquisizione
una volta decorso il termine dall’emanazione di un’ordinanza
di demolizione come quella del caso presente- non può farsi
derivare una così seria conseguenza se costoro stessi non
sono stati fatti espressi destinatari di un rinnovato ordine
di demolizione e, in seguito, non vi hanno -seppur così
rettamente informati- adempiuto.
Ne consegue dunque che, in sede di rinnovazione del
procedimento, l’ordine di demolizione dovrà essere
comunicato nei confronti dei successori mortis causa.
De resto, non v’è chi non veda che se l’acquisizione al
patrimonio comunale fosse –in rottura della coerenza del
sistema- qualificata come sanzione personale della condotta
di inottemperanza, non solo ne dovrebbe derivare la (già
accennata) coerente applicazione secondo lo schema della l.
n. 689 del 1981 (con conseguente opposizione in sede
giurisdizionale ordinaria; la prescrizione, ecc.); ma anche
la considerazione generale dell’irragionevolezza del sistema
normativo, perché le ordinanze di demolizione resterebbero
facilmente inottemperate col solo mezzo di un’artata
alienazione dopo la loro notificazione. L’effettività della
legge, in altri termini, rischierebbe di rimanere vanificata
rispetto alla misura principe di ripristino dell’ordine
urbanistico violato: il che sarebbe conseguenza
irragionevole e rinnegante la funzione generale dell’art.
31.
Vero è poi che secondo Corte cost. «l’acquisizione gratuita
[…] si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso,
non potendo di certo operare […] nei confronti del
proprietario dell’area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offertigli dall’ordinamento»; e peraltro che «l’operatività
dell’ingiunzione a demolire non presuppone sempre
necessariamente la preventiva acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale, perché l’ingiunzione è un provvedimento
amministrativo di natura autoritativa che, in quanto tale, è
assistito, in base ai principî generali che regolano
l’azione amministrativa, dal carattere dell’esecutorietà
insito nel potere di autotutela che, come è noto, consiste
nel potere-dovere degli organi amministrativi di dare
esecuzione ai provvedimenti da essi stessi emanati. Di
conseguenza, appare evidente che, qualora non ricorrano i
presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel
caso in cui l’area sia di proprietà del terzo, la funzione
ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso,
sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione,
rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di
darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine
necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di
proprietà del terzo estraneo all’abuso deve rimanere nella
titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la
demolizione».
Ed è vero che, analogamente, nella giurisprudenza
amministrativa si trova affermato che l’acquisizione
gratuita dell'area dove è stato realizzato un immobile
abusivo non possa essere dichiarata verso il proprietario
estraneo al compimento dell'opera abusiva, che non possa
ritenersi responsabile della stessa, facendo eccezione il
caso in cui il proprietario, pur non responsabile
dell'abuso, ne sia venuto a conoscenza e non si sia
adoperato per impedirlo e l’ipotesi che l’attuale
proprietario abbia acquistato il manufatto dal proprietario
che aveva commesso l’abuso, pur se il nuovo non è
responsabile dello stesso, subentrando nella sua posizione
giuridica.
Nondimeno, quali che qui debbano essere le conseguenze
–ovvero che persistano in concreto i presupposti per
l’acquisizione gratuita comunale, o che il Comune debba, in
forza di detto suo comportamento dovuto, demolire il
manufatto abusivo intervenendo sul sedime altrui e quanto vi
insiste- va rilevato che è illegittimo, come qui è avvenuto,
disporre l’acquisizione gratuita, o in ipotesi effettuare
questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è
responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la
notifica dell’ordine di demolizione.
---------------
Il proprietario di un manufatto abusivo può evitare che
l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale
abbia effetto e lo colpisca, determinandone l’ablazione del
diritto di proprietà, solamente dimostrando in sede
procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la
concreta disponibilità dell’immobile; e di essere stato,
pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di
demolizione. Infatti il proprietario dell’area, fino a prova
contraria, si presume corresponsabile dell’abuso edilizio.
---------------
La legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con
riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente
alla data della sua emanazione.
Si tratta, del resto, di una conseguenza di una violazione
di un obbligo di facere specifico nel termine fissato
dall'amministrazione. E si è detto che l'acquisizione è
prospettiva funzionale a far sì che il destinatario
dell'obbligo di demolizione vi adempia in concreto.
Dunque, la misura dell'acquisizione gratuita –o della
demolizione pubblica in danno- può essere rivolta soltanto
all'autore della violazione ovvero a chi, subentrato nella
titolarità del bene, sia stato destinatario dell’ordine di
demolizione e non lo abbia ottemperato nei termini previsti
dalla legge.
... per la riforma della sentenza breve del TAR EMILIA
ROMAGNA-BOLOGNA: SEZIONE I n. 522/2013, resa tra le parti,
concernente acquisizione opere abusive al patrimonio
comunale.
...
2.- Prima di passare al merito della vicenda, appare
opportuno riepilogare i fatti di causa.
L'ordinanza di demolizione n. 37 del 2007, richiamata nel
provvedimento impugnato recante l’acquisizione del bene al
patrimonio indisponibile del Comune, era indirizzata al
signor O.A., comproprietario con il signor O.L. di un
terreno sul quale insistono due manufatti abusivi e dante
causa delle odierne appellanti, che sono subentrate nella
sua posizione patrimoniale a titolo di successione
universale.
Detta ordinanza è stata impugnata davanti al Tribunale
amministrativo dell’Emilia-Romagna dagli originari
proprietari. Il ricorso è stato respinto con sentenza del
17.09.2009, n. 1526, passata in giudicato.
In data 15.03.2011 A.O. è deceduto, lasciando eredi le
odierne appellanti.
Il Comune, con sopralluogo in data 09.12.2011, accertata
l'inottemperanza al precedente ordine di demolizione, ha
emanato il provvedimento in epigrafe indicato con il quale
ha disposto, in confronto delle odierne proprietarie degli
immobili abusivi oggetto dell’ordine di demolizione,
l'acquisizione al patrimonio comunale dell'area su cui
insistono i manufatti.
3.- Ritiene il Collegio che l'appello meriti accoglimento
nei sensi di cui appresso.
4.- Il giudice di primo grado ha respinto il ricorso portato
al suo esame sull'assunto che gli eredi, subentrando in
locum et ius nella posizione patrimoniale del de
cuius, succedono automaticamente in tutti i rapporti
attivi e passivi rientranti nel patrimonio del loro dante
causa e nella stessa posizione di quest'ultimo, ad ogni
effetto giuridico.
5.- Con un unico motivo di ricorso le appellanti contestano
la sentenza del Tribunale amministrativo nella parte in cui
ha ritenuto che anche la sanzione acquisitiva, prevista dal
citato art. 31 del Testo unico in materia edilizia (di cui
al d.P.R. n. 380 del 2001), sia sostanzialmente una sanzione
di tipo reale e che, come tale, abbia efficacia erga
omnes, potendosi pertanto opporre non solo all’autore
dell’abuso ma anche ai suoi eredi universali o ai successori
o aventi causa a titolo particolare.
Il motivo appare meritevole di favorevole apprezzamento.
6.- Rileva il Collegio che le sanzioni per illeciti
amministrativi –vale a dire, che puniscono comportamenti
lesivi di precetti giuridici sanzionati da una norma non
penale- si estinguono con la morte del trasgressore e non
sono trasmissibili agli eredi (cfr. art. 7 l. 24.11.1981, n.
689).
7.- Invece, come avviene in materia edilizia, la misura
dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi,
che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di
un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha
carattere reale in quanto è volta a ripristinare l’ordine
prima ancora materiale che giuridico, alterato a mezzo della
sopravvenienza oggettiva del manufatto, cioè di una cosa,
priva di un giusto titolo: non già a sanzionare il
comportamento che ha dato luogo a quella cosa (al che
presiede, piuttosto, la fattispecie penale dell’art. 44
d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue, a ben vedere, che la stessa qualificazione di ‘sanzione’
della misura ripristinatoria è impropria, perché non si
tratta di sanzionare, cioè di punire, un comportamento, ma
solo di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine
urbanistico quale si presentava, e che ha di mira solo
l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua
ingiustificata alterazione.
L’ablazione che può conseguire all’inadempimento dell’ordine
di demolizione concerne un effetto anch’esso della stessa
natura, perché con l’acquisizione al Comune l’ente pubblico
può facilmente dar luogo alla realizzazione di quel
ripristino a spese dei responsabili: ovvero,
compensativamente -e sempre che l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici o ambientali- destinare la
cosa stessa a soddisfare prevalenti interessi pubblici (art.
31, comma 5).
Per questa ragione, la misura demolitoria è opponibile anche
a soggetti estranei al comportamento illecito (ad es. gli
eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso).
Per tal genere di misure riparatorie a carattere reale, non
è dato dubitare, per costante, consolidata e risalente
giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, VI,
07.04.2014, n. 3392; 10.02.2015, n. 708), della
trasmissibilità agli eredi dell’obbligazione ripristinatoria
insita nell’ordine di demolizione dell’opera abusiva.
8.- La particolarità della presente fattispecie è che si
controverte non già dell’opponibilità dell’ordine di
demolizione verso gli eredi dell’autore dell’abuso, quanto
dell’esecuzione in confronto di costoro della successiva
misura dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area di
sedime e in ipotesi di quella per opere analoghe, unitamente
a detta opera: e dopo che l’ordine di demolizione era stato
notificato non a loro, bensì al loro dante causa quando
ancora era in vita.
9.- Al proposito giova ricordare che l’art. 31 del d.P.R. n
380 del 2001 dispone, al comma 2, che l’amministrazione,
accertata l’esecuzione di opere in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità dal medesimo ovvero con
variazioni essenziali, ingiunge la demolizione.
Il comma 3 stabilisce poi che se il responsabile dell’abuso
non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione,
il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio comunale.
Infine, il comma 4 prevede che l’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, nel termine
predetto, previa notifica all’interessato, costituisce
titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari.
La norma richiamata prevede un dispositivo articolato in una
duplice fase di misure amministrative (ordine di demolizione
ed acquisizione al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza al primo ordine di ripristino) già usuale in
applicazione delle disposizioni normative in materia (cfr.
art. 15, terzo comma, l. 28.01.1977 n. 10; art. 7 l.
28.02.1985 n. 47), che il Testo unico del 2001 consolida.
10.- Rileva il Collegio che dalla richiamata disposizione
possono trarsi le seguenti considerazioni.
Anzitutto, l’acquisizione al patrimonio disponibile del
Comune dell’area sulla quale insiste la costruzione si
differenzia dalla stretta e immediata misura ripristinatoria
insita nell’ordine di demolizione, posto che non solo
estende l’ablazione al sedime (ed eventualmente all’area
necessaria per opere analoghe), ma anche ne evidenzia il suo
carattere di conseguenza dovuta (cfr. art. 31, comma 2,
ultima parte) rispetto alla mancata esecuzione ad opera del
destinatario dell’ordine di demolizione in base a quanto
sopra detto (tale significando l’espressione ‘responsabile
dell’abuso’, di cui al comma 2).
È evidente che non si tratta di sanzione di un comportamento
(omissivo), perché se così fosse lo schema procedimentale
applicativo dovrebbe essere quello della rammentata l. n.
689 del 1981: la quale invece non si applica alle misure
ripristinatorie reali, nel cui alveo questa stessa ablazione
va iscritta per le ragioni testé rammentate (v. infra per
ulteriori considerazioni).
Nondimeno, poiché si tratta comunque di conseguenza
oggettivamente incidente sul diritto di proprietà (estesa al
sedime ed eventualmente all’area per opere analoghe), e
postulante un volontario inadempimento da parte
dell’obbligato, occorre –in omaggio a un elementare criterio
di conoscenza ed esigibilità- che la persona dell’obbligato
medesimo alla rimozione (o a patire –come si vedrà–
l’operazione demolitoria comunale) sia stata fatta
formalmente destinataria del previo ordine di demolizione ed
abbia avuto a sua disposizione il termine per provvedere
alla demolizione.
Non è stato così nel caso qui in esame, dove –come
ricordato- l’ordine di demolizione era sì stato notificato,
ma solo all’allora vivente proprietario, di cui gli attuali
ricorrenti sono i successivi eredi. Né alcun onere di
avvenuta informazione può essere presunto in capo a loro,
essendo la loro successione nella proprietà del bene
avvenuta non già inter vivos (il che comporta la
presunzione di conoscenza della legittimità dell’immobile, a
norma delle disposizioni incidenti sulla validità dei
contratti: cfr art. 30) bensì mortis causa: sicché
nulla è loro riferibile.
Ne consegue che –in deroga all’automatismo dell’acquisizione
una volta decorso il termine dall’emanazione di un’ordinanza
di demolizione come quella del caso presente: cfr. da ultimo
Cons. Stato, VI, 08.05.2014, n. 2368; V, 11.07.2014, n.
3565- non può farsi derivare una così seria conseguenza se
costoro stessi non sono stati fatti espressi destinatari di
un rinnovato ordine di demolizione e, in seguito, non vi
hanno -seppur così rettamente informati- adempiuto.
Ne consegue dunque che, in sede di rinnovazione del
procedimento, l’ordine di demolizione dovrà essere
comunicato nei confronti dei successori mortis causa.
De resto, non v’è chi non veda che se l’acquisizione al
patrimonio comunale fosse –in rottura della coerenza del
sistema- qualificata come sanzione personale della condotta
di inottemperanza, non solo ne dovrebbe derivare la (già
accennata) coerente applicazione secondo lo schema della l.
n. 689 del 1981 (con conseguente opposizione in sede
giurisdizionale ordinaria; la prescrizione, ecc.); ma anche
la considerazione generale dell’irragionevolezza del sistema
normativo, perché le ordinanze di demolizione resterebbero
facilmente inottemperate col solo mezzo di un’artata
alienazione dopo la loro notificazione. L’effettività della
legge, in altri termini, rischierebbe di rimanere vanificata
rispetto alla misura principe di ripristino dell’ordine
urbanistico violato: il che sarebbe conseguenza
irragionevole e rinnegante la funzione generale dell’art.
31.
Vero è poi che secondo Corte cost., 15.07.1991, n. 345 «l’acquisizione
gratuita […] si riferisce esclusivamente al responsabile
dell’abuso, non potendo di certo operare […] nei confronti
del proprietario dell’area quando risulti, in modo
inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento
dell’opera abusiva o che, essendone egli venuto a
conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti
offertigli dall’ordinamento»; e peraltro che «l’operatività
dell’ingiunzione a demolire non presuppone sempre
necessariamente la preventiva acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale, perché l’ingiunzione è un provvedimento
amministrativo di natura autoritativa che, in quanto tale, è
assistito, in base ai principî generali che regolano
l’azione amministrativa, dal carattere dell’esecutorietà
insito nel potere di autotutela che, come è noto, consiste
nel potere-dovere degli organi amministrativi di dare
esecuzione ai provvedimenti da essi stessi emanati. Di
conseguenza, appare evidente che, qualora non ricorrano i
presupposti per l’acquisizione gratuita del bene, come nel
caso in cui l’area sia di proprietà del terzo, la funzione
ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso,
sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione,
rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di
darvi esecuzione d’ufficio. E ciò senza che a tal fine
necessiti la preventiva acquisizione dell’area che, se di
proprietà del terzo estraneo all’abuso deve rimanere nella
titolarità di questi, anche dopo eseguita d’ufficio la
demolizione».
Ed è vero che, analogamente, nella giurisprudenza
amministrativa (Cons. Stato, V, 11.07.2014, n. 3565) si
trova affermato che l’acquisizione gratuita dell'area dove è
stato realizzato un immobile abusivo non possa essere
dichiarata verso il proprietario estraneo al compimento
dell'opera abusiva, che non possa ritenersi responsabile
della stessa, facendo eccezione il caso in cui il
proprietario, pur non responsabile dell'abuso, ne sia venuto
a conoscenza e non si sia adoperato per impedirlo (cfr.
Cons. Stato, III, 15.10.2009, n. 2371) e l’ipotesi che
l’attuale proprietario abbia acquistato il manufatto dal
proprietario che aveva commesso l’abuso, pur se il nuovo non
è responsabile dello stesso, subentrando nella sua posizione
giuridica.
Nondimeno, quali che qui debbano essere le conseguenze
–ovvero che persistano in concreto i presupposti per
l’acquisizione gratuita comunale, o che il Comune debba, in
forza di detto suo comportamento dovuto, demolire il
manufatto abusivo intervenendo sul sedime altrui e quanto vi
insiste- va rilevato che è illegittimo, come qui è avvenuto,
disporre l’acquisizione gratuita, o in ipotesi effettuare
questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è
responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la
notifica dell’ordine di demolizione.
11.- Essendo l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
–ovvero la demolizione in danno- una misura prevista per
l’ipotesi di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione,
essa postula comunque un’inottemperanza da parte di chi va a
patirne le pur giuste conseguenze.
12.- Su queste basi il Collegio qui considera che
l’acquisizione gratuita dell’area –come la demolizione
pubblica in danno- non possa essere senz’altro disposta nei
confronti degli attuali interessati.
Il contrario sarebbe stato se, a norma dell'art. 31, comma
4, l'Amministrazione, previa notifica dell’atto
all'interessato, avesse provveduto, prima della morte dei
signori A. e L.O., alla trascrizione nei registri
immobiliari del provvedimento di acquisizione del bene al
patrimonio comunale.
Invece il provvedimento impugnato, che addebita l'omessa
demolizione alle attuali appellanti (che risultano estranee
alla attività di realizzazione dell’abuso), fa riferimento
non solo ai proprietari originari, ma anche agli eredi,
nonostante il richiamo all'ordinanza di demolizione n. 37
del 2007, ove l'unico destinatario era il signor O.A., poi
deceduto.
13.- Del resto, il proprietario di un manufatto abusivo può
evitare che l’ordinanza di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale abbia effetto e lo colpisca,
determinandone l’ablazione del diritto di proprietà,
solamente dimostrando in sede procedimentale di non avere
avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità
dell’immobile; e di essere stato, pertanto, impossibilitato
ad eseguire l’ingiunzione di demolizione. Infatti il
proprietario dell’area, fino a prova contraria, si presume
corresponsabile dell’abuso edilizio (Cons. Stato, VI,
04.10.2013, n. 4913).
14.- Nella fattispecie in esame è comunque mancata anche la
comunicazione di avvio del procedimento acquisitivo, quindi
l'acquisizione è stata realizzata nei confronti di soggetti
che appaiono estranei all’attività abusiva, di tal che non è
legittimo quanto disposto dall’Amministrazione comunale e
impugnato davanti al giudice.
Invero, risulta per tabulas che non solo le odierne
appellanti non hanno partecipato al procedimento
amministrativo che ha portato all'ordinanza di demolizione,
ma anche che non erano neanche i destinatari dell'ordinanza
di demolizione n. 37 del 02.03.2007, che era indirizzata al
signor O.A., deceduto nel marzo del 2011. E scaduto il
termine di novanta dall'adozione dell’ordinanza di
demolizione e prima del marzo 2011, l'Amministrazione non ha
provveduto alla trascrizione nei registri immobiliare
dall'accertamento dell'inottemperanza.
Deve essere ancora ricordato che l'acquisizione della
proprietà mortis causa non comporta i doveri
d'informazione e le responsabilità che caratterizzano il
passaggio della cosa per atto inter vivos (né del
resto il provvedimento di demolizione è soggetto a qualche
forma di pubblicità).
Per conseguenza, diversamente opinando, gli eredi si
troverebbero ad essere colpiti per non aver adempiuto ad un
onere che non era da loro esigibile.
15.- Del resto, come già richiamato da questa VI Sezione, "la
legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con
riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente
alla data della sua emanazione" (cfr. Cons. Stato, VI,
04.10.2013, n. 4913). Si tratta, del resto, di una
conseguenza di una violazione di un obbligo di facere
specifico nel termine fissato dall'amministrazione. E si è
detto che l'acquisizione è prospettiva funzionale a far sì
che il destinatario dell'obbligo di demolizione vi adempia
in concreto.
Dunque, la misura dell'acquisizione gratuita –o della
demolizione pubblica in danno- può essere rivolta soltanto
all'autore della violazione ovvero a chi, subentrato nella
titolarità del bene, sia stato destinatario dell’ordine di
demolizione e non lo abbia ottemperato nei termini previsti
dalla legge.
16.- Per quanto si è fin qui detto, nel caso di specie,
dette condizioni legali per l’adozione dell’atto acquisitivo
in confronto delle odierni appellanti non ricorrono.
17.- In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono,
l'appello va accolto, unitamente al ricorso di primo grado,
e va annullato, in riforma della gravata sentenza, l'atto
impugnato in quella sede impugnato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.04.2015 n. 1927 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vicino può verificare se l'autolavaggio è ok.
Fra spazzoloni, lance a spruzzo e aspirapolvere i vicini non
ce la fanno più: quell'autolavaggio è troppo rumoroso. Ma
chi l'ha autorizzato? Il Comune, anzi l'Unione dei comuni,
visto che ci troviamo nella provincia più profonda. In zona
ci sono uffici oltre che abitazioni e chi vive nel quartiere
vuole sapere se l'impianto è titolato o meno a tutte le
immissioni sonore nell'ambiente circostante delle quali si
rende responsabile. Se l'amministrazione nicchia, di fronte
alla sentenza del giudice non può evitare di consegnare ai
confinanti inviperiti tutta la documentazione che riguarda i
permessi dell'impianto. E il diritto dei cittadini sussiste
anche laddove non hanno intenzione di far causa al gestore o
almeno non hanno ancora deciso.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla
Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Tutela e difese
Accolto il ricorso dei confinanti, che già in passato
avevano accertato come l'autolavaggio fracassone non avesse
ad esempio diritto a usare l'aspirapolvere che da tempo
turba i loro sonni. Ora vogliono andare fino in fondo
sapendo se nel frattempo l'impianto ha ricevuto qualche
altro permesso o continua a operare nell'illegalità. Non
serve richiamare «l'informazione ambientale» di cui
al decreto legislativo 195/2005 e scomodare la Convenzione
di Aarhus per indurre l'Unione dei comuni a tirar fuori le
carte: basta, più modestamente, la legge sulla trasparenza
così come modificata nel 2009.
In effetti chi risiede o lavora a ridosso dell'impianto
risulta titolare di un interesse qualificato ad accedere
agli atti per predisporre opportune difese in modo da
evitare ogni danno alla propria sfera giuridica: le «difese»
delle quali parla la legge non devono tradursi in un'azione
giudiziaria. l'interesse dei cittadini che abitano nei
paraggi del lavaggio deve ritenersi «diretto, concreto e
attuale»: chiaro il collegamento tra la situazione
giuridicamente tutelata e i documenti richiesti da chi vive
il quartiere, specie se si tiene presente che il gestore ha
perseverato nelle attività rumorose nonostante un primo
divieto.
All'amministrazione locale non resta che provvedere a
estrarre le carte richieste e pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2015).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.
1.1. Nel caso di specie, il Collegio ritiene di poter
soprassedere in ordine alla denunciata violazione del d.lgs.
n. 195 del 2005 in materia di “accesso all’informazione
ambientale” –implicante, tra l’altro, specifiche e
autonome valutazioni in ordine alla concreta operatività in
casi del tipo di quello in esame delle prescrizioni in esso
riportate (specie sotto i profili della corretta
configurazione del concetto stesso di “informazione
ambientale” e della legittimazione ad agire), dirette
precipuamente a salvaguardare “l’ambiente dell’Unione”,
a garanzia del diritto “di ogni persona, nelle
generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente atto
ad assicurare la sua salute e il suo benessere”, così
come statuito nella Convenzione di Aarhus, approvata il
25.06.1998 e entrata in vigore il 30.10.2001, poi ratificata
in Italia con la legge n. 108 del 16.03.2001, ma anche a
livello di normativa comunitaria, in virtù di quanto
riportato nella direttiva 2003/4/CE del Parlamento Europeo e
del Consiglio, in attuazione della quale il già citato
d.lgs. n. 195 del 2005 risulta essere stato approvato (cfr.
Corte Giust. U.E., 13.01.2015, n. 402/12)- in quanto
sussistono già i presupposti fissati dalla legge per
richiedere ed ottenere l’accesso ai documenti amministrativi
ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.
In particolare, si riscontra l’interesse dei ricorrenti “diretto,
concreto ed attuale” ad avere accesso agli atti indicati
nell’istanza del 30.09.2014, inoltrata in medesima data
all’Unione di Comuni della Bassa Sabina.
A supporto, si ritiene opportuno ricordare che
la legge n. 241 del 1990, nella parte novellata
dalla lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge
18.06.2009, n. 69, conferisce al “diritto” di
accesso, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, valore di “principio generale dell’attività
amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22,
comma 2, nell’attuale formulazione).
Come già osservato in ambito giurisprudenziale,
il diritto di accesso vale, dunque, sì a tutelare
interessi individuali di ampiezza tale da riscontrare solo
il limite della giuridicità ma –nel contempo– è collegato ad
una riforma di fondo dell’Amministrazione, ispirata a
principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e
della trasparenza dell’azione amministrativa, la quale
costituisce “principio generale” inserito a livello
comunitario nel più generale diritto all’informazione dei
cittadini rispetto all’organizzazione ed alla attività
soggettivamente amministrativa, quale strumento di
prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità.
In questo contesto, la nozione di interesse
giuridicamente rilevante si configura come il complesso di
situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali,
risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare
dell’interesse poteri di natura procedimentale, volti in
senso strumentale alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere o comunque
ad intersecarsi con l’esercizio di pubbliche funzioni e che
travalicano la dimensione della tutela processuale di
diritti soggettivi o interessi legittimi, la cui
azionabilità diretta prescinde dal preventivo esercizio del
diritto di accesso, così come l’esercizio del secondo
prescinde dalla prima.
In altre parole, la natura strumentale
della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata
dall’ordinamento con la legge n. 241 del 1990 caratterizza
marcatamente la strumentalità dell’azione correlata e
concentra l’attenzione del legislatore e, quindi,
dell’interprete sul regime giuridico concretamente
riferibile all’azione, al fine di assicurare, al tempo
stesso, la tutela dell’interesse ma anche la certezza dei
rapporti amministrativi.
Di qui trae origine –del resto– la
qualificazione in termini “astratti” o “acausali”
del diritto di accesso, il quale può essere fatto valere
senza che l’amministrazione destinataria dell’istanza (o il
controinteressato) possa sindacare, nel merito, la
fondatezza della pretesa o dell’interesse sostanziale cui
quel diritto è correlato e/o strumentalmente collegato
(cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. IV, 14.04.2010, n. 2092;
TAR Lazio, Roma, 28.01.2008, n. 594).
Ciò detto, la posizione dei ricorrenti e, in particolare, la
loro qualità di abitanti e/o lavoranti “nelle immediate
vicinanze dell’attività di lavaggio” del sig. M.S. -a
cui il ricorso risulta ritualmente notificato in data
13.12.2014- induce inequivocabilmente a riscontrare una
posizione qualificata e differenziata, idonea a comprovare
la sussistenza dell’interesse prescritto dall’art. 22 della
legge n. 241/1990.
In relazione agli atti richiesti emerge,
poi, un chiaro collegamento tra la situazione giuridicamente
tutelata ed i documenti, ossia è riscontrabile il
perseguimento del fine cui è volta la disciplina in materia
di diritto di accesso, da identificare con la possibilità
dell’interessato di disporre di tutte le difese più
opportune per evitare ogni pregiudizio alla propria sfera
giuridica, difese che non necessariamente devono tradursi in
un’azione giudiziaria
(cfr., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, 03.05.2010, n. 1068;
TAR Campania, Salerno, 16.04.2010, n. 3927). |
APPALTI:
All'ultima pagina del disciplinare di gara si
precisa quanto segue: "N.B.: Eventuali rinvii del giorno
della gara e successive sedute di gara, saranno comunicate
esclusivamente mediante pubblicazione di avviso sul profilo
del committente - Comune di Carbonia –
www.comune.carbonia.ci.it - Sezione Bandi di Gara/Lavori. È
onere delle ditte concorrenti verificare sul sito la
presenza di eventuali comunicazioni".
Stante il chiaro tenore letterale della disposizione sopra
riportata non può essere condiviso l'assunto del ricorrente
secondo cui tale clausola dovrebbe interpretarsi con
riferimento ai soli rinvii da seduta pubblica e non anche da
seduta riservata, posto che la norma fa riferimento generale
ai "rinvii del giorno della gara e successive sedute di
gara", senza operare alcuna distinzione tra sedute pubbliche
e sedute riservate, per cui deve ritenersi evidente che la
disposizione in questione ha riguardo e disciplina il rinvio
di tutte le sedute di gara sia pubbliche che riservate.
Stante la chiarezza della disposizione in questione, così
come evidenziata nel disciplinare di gara; considerato
altresì che alla fine di ogni seduta di gara, ivi compresa
quella del 12.09.2014, il presidente della commissione ha
ribadito ogni volta il contenuto della predetta clausola del
disciplinare in ordine al sistema di comunicazione dei
rinvii delle sedute; deve conseguentemente ritenersi che
tale sistema di comunicazione dei rinvii dovesse essere
pienamente conosciuto o conoscibile da parte di tutti i
partecipanti alla gara in questione.
Ritenuto altresì che il relativo onere di consultazione del
sito Internet del comune costituisca un adempimento non
particolarmente gravoso per i partecipanti alla gara, deve
conseguentemente ritenersi che se la ricorrente avesse agito
di conseguenza, alla luce di un criterio minimo di
diligenza, la medesima avrebbe avuto conoscenza dei rinvii
delle sedute di gare in questione, per cui deve ritenersi
l'infondatezza di tutte le censure in questione mossa dalla
ricorrente.
In particolare, non può rinvenirsi alcuna illegittimità
nella circostanza che "la pubblicazione è avvenuta
pochissimi giorni prima della data fissata", posto che -si
ribadisce- stante la chiara disposizione in tal senso
contenuta nel disciplinare di gara, sarebbe stato onere
della ricorrente di consultare regolarmente il sito Internet
del comune, con la conseguenza che la medesima avrebbe avuto
tempestiva conoscenza della data della nuova seduta anche
qualora la pubblicazione sia avvenuta pochissimi giorni
prima della data fissata, come nel caso di specie, stante
-si ribadisce- la non particolare gravosità di tale
adempimento per i partecipanti alla gara.
---------------
La pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante
dei chiarimenti da fornire ai concorrenti costituisce
strumento di comunicazione considerato sia in generale (art.
50 e 54, codice dell'amministrazione digitale approvato con
d.lgs. 07.03.2005 n. 82), sia nello specifico (art. 70 e 71,
d.lgs. 12.04.2006 n. 163) idoneo ad informare gli
interessati, trattandosi di forma idonea di pubblicità
notizia”, dovendosi ritenere equiparabile la fattispecie dei
"chiarimenti da fornire ai concorrenti" a quella in esame
della "notizia in ordine ai rinvii del giorno della gare e
successive sedute di gara", trattandosi in entrambi i casi
di questioni (oggetto di pubblicità notizia) di interesse
generale per la totalità dei partecipanti alla gara, senza
che debba ritenersi necessaria la comunicazione individuale
all'interessato.
Non può pertanto ritenersi sussistente alcuna violazione né
dei principi invocati dalla ricorrente di pubblicità e
trasparenza delle procedure di gara, di pubblicità delle
sedute di gara, di correttezza, libera concorrenza, non
discriminazione, né della normativa comunitaria,
genericamente prospettata dalla ricorrente, dovendosi
ritenere l'idoneità e legittimità del sistema di
comunicazione delle successive sedute di gara mediante
pubblicazione dell'avviso sul sito Internet del comune, al
fine di garantire la necessaria pubblicità e trasparenza
delle operazioni di gara medesime.
... per l'annullamento:
- della determinazione del dirigente del II servizio
dell’Ufficio lavori pubblici del comune di Carbonia n. 161
del 17.10.2014, con la quale sono stati affidati alla ditta
controinteressata i lavori relativi al programma innovativo
in ambito urbano denominato “contratto di quartiere II”
nel comune di Carbonia - Intervento 2 - CUP G22G06000010006
- cig 58298765DD;
- nonché delle operazioni di sorteggio tra le due migliori
offerte non anomale, compiute dalla commissione il
23.09.2014;
- nonché della statuizione espressa in chiusura di tutte le
riunioni della commissione (con particolare riguardo, per la
sua lesività, a quella del 12.09.2014) secondo cui la data
della nuova seduta pubblica sarebbe stata resa nota
esclusivamente mediante pubblicazione sul sito internet del
comune;
- nonché, in via subordinata, della clausola del
disciplinare che prevedeva la pubblicizzazione dei rinvii
delle operazioni solo mediante pubblicazione sul sito
internet del comune.
...
Col ricorso in esame si chiede l’annullamento della
determinazione del dirigente del II servizio dell’Ufficio
lavori pubblici del comune di Carbonia n. 161 del
17.10.2014, con il quale sono stati affidati alla ditta
controinteressata i lavori relativi al programma innovativo
in ambito urbano denominato “contratto di quartiere II”
nel comune di Carbonia - Intervento 2 - CUP G22G06000010006
- cig 58298765DD; nonché delle operazioni di sorteggio tra
le due migliori offerte non anomale, compiute dalla
commissione il 23.09.2014; nonché della statuizione espressa
in chiusura di tutte le riunioni della commissione (con
particolare riguardo, per la sua lesività, a quella del
12.09.2014) secondo cui la data della nuova seduta pubblica
sarebbe stata resa nota esclusivamente mediante
pubblicazione sul sito internet del comune; nonché, in via
subordinata, della clausola del disciplinare che prevedeva
la pubblicizzazione dei rinvii delle operazioni solo
mediante pubblicazione sul sito internet del comune.
Non vengono acquisiti agli atti del giudizio la memoria e i
documenti depositati "fuori termine" dalla Difesa del
comune resistente, stante l'opposizione all'acquisizione di
tali atti da parte della Difesa della ricorrente, espressa
alla pubblica udienza del 25.02.2015.
Il ricorso è infondato.
All'ultima pagina del disciplinare di gara si precisa quanto
segue: "N.B.: Eventuali rinvii del giorno della gara e
successive sedute di gara, saranno comunicate esclusivamente
mediante pubblicazione di avviso sul profilo del committente
- Comune di Carbonia – www.comune.carbonia.ci.it - Sezione
Bandi di Gara/Lavori. È onere delle ditte concorrenti
verificare sul sito la presenza di eventuali comunicazioni".
Stante il chiaro tenore letterale della disposizione sopra
riportata non può essere condiviso l'assunto del ricorrente
secondo cui tale clausola dovrebbe interpretarsi con
riferimento ai soli rinvii da seduta pubblica e non anche da
seduta riservata, posto che la norma fa riferimento generale
ai "rinvii del giorno della gara e successive sedute di
gara", senza operare alcuna distinzione tra sedute
pubbliche e sedute riservate, per cui deve ritenersi
evidente che la disposizione in questione ha riguardo e
disciplina il rinvio di tutte le sedute di gara sia
pubbliche che riservate.
Stante la chiarezza della disposizione in questione, così
come evidenziata nel disciplinare di gara; considerato
altresì che alla fine di ogni seduta di gara, ivi compresa
quella del 12.09.2014, il presidente della commissione ha
ribadito ogni volta il contenuto della predetta clausola del
disciplinare in ordine al sistema di comunicazione dei
rinvii delle sedute; deve conseguentemente ritenersi che
tale sistema di comunicazione dei rinvii dovesse essere
pienamente conosciuto o conoscibile da parte di tutti i
partecipanti alla gara in questione.
Ritenuto altresì che il relativo onere di consultazione del
sito Internet del comune costituisca un adempimento non
particolarmente gravoso per i partecipanti alla gara, deve
conseguentemente ritenersi che se la ricorrente avesse agito
di conseguenza, alla luce di un criterio minimo di
diligenza, la medesima avrebbe avuto conoscenza dei rinvii
delle sedute di gare in questione, per cui deve ritenersi
l'infondatezza di tutte le censure in questione mossa dalla
ricorrente.
In particolare, non può rinvenirsi alcuna illegittimità
nella circostanza che "la pubblicazione è avvenuta
pochissimi giorni prima della data fissata", posto che
-si ribadisce- stante la chiara disposizione in tal senso
contenuta nel disciplinare di gara, sarebbe stato onere
della ricorrente di consultare regolarmente il sito Internet
del comune, con la conseguenza che la medesima avrebbe avuto
tempestiva conoscenza della data della nuova seduta anche
qualora la pubblicazione sia avvenuta pochissimi giorni
prima della data fissata, come nel caso di specie, stante
-si ribadisce- la non particolare gravosità di tale
adempimento per i partecipanti alla gara.
Identiche considerazioni devono essere svolte anche avuto
riguardo all'ulteriore profilo lamentato dalla ricorrente,
secondo cui la stazione appaltante avrebbe dovuto attendere
il decorso dei 10 giorni assegnati ad alcuni concorrenti
(tra cui la ricorrente) per la produzione di documenti.
Ritiene infatti il collegio che tale questione non assuma
decisivo rilievo in ordine alla legittimità dell'operato
dell'amministrazione, dovendosi ritenere che
l'amministrazione ben potesse stabilire il giorno della
nuova seduta di gara non appena acquisiti i documenti
richiesti (a prescindere dal decorso o meno del termine
massimo accordato per la produzione di tali documenti),
fermo restando che le modalità di comunicazione dei rinvii
delle successive sedute di gara non poteva che rimanere
quella espressamente e chiaramente stabilita nel
disciplinare di gara.
Ugualmente infondata risulta la censura -avanzata in via
subordinata dalla ricorrente- secondo cui la clausola del
disciplinare di gara sarebbe illegittima.
Ritiene il collegio che debbano trovare applicazione, anche
avuto riguardo al caso di specie, i principi affermati nella
sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 13.10.2010 n.
7471, secondo cui “La pubblicazione sul sito internet
della stazione appaltante dei chiarimenti da fornire ai
concorrenti costituisce strumento di comunicazione
considerato sia in generale (art. 50 e 54, codice
dell'amministrazione digitale approvato con d.lgs.
07.03.2005 n. 82), sia nello specifico (art. 70 e 71, d.lgs.
12.04.2006 n. 163) idoneo ad informare gli interessati,
trattandosi di forma idonea di pubblicità notizia”,
dovendosi ritenere equiparabile la fattispecie dei "chiarimenti
da fornire ai concorrenti" a quella in esame della "notizia
in ordine ai rinvii del giorno della gare e successive
sedute di gara", trattandosi in entrambi i casi di
questioni (oggetto di pubblicità notizia) di interesse
generale per la totalità dei partecipanti alla gara, senza
che debba ritenersi necessaria la comunicazione individuale
all'interessato.
Non può pertanto ritenersi sussistente alcuna violazione né
dei principi invocati dalla ricorrente di pubblicità e
trasparenza delle procedure di gara, di pubblicità delle
sedute di gara, di correttezza, libera concorrenza, non
discriminazione, né della normativa comunitaria,
genericamente prospettata dalla ricorrente, dovendosi
ritenere l'idoneità e legittimità del sistema di
comunicazione delle successive sedute di gara mediante
pubblicazione dell'avviso sul sito Internet del comune, al
fine di garantire la necessaria pubblicità e trasparenza
delle operazioni di gara medesime
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 25.03.2015 n. 464 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - AMBIENTE-ECOLOGIA:
Alla stregua della normativa in tema di illecito
ambientale contenuta nel D.L.vo 152/2006, ai fini
dell’adozione di ordinanze “ambientali”, non sono
sufficienti (né necessari) né la qualifica di detentore,
possessore, né tantomeno quella di mero
proprietario, altrimenti venendosi a configurare una
responsabilità oggettiva di posizione in capo alla ditta
proprietaria che non trova alcun riscontro nella normativa
in parola.
Invero, quanto alla qualità di mero proprietario,
come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni,
in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti,
il proprietario o comunque il titolare in uso di fatto del
terreno non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di
divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo,
oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale
l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in
solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio
a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino
dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la
violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova
conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale
quello del D.L.vo n. 152/2006 in tema di ambiente. In
siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa
tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una
responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art.
192- per essere ritenuto responsabili della violazione dalla
quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre
quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo
di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad
un’eventuale responsabilità solidale del proprietario
dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Pur con tali premesse, deve, però, a tal punto darsi conto
della più recente giurisprudenza in materia, che, anche al
fine di contrastare più efficacemente i fenomeni di illecito
sversamento di rifiuti, ha notevolmente ampliato il
contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti
del proprietario dell’area interessata ovvero di coloro che
ne hanno il possesso o la mera detenzione (derivante anche
dal possesso delle chiavi di accesso alla predetta area) e
correlativamente ampliato le ipotesi di negligenza tali da
integrare una culpa in omittendo del proprietario; sul punto
il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n. 2977 del
10.06.2014 ha rilevato che nel suo significato lessicale la
negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e
consiste nella trascuratezza, nell’incuria nella gestione di
un proprio bene, e cioè nell’assenza della cura, della
vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del
bene; l’art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce
rilievo proprio alla negligenza del proprietario o -come
nella specie- dei soggetti ad esso assimilabili, che -a
parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti
(nella fattispecie in esame non prospettabili)- non assume
iniziative per evitare l’abbandono dei rifiuti, non pone in
essere gli accorgimenti e le cautele idonee alla
realizzazione di una efficace custodia e della protezione
dell’area (onde impedire che vi potessero essere facilmente
depositati rifiuti di vario genere) ed in ultima analisi si
disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti
inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero
affrontandola con misure palesamenti inadeguate.
D’altronde ciò è pienamente in linea con la concezione della
proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione (Cfr.
art. 42) per la quale la proprietà pone anche degli obblighi
al suo titolare di rendersi attivo per vigilare
costantemente sulla propria cosa.
In buona sostanza secondo questo nuovo indirizzo
giurisprudenziale, invertendosi il pregresso rapporto tra
regola ed eccezione e tenuto conto del comportamento
ritenuto esigibile dal proprietario o dal
possessore o
utilizzatore, nella normalità dei casi in
quest’ultimo è legittimo presumere una culpa in omittendo o
in vigilando, cioè, salvo che, eccezionalmente, non sia
altrimenti provata l’esclusione di ogni sua negligenza per
essersi attivato per la custodia e/o la gestione del proprio
bene ed affrontata concretamente la situazione deprecata con
misure adeguate.
---------------
Secondo giurisprudenza che si condivide il potere di
ordinanza ex art. 14, D.L.vo 05.02.1997, n. 22 (ora art.
192, D.L.vo n. 152/2006) ha un diverso fondamento rispetto
alle ordinanze disciplinate dall’art. 54 T.U. enti locali.
Tale ultimo potere deve essere atipico e residuale e cioè
esercitabile (sempre che ricorrano i presupposti
dell’urgenza, della gravità e del pericolo, ecc.), quante
volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare
atti tipici in presenza di presupposti indicati da
specifiche normative di settore; viceversa proprio l’art.
14, comma 3, configura una siffatta specifica normativa con
la previsione di un ordinario potere d’intervento attribuito
all’autorità amministrativa.
Quanto alla individuazione dell’organo competente
all’adozione dell’ordinanza ex art. 14 cit., dopo l’entrata
in vigore del t.u. enti locali, tale provvedimento rientra
nella competenza del responsabile dell’area tecnica e non
del sindaco.
Anche questa Sezione ha ritenuto che: <<la competenza ad
adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in
base all’art. 192, comma 3, D.L.vo 03.04.2006, n. 152 spetti
al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della
separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni
gestionali, di cui all’art. 107, t.u. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, D.L.vo 08.08.2000, n.
267>>.
---------------
L’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241, al 2° comma,
prevede che: <<(……..) Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio
del procedimento, quando l’amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato>>.
Tuttavia giurisprudenza tende a esonerare l’amministrazione
da tale ultima probatio diabolica, onerando il ricorrente
che solleva la relativa censura di allegare quali sono gli
elementi contrari che avrebbe introdotto nel procedimento
qualora vi avesse preso parte.
In tal senso si segnala la sentenza secondo la quale: <<Se è
vero che la norma di cui all’art. 21-octies, comma 2, L. n.
241 del 1990 pone in capo all’Amministrazione (e non al
privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata
comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non
sarebbe potuto essere diverso, tuttavia, onde evitare di
gravare la P.A. di una probatio diabolica (quale sarebbe
quella di dimostrare che ogni eventuale contributo
partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del
procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in
esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi
della omessa comunicazione di avvio, ma debba quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi contrari che
avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione; cosicché, solo dopo che il ricorrente ha
adempiuto a tale onere di allegazione, la P.A. sarà gravata
del più consistente onere di dimostrare che ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove,
come nella specie, il privato si limiti a contestare la
mancata comunicazione di avvio senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione
(aggiuntive rispetto a quelle comprese tra i motivi del
ricorso principale), il motivo con cui si lamenta la mancata
comunicazione deve intendersi come inammissibile>>.
... per l’annullamento, previa sospensione:
a) dell’ordinanza del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio
Igiene Urbana del Comune di Marano di Napoli n. 09 del
15.05.2014, ad oggetto “Ordinanza di bonifica igienico
sanitaria e messa in sicurezza fondo sito in località
Cantarelle (accessibile da Via del Mare civ. 53/A) di
proprietà M.G. - Utilizzatore ed affidatario C.F.”,
notificata a C.F. in data 20.05.2014;
b) dell’ordinanza del Dirigente dell’Area Tecnica - Servizio
Igiene Urbana Comune di Marano di Napoli n. 14 del
19.06.2014 ad oggetto ”Ordinanza di ripristino
ambientale, ivi disposta, fra l’altro, la sostituzione e
l’annullamento della precedente ordinanza dirigenziale n.
09/2014 del 15.05.2014", notificata a Crispino Francesco
in datata 26.06.2014;
...
3. Con la prima censura il ricorrente deduce la violazione
dell’art. 192, commi 1 e 3, del D.L.vo 152/2006 nella parte
in cui richiederebbe l’accertamento di una responsabilità, a
titolo di dolo o colpa a carico del soggetto intimato, (che,
invece, nel caso del ricorrente, non sarebbe stata
dimostrata) e l’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul
fondo potrebbe essere rivolto al proprietario, ovvero al
possessore e all’utilizzatore/affidatario dello stesso solo
quando ne sarebbe dimostrata almeno la corresponsabilità con
gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un
comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo.
Nella specie, il C. sarebbe stato individuato quale soggetto
“responsabile” dell’abbandono incontrollato dei
rifiuti a seguito di una segnalazione della Tenenza dei
Carabinieri di Marano, sul solo presupposto che lo stesso
ricorrente sarebbe coltivatore del vigneto immediatamente
posto al di sotto della zona rilevata in questione che, di
fatto, non sarebbe interessato dai rifiuti medesimi, né dal
loro abbandono, e, ciò, in totale assenza di condanna
penale, di contestazione di ipotesi di reato, o di avvio di
qualsivoglia azione penale nei suoi confronti.
4. La prospettazione di parte ricorrente non merita
condivisione.
5. L’impugnata ordinanza n. 9 del 15.05.2014 consegue alla
nota della Tenenza dei Carabinieri di Marano del 24.03.2014
relativa alla segnalazione di abbandono incontrollato di
rifiuti sversati e rappresentati almeno per la parte
visibile da laterizi da costruzione e demolizione e a loro
volta coperti da terreno vegetale, su un fondo già oggetto
di sequestro penale del 30.10.2013iscritto al N.C.T. del
Comune di Marano di Napoli Fg. 23 mappale n. 1640 di
proprietà di M.G., individuandosi altresì, quale
responsabile dell’abbandono dei predetti rifiuti la persona
di C.F..
6. Il Collegio, anche per la copiosa e pregressa sua
giurisprudenza sull’argomento è ben consapevole che, alla
stregua della normativa in tema di illecito ambientale
contenuta nel D.L.vo 152/2006, ai fini dell’adozione di
ordinanze “ambientali”, non sono sufficienti (né
necessari) né la qualifica di detentore,
possessore, né tantomeno quella di mero proprietario,
altrimenti venendosi a configurare una responsabilità
oggettiva di posizione in capo alla ditta proprietaria che
non trova alcun riscontro nella normativa in parola.
7. Invero, quanto alla qualità di mero proprietario,
come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni
(ex multis, Cfr: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n.
13004), in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi
ignoti, il proprietario o comunque il titolare in uso di
fatto del terreno non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr: TAR
Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana,
12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di
divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo,
oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale
l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla
in solido anche al proprietario dell’area la rimozione,
l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il
ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in
cui la violazione fosse imputabile a titolo di dolo o di
colpa (Cfr: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR
Umbria 10.03.2000, n. 253).
8. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n.
152/2006 in tema di ambiente. In siffatto disposto normativo
tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito
ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità
oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192- per essere
ritenuto responsabili della violazione dalla quale è
scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno
la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o
colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad
un’eventuale responsabilità solidale del proprietario
dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
9. Pur con tali premesse, deve, però, a tal punto darsi
conto della più recente giurisprudenza in materia, che,
anche al fine di contrastare più efficacemente i fenomeni di
illecito sversamento di rifiuti, ha notevolmente ampliato il
contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti
del proprietario dell’area interessata ovvero di coloro che
ne hanno il possesso o la mera detenzione (derivante anche
dal possesso delle chiavi di accesso alla predetta area) e
correlativamente ampliato le ipotesi di negligenza tali da
integrare una culpa in omittendo del proprietario;
sul punto il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza n.
2977 del 10.06.2014 ha rilevato che nel suo significato
lessicale la negligenza (vale a dire la mancata diligenza)
consisteva e consiste nella trascuratezza, nell’incuria
nella gestione di un proprio bene, e cioè nell’assenza della
cura, della vigilanza, della custodia e della buona
amministrazione del bene; l’art. 192 del testo unico n. 152
del 2006 attribuisce rilievo proprio alla negligenza del
proprietario o -come nella specie- dei soggetti ad esso
assimilabili, che -a parte i casi di connivenza o di
complicità negli illeciti (nella fattispecie in esame non
prospettabili)- non assume iniziative per evitare
l’abbandono dei rifiuti, non pone in essere gli accorgimenti
e le cautele idonee alla realizzazione di una efficace
custodia e della protezione dell’area (onde impedire che vi
potessero essere facilmente depositati rifiuti di vario
genere) ed in ultima analisi si disinteressi del proprio
bene per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare
concretamente la situazione, ovvero affrontandola con misure
palesamenti inadeguate.
D’altronde ciò è pienamente in linea con la concezione della
proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione (Cfr.
art. 42) per la quale la proprietà pone anche degli obblighi
al suo titolare di rendersi attivo per vigilare
costantemente sulla propria cosa.
In buona sostanza secondo questo nuovo indirizzo
giurisprudenziale, invertendosi il pregresso rapporto tra
regola ed eccezione e tenuto conto del comportamento
ritenuto esigibile dal proprietario o dal
possessore o
utilizzatore, nella normalità dei casi in
quest’ultimo è legittimo presumere una culpa in omittendo
o in vigilando, cioè, salvo che, eccezionalmente, non
sia altrimenti provata l’esclusione di ogni sua negligenza
per essersi attivato per la custodia e/o la gestione del
proprio bene ed affrontata concretamente la situazione
deprecata con misure adeguate.
10. Nella fattispecie premesso che, dal sopralluogo
congiunto del personale ispettivo comunale e dei tecnici
A.r.p.a.c. l’area, oggetto di ispezione viene descritta come
“ubicata nel Comune di Marano comprendente una superficie
a vigna ed un rilevato ad essa sovrastante delle dimensioni
di circa 300 mq. che risulta costituito da terreno misto a
rifiuti di costruzione e demolizione”, nel verbale di
sequestro redatto in data 29.10.2013 dalla Legione
Carabinieri Campania - Tenenza di Marano di Napoli si legge
che: “L’accesso all’area avviene attraversando un viale
sterrato, recintato e chiuso da un cancelletto improvvisato
con una rete con una catena con un lucchetto, del quale era
in possesso della chiave il sig. C.F., in oggetto meglio
generalizzato, utilizzatore ed affidatario della stessa
area.
A tal punto si accedeva unitamente al C.F. all’interno
dell’area interessata dallo sversamento del materiale vario
di risulta, dove si notavano alcuni frammenti di eternit
(amianto). Il C.F. riferiva spontaneamente agli operanti di
non essere a conoscenza di chi fosse il proprietario di tale
area e di avere in uso da circa 30 anni quella parte di
terreno, in quanto tale zona di terreno gli era stata data
in affidamento circa trent’anni fa dal Sig. M.A. di Qualiano,
deceduto, ed utilizzava tale zona per coltivare alcuni
ortaggi per conto suo, recintandola e chiudendola con un
cancelletto improvvisato con una rete con un lucchetto.
Lo stesso riferiva che, poiché tale terreno insisteva sotto
una zona dove ogni qual volta che veniva a piovere inondava
il suo raccolto, decise di far sversare del materiale di
risulta per far in modo che si formasse una barriera che
impedisse all’acqua piovana di inondare il raccolto. Tale
materiale di risulta da circa cinque anni veniva scaricato
da alcune persone, delle quali non era in grado di riferire
le generalità, né la ditta, poiché quando si trovava a
coltivare, passavano e dopo avergli chiesto di scaricare il
materiale edile, lo faceva sversare sotto questo costone
sempre per creare la barriera per impedire che l’acqua
inondasse la parte di terreni coltivata.
Ultimamente circa una settimana fa, mentre stava coltivando
l’uva, si presentava un soggetto con un triciclo, del quale
non era in grado di riferire le generalità né il numero di
targa del triciclo, ed il conducente, dopo avergli chiesto
di scaricare il materiale edile, consentiva allo stesso di
scaricare il materiale dove aveva sempre fatto scaricare
negli anni passati, dopodiché andava via”.
Quanto da ultimo verbalizzato vale a smentire l’assunto del
ricorrente secondo il quale non sia stato accertato in atto
uno “scarico” o un “abbandono incontrollato”
di rifiuti o di altro ed, inoltre, che la presenza della
fitta vegetazione ricoprente gli stessi sicuramente “data
nel tempo” il loro abbandono da parte di ignoti.
11. Ne deriva che il comportamento del C. ed, in particolare
la decisione “di far sversare del materiale di risulta
per far in modo che si formasse una barriera che impedisse
all’acqua piovana di inondare il raccolto” non può
considerarsi esente da responsabilità, e non solo sotto il
profilo della colpa omissiva; inoltre non risulta che lo
stesso, nel corso del tempo (l’abbandono di rifiuti non
costituisce un episodio sporadico, ma il frutto di
un’attività ripetuta nel tempo come emerge dal sopralluogo
dell’A.r.p.a.c.), si sia attivato in alcun modo, anche
attraverso segnalazioni all’autorità preposta, per evitare o
limitare il danno e, nel caso di specie, il dovere di
attivarsi in tal senso era tanto più stringente,
considerando che, a seguito dell’ulteriore sopralluogo
eseguito da personale ispettivo comunale unitamente ai
tecnici dell’A.r.p.a.c. in data 17.02.2014 era emersa (tra
l’altro) la presenza di rifiuti cod. CER 17.06.05 contenenti
amianto - rifiuti speciali pericolosi.
Pertanto legittimamente il C. deve ritenersi passivamente
legittimato a divenire destinatario dell’impugnata ordinanza
dalla cui motivazione si evince che egli era a conoscenza
dell’avvenuto deposito di rifiuti sul fondo e, ciò
nonostante, abbia tenuto un comportamento omissivo e
disinteressato o addirittura attivo.
12. Inoltre per affermare la responsabilità del C.
nell’abbandono incontrollato di rifiuti (anche pericolosi)
non necessita certo che l’area sia stata destinata ad una
discarica abusiva, né tanto meno sarebbe difficilmente
comprensibile che, in totale assenza di condanna penale, di
contestazione di ipotesi di reato, o di avvio di
qualsivoglia azione penale nei suoi confronti, lo stesso in
virtù delle ordinanze successivamente emanate dal Dirigente
dell’Area Tecnica abbia visto “variata” la sua prima
“qualità” di utilizzatore e affidatario dell’area in
questione, per poi divenire nella seconda ordinanza “responsabile
dello sversamento dei rifiuti”.
In contrario appena è il caso di rilevare che la conclusione
ed, ancor prima la mera pendenza di un procedimento penale,
non rappresenta presupposto, né necessario né sufficiente,
per esprimere, all’esito di un’istruttoria autonomamente
condotta dall’Autorità amministrativa, un giudizio di
colpevolezza sulla condotta del soggetto, specie, alla
stregua dell’orientamento giurisprudenziale che obbliga il
proprietario ad interessarsi e rendersi parte attiva e
diligente per vigilare sulla cosa di sua appartenenza, anche
nel suo dinamismo senza che, sul punto, possa profilarsi una
responsabilità oggettiva o di posizione.
Inoltre parte ricorrente asserisce, quanto alla qualità
attribuitagli di “responsabile dello sversamento dei
rifiuti”, che il Comune di Marano sulla scorta della
segnalazione di abbandono inoltrata dalla Tenenza dei
Carabinieri di Marano avrebbe desunto da un mero fatto (e,
cioè, il possesso delle chiavi di accesso al cancelletto in
ferro posto a valle dell’area coltivata a vigneto da parte
del C., e sottostante il rilevato sul quale è stata
riscontrata la presenza dei rifiuti), la responsabilità
colposa e/o omissiva, laddove invece tale correlazione non
potrebbe costituire effetto di alcun automatismo ma
richiederebbe di essere dimostrata anche mediante il ricorso
a presunzioni, purché gravi, precise e concordanti.
In proposito deve, rilevarsi che, già di per sé, la
circostanza di possedere le chiavi di accesso al cancelletto
in ferro da cui si accede all’area interessata dagli
sversamenti non è un mero fatto ma, già di per sé, integra
una situazione di detenzione tale da garantirgli la
disponibilità dell’area, tant’è che -come risulta dalle
dichiarazioni spontanee rese ai Carabinieri- “quando si
trovava a coltivare, terzi passavano e dopo avergli chiesto
di scaricare il materiale edile, lo faceva sversare sotto
questo costone sempre per creare la barriera per impedire
che l’acqua inondasse la parte di terreni coltivata.
Ultimamente circa una settimana fa, mentre stava coltivando
l’uva, si presentava un soggetto con un triciclo, del quale
non era in grado di riferire le generalità né il numero di
targa del triciclo, ed il conducente, dopo avergli chiesto
di scaricare il materiale edile, consentiva allo stesso di
scaricare il materiale dove aveva sempre fatto scaricare
negli anni passati, dopodiché andava via”.
13. Con la seconda censura si deduce il difetto di
motivazione in merito ai rischi che legittimano ai sensi
dell’art. 192, commi 1 e 3, del D.L.vo 152/2006,
l’emanazione reiterata dell’ordine di effettuare la messa in
sicurezza e bonifica dell’area ad horas e, comunque,
nel termine di giorni 30 dalla notifica dalla notifica
-Dovere di bonifica e difetto di legittimazione passiva del
ricorrente- Violazione dell’art. 54, comma 4, D.L.vo
267/2000.
Secondo parte ricorrente, né nell’ordinanza n. 9/2014, né in
quella successiva sarebbero ravvisabili i caratteri di “contingibilità
ed urgenza” per la tutela dell’igiene locale e della
salvaguardia della pubblica e privata incolumità ai fini
della bonifica e messa in sicurezza del sito e per la
successiva rimozione dei rifiuti stessi dall’area in
questione; inoltre dall’elaborato peritale del tecnico
incaricato dal ricorrente e da quanto accertato dalla
Tenenza dei Carabinieri di Marano, ben si evincerebbe che i
materiali di risulta sostanzialmente di natura edile,
rilevati nel corso dei successivi sopralluoghi, anche
dell’Area Tecnica del Comune, nell’area limitrofa a quella
coltivata dal ricorrente, sembrerebbero stratificatisi negli
anni.
Parte ricorrente asserisce che il provvedimento impugnato
non conterrebbe alcun elemento tale da consentire di
ascrivere la (cor)responsabilità dell’abbandono, sia pure in
via presuntiva al C., coltivatore di una parte (1/8 circa)
della p.lla 1640, non essendovi prova che lo stesso abbia
provveduto ad impartire disposizioni, ordini o quant’altro
per la gestione di chissà che cosa, né che lo stesso
potrebbe essere ritenuto altrimenti “responsabile”
dell’abbandono dei rifiuti in questione, solo per il fatto
che coltivi una piccola parte di fondo appartenente ad una
più ampia consistenza di una p.lla di terreno in proprietà
di altro soggetto.
14. L’assunto di parte ricorrente non regge a fronte del
recente orientamento giurisprudenziale tendente
all’ampliamento degli obblighi di diligenza gravanti sul
proprietario o su chiunque abbia un potere di fatto sulla
cosa che impongono di attivarsi per vigilare, controllare e,
comunque, impedire che terzi possano venire a contatto con
la stessa e trova smentita dal suddetto sopralluogo eseguito
da personale ispettivo comunale unitamente ai tecnici dell’A.r.p.a.c.
in data 17.02.2014 da cui era emerso (tra l’altro) la
presenza si manufatti in cemento armato, ridotti in pezzi ed
i rifiuti evidenziati nel corso del sopralluogo sono
classificati a vista come “rifiuti provenienti dalle
operazioni di costruzione e demolizione cod. CER 17.09.04
-rifiuti speciali non pericolosi e cod. CER 17.06.05 rifiuti
contenenti amianto- rifiuti speciali pericolosi”.
15. Con la terza censura si deduce l’incompetenza del
sindaco in ordine all’emanazione delle ordinanze di
rimozione dei rifiuti. Violazione degli artt. 54, comma 4 e
107, D.L. vo 267/2000 (TUEL) in relazione all’art. 192,
D.L.vo 152/2006 (TUA) sul presupposto della competenza
appartenente al Dirigente dell’Area Tecnica del Comune di
Marano di Napoli; entrambe le ordinanze impugnate, la n. 9
del 15.05.2014 e la n. 14 del 19.06.2014 sarebbero state
emanate dal Dirigente dell’Area Tecnica sulla scorta di
quanto stabilito dall’art. 54, comma 4, del D.L.vo n.
267/2000, testo unico delle autonomie locali, come
modificato dal decreto-legge 23.05.2008, n.92 convertito in
legge 24.07.2008, n. 125, mentre avrebbero dovuto essere
emesse nel rispetto del potere ordinatorio sindacale, tipico
e non assunte dal Dirigente dell’Area Tecnica in maniera
atipica ed extra ordinem.
16. La censura è priva di pregio.
17. L’ordinanza dirigenziale n. 14 del 19.06.2014, forse
ancor più di quella n. 9 del 15.05.2014 che va a sostituire,
non riveste le caratteristiche del provvedimento extra
ordinem ex art. 54 D.L.vo n. 267/2000, ma è stata
emanata nell’esercizio del potere di ordinaria
amministrazione riconducibile all’art. 192 del D.L.vo n.
152/2006 (T.U. Ambiente).
Secondo giurisprudenza che si condivide il potere di
ordinanza ex art. 14, D.L.vo 05.02.1997, n. 22 (ora art.
192, D.L.vo n. 152/2006) ha un diverso fondamento rispetto
alle ordinanze disciplinate dall’art. 54 T.U. enti locali.
Tale ultimo potere deve essere atipico e residuale e cioè
esercitabile (sempre che ricorrano i presupposti
dell’urgenza, della gravità e del pericolo, ecc.), quante
volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare
atti tipici in presenza di presupposti indicati da
specifiche normative di settore; viceversa proprio l’art.
14, comma 3, configura una siffatta specifica normativa con
la previsione di un ordinario potere d’intervento attribuito
all’autorità amministrativa. Quanto alla individuazione
dell’organo competente all’adozione dell’ordinanza ex art.
14 cit., dopo l’entrata in vigore del t.u. enti locali, tale
provvedimento rientra nella competenza del responsabile
dell’area tecnica e non del sindaco (Cfr. C. di S., Sez. V,
12.06.2009, n. 3765).
Anche questa Sezione ha ritenuto che: <<la competenza ad
adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in
base all’art. 192, comma 3, D.L.vo 03.04.2006, n. 152 spetti
al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della
separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni
gestionali, di cui all’art. 107, t.u. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, D.L.vo 08.08.2000, n.
267>> (TAR Campania, Napoli, 10.02.2012, n. 730).
18. Con l’ultima censura è dedotta la violazione dell’art.
192 D.L. vo 152/2006 (TUA), stante l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento in relazione ai controlli previsti.
19. La censura è inammissibile.
20. Al riguardo l’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n.
241, al 2° comma, prevede che: <<(……..) Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento, quando
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato>>.
Tuttavia giurisprudenza -che si condivide- tende a esonerare
l’amministrazione da tale ultima probatio diabolica,
onerando il ricorrente che solleva la relativa censura di
allegare quali sono gli elementi contrari che avrebbe
introdotto nel procedimento qualora vi avesse preso parte.
In tal senso si segnala la sentenza secondo la quale: <<Se
è vero che la norma di cui all’art. 21-octies, comma 2, L.
n. 241 del 1990 pone in capo all’Amministrazione (e non al
privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata
comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non
sarebbe potuto essere diverso, tuttavia, onde evitare di
gravare la P.A. di una probatio diabolica (quale sarebbe
quella di dimostrare che ogni eventuale contributo
partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del
procedimento, risulta preferibile interpretare la norma in
esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi
della omessa comunicazione di avvio, ma debba quantomeno
indicare o allegare quali sono gli elementi contrari che
avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione; cosicché, solo dopo che il ricorrente ha
adempiuto a tale onere di allegazione, la P.A. sarà gravata
del più consistente onere di dimostrare che ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che, ove,
come nella specie, il privato si limiti a contestare la
mancata comunicazione di avvio senza nemmeno allegare le
circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione
(aggiuntive rispetto a quelle comprese tra i motivi del
ricorso principale), il motivo con cui si lamenta la mancata
comunicazione deve intendersi come inammissibile>> (TAR
Lombardia, Milano, Sez. III 12.12.2011, n. 3144).
21. Nella fattispecie parte ricorrente si è limitata a
rilevare unicamente che il Comune, a distanza di ben otto
mesi dal sequestro dell’area operata dai Carabinieri, nulla
ha argomentato in ordine alle ragioni di urgenza che
avrebbero consentito di derogare all’obbligo di inviare la
comunicazione di avvio, ma ha omesso del tutto di allegare -
alla stregua della suddetta giurisprudenza - gli elementi
contrari e le circostanze che avrebbe inteso sottoporre
all’amministrazione, la qual cosa determinando
l’inammissibilità della censura.
22. Conclusivamente il ricorso è infondato e deve essere
respinto.
23. L’esito del giudizio, sotto il profilo impugnatorio, non
lascia margine residuo per coltivare pretese risarcitorie,
sia pure in subordine, per equivalente monetario, derivanti
dall’intera procedura di annullamento della stabilizzazione
e che potrebbero trovare ingresso unicamente in caso di
riscontrata illegittimità degli atti impugnati
24. Le recenti oscillazioni giurisprudenziali in tema di
individuazione di elementi colpevolezza a carico del
proprietario suggeriscono di compensare integralmente fra le
parti le spese giudiziali (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 23.03.2015 n. 1691 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Aggiornamenti
vietati per gli oneri urbanistici. Il pagamento è stabilito
in fase di rilascio del titolo. Nuove costruzioni. Le linee
guida dei giudici per la determinazione degli importi.
Nessun aumento o aggiornamento è
possibile per il contributo di costruzione, che deve essere
calcolato con le tariffe vigenti al momento del rilascio del
titolo abilitativo.
La giurisprudenza non ha dubbi: anche con le ultime pronunce
qualsiasi “conguaglio” degli oneri di urbanizzazione
è da considerarsi illegittimo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.03.2015 n. 1211 e
sentenza 19.03.2015 n. 1504).
Ormai da tempo, infatti, il contributo di urbanizzazione
viene qualificato come corrispettivo di diritto pubblico, il
cui fondamento è individuato nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla loro presenza.
Fatto costitutivo dell’obbligazione di pagamento è il
rilascio di un titolo abilitativo che determini un aumento
del carico urbanistico (cioè una variazione degli standard
urbanistici) ed è a tale momento che occorre avere riguardo
per la determinazione dell’entità del contributo.
Dunque l’amministrazione deve provvedere alla liquidazione
delle somme dovute a titolo di contributo facendo esclusivo
riferimento ai parametri normativi prefissati dalle norme di
legge e regolamentari, dovendosi rispettare l’articolo 23
della Costituzione in base al quale nessuna prestazione
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge
(Tar Puglia- Bari, sezione III, 243/2011; Consiglio di
Stato, sezione V, 2258/2006).
Sono stati quindi costantemente ritenuti illegittimi quei
provvedimenti con cui i Comuni hanno intimato a titolari di
permessi di costruire il pagamento di somme ulteriori
rispetto a quelle già versate in occasione del rilascio
dell’atto di assenso edificatorio, motivando la richiesta
con riferimento al fatto che si trattasse di somme dovute a
causa di un “aggiornamento del contributo di costruzione”,
rideterminato con atti deliberativi assunti dopo il rilascio
del titolo abilitativo (oltre alle due sentenze citate anche
Consiglio di Stato, sezione IV, 3009/2014).
In base allo stesso presupposto, sono stati invece ritenuti
legittimi gli atti di riliquidazione quando vi sia rilascio
di nuovo titolo edilizio, a seguito della scadenza
dell’efficacia temporale di quello precedente o per il
completamento con mutamento di destinazione d’uso delle
opere assentite in origine (Consiglio di Stato, sezione IV,
sentenza 4320/2012).
Parametri rigidi
La determinazione del contributo per oneri di urbanizzazione
e costo di costruzione ha natura paritetica, trattandosi di
un mero accertamento dell’obbligazione contributiva,
effettuato dalla Pa in base a rigidi parametri prefissati
dalla legge e dai regolamenti in tema di criteri impositivi,
nei cui riguardi essa è sfornita di potestà autoritativa.
Pertanto, la richiesta degli importi costituisce una
manifestazione definitiva che, dopo l’adempimento del
privato che estingue l’obbligazione, esclude il diritto al
conguaglio del Comune, salvo errori macroscopici
riconoscibili dal privato (Consiglio di giustizia
amministrativa siciliana, sentenza 462/2008).
Un’altra rilevante conseguenza della natura paritetica
dell’atto è che le relative controversie sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
(Consiglio di Stato, sezione IV, 4247/2011) e non sono
soggette alle regole delle impugnazioni e dei termini di
decadenza propri degli atti amministrativi (Consiglio di
Stato, sezione IV, 1565/2011).
Il giudizio è quindi azionabile nel termine di prescrizione,
salvo che si intenda contestare l’applicazione del
contributo per vizi derivanti da atti autoritativi generali,
presupposti di quello impugnato, in relazione ai quali la
posizione dell’interessato è qualificabile come interesse
legittimo; in tal caso il motivo dedotto sarà
l’illegittimità dell’assoggettamento, anche nel quantum,
all’onere di urbanizzazione di una concessione edilizia e il
ricorso andrà quindi proposto entro il termine di decadenza
(Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 3122/2012).
Lavori in corso
Poiché l’obbligazione contributiva è correlata all’aumento
del carico urbanistico derivante dall’esecuzione
dell’intervento, il contributo è dovuto non solo per le
nuove costruzioni, ma anche nel caso di ristrutturazione,
anche se la stessa non riguarda l’intero edificio, ma solo
una sua porzione, essendo sufficiente che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità
urbanistica (Consiglio di Stato, sezione V, 4326/2013).
L’obbligo è stato invece escluso quando l’edificio, pur
modificando la sagoma ed i prospetti preesistenti, abbia
conservato la stessa volumetria e destinazione (Tar
Piemonte, sezione I, sentenza 1346/2013).
Il mutamento di destinazione d’uso è rilevante solo quando
avvenga tra due categorie funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della
differenza del regime contributivo in ragione di diversi
carichi urbanistici (Tar Emilia Romagna–Bologna, sezione I,
601/2013).
----------------
gli indirizzi
01 AGGIORNAMENTO
È illegittimo il provvedimento con il quale un Comune ha
chiesto al titolare di un permesso di costruire il
pagamento, a titolo di oneri di urbanizzazione, di una somma
ulteriore rispetto a quella già versata ai fini del rilascio
dell’atto di assenso edificatorio, motivato con riferimento
al fatto che si tratta di somme dovute a titolo di
“aggiornamento del contributo di costruzione”, secondo gli
indirizzi impartiti con successiva deliberazione della
Giunta municipale
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1504
02 ANNUALITÀ
La determinazione degli oneri concessori deve avvenire non
solo sulla base delle tariffe vigenti ma non può che essere
richiesta una tantum al momento del rilascio del permesso
edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per
annualità successive al rilascio del titolo
Tar Puglia–Lecce, Sez. III – sentenza 21.04.2015 n. 1302
03 AVVALIMENTO PARZIALE
In caso di avvalimento solo parziale delle facoltà
edificatorie consentite, il privato ha diritto alla
rideterminazione del contributo per oneri di urbanizzazione
e costo di costruzione e alla restituzione della quota
riferibile alla porzione non realizzata; il termine di
prescrizione decorre dalla data in cui il titolare comunica
all’amministrazione la propria intenzione di rinunciare al
titolo abilitativo o dalla data di adozione da parte della
Pa del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso
di costruire per scadenza dei termini o per l’entrata in
vigore di previsioni urbanistiche contrastanti
Tar Lombardia, Sez. II, sentenza 24.03.2010 n. 728
04 CAMBIO DESTINAZIONE
Nel caso di modificazione della destinazione d’uso cui si
correli un maggiore carico urbanistico è integrato il
presupposto che giustifica l’imposizione del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per
la nuova destinazione impressa.
Il mutamento, pertanto, è
rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza
del regime contributivo in ragione di diversi carichi
urbanistici; al contrario, qualora il mutamento di
destinazione d’uso non determini l’incremento del carico
urbanistico, il pagamento dei relativi oneri non è dovuto,
essendo privo di causa
Tar Emilia Romagna–Bologna, Sez. I – sentenza 06.09.2013 n.
601
05 CARICO URBANISTICO
Ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di corresponsione degli
oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior
carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio,
sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione
interessi globalmente l’edificio ma è sufficiente che ne
risulti comunque mutata la realtà strutturale e la
fruibilità urbanistica
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2013 n. 4326
06 CONGUAGLIO
In materia edilizia il contributo di costruzione va
determinato al momento del rilascio del titolo edilizio. È
pertanto illegittimo il provvedimento con il quale, dopo il
rilascio del permesso di costruire, il Comune ha chiesto un
conguaglio del contributo di costruzione facendo
applicazione di una disciplina (nella specie recata dal Dm
del 1999), che è successiva rispetto al momento in cui è
insorta l’obbligazione contributiva
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.03.2015 n. 1211
07 COSTO COSTRUZIONE
Il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto
anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela
produttiva di vantaggi economici ad essa connessi,
situazione che si verifica per il mutamento di destinazione
o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che
comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013, n. 6160
08 ONERI URBANIZZAZIONE
Il contributo per gli oneri di urbanizzazione non ha una
funzione meramente recuperatoria delle spese sostenute dalla
collettività comunale per la trasformazione del territorio,
bensì la caratteristica di corrispettivo dovuto per la
partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione
connesse all’edificazione e di realizzazione delle
urbanizzazioni
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5072
09 RESTITUZIONE
L’amministrazione comunale, che abbia immotivatamente
vietato al titolare il permesso di costruire di utilizzarlo
al fine di realizzare il fabbricato autorizzato, senza
neppure procedere nella via dell’autotutela essendo palese
la legittimità del titolo abilitativo già rilasciato, è
tenuta alla restituzione ex articolo 2033 del Codice civile
della somma riscossa per gli oneri concessori, maggiorata
degli interessi legali con decorrenza dalla data della
domanda di restituzione proposta dall’impresa interessata,
trattandosi di indebito oggettivo più che di debito di
valore
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.05.2011 n. 3027
10 RINUNCIA
L’amministrazione comunale è tenuta alla restituzione degli
oneri di urbanizzazione corrisposti, in caso di rinuncia o
di inutilizzazione della concessione edilizia
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2003 n. 3714
11 PAGAMENTO
I termini per il pagamento del contributo per il costo di
costruzione sono individuati dall’articolo 16 del Dpr
380/2001 «non oltre i sessanta giorni dall’ultimazione della
costruzione».
Tar Piemonte, Sez. I, sentenza 04.12.2009, n. 3266
---------------
Imposizione a due vie da Regione e Comune.
L’iter. Il meccanismo di calcolo dei costi di costruzione e
delle spese per l’urbanizzazione.
È dal 1977,
con la legge “Bucalossi” che è stato sancito il principio
per cui ogni attività di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio deve partecipare agli oneri ad essa
relativi . La legge n. 10/1977 ha quindi reso onerosa per il
cittadino la possibilità di edificare.
La previsione è oggi contenuta nell’articolo 16 del Dpr
380/2001, in base al quale il rilascio del permesso di
costruire comporta la corresponsione al Comune di un
contributo suddiviso in due quote, una parametrata
all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, l’altra
relativa al costo di costruzione. Pur essendo disciplinate
dalla stessa norma, le due quote del contributo si
differenziano quanto a presupposti, natura giuridica,
criteri di determinazione e modalità di pagamento.
Costo di costruzione
Il contributo relativo al costo di costruzione, determinato
periodicamente dalle Regioni, viene rapportato alle
caratteristiche e alla tipologia della costruzione e
costituisce una prestazione di natura paratributaria,
collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è
generata dallo sfruttamento del territorio. La
giurisprudenza la ritiene una obbligazione contributiva
acausale, dovuta in presenza di ogni trasformazione edilizia
che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, sia
produttiva di vantaggi economici per il concessionario;
situazione che si verifica anche nel caso di mutamento di
destinazione d’uso che comporti un passaggio tra due
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6160/2013) La
quota non è dovuta per le costruzioni realizzate su area
demaniale, perché prive di intento speculativo e
insuscettibili di commercializzazione (Consiglio di Stato,
sez. VI, sentenza n. 177/2012).
La quota relativa al costo di costruzione, determinata
all’atto del rilascio del titolo, è corrisposta in corso
d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune,
non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della
costruzione.
Oneri di urbanizzazione
Vengono determinati dai Comuni con cadenza quinquennale, in
conformità alle direttive regionali. Sono stati qualificati
in giurisprudenza come corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, dovuto a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione
all’insieme dei benefici che riceve la nuova costruzione.
Non vi è però alcun vincolo di scopo in relazione alla zona
interessata dalla trasformazione urbanistica ed il
contributo va quindi pagato a prescindere sia dalla concreta
utilità che il richiedente può conseguire dal titolo
edificatorio, sia dall’entità delle spese effettivamente
occorrenti al Comune per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 2261/2014).
Questa quota è corrisposta al Comune al momento del rilascio
del permesso di costruire, ma può essere rateizzata.
Inoltre, come modalità alternativa di pagamento (Consiglio
di Stato,sezione IV, sentenza n. 3413/2012) ed a scomputo
totale o parziale della quota dovuta, l’interessato può
eseguire direttamente le opere di urbanizzazione, con le
modalità e le garanzie stabilite dal Comune, al cui
patrimonio indisponibile saranno acquisite le opere.
Nel caso di parziale realizzazione dell’intervento
edificatorio, l’interessato ha diritto alla rideterminazione
di entrambe le quote del contributo ed alla restituzione
della parte riferibile alla porzione non realizzata (Tar
Lombardia-Milano, sez. II, n. 728/2010). Nell’ipotesi di
rinuncia o di inutilizzazione del titolo abilitativo,
l’amministrazione è tenuta alla restituzione degli importi
percepiti, maggiorati dagli interessi, decorrenti dalla data
della domanda (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3027/2011).
In entrambi i casi la richiesta andrà effettuata nel termine
di prescrizione decennale, stesso termine per il diritto del
Comune di irrogare sanzioni per omesso o ritardato pagamento
del contributo (Consiglio di Stato sezione IV, sentenza
n. 5818/2012) (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce
un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento
espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione
legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di
autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano
oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del
decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
Va quindi ribadito che l’annullamento del provvedimento
formatosi sulla d.i.a. edilizia deve essere preceduto
dall'avviso di avvio del procedimento e dal rispetto di
tutte le forme sostanziali e procedimentali previste per gli
atti in autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo
ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo
grado e la comparazione dell'interesse pubblico con
l'aspettativa del privato, consolidata dal decorso del tempo
e dalla consapevolezza dell'intervenuto assenso tacito nei
termini di legge: in difetto dei presupposti per l'esercizio
dell'autotutela, l'attività dichiarata può legittimamente
proseguire.
In particolare, in materia di edilizia –e quindi anche in
relazione alla d.i.a., figura cardine dell’edilizia quale
strumento di semplificazione-, il potere di autotutela deve
essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un
termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un
interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del
titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del
tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del
progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità
dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico
l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali
profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di
pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della
legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla
provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i
loro effetti.
---------------
Il pagamento dei richiesti oneri di urbanizzazione, per
giurisprudenza prevalente, non comporta ex se acquiescenza.
1.2 In secondo luogo, come correttamente dedotto in ricorso,
per l’annullamento di una d.i.a. nella specie risultano
mancare i presupposti, sia temporali, sia di merito,
necessari in termini di autotutela.
In linea generale, come noto, la d.i.a, una volta
perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed
efficace (sotto tale profilo equiparabile "quoad effectum"
al rilascio del provvedimento espresso), che può essere
rimosso, per espressa previsione legislativa, solo
attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano
oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del
decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela
(cfr. ad es. CdS n. 4780/2014).
Va quindi ribadito che l’annullamento del provvedimento
formatosi sulla d.i.a. edilizia deve essere preceduto
dall'avviso di avvio del procedimento e dal rispetto di
tutte le forme sostanziali e procedimentali previste per gli
atti in autotutela, ivi compreso il rispetto del tempo
ragionevole per porre in essere il provvedimento di secondo
grado e la comparazione dell'interesse pubblico con
l'aspettativa del privato, consolidata dal decorso del tempo
e dalla consapevolezza dell'intervenuto assenso tacito nei
termini di legge: in difetto dei presupposti per l'esercizio
dell'autotutela, l'attività dichiarata può legittimamente
proseguire.
In particolare, in materia di edilizia –e quindi anche in
relazione alla d.i.a., figura cardine dell’edilizia quale
strumento di semplificazione-, il potere di autotutela deve
essere esercitato dall'Amministrazione competente entro un
termine ragionevole e supportato dall'esternazione di un
interesse pubblico, attuale e concreto, alla rimozione del
titolo edilizio tanto più quando il privato, in ragione del
tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del
progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità
dell'autorizzazione edilizia.
Di conseguenza, nell'esternazione dell'interesse pubblico
l'Amministrazione deve indicare non solo gli eventuali
profili di illegittimità ma anche le concrete ragioni di
pubblico interesse, diverse dal mero ripristino della
legalità in ipotesi violata, che inducono a porre nel nulla
provvedimenti che, pur se illegittimi, abbiano prodotto i
loro effetti (cfr. ex multis Tar Lecce 2153/2013 e
Tar Latina 215/2014).
Nel caso di specie, dal punto di vista temporale, è pacifico
che l’intervento comunale sia avvenuto ben oltre il termine
di efficacia della d.i.a..
Dal punto di vista dei presupposti, risultano carenti ed
insufficienti sia l’indicazione dell’interesse pubblico
ulteriore, sia la presa in considerazione dell’affidamento o
comunque della situazione del privato. E ciò è estremamente
grave in quanto trattasi di due elementi fondamentali, sia
per l’autotutela in genere sia, in particolare, per quella
relativa agli strumenti di semplificazione.
A quest’ultimo proposito, infatti, seguendo la lettura
dell’ordinamento proposta dal Comune risulterebbe del tutto
travisata e sconfitta la scelta di semplificazione compiuta
ormai da tempo dal legislatore,il cui carattere di principio
fondamentale è stato altresì certificato dalla
giurisprudenza costituzionale (cfr. ad es. sentenze 121/2014
e 282/2014). Infatti, opinando nei termini auspicati dal
Comune, nessuna differenza nella specie vi sarebbe rispetto
ad un diniego di titolo espresso, basato sulla presunta
incompatibilità urbanistica –peraltro nella specie
indimostrata ed assente– ovvero su di una presunta errata
rappresentazione dei luoghi.
Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, emerge
all’evidenza il farraginoso ed illegittimo comportamento
comunale che, nel difendere pervicacemente una scelta
negativa in relazione ad un intervento presumibilmente
sfuggito al controllo (e segnalato ex post da un
privato vicino o concorrente), invoca una falsa
rappresentazione con riferimento ad una piccola fessura nel
muro, avente finalità di areazione.
Al riguardo, la semplice analisi della documentazione
versata in atti evidenzia l’assenza di qualsiasi falsa
rappresentazione; nella relazione alla d.i.a. e documenti
allegati, infatti, è chiaramente evidenziata la
realizzazione di un foro passante di ventilazione (cfr.
piante del locale). Inoltre, è ben plausibile, oltre che
ragionevole ed elemento evidenziante attenzione
nell’attività costruttiva, che nelle more degli
approfondimenti circa gli eventuali ulteriori impatti
estetici, il foro stesso sia stato tappato in superficie.
Né in termini di ulteriore specifico interesse pubblico –né
tantomeno di presa in considerazione dell’eventuale
affidamento- può valutarsi come legittimo il mero generico
riferimento, contenuto nel provvedimento, ad “una lunga
serie di atti” di contestazione avverso altri
interventi: sia per l’evidente genericità del rinvio, non
essendo indicati dal Comune né quali –e quindi dove,
rispetto all’edificio ed al contesto in questione- né
tantomeno quante siano tali presunte contestazioni e quale
esito abbiano avuto; sia in quanto il singolo proprietario
di un immobile non è certo tenuto a conoscere aliunde
o comunque le ulteriori eventuali contestazioni ad altri
immobili (si può solo presupporre collocati nella medesima
zona, ma nulla il Comune ha esplicato o indicato sul punto,
neppure in sede defensionale).
Analogamente alla deduzione di disparità di trattamento da
parte del privato, che deve essere circostanziata e
contenere il riferimento ad identiche situazioni, anche la
contestazione da parte pubblica dell’identità di trattamento
deve essere specificata ed esplicata in termini di identità
di situazioni, specie laddove -come nel caso de quo-
venga addirittura invocata al fine di porre in dubbio il
legittimo affidamento di chi ha utilizzato proficuamente uno
strumento di semplificazione, nel seguente silenzio della
p.a..
1.3 In terzo luogo, prima facie fondato appare
comunque anche il dedotto totale difetto di motivazione in
merito al presunto –ma indimostrato– aumento del carico
urbanistico che deriverebbe dall’intervento effettuato con
d.i.a. ed inibito ex post.
Nessun elemento concreto e specifico è indicato –né appare
allo stato ipotizzabile– in ordine all’effettivo aumento del
carico urbanistico rispetto ad un magazzino di 19 mq totali,
compreso servizio –che prevedeva, quindi, già una presenza
umana, come evidenziato dai servizi igienici, di non elevata
consistenza numerica– in un piccolo locale commerciale di
identiche dimensioni.
In proposito, il numero di persone o di utenti ed il tempo
che le stesse potranno passare nel contesto in esame non
paiono certo in grado di incidere, nei termini in astratto e
genericamente paventati dal Comune, sugli standards; né al
riguardo, date le dimensioni ed il contesto, si pone un
problema di mezzi che dovranno accedere in più rispetto alla
situazione pregressa.
Peraltro, sul punto l’atto impugnato nulla si è premurato di
istruire, né di valutare e motivare, ipotizzando unicamente
un maggior afflusso di persone, invero difficilmente
ipotizzabile a fronte delle limitatissime dimensioni del
manufatto e del contesto in cui si inserisce. Invero, il
maggior afflusso, presumibilmente ed auspicabilmente
turistico, riguarda il centro di Vernazza in quanto tale,
non potendo certo imputarsi al solo limitato intervento in
questione, in cui ad un mutamento da magazzino a locale
commerciale non si accompagna alcun aumento della
limitatissima superficie.
Infine, in materia del tutto irrilevante è, nei termini
invocati dalla difesa resistente, il pagamento dei richiesti
oneri di urbanizzazione che, come correttamente indicato
dalla difesa ricorrente, per giurisprudenza prevalente non
comporta ex se acquiescenza (cfr. ex multis
Tar Liguria n. 1405/2005) (TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 17.03.2015 n. 292 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
scelta dell'amministrazione di fronteggiare una situazione
di pericolo attuale con l'emanazione di un’ordinanza
contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e sanità
pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, attiene al
merito dell'azione amministrativa e sfugge al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, ove non risulti
manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà,
irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti.
Ugualmente deve dirsi con riferimento alla scelta della p.a.
di non fare ricorso a tale strumento eccezionale.
---------------
La giurisprudenza è costante nell’affermare che presupposto
per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza
e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un
danno grave e imminente per l'incolumità pubblica e per
l'igiene, a nulla rilevando neppure che la situazione di
pericolo sia nota da tempo.
Il potere l'ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è, difatti,
legittimamente utilizzabile anche per rimuovere situazioni
risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era
intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo
sufficiente la permanenza, al momento dell'emanazione
dell'atto, della situazione di pericolo.
Parimenti fondata è poi la censura con cui viene lamentato
il vizio di difetto di motivazione.
La scelta dell'amministrazione di fronteggiare una
situazione di pericolo attuale con l'emanazione di
un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e
sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini,
attiene al merito dell'azione amministrativa e sfugge al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, ove non
risulti manifestamente inficiata da illogicità,
arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento
dei fatti (cfr. fra le tante Consiglio di Stato, sez. V,
28/09/2009, n. 5807).
Ugualmente deve dirsi con riferimento alla scelta della p.a.
di non fare ricorso a tale strumento eccezionale.
Nel caso di specie, l’amministrazione ha negato la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri extra ordinem del Sindaco, essendo ormai “superata l’imminenza dei
fatti” ed essendosi consolidata la situazione di occupazione
abusiva.
Così argomentando, però, l’amministrazione non ha affatto
chiarito se, nel caso di specie, sussista o meno una
situazione eccezionale di pericolo tale richiedere
l’attivazione dei poteri di ordinanza extra ordinem.
Invero, il mero consolidarsi dell’occupazione abusiva
dell’immobile non è, di per sé, indicativo
dell’insussistenza di una situazione di pericolo attuale.
Inoltre, la circostanza che sia ormai passato il momento in
cui è stata attuata l’occupazione abusiva e che la stessa
sia ormai consolidata non esclude affatto il potere di
intervento del Sindaco, sempre che una situazione
eccezionale di pericolo effettivamente sussista e non sia
fronteggiabile con gli strumenti ordinari.
Una tale limitazione non può invero ricavarsi da quanto
previsto agli articoli 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000.
Al contrario, la giurisprudenza è costante nell’affermare
che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è
la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio
concreto di un danno grave e imminente per l'incolumità
pubblica e per l'igiene, a nulla rilevando neppure che la
situazione di pericolo sia nota da tempo (Consiglio di
Stato, sez. V, 19/09/2012, n. 4968; sez. IV, 06/12/2011, n.
6414).
Il potere l'ordinanza ex art. 54 t.u.e.l. è, difatti,
legittimamente utilizzabile anche per rimuovere situazioni
risalenti nel tempo ed in relazione alle quali non si era
intervenuti in precedenza, essendo a tale riguardo
sufficiente la permanenza, al momento dell'emanazione
dell'atto, della situazione di pericolo (Consiglio di Stato,
sez. V, 25/05/2012, n. 3077; 28.03.2008, n. 1322 e 10.02.2010, n. 670; Sez. IV, 25.09.2006, n. 5639).
La ragione addotta dal Comune di Milano per non fare ricorso
al potere ex artt. 50 e 54, d.lgs. n. 267/2000 è pertanto
illegittima, in quanto il potere del Sindaco non era
certamente escluso in conseguenza del mero consolidarsi
dell’occupazione abusiva, laddove l’amministrazione non
avesse altresì affermato che non sussisteva alcun rischio
concreto di un danno grave ed imminente per l’incolumità
pubblica, non fronteggiabile con gli strumenti ordinari.
La motivazione del provvedimento è quindi viziata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.03.2015 n. 729 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'annullamento
del provvedimento amministrativo per vizi formali non reca
di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del
bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope
iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per
l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno.
In considerazione dell’ampio ambito di discrezionalità che,
pur dopo l’annullamento dei provvedimenti impugnati con i
motivi aggiunti, sussiste in capo all’amministrazione nel
valutare la sussistenza o meno dei presupposti per
l’esercizio del potere di cui agli artt. 50 e 54, d.lgs. n.
267/2000, allo stato, la domanda risarcitoria non può che
essere respinta.
La conclusione non muta anche con riferimento alla richiesta
di risarcimento del c.d. "danno da ritardo": la
giurisprudenza maggioritaria è invero dell’avviso che il
giudice amministrativo possa riconoscere il risarcimento del
danno causato al privato dal comportamento inoperoso
dell'amministrazione soltanto qualora sia stata accertata la
spettanza del c.d. "bene della vita", che costituisce il
presupposto indispensabile, in materia di risarcimento degli
interessi legittimi di tipo pretensivo, per poter
configurare una condanna della stessa al risarcimento del
relativo danno.
Ma anche ove volesse ammettersi la risarcibilità del danno
da ritardo mero, la domanda proposta con il presente ricorso
non potrebbe comunque trovare accoglimento poiché non è
quello il danno di cui le ricorrenti hanno chiesto il
ristoro.
In conseguenza
dell’annullamento dei provvedimenti del 05.08.2014,
l’amministrazione è chiamata a pronunciarsi nuovamente sulle
istanze presentate dalle società ricorrenti, stante
l’annullamento degli atti di diniego per vizi che non
escludono e anzi consentono il riesercizio del potere.
Ora, l'annullamento del provvedimento amministrativo per
vizi formali, come nel caso all’esame, non reca di per sé
alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della
vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non
può pertanto costituire il presupposto per l'accoglimento
della domanda di risarcimento del danno (così, ad es., Cons.
Stato, A.P. 03.12.2008 n. 13 e Sez. IV, 04.09.2013 n. 4439).
In considerazione dell’ampio ambito di discrezionalità che,
pur dopo l’annullamento dei provvedimenti impugnati con i
motivi aggiunti, sussiste in capo all’amministrazione nel
valutare la sussistenza o meno dei presupposti per
l’esercizio del potere di cui agli artt. 50 e 54, d.lgs. n.
267/2000, allo stato, la domanda risarcitoria non può che
essere respinta.
La conclusione non muta anche con riferimento alla richiesta
di risarcimento del c.d. "danno da ritardo": la
giurisprudenza maggioritaria è invero dell’avviso che il
giudice amministrativo possa riconoscere il risarcimento del
danno causato al privato dal comportamento inoperoso
dell'amministrazione soltanto qualora sia stata accertata la
spettanza del c.d. "bene della vita", che costituisce il
presupposto indispensabile, in materia di risarcimento degli
interessi legittimi di tipo pretensivo, per poter
configurare una condanna della stessa al risarcimento del
relativo danno (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ.,
Sez. I, 28.02.2014 n. 4804 e Sez. III, 14.02.2014 n. 3431; Cons. Stato, Sez. V, 22.01.2014 n. 318,
04.09.2013 n. 4452, 08.05.2013 n. 2899, 14.10.2014, n. 5115; sez. IV,
01.07.2014, n. 3295).
Ma anche ove volesse ammettersi la risarcibilità del danno
da ritardo mero, la domanda proposta con il presente ricorso
non potrebbe comunque trovare accoglimento poiché non è
quello il danno di cui le ricorrenti hanno chiesto il
ristoro.
Le ricorrenti hanno, invero, domandato il risarcimento di un
danno che non è legato alla incertezza sull’esito del
procedimento, ma è un danno che presuppone la spettanza del
bene della vita.
Dunque, le voci sopra elencate hanno ad oggetto danni che
potrebbero, se del caso, essere causalmente ricondotti ad
una responsabilità dell’amministrazione comunale, solo dopo
che sia affermata la sussistenza dei presupposti di
necessità ed urgenza per un intervento a tutela
dell’incolumità pubblica ex artt. 50 e 54, d.lgs. n.
267/2000 e sia accertato il colpevole ritardo
dell’amministrazione.
La domanda risarcitoria va, quindi, allo stato, respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.03.2015 n. 729 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune ha illegittimamente proceduto a richiedere
un’ulteriore somma a conguaglio di quanto versato, a titolo
di costo di costruzione, ponendo alla base del calcolo la
normativa del D.M. del 1999 che prevede il costo medio delle
costruzioni alberghiere con riferimento ai parametri della
Cassa Nazionale degli Ingegneri e Architetti.
Ebbene, siffatta richiesta integrativa di pagamento di somme
a titolo di computo integrativo del costo di costruzione non
appare correttamente formulata per almeno tre ordini di
motivi:
a) il contributo di costruzione va determinato al momento
del rilascio del titolo edilizio dovendosi fare applicazione
relativamente al quantum dovuto alla normativa allo stato
vigente e nella specie l’Amministrazione ha fatto
applicazione di una disciplina, quella recata dal D.M. del
1999, che è successiva rispetto al momento in cui è insorta
l’obbligazione contributiva, con conseguente violazione del
principio del tempus regit actum;
b) le attuali appellanti hanno indicato, con la relazione
tecnica fatta pervenire all’Amministrazione, il costo di
costruzione dalle stesse sostenuto con i relativi importi,
assolvendo così all’obbligo partecipativo di cui all'art. 10
l. 10/1977 e non risulta che il Comune abbia in relazione a
quanto rappresentato dalle interessate proceduto a
contestare la non veridicità e/o congruità degli importi
inoltrati a cura delle beneficiarie della concessione
edilizia;
c) al momento dell’adozione dell’atto qui gravato le opere
edilizie (la circostanza non è contestata) non sarebbero
state ultimate ed è indubbio che il costo “finale” di
costruzione deve essere ancorato, quanto al suo computo, al
completamento delle opere stesse.
---------------
Le operazioni di calcolo degli importi dovuti in relazione
all’obbligazione contributiva correlata al rilascio di
titoli edilizi (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione) costituisce attività vincolata che si esplica
in virtù dell’applicazione delle disposizioni normative
disciplinanti la materia senza che possano residuare margini
di discrezionalità, di guisa che non sono configurabili a
carico degli atti che definiscono siffatti obblighi
contributivi vizi di eccesso di potere.
Vanno invece accolti, perché fondati, i profili di doglianza
dedotti col terzo motivo d’appello denunciati con
riferimento al ricalcolo del costo di costruzione.
La legge n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi) all’art. 10,
a proposito del rilascio delle concessioni riguardanti opere
ed impianti non destinate alla residenza, al comma 2
stabilisce che la concessione relativa a costruzioni o
impianti destinati ad attività turistiche, commerciali
direzionali comporta la corresponsione di un contributo pari
all’incidenza delle opere di urbanizzazione nonché “una
quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di
costruzione da stabilirsi in relazione ai diversi tipi di
attività…”.
Dalla disposizione legislativa sopra riportata si rileva
quindi una partecipazione (documentata) del privato in
ordine alla determinazione del costo di costruzione per le
concessioni, come quella qui in rilievo, relative a
costruzioni alberghiere e in tali sensi nella specie tale
condizione risulta essere soddisfatta, se è vero che le
interessate hanno fatto pervenire al Comune nella prodotta
relazione tecnica il prospetto delle spese inerenti il costo
di costruzione, con l’indicazione di un basso costo di
costruzione e tale calcolo risulta essere stato accettato
dall’Amministrazione in sede di rilascio di concessione cui
va correlato l’avvenuto pagamento degli importi dovuti per
tale voce di contribuzione.
Ciò precisato, il Comune ha quindi proceduto con l’atto
de quo a richiedere un’ulteriore somma a conguaglio di
quanto versato, ponendo alla base del calcolo la normativa
del D.M. del 1999 che prevede il costo medio delle
costruzioni alberghiere con riferimento ai parametri della
Cassa Nazionale degli Ingegneri e Architetti.
Ebbene, siffatta richiesta integrativa di pagamento di somme
a titolo di computo integrativo del costo di costruzione non
appare correttamente formulata per almeno tre ordini di
motivi:
a) il contributo di costruzione va determinato al momento
del rilascio del titolo edilizio dovendosi fare applicazione
relativamente al quantum dovuto alla normativa allo
stato vigente (Cons. Stato Sez. IV 25/06/2010 n. 4109; Con.
Stato Sez. V 13/06/2003 n. 3332) e nella specie
l’Amministrazione ha fatto applicazione di una disciplina,
quella recata dal D.M. del 1999, che è successiva rispetto
al momento in cui è insorta l’obbligazione contributiva, con
conseguente violazione del principio del tempus regit
actum;
b) le attuali appellanti hanno indicato, con la relazione
tecnica fatta pervenire all’Amministrazione, il costo di
costruzione dalle stesse sostenuto con i relativi importi,
assolvendo così all’obbligo partecipativo di cui al citato
art. 10 e non risulta che il Comune abbia in relazione a
quanto rappresentato dalle interessate proceduto a
contestare la non veridicità e/o congruità degli importi
inoltrati a cura delle beneficiarie della concessione
edilizia;
c) al momento dell’adozione dell’atto qui gravato le opere
edilizie (la circostanza non è contestata) non sarebbero
state ultimate ed è indubbio che il costo “finale” di
costruzione deve essere ancorato, quanto al suo computo, al
completamento delle opere stesse.
Da qui la illegittimità della richiesta di versamento
integrativo.
Il quarto ed ultimo motivo di appello con cui si denuncia il
vizio di carenza di istruttoria e di difetto di motivazione
deve considerarsi infondato se non inammissibile: invero, le
operazioni di calcolo degli importi dovuti in relazione
all’obbligazione contributiva correlata al rilascio di
titoli edilizi (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione) costituisce attività vincolata che si esplica
in virtù dell’applicazione delle disposizioni normative
disciplinanti la materia senza che possano residuare margini
di discrezionalità, di guisa che non sono configurabili a
carico degli atti che definiscono siffatti obblighi
contributivi vizi di eccesso di potere sub specie di quelli
qui denunciati (cfr., Cons. Stato Sez. IV 19/07/2004 n.
5197).
Conclusivamente l’appello all’esame relativamente al terzo
motivo d’impugnazione, relativo al ricalcolo del costo di
costruzione, si rivela fondato e in accoglimento delle
censure ivi dedotte , il gravato atto del Comune di San
Giovanni Rotondo prot. n. 19520 del 28/08/2002 deve
considerarsi illegittimo nella parte in cui ha richiesto
alle appellanti il versamento di euro 117.970,2469 per “oneri
da versare a titolo integrativo per costo di costruzione”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.03.2015 n. 1211 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus 65%, schede all'Enea non essenziali.
Per fruire della detrazione per interventi di
riqualificazione o risparmio energetico, la comunicazione
all'Enea non è un adempimento previsto quale requisito
essenziale.
Queste motivazioni si leggono nella sentenza 10.03.2015 n. 853/2015 emessa
dalla Sez. XIX della Commissione tributaria
regionale di Milano.
La detrazione per il risparmio
energetico, introdotta sino dal 2007 dall'art. 1, commi da
344 a 347 della legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007) è stata
confermata e ampliata in più occasioni, da ultimo con la
legge di Stabilità n. 190/2014 che ha prorogato al
31/12/2015, nella misura del 65% la detrazione fiscale per
gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici.
Si ricorda che per le spese sostenute sino al 05/06/2013 era
prevista una detrazione da ripartire in dieci anni di pari
importo, mentre dal 06/06/2013 al 31/12/2015 la percentuale
dell'agevolazione è salita al 65% della spesa sostenuta da
ripartire sempre nei dieci anni successivi.
Per
l'applicazione dell'aliquota relativa all'agevolazione (55 o
65%) occorre fare riferimento alla data di effettivo
pagamento (criterio di cassa) per le persone fisiche, gli
esercenti arti e professioni e gli enti non commerciali;
mentre, per le imprese individuali, le società e gli enti
commerciali, dovrà essere applicato il principio di
competenza che coincide con la data di ultimazione della
prestazione.
Gli adempimenti previsti dalla norma sono: a)
l'asseverazione di un tecnico abilitato che attesti la
corrispondenza degli interventi eseguiti con la legge di
riferimento; b) il pagamento dei lavori tramite bonifico
bancario o postale; c) da ultimo la trasmissione telematica
all'Enea della copia dell'attestato di «certificazione
energetica» dell'edificio, nonché la scheda informativa
relativa agli interventi realizzati.
Con la sentenza di cui
al commento, la Commissione regionale di Milano ha stabilito
che l'omissione nella compilazione della scheda informativa
da trasmettere all'Enea non pregiudica, in ogni caso, la
deduzione.
---------------
COMMENTO
Con la sentenza n. 853/2015 emessa dalla sezione
diciannovesima della Commissione tributaria regionale di
Milano, i giudici regionali lombardi, capovolgendo, sul
punto, quanto deciso dai colleghi di prime cure della
Commissione provinciale di Milano, hanno stabilito che
l'invio della documentazione all'Enea, non sia una
condizione essenziale per l'ottenimento della detrazione in
misura del 55% (o del 65% dal 06.06.2013 al 31.12.2015)
previsto dalla normativa per gli interventi di
riqualificazione o risparmio energetico.
La contestazione traeva origine da una cartella di pagamento
con cui l'Agenzia delle entrate di Monza Brianza recuperava
delle deduzioni rivendicate per l'anno d'imposta 2007. Alla
base del recupero fiscale, l'Agenzia erariale aveva indicato
la mancata produzione della ricevuta di invio della
documentazione all'Enea, ente preposto alla verifica di
determinate condizioni ritenute essenziali per l'ottenimento
della deduzione fiscale; anche le istruzioni ministeriali
contenute nell'Unico 2008 evidenziavano la necessità
dell'invio di questa certificazione all'Enea.
Mentre, le indicazioni della normativa di riferimento
contemplano l'esecuzione dei seguenti adempimenti: a)
l'asseverazione di un tecnico abilitato che attesti la
corrispondenza degli interventi eseguiti con la legge di
riferimento; b) il pagamento dei lavori tramite bonifico
bancario o postale; c) da ultimo la trasmissione telematica
all'Enea della copia dell'attestato di «certificazione
energetica» dell'edificio, nonché la scheda informativa
relativa agli interventi realizzati.
Il contribuente replicava assumendo che il mancato invio di
documentazione fosse relativo a una mera dimenticanza;
quindi, si trattava solo di un adempimento formale, privo di
contenuti di controllo e che, comunque, la sua omissione,
non essendo specificatamente sanzionata dalla norma, non
poteva comportare alcuna decadenza. La Commissione
tributaria provinciale, chiamata a decidere sul punto
rigettava il ricorso del contribuente.
Di diverso avviso i giudici regionali di Milano che hanno
riformato la decisione annullando la pretesa erariale. «Giova
ricordare la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 21/E
del 23.04.2010», osservano i giudici d'appello, «che
in nessuna parte parla di decadenza del beneficio fiscale de
quo, anzi prevede che il contribuente possa rettificare la
documentazione e la scheda informativa da trasmettere
all'Enea, possa essere rettificata con l'invio di una
comunicazione di rettifica, al fine di porre rimedio e
correggere eventuali errori e omissioni».
Il collegio aggiunge che l'Ufficio ha comunque ricevuto la
documentazione nonché la dimostrazione dei lavori eseguiti e
delle relative spese sostenute. Da questo l'accoglimento
dell'appello del contribuente con la compensazione delle
spese di lite
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.06..2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
ai limiti dell'esame da parte della Soprintendenza
dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione
(o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza
costante del Giudice amministrativo, per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente
subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di
potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria.
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica
rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le
ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare
con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la
conseguenza che il difetto di motivazione
dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo
annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è
un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità
amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il
rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze
connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione dell’autorità competente al rilascio
dell’autorizzazione de qua deve, dunque, essere motivata
anche quando abbia contenuto positivo, favorevole al
richiedente. Tale principio, già consolidato in
giurisprudenza in relazione alla peculiare natura dell'atto
ed alla rilevanza degli interessi coinvolti, trova oggi
espresso fondamento normativo nell'articolo 3 della legge n.
241/1990, secondo il quale ogni provvedimento
amministrativo, di contenuto sia negativo che positivo, deve
essere motivato, recando l'indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto di tale motivazione, la
giurisprudenza è ferma nel ritenere, ai fini della congruità
e sufficienza della stessa, che debba esservi l'indicazione
della ricostruzione dell'iter logico seguito, in ordine alle
ragioni di compatibilità effettive che -in riferimento agli
specifici valori paesistici dei luoghi- possano consentire
tutti i progettati lavori, considerati nella loro globalità
e non esclusivamente in semplici episodi di dettaglio
... per l'annullamento del decreto della Soprintendenza per
i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di
Roma, Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo (di seguito:
Soprintendenza), in data 04.2.2010 recante annullamento del
provvedimento del comune di Tivoli dell’11.02.2009 recante
espressione del parere paesaggistico favorevole ex artt. 32
della legge n. 47 del 1985 e 39 della legge n. 724 del 1994
per la costrizione di “Opere abusive consistenti nella
realizzazione di una unità immobiliare destinata ad attività
agrituristica + tettoia in Tivoli, loc. Pisoni” di mq.
247,46
...
Quanto poi ai limiti dell'esame da parte della
Soprintendenza dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata
dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la
giurisprudenza costante del Giudice amministrativo, per la
quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione, o dall'ente
subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di
potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) la Regione (nella specie il Comune subdelegato) deve
quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente
sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria (cfr. Cons. St. sopra citato cui adde sez. VI,
n. 3767 del 2011, n. 4861 del 2010, nn. 7609 e 772 del 2009).
Al riguardo va ricordato che l'autorizzazione paesistica
rilasciata deve essere congruamente motivata, esponendo le
ragioni di effettiva compatibilità delle opere da realizzare
con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la
conseguenza che il difetto di motivazione
dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo
annullamento in sede di controllo. Difatti, il paesaggio è
un valore costituzionale primario e, pertanto, l'autorità
amministrativa deve operare un giudizio in concreto circa il
rispetto da parte dell'intervento progettato delle esigenze
connesse alla tutela del paesaggio stesso.
La determinazione
dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione de
qua deve, dunque, essere motivata anche quando abbia
contenuto positivo, favorevole al richiedente. Tale
principio, già consolidato in giurisprudenza in relazione
alla peculiare natura dell'atto ed alla rilevanza degli
interessi coinvolti, trova oggi espresso fondamento
normativo nell'articolo 3 della legge n. 241/1990, secondo
il quale ogni provvedimento amministrativo, di contenuto sia
negativo che positivo, deve essere motivato, recando
l'indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione in relazione
alle risultanze dell'istruttoria.
Quanto, poi, al contenuto
di tale motivazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere,
ai fini della congruità e sufficienza della stessa, che
debba esservi l'indicazione della ricostruzione dell'iter
logico seguito, in ordine alle ragioni di compatibilità
effettive che -in riferimento agli specifici valori
paesistici dei luoghi- possano consentire tutti i
progettati lavori, considerati nella loro globalità e non
esclusivamente in semplici episodi di dettaglio (ved. Cons.
St., nr. 2395 del 2012).
Ciò richiamato si deve osservare che nel provvedimento
comunale di cui si tratta non è stata data alcuna specifica
motivazione della compatibilità dell'intervento autorizzato
con la disciplina vincolistica della zona in cui ricade il
manufatto, dichiarata ex lege di notevole interesse
pubblico, limitandosi detto atto ad una mera declaratoria di
compatibilità paesaggistica, senza specificare le ragioni
che consentivano di giustificare un giudizio di tale natura
alla luce delle previsioni del P.t.p. e del (più rigoroso)
P.t.p.r..
Il provvedimento rilasciato dall'ente subdelegato
non ha assolto perciò al compito proprio di dare "da solo,
piena contezza dell'ammissibilità dell'intervento con una
congrua descrizione sia dell'ambiente nel quale l'opera deve
inserirsi, che dell'opera medesima” (così Cons. St., n. 6885
del 2011 e n. 2219/2012 cit.) e correttamente, di
conseguenza, la Soprintendenza ha nel proprio decreto
rilevato che nel provvedimento in esame l'Autorità decidente
non spiega come e perché l'intervento sanato sia compatibile
con le esigenze della tutela ambientale e, su tale base,
conclude che l’autorizzazione o il parere non adempiono
all’obbligo legale di una motivazione esauriente e completa
in ordine alla compatibilità dell’opera realizzata rispetto
alle valenze del vincolo ed alla sua disciplina, restando
con ciò nei limiti della propria competenza.
Da quanto sopra deriva che il provvedimento della
Soprintendenza è legittimo in quanto giustificato dal
corretto riscontro della violazione di legge e dell'eccesso
di potere che vizia il provvedimento comunale per carenza
della relativa motivazione, con accessiva infondatezza della
doglianza in trattazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 17.02.2015 n. 2727 - link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea astratta l’intervento di ricostruzione,
per essere ascritto alla categoria della ristrutturazione ed
essere assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di
costruire quale nuova costruzione, deve seguire alla
demolizione secondo un criterio di contestualità, e deve
concretarsi in un immobile che abbia la medesima superficie
ed il medesimo volume che quello abbattuto.
E’ noto che, per consolidata giurisprudenza, in linea
astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto
alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato
solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova
costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un
criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile
che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che
quello abbattuto, circostanza affatto dimostrata in giudizio (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 05.02.2015 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere abusive (perché
realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo) non
deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241
del 1990, in considerazione della natura vincolata del
potere di repressione degli abusi edilizi.
Anche a prescindere da ciò, trova applicazione, nella
fattispecie, la previsione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990.
---------------
L'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e
rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione
discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in
loco della res, dove la repressione dell'abuso corrisponde
per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello
stato dei luoghi illecitamente alterato.
Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e
sufficiente motivazione, consistente nella compiuta
descrizione delle opere abusive e nella constatazione della
loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio.
---------------
Non meritano condivisione neanche le deduzioni volte a
sostenere la necessità di una diffusa motivazione in merito
alla conformità urbanistica delle opere abusive ai fini
della verifica della loro sanabilità.
Invero, il Collegio sottolinea che il legislatore non ha
inteso richiedere un presupposto ulteriore rispetto
all’abusività delle opere al fine di legittimare l’esercizio
del potere sanzionatorio; diversamente opinando si sarebbe
in presenza di una previsione assolutamente inconciliabile
con il sistema normativo che disciplina lo sviluppo
edificatorio e l’assetto del territorio in quanto si
dovrebbe ammettere che gli abusi edilizi non sarebbero mai
rilevati in sé ma solo ove si pongano anche in contrasto con
la normativa urbanistica, facendo, peraltro, gravare
sull’Amministrazione l’obbligo di motivare specificamente
anche su tale ulteriore punto.
In altri termini, è di tutta evidenza che, ove si avallasse
la tesi sostenuta dalla difesa di parte ricorrente l’intero
sistema teso a regolare la materia edilizia ed urbanistica
diverrebbe privo di significato in quanto la stessa funzione
dei titoli edilizi finirebbe per divenire scarsamente
comprensibile e, con essa, la previsione di un regime
sanzionatorio diversificato in ragione della gravità
dell’abuso.
2. In relazione al
primo motivo di ricorso, con il quale è stata lamentata
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio, il Collegio reputa sufficiente rilevare,
conformemente alla consolidata giurisprudenza (TAR Campania
Napoli, sez. II n. 2458 dell’08.05.2009, sez. IV, n. 9710
dell'01.08.2008), che l’ordine di demolizione di opere
abusive (perché realizzate in assenza del necessario titolo
abilitativo) non deve essere preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della
legge n. 241 del 1990, in considerazione della natura
vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi;
anche a prescindere da ciò, trova applicazione, nella
fattispecie, la previsione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990.
---------------
3.2. Per giurisprudenza costante, infatti, l'ordinanza di
demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente
vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del
confliggente interesse al mantenimento in loco della res,
dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione
all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi
sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente
nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella
constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5203).
Nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate e
le motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione
demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal
provvedimento impugnato.
3.3. In tale quadro, non meritano condivisione neanche le
deduzioni volte a sostenere la necessità di una diffusa
motivazione in merito alla conformità urbanistica delle
opere ai fini della verifica della loro sanabilità.
Anche a prescindere dalla genericità con la quale è stata è
stata formulata tale censura –non avendo la difesa di parte
ricorrente svolto alcuna considerazione in merito alla
sussistenza, nella fattispecie, della conformità urbanistica
delle opere contestate– il Collegio sottolinea che il
legislatore non ha inteso richiedere un presupposto
ulteriore rispetto all’abusività delle opere al fine di
legittimare l’esercizio del potere sanzionatorio;
diversamente opinando si sarebbe in presenza di una
previsione assolutamente inconciliabile con il sistema
normativo che disciplina lo sviluppo edificatorio e
l’assetto del territorio in quanto si dovrebbe ammettere che
gli abusi edilizi non sarebbero mai rilevati in sé ma solo
ove si pongano anche in contrasto con la normativa
urbanistica, facendo, peraltro, gravare sull’Amministrazione
l’obbligo di motivare specificamente anche su tale ulteriore
punto.
In altri termini, è di tutta evidenza che, ove si avallasse
la tesi sostenuta dalla difesa di parte ricorrente l’intero
sistema teso a regolare la materia edilizia ed urbanistica
diverrebbe privo di significato in quanto la stessa funzione
dei titoli edilizi finirebbe per divenire scarsamente
comprensibile e, con essa, la previsione di un regime
sanzionatorio diversificato in ragione della gravità
dell’abuso (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.01.2015 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
In base all'art. 91 del d.lgs. n. 163/2006, nel caso di
valore della progettazione che non superi la soglia dei
100.000 euro gli incarichi di progettazione, di
coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di
direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a
professionisti esterni.
Tale procedura, tuttavia, deve
rispettare la sia pur limitata concorrenzialità prescritta
dall'art. 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, e
l'applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza,
rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori
economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata
secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta
economicamente più vantaggiosa.
Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a
norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione
lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90,
comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti
con le procedure previste dal presente codice per
l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due
limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal
richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed
economicità, e incontra due conseguenti condizioni,
consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del
progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura
limitatamente concorrenziale sopra ricordata.
La sentenza
impugnata ha correttamente rilevato che in base all’art. 91
del d.lgs. n. 163, nel caso di valore della progettazione
che non superi la soglia dei 100.000 euro -circostanza che
ricorre nel caso di specie- gli incarichi di progettazione,
di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione,
di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in
fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a
professionisti esterni.
Tale procedura sconta, peraltro, il rispetto della sia pur
limitata concorrenzialità prescritta dall’art. 57, comma 6,
e l’applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza,
rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori
economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata
secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta
economicamente più vantaggiosa.
Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a
norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione
lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90,
comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti
con le procedure previste dal presente codice per
l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due
limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal
richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed
economicità, e incontra due conseguenti condizioni,
consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del
progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura
limitatamente concorrenziale sopra ricordata.
La sentenza impugnata erra, perciò, nel ritenere che la
scelta di affidare la progettazione all’esterno abbia
determinato automaticamente la conseguenza dell’obbligatoria
preferenza a favore dei progettisti al momento
dell'affidamento della direzione dei lavori. Questo errore
si manifesta per un duplice ordine di motivi: innanzitutto,
perché la scelta a monte, relativa al soggetto cui affidare
la progettazione, non risulta sia stata rispettosa dei
principi appena indicati, soprattutto per quanto riguarda la
concorrenzialità tra almeno cinque potenziali interessati;
in secondo luogo, perché diverse sono le Amministrazioni che
hanno condotto le due fasi della procedura, la prima
(attinente alla progettazione) di pertinenza della
Provincia, la seconda, concernente la direzione dei lavori e
la fase attuativa e di controllo, di spettanza dell’istituto
scolastico, come, del resto, si legge nell’accordo stipulato
tra l’ente locale e l’istituto Pizi.
L’errore appena considerato, peraltro, è rivelatore di un
ben più grave fraintendimento da parte del primo giudice,
che, pur sottolineando come gli accordi intervenuti tra le
Amministrazioni coinvolte nel progetto (Ministero,
Provincia, istituto scolastico) hanno assunto la funzione di
regolare le specifiche competenze in ordine alle varie fasi
del complesso procedimento e non hanno determinato alcuna
deroga ai principi contenuti nel Codice dei contratti
pubblici che assumono la natura di norme inderogabili,
attribuisce portata assolutamente prevalente al principio di
continuità della progettazione espresso nell'art. 130 del
medesimo Codice, laddove una tale importanza non può che
essere riconosciuta, secondo la scala di valore derivante
dagli stessi principi comunitari (oltre che dalla lettera
delle norme), alle istanze di trasparenza, economicità e
concorrenzialità dell’azione amministrativa
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 26.01.2015 n. 337 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Annullamento del titolo edilizio: i
limiti all'autotutela.
Ai
sensi dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, il provvedimento
amministrativo, illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies,
può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo ha emanato
ovvero da altro Ente, in esercizio dei poteri sostitutivi,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Di conseguenza l'esercizio del potere di autotutela da parte
dell'Amministrazione richiede che quest'ultima, oltre ad
accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità
dell'atto, debba altresì valutare la sussistenza di un
interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente
sulle posizioni giuridiche private costituitesi e
consolidatesi medio tempore, essendo, quindi, insufficiente
l'identificazione dell'interesse pubblico (ritenuto in re
ipsa) nel mero ripristino della legalità violata.
Anzi,
il carattere tipicamente discrezionale dell'annullamento
d'ufficio impone una congrua valutazione comparativa degli
interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente
conto nella motivazione del provvedimento di ritiro,
soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di
un provvedimento amministrativo si sia consolidata,
suscitando un ragionevole affidamento sulla legittimità del
titolo stesso, affidamento indotto dallo operato degli
stessi uffici comunali.
Nell'ambito di tale motivazione
assume, dunque, importanza centrale il principio
dell'affidamento del privato che, per quanto riguarda i
permessi edilizi, non può che essere valutato, in
applicazione del citato art. 21-nonies, alla luce del tempo
trascorso dal rilascio del permesso, dello stato effettivo
dell'edificazione e della riconoscibilità dell'illegittimità
dell'atto.
... per l'annullamento della determina n. 5939
dell’01.08.2013, conosciuta in data 02.09.2013, resa dal
Dirigente del Servizio Edilizia Pubblica e Territorio della
Provincia di Bari, dott. C.L., recante annullamento ex art.
39, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 del Permesso di Costruire n.
35/2011 rilasciato in data 19.07.2011 dal Comune dì Gioia
del Colle a favore della ricorrente Società L.C.C. SrL,
nonché di tutti gli atti ivi richiamati, in quanto lesivi.
...
Tanto premesso, il ricorso è fondato.
Sostiene parte ricorrente che la motivazione spiegata dalla
Provincia, in ordine alle ragioni di interesse pubblico
ulteriori al mero ripristino della legalità, nonché alla
loro comparazione con il consolidato interesse del privato,
atteso, l’avanzato stato di edificazione, si rivelerebbe, in
realtà inconsistente.
L’art. 21-nonies L. 241/1990, che pone presupposti ben
precisi per la legittimità dell’annullamento in autotutela,
sarebbe violato.
Tale ultima doglianza è certamente fondata.
La qualità della motivazione provinciale in merito alla
comparazione degli interessi contrapposti è evanescente.
Recita il provvedimento impugnato “Valutate le ragioni di
interesse pubblico, che si dimostrano attuali e concrete,
alla rimozione del titolo edilizio, nonché prevalenti
sull’interesse privato e sul legittimo affidamento che si è
venuto a costituire in seguito al rilascio del permesso di
costruire, come meglio specificato in narrativa, avuto
riguardo dello stato dei lavori e del decorso periodo di
tempo dal rilascio del titolo”.
La parte narrativa a cui si rinvia, recita, a sua volta (v.
pag. 17 provvedimento impugnato), “In merito alla
sussistenza del pubblico interesse all’annullamento dei
provvedimenti, questo è in re ipsa, essendo la
questione posta all’evidenza degli Enti competenti
all’annullamento da soggetti controinteressati che, come nel
caso di specie, propongono una formale istanza di
annullamento”.
Come ben chiarisce, al di là di ogni dubbio interpretativo,
il dato testuale, la motivazione in ordine
all’interesse pubblico, nonché a quello privato ed
all’affidamento determinato anche dallo stato di avanzata
edificazione, è del tutto assente.
Essa, in merito alla comparazione tra interesse pubblico e
privato, nonché alla consistenza di quello pubblico (diverso
dal ripristino della legalità), si manifesta meramente
tautologica ed assertiva.
Non contiene una indicazione delle ragioni di interesse
pubblico, nonché della loro prevalenza rispetto
all’interesse privato (la cui rilevanza è amplificata
dall’avanzato stato costruttivo, giunto fino alla
realizzazione del rustico e di buona parte delle
tamponature).
La motivazione contiene, invero, solo un’affermazione
apodittica dell’esistenza di tali ragioni e della loro
preponderanza.
Tanto non è certo sufficiente a garantire il rispetto della
disposizione invocata da parte ricorrente, posto che, ai
sensi dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, il provvedimento
amministrativo, illegittimo ai sensi del precedente art.
21-octies, può essere annullato d'ufficio dall'organo che lo
ha emanato ovvero da altro Ente, in esercizio dei poteri
sostitutivi, sussistendone le ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati.
Di conseguenza l'esercizio del potere di autotutela da parte
dell'Amministrazione richiede che quest'ultima, oltre ad
accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità
dell'atto, debba altresì valutare la sussistenza di un
interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente
sulle posizioni giuridiche private costituitesi e
consolidatesi medio tempore, essendo, quindi, insufficiente
l'identificazione dell'interesse pubblico (ritenuto in re
ipsa) nel mero ripristino della legalità violata; anzi
il carattere tipicamente discrezionale dell'annullamento
d'ufficio impone una congrua valutazione comparativa degli
interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente
conto nella motivazione del provvedimento di ritiro,
soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di
un provvedimento amministrativo si sia consolidata,
suscitando un ragionevole affidamento sulla legittimità del
titolo stesso, affidamento indotto dallo operato degli
stessi uffici comunali.
Nell'ambito di tale motivazione
assume, dunque, importanza centrale il principio
dell'affidamento del privato che, per quanto riguarda i
permessi edilizi, non può che essere valutato, in
applicazione del citato art. 21-nonies, alla luce del tempo
trascorso dal rilascio del permesso, dello stato effettivo
dell'edificazione e della riconoscibilità dell'illegittimità
dell'atto.
Ai fini indicati, l’Amministrazione avrebbe certamente
dovuto considerare, in favore degli interessi privati, lo
stato avanzato di edificazione.
Ancora, di segno contrario all’interesse pubblico al
ripristino della legalità, gli eventuali aspetti risarcitori
scaturenti dall’annullamento (che rifluiscono certamente
sull’interesse pubblico, in quanto incidono sul patrimonio
dell’Ente destinatario di potenziali richieste
risarcitorie).
Per contro, tesi ad escludere l’affidamento sono elementi
quali: l’eventuale istruttoria (da valutarsi a seguito di
adeguati accertamenti sul punto) compiuta
dall’amministrazione di primo grado in ordine alla questione
(certamente non pacifica) della edificabilità in zona F1
dell’edificio destinato a fini commerciali, nonché la
completezza di tale istruttoria. Risulta infatti, evidente
che l’incompletezza istruttoria di primo grado, a fronte di
una questione pacificamente controversa, depone contro
l’affidamento del privato che ripone colpevolmente fiducia
in un atto la cui legittimità è tanto più opinabile, quanto
più immotivata è l’adesione ad un orientamento non pacifico.
L’accoglimento di tale doglianza, con conseguente
annullamento dell’atto impugnato, esonererebbe la Sezione
dal pronunciarsi sulle ulteriori censure.
Sennonché, essendo la Provincia tenuta alla riedizione del
potere cassato con la odierna pronuncia (dovendo
necessariamente concludere il procedimento avviato in
autotutela con un nuovo provvedimento finale), esigenze di
effettività della tutela impongono di tracciare le
coordinate della riedizione, vagliando, nei limiti della
domanda proposta con il ricorso, le ulteriori censure che
rifluiscono, peraltro, sulla sorte della domanda
risarcitoria.
Procedendo per successive approssimazioni verso il punto
nodale della decisione che risiede, come è evidente, nella
esatta individuazione delle tipologie costruttive
realizzabili in zona F1, è opportuno, in primo luogo
sgomberare il campo dall’ulteriore censura (con la dovuta
sintesi che la manifesta fondatezza della doglianza impone)
inerente la ritenuta inidoneità dell’atto unilaterale
d’obbligo (doglianza sub II.2.a del ricorso introduttivo,
pagg. 19 e ss).
La giurisprudenza (che non occorre citare in questa sede, in
quanto riportata anche nell’atto impugnato, perché
sottoposta all’Amministrazione dalla società ricorrente in
sede di partecipazione procedimentale), con valutazioni che
il Collegio condivide appieno, è sostanzialmente pacifica
nell’equiparare in astratto lo strumento convenzionato a
quello unilaterale, sicché del tutto inconsistente è la
scelta giuridica operata sul punto dalla Provincia, resa
ancora più labile dalla manifestata disponibilità (già nella
fase istruttoria del procedimento di autotutela) della
società a sottoscrivere la richiesta convenzione, a fini
sananti e di convalida del provvedimento edilizio.
Cosa ben diversa (di cui tenere debitamente conto in sede di
riedizione del potere) è la concreta assimilabilità dello
specifico atto unilaterale allo strumento convenzionato,
dovendosi vagliare la specificità degli obblighi assunti, la
loro completezza, nonché l’eventuale necessità che il Comune
presti formale accettazione dell’atto unilaterale (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 14.01.2015 n. 47 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Chiarimenti resi dalla stazione
appaltante: hanno solo valore interpretativo.
Le note informative di chiarimento non modificano affatto il
contenuto delle regole di gara e sono solo esplicative del
bando di gara; non ha pertanto alcun senso la previsione di
una clausola escludente per una omessa accettazione delle
stesse con sottoscrizione ulteriore, che sarebbe fortemente
penalizzante e non ha alcun profilo sostanziale e funzionale
se non quello di ristringere la cerchia dei partecipanti.
Nell’offerta di parte ricorrente vi sono tutti gli elementi
essenziali della domanda, in conformità del bando, che è
unico e immodificato “ab origine”, costituendo la “lex
specialis” che può contenere incertezze interpretative delle
clausole, superabili a mezzo di chiarimenti che consentono
ai partecipanti di conoscere l’esatta volontà
dell’Amministrazione, senza che possa essere modificata, sia
per la pendenza dei termini per la presentazione delle
offerte, sia quale regola di buona amministrazione (art. 97
cost.), finalizzata ad assicurare la parità di trattamento.
I chiarimenti, pertanto, non possono introdurre previsioni
innovative e/o modificative delle prescrizioni già stabilite
dal bando, perché ciò significherebbe il suo ritiro, con
sostituzione di altro nuovo (art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n.
163/2006).
Il cottimo fiduciario “avviene nel rispetto dei principi
di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa
consultazione di almeno cinque operatori economici” e “i
procedimenti di acquisizione di prestazioni in economia sono
disciplinati, nel rispetto del presente articolo, nonché dei
principi in tema di procedure di affidamento e di esecuzione
del contratto desumibili dal presente codice, dal
regolamento” (art. 125 citato, comma 11° e 14°).
Il regolamento (Dpr. n. 207/2010, artt. 331 e 332)
riafferma: la massima trasparenza, contemperando
l’efficienza dell’azione amministrativa con i principi di
parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza,
nonché di rotazione.
Quel che va stabilito è se al cottimo fiduciario, per
l’acquisizione di servizi e forniture in economia, sia
applicabile o meno l’art. 46, comma 1-bis del d.lgs. n.
163/2006.
La norma prevede che la stazione appaltante esclude i
candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché
nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette
prescrizioni sono comunque nulle (comma introdotto dall’art.
4, comma 2, lett. d), del DL 13/05/2011 n. 70 in vigore dal
14/05/2011, convertito con la legge di conversione
12.07.2011, n. 106, in vigore dal 13/07/2011).
La disposizione è tesa ad assicurare i principi generali di
trasparenza, parità di trattamento e di efficienza
dell’azione amministrativa, posti a tutela della concorrenza
e stabilisce l’essenziale principio della tassatività delle
cause di esclusione dalle gare. Tale articolo di legge va
collegato all’art. 64, comma 4-bis del d.lgs. n. 163/2006,
che richiama il bando emanato dalla stazione appaltante,
sulla base dei modelli dei bandi-tipo approvati
dall’Autorità e indicanti le tassative cause di esclusione,
genericamente poste dal citato art., 46, comma 1-bis, nonché
le eventuali motivate deroghe.
Tra le cause d’esclusione (bando-tipo, artt. 1, 2, 3 della
parte II, g.u. 254/30.10.2012) vi sono la mancata
sottoscrizione dell’offerta, che non è presente nel caso in
esame, e la mancata accettazione delle condizioni generali
di contratto, anch’essa non rinvenibile nella fattispecie in
esame, trattandosi di previsione che non ha nulla a che
vedere con la mancata sottoscrizione delle note di
chiarimento, di cui nella presente fattispecie. Ciò, invero,
è del tutto coerente con il valore assorbente della
sottoscrizione primaria dell’offerta fatta e della necessità
di evitare duplicità di adempimenti, secondo ragionevolezza
e utilità effettiva.
Le note informative di chiarimento non modificano affatto il
contenuto delle regole di gara e sono solo esplicative del
bando di gara; non ha pertanto alcun senso la previsione di
una clausola escludente per una omessa accettazione delle
stesse con sottoscrizione ulteriore, che sarebbe fortemente
penalizzante e non ha alcun profilo sostanziale e funzionale
se non quello di ristringere la cerchia dei partecipanti.
Nell’offerta di parte ricorrente vi sono tutti gli elementi
essenziali della domanda, in conformità del bando, che è
unico e immodificato “ab origine”, costituendo la “lex
specialis” che può contenere incertezze interpretative
delle clausole, superabili a mezzo di chiarimenti che
consentono ai partecipanti di conoscere l’esatta volontà
dell’Amministrazione, senza che possa essere modificata, sia
per la pendenza dei termini per la presentazione delle
offerte, sia quale regola di buona amministrazione (art. 97
cost.), finalizzata ad assicurare la parità di trattamento
(C.S., V, 3093/2014).
I chiarimenti, pertanto, non possono introdurre previsioni
innovative e/o modificative delle prescrizioni già stabilite
dal bando, perché ciò significherebbe il suo ritiro, con
sostituzione di altro nuovo (art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n.
163/2006).
Nel caso in esame, viene inserita una nuova previsione
escludente che, stante la funzione esplicativa dei
chiarimenti, sarebbe del tutto illogica anche per il suo
automatismo escludente.
Il fornitore, invero, si è già impegnato, sottoscrivendo il
modulo di presentazione dell’offerta, che, in caso di
aggiudicazione, avrebbe osservato tutte le condizioni
predisposte dall’ordinante; i chiarimenti, in quanto
riferiti alle condizioni sottoscritte in sede di offerta,
andranno comunque rispettati senza necessità di una clausola
escludente.
L’art. 41, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006, modificato con
d.l. n. 70/2011 (art. 4, comma 2°, lett. d, vigente dal
14.05.2011) prevede la tassatività delle prescrizioni
possibili e le clausole esclusive sono consentite per gli
adempimenti, anche formali, se rientranti nei casi tassativi
di legge (A.P. n. 9/2014). La clausola in oggetto è di mera
forma e per nulla essenziale, non incidendo in alcun modo
sulla regolarità concorrenziale, realizzando, per contro,
solo una riduzione della platea dei concorrenti a danno del
“favor partecipationis” (C.S., V, 3093/2013).
A voler tutto concedere, la stazione appaltante avrebbe
potuto, nella fattispecie, utilizzare il “soccorso
istruttorio” per quello che è un requisito meramente
formale, ovvero di una clausola fine a se stessa che non
altera la regolarità del confronto concorrenziale e verrebbe
a danneggiare solo il libero mercato.
Il ricorso è accolto (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 12.01.2015 n. 20 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lo strumento della perequazione, che trova
fondamento legislativo a livello locale nell’art. 11 della
LR 12/2005, consente alle amministrazioni comunali di
ottenere vantaggi superiori a quelli della tradizionale
zonizzazione.
Due opportunità sono di particolare rilievo: (i)
intercettare parte della rendita prodotta dalla zonizzazione
a favore dei proprietari di aree edificabili; (ii)
conformare in dettaglio la trasformazione della proprietà
privata, indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma solo
a condizione che siano rispettati i principi della
pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente
penalizzanti per i proprietari.
La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono
uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti
amministrativi (l’art. 8 comma 2-e della LR 12/2005 collega
l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto
delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i
diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono
invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base
naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e
topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti
all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale dei diritti
edificatori, è anche evidente che la sottrazione di una
parte del valore economico di tali diritti non può superare
limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per poter
realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non essere
costretto a lasciare inedificato il terreno) deve
monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti
edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile
all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla
costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si aggiunge al vero e
proprio contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria, contributo sul costo di costruzione),
è necessario evitare che la somma di questi oneri abbia
esiti confiscatori o determini di fatto un vincolo di
inedificabilità.
Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la creazione
di diritti edificatori utili esclusivamente a fini
commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul
terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e
normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è
uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la
collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari
dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che
sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza
tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della
costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma
di servizi e infrastrutture.
Le indicazioni offerte dalla normativa sono interpretabili
in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR 12/2005
prevede l’attribuzione di identici diritti edificatori nelle
aree di trasformazione inserite in piani attuativi e in atti
di programmazione negoziata.
In effetti, le posizioni dei proprietari coinvolti in questi
interventi edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole
che tutti possano beneficiare nella stessa misura dei
diritti edificatori, anche se le costruzioni vengono
concentrate solo in un punto specifico.
Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2
dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree
del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e
di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano
attribuiti identici diritti edificatori, inferiori
all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del vero e proprio mercato dei
diritti edificatori, di cui i comuni devono tenere un
registro pubblico e aggiornato. Essendo per definizione
normativa un bene scarso, i diritti edificatori possono
essere vantaggiosamente scambiati tra i privati, fino a
raggiungere la soglia minima che permette l’edificazione. È
però evidente che questo meccanismo enfatizza la rendita dei
proprietari non interessati a costruire, e impone
l’intervento calmieratore dell’amministrazione attraverso la
monetizzazione dei diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche evidente che la perequazione aumenta
i costi delle costruzioni senza svolgere una funzione di
contenimento dell’utilizzo del territorio. Da qui possono
derivare effetti discriminatori, in quanto i proprietari più
forti economicamente potranno permettersi di pagare un
extracosto anche elevato, mentre gli altri dovranno
rinunciare a edificare. È quindi necessario che il prezzo
della monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo
conto dell’evoluzione del mercato immobiliare.
La costituzione di una rendita nella forma di diritti
edificatori è meno problematica quando corrisponda
chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando
sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di
aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della
LR 12/2005. Analogamente, la concessione di diritti
edificatori è ammissibile come indennizzo per le aree che
siano sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In questi casi si presenta il problema opposto a quello
antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi
diritti siano effettivamente commerciabili in modo
vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare
una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili
gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri
privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della
monetizzazione.
Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia
dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili
direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in
relazione a obiettivi di interesse pubblico
(riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica;
risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile).
L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli
aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura
(nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di
edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone
sociale) più è necessario che vi sia un attento
bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia
quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i
diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti
un incremento dei costi di costruzione e incidono sulla
redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un
effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità
economica di chi costruisce.
Sui limiti della perequazione
17. Lo strumento della perequazione, che trova fondamento
legislativo a livello locale nell’art. 11 della LR 12/2005,
consente alle amministrazioni comunali di ottenere vantaggi
superiori a quelli della tradizionale zonizzazione.
Due
opportunità sono di particolare rilievo: (i) intercettare
parte della rendita prodotta dalla zonizzazione a favore dei
proprietari di aree edificabili; (ii) conformare in
dettaglio la trasformazione della proprietà privata,
indirizzandola verso obiettivi di utilità sociale.
18. Si tratta in entrambi i casi di risultati legittimi, ma
solo a condizione che siano rispettati i principi della
pianificazione e siano evitate soluzioni eccessivamente
penalizzanti per i proprietari.
19. La premessa imprescindibile è che non tutte le aree sono
uguali, né possono essere rese uguali con provvedimenti
amministrativi (l’art. 8, comma 2-e, della LR 12/2005 collega
l’individuazione degli ambiti di trasformazione al rispetto
delle vocazioni funzionali del territorio). È vero che i
diritti edificatori non ineriscono alla proprietà e sono
invece attribuiti dalla pianificazione, ma la loro base
naturale risiede nelle caratteristiche fisiche e
topografiche dei terreni, che li rendono più o meno adatti
all’edificazione.
Una volta riconosciuta la base naturale
dei diritti edificatori, è anche evidente che la sottrazione
di una parte del valore economico di tali diritti non può
superare limiti ragionevoli. In effetti, se il privato per
poter realizzare una qualsiasi costruzione (ossia per non
essere costretto a lasciare inedificato il terreno) deve
monetizzare, al prezzo stabilito dal Comune, i diritti
edificatori mancanti, questa situazione è assimilabile
all’alternativa tra pagare o non pagare una tassa sulla
costruzione.
Trattandosi di un peso economico che si
aggiunge al vero e proprio contributo di costruzione (oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria, contributo sul
costo di costruzione), è necessario evitare che la somma di
questi oneri abbia esiti confiscatori o determini di fatto
un vincolo di inedificabilità.
20. Anche l’altro aspetto della perequazione, ossia la
creazione di diritti edificatori utili esclusivamente a fini
commerciali, in quanto non sfruttabili direttamente sul
terreno che li genera, è sottoposto a limiti logici e
normativi. In generale, si osserva che la perequazione non è
uno strumento finalizzato a moltiplicare le rendite private.
Il vero obiettivo è la redistribuzione a tutta la
collettività dei vantaggi derivanti a pochi proprietari
dall’attribuzione di diritti edificatori: questo implica che
sia l’amministrazione a incamerare l’eventuale differenza
tra il “giusto diritto edificatorio” e il valore della
costruzione, per riversarlo poi sul territorio sotto forma
di servizi e infrastrutture.
21. Le indicazioni offerte dalla normativa sono
interpretabili in questo senso. L’art. 11, comma 1, della LR
12/2005 prevede l’attribuzione di identici diritti
edificatori nelle aree di trasformazione inserite in piani
attuativi e in atti di programmazione negoziata.
In effetti,
le posizioni dei proprietari coinvolti in questi interventi
edilizi sono equivalenti, e dunque è ragionevole che tutti
possano beneficiare nella stessa misura dei diritti
edificatori, anche se le costruzioni vengono concentrate
solo in un punto specifico.
22. Con una previsione più ampia e innovativa, il comma 2
dell’art. 11 della LR 12/2005 consente che a tutte le aree
del territorio comunale, ad eccezione di quelle agricole e
di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, siano
attribuiti identici diritti edificatori, inferiori
all’indice minimo fondiario.
Questo è il presupposto del
vero e proprio mercato dei diritti edificatori, di cui i
comuni devono tenere un registro pubblico e aggiornato.
Essendo per definizione normativa un bene scarso, i diritti
edificatori possono essere vantaggiosamente scambiati tra i
privati, fino a raggiungere la soglia minima che permette
l’edificazione. È però evidente che questo meccanismo
enfatizza la rendita dei proprietari non interessati a
costruire, e impone l’intervento calmieratore
dell’amministrazione attraverso la monetizzazione dei
diritti edificatori mancanti.
A questo punto, è anche
evidente che la perequazione aumenta i costi delle
costruzioni senza svolgere una funzione di contenimento
dell’utilizzo del territorio. Da qui possono derivare
effetti discriminatori, in quanto i proprietari più forti
economicamente potranno permettersi di pagare un extracosto
anche elevato, mentre gli altri dovranno rinunciare a
edificare. È quindi necessario che il prezzo della
monetizzazione sia attentamente ponderato, tenendo conto
dell’evoluzione del mercato immobiliare.
23. La costituzione di una rendita nella forma di diritti
edificatori è meno problematica quando corrisponda
chiaramente a un interesse pubblico, in particolare quando
sia effettuata a compensazione della cessione gratuita di
aree al Comune, come previsto dall’art. 11, comma 3, della LR
12/2005. Analogamente, la concessione di diritti edificatori
è ammissibile come indennizzo per le aree che siano
sottoposte a un vincolo sostanzialmente espropriativo.
In
questi casi si presenta il problema opposto a quello
antispeculativo visto sopra, ossia è necessario che questi
diritti siano effettivamente commerciabili in modo
vantaggioso per i proprietari, in quanto devono compensare
una perdita patrimoniale effettiva. A tale fine sono utili
gli incentivi per i proprietari che acquistano da altri
privati, rendendo meno conveniente l’alternativa della
monetizzazione.
24. Vi sono poi gli incentivi legati alla tipologia
dell’edificazione. Alcuni sono considerati ammissibili
direttamente dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 in
relazione a obiettivi di interesse pubblico
(riqualificazione urbana; edilizia residenziale pubblica;
risparmio energetico; edilizia interamente biocompatibile).
L’autonomia dei comuni può individuare ulteriori obiettivi.
Si osserva in proposito che più ci si allontana dagli
aspetti costruttivi per puntare a finalità di altra natura
(nuovi insediamenti produttivi; disponibilità di alloggi di
edilizia convenzionata, a canone moderato o a canone
sociale) più è necessario che vi sia un attento
bilanciamento tra i diritti edificatori di base, ossia
quelli generati dal terreno interessato dall’intervento, e i
diritti edificatori reperibili tramite le incentivazioni.
Le
condizioni per ottenere gli incentivi determinano infatti un
incremento dei costi di costruzione e incidono sulla
redditività dell’investimento. Può quindi determinarsi un
effetto discriminatorio basato nuovamente sulla capacità
economica di chi costruisce.
Conclusioni
25. Tornando al caso in esame, inquadrato economicamente
come si è visto sopra, si ritiene che le modalità con cui il
PGT ha attuato la perequazione presentino le seguenti
criticità:
(a) vi è un intervallo eccessivo tra i diritti edificatori
generati dall’area interessata dall’intervento e quelli da
acquistare, monetizzare, o reperire mediante gli incentivi.
Non è possibile stabilire, in mancanza di puntuali
indicazioni normative, una ripartizione esatta, ma si può
ritenere che almeno la metà dei diritti edificatori
necessari per intraprendere una costruzione (indice di
densità minimo) debba appartenere alla prima categoria. In
questo modo il peso degli incentivi è relativizzato, e viene
salvaguardata la libertà di scelta dei privati circa le
caratteristiche della costruzione;
(b) con il prezzo iniziale della monetizzazione, e la
conseguente necessità di utilizzare tutti gli incentivi,
erano praticabili solo l’attività edificatoria dotata dei
più elevati standard costruttivi (quindi più costosa) e
quella finalizzata all’edilizia sociale (non facilmente
gestibile da un privato o da un normale impresa di
costruzioni).
In corso di causa è intervenuta la riduzione
del prezzo della monetizzazione, ma rimane la necessità di
un’indagine più precisa sulla situazione del mercato
immobiliare e di un’analisi più dettagliata dei reali costi
di costruzione (in particolare, delle voci che presentano
rigidità, come lavoro e materiali);
(c) la disciplina del PGT non tiene adeguatamente conto
della distinzione tra l’indice di densità minimo e quello
massimo. Per raggiungere il primo, i diritti edificatori
generati dall’area interessata dall’intervento non possono
essere inferiori, come si è visto, alla metà del totale.
Nello specifico, per contro, come si è detto, i diritti
edificatori generati dall’area in questione sono stati
fissati in 0,25 mq/mq e l’indice minimo di densità in 0,80
mq/mq, determinando un differenziale di diritti edificatori
da colmare, per ogni mq edificato, pari a 0,55 mq/mq
[0,80-0,25], che è alla base di quell’effetto distorsivo che
la ricorrente giustamente censura;
(d) è invece in relazione al secondo indice di densità
(quello massimo) che, una volta corretto il primo nel senso
sopra chiarito, possono trovare maggiore spazio le politiche
incentivanti del Comune, le quali, operando su questo
segmento della capacità edificatoria, sono in grado di
svolgere un’appropriata funzione premiale senza effetti
inibitori o distorsivi.
26. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento delle norme del PGT relative alla
perequazione. L’effetto conformativo di questa pronuncia
comporta l’obbligo per il Comune di riesaminare la
disciplina in questione mediante un nuovo pronunciamento del
consiglio comunale, nel rispetto delle indicazioni sopra
esposte.
Per tale adempimento è fissato il termine di 90
giorni dal deposito della presente sentenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2015 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne
alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni
necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una
canna fumaria che interessi anche la facciata in
corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante
giurisprudenza "non nega a priori la possibilità di
effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede
però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non
siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in
questione…”.
---------------
Una volta che l’amministrazione competente ha verificato nei
limiti delle proprie possibilità che non vi è violazione di
specifiche norme legislative o regolamentari (nel caso di
specie viene in evidenza il citato art. 98 del R.E.C.) e che
non sussistono pericoli per la salute pubblica, non è
possibile negare il rilascio degli atti autorizzativi, i
quali, come è noto, vengono adottati con la clausola, anche
implicita, “fatti salvi i diritti dei terzi”.
Ciò vuol dire che l’amministrazione non risponde dei
pregiudizi cagionati dall’esecuzione non a regola d’arte di
lavori regolarmente assentiti, salvo che si tratti di
varianti significative e rilevanti dal punto di vista
edilizio e/o igienico-sanitario.
... per l'annullamento del permesso in sanatoria relativo a
istallazione di canna fumaria.
...
4. Il ricorso va respinto nel
merito.
In effetti, fermo ed impregiudicato quanto deciso dal
giudice civile all’esito delle varie iniziative giudiziarie
promosse dal sig. G. (vedasi, ad esempio, le
sentenze depositate da parte ricorrente in data 03/11/2014),
nella presente sede giurisdizionale si deve discutere solo
dei profili edilizi e igienico-sanitari inerenti il titolo
impugnato. I profili igienico-sanitari, però, nella specie
non presentano rilievo autonomo, atteso che:
- il controinteressato sig. P. ha infatti chiesto ed
ottenuto dal Comune un titolo edilizio in sanatoria ed è
questo il provvedimento che il sig. G. e la sig.ra
M. hanno impugnato davanti al TAR;
- ne consegue l’irrilevanza, da un punto di vista generale,
dei profili afferenti le emissioni odorigene prodotte dalla
cottura degli alimenti.
5. Premesso che i ricorrenti non contestano la parte della
sanatoria relativa alla realizzazione di una volumetria
aggiuntiva mediante tamponatura dei lati aperti di una
preesistente tettoia, quanto alla canna fumaria è
sufficiente osservare che:
- il controinteressato ha allacciato il condotto di scarico
proveniente dai forni della pizzeria ad una canna fumaria
preesistente (la quale era però a servizio di una semplice
caldaia domestica e dunque potenzialmente non adeguata a
sopportare anche i fumi di cottura di alimenti);
- per giurisprudenza consolidata le canne fumarie dal punto
di vista edilizio sono da qualificare in generale come
volumi o impianti tecnici, essendo necessarie per l’utilizzo
di impianti termici che nei moderni edifici sono
indispensabili. Tale qualificazione può essere dubbia nel
caso di canne fumarie di rilevanti dimensioni (la cui
presenza potrebbe provocare problemi anche dal punto di
vista della sicurezza statica degli edifici o della pubblica
incolumità o anche in relazione alla presenza di eventuali
vincoli architettonici sull’immobile sottostante), ma non è
questo il caso, trattandosi nella specie di una canna
fumaria di dimensioni normali, sulla quale è stato innestato
un tubo di piccolo diametro;
- non si vede dunque come avrebbe potuto il Comune di Ancona
negare in parte qua il rilascio del titolo in sanatoria in
favore del sig. P..
6. Con riguardo poi all’eventuale necessità di un consenso
dei condomini, il Collegio condivide la recente pronuncia
del TAR Brescia, n. 1308/2014, secondo cui “…In generale,
per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun partecipante può
servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di
farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può
apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il
miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui
rileva, di installazione di una canna fumaria che interessi
anche la facciata in corrispondenza delle proprietà di altri
condomini, costante giurisprudenza –Cass. civ. sez. II 11.05.2011 n. 10350, T. Roma sez. XII 28.07.2002, T.
Milano 26.03.1992 e T. Trento 16.05.2013 n. 432- "non
nega a priori la possibilità di effettuare l’opera senza
l’assenso di costoro; richiede però, perché se ne possa
prescindere, che in concreto non siano pregiudicati
l’armonia e il decoro della facciata in questione…”.
Nella
specie, per quanto detto in precedenza, non si pone alcun
problema di decoro della facciata dell’immobile in cui
risiedono i ricorrenti.
7. Quanto ai profili igienico-sanitari, il Comune ha
effettuato numerosi approfondimenti istruttori, coinvolgendo
anche la competente Zona Territoriale dell’ASUR Marche.
Ebbene, tali approfondimenti non hanno confermato le
perplessità degli odierni ricorrenti sulla conformità
dell’impianto.
Al riguardo, si deve evidenziare in particolare che, con
nota datata 19/06/2006, il S.I.S.P. dell’ASUR Marche - Z.T.
n. 7, ha comunicato al competente dirigente comunale che:
- era stato effettuato un sopralluogo presso l’immobile in
cui risiedono i ricorrenti (i quali non erano stati
rintracciati nel loro appartamento) e in quell’occasione non
era stata riscontrata la presenza di esalazioni maleodoranti
nel vano scala condominiale, nel cortile retrostante e nella
pubblica via;
- poiché il forno utilizzato nella pizzeria è elettrico, lo
stesso non è soggetto alle disposizioni di cui all’art. 98
del R.E.C. di Ancona.
Con la successiva nota datata 13/07/2007 il S.I.S.P. ha
espresso parere favorevole con prescrizioni (fra le quali la
necessità del rispetto delle disposizioni dell’art. 98
R.E.C.) al rilascio del titolo impugnato.
8. Una volta che l’amministrazione competente ha verificato
nei limiti delle proprie possibilità che non vi è violazione
di specifiche norme legislative o regolamentari (nel caso di
specie viene in evidenza il citato art. 98 del R.E.C.) e che
non sussistono pericoli per la salute pubblica, non è
possibile negare il rilascio degli atti autorizzativi, i
quali, come è noto, vengono adottati con la clausola, anche
implicita, “fatti salvi i diritti dei terzi”. Ciò vuol dire
che l’amministrazione non risponde dei pregiudizi cagionati
dall’esecuzione non a regola d’arte di lavori regolarmente
assentiti, salvo che si tratti di varianti significative e
rilevanti dal punto di vista edilizio e/o
igienico-sanitario.
Nella presente vicenda è emerso che le immissioni
nell’appartamento di proprietà G. erano cagionate
dal fatto che il collegamento fra l’esalatore e la
preesistente canna fumaria non era stato realizzato a regola
d’arte, per cui i fumi si disperdevano prima di raggiungere
il comignolo della canna fumaria (vedasi la relazione a
firma dell’ing. L. allegata al ricorso - doc. n. 8).
E
poiché l’appartamento del sig. G. si trova proprio
nel punto in cui evidentemente il raccordo fra i due
condotti presentava delle perdite, esso veniva investito per
primo dai fumi (e in effetti, nel corso della causa civile
che ha viste contrapposte le parti private il consulente
nominato dal Tribunale di Ancona aveva individuato alcune
soluzioni tecniche idonee a risolvere il problema
consentendo nel contempo alla pizzeria di funzionare
regolarmente. Vedasi la relazione a firma del c.t.u. ing.
C. -doc. allegato n. 10 al ricorso- nonché la citata
relazione dell’ing. L.).
Questa, però, è vicenda civilistica, tanto è vero che
proprio in sede civile il sig. G. ha viste
riconosciute le proprie ragioni (vedasi le citate sentenze
depositate in data 03/11/2014, nonché i documenti depositati
dal controinteressato unitamente alla memoria del
19/11/2014)
(TAR Marche,
sentenza 09.01.2015 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
“modus procedendi” seguito
dall’Amministrazione comunale –tradottosi nella diretta
adozione di un provvedimento repressivo-inibitorio, oltre il
termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione
della denuncia di inizio attività (trenta dalla
presentazione e trenta dalla data in cui le opere possono
essere realizzate) e senza le garanzie e i presupposti
previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio– si appalesa illegittimo, atteso che
la denuncia di inizio attività, una volta perfezionatasi,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto
tale profilo equiparabile, seppur esclusivamente “quoad
effectum”, al rilascio del provvedimento espresso), che può
essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo
attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria
nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma
4, della legge n. 241/1990.
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia
dell’ordinanza dell’08.07.2014 e della successiva ordinanza
del 15.07.2014 entrambe adottate dal responsabile del
Settore tecnico del Comune di Posta con le quali si è
inibito alla odierna ricorrente di effettuare gli interventi
edilizi di cui alla denuncia di inizio attività acquisita
con prot. n. 250 del 21.01.2014 dal predetto ente locale;
...
- Ritenuto che si presta ad essere accolta la censura con la quale si
contesta la legittimità della scelta inibitoria perché
assunta dal Comune ben oltre il termine di trenta giorni
dalla data di presentazione della denuncia di inizio
attività in quanto il provvedimento conclusivo della
procedura di controllo svolta dal competente Ufficio tecnico
del Comune di Posta non reca alcun elemento attraverso il
quale possa fisiognomicamente iscriversi detto atto nella
categoria dei provvedimenti assunti in sede di autotutela
dall’amministrazione (artt. 21-quinquies e 21-nonies della
legge 07.08.1990 n. 241) né, allo stesso tempo, si
rinvengono riferimenti nella parte motiva dei ridetti
provvedimenti con i quali si riferiscano pericoli per i
quali possa manifestarsi, a causa della costruzione delle
opere di cui alla denuncia in questione, “un danno per il
patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la
salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale”,
per come impone l’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990,
né risulta essere effettuato alcun “accertamento
dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi
mediante conformazione dell’attività dei privati alla
normativa vigente” (sempre ai sensi dell’art. 19, comma 4,
della legge n. 241/1990);
-
Affermato che possa in questa sede riproporsi il costante
orientamento della giurisprudenza espresso in materia e
sintetizzato anche recentemente dal Consiglio di Stato
(cfr., tra le ultime, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780) in
virtù del quale, con riferimento al caso qui in esame:
A) costituisce fatto incontrovertibile che la denuncia di
inizio attività fatta oggetto dell’intervento inibitorio qui
gravato è stata proposta dalla Signora C. in data 21.01.2014 ed assunta dal Comune di Posta al numero di
protocollo 250;
B) costituisce altresì fatto indubitabile che l’intervento
repressivo-inibitorio è stato sviluppato dal Comune con atti
dell’08 e del 15.07.2014;
C) ne deriva che l’amministrazione comunale non solo ha
lasciato che la menzionata denuncia di inizio attività si
consolidasse, omettendo di esercitare, nel termine
perentorio (di trenta giorni dall’inizio della realizzazione
delle opere e di sessanta dalla presentazione della
denuncia) previsto dall’art. 23, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il potere inibitorio-repressivo ad essa
spettante in caso di carenza dei presupposti per la ridetta
denuncia, ma ha omesso anche l’esercizio dei c.d. poteri di
autotutela decisoria, espressamente richiamati dal secondo
periodo del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241/1990 ed
inaspriti da quanto stabilito al successivo comma 4;
D) pare evidente quindi che l’amministrazione comunale,
anziché procedere come avrebbe dovuto, all’annullamento
d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies legge n. 241/1990,
della denuncia di inizio attività ritenuta illegittima, ha
provveduto direttamente, senza alcuna motivazione ulteriore
rispetto alla ritenuta illegittimità delle opere eseguite,
ad ordinare l’inibizione alla realizzazione (ovvero alla
prosecuzione) delle opere;
E) operando in tal modo il Comune di Posta ha violato le
garanzie previste dall’art. 19 legge n. 241/1990 che, in
presenza di una denuncia di inizio attività illegittima,
consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche
oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, del
D.P.R. n. 380/2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il
procedimento) cui la legge subordina il potere di
annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e,
quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di
illegittimità dei lavori assentiti per effetto della
denuncia di inizio attività ormai perfezionatasi,
dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di
interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo
(oltre agli ulteriori elementi riduttivi dell’ambito
operativo dell’esercizio del potere di autotutela
specificamente descritti nel richiamato comma 4):
-
Valutato dunque che il “modus procedendi” seguito
dall’Amministrazione comunale –tradottosi nella diretta
adozione di un provvedimento repressivo-inibitorio, oltre il
termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione
della denuncia di inizio attività (trenta dalla
presentazione e trenta dalla data in cui le opere possono
essere realizzate) e senza le garanzie e i presupposti
previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio– si appalesa quindi illegittimo,
atteso che la denuncia, una volta perfezionatasi,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto
tale profilo equiparabile, seppur esclusivamente “quoad effectum”, al rilascio del provvedimento espresso), che può
essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo
attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria
nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma
4, della legge n. 241/1990
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.01.2015 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
La facoltà, concessa dall'art. 3 del D.L.Lgt.
1446/1918, di
determinare in misura variabile da un quinto sino alla metà
il contributo della spesa di manutenzione, sistemazione e
ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico
transito secondo la diversa importanza delle strade, è volta
alla efficiente e razionale distribuzione delle risorse
pubbliche in funzione dell’uso pubblico delle strade e della
conseguente loro importanza, e tale determinazione deve
essere ancorata a criteri omogenei in relazione ad analogo
uso pubblico, soprattutto laddove le risorse finanziarie non
siano capienti rispetto alle esigenze di tutti i Consorzi
interessati, rendendosi così ancor più stringente l’esigenza
di anteporre alla determinazione del contributo una adeguata
attività istruttoria al fine di rispettare la finalità
tipica perseguita dalla legge.
Sicché, la deliberazione giuntale deve essere annullata
nella parte in cui stabilisce la riduzione al 35% del
contributo da corrispondere a favore del Consorzio
ricorrente, perché tale riduzione non risulta preceduta da
un’adeguata istruttoria (svolta alla luce dei criteri
normativamente stabiliti, nonché di quelli prefissati
dall’Amministrazione stessa), delle cui risultanze la Giunta
avrebbe dovuto dare conto in motivazione.
... per l'annullamento della deliberazione della Giunta
Capitolina n. 347 in data 12.12.2012 -recante il
seguente oggetto: “Consorzi stradali. Quantificazione del
contributo obbligatorio ex art. 3 D.L.Lgt. 1446/1918”- con
la quale è stata determinata, per l’anno 2012, la
percentuale del contributo pubblico dovuto, ai sensi
dell’art. 3 del D.Lgt. n. 1446/1918, ai consorzi stradali
compresi nel territorio di Roma Capitale, per la
manutenzione, sistemazione e ricostruzione di strade
vicinali soggette al pubblico transito, nonché di ogni altro
atto connesso, presupposto e consequenziale, con conseguente
accertamento del diritto del consorzio ricorrente a
percepire il predetto contributo pubblico nella misura
percentuale del 50%, anziché del 35%,
...
3. Passando al merito, il Collegio osserva che -come si può evincere dalla motivazione dell’impugnata
delibera- la Giunta Capitolina, dopo aver evidenziato che
la somma stanziata nel bilancio di Roma Capitale per l’anno
2012 (pari ad euro 1.450.000,00) non è sufficiente a
garantire la stessa percentuale di contributo prevista per
l’anno 2011 dalla deliberazione n. 207 del 22.06.2011,
si è limitata a prevedere per l’anno 2012 l’erogazione del
contributo di cui trattasi «nelle medesime percentuali
previste per l’anno 2011 dalla deliberazione di Giunta
capitolina n. 207 del 22.06.2011».
Ne consegue che -avendo questa Sezione annullato, con la sentenza n. 9126 del
23.10.2013, la delibera n. 248/2012, meramente
confermativa della precedente delibera n. 207 del 22.06.2011- il presente ricorso risulta fondato alla luce delle
medesime considerazioni svolte nella predetta sentenza.
In
particolare questa Sezione con la predetta sentenza ha
ritenuto la decisione assunta dalla Giunta Capitolina con la
delibera n. 207 del 22.06.2011 -confermata con la
successiva delibera n. 248/2012- contrastante con l’art. 3
del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, adottata in esito ad una
carente istruttoria e non sorretta da adeguata motivazione,
evidenziando in motivazione quanto segue: «deve innanzitutto
rilevarsi che l’art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918
dispone, con riferimento alle strade vicinali facenti parte
di Consorzi, che il Comune è tenuto a concorrere nella spesa
di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle stesse
se soggette al pubblico transito in misura variabile da un
quinto sino alla metà della spesa, secondo la diversa
importanza delle strade.
La ricognizione della disciplina di
riferimento e dei criteri cui attenersi nella determinazione
delle quote di contributo obbligatorio si completa con la
delibera di Giunta n. 90 del 31.03.2010, con la quale il
Comune di Roma Capitale ha individuato una disciplina
transitoria della materia, stabilendo che a decorrere dal
2011 la percentuale del contributo sarebbe stata determinata
annualmente sulla base delle disponibilità finanziarie del
Comune e delle risultanze tecniche effettuate dagli Uffici
Tecnici dei Municipi sull’effettiva necessità dei lavori
manutentivi».
A fronte di tale quadro e in contrasto con
esso, la delibera gravata ... dispone la conferma della
riduzione del contributo precedentemente stabilita dalla
delibera n. 207 del 2011 ... nella considerazione che ...
“nessuna variazione funzionale, dal punto di vista
urbanistico e territoriale, è intervenuta successivamente al
riconoscimento del contributo ex art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446
del 1918, rimanendo peraltro invariati l’importanza e l’uso
pubblico delle strade consortili, tenuto anche conto della
sviluppo urbanistico ed edilizio del territorio
circostante”.
In sostanza, la resistente Amministrazione ha
cristallizzato la situazione delle strade consortili alla
data di costituzione dei relativi Consorzi, applicando la
disposta riduzione ai Consorzi cui, in sede di costituzione,
è stato riconosciuto un contributo ex art. 3 del D.L.Lgt. n.
1446 del 1918 nella misura minima del 20% in relazione
all’importanza delle strade ricomprese nei rispettivi
Consorzi.
Osserva al riguardo il Collegio che la motivazione
sottesa alla gravata delibera risulta, innanzitutto, basata
su considerazioni formulate in maniera generica, cui non
viene dato alcun riscontro alla luce di evidenze
istruttorie, che contrastano peraltro con il previo
riconoscimento, sin dal 2001, a favore del Consorzio
ricorrente, per il quale è stata attuata la riduzione per
l’anno 2011, del contributo nella misura massima.
Né può
ritenersi plausibilmente sostenibile -alla luce del fatto
notorio dello sviluppo urbanistico delle aree circostanti il
Consorzio- che nessun mutamento urbanistico e territoriale
sia intervenuto, nel tempo, successivamente alla
costituzione del Consorzio stesso, avvenuta nel 1961, tale
da lasciare invariati l’importanza e l’uso pubblico delle
strade consortili -per come si afferma nella gravata
delibera- tenuto conto del forte sviluppo urbanistico ed
edilizio del territorio circostante, che non può non avere
avuto diretta incidenza sull’uso pubblico delle strade
consortili e, quindi, sulla loro importanza, che costituisce
il criterio di riferimento stabilito dal citato art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, la cui valutazione è stata del
tutto omessa dall’Amministrazione resistente, la quale si è
limitata ad apoditticamente affermare l’invarianza
dell’importanza delle strade e del loro uso, senza peraltro
dare conto delle ragioni per le quali in precedenza, in
applicazione del medesimo criterio normativo, sia stato
riconosciuto il contributo nella misura massima a favore del
Consorzio ricorrente, in tale modo prendendo atto,
presumibilmente, delle variate condizioni urbanistiche ed
edificatorie e dell’accresciuta importanza delle strade
consortili, tali da portare all’innalzamento nel tempo del
contributo dal 20% -originariamente riconosciuto- al 50%.
Né la resistente Amministrazione, nell’adottare la gravata
delibera, si è attenuta ai criteri dalla stessa stabiliti
con la delibera n. 90 del 2010, ai sensi della quale la
percentuale avrebbe dovuto essere stabilita sulla base delle
risultanze tecniche effettuate dagli Uffici Tecnici dei
Municipi sull’effettiva necessità dei lavori manutentivi,
oltre che sulla base delle disponibilità finanziarie.
Nessun
cenno a siffatte risultanze ed all’effettiva necessità dei
lavori manutentivi è difatti possibile rinvenire né nella
delibera gravata con motivi aggiunti né in quella impugnata
con il ricorso principale -cui può farsi riferimento al
fine di comporre la motivazione sottesa alla complessiva
scelta confermativa- limitandosi quest’ultima a ricondurre
la necessità della riduzione del contributo alla
insufficienza delle disponibilità finanziarie a garantire la
medesima percentuale prevista per l’anno 2010.
Se la
fissazione del contributo in base alle risorse finanziarie
costituisce, alla luce della delibera n. 90 del 2010, uno
dei criteri per la relativa determinazione, è indubbio che
la distribuzione delle somme disponibili tra i vari Consorzi
deve poggiare sulla disamina dell’importanza delle strade
aperte al pubblico transito -per come previsto dal citato
art. 3 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918- e delle risultanze
istruttorie circa l’effettiva necessità dei lavori
manutentivi alla luce delle risultanze tecniche effettuate
dai competenti Uffici Comunali -per come previsto dalla
delibera n. 90 del 2010- disamina questa che risulta essere
stata del tutto omessa dall’Amministrazione Capitolina, o di
cui comunque non è stata dato conto alcuno, così
determinandosi, oltre che la violazione della disciplina di
riferimento, anche una ingiustificata ed immotivata
diversificazione tra i Consorzi, disattendendo i principi di
trasparenza, imparzialità e razionalità della gestione dei
fondi da destinare ai Consorzi.
Non risultano difatti
indicati, nella delibere di determinazione del contributo,
le ragioni in base alle quali, in esito ad un giudizio
valutativo ancorato a precise risultanze istruttorie, sia
stata effettuata la diversificazione della misura del
contributo, stabilita nelle diverse percentuali del 50%, 40%
e del 35% per i vari Consorzi, in assenza di diverse
valutazioni circa l’importanza delle relative strade».
4. Stante quanto precede, in questa sede al Collegio resta
solo da evidenziare che la Giunta Capitolina neppure nella
delibera n. 347 del 12.12.2012 si è attenuta ai
criteri dalla stessa stabiliti con la delibera n. 90 del
2010 -ai sensi della quale la percentuale spettante a
ciascun Consorzio deve essere stabilita sulla base delle
risultanze dell’istruttoria effettuata dagli Uffici Tecnici
dei Municipi sull’effettiva necessità dei lavori
manutentivi, oltre che sulla base delle disponibilità
finanziarie- e neppure a seguito dell’ordinanza istruttoria
n. 265/2014 ha fornito i chiarimenti richiesti, volti a far
conoscere i criteri utilizzati per stabilire quali Consorzi
assoggettare alla riduzione contributiva del 50%, quali alla
riduzione del 40% e quali alla riduzione del 35%, nonché ad
illustrare le risultanze dell’istruttoria in base alle quali
sono state operate le predette riduzioni percentuali.
Pertanto -posto che- come ulteriormente evidenziato da
questa Sezione nella predetta sentenza n. 9126 del 2013 -
«la facoltà, concessa dal citato art. 3 del D.L.Lgt., di
determinare in misura variabile da un quinto sino alla metà
il contributo della spesa di manutenzione, sistemazione e
ricostruzione delle strade vicinali soggette a pubblico
transito secondo la diversa importanza delle strade, è volta
alla efficiente e razionale distribuzione delle risorse
pubbliche in funzione dell’uso pubblico delle strade e della
conseguente loro importanza, e tale determinazione deve
essere ancorata a criteri omogenei in relazione ad analogo
uso pubblico, soprattutto laddove le risorse finanziarie non
siano capienti rispetto alle esigenze di tutti i Consorzi
interessati, rendendosi così ancor più stringente l’esigenza
di anteporre alla determinazione del contributo una adeguata
attività istruttoria al fine di rispettare la finalità
tipica perseguita dalla legge» - l’impugnata delibera n. 347
in data 12.12.2012 deve essere annullata nella parte
in cui stabilisce la riduzione al 35% del contributo da
corrispondere a favore del Consorzio ricorrente, perché tale
riduzione non risulta preceduta da un’adeguata istruttoria
(svolta alla luce dei criteri normativamente stabiliti,
nonché di quelli prefissati dall’Amministrazione stessa),
delle cui risultanze la Giunta capitolina avrebbe dovuto
dare conto in motivazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 08.01.2015 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di
attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto.
---------------
In relazione alla individuazione dei soggetti destinatari
delle sanzioni in materia edilizia deve rilevarsi che
l’ordine di demolizione deve comunque essere rivolto, oltre
che al proprietario non responsabile dell’abuso, anche nei
confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità
dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine
alla situazione antigiuridica indipendentemente dal
coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in
considerazione del carattere ripristinatorio della disposta
demolizione.
Ciò vale anche nelle ipotesi, quale quella in esame, di
opere realizzate senza titolo abilitativo su area oggetto di
concessione da parte dell’ente pubblico proprietario (la
Regione Campania), dovendo i provvedimenti repressivi
adottati dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti
di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche
materiale del bene, quindi anche nei confronti dell'odierna
istante, detentrice dell'area di proprietà pubblica in esame
in virtù della concessione, in data 23.12.2003, da parte
della Regione dei beni costituenti l’infrastruttura
ferroviaria.
---------------
Ai fini dell’ingiunzione a demolire è necessaria e
sufficiente un'analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del
provvedimento, mentre l’individuazione della misura
dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa,
in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto
dopo il rituale accertamento, da parte del Comune,
dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato,
nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art.
31 del T.U. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente
finalizzato alla precisa individuazione delle aree da
acquisirsi gratuitamente ai sensi del terzo comma.
Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Quanto alla mancata comunicazione di avvio del procedimento,
contestata con il primo motivo, va infatti rilevato che
secondo costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi
è ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto (Consiglio di Stato VI Sezione
29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione,
18.09.2012; Consiglio di Stato IV Sezione 10.08.2011, n.
4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403;
Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Né costituisce omissione procedimentale viziante l’atto in
questa sede impugnato il fatto che il Comune non abbia
avvisato la società ricorrente della precedente ordinanza di
demolizione emessa nei confronti del responsabile dell’abuso
M.R., in quanto la notifica della successiva ordinanza di
demolizione qui impugnata fa sì che siano state rispettate
le necessarie scansioni procedimentali anche nei confronti
della ricorrente.
Anche la doglianza di cui al secondo motivo, secondo cui ai
sensi dell'art. 7 L. 47/1985 sarebbe illegittima
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione nei confronti
della ricorrente, in quanto non responsabile dell'abuso né
proprietaria dell’area, ma solo concessionaria della stessa,
deve essere disattesa.
In relazione alla individuazione dei soggetti destinatari
delle sanzioni in materia edilizia deve rilevarsi che
l’ordine di demolizione deve comunque essere rivolto, oltre
che al proprietario non responsabile dell’abuso, anche nei
confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità
dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine
alla situazione antigiuridica (TAR Toscana sez. III,
15.05.2013, n. 801; Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007,
n. 4008; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830)
indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella
realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere
ripristinatorio della disposta demolizione (ex multis
TAR Umbria, sez. I, 29.01.2014, n. 66, TAR Puglia-Bari sez.
III, 10.05.2013, n. 710).
Ciò vale anche nelle ipotesi, quale quella in esame, di
opere realizzate senza titolo abilitativo su area oggetto di
concessione da parte dell’ente pubblico proprietario (la
Regione Campania), dovendo i provvedimenti repressivi
adottati dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti
di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche
materiale del bene (Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007,
n. 4008), quindi anche nei confronti dell'odierna istante,
detentrice dell'area di proprietà pubblica in esame in virtù
della concessione, in data 23.12.2003, da parte della
Regione dei beni costituenti l’infrastruttura ferroviaria.
Al riguardo si consideri, altresì, che la ricorrente detiene
in via qualificata, per effetto della concessione citata,
l’immobile fin da tale data e, quindi, ben avrebbe potuto
con la dovuta vigilanza impedire la realizzazione
dell’abuso, avvenuto quando il bene pubblico era nella sua
disponibilità (il primo accertamento dell’abuso, infatti,
risale al verbale del 30.06.2005, di gran lunga posteriore
alla concessione).
Va anche respinto il terzo motivo, con il quale la
ricorrente ha contestato che la notifica dell’ingiunzione
demolitoria la esponeva, benché non proprietaria
dell’immobile, alle conseguenze dell’acquisizione del bene
di cui è concessionaria.
Invero, da un lato, la ricorrente, quale detentrice
qualificata del bene, ben può attivarsi per la demolizione
impedendo la successiva acquisizione e, in secondo luogo,
quest’ultimo atto non potrebbe comunque essere emesso nei
confronti del proprietario estraneo all’abuso (la Regione) e
al quale non è stata notificata l’ordinanza di demolizione,
come nel caso di specie.
Infine, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 31
D.P.R. 380/2001, per l’estensione dell’area di sedime di
gran lunga superiore rispetto alla superficie occupata dal
manufatto abusivo, di mq. 250, va evidenziato che ai fini
dell’ingiunzione a demolire è necessaria e sufficiente
un'analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra
indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento
(TAR Campania Napoli, Sez. VII, 14.01.2011 n. 164; Sez. VI,
09.11.2009 n. 7053; Sez. IV, 26.06.2009 n. 3530), mentre
l’individuazione della misura dell'area da acquisire deve
reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta
determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale
accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza
all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del
procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del T.U. n.
380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato
alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi
gratuitamente ai sensi del terzo comma (TAR Lombardia,
Milano, 26.01.2010 n. 175) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.01.2015 n. 48 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto ai principi che presiedono al rilascio dei
titoli edilizi abilitativi, e sull’aspetto della
legittimazione del richiedente e degli impedimenti di
carattere negoziale, occorre tener conto che, tra le
limitazioni al diritto a costruire, ai fini del rilascio dei
titoli abilitativi, anche in sanatoria, si è operata in
giurisprudenza un’accurata distinzione tra limiti di natura
“legale” e limiti di fonte “negoziale”.
In particolare nell’ambito del diritto civile si distinguono
limiti legali dell’attività edificatoria (sempre concernenti
i rapporti tra proprietari di fondi finitimi),
essenzialmente rivenienti nella disciplina contenuta nel
libro terzo, capo II, c.c. (ad es. prescrizioni in materia
di distanze, luci e vedute); e limiti che discendono non
direttamente dalla legge ma dall’esercizio dell’autonomia
negoziale: fra questi spiccano gli iura in re aliena di
godimento, tra cui usufrutto e servitù, cui corrispondono
altrettante restrizioni del diritto di proprietà riguardanti
lo ius aedificandi dei confinanti, che può risultare
semplicemente inciso o del tutto sottratto.
I su menzionati limiti operano diversamente sul piano dei
controlli esercitabili dall’amministrazione in sede di
rilascio del permesso di costruire.
I limiti “legali”, difatti, trovano applicazione
generalizzata e conservano sempre il medesimo contenuto, per
cui concorrono a formare lo statuto generale dell’attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all’amministrazione che è tenuta a considerarli sempre.
Diversamente, per le limitazioni “negoziali” del diritto di
costruire, cui può ricondursi anche il diritto di servitù di
cui si discute, la giurisprudenza prevalente afferma
l’inesistenza, in capo all’amministrazione, di un autentico
obbligo di ricerca di tali limiti, prodromico al diniego del
titolo, sul presupposto che all’amministrazione sia inibito
qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed
efficacia dei rapporti giuridici dei privati. Difatti mentre
i limiti legali sono destinati ad investire anche il
rapporto pubblicistico, quelli negoziali ne esulano e quindi
il comune non è tenuto a ricercarli.
Tuttavia, anche nei casi in cui si è ammessa l’esistenza di
un onere del Comune di verifica del rispetto dei limiti di
natura privatistica, ciò è consentito solo ove essi siano o
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d’atto.
... per
l'annullamento della d.i.a. in sanatoria n. 159/2009 e
dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi n.
44/2010.
...
2.1 Sul punto, in diritto, quanto ai principi che presiedono
al rilascio dei titoli edilizi abilitativi, e sull’aspetto
della legittimazione del richiedente e degli impedimenti di
carattere negoziale, occorre tener conto che, tra le
limitazioni al diritto a costruire, ai fini del rilascio dei
titoli abilitativi, anche in sanatoria, si è operata in
giurisprudenza un’accurata distinzione tra limiti di natura
“legale” e limiti di fonte “negoziale”.
In particolare nell’ambito del diritto civile si distinguono
limiti legali dell’attività edificatoria (sempre concernenti
i rapporti tra proprietari di fondi finitimi),
essenzialmente rivenienti nella disciplina contenuta nel
libro terzo, capo II, c.c. (ad es. prescrizioni in materia
di distanze, luci e vedute); e limiti che discendono non
direttamente dalla legge ma dall’esercizio dell’autonomia
negoziale: fra questi spiccano gli iura in re aliena
di godimento, tra cui usufrutto e servitù, cui corrispondono
altrettante restrizioni del diritto di proprietà riguardanti
lo ius aedificandi dei confinanti, che può risultare
semplicemente inciso o del tutto sottratto.
I su menzionati limiti operano diversamente sul piano dei
controlli esercitabili dall’amministrazione in sede di
rilascio del permesso di costruire.
I limiti “legali”, difatti, trovano applicazione
generalizzata e conservano sempre il medesimo contenuto, per
cui concorrono a formare lo statuto generale dell’attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all’amministrazione che è tenuta a considerarli sempre.
Diversamente, per le limitazioni “negoziali” del
diritto di costruire, cui può ricondursi anche il diritto di
servitù di cui si discute, la giurisprudenza prevalente
afferma l’inesistenza, in capo all’amministrazione, di un
autentico obbligo di ricerca di tali limiti, prodromico al
diniego del titolo, sul presupposto che all’amministrazione
sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla
validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati.
Difatti mentre i limiti legali sono destinati ad investire
anche il rapporto pubblicistico, quelli negoziali ne esulano
e quindi il comune non è tenuto a ricercarli.
Tuttavia, anche nei casi in cui si è ammessa l’esistenza di
un onere del Comune di verifica del rispetto dei limiti di
natura privatistica, ciò è consentito solo ove essi siano o
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d’atto (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1206)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 07.01.2015 n. 30 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La favorevole delibazione della domanda di
risarcimento del danno cagionato per effetto di un
provvedimento o comportamento lesivo di interesse legittimo,
richiede la concorrenza dei presupposti della lesione
dell'interesse legittimo e della lesione di un bene della
vita.
È necessario quindi non solo che il provvedimento sia
illegittimo ma anche che sia produttivo di un danno
eziologicamente riconducibile in via diretta e immediata, ex
art. 1223 c.c., all'esercizio del potere pubblicistico.
L'esigenza di verificare la lesione del bene della vita non
ricorre solo nel caso di provvedimento lesivo di interessi
legittimi pretensivi ma anche laddove venga in rilievo
un'azione amministrativa negativamente incidente su
interessi legittimi di matrice oppositiva.
La giurisprudenza ha anche affermato che il danno, per
essere risarcibile, deve essere certo e non meramente
probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità
del risultato utile e ciò è quello che "distingue la chance
risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato
utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale
irrisarcibile". Il risarcimento del danno c.d. "da perdita
di chance" è ancorato a indefettibili presupposti di
certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto,
ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di
una "eventualità" di conseguimento del bene della vita.
Numerose recenti pronunce poi, muovendo dall’approdo
giurisprudenziale secondo cui dopo un giudicato di
annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di
provvedere di nuovo – incombe sull’amministrazione l’obbligo
di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una
volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti,
dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente
neppure in relazione a profili non ancora esaminati, hanno
sostenuto la tesi per cui, laddove detta rieffusione non sia
possibile o utile (ad esempio perché, come nel caso di
specie, il bene della vita non sia più attribuibile
all’istante) comunque, in via parentetica di vaglio sul
petitum risarcitorio, l’Amministrazione potesse evidenziare
le ragioni militanti per la non attribuibilità del bene
della vita (e, quindi, della tutela risacitoria).
Ove dette ragioni venissero giudicate fondate, dovrebbe
essere esclusa la favorevole delibabilità del petitum ex
art. 2043 cc, per carenza della premessa maggiore dell’an:
la possibilità di attribuire al richiedente il bene della
vita richiesto.
Come è noto,
la favorevole delibazione della domanda di risarcimento del
danno cagionato per effetto di un provvedimento o
comportamento lesivo di interesse legittimo, richiede la
concorrenza dei presupposti della lesione dell'interesse
legittimo e della lesione di un bene della vita.
È
necessario quindi non solo che il provvedimento sia
illegittimo ma anche che sia produttivo di un danno eziologicamente riconducibile in via diretta e immediata, ex
art. 1223 c.c., all'esercizio del potere pubblicistico.
L'esigenza di verificare la lesione del bene della vita non
ricorre solo nel caso di provvedimento lesivo di interessi
legittimi pretensivi ma anche laddove venga in rilievo
un'azione amministrativa negativamente incidente su
interessi legittimi di matrice oppositiva.
La giurisprudenza ha anche affermato che il danno, per
essere risarcibile, deve essere certo e non meramente
probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità
del risultato utile e ciò è quello che "distingue la chance
risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato
utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile". Il risarcimento del danno c.d. "da perdita
di chance" è ancorato a indefettibili presupposti di
certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l'atto,
ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di
una "eventualità" di conseguimento del bene della vita
(Cons. Stato Sez. V, 28.04.2014, n. 2187 Cons. Stato Sez. IV,
12.02.2014, n. 674).
Numerose recenti pronunce poi, muovendo dall’approdo
giurisprudenziale secondo cui dopo un giudicato di
annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di
provvedere di nuovo – incombe sull’amministrazione l’obbligo
di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una
volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti,
dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente
neppure in relazione a profili non ancora esaminati, hanno
sostenuto la tesi per cui, laddove detta rieffusione non sia
possibile o utile (ad esempio perché, come nel caso di
specie, il bene della vita non sia più attribuibile
all’istante) comunque, in via parentetica di vaglio sul
petitum risarcitorio, l’Amministrazione potesse evidenziare
le ragioni militanti per la non attribuibilità del bene
della vita (e, quindi, della tutela risacitoria).
Ove dette ragioni venissero giudicate fondate, dovrebbe
essere esclusa la favorevole delibabilità del petitum ex
art. 2043 cc, per carenza della premessa maggiore dell’an:
la possibilità di attribuire al richiedente il bene della
vita richiesto (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di gara d'appalto, laddove le necessarie
dichiarazioni rese ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 (Codice
degli appalti) siano presenti, la relativa rilevanza non può
reputarsi incisa dalla mera presenza della precisazione "per
quanto a sua conoscenza", in quanto se la dichiarazione
assume tutti i connotati necessari ai sensi dell'art. 38
cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa che ribadire,
in termini tanto informali quanto comunque irrilevanti ai
fini di contestazione giurisdizionale, ciò che è proprio di
ogni dichiarazione resa da un soggetto, il quale riferisce
ciò che è a propria conoscenza.
---------------
La dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta
dall'art. 38, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 al legale
rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per
l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti
cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art.
38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di
atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla
medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali
soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in
quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi,
e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai
sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a
conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia
neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire
causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le
quali non ha potuto produrre dichiarazioni dei diretti
interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a
fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi-
procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il
casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la
stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso.
Inoltre gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno
valutati in termini di buona fede quando i fatti da
attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque
ormai terzi rispetto alla società dichiarante.
La
giurisprudenza amministrativa ha già da tempo chiarito che
(ex aliis ancora di recente TAR Sardegna Cagliari Sez. I,
07.06.2013, n. 472) “in sede di gara d'appalto, laddove le
necessarie dichiarazioni rese ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006
(Codice degli appalti) siano presenti, la relativa rilevanza
non può reputarsi incisa dalla mera presenza della
precisazione "per quanto a sua conoscenza", in quanto se la
dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi
dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa
che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque
irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò
che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il
quale riferisce ciò che è a propria conoscenza”.
Tale principio generale consente di ritenere esatta la
valutazione di equivalenza formulata dal Tar: le
dichiarazioni sono state rese “sino alla data di cessazione
della carica”, perché –come è logico- sino a quel momento
il dichiarante poteva ed era tenuto a conoscere le vicende
relative ai detti soggetti cessati.
Ad avviso dell’appellante la ratio della prescrizione (ed
anche la lex specialis) avrebbe richiesto che la
dichiarazione fosse resa “sino ad oggi” (cioè sino al
momento di presentazione della domanda partecipativa).
Ma tale formula dichiarativa, ove anche fosse stata
utilizzata, non avrebbe in nulla spostato l’ambito e la
portata della dichiarazione resa, posto che il dichiarante
(trattandosi, lo si ripete, di soggetti cessati) non avrebbe
fatto altro che dichiarare dati rientranti nella diretta
sfera di conoscenza (e non altri era tenuto a conoscere, non
rilevando certo la eventuale conoscenza di altri dati
aliunde ottenuta).
Ne consegue che le dichiarazioni rese non appaiono inficiate
da alcuna delle lamentate irregolarità; soddisfano
esattamente gli oneri discendenti dalla lex specialis e
dalla disposizione di cui all’art. 38 del TUAppalti.
Si rammenta in proposito la condivisibile giurisprudenza a
tenore della quale “la dichiarazione sostitutiva
(autocertificazione) richiesta dall'art. 38, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 al legale rappresentante delle imprese
concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici,
relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali,
previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e
concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi
espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve
sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli
compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati,
fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo
dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47,
t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del
dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto
(né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione
dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto
produrre dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo,
invece, l'amministrazione -a fronte di una compiuta
identificazione di questi ultimi- procedere essa alle
opportune verifiche, anche attraverso il casellario
giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a
differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre gli obblighi
gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini
di buona fede quando i fatti da attestare riguardano
soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto
alla società dichiarante" (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; in senso conforme, Consiglio di Stato,
sez. V, 20.06.2011, n. 3686).
E proprio nella espressione contenuta nella decisione 22.03.2012, n. 1646 in ultimo citata, si rinviene la
ratio
del superiore orientamento, che consente di ritenere
infondata la censura: posto che il dichiarante non potrebbe
che attestare fatti a propria diretta conoscenza, una
eventuale dichiarazione priva di tale limite (o
dell’identico limite riposante nella data di cessazione
dalla carica) sarebbe, ontologicamente, inutiliter data
per la porzione temporale esuberante la data di cessazione
della carica (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche, in caso di contrasto tra
bando di gara e lettera d'invito, prevalgono le disposizioni
del primo.
Tale principio va inteso non solo nel senso
dell'impossibilità che la lettera possa derogare alle
previsioni del bando, che costituisce la lex specialis della
procedura selettiva, ma anche nel senso dell'impossibilità
-specie in un sistema dominato dalla tassatività ed
eccezionalità delle previsioni di esclusione- che attraverso
la lettera d' invito possano essere introdotte ipotesi di
esclusione ulteriori o più rigorose rispetto a quelle
contenute nel bando”.
La lettera invito, quindi, ha funzione meramente
integratrice/specificatrice rispetto al bando, ma non
potrebbe utilmente contraddire e sconfessare le prescrizioni
contenute in quest’ultimo.
Ritiene poi
il Collegio che a fronte della chiarissima indicazione della
fonte sovraordinata della lex specialis non rivestano pregio
gli argomenti incentrati sulle letterali prescrizioni
contenute nella lettera di invito.
Si pone in luce in proposito che, per consolidato ed
inattaccabile orientamento giurisprudenziale, che
costituisce jus receptum, (ex aliis Cons. Stato Sez. IV,
28.11.2012, n. 6026 e ancora di recente Cons. Stato Sez. IV
n. 1243/2014) “nelle gare pubbliche, in caso di contrasto
tra bando di gara e lettera d'invito, prevalgono le
disposizioni del primo. Tale principio va inteso non solo
nel senso dell'impossibilità che la lettera possa derogare
alle previsioni del bando, che costituisce la lex specialis
della procedura selettiva, ma anche nel senso
dell'impossibilità -specie in un sistema dominato dalla
tassatività ed eccezionalità delle previsioni di esclusione- che attraverso la lettera d' invito possano essere
introdotte ipotesi di esclusione ulteriori o più rigorose
rispetto a quelle contenute nel bando”.
La lettera invito, quindi, ha funzione meramente
integratrice/specificatrice rispetto al bando, ma non
potrebbe utilmente contraddire e sconfessare le prescrizioni
contenute in quest’ultimo (è rimasta minoritaria,in
giurisprudenza, la tesi in passato talvolta sostenuta –ex multis si veda TAR Sardegna, 30.12.1996, n. 1908–
secondo la quale “la regolamentazione della gara di
aggiudicazione di appalto deve desumersi dall'insieme delle
disposizioni ricavabili dal bando e dalla lettera di invito
non sussistendo, tra le due fonti, un rapporto di gerarchia
che consenta di ritenere l'una prevalente rispetto
all'altra”.).
La tassativa e categorica indicazione contenuta nel bando
non era quindi “correggibile” in sede di lettera invito: se
questa era la volontà della Stazione appaltante (e non
trattasi quindi di un acuto ma inaccoglibile espediente
defensionale) la “traduzione” nella lex specialis ne ha
tradito la ratio, e costituendo il bando autovincolo
per l’amministrazione medesima, essa non avrebbe comunque
potuto disattenderlo ma, unicamente, valutare se ritirarlo
ed emanarne un altro, aderente, questa volta, ai propri
desiderata (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sempre se il bando ciò non neghi "si ammettono
varianti migliorative riguardanti le modalità esecutive
dell'opera o del servizio, purché non si traducano in una
diversa ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga
come del tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla
p.a. e, peraltro risulta essenziale che la proposta tecnica
sia migliorativa rispetto al progetto base, che l'offerente
dia contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento
proposto e le variazioni alle singole prescrizioni
progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca
l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese
alla prescrizione variata”.
Laddove però tale spazio non sia dal bando permesso, e sia
consentita soltanto una modifica minore, si rientra nel
novero delle variazioni migliorative rese possibili dal
possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non
alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste
dalla lex specialis onde non ledere la par condicio.
Ma, invece,
interrogandosi sul concetto di variante sul quale a più
riprese, in passato, la giurisprudenza amministrativa ha
avuto modo di soffermarsi, la giurisprudenza nazionale ha
elaborato alcuni criteri guida relativi alle varianti in
sede di offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.02.2003,
n. 923; sez. V, 09.02.2001, n. 578; sez. IV, 02.04.1997, n. 309) nell’ipotesi –diversa da quella oggetto della
odierna delibazione- in cui il bando non neghi tale
possibilità.
Si è detto pertanto che, sempre se il bando ciò non neghi
(Cons. Stato. n. 3481/2008) “si ammettono varianti
migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o
del servizio, purché non si traducano in una diversa
ideazione dell'oggetto del contratto, che si ponga come del
tutto alternativo rispetto a quello voluto dalla p.a. e,
peraltro risulta essenziale che la proposta tecnica sia
migliorativa rispetto al progetto base, che l'offerente dia
contezza delle ragioni che giustificano l'adattamento
proposto e le variazioni alle singole prescrizioni
progettuali, che si dia la prova che la variante garantisca
l'efficienza del progetto e le esigenze della p.a. sottese
alla prescrizione variata”.
Laddove però tale spazio non sia dal bando permesso, e sia
consentita soltanto una modifica minore, si rientra nel
novero delle variazioni migliorative rese possibili dal
possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non
alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste
dalla lex specialis onde non ledere la par condicio
(Consiglio di Stato, sezione IV, 11.02.1999, n. 149) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2014 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
osservarsi che nelle opere edilizie, la semplice
ristrutturazione si verifica quando gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne,
interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito
degli stessi, rimangano inalterate) le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché
vengano meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio
preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto
alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto,
senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in
relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte
in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai
fini del computo delle distanze rispetto agli edifici
contigui esistenti, come previsto dagli strumenti
urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento
urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni
sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni
anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le
dimensioni dell'edificio originario.
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al
disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal
ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1,
lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con
conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle
distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su
fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate
quanto meno di murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro
essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di
ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove
sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, non è
sufficiente, ai fini della qualificazione di un intervento
ricostruttivo come ristrutturazione, che un anteriore
fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua
perimetrazione, e che la ricostruzione di esso, oltre ad
essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e
di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente
prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause
naturali od opera dell'uomo.
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce
del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n.
457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti
precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per
quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato
finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità
precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia
strutturalmente che funzionalmente.
---------------
Non può essere condiviso l'assunto degli appellanti che, nel
caso di specie, con l'intervenuta ricostruzione
dell'immobile si possano conservare i precedenti "commoda",
perché la semplice constatazione dell'aumento di superficie
e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento
edilizio non riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle
distanze legali previsto per detto tipo di interventi.
Con il secondo
motivo di censura, strettamente connesso al precedente, gli
appellanti sostengono che, al caso di specie, possa
applicarsi il principio dei cosiddetti "commoda"
della prevenzione, secondo il quale, nei casi di demolizione
ed immediata ricostruzione, il proprietario conserva il
diritto di ricostruire con analoga ubicazione rispetto al
confine.
Orbene, deve osservarsi che nelle opere edilizie, la
semplice ristrutturazione si verifica quando gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne,
interessano un edificio nel quale sussistano (e, all'esito
degli stessi, rimangano inalterate) le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile l’ordinaria ricostruzione, poi, allorché
vengano meno, per evento naturale o per volontaria
demolizione, le citate componenti essenziali dell’edificio
preesistente e l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto
alle originarie dimensioni dell'edificio e, sopratutto,
senza aumenti di volumetria, né delle superfici occupate in
relazione alla originaria sagoma di ingombro.
Diversamente, in presenza di aumenti di volumetria, si verte
in ipotesi di nuova costruzione, con i relativi effetti, ai
fini del computo delle distanze rispetto agli edifici
contigui esistenti, come previsto dagli strumenti
urbanistici vigenti.
Resta ferma, peraltro, la possibilità che lo strumento
urbanistico estenda, con una norma espressa, le prescrizioni
sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni
anche alle ricostruzioni, ovvero, alle parti eccedenti le
dimensioni dell'edificio originario (cfr. Cass. n. 9637 del
2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Quanto evidenziato, non muta anche ove si abbia riguardo al
disposto della legge n. 457 del 1978, invocata dal
ricorrente, atteso che, in base all’articolo 31, comma 1,
lett. d), costituiscono ristrutturazioni edilizie, con
conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle
distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su
fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate
quanto meno di murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro
essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa. Ne consegue che, pur non esulando dal
concetto normativo di ristrutturazione edilizia la
demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele
ricostruzione, non è sufficiente, ai fini della
qualificazione di un intervento ricostruttivo come
ristrutturazione, che un anteriore fabbricato sia
fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, e
che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in
piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga
eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della
avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo
(cfr. Cass. n. 22688 del 2009).
Invero, in materia urbanistica, tra gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio esistente, anche alla luce
del disposto dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n.
457, possono rientrare le sostituzioni di manufatti
precedenti con costruzioni completamente nuove, purché, per
quanto rimaneggiato ed in parte ricostruito, come risultato
finale l’edificio conservi la struttura e la funzionalità
precedenti e non si tratti di un'opera nuova, sia
strutturalmente che funzionalmente.
Conseguentemente, non può essere condiviso l'assunto degli
appellanti che, nel caso di specie, con l'intervenuta
ricostruzione dell'immobile si possano conservare i
precedenti "commoda", perché la semplice
constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è
sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione
e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto
per detto tipo di interventi.
Sulla base di tali considerazioni, anche il secondo motivo
di appello risulta manifestamente infondato.
Giova evidenziare, infatti, come rilevato dal TAR, che anche
se sulla misura dell'ampliamento le parti non concordano,
dalla relazione tecnica depositata dagli stessi appellanti
il 09.06.2001, nel primo grado di giudizio, si evince che "il
fabbricato è stato alzato di cm. 78-80 meno i cm. 30 che
erano preesistenti, per cui il fabbricato è stato alzato di
cm. 48-50 dalla situazione prima dell'intervento",
mentre il Comune (pag. 4 del controricorso) sostiene che la
differenza di altezza sarebbe di 86 cm. e l'incremento del
volume totale sarebbe stato di mc. 97,53.
E' quindi incontroverso che un aumento di altezza e di
volume ci sia stato e l'ampliamento intervenuto esclude che,
nella fattispecie, si tratti di una ristrutturazione e,
in parte qua, l’edificio soggiace al rispetto delle
distanze legali.
L’accertata legittimità del provvedimento del Comune di
Gambettola di diniego di rilascio della concessione edilizia
in sanatoria ex art. 13 della legge n. 47/1985, in coerenza
con la normativa di riferimento e le prescrizioni delle
norme tecniche di attuazione del vigente piano regolatore
del Comune, comporta la non sussistenza dei presupposti per
prendere in esame, ai fini dell’eventuale accoglimento, la
richiesta di risarcimento del danno. avanzata dagli
appellanti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.04.2014 n. 1653 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea astratta l’intervento di ricostruzione, per essere
ascritto alla categoria della ristrutturazione ed essere
assoggettato solo a d.i.a., e non a permesso di costruire
quale nuova costruzione, deve seguire alla demolizione
secondo un criterio di contestualità, e deve concretarsi in
un immobile che abbia la medesima superficie ed il medesimo
volume che quello abbattuto.
---------------
Pare utile riportare testualmente un passo della sentenza
del Consiglio di Stato in un caso in cui è stata negata la
possibilità di ravvisare ristrutturazione in luogo di nuova
costruzione: “Manca, infatti, la possibilità di procedere,
con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione
degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che,
seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso
possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale, in relazione anche
alla sua destinazione (in casi analoghi la Sezione ha
preteso che l’immobile esista quanto meno in quelle
strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di
consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà
materiale”.
3. – Tali doglianze possono essere condivise.
E’ noto che, per consolidata giurisprudenza, in linea
astratta l’intervento di ricostruzione, per essere ascritto
alla categoria della ristrutturazione ed essere assoggettato
solo a d.i.a., e non a permesso di costruire quale nuova
costruzione, deve seguire alla demolizione secondo un
criterio di contestualità, e deve concretarsi in un immobile
che abbia la medesima superficie ed il medesimo volume che
quello abbattuto.
3.1 - Quanto al volume, ritiene il Collegio di dovere
necessariamente tenere conto di quanto emerso in sede di
consulenza tecnica d’ufficio assunta nel corso del giudizio
n. 50/2011, intentato dalla società E.I. s.r.l. per
l’annullamento del provvedimento che ha sancito la decadenza
della d.i.a. del 2004 in forza della quale la detta società
–dante causa dell’odierna ricorrente- ha ricostruito lo
stabile.
In quel giudizio, passato in decisione il 16.10.2013 come il
presente, il consulente del TAR ha accertato –e da tali
conclusioni qui non si rinviene motivo per discostarsi- che
la volumetria del fabbricato prima del suo abbattimento
d’ufficio era pari a 6.487,04 metri cubi, mentre dopo la
ricostruzione la volumetria è pari a 6.348,44 metri cubi,
con una diminuzione pari a 138,60 metri cubi.
3.2 – La medesima consulenza tecnica, sulla scorta della
documentazione presente agli atti del Comune, attesta la
sostanziale identità di superficie tra il fabbricato
demolito e quello ricostruito.
Va osservato, sotto il profilo strettamente urbanistico, che
l’intervento realizzato tramite d.i.a. presentata il
25.03.2004 è stato eseguito nella vigenza della variante di
salvaguardia approvata nel 1998, che ascriveva l’area in
parte alla zona A2 ed in parte alla zona C2, nelle quali
erano rispettivamente consentite la ristrutturazione
edilizia con identità di sagoma e volume e la
ristrutturazione edilizia c.d. pesante, ossia con variazioni
di sagoma.
3.3 - Nel caso in esame non sussistono la contiguità
temporale della ricostruzione rispetto alla demolizione e
l’identità di sagoma: circostanze, queste, che a prima vista
potrebbero indurre ad escludere la sussumibilità
dell’intervento in questione nel regime della d.i.a. di cui
all’art. 22 D.P.R. n. 380/2001 e della sua ascrizione alla
nozione di ristrutturazione; con la precisazione che il
requisito dell’identità di sagoma è stato eliminato dalla
nozione di ristrutturazione da demolizione ricostruzione
solo per effetto dell’art. 30 del decreto legge 21 giugno
2013 n. 69, e pertanto successivamente alla presentazione
della d.i.a. in questione, avvenuta nel marzo del 2004.
Ritiene tuttavia il Collegio che, nel caso in esame, sia
necessario tenere nella dovuta considerazione alcune
specifiche circostanze che caratterizzano la fattispecie in
esame, costituite dal fatto che la demolizione del
fabbricato avvenne in forza di un illegittimo (come statuito
da questo TAR) provvedimento di demolizione d’ufficio
assunto dal Comune di Napoli a seguito del sisma del
1980-81; dal fatto che il medesimo Comune assunse l’impegno,
mai onorato, di riedificare il fabbricato (assumendo la
relativa delega dai proprietari del tempo); e soprattutto,
dal fatto che, proprio per le particolari circostanze in cui
maturò la demolizione, sussiste proprio agli atti del Comune
di Napoli la su richiamata documentazione che testimonia con
esattezza e certezza della originaria consistenza
volumetrica, di superficie e di sagoma del fabbricato.
Occorre poi ribadire che, almeno per una parte dell’area in
cui sorge il fabbricato (zona C2), era consentita anche la
c.d. ristrutturazione pesante, ossia con sagoma diversa da
quella originaria.
3.4 - Ciò premesso, è necessario risalire alle ragioni per
cui la giurisprudenza ritiene necessari tali requisiti per
distinguere la ristrutturazione per demolizione e
ricostruzione dalla nuova costruzione.
Al riguardo pare utile riportare testualmente un passo della
sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 475 del
10.02.2004, in un caso in cui è stata negata la possibilità
di ravvisare ristrutturazione in luogo di nuova costruzione:
“Manca, infatti, la possibilità di procedere, con un
sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli
elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur
non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa
essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali,
come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione (in casi analoghi la Sezione ha preteso che
l’immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali
che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo
giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, V,
15.03.1990, n. 293 e 20.12.1985, n. 485)”.
L’individuazione delle pregresse consistenze di cui parla il
Giudice d’appello può invece essere effettuata con certezza
nel caso in esame, nel quale, come si ripete, sia la
demolizione che la mancanza di contestualità devono farsi
risalire a condotte dello stesso Comune, peraltro improntate
ad illegittimità.
In altri termini, sebbene la demolizione sia oramai lontana
nel tempo rispetto alla data della ricostruzione, non può
nella circostanza sorgere il dubbio che lo strumento della
d.i.a. per ristrutturazione sia stato indebitamente
utilizzato per introdurre una nuova costruzione sul
territorio in luogo di altra diversa ed avente, in ipotesi,
diverse consistenza e destinazione d’uso.
3.5 – Per quanto sin qui si è detto, possono essere accolti
anche i motivi quarto, quinto e sesto del ricorso
introduttivo, che si appellano, rispettivamente, alla
irrilevanza della non contestualità tra demolizione e
ricostruzione nel caso di specie, alla riscontrata identità
tra fabbricato precedente e fabbricato attuale e alla
vigenza della variante di salvaguardia sull’area all’epoca
della presentazione (25.03.2004) e della maturazione della
d.i.a. (25.04.2004), essendo intervenuta solo
successivamente a tali eventi (ossia l’11.06.2004)
l’approvazione della nuova variante generale al PRG di
Napoli.
Al riguardo, per esigenze di sintesi codificate dall’art. 3
c.p.a., possono essere integralmente richiamate le
considerazioni svolte nello scrutinare il terzo ed il nono
motivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 16.01.2014 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
11 della legge n. 10/1977 è sufficientemente chiaro nel
prevedere che la diretta realizzazione delle opere di
urbanizzazione da parte del titolare della concessione
edilizia è modalità alternativa al pagamento dei soli “oneri
di urbanizzazione” -quota parte dei complessivi oneri
concessori- ciò a motivo del collegamento dei primi con i
costi ingenerati in capo all’amministrazione dall’iniziativa
edificatoria.
Non può darsi rilievo esegetico, nel senso invocato
dall’appellante, alle norme in materia di edilizia
convenzionata di cui all’art. 7 della medesima fonte -nella
parte in cui consentono, al fine di agevolare l’accesso alla
casa, l’esenzione dal contributo collegato al costo di
costruzione, a fronte dell’impegno a praticare, ai futuri
acquirenti o locatari delle costruende unità abitative,
prezzi e canoni convenzionati- poiché esse individuano un
caso di esenzione dall’obbligazione tributaria (tale dovendo
considerarsi quella parametrata al costo di costruzione)
secondo un criterio di specialità che le rende evidentemente
insuscettibili di interpretazione analogica.
L’appello non è fondato.
L’art. 11 della legge n. 10/1977 è sufficientemente chiaro
nel prevedere che la diretta realizzazione delle opere di
urbanizzazione da parte del titolare della concessione
edilizia è modalità alternativa al pagamento dei soli “oneri
di urbanizzazione” -quota parte dei complessivi oneri
concessori- ciò a motivo del collegamento dei primi con i
costi ingenerati in capo all’amministrazione dall’iniziativa
edificatoria.
Non può darsi rilievo esegetico, nel senso invocato
dall’appellante, alle norme in materia di edilizia
convenzionata di cui all’art. 7 della medesima fonte -nella
parte in cui consentono, al fine di agevolare l’accesso alla
casa, l’esenzione dal contributo collegato al costo di
costruzione, a fronte dell’impegno a praticare, ai futuri
acquirenti o locatari delle costruende unità abitative,
prezzi e canoni convenzionati- poiché esse individuano un
caso di esenzione dall’obbligazione tributaria (tale dovendo
considerarsi quella parametrata al costo di costruzione)
secondo un criterio di specialità che le rende evidentemente
insuscettibili di interpretazione analogica.
La tesi è del resto confermata, con riferimento alla
sequenza procedimentale oggetto di causa, dall’espresso
contenuto della deliberazione consiliare 122/1995, che è
estremamente chiara nell’escludere dal regime di “scomputabilità”
la quota di contributo rapportata al costo di costruzione,
pretendendone la corresponsione.
In verità, l’appellante, in ispecie nelle memorie
conclusive, insiste più che sulla non esentabilità del
tributo, sulla residua ed impregiudicata configurabilità di
un accordo a mezzo del quale, a seguito del sorgere del
tributo, le parti pattuiscano una corresponsione in opere
piuttosto che in danaro, secondo lo schema della datio in
solutum.
Tuttavia, anche a voler considerare ammissibile un accordo
di tal fatta, di esso non v’è traccia nell’atto di obbligo e
negli altri atti esaminati, né può ipotizzarsene
un’implicita sussistenza con riferimento all’asserita
ultroneità delle opere e delle cessioni rispetto a quelle
sufficienti per compensare i soli oneri di urbanizzazione:
tanto, potrebbe essere piuttosto il frutto di una scelta
finalizzata a supportare la convenienza economica della
proposta effettuata nell’ambito della procedura concorsuale,
o comunque di un errore nell’individuazione e nella stima
dello opere e cessioni assunte a scomputo.
Manca cioè un’inequivoca pattuizione avente ad oggetto la
relazione sinallagmatica tra il sacrificio economico
accettato dal titolare del permesso di costruire e
l’obbligazione tributaria connessa alla costruzione
assentita.
Nemmeno può essere condiviso il motivo d’appello avente ad
oggetto i profili di incompetenza dell’organismo di
vigilanza sull’attuazione dell’accordo.
Come correttamente osservato dal primo giudice, il parere ha
avuto influenza nella decisione finale in ragione della
bontà dei contenuti e della ricostruzione giuridica che ha
fornito, poi fatti propri dal provvedimento, dotato di
autonoma efficacia lesiva; non appare pertanto corretto
discorrere di un profilo viziante, trattandosi piuttosto di
un mero contributo procedimentale alla formazione della
volontà del competente organo preposto alla conclusione del
procedimento; né a ben vedere, può ragionevolmente
escludersi che le questioni trattate rientrino
nell’oggettivamente ampio tema dell’“attuazione
dell’accordo di programma”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.06.2012 n. 3413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
inizio
home-page |
|